II presente come storia
IDEOLOGIE IMPERIALI E NUOVI SISTEMI DI RELAZIONI
MONDIALI
Salvatore Minolfi
Negli Stati Uniti il tema della ripresa del potere americano dopo la fine della
guerra fredda (e al termine di una stagione critica che aveva dato vita al di
battito sul <<declino>>) tende ad articolarsi lungo due distinte problematiche:
quella relativa alla natura, alle caratteristiche e all'intensita di questa rinasci
ta e quella che si misura, invece, con le reazioni del mondo alla nuova fase di
ascesa degli Stati Uniti. In breve, il problema della realta del potere america
no e quello della sua legittimazione. Ora, benche i due piani risultino inestri
cabilmente legati, si puo osservare che mentre negli anni Novanta, cioe nel
periodo immediatamente successivo alla fine della guerra fredda, e stato il pri
mo tema ad interessare gli studiosi, dopo i'l1 settembre l'attenzione al se
condo piano d'analisi e andata sistematicamente crescendo, quasi che uno
sguardo nello specchio del mondo potesse fornire importanti elementi, di con
ferma o di smentita, non facilmente ricavabili dall'analisi diretta del potere
americano.
Vale ricordare, in apertura di queste note, che quelli successivi alla fine della
guerra fredda si rivelarono anni di grande incertezza intellettuale: non vi era
piu un consenso minimo generale sull'interpretazione dei caratteri e della na
tura del nuovo sistema internazionale, ne tanto meno sugli obiettivi e sulla
funzione del potere americano, segno inequivocabile dell'esaurimento del co
siddetto cold war consensus. Questa incertezza non ha pero impedito che la
nuova fase di affermazione del potere americano si accompagnasse ad una vi
gorosa ricomparsa dell'eccezionalismo, inteso non tanto come autonoma e di
stinta corrente di pensiero, quanto piuttosto come generale e pervasiva ten
denza in grado di condizionare, sotto forme diverse e travestimenti non sem
pre immediatamente evidenti, il processo di generale ripensamento che ha
comprensibilmente investito, dopo l'89, le piu importanti scuole di pensiero
e le differenti visioni del potere americano'. Nel suo recente The American
Ascendancy, Michael Hunt ha opportunamente inquadrato tale ripresa di te
1 Ho affrontato questo tema in Tra due crolli. Gli Stati Uniti e l'ordine mondiale dopo la
guerra fredda, Napoli, Liguori, 2005.
712 Salvatore Minolfi
mi e atteggiamenti tipici dell'eccezionalismo nel contesto <<euforico>> del do
po-guerra fredda e del rilancio in grande stile dell'agenda neoliberale2.
Non e certo difficile riconoscere i contorni di un eccezionalismo specifica
mente neoconservatore, nei tratti fortemente moraleggianti e nella speciale
missione storica che i suoi sostenitori hanno di volta in volta attribuito alla su
perpotenza americana (dal Neo-Manifest Destinarianism di Ben Wattenberg,
alla unicita/diversita del nazionalismo americano predicati da William Kristol
e Robert Kagan). Meno evidente e, invece, l'obliqua influenza che l'eccezio
nalismo sembra aver esercitato sugli sviluppi di una certa linea della cultura
progressista, come nel caso di John Ikenberry (uno studioso noto anche in
Italia) e di quanti hanno teso a sottolineare l'assoluta novita (leggi: diversitd)
rappresentata dai valori e dai comportamenti di una potenza dominante, la
quale - a differenza degli Stati egemoni del passato - accetterebbe di imbri
gliare la propria forza in una rete di istituzioni reciprocamente vincolanti (le
co-binding institutions), da essa stessa create, per esercitare e al tempo stesso
autolimitare un potere altrimenti unrivaled e unbalanced'. E un rilievo analo
go puo esser mosso anche a proposito di alcune posizioni emerse negli ultimi
anni all'interno di quella cultura realista, che pure i <<padri fondatori>> (Hans
Morgenthau, Walter Lippmann, George Kennan) avevano promosso, soprat
tutto dopo la seconda guerra mondiale, nell'intento di arginare il moralismo
e l'ideologismo delle classi dirigenti americane. Anche questa paradossale va
riante dell'eccezionalismo americano puo affermarsi in virtu' di un peculiare
travestimento. E, infatti, sull'intensa drammatizzazione del potere americano,
in termini di power realities e material capabilities (una sorta di eccezionalita
ontologica della potenza a stelle e strisce), che William Wohlforth fonda un'i
nedita struttura unipolare del sistema internazionale, priva - e appena il caso
di sottolinearlo - di qualsiasi precedente storico. Gli Stati Uniti farebbero co
si <<eccezione>> al destino che sembra aver sempre accompagnato le grandi po
tenze, poiche avrebbero superato quella soglia della concentrazione di pote
re che, a giudizio di Wohlforth, rede <<a counterbalance prohibitively costly>>4.
2 M.H. Hunt, The American Ascendancy. How the United States Gained and Wielded Glo
bal Dominance, Chapell Hill, The University of North Carolina Press, 2007. Hunt ha au
torevolmente innovato il pi? tradizionale approccio alia storia della pol?tica estera con lo
studio d?lie id?ologie, intese corne sistemi coerenti di valori, simboli e credenze. Risale giu
sto a vent'anni fa la sua prima sistem?tica esplorazione d?lie componenti ideologiche fon
damentali della pol?tica estera americana. Cfr. M.H. Hunt, Ideology and U.S. Foreign Po
licy, New Haven, Yale University Press, 1987.
3 Cfr. J.G. Ikenberry, After Victory: Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of
Order After Major Wars, Princeton, Princeton University Press, 2001 (trad. it. Dopo la vit
toria. Istituzioni, strat?gie della moderazione e ricostruzione dell'ordine internazionale dopo
le grandi guerre, Milano, V. & P., 2003).
4 W.C. Wohlforth, U.S. Strategy in a Unipolar World, in J.G. Ikenberry, ed., America Un
rivaled. The Future of the Balance of Power, Ithaca, Cornell University Press, 2002, p. 104.
713 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
Infine, 1'eccezionalismo risulta cosi pervasivo, da potersi presentare anche in
funzione, per cosi dire, <<omeopatica>>, per rimediare ai suoi stessi guasti: e
questo l'approdo della recente riflessione di Michael Lind sul rapporto stori
co tra pensiero strategico e American way of life5.
E sempre nel contesto del dopo-guerra fredda che e lentamente emerso il <<te
ma imperiale>>6, ben prima, in verita, che l'attentato alle Twin Towers e le po
litiche che ne sono derivate lo trasformassero nell'oggetto privilegiato di una
moda culturale7 e di un incontenibile fervore editoriale8, fatalmente esposti al
rischio della banalizzazione mediatica. Dopo una prima fase monopolizzata
dalla politologia internazionalista americana e dalla galassia di think tanks che
ruota intorno all'elaborazione e alla valutazione della politica estera di Wa
shington, il tema ha progressivamente stimolato anche la riflessione storio
grafica, sollecitando sia l'attivazione di nuove linee di ricerca aggiornate al do
La prima rappresentazione sistemica del mondo unipolare ? in W.C. Wohlforth, The Sta
bility of a Unipolar World, in ?International Security?, XXIV, 1999, n. 1, pp. 5-41. Una ser
rata critica a questo hegemonic exceptionalism ? in C. Layne, The Unipolar Illusion Revisi
ted. The Coming End of the United States' Unipolar Moment, in ?International Security?,
XXXI, 2006, n. 2, pp. 7-41.
5 Riproponendo un classico topos dell'eccezionalismo, Lind scrive che, a differenza di tut
te le altre grandi potenze del passato, l'obiettivo di fondo della pol?tica estera americana sa
rebbe sempre stato non quello della mera accumulazione del potere, bensi quello della pre
servazione d??American way of life, il cui contenuto essenziale sarebbe costituito dalla ?li
berta?, prima ancora che dalla ?democrazia? e dal ?repubblicanesimo? (che si configure
rebbero, piuttosto, come meri strumenti per il conseguimento della liberta). Pur al riparo
dai tradizionali pericoli della conquista straniera o del colpo di Stato, la liberta americana
oggi - a giudizio di Lind - correrebbe il rischio di essere sacrificata sulTaltare delle politi
che securitarie del dopo-11 setiembre, che l'autore critica vigorosamente. La conclusione,
palesemente tautol?gica, sottintende una pr?occupante coazione a ripetere: per salvare YA
merican way of life bisogna ripristinare Y American way ?of strategy?. Cfr. M. Lind, The
American Way of Strategy. U.S. Foreign Policy and the American Way of Life, New York,
Oxford University Press, 2006.
6 All'esistenza di una pur vaga ?Roman option? faceva riferimento, gi? nel 1998, Robert J.
Art nel corso di un'approfondita disamina delle principali correnti del pensiero strategico
americano dopo la fine della guerra fredda: RJ. Art, Geopolitics Updated: The Strategy of
Selective Engagement, in ?International Security?, XXIII, 1998-99, n. 3, pp. 79-113.
7 Si consideri, ad esempio, la straordinaria fortuna editoriale incontrata da quel vero e pro
prio manifesto dell'escatologia postmoderna che ? il volume di A. Negri-M. Hardt, Empi
re, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2000 (trad. it. Impero. Il nuovo ordine del
la globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2001), ehe ha dato inizio ad un ?empire talk? di di
mensioni planetarie. Uno spaccato di elevato livello te?rico (ma, significativamente, di ta
glio prevalentemente critico) ? in G. Balakrishnan, ed., Debating Empire, London-New
York, Verso, 2003.
8 Si consulti, a titolo d'esempio, l'ampia (ma tutt'altro che esaustiva) Empires Bibliography
redatta da Christopher Bassford per il sito del National War College di Washington
(http://www.nationalwarcollege.org/EMPIRES/Bibliography.html).
714 Salvatore Minolfi
po-guerra fredda, sia un generale ripensamento dei quadri interpretativi e del
le categorie storiografiche che hanno dominato l'epoca successiva al secondo
conflitto mondiale. E in questo quadro che va inserita la riflessione di Char
les Maier, affidata, dopo un primo e breve intervento sulle pagine di <<Har
vard Magazine>>9, al volume Among Empires. American Ascendancy and its Pre
decessors (Cambridge [Mass.], Harvard University Press, 2006).
Pur essendo evidente l'intento di misurarsi con la febbre da impero, Maier malgrado l'impulso iniziale10 - osserva una sostanziale prudenza argomentati
va e definitoria (che gli sara, peraltro, rimproverata in piui d'una occasione),
ed evita risposte categoriche e prive di sfumature al fondamentale interroga
tivo che coinvolge la cultura storiografica e che e, a ben vedere, all'origine del
suo stesso interesse per il tema in questione: siamo realmente in presenza di
mutamenti, slittamenti, discontinuita tali da rendere improvvisamente obso
leti o inadeguati i concetti di hegemony, leadership, primacy, preponderance,
ovvero quell'insieme di rappresentazioni storiografiche e politologiche che,
pur dando conto delle asimmetrie di potenza tipiche del secondo Novecento,
si sono sempre trattenute ben al di qua della linea di confine che le separa
dall'area semantica e fenomenologica inerente al concetto di <<impero>>? E
quante volte, nel passaggio dall'enunciato alla dimostrazione, e stata vera
mente superata la soglia del giudizio impressionistico e della vaga analogia?
Among Empires affronta la questione proponendo un percorso a due corsie gli imperi nella storia (Recurring structures) e il turno degli Stati Uniti (Ame
rica's Turn) -, una trattazione assai ampia nei temi e negli argomenti affron
tati, ricca nei suoi riferimenti critici, meditata ed elegante nella scrittura, che
nulla concede alla brillante superficialita di Colossus"1, il volume con il quale
Niall Ferguson - da qualche anno collega di Maier ad Harvard - ha invece
confermato la sua vocazione di abile mediatore tra l'accademia e quell'uni
verso mediatico che si propone di rispondere, con nuove forme di divulga
zione, a una crescente, piu evoluta ed esigente domanda di saperi, tra i quali
quello storiografico occupa una posizione nuova e di tutto rispetto.
Cio detto, il pregio maggiore dell'ultimo lavoro di Charles Maier non sembra
consistere nel pur tanto atteso lavoro di sistematizzazione critica e di decan
tazione di un dibattito che e cresciuto impetuosamente su se stesso, quanto
piuttosto nella vitalita e nella potenza euristica di alcune idee o intuizioni che
l'anziano storico di Harvard enuncia rielaborando con mestiere un materiale
9 C.S. Maier, An American Empire, in ?Harvard Magazine?, CV, 2002, n. 2 (edizione on-li
ne http://www.harvardmagazine.eom/on-line/l 102000.html).
10 ?In fact, - osservava nell'articolo appena citato - some historians of international relations,
myself included, have resorted to the concept of a quasi-American empire for a long time?.
11 N. Ferguson, Colossus. The Price of America's Empire, New York, Penguin Press, 2004
(trad. it. Colossus. Ascesa e declino dell'impero americano, Milano, Mondadori, 2006).
715 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
gia disponibile o ampiamente dirozzato e che puo essere attinto a piene ma
ni nelle ricerche e nelle riflessioni che economisti e politologi, sociologi e an
tropologi sono andati compiendo senza sosta negli ultimi decenni, inseguen
do e interpretanto le accelerazioni e le impennate di quel processo di unifi
cazione planetaria che va sotto il nome di globalizzazione.
Le due sezioni in cui e diviso il libro sono molto piu organiche l'una all'altra
di quanto possa apparire ad un primo sguardo. Nella prima parte, una ricca
e sapiente trattazione comparata consente a Maier di mettere a fuoco temi e
problemi - quello delle frontiere, innanzitutto, e quello della violenza - che
tendono ad accomunare esperienze storiche anche assai lontane. Alcune ge
neralizzazioni, solo apparentemente owie, servono ad arginare le derive di
un'apologetica liberale (si pensi all'uso e all'abuso dei concetti di soft power,
benign hegemony, benevolent empire) che ha sempre preferito sottolineare ed
esaltare le differenze e le discontinuita del presente, secondo schemi argo
mentativi perennemente in bilico tra il piano strettamente conoscitivo e quel
lo dei giudizi di valore. I problemi che attraversano le esperienze storiche de
gli imperi - e che sembrano destinati a rappresentarne gli ineliminabili fatto
ri di continuita - si dispongono all'interno di tre diverse aree problematiche.
In primo luogo - per quanto <<benign>> o <<benevolent>> gli imperi possano ap
parire - la loro linfa e pur sempre costituita dal sangue, se non altro perche
essi devono fronteggiare inevitabilmente la resistenza dei dominati. Benche
non si possa stabilire con certezza se la logica della governance imperiale ge
neri piu o meno violenza, cio che si puo senz'altro affermare - a giudizio di
Maier - e che essa e all'origine di cicli peculiari di violenza, che contrastano
con l'apologetica visione della pace imperiale. Il ciclo di resistenza, ribellione
e repressione appare sostanzialmente costante e ineliminabile dalla vicenda
storica degli imperi.
In secondo luogo, a dispetto delle profonde trasformazioni che sono inter
venute nell'organizzazione delle societa umane, le frontiere continuano ad
essere importanti. Gli imperi hanno a che fare innanzitutto con frontiere
che essi stessi creano in virtu della loro mera affermazione (<<the border
makes the empire and makes it visible>>, p. 189). Le aspirazioni universali
stiche degli imperi si imbattono pertanto in una contraddizione che essi
stessi generano. Cio pone un limite anche a quella visione postmoderna del
l'ordine deterritorializzato che tanta parte ha avuto nel dibattito contem
poraneo e al quale, vale ricordarlo, lo stesso Maier ha fornito il proprio
contributo critico12. L'ordine americano sarebbe piuttosto, a giudizio di
12 ?, infatti, concentrata innanzitutto sul tema del declino della territorialit? e del control
lo politico dello spazio la riflessione svolta da Maier in Consigning the Twentieth Century
to History: Alternative Narratives for the Modern Era, in ?The American Historical Review?,
CV, 2000, n. 3, pp. 807-831. Questi temi compaiono anche in un precedente testo italiano:
716 Salvatore Minolfi
Maier, un mix di territorial domain e post-territorial domain simultanea
mente'3.
Infine, qualunque sia la fisionomia dell'impero, esso non potra mai fare a me
no della supremazia militare. Anche nel caso americano, l'enfasi sulla gover
nance liberale e sul soft power - argomenti che hanno conosciuto una rinno
vata fortuna nella temperie culturale del dopo-guerra fredda - non puo na
scondere la realta di un potere che nasce all'incrocio tra dimensione indu
striale e dimensione strategica, tra capacita di produzione di massa (fordismo)
e capacita di distruzione di massa, tra Highland Park (la sede storica degli im
pianti di Henry Ford a Detroit) e Hiroshima. Lo Stato - cosi poco presente
nell'ideologia americana, se non nell'autoingannevole profilo ideologico del
minimal state - si rivelerebbe, secondo Maier, un fattore essenziale nella ge
nesi della potenza industriale e militare'4.
Una nuova configurazione dell'egemonia americana? Maier distingue tre fasi
nel processo di ascesa degli Stati Uniti: 1) la sostituzione della Gran Bretagna
come centro della produzione industriale mondiale; 2) l'elaborazione delle po
litiche di assistenza allo sviluppo in cambio del non allineamento all'Urss nel
l'epoca della guerra fredda"5; 3) la fase piui originale e senza precedenti: quel
la dell'attuale impero del consumo.
Nella trattazione di Maier, la tentazione imperiale sembrerebbe riguardare, in
senso stretto, solo l'ultima fase della storia americana (anche se lo studioso,
C.S. Maier, Sec?lo corto o ?poca lunga? L'unit? storica dell'et? industr?ale e le trasformazio
ni della territorialit?, in C. Pavone, a cura di, Novecento. I tempi della storia, Roma, Don
zelli, 1997, pp. 45-77.
13 Anche se i canali di comunicazione interdisciplinare non son? strade facili da percorrere
(la qual cosa vale anche per i rapporti tra la storiografia e la politologia internazionalista)
vale rilevare che quanto Maier scrive in questo caso a proposito della territorialit? ? molto
vicino alia brillante distinzione tra space-oj'-places e space-of-flows, elaborata, circa quindici
anni or sono, da un eminente studioso americano. Cfr. J.G. Ruggie, Territoriality and
Beyond: Problematizing Modernity in International Relations, in ?International Organiza
tion?, XLVII, 1993, n. 1, pp. 139-174.
14 Dal canto suo, Michael Hunt ha sottolineato quanto risulti rilevante - anche da un punto
di vista strettamente quantitative - il ru?lo giocato dai militari, oltre che dagli imprendito
ri, nella formazione delle classi dirigenti americane dopo la seconda guerra mondiale e an
cor pi? dopo la fine della guerra fredda. L'osservazione ? formulata a sostegno di una delle
principali tesi esposte da Hunt nel suo ultimo lavoro: e cio?, che la vicenda americana - a
dispetto della retorica liberale - si spieghi innanzitutto a partir? dall'ininterrotto processo di
rafforzamento dello Stato americano, della sua burocrazia, della sua gestione quasi mono
polistica della vita pol?tica. A questo processo farebbe da contrahar? un sostanziale deperi
mento della cittadinanza (M.H. Hunt, The American Ascendancy, cit., pp. 280-281).
15 Un'assistenza alio sviluppo fornita - sottolinea Maier con un certo puntiglio - senza royal
ties o commodities in cambio, fatta eccezione, naturalmente, per il caso del petrolio.
717 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
nel considerare l'originaria colonizzazione interna del continente americano,
non si allinea aila mitologia nazionale degli <<spazi vuoti>>). Manifestatasi nel
l'epoca del dopo-guerra fredda, tale tentazione sarebbe diventata irresistibile
dopo i'l1 settembre. I1 cambiamento sarebbe estremamente significativo, poi
che - a giudizio di Maier - nonostante le durezze e la violenza di certi aspet
ti dell'egemonia americana, il sistema avrebbe funzionato, per oltre mezzo se
colo, grazie ad un elevato grado di consenso: almeno per quanto riguarda le
relazioni con l'Europa non sarebbe appropriato parlare di formal dominion,
ne di suzerainty, ma di una sorta di ?coordinamento imperiale>> o consensual
hegemony, poiche le elites europee avrebbero volontariamente accettato limi
tazioni alla loro sovranita in materia di decisioni internazionali, soprattutto a
causa dell'esistenza di una minaccia sovietica.
Non e facile, tuttavia, individuare il preciso retroterra dell'impulso imperiale,
poiche nella trattazione di Maier la scansione della vicenda americana cono
sce il suo passaggio piu significativo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio
degli anni Ottanta, allorche si compie la transizione dall'epoca del fordismo
(con le sue peculiari politiche della produttivita)"6 all'epoca postfordista che
vede l'emergere di una nuova configurazione dell'egemonia americana. Ele
menti peculiari della nuova epoca sarebbero l'avvio della rivoluzione infor
matica, la liberalizzazione e l'espansione dei servizi finanziari, il rilancio dei
consumi di massa, la crisi della distensione e l'inizio del coinvolgimento di
retto in Medio Oriente. Ad essi Maier aggiunge la rinuncia alla convertibilita
del dollaro e l'abbandono del sistema dei cambi fissi, fattori che darebbero il
via alla stagione del disordine monetario e a quell'uso spregiudicato della mo
neta americana, che rappresenta tuttora uno dei tratti caratterizzanti della
nuova epoca. La fase di transizione e, dunque, la stessa gia indicata da Maier
in Consigning the Twentieth Century to History, 1i dove la structural narrative
- indifferente alle scansioni della natural chronology e alle esigenze della mo
ral narrative - segnalava l'esaurimento della lunga stagione della ?territoria
lita>> e il problematico riaffacciarsi, sia pure in forme inedite, della divarica
zione tra identity space e decision space"7.
All'interno di questo processo - ?partially and rather ahistorically captured
by the notion of globalization>>8 - il passaggio ad una nuova configurazione
dell'egemonia americana sarebbe rappresentato dalla profonda riorganizza
zione dei rapporti all'interno dell'economia internazionale. Se si eccettua un
16 ?Productivity - scrive Maier - became a norm that appealed abroad much as citizenship
had done in the Roman world? (C.S. Maier, Among Empires, cit., p. 195).
17 Questa fase di transizione che occupa l'ultimo quarto del XX sec?lo potrebbe rappre
sentare, a giudizio di Maier, ?one of the axial crises of the modern era? (C.S. Maier, Con
signing the Twentieth Century to History, cit., p. 823).
18 Ivi, p. 809.
718 Salvatore Minolfi
deciso intervento volto a ricostruire un primato americano nell'industria ali
mentare (export agricolo) e la pur fondamentale leadership nella rivoluzione
informatica, gli Stati Uniti sembrano aver rinunciato al loro forte profilo in
dustriale, assecondando invece le spinte e le inclinazioni verso il mondo del
la finanza (una vera e propria conversione, secondo alcuni studiosi). Si tratta
di un cambiamento che non puo non investire l'identita del paese: la conse
guenza della crisi di un regime di accumulazione che sposta progressivamen
te fuori dagli Stati Uniti la produzione industriale (con l'eccezione dei setto
ri piu avanzati dell'industria degli armamenti, una delle aree in cui gli Usa re
gistrano un'indiscussa supremazia e saldi commerciali perennemente attivi).
Nel quadro di una politica tesa a promuovere la liberalizzazione del com
mercio mondiale e dei movimenti di capitale, gli Stati Uniti tendono a spe
cializzarsi nell'intermediazione finanziaria globale, cosi come avevano gia fat
to gli inglesi all'epoca del declino industriale britannico (anche se - si fa spes
so notare - a differenza della Gran Bretagna, gli Stati Uniti non hanno un im
pero territoriale dal quale estrarre le risorse necessarie a conservare la loro
preminenza politico-militare). Dalla seconda meta degli anni Ottanta, la po
sizione degli Stati Uniti nell'economia globale risulta cosi caratterizzata da un
bassissimo tasso di risparmio interno, dalla persistenza del deficit federale e
dal continuo aumento del deficit delle partite correnti'9. f1 quadro che ne ri
sulta appare notevolmente complesso e oltremodo controverso, poiche a di
spetto dell'ampia disponibilita di dati macroeconomici (e di fonti la cui at
tendibilita e universalmente risconosciuta) non esiste un consenso generale
sull'interpretazione dell'attuale condizione economico-finanziaria degli Stati
Uniti. Ad esempio, Maier concorda nel considerare la condizione americana
assai diversa da quella della Gran Bretagna all'epoca della sua maturita im
periale: al comportamento virtuoso dei britannici (che seppero trasformarsi
in potenza rentier che investiva all'estero i propri risparmi, ricavandone inte
ressi e dividendi), corrisponde l'indisciplina fiscale e monetaria degli Stati
Uniti che si sono trasformati in una potenza consumatrice. La Net Interna
tional Investment Position (Niip) dei due paesi non potrebbe risultare piu di
versa. D'altra parte - precisa lo storico - la Gran Bretagna si comportava da
egemone virtuoso a discapito dei consumi interni e quindi a costo di piu gra
vi disuguaglianze sociali; mentre, al contrario, la scelta americana di privile
giare il consumo interno avrebbe reso piu accettabile e gestibile, senza tutta
19 Vale la pena ricordare che la questione dell'indebitamento americano espi?se esattamen
te 20 anni fa: nel 1987 gli Stati Uniti erano ufficialmente diventati la pi? grande nazione
d?bitrice del mondo e il Giappone il loro principale finanziatore. Fred C. Bergsten, all'e
poca direttore dell'Institute for International Economics e presidente del Competitiveness
Policy Council, creato dal Congresso americano, segnal? prontamente l'evento e Penormit?
delle sue implicazioni. Cfr. F.C. Bergsten, Economie Imbalances and World Politics, in ?Fo
reign Affairs?, LXV, 1987, n. 4.
719 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
via impedirlo, l'accentuarsi delle disuguaglianze sociali, che pure si e manife
stato nell'ultimo quarto di secolo.
Cio detto, Maier si schiera risolutamente con quanti tendono a sdrammatiz
zare il problema del doppio deficit90, mentre, curiosamente, sul versante op
posto, troviamo lo scozzese Niall Ferguson, che pure, a differenza del suo col
lega americano, si e dichiarato a piu riprese favorevole ad un piu esplicito e
convinto ruolo imperiale da parte degli Stati Uniti: utilizzando i dati del Con
gressional Budget Office, Ferguson ha abbracciato la prospettiva piu allar
mata sul controverso tema delle <<passivita implicite>>2.
Dunque, Maier non spiega quale sia la ragione o la causa dell'emergere del
l'impulso imperiale, fatto salvo, naturalmente, il riferimento immediato, ma
di per se insufficiente, agli eventi dell'11 settembre e il franco riconoscimen
to che l'impero ?ha il suo fascino>> e che ?therein lay the openness of the mo
ment>> (p. 295). Ne, d'altra parte, vale obiettare - come ha recentemente fat
to Michael Hunt in una ruvida polemica con lo studioso di Harvard - l'on
nipresenza del tema imperiale nel corso dell'ultimo secolo di storia america
na, per lo meno a partire dal conflitto ispano-americano e dalla conquista del
le Filippine del 189822.
20 Maier, al riguardo, sottoscrive le rassicuranti valutazioni di D.H. Levey and S.S. Brown,
The Overstretch Myth, in ?Foreign Affairs?, LXXXIV, 2005, n. 2, pp. 2-7. Il termine ?over
stretch? divenne oltremodo popolare in seguito alia pubblicazione di The Rise and Fall of
the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000 (New York,
Random House, 1987) dello storico Paul Kennedy, il quale sostenne che gli Stati Uniti sta
vano seguendo la traiettoria percorsa da tutte le grandi potenze nella storia, che prima o
poi vanno incontro al loro declino proprio in conseguenza della crescita incontrollata de
gli impegni e dei costi dell'impero. Uoverstretch myth, a cui si riferiscono David H. Levey
e Stuart S. Brown, indica quindi un esplicito rigetto dell'argomento principe su cui si ? af
fermata la letteratura sul ?declino?.
21 II tema delle ?passivit? implicite? fu portato per la prima volta alla luce da un articolo di
Jagadeesh Gokhale (economista della Federal Reserve) e Kent Smetters (ex vicesegretario
per la pol?tica econ?mica del Tesoro), Fiscal and Generational Imbalances. New Budget Mea
sures for New Budget Priorities, in ?Federal Reserve Bank of Cleveland, Policy Discussion
Paper?, March 2002. Ferguson ha riassunto cosi la questione: ?supponendo che il governo
abbia a disposizione oggi tutte le ?ntrate che si aspetta di riscuotere in futuro e debba usar
le, sempre oggi, per saldare tutti i suoi impegni di spesa futuri, compreso il servizio del de
bito pubblico, il valore attuale netto di tutte le ?ntrate future sarebbe sufficiente per co
prire il valore attuale netto di tutte le spese future? La risposta era un no secco: secondo i
loro calcoli, l'ammanco era di 45mila miliardi di dollari? (N. Ferguson, Colossus, cit., p.
285). Vale ricordare, infine, che il 2006 Financial Report of the United States Government
(http://fms.treas.gov/fr/06frusg/06frusg.pclf) ha portato la cifra delle ?passivit? implicite?
a 53.000 miliardi di dollari (cio?, circa il 400% dell'attuale prodotto interno lordo ameri
cano).
22 Per la pol?mica tra Hunt e Maier e piu in gen?rale per uno spaccato del dibattito su
Among Empires, cfr. la tavola rotonda che ha visto protagonisti lo stesso Maier, Thomas
720 Salvatore Minolfi
Cio che appare chiaro, invece, e il contesto storico piu ampio nel quale pren
de forma questo fenomeno: il contesto e quello dell'empire of consumption.
Certo, si tratta di un tentativo di concettualizzazione non nuovo e che puo
vantare numerosi precedenti, anche quando l'enfasi cade sull'uno o l'altro ter
mine della definizione o su altri momenti storici della vicenda americana. Do
potutto, quello che Victoria de Grazia ha definito ?irresistibile>> e l'impero
del consumo ai suoi albori, ma di un genere che prende corpo in una lenta e
profonda rivoluzione sociale, in una generale trasformazione dei valori, dei
modelli di comportamento, delle forme della sociabilita23. Ed e ancora una
consumer modernity, a giudizio di Peter J. Taylor, a connotare in modo in
confondibile l'egemonia americana, distinguendola, sin dall'inizio, dalla ?mo
dernita industriale>> britannica e dalla <modernita mercantile>> olandese2 .
Tuttavia, l'impero del consumo di Maier e qualcosa di nuovo e differente: non
piu l'universo di merci che gli Stati Uniti offrivano al mondo, seducendolo,
sussidiandolo e inondandolo di mezzi di pagamento e di foreign direct invest
ments, ma l'incontenibile bulimia con la quale l'America postindustriale di
vora i surplus commerciali dell'Asia orientale, i cui prodotti occupano ormai
circa i due terzi degli scaffali della catena distributiva Wal-Mart.
La tesi di fondo che Maier ci propone e che l'impero del consumo sarebbe non
soltanto una particolare fase della storia degli Stati Uniti e del loro sistema di
relazioni con il mondo, ma la struttura attraverso la quale si starebbe realiz
zando una ?transizione tecnologica>> di dimensioni eccezionali, dovuta prin
cipalmente al massiccio ricorso all'offshoring, un processo che lo storico ame
ricano considera ?inherent in America's empire of consumption>> (p. 275). At
traverso l'impero del consumo - avverte Maier - si starebbero diffondendo nel
mondo i principali fattori dello sviluppo: il lavoro, il capitale, la tecnologia.
Ben lungi dal rappresentare un movimento uniformemente planetario, l'Asia,
innanzitutto e, almeno in parte, l'America latina ne sarebbero i principali be
neficiari.
Maddux, Andrew J. Bacevich, Michael H. Hunt e Anna K. Nelson (disponibile all'indiriz
zo www.h-net.org/~diplo/roundtables).
23 Victoria de Grazia, Irresistible Empire: America's Advance through Twentieth-Century Eu
rope, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press, 2005 (trad. it. L'im
pero irresistibile. La societ? dei consum? americana alla conquista del mondo, Torino, Einau
di, 2006).
24 Secondo Taylor, le periodiche ristrutturazioni dell'economia-mondo e le transizioni ege
moniche che le accompagnano si manifesterebbero anche corne continui slittamenti nella
definizione di modernit?. Cfr. P J. Taylor, Hegemonic Transitions as Shifts in Modernities.
Paper presented at the Social Science History annual conference, New Orleans, October 1996,
e Id., The ?American Century? as Hegemonic Cycle, in P.K. O'Brien, A. Clesse, eds., Two
Hegemonies: Britain 1846-1914 and the United States 1941-2001, Aldershot-Burlington,
Ashgate, 2002, pp. 284-302.
721 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
Altri studi - che Maier non cita, ne mostra di sottoscrivere sia pure indiret
tamente -, si spingono molto piu innanzi, lungo questa strada, sostenendo che
la ?transizione tecnologica>> prefigurerebbe una significativa alterazione degli
equilibri economici e politici internazionali, al cui interno la globalizzazione
- secondo le valutazioni di un importante rapporto del National Intelligence
Council - ?will take on an increasingly non-Western character>>25.
Curiosamente Maier non cita un altro importante rapporto del 2003, che for
se pi di ogni altro ha contribuito a minare la percezione pressoche univer
sale di un processo di globalizzazione saldamente nelle mani di un'irresistibi
le tribui anglofona: il <<Global Economics Paper>> n. 99 della Goldman Sachs26
(da circa un secolo e mezzo, una delle piu importanti banche d'investimento
al mondo) ha annunciato la prospettiva di un <<dramatically different world>>,
tracciando la scansione dei ?sorpassi>> che i <<BRIC's countries>> (acronimo di
Brasile, Russia, India e Cina) si appresterebbero a compiere nell'arco del pros
simo trentennio ai danni delle economie del G6 (il G7 meno il Canada)27.
La natura della transizione. Anche se Maier non sviluppa (o non considera)
adeguatamente tutte le possibili implicazioni di questa prospettiva (trince
randosi dietro la pur giusta considerazione che una previsione senza un pre
ciso orizzonte temporale e di scarsa utilita), sin d'ora si puo ragionevolmente
affermare che la prospettiva analitica adottata dallo studioso appare di gran
lunga piu ricca e feconda di quelle emerse dal dibattito politologico america
no dell'ultimo quindicennio. In breve, un conto e affermare che - in conse
guenza dell'intensificarsi del processo di globalizzazione e della crisi delle
<<nonmarket ideologies>> - la <<transizione tecnologica>> messa in moto dagli
Stati Uniti e diventata il fenomeno centrale della nostra epoca, un altro con
to e sostenere che il fatto piu importante del dopo-guerra fredda e l'avvento
del <<mondo unipolare>>. Beninteso, anche quest'ultima prospettiva implica l'i
25 NIC, Mapping the Global Future: Report of the National Intelligence Council's 2020
Project, Washington D.C., Government Printing Office, December 2004, p. 12.
26 D. Wilson and R. Purushothaman, Dreaming With BRICs: The Path to 2050, Global Eco
nomics Paper n. 99, 1st October 2003, Goldman Sachs Financial Workbench, New York.
27II fatto che a prevedere una crescita esponenziale delle ?BRICs economies? non sia una
disinteressata analisi accademica, ma ?one of the world's leading investment banking and
securities firms? (come orgogliosamente la Goldman Sachs ama autodefinirsi), rende la pre
visione stessa un'autentica self-fulfilling prophecy. II lavoro della Goldman Sachs ? appun
to quello di indirizzare il denaro li dove son? attesi i pi? grandi ritorni. La previsione del
futuro, pi? che sterile esercizio futurologico, diventa cos? una n?cessita del mestiere, poi
ch?, come sottolinea il rapporto di Wilson e Purushothaman: ?Over 80% of the value ge
nerated by the world's major equity markets will come from earnings delivered more than
10 years away?. Altrettanto significativa ? la circostanza che il gi? citato rapporto Mapping
the Global Future del National Security Council assuma i dati della Goldman Sachs come
riferimento per uno dei quattro scenari proposti.
722 Salvatore Minolfi
dea di una transizione, a suo modo non meno drammatica di quella prefigu
rata da Maier, poiche l'unipolarita, radicalmente intesa, sottintende una con
centrazione di potere tale da prefigurare un sostanziale svuotamento (o, ad
dirittura, un'estinzione) dell'international politics: forse la piu genuina aspira
zione millenaristica del <<pacifismo imperiale>> americano28.
Tuttavia, la differenza tra le due prospettive non e di sfumature o di accenti.
L'estenuazione del paradigma statocentrico - che c'aratterizza buona parte de
gli approcci del realismo politico - ha finito con lo svuotare il campo di inte
razione della politica internazionale di ogni traccia significativa della densita,
della complessita e della contraddittorieta delle relazioni che vi si attivano.
Tanto per i sostenitori dell'unipolarismo, quanto per i suoi critici, il proble
ma piu importante degli ultimi quindici anni e stato quello di spiegare l'ap
parente anomalia di un sistema (quello unipolare), inconcepibile alla luce del
la plurisecolare esperienza dell'equilibrio europeo (della quale la corrente rea
lista delle relazioni internazionali rappresenta, in buona misura, una raziona
lizzazione). Questa convinzione fu lapidariamente ribadita da Kenneth Waltz
all'indomani della fine della guerra fredda: <<In international politics,
overwhelming power repels and leads other states to balance against it>>29.
Per chiarire (e, in qualche modo, assecondare) il paradosso, diremo che e sta
to proprio il mancato adattamento della <<realta>> internazionale agli <<schemi
del pensiero>> a determinare una parte significativa dell'agenda intellettuale
della politologia americana: uno dei problemi teorici piu assillanti del dopo
guerra fredda e stato, infatti, quello di spiegare l'assenza di balancing beha
viour su scala globale, ovvero l'apparente accettazione da parte del mondo
dello squilibrio di potere in favore degli Stati Uniti, nonostante la ?teoria>>
prevedesse (prescrivesse?) l'insorgenza di coalizioni controbilancianti30.
28 Si traita - ? appena il caso di sottolinearlo - di un sogno dai caratteri marcatamente re
gressive In esso, la pol?tica di potenza non viene sostituita da una democratizzazione delle re
lazioni interstatali, ma dal monopolio del potere militare che rende vana la concorrenza. La
power politics non viene superata relativizzando il soggetto statuale a beneficio di altri attori
sociali e istituzionali, ma polarizzando il sistema internazionale tra un superstato dotato di tut
ti gli attributi della sovranit? e un insieme di soggetti statuali, se non esplicitamente ?semiso
vrani?, sicuramente amputati di alcune delle prerogative tipiche del sistema di Vestfalia. In
breve, da un lato la potenza imp?riale, dall'altro le cosiddette ?civilian powers?.
29 K.N. Waltz, America as a Model for the World? A Foreign Policy Perspective, in ?PS?, De
cember 1991, p. 669.
30 Cfr. le due ultime raccolte di saggi - con le firme pi? prestigi?se dell'accademia america
na - che presentano i primi promettenti segnali di un possibile rinsavimento: T.V. Paul, J.J.
Wirtz, M. Fortmann, eds., Balance of Power. Theory and Practice in 21st Century, Stanford,
Stanford University Press, 2004, e J.A. Vasquez and C. Elman, eds., Realism and the Balan
cing of Power: A New Debate, Upper Saddle River (NJ), Prentice Hall, 2003. All'interno del
le due raccolte figurano i principali esponenti di una corrente di studio che non concorda
con la tesi di una crisi definitiva del balance of power. Ben lungi dall'essere completamente
723 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
Dietro il feticcio dell'anomalia si celava (e si cela tuttora) il ben piu corposo
problema della legittimazione politica: in nome (o in cambio) di cosa si e ma
nifestata questa (apparentemente universale) accettazione dela nuova (e, an
cora, apparentemente estrema) liberta d'azione degli Stati Uniti?
Le risposte sono state varie, poiche malgrado i limiti appena sottolineati, il di
battito americano nel dopo-guerra fredda e stato estremamente ricco di idee
e di articolazioni interne. E opportuno, quindi, richiamarne qui, sintetica
mente, le principali articolazioni.
Una prima risposta e stata rappresentata dalla <<balance of threat theory>>, ela
borata da Stephen Walt come variante interna al pensiero realista: non e la
pura <<potenza>> a generare il controbilanciamento (il balancing behaviour), ma
solo la sua eventuale percezione quale realta effettivamente minacciosa; di
conseguenza, finche gli Stati Uniti si comporteranno in modi accettabili, il lo
ro potere non generera le tradizionali spinte al controbilanciamento, tipiche
delle vecchie dinamiche della politica di potenza31.
Una seconda risposta - quella che per certi aspetti ha rappresentato il para
digma dominante negli anni Novanta - e stata fornita dal cosiddetto <<liberal
approach to international relations>>, nelle sue due principali articolazioni: la
teoria dell'interdipendenza e la <<democratic peace>>. Benche profondamente
diverse nelle loro rispettive origini, esse convergono (sostenute da un'ormai
sterminata letteratura) nella convinzione, profondamente antirealista, che una
<<pace liberale>> regoli le relazioni internazionali tra le democrazie capitalisti
che, in virtu' dell'omogeneitai dei loro ordinamenti interni e del sostanziale ab
bandono delle politiche mercantilistiche. Si tratterebbe, tuttavia, di una pace
<<separata>>, che riguarda unicamente i paesi liberaldemocratici, ma che non
informerebbe le relazioni tra questi ultimi e il mondo non-liberale32.
Una terza risposta e stata elaborata da coloro che adottano la ?hegemonic va
riant of neorealism>> e la ?power transitions theory>> (ancora due articolazio
ni interne alla grande famiglia del realismo politico). In questo caso, la stabi
lita internazionale non e il frutto dell'equilibrio, ma del suo contrario, delle
asimmetrie di potere (misurate in base ai convenzionali parametri del pro
assenti, i ?comportamenti controbilancianti? sarebbero oltremodo attivi nell'epoca dell'uni
polarismo, solo che avrebbero assunto forme diverse (soft balancing, asymmetric balancing,
ecc.) da quelle canonizzate da una certa letteratura politologica (hard balancing).
31 S.M. Walt, Keeping the World ?Off-Balance?: Self-Restraint and U.S. Foreign Policy, JFK
School of Government, Harvard University, Working Paper Series, October 11, 2000. Le
problematiche del dopo-11 setiembre hanno spinto lo studioso a rivisitare l'argomento in
Taming American Power: the Global Response to U.S. Primacy, New York, W.W. Norton,
2005.
32 Uno dei primi tentativi di riaggiornare questa linea di pensiero al nuovo contesto del do
po-guerra fredda ? in J.M. Goldgeier and M. McFaul, A Tale of Two Worlds: Core and Pe
riphery in the Post-War Era, in ?International Organization?, XLVI, 1992, n. 2, pp. 467-492.
724 Salvatore Minolfi
dotto interno lordo, della spesa militare, dell'investimento in R&D, ecc.) e de
gli assetti egemonici, in presenza dei quali gli Stati piu deboli tendono non a
controbilanciare (counterbalancing), ma a saltare sul carro del vincitore
(bandwagoning). Secondo William Wohlforth, il mondo del dopo-guerra fred
da e un mondo strutturalmente unipolare e lo e indipendentemente dalla per
cezione che ne ha la politologia o la stessa classe dirigente americana: agli al
tri paesi del mondo non rimane, pertanto, che adattarsi a questa nuova (e, se
condo Wolhforth, durevole) realta di potere.
Una quarta risposta e quella elaborata dalla ?hegemonic stability theory>> (no
ta, anche in Italia, innanzitutto attraverso le traduzioni dei lavori di Charles
Kindleberger e Robert Gilpin). Benche dotata di un forte background realista,
tale corrente teorica si fonda sull'economia politica intemazionale, la cui stabi
lita richiederebbe un Stato leader (secondo Kindleberger, un <<egemone>>), in
grado di farsi carico della fornitura di <<beni pubblici>> indispensabili: come, ad
esempio, creare e garantire un regime di libero commercio, sostenere un siste
ma monetario intemazionale, esercitare il ruolo di prestatore di ultima istanza,
garantire la sicurezza e la sopravvivenza dei principali attori del sistema. Que
sto quadro potrebbe spiegare la struttura dell'egemonia americana durante la
hobsbawmiana etd dell'oro (all'incirca 1945-1971), ma non nel periodo succes
sivo, poiche, secondo Robert Gilpin, gli Stati Uniti esprimerebbero oggi una
leadership piuttosto debole: la fine della guerra fredda avrebbe indebolito la
cooperazione tra ex alleati e messo in crisi il multilateralismo, favorendo - a di
spetto della retorica globalista - le spinte verso un nuovo regionalismo33.
Tra i vari approcci rapidamente segnalati34, la teoria della stabilita egemonica
e quanto di piu vicino alla trattazione di Maier, anche se lo studioso america
no, pur utilizzandone alcuni argomenti tipici, la tratta nondimeno con la tra
dizionale diffidenza che di regola uno storico riserva, comprensibilmente, alla
modellistica teorica. Per il resto le distanze non potrebbero essere maggiori.
33 Gli Stati Uniti sarebbero cos? sempre piu bloccati da quello che, pi? di vent'anni or so
no, Arthur Stein chiam? il ?dilemma dell'egemone?: owero l'alternativa tra il badare ai gua
dagni assoluti (politiche liberali) o ai guadagni relativi (politiche mercantilistiche). Cfr. A.A.
Stein, The Hegemon's Dilemma: Great Britain, the United States, and the International Eco
nomic Order, in ?International Organization?, XXXVIII, 1984, n. 2, pp. 355-386. Gilpin
sottolinea, con grande lucidit?, l'adesione non incondizionata degli Stati Uniti alia globa
lizzazione liberale di cui essi stessi rappresentano la principale spinta.
34 Dai quali sono stati deliberatamente esclusi quelli che negano l'esistenza di un mondo
unipolare o, alternativamente, lo considerano come una formazione assolutamente transi
toria, priva della stabilit? e della legittimazione indispensabili al funzionamento di un si
stema internazionale. Dell'ampia letteratura riferibile a questa corrente, ci si limita a se
gnalare K.N. Waltz, Structural Realism after the Cold War, in ?International Security?,
XXV, 2000, n. 1, pp. 5-41; JJ. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, New
York, W.W. Norton, 2001, e il pi? recente C. Layne, The Peace of Illusions. American Grand
Strategy from 1940 to the Present, Ithaca and London, Cornell University Press, 2006.
725 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
Maier, da storico, non ragiona in termini di astratta potenza: il potere e sem
pre un sistema di relazioni sociali, come l'impero, <<a transnational structure
that depends on - and in turn consolidates - social cleavages throughout its
domains>> (p. 10). A sua volta, anche la <<transizione tecnologica>> implica un
processo di differenziazione sociale e spaziale. Pertanto, pur senza rispondere
alla domanda di partenza (se, cioe, gli Stati Uniti siano o meno un impero),
Maier elabora una risposta pi ancorata alla complessita e alle contraddizioni
del mondo reale, di quanto riesca a fare la politologia americana (che pure in
voca una superiore competenza sul tema).
Anche Maier si propone di affrontare il nodo del consenso, la questione del
la legittimazione internazionale nel mondo del dopo-guerra fredda. Ma l'a
nomalia che attende una spiegazione non e quella della lontana e irraggiungi
bile hyperpuissance di Hubert Vedrine, ne quella della lonely superpower se
veramente ammonita da Huntington. E un altro tipo di acquiescenza che lo
storico americano intende spiegare. Da molti anni ormai gli Stati Uniti pati
scono un pesante passivo commerciale a favore, innanzitutto, di alcuni paesi
asiatici, i quali riutilizzano una consistente porzione della ricchezza accumu
lata per finanziare incessantemente il debito americano. Si tratta di una gi
gantesca partita di giro, che Maier definisce reverse banking (?foreigners bank
rolled American consumption - private and governmental - so America would
invest indirectly in their industrial development>>, p. 270). Come se non ba
stasse, negli ultimi anni, l'accumulo di dollari (per le foreign exchange reser
ves), di obbligazioni del Tesoro americano o di qualsiasi altro strumento fi
nanziario denominato in dollari, appare sempre piu irrazionale in ragione del
pesante deprezzamento del biglietto verde, che nell'ultimo quinquennio ha si
gnificato, accanto alla svalutazione del dollaro, anche una parallela ed equi
valente autoriduzione del debito americano (un vero e proprio condono, esco
gitato e realizzato dal debitore)35.
Perche mai, in una situazione del genere, i cinesi e i giapponesi dovrebbero
continuare ad ammassare dollari36 che sono ormai quasi pezzi di carta? Se
35 Una tesi argomentata in Giovanni Arrighi, Hegemony Unravelling, in ?New Left Review?,
2005, n. 32, pp. 23-80, e n. 33, pp. 83-116. Il saggio giunge a tale conclusione dopo aver
constatato il fallimento di altre tre diverse soluzioni al problema del finanziamento di un
secondo ?american century? (e cio?: 1. alzare le tasse; 2. prendere in prestito denaro dal
l'estero pi? massicciamente; 3. fare in modo che la guerra in Irak si autofinanzi, come era
gi? awenuto in occasione del conflitto del Golfo nel 1991).
36 Nell'ultimo quarto di sec?lo era stato innanzitutto il Giappone a fungere da finanziatore
del debito americano. Negli ultimi anni si ? aggiunta la Ci?a che ha subito surclassato il
paese del Sol Levante: secondo stime attendibili, all'inizio del 2007 le riserve di valuta ame
ricana accumulate da Pechino ammonterebbero a circa 1.200 miliardi di dollari (con un in
cremento del 37,4% rispetto all'anno precedente). La quota giapponese sarebbe di circa
900 miliardi di dollari.
726 Salvatore Minolfi
condo Maier non si tratterebbe del puro e semplice esercizio dei ?diritti di si
gnoraggio>> (l'antica pratica con la quale i signori limavano le monete d'oro e
d'argento, lasciandone inalterato il valore nominale) - una tesi, a dire il vero,
da lui stesso condivisa paradossalmente quando, nella seconda meta degli an
ni Novanta, le immagini del benessere americano, della benevolent hegemony
e della condiscendenza multilateralista dell'amministrazione Clinton appari
vano sostanzialmente indiscusse37. Anzi, oggi Maier polemizza energicamente
con quanti intravedono, nel denaro asiatico che finanzia il deficit americano,
solo i caratteri del tributo estorto ai clienti dell'impero. La disponibilita a te
nere valori cartacei dollarizzati sarebbe piuttosto il modo in cui tali paesi ri
pagherebbero i ?beni pubblici>> (nel gergo della hegemonic stability theory)
forniti dagli Stati Uniti: il lavoro e lo sviluppo, la diffusione della tecnologia.
In breve, nonostante la massiccia svalutazione degli ultimi anni, per gli im
prenditori stranieri, per le banche e per le elites politiche sarebbe ancora un
buon affare comprare debiti del governo americano o dollar assets, pur sa
pendo che potrebbero ulteriormente deprezzarsi. Non sarebbe, dunque, la
forza dell'impero a renderlo irresistible - come sostengono gli unipolaristi e
i primacists delle piu varie scuole di pensiero - ma la sua convenienza (una
convenienza che suggerisce allo storico di glissare sul tema delle nuove forme
di sfruttamento e, piu in generale, su quello delle fondamenta etiche dell'im
pero del consumo, che pure emerge a tratti dalle pagine di Among Empires).
Sarebbe questa <<developmental component>> dell'impero del consumo - pole
mizza Maier - l'elemento smarrito nelle analisi marxiste della finanziarizza
zione del capitalismo americano38.
Maier si spinge molto oltre su questa strada, giungendo a sostenere che il con
sumo a credito degli americani - assieme all'outsourcing e alla diffusione del
lavoro - permetterebbe anche la costruzione di una nuova classe dirigente glo
bale, che adotterebbe le preferenze e la visione del mondo americana. La strut
tura dell'impero del consumo si configurerebbe come una sorta di acido ribo
nucleico (rna) attraverso il quale un sistema di relazioni sociali gerarchiche si
trasmette dal centro alla periferia.
E questo, evidentemente, un elemento centrale nel dibattito sull'egemonia,
poiche e il fattore che puo determinare l'eventuale capacita di una struttura
transnazionale di autoriprodursi. Ed e qui, pero, che sembrano emergere i
punti deboli della pur suggestiva costruzione elaborata da Maier.
37 Scriveva Maier: ?Negli stessi anni, mentre Washington impegnava uomini e ricchezze nel
la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti hanno cambiato il loro ru?lo egemonico, passando
dalla fornitura di sussidi e di investimenti netti all'estero alla riscossione di rendite e al si
gnoraggio, grazie agli incessanti deficit di bilancio e al saldo di conti in dollari inflaziona
ti? (C.S. Maier, Sec?lo corto o ?poca lunga?, cit., p. 73).
38 Qui la critica ? rivolta in particolar modo a D. Harvey, The New Imperialism, New York,
Oxford University Press, 2003.
727 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
In primo luogo, Maier sembra trattare l'impero del consumo (e la <<transizio
ne tecnologica>> che esso promuove) come il prodotto di una scelta intenzio
nale degli Stati Uniti - vale a dire come l'esito di una <<politica>> americana e non come un processo di natura storico-sistemica, conseguente all'esauri
mento di un ciclo di accumulazione, alla conclusione di una lunga fase di
espansione economica (1945-1971), alla crisi di redditivita dell'investimento
industriale e alla conseguente tendenza alla finanziarizzazione dell'economia
americana.
Di conseguenza, considerando la ?transizione tecnologica>> come l'esito di una
<<politica>>, Maier la colloca in continuita con una generale tradizione <<svi
luppista>> della politica americana, laddove sarebbe piu opportuno distingue
re tra le <<politiche della produttivita>> che presiedettero alla ricostruzione del
le economie capitalistiche e alla costituzione del sistema delle interdipenden
ze dopo la seconda guerra mondiale (in particolare la reintegrazione della Ger
mania, del Giappone e la contemporanea liquidazione del British Empire) e il
?tema dello sviluppo>>, inteso come mero pendant ideologico della guerra fred
da, i cui risultati nelle aree di influenza americana nel Terzo Mondo potreb
bero essere definite eufemisticamente alquanto deludenti. Inavvertitamente, e
come se si smarrissero nuovamente quei confini tra la structural narrative e la
moral narrative, cosi autorevolmente richiamati nella riflessione precedente.
Maier tratta, infatti, la componente <sviluppista>> della politica americana qua
si si trattasse di un elemento sostanzialmente unitario, coerente e costante del
l'attivita internazionale degli Stati Uniti nei confronti dei paesi del Terzo Mon
do, laddove - a dispetto della sua ossessiva centralita ideologica - il tema del
lo sviluppo e stato declinato all'interno di una grande varieta di teorie politi
co-economiche, il cui rapido avvicendamento costituiva la prova piu elo
quente della loro inefficacia e del loro sostanziale fallimento39.
Infine, Maier considera quella che definisce ?transizione tecnologica>> come
un'inevitabile ricaduta del processo di globalizzazione e quest'ultimo come
una mera generalizzazione del modello americano. Le contraddizioni e le al
terne vicende del processo di globalizzazione - cosi come sono emerse a par
39 Nulla di pi? convincente, al riguardo, del sint?tico ma efficace catalogo redatto da Wal
lerstein: ?? stato detto che il socialismo ? la strada verso lo sviluppo. E stato detto che il
laissez-faire ? la strada verso lo sviluppo. ? stato detto che una rottura con la tradizione ?
la strada verso lo sviluppo. ? stato detto che una tradizione rivitalizzata ? la strada verso lo
sviluppo. ? stato detto che l'industrializzazione ? la strada verso lo sviluppo. ? stato detto
che un incremento della produttivit? agr?cola ? la strada verso lo sviluppo. ? stato detto
che lo "sganciamento" ? la strada verso lo sviluppo. E stato detto che una maggiore aper
tura al mercato mondiale (sviluppo orientato aile esportazioni) ? la strada verso lo svilup
po. Pi? di ogni altra cosa, ? stato detto che lo sviluppo ? possibile, a patto di fare la cosa
giusta? (I. Wallerstein, Sviluppo: Stella polare o ?Ilusione?, in La scienza sociale: come sba
razzarsene, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 113 [ed. orig. Unthinking Social Science, 1991]).
728 Salvatore Minolfi
tire dagli anni Novanta - non trovano un'adeguata trattazione nelle pagine del
saggio. Eppure, l'ultima ondata della globalizzazione - quella che ha sostitui
to le ideologie <<sviluppiste>> con una rinnovata fede ottocentesca nel merca
to autoregolato - si e chiusa con la crisi della cosiddetta new economy (il crol
lo dell'indice Nasdaq, emblema della rinascita del potere americano dopo la
guerra fredda), con gli scandali societari che hanno screditato la corporate go
vernance americana e, infine, con la crisi asiatica (1997-1998) che ha dura
mente penalizzato buona parte di quelle <<tigri asiatiche>> (Corea del Sud,
Taiwan, Thailandia, Singapore, Malaysia, ecc.) che avevano rappresentato il
modello di una crescita orientata alle esportazioni (funzionale all'impero del
consumo) e di un'integrazione subalterna (e desovranizzata) nelle reti dell'e
gemonia americana. La crisi asiatica ha radicalmente mutato il panorama del
l'Asia orientale. La lezione degli anni Novanta - secondo Joseph Stiglitz (pre
mio Nobel per l'economia, ex capo dei consulenti economici del presidente
Clinton ed ex vicepresidente della Banca mondiale) - non ha premiato chi se
guiva il Washington consensus40.
Trattando la otransizione tecnologica>> come l'esito di una <<politica>> america
na, Maier non sembra tenere nel dovuto conto le contraddizioni e i rischi im
pliciti nel processo stesso: in breve non sembra dedicare sufficiente attenzione
alla possibilita che la transizione tecnologica possa trasformarsi in (o rappresen
ti gia, in qualche misura) una transizione di potere. Maier non sembra cogliere
le differenze tra le diverse ondate del fenomeno della ?resurgence of East Asia>4'
e l'incomparabilita della vicenda cinese con quella del Giappone e delle picco
le <<tigri asiatiche>>. Secondo quanto sostenuto dal rapporto della Goldman Sa
chs, Brasile, Russia, India e Cina rappresentano un salto di scala anche rispet
to ai due grandi fenomeni del secondo dopoguerra, la Germania e il Giappo
ne: circostanza che rende poco attendibile la prospettiva di una mera integra
zione subalterna dei ?BRIC's countries>> all'interno di una globalizzazione an
glofona42. Se per ?accomodare?> la crescita della Germania e del Giappone so
40 J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002 (ed. orig. Glo
balization and Its Discontents, 2002). II termine Washington consensus (divenuto ben pre
sto sin?nimo del progetto di una globalizzazione neoliberista) fu coniato da John William
son dell'Institute for International Economics, per indicare l'insieme delle preferenze poli
tico-economiche degli Stati Uniti e il loro valore ?normativo? nel campo defle relazioni eco
nomiche internazionali. Cfr. J. Williamson, Democracy and the ?Washington Consensus?, in
?World Development?, XXI, 1993, n. 8, pp. 1329-1336. II Washington consensus ? anche
assurto a s?mbolo della pi? gen?rale strategia delle condizionalit? imposta dal Fondo mo
netario internazionale e dalla Banca mondiale nell'elaborazione dei Piani di aggiustamento
strutturale per i paesi debitori.
41 G. Arrighi, T. Hamashita and M. Seiden, eds., The Resurgence of East Asia. 500, 150 and
50 years Perspectives, London and New York, Routledge, 2003.
42 La convinzione di una gen?rale convergenza dei capitalismi sul modello ?vincente? an
glo-americano ? stata recentemente ribadita da uno dei suoi pi? convinti assertori, il co
729 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
no state combattute due guerre mondiali, l'integrazione dei nuovi paesi - per il
salto di scala che essi stessi rappresentano - potrebbe richiedere qualcosa di
equivalente alla fine della centralita (o ad un netto ridimensionamento) del
l'Occidente43 e la trasformazione di quel capitalismo che si e storicamente af
fermato con l'ascesa del mondo atlantico. In breve, gil anni Novanta si sono
chiusi con la fine dell'illusione clintoniana dell'enlargement.
In questo quadro, anche la volonta di finanziare il dollaro potrebbe risultare
sovrastimata: la razionalita di un attore istituzionale (di una banca centrale)
non deve necessariamente coincidere con quella dei privati, i cui capitali po
trebbero iniziare a prendere (e in parte gia prendono) altre strade.
Forse sono proprio questi i punti critici dell'analisi di Maier che non aiutano
lo studioso a fornire un'efficace spiegazione del riemergere del tema imperia
le alla fine degli anni Novanta, nonostante il riconoscimento che appena uno
o due decenni or sono sarebbe stato pressoche impossibile parlare di <<impe
ro>> e che solo da pochi anni il termine si sarebbe guadagnato un diritto di
cittadinanza nel lessico politico e uno spazio di tutto rispetto nell'immagina
rio collettivo44.
Maier non spiega cos'e che ha generato la spinta verso un'ideologia (non ne
cessariamente verso una realta) cosi esplicitamente imperiale. Non chiarisce
perche mai un unico processo storico (la globalizzazione, con la transizione
ad essa sottesa) e la medesima condizione esistenziale (l'impero del consumo)
abbiano dato luogo, nell'arco di un quindicennio, a due esiti cosi differenti:
prima un'egemonia liberale, portatrice di una retorica multilateralista e orga
nizzata intorno alla centralita del Treasury Department; poi una coalizione
<<jacksoniana>>45, portatrice di una retorica unilateralista e organizzata intorno
lumnist del ?New York Times? Thomas L. Friedman, nel suo ultimo libro The World is
Flat: a Brief History of the Twenty-first Century, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2005
(trad. it. II mondo ? piatto. Breve storia del ventunesimo sec?lo, Milano, Mondadori, 2007).
Significativamente Michael Hunt inserisce Thomas Friedman nel pantheon dei cantori del
l'eccezionalismo americano (M.H. Hunt, The American Ascendancy, cit., p. 274).
43 Oggi, secondo Robert Gilpin, ?la leadership delle istituzioni internazionali continua a re
stare in Occidente malgrado lo spostamento nelTequilibrio globale del potere econ?mico
verso i paesi non occidentali. Questa discrasia fra autorit? e potere dovr? essere un giorno
rettificata se queste istituzioni vogliono soprawivere? (R. Gilpin, Le insidie del capitalismo
globale, Milano, Universit? Bocconi editore, 2001 [ed. orig. The Challenge of Global Capi
talism: The World Economy in the 21st Century, Princeton, Princeton University Press,
2000], p. XXV).
44 A quest'affermazione, in verit?, hanno replicato diversi studiosi. Oltre a Michael Hunt,
di cui s'? gi? detto, Walter Hixon (sulle pagine di ?Diplomatic History?, XXXI, 2007, n.
2, pp. 331-334) si ? limitato a richiamare gli studi di R. Van Alstyne, The Rising American
Empire, New York, 1960, e il pi? noto volume di W.A. Williams, Empire as a Way of Life,
New York, 1980.
45II termine ?jacksoniano? ? stato coniato da uno studioso americano per indicare una del
le quattro principali correnti (quella pi? nazionalista) che animerebbero gli indirizzi di po
730 Salvatore Minolfi
alla centralita del Defense Department46. Maier non spiega la deriva <<insula
re>> (a tratti sciovinista) di una parte della cultura politica americana, esito al
quanto paradossale per un'elite internazionalista che dovrebbe essere salda
mente alla guida di un progetto globalizzatore47. Non da conto di quel <<pun
to morto>> in cui la crisi storica del liberal internationalism americano avreb
be cacciato - a giudizio di Charles Kupchan e Peter Trubowitz - la politica
di Washington48. In breve, cio che non appare - nelle pagine di Among Em
pires - e proprio l'interruzione di quella peculiare fase dei <<ruggenti anni No
vanta>> sui quali ha riflettuto Joseph Stiglitz49. Siamo testimoni di un muta
mento di congiuntura, di temperie politico-culturale e, per quello che conta,
anche di mood, ed e pur sempre un compito dello storico spiegare - come eb
be a scrivere lo stesso Maier - <<perche gli avvenimenti accadono quando ac
cadono, oltre che perche accadono in generale>>50.
Le ambiguitd della globalizzazione. E se la corsa verso l'avventura imperiale
rappresentasse - come pure e stato suggerito - proprio una <<fuga>> dai risul
tati del progetto globalizzatore degli anni Ottanta-Novanta? Al riguardo, la
domanda piu interessante e stata formulata da Giovanni Arrighi:
I risultati inopinatamente disastrosi dell'invasione dell'Iraq spingono a chiedersi cosa
c'era di cosi minaccioso per la potenza americana negli esiti del <<progetto globalizza
tore>> degli anni Ottanta e Novanta da spingere i neoconservatori in un'avventura co
si rischiosa. Non era forse sfociata la liberalizzazione del commercio mondiale e dei
movimenti di capitale, sponsorizzata da Washington, in una grande ripresa della po
litica estera nella storia degli Stati Uniti d'America. Cfr. W. Russell Mead, Il serpente e la
colomba. Storia della pol?tica estera degli Stati Uniti d'America, Milano, Garzanti, 2002 (ed.
orig. Special Providence, 2001, by The Century Foundation).
46 La tesi di uno slittamento dalla predominanza del Department of the Treasury a quella
del Department of Defense ? stata proposta da G. Arrighi, Hegemony Unravelling, cit.
47 Circostanza che, invece, ha indotto Andrew Bacevich ad ipotizzare che il progetto glo
balizzatore lanciato alia fine della guerra fredda, spogliato della sua affascinante retorica,
altro non costituirebbe che una sostanziale regressione alle ?big business priorities? della
pol?tica estera americana precedente la seconda guerra mondiale. Cfr. A.J. Bacevich, Ame
rican Empire: The Realities and Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge, Harvard Uni
versity Press, 2002.
48 Cfr. C.A. Kupchan and P.L. Trubowitz, Dead Center. The Demise of Liberal Internatio
nalism in the United States, in ?International Security?, XXXII, 2007, n. 2, pp. 7-44. La te
si ? stata pi? ampiamente argomentata in C.A. Kupchan, La fine dell'era americana. Pol?ti
ca estera americana e geopol?tica nel ventunesimo sec?lo, Milano, Vita e pensiero, 2003 (ed.
orig. The End of the American Era. U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty
first Century, 2002).
49 J.E. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell'econom?a,
Torino, Einaudi, 2004 (ed. orig. The Roaring Nineties, 2003).
50 C.S. Maier, Sec?lo corto o ?poca lunga?, cit., p. 49.
731 Ideologie imperiali e nuovi sistemi di relazioni mondiali
tenza americana dopo le molteplici crisi degli anni Settanta? E l'affidarsi ai verdetti di
un mercato globale centrato sugli Stati Uniti e da essi regolato, affiancato da un pru
dente uso della <<guerra a bassa intensita>>, non era forse la migliore garanzia della ri
produzione della centralita americana nell'economia politica globale?"
Ed e lo stesso Arrighi a suggerire che di elementi del progetto globalizzatore
che dovevano apparire alquanto minacciosi alla classe dirigente americana ce
n'erano a sufficienza (gia prima dell' 1 settembre) da consigliare una brusca
frenata e una pausa di riflessione: a cominciare dal fatto che, dopo un de
cennio di liberalizzazione spinta del mercato mondiale, il risultato era che il
denaro asiatico finanziava sempre piu massicciamente il deficit americano. Si
poteva poi constatare che la speranza che una rapida deregolamentazione del
sistema finanziario internazionale avrebbe liberato ingenti quantita di capita
le, senza generare quel tipo di crisi che avevano caratterizzato le precedenti
esperienze storiche del capitalismo globale deregolato, si era schiantata assie
me all'indice Nasdaq e alla credibilita della finanza americana. A seguire, si
doveva registrare che l'impero del consumo, nonostante il suo vertiginoso e
inarrestabile deficit, stentava a stare dietro alla crescita esponenziale della ca
pacita produttiva e dell'offerta globale (non essendo riusciti, gli Stati Uniti, a
convincere l'Europa e il Giappone a condividere il ruolo di <<world's consu
mer of first and last resort>)52. Ma, soprattutto, si era giunti alla certezza che,
ancor prima della famigerata epoca dei ?sorpassi>> vaticinata dalla Goldman
Sachs, ci sarebbe stato un significativo rovesciamento nel mercato globale, un
rovesciamento che avrebbe riguardato innanzitutto ?the world's demand cen
ter>>, vale a dire un fattore che, per definizione, chiamava in causa l'esistenza
stessa dell'impero del consumo.
I1 primo e piu importante aspetto di questo rovesciamento avrebbe riguarda
to il mercato globale dell'energia: se all'inizio del nuovo millennio il Nord
America consumava un terzo dell'energia venduta sul mercato mondiale, men
tre l'Asia figurava al secondo posto con il 24%, le previsioni americane cal
colavano che entro il 2020 le due regioni si sarebbero scambiate le posizioni
(sia in termini di global ranking che di percentage sharing). In breve, secondo
un rapporto dell'Energy Information Administration, l'Asia sarebbe diventa
ta il centro di gravita dei flussi energetici mondiali, occupando una quota di
mercato equivalente a quelle del Nord America e dell'Europa occidentale
messe insieme53. Le conseguenze, in termini strategici, apparivano abbastan
51 G. Arrighi, Hegemony Unravelling, cit., p. 62.
52 Anzi, ? il caso di segnalare che il 2005 ha visto la Germania tornare ad essere (nonostan
te l'euro forte) il primo paese esportatore al mondo (969,9 mid. di dollari, equivalent! al
9,3% del totale de\? export mondiale). Cfr. World Trade Organization, International Trade
Statistics 2006, WTO Publications, Geneva, 2006.
53 Cfr. Energy Information Administration, International Energy Outlook 2000: With Projec
732 Salvatore Minolfi
za clamorose, poiche ?the two most anti-Western corners of the globe are
inexorably coming together over energy and money over the coming years>>?.
Se questo era realmente l'esito di un processo di globalizzazione anglofona,
c'era da ammettere che qualcosa non era andato nella direzione prevista. Ep
pure l'abbraccio tra gli asiatici e i mediorientali appariva proprio nell'ordine
<<naturale>> delle cose, avendo ciascuno dei due cio che interessava all'altro (ri
spettivamente, il denaro e il petrolio). Un siffatto scenario aveva l'effetto di
ridimensionare significativamente - dinanzi ai grandi processi di riorganizza
zione degli equilibri globali - il ruolo e la centralita dell'indispensable nation
(secondo la memorabile espressione di Madeleine Albright).
Ora, se era proprio nelle <<normali>> dinamiche di mercato - nel sistema del
le interdipendenze - che stava per cementarsi la nuova grande alleanza del
l'energia e del denaro, era sicuramente <<altrove>> che la superpotenza avreb
be dovuto ricercare una risposta alla sua temuta perdita di ruolo e di rilevan
za internazionale. E da qui che potrebbe avere avuto origine l'abbandono del
la retorica liberale degli anni Novanta e la riassunzione del primato della ra
zionalita strategica e dell'ossessione geopolitica, nelle forme nuove e imprevi
ste di un'inedita emergenza securitaria.
Nella riemersione di un progetto e di una retorica imperiali rivive forse la spe
ranza (non e dato sapere quanto realistica) di ?trattenere>> sul piano della ric
chezza economica e della forza commerciale i risultati di una transizione per
piu aspetti drammatica, replicando con le grandi nazioni dell'Asia il modello
di sviluppo delle potenze semisovrane di Germania e Giappone, lo schema
della <<cooperazione egemonica>> sperimentato con successo dopo la seconda
guerra mondiale. Ma affiora anche una qualche obliqua coscienza di quanto
la scissione tra il potere delle armi e quello del denaro55 rappresenti una no
vita assoluta nella vicenda storica del capitalismo e, come tale, foriera di piu
profonde e imprevedibili discontinuita.
tions to 2020, DOE/EIA-0484 (2000), March 2000, che segna una netta svolta nella perce
zione americana.
54 T.P.M. Barnett, Asia's Energy Future: the Military-Market Link, in SJ. Tangredi, ed., Glo
balization and Maritime Power, Washington, Institute for National Strategic Studies, Na
tional Defense University Press, 2002, pp. 189-200.
55II tema della ?fissione? fu proposto per la prima volta da una commentatrice americana,
F. Lewis, The ?G7 1/2? Directorate, in ?Foreign Policy?, LXXXV, Winter 1991-92, pp. 25
40, e poi ripreso e sviluppato all'interno di un'ampia ricerca da G. Arrighi, II lungo XX se
c?lo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1996 (ed. orig. The
Long Twentieth Century. Money, Power and the Origins of Our Times, London, Verso,
1994).