GIORGIO MOIO
DANTE E LA POLITICA
Estratto da
Citazione bibliografica:
Nuovi Itinerari Danteschi, a cura di Angelo Manitta, Il Convivio Editore,
Castiglione di Sicilia (CT), maggio 2021, pp. XXII-506
ISBN 978-88-3274-461-3
Il Convivio Editore
Via Pietramarina-Verzella, 66
95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia
www.ilconvivioeditore.com
Proprietà letteraria riservata
Prima edizione: Maggio 2021
Direzione di Giuseppe Manitta
NOTA
Il presente volume nasce come numero speciale e funge da supplemento alla rivista
“Letteratura e Pensiero” (anno III, n. 2, Aprile-Giugno 2021, n. 8) fondata da Angelo
Manitta e diretta da Giuseppe Manitta, che ha il seguente Comitato Scientifico:
Giuseppe A. Camerino (Univ. del Salento - Lecce), Vittorio Capuzza (Università Tor
Vergata - Roma), Gandolfo Cascio (Università di Utrecht), Carmine Chiodo (Univ.
Tor Vergata - Roma), Vincenzo Guarracino (Poeta, Critico letterario), Francesco
D’Episcopo (Università Federico II – Napoli), Giuseppe Rando (Univ. Messina),
Fabio Russo (Univ. di Trieste), Claudio Tugnoli (Univ. di Trento).
INDICE DEL VOLUME
INTRODUZIONE di Angelo Manitta
IX
SUL FILO DEL PENSIERO
ERMINIA ARDISSINO, Impero, giustizia, amore. Una lettura
di Paradiso VII (con una proposta sul “doppio lume” del sesto verso)
3
CONCETTO MARTELLO, Analogia dell’essere e trascendenza
divina nel Paradiso dantesco
23
FABIO RUSSO, Tenebra e Luce, e quanta umanità nel cammino
del protagonista e artefice Dante verso Dio
47
GIUSEPPE RANDO, In margine al «Padre nostro» di Dante
(Purg. XI, 1-24)
61
BIANCA GARAVELLI, L’antico sangue e l’opere leggiadre.
Politica, arte e fama nel canto XI del Purgatorio
67
FRANCESCO D’EPISCOPO, Dante poeta-teologo
77
GIORGIO MOIO, Dante e la politica
81
CARLO DI LIETO, Esegesi psicoanalitica del canto V dell’Inferno
89
ASTERIA CASADIO, ‘Formularità’ nella rima dantesca
105
PERSONE E PERSONAGGI
JOSÉ BLANCO JIMÉNEZ, Flegïàs e Filippo Argenti: uno scolio
narrativo
117
ELISABETTA BENUCCI, Il culto di Dante nelle scrittrici italiane
dell’Ottocento: dal Risorgimento alle celebrazioni del 1865
169
ALICE BENA, «La gloriosa donna de la mente»: Dante Gabriel
Rossetti lettore della Vita Nuova
199
VINCENZO GUARRACINO, All’ombra di Dante. Leopardi
e la cantica Appressamento della morte
221
NOVELLA PRIMO, “Appressamenti” danteschi nella scrittura
di Giacomo Leopardi
231
VITTORIO CAPUZZA, La «femmina balba» (Purg. XIX, 6-33):
ispirazioni e aggiunta dantesca. Intorno a un’inedita lettera
di Francesco Torraca
241
GANDOLFO CASCIO, Dante con gli amici, nello studiolo,
per mare e su per la montagna
251
DANIELE SANTORO, Inferno X 72. Una postilla testuale sul
congedo di Cavalcante
277
FRANCESCO MARTILLOTTO, Dante nel Tasso epistolografo
281
ROMANO MANESCALCHI, L’interpretazione «sub lectoris
officio» in Dante ed in Auerbach
291
LORETTA MARCON, Il gondoliere dantofilo Antonio Maschio:
la genesi di una passione raccontata da Maria Alinda Bonacci
Brunamonti nel suo diario di viaggio
317
LUOGHI E AMBIENTI
CHIODO CARMINE, Dante e le Marche nella critica novecentesca
331
OTILIA DOROTEEA BORCIA, La fortuna di Dante in Romania
(dal 1848 al 2020).
367
BRUNA PANDOLFO, Aggiornamenti e riflessioni sull’iconografia
dantesca in Sicilia
377
ROBERTO FRANCO, Per tremoto o sostegno manco. I versi
“geologici” della Commedia di Dante Alighieri
405
ROSA ELISA GIANGOIA, I fiori nelle opere di Dante Alighieri
421
ANGELO MANITTA, L’alloro in Dante: aspetti botanici,
mitologici e simbolici
435
INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DEI PERSONAGGI
475
GIORGIO MOIO
DANTE E LA POLITICA
Uno dei più esperti studiosi di Dante Alighieri, Ugo Dotti, mio professore all’Università, durante una sua lezione tenne a dire che il Dante poeta è
conosciuto anche dalle pietre mentre del Dante politico poco si sa. E vorrei
soffermarmi proprio sul secondo aspetto del Sommo Poeta che assunse un
ruolo importante nella diaspora politica della sua Firenze, dapprima tra i
guelfi e i ghibellini, poi tra le due fazioni dei guelfi: i Bianchi e i Neri.
I nemici politici Dante li colloca tutti all’Inferno, assieme ai malvagi e ai
rei, nei vari gironi, a seconda del reato. La disposizione circolare dell’Inferno,
d’altronde, è una metafora proprio della politica fiorentina che girava attorno a se stessa senza trovare una risoluzione verso l’esterno, verso un avanzamento d’idee e di programmazione, implodendo al suo interno.
Come sappiamo, Dante patteggiava per i guelfi “bianchi”, contrariamente all’altro famoso poeta fiorentino Guido Cavalcanti, che faceva parte
dei “neri”. Entrambi appartenevano alla stessa famiglia che si divise a seguito di una lite, come riporta lo storico e politico del tempo Dino Compagni
nella sua Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (Libro I, 25): «Queste
due parti, Neri e Bianchi, nacquono d’una famiglia che si chiamono Cancellieri, che si divise: per che alcuni più congiunti si chiamorono Bianchi, gli
altri Neri; e così fu divisa tutta la città».
Testimonianze di questa attiva partecipazione alla vita politica del tempo di Dante, oltre che nella Divina Commedia, si riscontra nel Convivio e
nelle Epistole; partecipazione che pagò a caro prezzo con l’esilio.
È soprattutto con il De Monàrchia (nell’accezione latina = Della Monarchia. D’ora in avanti Monarchia) che Dante ci rivela quella che è stata la
sua posizione politica, in special modo su uno dei temi più dibattuti della
sua epoca: il rapporto tra il potere temporale (rappresentato dall’imperatore)
e l’autorità religiosa e spirituale (rappresentata dal papa). E la sua è una
chiara posizione: si oppone alle pretese temporali del papa Bonifacio VIII in
difesa dell’autonomia della Repubblica di Firenze.
Scritto in latino tra il 1312-13 (data della composizione tra le più accreditate, cioè al tempo della discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia), il
Monarchia è un trattato suddiviso in tre volumi1. Ma qual era lo scenario
1
Libro I: Dissertazione sulla questione se l’ufficio dell’imperatore sia necessario al bene – 15 capp.; Libro II: Dissertazione sulla questione se l’impero romano si sia imposto di
81
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socio-politico e religioso in cui si palesò il Monarchia? In piena guerra per
il potere temporale, a Firenze ‒ come sappiamo ‒ imperversava la lotta intestina tra le fazioni dei ghibellini e dei guelfi che ispirarono anche i componimenti di lode di Dino Compagni (Aldebrandino, Ildebrandino, detto Dino)2, come detto più sopra.
Il Monarchia è in realtà un vero trattato politico che racchiude, inoltre,
accenni dei suoi intendimenti poetici e sociali che troviamo poi nella Divina
Commedia; vi troviamo anche il fondamentale concetto religioso, mettendo
a tacere quei dubbi sorti in altri luoghi sulla sua ortodossia, in quanto non
disdegnava di criticare la presuntuosità e l’ignoranza dei clericali.
Non c’è dubbio che chiunque si accinga a studiare la Divina Commedia,
non può esimersi dallo studiare i tre volumi che comprendono il Monarchia,
in quanto è la più congiunta con l’opera poetica maxime di Dante. Fu scritto
intorno al 1310, quando fervevano le ragioni dei sodali guelfi Bianchi del Nostro e pubblicato per la prima volta nel 1559. I punti salienti possiamo così
determinarli: una devota sottomissione alle dottrine e ai decreti della Santa
Chiesa Romana; il principio che con tali dottrine avvenisse l’unione di tutte le
nazioni del mondo, un impero universale, con gli stessi diritti e leggi, con
l’imperatore nelle vesti di supremo capo degli eserciti e del Senato amministrativo dei diritti; il potere della potestà imperiale su quella della Chiesa difesa dai ghibellini, che doveva limitarsi soltanto ad un potere spirituale.
Dunque è meglio che la umana generazione si governi per uno, che
per molti: e perciò per Monarca, il quale è unico principe: e così è meglio e più accetto a Dio; ossia Iddio sempre voglia quello che è meglio.
E come di due soltanto, uno solo fra di loro è meglio ed ottimo; è conseguente che il governo d’uno solo, fra l’uno ed i più, non tanto sia a
Dio più accettabile, ma accettabilissimo. Però la umana generazione otdiritto sul mondo o meno – 11 capp.; Libro III: Dissertazione sulla questione se l’autorità
imperiale derivi dal Pontefice o direttamente da Dio – 15 capp.
2
Politico, scrittore e storico, nacque a Firenze verso il 1246-47. Apparteneva ad una
famiglia guelfa che appoggiava i Bianchi e la famiglia dei Cerchi, il cosiddetto “popolo
grasso” fiorentino (la ricca borghesia), mantenendo una posizione equilibrata, simile a quella del suo amico Dante Alighieri. Anch’egli entusiasmato per la discesa in Italia di Enrico
VII, nel quale aveva riposto le speranze di una supremazia dei Bianchi nei confronti dei Neri della famiglia Donati e una soluzione definitiva dei problemi sociali e religiosi di Firenze,
speranze raccolte con il trattato Cronaca delle cose occorrenti ne’ tempi suoi [op. cit.] (con
i “suoi” intendeva i tempi di Dante); un’opera di parte ‒ come sostiene il critico Giorgio
Petrocchi ‒, «rivela la continua alternanza tra il resoconto e la riflessione moralistica, tra il
fatto oggettivamente narrato e l’addolorato sentenziare in forme di monologo» (in Cultura e
poesia del Trecento, Garzanti, 1965).
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DANTE E LA POLITICA
timamente vivrà, quando sarà da uno governata. E così necessaria la
Monarchia al bene essere del mondo3.
E ancora:
Si dimanda se l’autorità del monarca romano, il quale è per diritto
monarca del mondo, dipenda immediatamente da Dio, o dal suo vicario o ministro, per il quale intendo di parlare d’un successore di Pietro,
ch’è veramente il portatore delle chiavi del regno dei cieli4.
Nel 1329 l’opera dantesca fu messa al rogo dal cardinale Bertrando del
Poggetto con l’accusa di eresia. Nel 1559 fu dichiarata dal Sant’Uffizio addirittura come libro proibito. Dunque, per secoli il Monarchia è stato “trascurato” dalla critica, o per meglio dire, censurato. Soltanto nel XVIII secolo s’incomincia a parlarne in modo corposo, attraverso la pubblicazione di
alcuni volumi. Il primo volume pro-Monarchia vide la luce nel 1746 presso
la tipografia Bonomi, De potestate summi Pontifici set de reprobatione Monarchiae compositae a Dante Alligherio fiorentino.
Se si paragoni la teoria politica dell’Allighieri con quella di Platone nella sua Repubblica, si scorgerà nella prima il progresso che le
scienze sociali appariscono aver fatto nella mente del suo costruttore.
Se il progetto Platonico apparisce ineseguibile fra gli uomini, come la
natura gli ha fatti: se per eseguirlo converrebbe impastar di nuovo i
corpi politici, e rifare la umana sociabilità; il progetto dell’Allighieri,
riportandosi ai tempi ne’ quali fu concepito, apparirà compatibile colla
natura dell’uomo, e con quella della società.
Il Monarca dell’Allighieri non è il principe nuovo del Machiavelli: non è il Leviathan dell’Hobbes; un despota il quale fa pesare uno
scettro di ferro sopra un mucchio di schiavi: non è un uomo inebriato
del suo potere e della sua forza, il quale ne abbia fatto il suo solo criterio, e dica, come un fastoso monarca già disse: ‒ lo stato son io ‒. Il
Monarca dell’Allighieri non è niente più che un magistrato supremo in
una repubblica di più stati indipendenti tra loro. In fatti egli chiamò
repubblica la forma che egli proponeva alla Monarchia5.
3
DANTE ALIGHIERI, De Monàrchia, Libro I.
ID., Libro III.
5
GIOVANNI CARMIGNANI, Su la Monarchia di Dante Allighieri. Considerazioni filosofico-critiche, in Dante Alighieri, De Monàrchia, trad. dal latino di Marsilio Ficino, a cura di
Alessandro Torri, Liburni, 1344, p. XXXI.
4
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Dunque, l’idea politica di Dante era alquanto rivoluzionaria e per il ferreo indottrinamento religioso dei potenti, passibile di eresia ‒ come abbiamo
detto più sopra ‒: rivoluzionaria in quanto Dante aveva la piena consapevolezza, non soltanto il desiderio, che fosse giunto il tempo della necessità di
dividere il potere temporale del clero da quello spirituale, la cosiddetta “teoria dei due soli” appoggiata dai ghibellini. E questo lo riscontriamo anche
nella Divina Commedia, dove predomina la rettitudine morale, il sogno
eroico, l’erudizione della politica antica fortemente immessa nelle condizioni sociali del suo tempo. E forse è per questo che affida a Virgilio la guida
per il suo “allegorico” viaggio poetico, in quanto Virgilio è per antonomasia
il cantore della politica antica romana.
Sul piano prettamente politico, egli riconosceva un impero come costituzione universale, affidando le sue speranze alla spedizione del 1311 di Arrigo (e/o Enrico) VII di Lussemburgo, l’imperatore del Sacro Romano Impero eletto tre anni prima, al quale indirizzò l’Epistola VII, che su invito del
papa Clemente V (che Dante nella Divina Commedia chiama Guasco, collocandolo nella III Bolgia dell’VIII cerchio dell’Inferno – Malebolge –, descritta nel Canto XIX, in cui sono puniti soprattutto i papi simoniaci, mercanti di cose sacre) doveva porre fine alla diatriba tra i guelfi e i ghibellini e
ristabilire “il buon governo”, l’autorità imperiale sui comuni ribelli del nord.
Ma il tentativo risultò fallimentare, sia per la cupidigia del papa che istigò i
guelfi affinché si opponessero al disegno di pace dell’imperatore, sia per la
sua scarsa forza:
[…]
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
[…]
Insomma, Dante sperava in una monarchia universale e in una chiesa
spirituale. Forse anche per questo la Commedia è costellata da dure reprimenda al potere temporale, fazioso e pieno d’odio e violenza al suo interno.
Dunque la politica non è secondaria nella Commedia, sottolineata in entrambe le tre cantiche (sempre al IV Canto), come principi guida e struttura84
DANTE E LA POLITICA
li. Nell’Inferno (III Cerchio), dove scontano le loro pene i “golosi”, Dante
incontra Ciacco, un personaggio letterario di cui non si conosce la storiografia (anche del nome non è chiara la provenienza: Francesco da Buti lo presenta come nome dispregiativo: «Ciacco dicono alquanti che è nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua»), citato anche da
Boccaccio, protagonista della novella ottava della nona giornata del Decameron, che lo descrive così:
Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, per ciò che poco avea
da spendere ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della
gola, era morditore e le sue usanze erano sempre co’ gentili uomini e
ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e dilicatamente
mangiavano e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare, v’andava,
e similmente, se invitato non era, esso medesimo s’invitava, ed era per
questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini. Senza che, fuor di
questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque uomo ricevuto6.
A Ciacco Dante pone tre domande in versi («ma dimmi, se tu sai, a che
verranno / li cittadin de la città partita; / s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione / per che l’ha tanta discordia assalita», VI, 59-63) sulla situazione politica di Firenze, che possiamo parafrasare in questo modo: cosa faranno i
cittadini di Firenze (la città partita)?; vi è qualche giusto tra loro?; quali sono le motivazioni di tanto odio e discordia?:
E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi” (vv. 64-75).
6
Esposizioni sopra la Commedia, VI litt. 25.
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La profezia di Ciacco si riferisce alla lotta intestina che scoppierà tra i
guelfi Bianchi e Neri (… “Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la
parte selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione…). Infatti, nel maggio
1300, iniziò una lotta armata tra le due fazioni, a seguito di una zuffa che si
consumò in piazza della Trinità tra Ricoverino de’ Cerchi (fazione dei Bianchi) e uno appartenente a Corso Donati (fazione dei Neri), durante la quale il
Cerchi ebbe il naso tagliato di netto. Ciò che avvenne dopo lo lasciamo ai
libri di storia.
Tutta la scrittura dantesca poggia su basi politiche, in contrasto con la
concezione ierocratica. D’altronde l’invenzione dello “stil novo”, che influenzerà la poesia dantesca (alla pari della letteratura latina e del linguaggio
parlato e popolaresco), sviluppatosi a Firenze tra il 1280 e il 1310, su iniziativa del poeta bolognese Guido Guinizzelli, in contrapposizione alla scuola
guittoniana (che aveva un forte legame con la letteratura provenzale e francese), possiamo considerarla anche un fatto politico senza precedenti: dal
trobar clus si arriva ad uno sperimentalismo che modificherà le forme metriche canoniche.
Linguaggio ineffabile (cfr. Kristina Landa) e intraducibile.
Qui occorre subito avvertire che Dante non vuole affatto essere
rispettato nelle sue oscurità, anzi sembra invocare a esigere ostinazione di ermeneuti, passione di esegeti, maniacalità di risolutori di crittografie. È Dante, in prima persona, che si affaccia qua e là, per lo più
inatteso, a raccomandare, a coloro almeno che abbiano “intelletti sani”, di penetrare al di là delle apparenze, di scavare oltre la lettera, mirando alla dottrina sepolta “sotto ʼl velame de li versi strani”. È Dante
a pretendere che il lettore aguzzi i suoi occhi al “vero”, trapassando il
“velo” che lo occulta calcolatamente. E se ogni testo, in qualche misura, si fabbrica, un po’ alla volta, il proprio lettore, nel caso di Dante
siamo dinanzi a un poeta che non perde occasione per sorvegliarsi il
proprio utente, e per disciplinarlo, e per indirizzarlo, talvolta implicitamente, ma assai spesso in maniera aperta e diretta, con una sua lunga
catena di ammonimenti e avvertimenti. E in questo pare nettamente
innovativo, perché i classici e maestri suoi, a incominciare dal suo
Virgilio, non erano affatto inclini a così autoritarie confidenze con i
loro fruitori7.
Ora la lingua italiana e/o lingua volgare, non era più patrimonio dei dotti, degli aristocratici e dei religiosi, ma patrimonio anche del popolo, spe7
EDOARDO SANGUINETI, Presentazione, in Dante Alighieri, a cura di Sandro Onofri,
Roma, Edizioni l’Unità, 1993, pp. 6-7.
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DANTE E LA POLITICA
cialmente quello non avvezzo al latino, nonostante circa cento anni dopo,
Pietro Bembo intravide nella prosa boccacciana il modello linguistico da
adottare, teorizzato nelle Prose nelle quali si ragione della volgar lingua
(1525), arrivando così alla «codificazione dell’italiano scritto», in contrapposizione al pluristilismo e al plurilinguismo dantesco. Il Bembo, che «esclude
Dante, la cui lingua appare troppo piena di elementi “umili”, dialettali e di
origine composita» (GIULIO FERRONI, Dal Classicismo a Guicciardini
(1494-1559), in Storia della Letteratura Italiana, vol. 6, Milano, Mondadori, 2006, pp. 5-6), non tiene presente del fatto che ormai la lingua italiana è
uno scontro politico tra la nobiltà e il popolo ormai capace di acculturarsi,
nonostante fu molto attento a basarla sul modello ciceroniano e liviano; secondo il linguista Claudio Marazzini, al Bembo, che individuò il “gentile
stato” anche nella poesia di Petrarca, «qualche problema poteva venire dalle
parti del Decameron in cui emergeva più vivace il parlato» (La lingua italiana: profilo storico, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 265), ma anche dalla
diaspora con la “lingua cortese” proposta da Baldassarre Castiglione.
Ognuno ha i suoi grattacapi. Ma torniamo a Dante.
In maniera più esatta si potrà affermare che nella personalità dell’Alighieri confluisce, e per così dire si esemplifica, con una consapevolezza quale in nessuno altro si ritrova altrettanto chiara vigorosa e
drammatica, la crisi degli istituti e delle forme della civiltà medievale;
mentre la sua opera rappresenta l’estremo e supremo sforzo per superare quella crisi [della scelta della lingua] e restaurare l’equilibrio ormai compromesso8.
Dunque Dante con i suoi personaggi stabilisce una doppia relazione
contrapposta: la condanna morale non impedisce l’affetto e la stima per il
peccatore e la miseria del peccato costituisce l’altra faccia della nobiltà
dell’animo. A Dante stanno a cuore le vicende di uomini illustri della generazione precedente alla sua, «ch’a ben far puose li ’ngegni» (Inferno, Canto
VI, v. 81), forse perché non ne intravede tra la sua generazione: Farinata degli Uberti, il già citato Arrigo, Mosca dei Lamberti, Tegghiaio Aldobrandi,
Jacopo Risticucci:
«Ancor vo’ che mi ’nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
8
NATALINO SAPEGNO, Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, p. 35, ivi.
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e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere». (ivi, vv. 77-87).
Il Dante politico, che non è possibile scindere dal Dante poeta, ha a
cuore sia la pace tra i suoi concittadini sia l’autonomia del comune, minacciati dal papa Bonifacio VIII, appoggiato dai guelfi Neri, che tramava per
imporre a Firenze il dominio della Chiesa. Al centro della politica dantesca
c’è l’accusa alla chiesa cattolica ormai amorale e corrotta dalla politica, che
è poi la politica tipicamente medievale, all’interno della quale vivono due
anime contrapposte: il potere politico terreno e quello religioso. Anche su
questa profezia si basa la Divina Commedia, profezia che non vedrà mai realizzata, neanche dopo l’intervento del nuovo imperatore del Lussemburgo,
Enrico VIII. Rifiutando un’amnistia, con la quale avrebbe dovuto ammettere
le proprie colpe e subire l’onta di un’umiliazione pubblica, l’Alighieri preferì
allontanarsi dalla sua amata Firenze per vivere gli ultimi anni di vita a Ravenna dove morì il 14 settembre 1321.
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