La storia. Temi
23
Il nostro Gramsci
Antonio Gramsci a colloquio
con i protagonisti della storia d’Italia
a cura di
Angelo d’Orsi
viella
Copyright © 2011 - Viella s.r.l.
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: dicembre 2011
ISBN 978-88-8334-690-3
Il presente volume è stato realizzato con il contributo
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Regione Piemonte
Coordinamento redazionale di Francesca Chiarotto
viella
libreria editrice
via delle Alpi, 32
I-00198 ROMA
tel. 06 84 17 758
fax 06 85 35 39 60
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Indice
Premessa
IX
Abbreviazioni
XI
AntOniO GrAmsci: l’italiano,
di Angelo d’Orsi
DAnte AliGhieri: il «genio nazionale»,
di Pietro Daniel Omodeo
FrAncescO PetrArcA: l’intellettuale cosmopolita,
di Laura Mitarotondo
GirOlAmO sAvOnArOlA: il «profeta disarmato»,
di Laura Mitarotondo
niccOlò mAchiAvelli: la «grande politica»,
di Michele Filippini
FrAncescO GuicciArDini: la cura del «particulare»,
di Renato Caputo
rObertO bellArminO: il grande inquisitore,
di Pietro Daniel Omodeo
GiAmbAttistA vicO: la «ilologia vivente»,
di Alessandro Carlucci
vincenzO cuOcO: gli insegnamenti della «rivoluzione passiva»,
di Rosalinda Renda
uGO FOscOlO: icona della retorica nazionale,
di Eleonora Forenza
AlessAnDrO mAnzOni: paternalismo cattolico e «bonarietà ironica»,
di Jole Silvia Imbornone
XIII
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VI
Il nostro Gramsci
AntOniO bresciAni: il gesuita reazionario,
di Jole Silvia Imbornone
vincenzO GiOberti: il clericale «giacobino»,
di Danilo Ruggieri
cArlO cAttAneO: il federalista democratico,
di Domenico Mezzina
GiusePPe mAzzini: l’ideologo irrealista,
di Rosalinda Renda
GiusePPe GAribAlDi: un rivoluzionario al servizio dei moderati,
di Gianfranco Ragona
cAmillO cAvOur: il «grande statista»,
di Salvatore Prinzi
GiusePPe verDi: il «nazionale-popolare» in musica,
di Alessandro Errico
FrAncescO De sAnctis: letterato e «uomo di stato»,
di Vito Santoro
FrAncescO crisPi: un giacobino «deteriore»,
di Marco Albeltaro
cArlO PisAcAne: il capo militare rivoluzionario,
di Gesualdo Mafia
vittOriO emAnuele ii: l’idea del risorgimento,
di Antonella Agostino
GiOsuè cArDucci: tradizione classica e germi della reazione,
di Antonella Agostino
cesAre lOmbrOsO: salvare l’uomo, non la sua «scienza»,
di Duccio Chiapello
GiOvAnni verGA: un freddo sguardo sul popolo,
di Domenico Mezzina
GiOvAnni GiOlitti: un «Machiavelli in sessantaquattresimo»,
di Giovanna Savant
AntOniO lAbriOlA: scienziato del materialismo storico,
di Francesca Chiarotto
GiustinO FOrtunAtO: meridionalista conservatore, ma illuminato,
di Giacomo Tarascio
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Indice
vilFreDO PAretO: il più leale degli avversari,
di Luciana Aliaga
luiGi cADOrnA: da caporetto al caporettismo,
di Leonardo Pompeo D’Alessandro
AlFreDO OriAni: l’intellettuale di provincia,
di Domenico Mezzina
AntOniO sAlAnDrA: un epigono della borghesia liberale,
di Danilo Ruggieri
GiOvAnni PAscOli: casto socialista e «colonialista di programma»,
di Jole Silvia Imbornone
Achille lOriA: pietà per la sua scienza,
di Gianfranco Ragona
FiliPPO turAti: il lorianismo in politica,
di Alexander Höbel
GAetAnO mOscA: un liberale dilettante,
di Francesca Chiarotto
GAbriele D’AnnunziO: un fenomeno sociale,
di Antonella Agostino
AlFreDO PAnzini: la faciloneria di un linguista,
di Alessandro Carlucci
luiGi PirAnDellO: un «ardito del teatro»,
di Jole Silvia Imbornone
beneDettO crOce: la sida per l’egemonia,
di Chiara Meta
FrAncescO sAveriO nitti: il fallimento della classe politica liberale,
di Francesco Altamura
GAetAnO sAlvemini: i limiti dell’antigiolittismo,
di Antonia Lovecchio
luiGi einAuDi: dell’utopia liberale,
di Giovanna Savant
emmA GrAmAticA: l’attrice-poetessa fuori del mercato,
di Yuri Brunello
FiliPPO tOmmAsO mArinetti: un geniale pagliaccio,
di Francesca Chiarotto
VII
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VIII
Il nostro Gramsci
GiAcintO menOtti serrAti: l’onesto massimalista,
di Alexander Höbel
GiOvAnni Gentile: «dignità dello spirito» e «gladiatorismo gaglioffo»,
di Manuela Ausilio
GiOvAnni PAPini: «fabbricatore di luoghi comuni rovesciati»,
di Vito Santoro
GiusePPe PrezzOlini: l’intellettuale che non prende parte,
di Alessandro Maurini
benitO mussOlini: il capopopolo,
di Leonardo Pompeo D’Alessandro
mAriO missirOli: il brillante «misirizzi»,
di Vito Santoro
curziO mAlAPArte: il camaleonte snob,
di Vito Santoro
PierO GObetti: liberale, ma rivoluzionario,
di Ludovico De Lutiis
Dizionario biograico
Indice dei nomi
Notizie sugli autori
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UGO FOSCOLO:
ICONA DELLA RETORICA NAzIONALE
di Eleonora Forenza
Un punto del programma non pienamente sviluppato, un potenziale
solo parzialmente tradotto in atto, un inexpletum quiddam. Si potrebbe
sintetizzare così la storia dell’«oggetto» e della «funzione Foscolo» nella
rilessione gramsciana. Considerando infatti, da un lato, la peculiarità delle forme dell’autocoscienza intellettuale foscoliana, la sua consapevole e
«moderna» impostazione soggettiva, inanche volontaristica, del nesso fra
costruzione dell’autobiograia e dimensione politica, e, si potrebbe dire,
del rapporto fra letteratura e vita nazionale; e, dall’altro, la traduzione in
termini di mito fondativo che dell’opera e della igura foscoliane ha operato la cultura risorgimentale, emerge la sensazione che l’oggetto e la funzione Foscolo, se pienamente connessi alla griglia concettuale gramsciana,
in particolare dei Quaderni, avrebbero forse potuto condurre l’intellettuale
sardo a rilessioni più articolate, se non, almeno in parte, diverse.
La trattazione del tema «Ugo Foscolo nella formazione della retorica nazionale italiana» è annunciata nel programma del 1931-32, quando,
all’interno delle note sparse e appunti per una storia degli intellettuali
italiani, Gramsci espone un progetto di ricerca per punti e temi da svolgere in connessione con la questione «sviluppo degli intellettuali italiani
ino al 1870» (Q 8, p. 935). Gramsci colloca all’interno di una «ricerca
“molecolare”» sulla «formazione e diffusione della nuova borghesia in italia», che «culmina nel Risorgimento», i riferimenti all’opera foscoliana,
traducendone il signiicato essenzialmente nei termini della costruzione di
una retorica dell’identità nazionale o, meglio, di una costruzione retorica
dell’identità nazionale: «Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare
i tipi italiani. Il Foscolo è l’esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del
passato (cfr. i sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua concezione è essen-
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Eleonora Forenza
zialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa
retorica avesse un’eficienza pratica attuale e quindi fosse «realistica»).
Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, più strettamente borghesi (tecnicamente borghesi)» (Q 8, pp. 937-38).
È una rilessione già presente all’altezza del Quaderno 5 (1930-1932),
in una nota intitolata ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana:
I sepolcri devono essere considerati come la maggiore «fonte» della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle
glorie nazionali. La «nazione» non è il popolo, o il passato che continua nel
«popolo», ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato:
strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’800 quando si trattava
di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventù, ma che è appunto «deformazione» perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore,
retorico (l’ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della così
detta poesia sepolcrale: è un’ispirazione «politica», come egli stesso scrive
nella lettera al Guillon) (Q 5, p. 569).
Anche Gramsci, dunque, come avviene nella tradizione risorgimentale,
attribuisce un valore fondativo, di «fonte», all’opera foscoliana, in particolare al carme Dei sepolcri che rimarrà negli scritti gramsciani, signiicativamente, riferimento riassuntivo, quasi metonimico, a Foscolo. Fondativo
di una tradizione appunto retorica, in cui la costruzione della nazione non
è connessa alla costruzione del popolo, bensì all’elaborazione mitica di
un passato glorioso. E nonostante Gramsci attribuisca un’eficacia pratica
attuale, realistica, politica alla costruzione di quella retorica e la distingua,
sia pure parzialmente, dal carattere esteriore che assumeranno le sue deformazioni successive, il giudizio storico e politico sui limiti dell’azionismo
risorgimentale, principale arteice, a partire dallo stesso Mazzini, della costruzione del mito foscoliano, pare retroagire pesantemente sulla funzione
attribuita dall’intellettuale sardo a Foscolo nella costruzione dell’identità
nazionale. Vale a dire che la lente attraverso cui Gramsci «iltra» la lettura
dell’opera foscoliana sarà, come detto nel programma del Quaderno 8, il
ruolo di Foscolo nella formazione della retorica nazionale.
Secondo Gramsci, come è noto, «il popolo-nazione» fu il «grande assente» del Risorgimento italiano: e il Partito d’Azione, che non riuscì a
imprimere «al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico» (Q 1, p. 42) per la mancanza di «un programma organico di governo che abbracciasse le rivendicazioni essenziali delle masse
Ugo Foscolo: icona della retorica nazionale
69
popolari, in primo luogo dei contadini» (ibid.), sostituì – pare dire Gramsci
– l’assenza di un programma, ovvero di un radicamento popolare-nazionale, con «la tradizione “retorica” della letteratura italiana»: vale a dire,
confuse «l’unità culturale con l’unità politica e territoriale» (ivi, p. 43).
Gramsci contrappone esplicitamente «le due tendenze»: «nazione-popolo
e nazione-retorica». Nell’assenza storica della prima, si «tendeva a creare
l’unità nazionale, cioè la nazione, […] basandosi sulla letteratura», cioè su
«un voler essere, non un dover essere perché esistono già le condizioni di
fatto» (Q 3, p. 362). E tra i principali topoi della nazione-retorica o della
retorica della nazione, Gramsci individua «il preconcetto che l’Italia sia
sempre stata una nazione», con la conseguente riduzione della storia a propaganda politica volta a creare l’unità nazionale (ibid.).
È indubbio, come è stato notato, che i democratici, e in primis Mazzini, abbiano «deliberatamente costruito anche sulla base delle esigenze della
cultura risorgimentale, alla ricerca di padri fondatori», il mito di Foscolo,
poiché egli aveva consapevolmente elaborato nella sua opera «un’idea forte della tradizione letteraria non solo come elemento uniicante della nazione italiana, ma anche come espressione di un paese dotato di fondamenti
morali e di istituzioni civili»; e particolare valenza fondativa era stata attribuita dalla tradizione democratica – e dallo stesso Foscolo – ai sepolcri,
il carme in cui l’autore «racconta l’Italia come nazione» ed elabora «un
immaginario italiano, dando un contributo essenziale alla costruzione di un
pantheon di eroi e di luoghi sacri nazionali» (TATTI 2011, pp. 13-16).
Quel che sembra rimanere non a pieno tematizzato da Gramsci nella
retroazione-riduzione dell’opera foscoliana alla retorica nazionale, ossia
alla costruzione democratico-risorgimentale dell’icona foscoliana, è la
consapevole discontinuità con cui Foscolo interpreta la propria condizione
intellettuale rispetto alla tradizione cosmopolita degli intellettuali italiani:
egli cioè, nella connessione tra vita e politica, tra costruzione dell’autobiograia e trasigurazione letteraria, opera soggettivamente una impostazione in termini moderni, sotto l’inluenza della rivoluzione giacobina e
del successivo «tradimento» napoleonico, del rapporto tra vita e letteratura
nazionale. Un tentativo che indubbiamente ha il suo culmine nei Sepolcri,
ove agisce una intentio mitopoietica, di ascendenza vichiana. La consapevole costruzione di un mito, di una ideologia eficace e realistica, la
volontà politica di costruire una tradizione italiana: tutti nodi che nella
ricerca carceraria sulla storia degli intellettuali italiani avrebbero potuto
rappresentare tasselli interessanti, e forse non facilmente collocabili «nel
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Eleonora Forenza
puzzle». Ad esempio, «è da notare», rileva Gramsci, «che nei sepolcri del
Foscolo, in cui pure sono contenuti tanti spunti della mentalità e dell’ideologia dell’intellettuale italiano del secolo XIX-XX, Roma antica ha un
posto minimo e quasi nullo» (Q 14, p. 1681-82). O ancora sarebbe da rimarcare la rilevanza culturale e politica della elaborazione di un romanzo
– forma letteraria della modernità –, di un romanzo «inalmente» italiano,
l’Ortis, come argomento valido a combattere l’idea di un ritardo culturale
e civile dell’Italia rispetto all’Europa.
L’importanza della «funzione Foscolo» nella costruzione di una identità nazionale italiana, letteraria e politica, è elemento riconosciuto, e contestualmente ampliicato e costruito, dai principali protagonisti della vicenda politico-culturale risorgimentale (non solo di matrice democratica): da
Cattaneo a Garibaldi, da De Sanctis a Gioberti, da Pisacane a Mazzini, che
per l’appunto lavorò alla costruzione della fortuna di Foscolo come padre
della patria anche attraverso un contributo attivo alla pubblicazione delle
Opere. Ed è indubbio che Gramsci si confronti più con la «funzione Foscolo» nella costruzione della identità culturale italiana, cioè con l’«icona
Foscolo», che con l’opera di Foscolo stesso, con la discontinuità che egli
opera oggettivamente rispetto alla tradizione cosmopolita degli intellettuali italiani nel tentativo di costruire una identità nazionale e una funzione intellettuale moderne. E nella rilessione gramsciana, il giudizio sul Risorgimento italiano, e su quello democratico in particolare, sembra pesare di più
(nonostante le distinzioni pur rafigurate tra Foscolo e la retorica costruita
a partire dalla sua opera) che una valutazione diretta e complessiva della
produzione del poeta di zante. Forse una sovrapposizione meno marcata
del problema Foscolo con quello della retorica nazionale avrebbe prodotto
altro tipo di considerazioni. Ma avrebbe richiesto una possibilità di consultazione diretta dei testi, che con ogni probabilità in carcere era a Gramsci
preclusa e che non emerge signiicativamente neppure nella fase pre-carceraria. L’intellettuale sardo sembra dunque appoggiarsi su fonti indirette, ad
esempio la crociana storia dell’età barocca. Sintomo dell’assenza di fonti
dirette potrebbe essere il fatto che nei Quaderni e nelle Lettere, si trovino
riferimenti quasi esclusivamente ai sepolcri.
Dunque Foscolo, anche quello dei Sepolcri, non viene letto da Gramsci prevalentemente alla luce di una potenziale discontinuità: nella ripresa
di Vico, nella originale rielaborazione dell’illusione romantica in una nuova mitopoiesi che convive con una impostazione materialistica (di fatto occultata nella retorica risorgimentale) nel tentativo, sottolineato da De San-
Ugo Foscolo: icona della retorica nazionale
71
ctis, di colmare il vuoto di idealità dell’Italia pre-risorgimentale. Perché il
ruolo nella tradizione prevalente di Foscolo non è riassumibile in una linea
ideale Vico-Foscolo-De Sanctis. Foscolo viene storicamente riassorbito,
anche nella lettura di Gramsci, nella costruzione del «classicismo nazionale» che connotò come tratto prevalente la storia degli intellettuali italiani,
da Gioberti a Croce. È appunto la soluzione giobertiana della «“classicità
nazionale”» elaborata come risposta «formale» al «problema» politico della costruzione del «nazionale-popolare» e a quello culturale di una «letteratura nazionale-popolare» a connotare la storia degli intellettuali italiani,
afferma Gramsci in una nota in cui signiicativamente accosta Foscolo a
Gioberti: «storia degli intellettuali italiani. Gioberti. Importanza del Gioberti per la formazione del carattere nazionale moderno degli intellettuali
italiani. Sua funzione accanto al Foscolo» (Q 8, p. 959).
Ed è il Foscolo tradotto nel senso comune intellettuale, elemento di
formazione ideologica diffusa delle classi dirigenti, che interessa prevalentemente a Gramsci. Ad esempio «il Foscolo che si insegna a scuola»,
a cui Gramsci fa più volte riferimento negli scritti precarcerari, sempre
con citazioni solo dai sepolcri, ma connotate da un tono decisamente più
enfatico rispetto alla scrittura carceraria. Scrive il giovane sardo in un articolo del 1918: «la barbarie borghese non rispetta il ricordo dei morti,
quantunque il carme di Ugo Foscolo sia il capolavoro poetico più letto
e commentato nelle scuole dove la borghesia educa e forma i suoi igli»
(la manifestazione per i caduti in guerra e le associazioni proletarie, 17
novembre, in nm, p. 404). Ed è il Foscolo che ovviamente anche Gramsci
incontra da studente, come si evince, in alcune missive, dalla richiesta al
padre del denaro necessario per comprare il libro delle poesie di Foscolo
(31 gennaio e 10 febbraio 1910; l, pp. 30-32; EN, Epistolario I, pp. 35-37).
Inoltre, nell’ambito degli esami per l’assegnazione delle borse di studio del
Collegio Carlo Alberto di Torino nel 1911, «il componimento di italiano
per il gruppo lettere e giurisprudenza fu di carattere storico e si riferiva
al contributo dei nostri scrittori prerisorgimentali, come Alieri, Foscolo
e altri, all’unità italiana» (zUCàRO 1957, p. 1092). senza crisantemi è un
articolo giovanile ampiamente ispirato al carme «più profondo e austero
del secolo scorso»: in occasione del 2 novembre 1915, Gramsci considera
«esiziale» il misticismo religioso che dilaga e “consola” per la tragedia dei
caduti nella grande guerra tra «due Stati cattolici» (ct, pp. 16-17).
Gramsci rilette su Foscolo, inoltre, anche alla luce di un altro mito
fondamentale nella costruzione dell’identità nazionale: il Principe di Ma-
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Eleonora Forenza
chiavelli. Il testo di riferimento è ancora il carme Dei sepolcri per i celebri
versi dedicati all’opera del Segretario iorentino, il «quale temprando lo
scettro a’ regnatori,/ l’allor ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime
grondi e di che sangue». Già nel Quaderno 4 (1930-1932) rilettendo sul
rapporto tra machiavellismo e marxismo, Gramsci individua due tendenze
nella storia dell’interpretazione del Principe, quella tirannica e quella liberale, e considera Foscolo espressione della seconda (Q 4, p. 425). Ulteriormente articolando la rilessione sulle interpretazioni del Principe, Gramsci
sottolinea come Foscolo ne abbia colto la valenza demistiicatrice:
come disse il Foscolo, il «Machiavelli ha svelato» qualcosa di reale, ha teorizzato una pratica […] l’affermazione del Foscolo implica quindi un giudizio storico-politico, che non si limita solo al fatto constato dal Croce (e in
sé giustissimo) che il machiavellismo, essendo una scienza, serviva tanto ai
reazionari quanto ai democratici (ivi, p. 431).
Nel testo «C» che riprende queste note, nel «quaderno speciale» dedicato a Machiavelli, Gramsci varia parzialmente le sue rilessioni. Ribadendo che lo stile del Principe è da «“manifesto” di partito», aggiunge che
l’interpretazione «moralistica» data dal Foscolo è certo sbagliata, tuttavia è
vero che il Machiavelli ha svelato qualcosa e non solo teorizzato il reale; ma
quale era il ine dello svelare? Un ine moralistico o politico? […] L’affermazione del Croce che essendo il machiavellismo una scienza, serve tanto ai
reazionari, quanto ai democratici […] e che in tal senso occorre intendere il
giudizio del Foscolo, è vera astrattamente.
Machiavelli scrive il Principe per «fare l’educazione politica di «chi
non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari
determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati
ini». E a non sapere era «la classe rivoluzionaria del tempo, il “popolo”
e la “nazione” italiana, la democrazia cittadina» (Q 13, pp. 1599-1600).
Ancora nel Quaderno 13, Gramsci colloca i sepolcri nella «interpretazione
romantico-liberale del Machiavelli», assieme a Rousseau e Mazzini (ivi,
p. 1617), «interpretazione che vorrebbe che il Principe, opera “obliqua”,
con il pretesto diversivo di ammaestrare i governanti, di fatto procedesse a
svelare ai sudditi la vera natura del potere» (MEzzINA 2009, p. 331).
Gramsci pare dunque oscillare: indugiare nuovamente nell’attribuzione al carme foscoliano della valenza e della interpretazione che di esso
Ugo Foscolo: icona della retorica nazionale
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aveva fornito la tradizione democratico-mazziniana, associando ai versi del
poeta di Zante una intenzione moralistica e anti-tirannica; ma inine – pur
distanziandosi nettamente dall’interpretazione crociana del Principe come
opera di scienza politica disinteressata, cioè dalla concezione dell’autonomia della politica – egli sembra avallare nella sostanza l’interpretazione
che Croce dà dei versi dei sepolcri:
per ciò che riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe, cioè dell’attribuzione al Machiavelli di intenzioni
riposte democratiche e rivoluzionarie; più giusto pare l’accenno del Croce
(nel libro sulla storia del barocco) che risponde alla lettera dei sepolcri,
e cioè: «Il Machiavelli, per il fatto stesso di «temprare» lo scettro, ecc., di
rendere il potere dei principi più coerente e consapevole, ne sfronda gli allori,
distrugge i miti, mostra cosa sia realmente questo potere ecc.»; cioè la scienza
politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per comprendersi reciprocamente (Q 14, p. 1689).
Sarebbe stato certo di conforto a Gramsci, nel discernere ulteriormente il signiicato dei versi dei sepolcri da quello ad essi attribuito dalla tradizione democratica, il poter leggere la produzione critica di Foscolo in
relazione a Machiavelli. La pubblicazione dell’edizione critica delle Prose
politiche e letterarie dal 1811 al 1816 di Foscolo avverrà però solo nel
1933, e dunque Gramsci con ogni probabilità non ne ha potuto disporre. In
uno scritto del 1811 su Machiavelli, infatti, Foscolo stesso aveva sottolineato, in chiave tutt’altro che moralistica e antitirannica, come il Principe
avesse per scopo l’esposizione di «precetti» di «giustizia non ideale, non
sovrumana, ma gagliarda e fondata sulla forza e sulla esperienza delle nostre passioni»: cioè «una delle mire del Machiavelli nel Principe si fu di
svelare a’ popoli italiani, e specialmente a’ Fiorentini, tutte le sciagure a
cui soggiacciono le città rette da principi deboli». E aveva rafigurato la
modernità della scienza politica di Machiavelli:
onde invece di piantare un assioma a priori, come fanno i politici metaisici,
egli ha esaminati molti fatti, e ne ha ricavate alcune regole: invece di mostrare
il bene che dovrebb’essere, ha mostrato il bene e il male che necessariamente
si trovano nel mondo, e l’utilità che si può ricavare tanto dal bene quanto dal
male […] taceremo per ora se alcuni di que’ precetti tendano a far aborrire il
principato» (FOSCOLO 1811, pp. 387-89).
Ma Gramsci, rinchiuso in carcere, non avrà la possibilità di concordare con Foscolo.
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Eleonora Forenza
Bibliograia
DE SANCTIS, FRANCESCO, Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Bari 1952.
FOSCOLO, UGO, Frammenti su Machiavelli, in ID., Opere, VIII, Prose politiche e letterarie
dal 1811 al 1816, a cura di L. Fassò, Le Monnier, Firenze 1933 (1a ed. 1811).
MEzzINA, DOMENICO, Ugo Foscolo, in LIGUORI – VOzA 2009, pp. 330-32.
TATTI, SILVIA, Ugo Foscolo, in B. ALFONzETTI – S. TATTI (a cura di), vite per l’unità. Artisti
e scrittori del Risorgimento civile, Donzelli, Roma 2011, pp. 3-17.
VOzA, PASQUALE, Intellettuali italiani, in LIGUORI – VOzA 2009, pp. 428-31.
ID., Risorgimento, ivi, pp. 716-20.
zUCàRO, DOMENICO, Antonio Gramsci all’Università di Torino. 1911-1915, in «Società»,
XIII (1957), 6, pp. 1091-111.