Academia.eduAcademia.edu

Discorrendo di imperialismo [2020]

Introduzione. 1

Discorrendo di imperialismo Ilario Salucci Introduzione. 1 Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (1). Una cronaca. 2 Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (2). Un bilancio. 10 Appendice: La nuova epoca di guerre e rivoluzioni secondo Kautsky [Lih] 19 Manifesto dei socialisti della Turchia e degli Stati balcanici [Rakovsky] 21 Marx ed Engels (1). Il mercato mondiale. 24 Marx ed Engels (2). La formazione dell’Europa borghese. 31 Marx ed Engels (3). Il sistema di Stati europeo. 48 L’imperialismo, oggi. 59 marzo 2020 Introduzione. Il lavoro che segue ha un semplice obiettivo, ma eccessivamente ambizioso – rispondere alla domanda: dove sta andando il mondo? Ho cercato di analizzare come hanno risposto Marx ed Engels e i teorici marxisti dell’Internazionale socialista e operaia, prima del 1914, alla domanda di dove stava andando il mondo in cui stavano vivendo; i secondi hanno definito il loro periodo quello dell’ “imperialismo”, e sotto questo titolo hanno formulato la loro risposta. Infine ho analizzato come negli ultimi vent’anni i teorici marxisti dell’ “imperialismo” odierno hanno risposto in relazione al mondo in cui noi adesso viviamo. Mi sono convinto che per dare una risposta a questa domanda bisogna analizzare tre ambiti separati, con dinamiche a loro specifiche, ma che parzialmente si sovrappongono, e che in aggiunta hanno tra di loro dei rapporti parzialmente gerarchici. Questi tre ambiti sono la dinamica dell’economia capitalistica a livello mondiale, la dinamica del “sistema internazionale degli Stati”, e la dinamica della lotta di classe a livello mondiale. Il fattore causale fondamentale, ma solo in ultima analisi, è ovviamente il primo. Inoltre mi sono convinto che per dare una risposta bisogna avere un approccio di lungo periodo, addirittura di secoli. E infine mi sono convinto che per dare una risposta non si può non considerare la tendenza del capitalismo al collasso finale. Anche se molti compagni non concorderanno, penso che leggere l’attualità in questo modo sia possibile e anche utile. La dimostrazione sia della possibilità che dell’utilità è data dall’analisi del periodo precedente al 1914. Penso che bisognerebbe leggere la nostra attualità con strumenti analoghi. Dal punto di vista della dinamica economica considero un periodo in sé concluso quello che va dal 1870 al 1950, a cui, grazie a un a vero e proprio “miracolo” (come giustamente si diceva in Italia), hanno fatto seguito vent’anni di prosperità. Dal 1970 siamo entrati a mio avviso in un periodo analogo a quello iniziato esattamente un secolo prima. Considerare il “sistema di Stati” è per i più una frase enigmatica. Ho cercato di chiarire il concetto rifacendomi a Marx ed Engels, e ho cercato di analizzare il sistema che è sussistito dal 1770 circa al 1914. Dopo trent’anni di caos, di rivoluzioni e di guerre si è ricostituito un nuovo sistema di Stati. Non ho analizzato quest’ultimo sistema, in quanto questo implicherebbe analizzare le dinamiche sociali dei singoli paesi, o gruppi di paesi, sia internamente che internazionalmente, in questi ultimi settant’anni, ma ho solo ipotizzato una sorta di quadro, una “cornice” in cui l’analisi di queste dinamiche sociali potrebbero essere inscritte. Cerco di fornire solo dei punti di riferimento in cui collocare queste analisi. È il massimo che sono in grado di fare. Non dico nulla, relativamente alla situazione attuale, né dell’Europa, né della Cina, né del Medio oriente, o di altri paesi. Mi dilungo (poco) sugli Stati uniti per motivi che spero risultino chiari dalla lettura di quanto segue. Infine non dico neppure una parola sulla dinamica della lotta di classe a livello mondiale: per questo ci vorrebbe uno studio voluminoso come quello che avete tra le mani, ma spero in futuro di scrivere qualcosa di sensato a questo proposito. Pur con tutti questi vistosi limiti mi sono azzardato lo stesso a dare una risposta alla domanda iniziale. Non penso però di essermi scostato molto dalla risposta vera. 1 Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (1). Una cronaca. “Imperialismo”, alla fine dell’800, è una parola relativamente nuova, e viene utilizzata non solo in modo analitico, per dare una categoria generale alle politiche e alle guerre coloniali delle grandi potenze, ma anche come slogan, come programma politico – per una “più grande Germania”, per una ”più grande Britannia”. C’è qualcosa di nuovo nelle politiche governative d’Europa, a partire dalla metà dell’ ‘890, e “imperialismo” è il vocabolo con cui lo si etichetta. Il colonialismo, invece, è di lunga data. Senza voler risalire al vecchio colonialismo di Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra e Francia, che si snoda dalla fine del XV secolo alla fine del XVIII, la grande espansione coloniale delle grandi potenze europee precede l’ultimo decennio dell’ ‘800. Questa espansione è per lo più inglese, ma anche francese a partire dal 1830 e tardivamente tedesca (dagli anni ‘880). Ma questa espansione coloniale era talvolta fatta da pugni di avventurieri, le cui conquiste erano poi più o meno riluttantemente sancite dagli Stati madre di questi elementi, talaltra erano condotte in prima persona dagli Stati, ma in certi casi in funzione delle particolari configurazioni delle relazioni internazionali (come ad es. le politiche delle varie nazioni verso la cosiddetta “Questione d’Oriente”, ovvero le politiche condotte nei confronti dell’Impero ottomano), mentre in altri casi erano espressione degli strati sociali più reazionari, in contrasto agli interessi industriali, per i quali le colonie erano “una pietra al collo” – militari, burocrati, grandi proprietari terrieri aristocratici, sia che fossero inquadrabili come una vecchia borghesia, come in Inghilterra, o come una sopravvivenza precapitalista e semifeudale come in Germania. È in questi termini che Kautsky nel 1898 caratterizza ancora il “nuovo colonialismo” ottocentesco. Dagli anni ‘880 tuttavia, ad opera di Engels, viene aggiunto un ulteriore strato sociale ai reazionari fautori della politica coloniale: gli speculatori di Borsa. Aggiunta tuttavia problematica. Kautsky l’aggiunge puramente e semplicemente alle altre forze reazionarie che conducono una politica contraria agli interessi industriali. A considerare le cose più a fondo, si trova che la nuova fase della politica coloniale non è dettata dalle esigenze dello sviluppo industriale, ma da interessi di classe che contrastano con la spinta del progresso economico e da sistemi politici che ostacolano lo sviluppo civile. In altre parole, come la politica protezionistica, anche l’attuale politica coloniale è sostenuta dalle forze reazionarie. Per lo sviluppo economico essa è del tutto inutile, se non addirittura dannosa; non è promossa dell’Inghilterra, ma dalla Francia, dalla Germania, dalla Russia e se l’Inghilterra vi partecipa è per necessità e non per naturale tendenza, per ragioni di difesa e non per aggressività. […] I veri responsabili di questa nuova fase del colonialismo sono i militari, impazienti di agire e di avanzare nella carriera, i burocrati, che sospirano un aumento di posti lucrosi, una politica economica fallimentare che ha strappato alla terra tanti contadini e spinto tanti figli di grandi proprietari a cercare impieghi che richiedono poca cultura, ma molta potenza; e inoltre la crescente avidità della chiesa, che vuole acquistare potere e ricchezze anche nelle contrade selvagge, riuscendoci più facilmente con l’appoggio dello stato; e infine il sempre maggior potere dell’alta finanza, per la quale diventa sempre più necessario allargare i propri affari fino alle terre più lontane. Ma funzione della Borsa (l’ “alta finanza” nella prosa di Kautsky) è ben diversa per Engels – la Borsa è addirittura Il rappresentante più notevole della produzione capitalistica […] la Borsa modifica la distribuzione nel senso della centralizzazione, accelera enormemente la concentrazione dei capitali ed in questo senso è altrettanto rivoluzionaria della macchina a vapore. L’alta finanza è una forza parassitaria opposta agli interessi industriali o l’alfiere di questi stessi interessi? Come che sia, che l’Inghilterra non potesse essere considerata “pacifica” in quanto prima potenza industriale – e in cui gli interessi industriali primeggiavano a livello politico – fu inequivocabile solo un anno dopo l’uscita del saggio di Kautsky quando scoppiò la guerra anglo-boera e il “jingoismo” in Inghilterra; ma già un anno prima vi era stata la guerra americano-spagnola, con la conquista da parte statunitense (paese sì protezionista, ma anche 2 potenza industriale emergente, già allora più o meno pari a quella inglese) di Portorico, Cuba e Filippine. Kautsky fece ammenda e riconobbe che qualcosa di nuovo c’era, e doveva essere capito. Fintanto che le guerre coloniali erano identificate con la reazione non c’erano problemi a livello politico: “non un uomo né un soldo” era la parola d’ordine del movimento operaio in tutta Europa; e di fronte all’avventura italiana in Africa Turati nel 1896 scriveva Ciò che sembra il meglio per noi e il meglio per tutti… è che le nostre armi e la nostra bandiera… siano battute così solennemente da togliere ai manigoldi, che ci guidano in quelle forre maledette, non tanto la velleità – ché questo è impossibile – ma la possibilità morale di ricominciare. Noi desideriamo ed auguriamo questa batosta sintetica e risolutiva Ma se invece l’imperialismo non fosse la reazione, ma il progresso del capitalismo, che fare? Come scriveva la Luxemburg nel 1913 e ancora nel 1915 era necessario Identificare sotto [il] groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del processo economico […] determinare in forma esatta le leggi economiche di questo intreccio di fenomeni, scoprire la radice vera del grande e variopinto insieme di manifestazioni dell’imperialismo Bauer, nel 1909, sintetizza in modo efficace il “nuovo imperialismo” e introduce alcuni dei nessi causali che per i socialisti spiegano l’insieme dei nuovi fenomeni. Recinzione di territori economici con alte tariffe, al cui riparo si sono formati potenti cartelli e trust; orientamento in modo sistematico della concorrenza nei mercati liberi, grazie ai ricchi surplus dell’economia interna cartellizzata; promozione in modo sistematico degli investimenti di capitale nei paesi stranieri ancora non-capitalisti, e orientamento della concorrenza nelle opportunità di investimento ad opera degli Stati, i cui monarchi e ambasciatori appaiono in terre straniere come agenti delle grandi banche; espansione e saccheggio delle colonie, intervento degli stati capitalisti negli affari interni delle terre più distanti al fine di preparare le condizioni per successive acquisizioni coloniali; enorme aumento degli armamenti su terra e mare; costante reiterazione delle minacce di ricorrere alle armi nella lotta concorrenziale capitalistica; l'atmosfera di guerra e il pericolo di guerra costantemente generati da queste minacce; l'infezione contagiosa di grandi masse popolari da parte di una cinica ideologia nazionalista, che rifugge da qualsiasi etica, tradisce tutti i valori culturali e non ha nulla in comune con le vecchie idee nazionali se non il nome - queste sono le caratteristiche più importanti delle tendenze che riassumiamo sotto la nozione di imperialismo. Cartelli, trust, monopoli, banche, surplus di capitali, investimenti esteri. Questo, e altro ancora, verrà utilizzato per capire l’epoca iniziata sul finire dell’ ‘800. Ma per il momento limitiamoci ai dati di fatto: protezionismo, corsa alle colonie fatta propria da tutte le grandi potenze e conseguenti guerre coloniali, “la violenza, la frode, l’oppressione, la rapina, la guerra” (Luxemburg), corsa agli armamenti (l’inizio del “marinismo”, come si diceva allora, tedesco è del 1898), tensioni internazionali derivate dalla concorrenza coloniale (l’incidente di Fashoda, tra Francia e Inghilterra, nel fatidico 1898, e poi le tensioni anglo-americane per il Venezuela), il “socialimperialismo”, l’imperialismo come ideologia, lo “spirito di violenza e di volgarità” (Kautsky), in grado di mobilitare settori di massa, anche proletari. Tutto questo hanno davanti agli occhi i socialisti, nel fatidico biennio 1898-1899. E nelle teste hanno una radicata convinzione: il capitalismo ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e il suo crollo – economico, politico, o al contempo l’uno e l’altro – è imminente (e d’altronde a metà degli anni ‘890 l’Europa aveva alle spalle vent’anni di crescita zero, in senso letterale; e se gli Stati uniti erano cresciuti in quegli anni, nel 1893-96 erano in preda a una grave crisi). I più fervidi sostenitori del collasso, del crollo, del crack sono il vecchio Liebknecht, Bebel, Mehring, Kautsky, Bax, la Luxemburg, Parvus, Radek. Così Andreucci, nel 1988, ricrea quell’atmosfera: 3 Il 1° gennaio 1901 si discuteva sul relativo differimento del “crollo” e sugli elementi che ne stavano ritardando il compimento, ma il 1900 era ugualmente definito “Das Jahr des Zerfalls” (l’anno della caduta) poiché “Ogni pagina della sua storia è coperta dalle orme di una inarrestabile decadenza”. E’ difficile rendere appieno il senso della diffusione di questa idea nella letteratura socialista di fine secolo, un’idea che segna in modo indelebile tutti o quasi tutti i giudizi sull’età contemporanea. Termini come Sturz, Zerfall, Zusammenbruch, Katastrophe, Bankrott, Niedergang (e in altre lingue breakdown, décadence, ecc.) sono comunissimi e frequentissimi per delineare le caratteristiche generali degli anni di fine secolo. Nel 1911, in uno dei momenti più acuti di tensione internazionale, il vecchio Bebel proclamava al Reichstag: E poi sopravviene la catastrofe. Allora verrà dato l’ordine del Generalmarsch, e da sedici a diciotto milioni di uomini, il fiore della gioventù europea, armati dei migliori strumenti di morte, verranno gettati sul campo, l’uno contro l’altro come nemici. Ma, secondo il mio modo di vedere, dopo il grande massacro verrà il Kladderadatsch [grande cataclisma]… Esso non verrà per mezzo nostro, verrà per causa di voi stessi. Voi tendete l’arco al massimo. Voi andate incontro a una catastrofe. Finora non avete visto nulla al confronto, ma vivrete e sarete testimoni di ben altro... Raccoglierete ciò che avete seminato. Il crepuscolo degli dei del mondo borghese sta avvicinandosi! Siatene certi, sta già arrivando. Oggi state distruggendo il vostro ordine politico e sociale. E quale sarà la conseguenza? Questa guerra significherà bancarotta generale, miseria di massa, disoccupazione di massa, grande carestia. [Proteste dalla destra]. Volete negarlo? ... Chiunque osservi gli eventi oggettivamente non può negare la veridicità di questa affermazione. Cosa ha mostrato quest'estate il piccolo affair marocchino? Corsa alle banche di risparmio, crollo della borsa, allarme nelle banche! Quello era solo un piccolo inizio; in realtà, non era nulla! Cosa succederà quando le cose diventeranno davvero serie? Avverranno cose che voi di certo non volete, ma avverranno lo stesso, necessariamente, ripeto, non per mezzo nostro, ma per causa di voi stessi. Discite moniti! Nuovi fatti e vecchie convinzioni – combinati hanno dato luogo alla teoria per cui l’ “imperialismo” era una fase del capitalismo per tenerlo artificialmente in vita, dopo la fine della sua “spinta propulsiva”. Così Bax, a cavallo tra ‘800 e ‘900, così Kautsky nel 1907, e ancora la Luxemburg nel 1913. Che l’imperialismo fosse una fase del capitalismo già si era detto a Magonza, nel 1900, al congresso della SPD; e all’interno di una visione crollista del capitalismo era ovvio che l’ “ultima” fase era sinonimo di fase “finale”. Così – tenendo a mente che in Germania per nominare l’imperialismo si usava il termine Weltpolitik, “politica mondiale” – Mehring titolava un suo saggio del 1900 “La politica mondiale del capitalismo morente”, e Liebknecht, lo stesso anno, poco prima di morire, titolava un suo discorso “Potere mondiale e crack mondiale” e definiva in modo suggestivo la Weltpolitik: la danza della morte dell’attuale società che ha giocato le sue ultime carte e che ha proclamato il proprio fallimento Vi era anche chi, nel movimento socialista, non si riconosceva in quest’ottica crollista, e nel 1907 emersero, al congresso internazionale di Stoccarda, come la maggioranza dei delegati delle grandi potenze coloniali, pur risultando, nel complesso del congresso, di poco minoritari. Per loro il colonialismo era una nuova fase di espansione capitalistica, che dimostrava la sua vitalità e che la sua missione storica non era ancora terminata. E così come il movimento operaio non poteva essere contro l’introduzione di nuovo macchinario più produttivo (pur se usato capitalisticamente), non poteva egualmente essere contro le colonie in sé – ma semmai contro il loro modo di conquista e di conduzione. La loro parola d’ordine era “per una politica coloniale socialista”, contro il negazionismo politico che a loro avviso caratterizzava la maggioranza internazionale e la minoranza tedesca il cui esponente più conosciuto era Kautsky (ma che annoverava altri brillanti teorici come la Luxemburg, Parvus, Lensch, Pannekoek, Karski, e così via). Dibattito intricato, e tanto violento quanto intricato, con un Bebel impegnato a non far esplodere il partito, mediando a parole tra posizioni di fatto inconciliabili, e in questo compito lasciandosi andare ad alcune espressioni infelici. Almeno fornì l’occasione a Kautsky di ricordare che la storia non procedeva in modo piattamente unilineare, rigidamente a stadi, per cui tutti i paesi del mondo dovevano prima passare la fase capitalista per poter giungere al socialismo (argomento decisivo per i sostenitori della “politica 4 coloniale socialista”), ma che in una serie di regioni del mondo si potevano “saltare” fasi storiche con condizioni internazionali favorevoli, dopo una vittoriosa rivoluzione proletaria in Europa. E fornì sempre a Kautsky l’occasione di scrivere pagine memorabili sull’ “etica del proletariato”: La morale non è una forza che stia fuori o sopra la società: al contrario, emana da essa e muta col mutare delle sue esigenze che per di più si diversificano tra le varie classi sociali. Ognuna ha il suo particolare codice etico. È un’arma senza la quale una classe non può lottare per la sua esistenza: un’arma adeguata alle sue particolari condizioni di vita, che deve conservare fedelmente e rispettare per poter affermarsi e sviluppare interamente le sue energie. Dunque anche il proletariato ha una sua morale, ne sente necessariamente il bisogno. […] Il preteso diritto della civiltà superiore è una mistificazione morale indispensabile al capitalismo così come la prerogativa della vera religione lo era per le classi feudali dominanti, specie al tempo del passaggio alle strutture capitalistiche. In ogni paese questa morale viene spacciata come sanzione del superiore diritto della classe padronale sul proletariato; per quanto riguarda gli altri popoli da sfruttare, essa non fa in pratica che ratificare il diritto dei paesi capitalisti a dominare sull’intera umanità. Il proletariato non può condividere un’etica di questo tipo senza legittimare il proprio sfruttamento e sconfessare la sua lotta di emancipazione. […] Non si è mai ancora verificato che una classe dominante tutrice abbia elevato le masse egemonizzate a un più alto grado di maturità e all’indipendenza: ciò è accaduto sempre contro e non per merito loro. […] L’istinto morale ispira al proletariato ripugnanza contro ogni forma di dominio di razza o di classe, contro ogni oppressione straniera, e la ricerca scientifica dei fattori dello sviluppo delle forze produttive dimostra che questo istinto è giusto: dimostra che, per il tipo delle sue aspirazioni, il proletariato è una classe i cui interessi permanenti coincidono oggi con quelli di tutta la società […] Il proletariato ha il dovere di opporsi energicamente alla conquista di nuove colonie in generale, ma con altrettanta fermezza deve appoggiare ogni movimento dei popoli coloniali verso la propria indipendenza. Il nostro obiettivo deve essere: rinuncia alle colonie e liberazione dei popoli coloniali. […] Il proletariato vittorioso non svolgerà mai, neppure nei paesi ancor oggi occupati come colonie, il ruolo di classe dominante, ma rifiuterà ogni forma di dominazione straniera. Esso non può essere libero se non rende libera l’intera umanità. Di qui viene la sua grandezza e il fascino potente esercitato fin dall’inizio dalla sua spinta emancipatrice, dalla sua lotta di classe, su tutti gli spiriti più grandi e lungimiranti. Ed è in questo segno che esso vincerà. Il dibattito nell’SPD rimase irrisolto fino al 1911, quando altri elementi emersero, e che fecero evolvere (o piuttosto involvere) gli assetti politici interni, con la rottura nella sinistra del partito e con la formazione di un “centro” capeggiato da Kautsky, “centro” tatticamente alleato con la destra. L’ottica crollista, fosse essa strettamente economica, o più direttamente politica, come espresse Kautsky dal 1905-1907 con la caratterizzazione del periodo contemporaneo come un’ “epoca di guerre e rivoluzioni”, permise di riconciliare opposizione totale al colonialismo e il riconoscimento che la politica coloniale era espressione delle forze capitaliste più moderne e avanzate. L’ottica crollista riuscì anche a venire a patti con la sostanziosa ripresa economica a partire dalla metà degli anni ‘890, grazie al primissimo riconoscimento da parte di Parvus di quella che anni dopo venne conosciuta come un’ “onda lunga” espansiva, successiva alla grande depressione. Parvus, prima nel 1896 e poi nel 1901, affermò che era iniziato un periodo di Sturm und Drang capitalistico e che l’espansione coloniale ne era una delle espressioni. In questi saggi Parvus predice un rovesciamento futuro di quest’onda espansiva, e il suo tramutarsi in un’altra onda depressiva, e nel 1907 – considerando la crescita delle tensioni internazionali tra i paesi imperialisti e la crescita incontrollabile della corsa agli armamenti – affermò che quando la congiuntura avrebbe raggiunto il punto di svolta, il collasso politico capitalistico si sarebbe manifestato con lo scoppio di una guerra mondiale, prologo della rivoluzione sociale. E’ probabilmente in riferimento a queste teorizzazioni di Parvus che Trotsky affermerà più volte che l’elemento scatenante della guerra mondiale fu la crisi economica del 1913. 5 La riconciliazione tra l’ipotesi della fine della “spinta propulsiva” del capitalismo fin dagli anni ‘880 e il periodo di Sturm und Drang capitalistico a partire dagli anni ‘890 non era tuttavia uno dei compiti più agevoli da risolvere. Kautsky nel 1907 teorizza così che il capitalismo diventa sempre più ostacolo relativo alla crescita della produttività – nel senso che un’altra organizzazione sociale ne permetterebbe una ben maggiore crescita – e che la stessa dinamica capitalista fa sì che questo ostacolo diventi sempre maggiore (e di conseguenza in un futuro più o meno distante sarebbe diventato anziché relativo un ostacolo assoluto). Il capitalismo nasconde “il suo aspetto decrepito dietro una parvenza di giovanile vigore”. Riprendiamo i dati di fatto già riportati: protezionismo, corsa generalizzata alle colonie, dove la popolazione viene sfruttata in modo coercitivo e massacrata se si ribella, tensioni tra le grandi potenze sulla ripartizione coloniale, corsa agli armamenti, imperialismo come ideologia di massa, periodo di Sturm und Drang economico. Altri dati di fatto: sviluppo impetuoso delle ferrovie nei paesi coloniali e semicoloniali, e quindi esportazione di capitali in questi paesi, esportazioni di merci in questi stessi paesi, e altri investimenti per piantagioni e miniere, con una massa di materie prime dirette verso le grandi potenze. Quali le connessioni? Quali i pesi specifici da dare a ogni elemento? Quali i nessi causali? E in ultima analisi, quali prospettive e quali politiche adottare? Si possono individuare tre o quattro linee di ragionamento e di spiegazione. Secondo la Luxemburg, nella sua opera del 1913 e del 1915, astraendo dai cicli economici, la condizione fondamentale per la crescita capitalistica è l’aumento permanente di mercati di sbocco non capitalistici – prima in patria, e poi nella sfera internazionale: mercati non “esteri”, ma “esterni” alla sfera di relazioni capitaliste. Ma l’accumulazione di capitale che viene consentita da una domanda non capitalista porta a sua volta a una espansione delle relazioni sociali capitaliste, e quindi distrugge le condizioni che l’avevano resa possibile; la fase successiva di accumulazione richiederà quindi nuovi mercati non capitalisti su scala più ampia. In tale modo la dinamica capitalista si svolge come una spirale sempre più ampia, da un lato avvicinandosi sempre più alla propria fine, e dall’altro acuendo tutte le contraddizioni sociali e internazionali. Questa legge è immanente al capitalismo fin dalla sua nascita, ma solo circa dal 1890 diventa il fattore determinante e dominante di tutta vita sociale. Se dunque il capitalismo vive di formazioni non-capitalistiche, vive però – per essere più precisi – della loro rovina, e se ha incondizionato bisogno per la sua accumulazione di un ambiente non-capitalistico, ne ha bisogno come di un terreno di sviluppo a spese del quale, mediante il cui dissanguamento, compiere l’accumulazione. Vista storicamente, l’accumulazione del capitale è un processo di ricambio organico svolgentesi fra il modo di produzione capitalistico e quelli non-capitalistici. Senza di essi l’accumulazione del capitale non può effettuarsi, ma, vista in questa luce, l’accumulazione consiste nella loro erosione e assimilazione. L’accumulazione del capitale non può esistere senza le formazioni non-capitalistiche, ma queste, a loro volta, non possono coesistere con lei. […] Il capitalismo è la prima forma economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca in sé la tendenza immanente a espandersi in tutto il mondo e a espellere tutte le altre forme economiche; una forma che non ne tollera altre accanto a sé. Ma nello stesso tempo la prima che non può esistere da sola, senza altre forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s’infrange contro l’incapacità intrinseca a essere una forma mondiale di produzione. È una vivente contraddizione storica; il suo moto di accumulazione è insieme l’espressione, la soluzione continua e il potenziamento di un’antitesi interna. A un determinato grado del suo sviluppo, questa contraddizione non può essere risolta altrimenti che dal socialismo – cioè da quella forma economica che è insieme forma mondiale per essenza e sistema in sé armonico, in quanto rivolto non all’accumulazione, ma al soddisfacimento dei bisogni di vita dell’umanità che lavora, mediante lo spiegamento di tutte le forze produttive della terra. Secondo Hilferding, nella sua opera del 1910, l’accumulazione non richiede sempre nuovi mercati non capitalisti, e problematizza invece il passaggio da una accumulazione nazionale ad una internazionale (per la Luxemburg questo passaggio non costituiva un problema – era solo una questione di scala, di grado quantitativo dell’accumulazione stessa). Hilferding, analizzando la realtà tedesca e statunitense, sostiene che lo sviluppo della 6 concentrazione capitalista porta inevitabilmente alla formazione di cartelli, trust e monopoli più o meno tendenziali o reali in senso stretto; che questa formazione permette il superamento della libera concorrenza, con la limitazione della produzione per mantenere artificialmente alti i prezzi dei propri prodotti nel mercato interno (naturalmente questo presuppone l’esistenza di un sistema protezionistico generalizzato e permette una politica di dumping nell’esportazione – per questo Hilferding caratterizza il nuovo sistema protezionistico come un sistema offensivo, come uno strumento di conquista dei mercati esteri). Questo comporta una limitazione alle possibilità di investimento in patria, creando così un surplus di capitali che ricercano a livello internazionale un impiego redditizio. Così, se per la Luxemburg alla base dell’imperialismo vi è il generalizzarsi alla massima scala possibile della ricerca di mercati di sbocco, per Hilferding vi è invece il generalizzarsi della ricerca di campi esteri di investimento redditizi – non esportazione di merci, ma esportazione di capitali. Si può comunque dire che per entrambi l’internazionalizzazione del capitale è alla base del “nuovo imperialismo”, anche se la catena causale che porta a questa internazionalizzazione è diversa nelle due visioni. Questa internazionalizzazione viene identificata con lo sviluppo delle relazioni sociali capitaliste nel mondo non capitalista, che comporta di necessità un colonialismo aggressivo e violento, perché solo con la forza si possono distruggere le realtà non capitaliste e in tal modo “liberare” i lavoratori asiatici e africani per trasformarli in lavoratori salariati. Hilferding in aggiunta rileva che il processo di concentrazione capitalistica avviene anche in ambito bancario, a tal punto che quest’ultimo riesce a sottomettersi le grandi società per azioni industriali e commerciali, monopolistiche o associate in cartelli. È questo “capitale unificato” quello che Hilferding definisce capitale finanziario, con un potere immenso sull’organizzazione e la pianificazione di settori economici sempre più ampi, e in grado di orientare la politica statale secondo i propri desiderata. Un pugno di oligarchi, di magnati dell’alta finanza decidono i destini dei rispettivi paesi – nelle parole di Lenin “poche centinaia di finanzieri, veri re della moderna società capitalista”. Il capitale finanziario nella sua forma più compiuta implica il completo dominio dell’oligarchia capitalistica sul potere politico ed economico. Esso è la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale. Ma appunto perciò la dittatura dei capitalisti che dominano uno Stato entra in contrasto sempre più aspro con gli interessi capitalistici degli altri Stati; e ciò mentre, all’interno, la signoria del capitale si fa sempre più incompatibile con gli interessi delle masse popolari sfruttate dal capitale finanziario, ma perciò anche sollecitate alla lotta. Nello scontro violento degli inconciliabili interessi, la dittatura dei magnati del capitale si rovescia, infine, nella dittatura del proletariato. Lenin riprende tutte le elaborazioni di Hilferding (salvo, nella sua definizione di capitale finanziario, porre su un piano di parità capitale bancario e industriale, anziché un rapporto di subordinazione del secondo rispetto al primo), ma si differenzia su alcuni punti. In primo luogo, alla base dell’internazionalizzazione del capitale, anziché vedere un surplus relativo di capitale causato dall’organizzazione monopolista, vede piuttosto un surplus assoluto di capitale, in una visione più vicina a quella luxemburghiana che vede l’internazionalizzazione come una questione di scala di grandezza, ma a differenza di Luxemburg afferma la centralità della redditività dei capitali che vanno all’estero, del maggior profitto che vi ricercano e che vi ottengono. In secondo luogo, anziché rilevare il potere di organizzazione e pianificazione economica del capitale finanziario, ne sottolinea proprio l’opposto, cioè il parassitismo dello strato sociale che lo incarna, costituito da meri rentiers (che “saccheggiano tutto il mondo mediante il semplice ‘taglio delle cedole’”), e che domina un sistema industriale che in quanto monopolistico blocca lo sviluppo tecnologico e conduce alla stasi economica, settoriale o temporaneamente generale, e a uno sviluppo sempre più diseguale. Lenin, al pari di Luxemburg e Hilferding, identifica l’internazionalizzazione del capitale con lo sviluppo delle relazioni sociali capitaliste nel mondo non capitalista. Tutti e tre questi autori sottolineano che le cause economiche dell’imperialismo, sono dei veri e propri imperativi, necessità economiche. Per loro l’imperialismo non è una opzione politica fra molteplici, ma è l’unica incarnazione possibile del capitalismo a partire dalla fine dell’800. Diversamente Kautsky, negli ultimi anni prima della Grande guerra, riconduce l’imperialismo e la corsa agli armamenti a una scelta possibile da parte della borghesia, ma non obbligatoria, in quanto l’imperialismo e il militarismo non gioverebbero al complesso industriale 7 del paese colonizzatore, ma solo alla sua frazione legata alla produzione pesante, e che partecipa alla corsa degli armamenti. Per questo sosteneva che compito della socialdemocrazia era condurre una battaglia internazionale per la limitazione della corsa agli armamenti, limitazione realistica in quanto corrispondente agli interessi di una serie di settori borghesi, contro l’avviso di chi invece riteneva una simile iniziativa mistificatoria, in quanto il militarismo era una caratteristica imprescindibile dell’imperialismo – per gli oppositori di sinistra di Kautsky (non Lenin, che al tempo aveva preso posizione a suo favore) era necessaria una lotta intransigente contro l’imperialismo in quanto tale, senza illusioni della sua “riformabilità”. Sugli interessi solo “settoriali” della borghesia nell’imperialismo Radek scriveva nel 1912: I più ampi circoli delle industrie manifatturiere e del commercio, che lavorano per il mercato interno o che traggono i loro profitti dagli scambi con i paesi capitalisti stranieri, non hanno alcun interesse [nella politica coloniale]. Il loro numero è di gran lunga superiore a quello delle sezioni dell'industria che lavorano per le colonie e i per i paesi non civilizzati. La politica imperialista ostacola il loro sviluppo perché perpetua le tariffe protezioniste, aumenta l'onere militare e, a più riprese, sconvolge il mercato mondiale con minacce di guerra. Ma non sono in grado di resistere alla politica imperialista, perché a loro appare come la politica che corrisponderà ai loro interessi in futuro. Oggi, i cinque sesti delle esportazioni tedesche vanno verso i paesi capitalisti sviluppati. Ma tutti gli strati della borghesia si chiedono: cosa succederà domani? Tutti i paesi stanno sviluppando la propria industria; non ci saranno allora per noi mercati sempre più ristretti? Anche se le terre coloniali sono oggi così poco sviluppate, non è forse indispensabile svilupparle in modo che possano diventare in futuro un mercato pronto per l'industria domestica?... [E poi, tutto sommato, sono] le masse popolari che coprono la maggior parte del bilancio degli stati capitalisti attraverso le imposte indirette. E, infine, come può vivere la borghesia senza il sogno coloniale; che cosa può contrapporre alle richieste sempre più forti di socialismo delle masse popolari? […] Per le classi istruite, che non hanno alcuna partecipazione alla produzione e vivono di briciole che cadono dal tavolo della borghesia, l'imperialismo è anche l'unica ideologia possibile… Adorazione della personalità spietata e forte: questa è la visione del mondo più comune tra questi circoli… In quale altro luogo la “personalità” borghese trova oggi un'espressione più spietata che nelle colonie? E se la grigia vita borghese disgusta l'intellettuale, dove vede delle persone che non si fermano davanti alle avventure e che vivono la vita “al massimo”, indipendentemente dai costumi, dalle leggi e dall'ipocrisia della patria? Nelle colonie! In tal modo l'imperialismo cattura uno strato borghese dopo l'altro; li fissa al suo carro e celebra la sua processione trionfale in tutto il mondo. […] Quindi vediamo nell'imperialismo una politica corrispondente agli interessi della moderna industria pesante e di una parte dell'industria manifatturiera, nonché del capitale finanziario; una politica che appare al capitale come l'unica salvezza dalle difficoltà minacciate dal suo stesso ulteriore sviluppo e che attrae gli strati istruiti della borghesia in quanto unica visione “totale” del mondo. La politica imperialista non è associata agli interessi del popolo, ma a quelli del capitale nella sua ultima fase di sviluppo. E in un altro scritto dello stesso anno, Radek specificava: l’alternativa “tutto o niente”, socialismo o imperialismo devastatore, non è un’alternativa da offrire – come per gli anarco-sindacalisti – o da deridere, – come per i realisti della politica, – ma è una alternativa obiettivamente posta dal capitalismo. Il capitalismo gioca d’azzardo, e a trattenerlo da questo gioco pericoloso non vale alcun buon consiglio, perché tutte le circostanze ve lo trascinano… L’imperialismo è una malattia incurabile del capitalismo, che minaccia di contaminare il mondo. Infine Kautsky, sviluppando un punto presente nell’analisi di Hilferding (su cui sia Lenin che Bucharin concordavano, ma con sviluppi in quest’ultimo del tutto fantasiosi) – la tendenza alla costituzione di cartelli internazionali – ipotizza degli accordi internazionali proprio a partire dai livelli sempre più ampi della concentrazione capitalistica, che porterebbero alla cancellazione dei conflitti interimperialisti e alla pace in un regime che definisce “ultraimperialista” (per il Lenin del 1916 una “ultrastupidaggine”). 8 L’opera del 1910 di Hilferding venne da tutti acclamata, quella del 1913 della Luxemburg venne da tutti criticata e derisa (in particolare da Bucharin, che nel 1924 scrisse un’opera disgustosa a sanzione della sua alleanza di ferro con Stalin, un contributo alla violentissima campagna antiluxemburghista allora in corso nel KPD e nell’Internazionale comunista), e quella del 1916 di Lenin venne citata quasi fosse un vangelo sulla terra. L’opera del 1907 di Parvus, quella dello stesso anno di Kautsky, quella del 1912 di Radek, e i molti saggi e interventi che apparvero tra il 1898 e il 1914, finirono invece tutti dimenticati. Fu un dibattito soprattutto tedesco, ma non solo. Al programmato Congresso dell’Internazionale socialista del 1914 (si sarebbe dovuto tenere a Vienna in agosto) all’ordine del giorno vi era anche l’imperialismo, e uno dei relatori su questo punto avrebbe dovuto essere Jaurès – ma, come si sa, Jaurès venne assassinato il 31 luglio, e il 1° agosto iniziava la Grande guerra, che non mobilitò tra i sedici e i diciotto milioni di uomini, come ipotizzava Bebel nel 1911, ma circa settanta, con un bilancio finale, solo per i soldati, di dieci milioni di morti e più di venti milioni di feriti. L’orrore scorre nelle pagine della Luxemburg, datate 1916: le belve feroci, che erano state scatenate dall’Europa capitalistica su tutte le altre parti del mondo, sono saltate con un balzo in mezzo all’Europa […] è l’eccidio in massa del proletariato europeo… Milioni di vite umane vengono annientate nei Vosgi, nelle Ardenne, nel Belgio, in Polonia, sui Carpazi, sulle rive della Sava, altri milioni di uomini vengono mutilati. Ma questi milioni sono composti per nove decimi dal popolo lavoratore della città e della campagna. È la nostra forza, la nostra speranza, che viene falciata colà giorno per giorno a schiere, come l’erba sotto la falce. Sono le forze migliori, più intelligenti e più istruite del socialismo internazionale, i portatori delle più sacre tradizioni e del più audace eroismo del movimento operaio moderno, le truppe d’avanguardia di tutto il proletariato mondiale: i lavoratori d’Inghilterra, della Francia, del Belgio, della Germania, della Russia, che ora vengono imbavagliati e massacrati in massa... per l’avanzata e la vittoria del socialismo è necessario un proletariato forte, attivo, istruito, sono necessarie masse la cui forza risieda tanto nella loro preparazione spirituale quanto nel loro numero. E proprio queste masse vengono decimate nella guerra mondiale. Il fiore dell’età virile e la forza della giovinezza, centinaia di migliaia d’uomini, la cui preparazione in Inghilterra e Francia, in Belgio, Germania e Russia, fu il prodotto di un lavoro di educazione e di agitazione durato decenni, altre centinaia di migliaia che sarebbero stati conquistati domani alla causa del socialismo, cadono e imputridiscono miseramente sui campi di battaglia. Il frutto di sacrifici decennali e delle fatiche di generazioni viene annientato in poche settimane, le truppe scelte del proletariato internazionale vengono strappate alla vita. Con la realtà prima descritta sullo sfondo, che bilancio trarre da questo dibattito sull’imperialismo? 9 Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (2). Un bilancio. Engels, poco prima di morire, nel 1895, scriveva delle parole di cautela: Nel giudicare avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai in condizione di risalire sino alle cause economiche ultime. Persino oggi che la stampa tecnica specializzata fornisce un materiale così ricco non è possibile nemmeno in Inghilterra seguire giorno per giorno il corso dell’industria e del commercio sul mercato mondiale e i mutamenti che sopravvengono nei metodi di produzione, in modo da poter in qualsiasi momento fare il bilancio generale di questi fattori multiformi, complessi e in continua mutazione, fattori di cui i più importanti, inoltre, agiscono a lungo e in modo latente prima di erompere improvvisamente e violentemente alla superficie. Una netta visione della storia economica di un periodo determinato non può mai formarsi contemporaneamente, ma solo successivamente, dopo che sia stato raccolto e studiato tutto il materiale. La statistica è qui un ausiliare necessario e arriva sempre in ritardo. Per la storia contemporanea corrente si è quindi costretti anche troppo spesso a considerare questo fattore, che è il più decisivo, come costante, ad assumere come data e immutabile per l’intero periodo la situazione che si riscontra all’inizio del periodo considerato, o a prendere in considerazione soltanto quei mutamenti di questa situazione che sporgano da avvenimenti che sono manifesti e che perciò si presentano essi pure in modo aperto. Il metodo materialistico dovrà perciò limitarsi anche troppo spesso a ricondurre i conflitti politici a lotte di interessi delle classi sociali e delle frazioni di classe preesistenti, determinate dalla evoluzione economica, e ravvisare nei singoli partiti politici l’espressione politica più o meno adeguata di queste stesse classi o frazioni di classe. È evidente che tale inevitabile noncuranza verso quei mutamenti della situazione economica – base vera di tutti gli avvenimenti che si devono indagare – che si producono durante gli avvenimenti stessi non può essere che una fonte di errori. Ma tutte le condizioni di una esposizione sintetica della storia contemporanea racchiudono in sé inevitabilmente fonti di errori, il che però non impedisce a nessuno di scrivere la storia contemporanea. Citando queste righe, Trotsky nel 1923 aggiungeva che È un compito molto difficile, impossibile da risolvere nella sua totalità, determinare quegli impulsi sotterranei che l’economia trasmette alla politica odierna; e tuttavia la spiegazione dei fenomeni politici non può essere ritardata perché la lotta non ce lo permette. Da qui nasce la necessità di ricorrere nell’attività politica quotidiana a spiegazioni così generali che attraverso un largo uso sembrano essere diventate verità. Fin tanto che l’accumulazione di quantità economiche non provochi un cambiamento di qualità politica, questo tipo di astrazioni chiarificanti (“gli interessi della borghesia”, “l’imperialismo”, “il fascismo”) serve ancora più o meno al suo compito; non interpreta un fatto politico in tutta la sua profondità, ma lo riduce ad un tipo familiare che è, sicuramente, di inestimabile importanza. Sono di buon senso queste parole del vecchio Engels e di Trotsky, che devono servirci da guida nello stilare un bilancio del dibattito del 1898-1916 sull’imperialismo. Questo dibattito si svolse su un termine, un’astrazione, “l’imperialismo”, che era proteiforme, dai confini indefiniti, e si identificava con il capitalismo contemporaneo, quindi con tutta la realtà contemporanea. Aveva aspetti strettamente economici; si inseriva nelle elaborazioni più o meno compiute di Marx, anche nei suoi aspetti più “ostici”; faceva battagliare attorno al tema dell’antimilitarismo, delle milizie e della valutazione se era possibile una riduzione degli armamenti; gettava lo sguardo nel futuro, nella possibilità o nella inevitabilità di un crollo; con il termine, l’astrazione “l’imperialismo” si decifravano le vicende diplomatiche e militari, le relazioni internazionali, la “politica mondiale”, le “piccole” guerre correnti, la Grande guerra incombente, i mezzi per evitarla prima, e come affrontarla quando oramai era in corso; assorbiva la valutazione della politica coloniale, dei popoli “non civilizzati”, ma non si riduceva ad essa; dibattendo dell’ “imperialismo” si affrontavano i perché delle crisi economiche e le ragioni della crescita iniziata a metà degli anni 10 ‘890; e le varie “questioni nazionali”, balcaniche, dell’Alsazia-Lorena, dell’Irlanda, dei popoli costretti nell’Impero zarista, e di quelli coloniali, diventavano aspetti da analizzare e giudicare con le lenti dell’ “imperialismo”; e tutto questo si traduceva in programmi e azione politica, in strategie, tattiche, appelli all’azione di massa e di battaglie parlamentari, in visioni contrastanti, e mutevoli, dell’importanza di uno strumento o di un altro, dell’ambito nazionale e di quello internazionale. Sinonimo di “capitalismo contemporaneo” l’imperialismo non poteva non essere tutto questo. Nel tentativo di tracciare un bilancio del dibattito sull’imperialismo seguirò due aspetti: l’uno, relativo alle “cause economiche ultime”, ambito nel quale gli “errori sono inevitabili”, l’altro relativo alle relazioni internazionali e alle origini della Grande guerra. Monopoli, in senso stretto, si erano formati negli anni ‘880 negli Stati uniti in alcuni settori, ma già nel 1890 era stata emanata la prima legislazione antitrust. Ma Hilferding e Lenin usando il termine “monopoli” intendevano non tanto monopoli in senso stretto, ma due cose: la formazione grandi complessi finanziari-industrialicommerciali, con vari livelli di coesione interna, e il “superamento della libera concorrenza”. Sulla formazione dei primi ci sono pochi dubbi, in Germania, in Francia (le Comité de Fourges), negli Stati uniti, in Giappone; meno in Inghilterra. Semmai sia Hilferding che Lenin hanno mancato di sottolineare la nascita delle multinazionali in Europa e negli Stati uniti – non in Giappone (tra le 60 più grandi multinazionali operanti in Europa a metà degli anni ‘970, 31 erano nate prima del 1915). Dalla descrizione che soprattutto Hilferding faceva del superamento della libera concorrenza appare chiaro che riteneva la cosa in senso letterale, cioè il superamento della legge del valore nel regolamento dei prezzi e delle quantità prodotte. In questo preludeva alla sua successiva teorizzazione del “capitalismo organizzato”. Questo aspetto delle teorizzazioni di allora deve essere rigettato, nonostante la formazione (allora e nei decenni successivi, fino ai giorni nostri) di accordi temporanei tra grandi complessi per “controllare” il mercato, permanentemente rotti non solo o tanto da legislazioni ad hoc, quanto dagli interessi di questi grandi complessi a incrementare le proprie quote di profitto e quindi di mercato. Già i protagonisti del dibattito sull’imperialismo avevano rilevato che i mercati coloniali erano marginali per le economie delle grandi potenze – lo si è visto nel brano citato di Radek, ma anche Parvus e Kautsky l’avevano precedentemente rilevato. Secondo i datti raccolti da Barrat Brown e da Bairoch le industrie dei paesi sviluppati esportavano nei paesi successivamente inclusi nel “Terzo mondo”, quindi nel complesso dei paesi coloniali e semicoloniali, solo circa l’1,5% della loro produzione totale, e se si considerano esclusivamente i paesi coloniali questa percentuale si dimezza (questo corrisponde all’incirca a una percentuale delle esportazioni di prodotti industriali pari al 17-20% verso il “Terzo mondo”). Se si guarda invece alle esportazioni del “Terzo mondo”, materie prime per l’industria e prodotti agricoli, verso i paesi sviluppati, questi passarono dal 2-4% del loro Prodotto nazionale lordo a metà ‘800 al 19-24% nel 1913. L’esplosione delle costruzioni ferroviarie nei paesi non europei (eccetto l’Impero russo) e non considerando gli Stati uniti è invece innegabile: si passa da 4,7 migliaia di km nel 1860, a 27,1 migliaia di km nel 1880, a 177,9 migliaia di km nel 1900; passando dal 4% della rete ferroviaria mondiale nel 1860, al 22,5% nel 1900. Parallelamente lo stock di investimenti esteri a livello mondiale cresce da circa 9,6 miliardi di dollari verso il 1870 a circa 47,5 miliardi verso il 1913, con un tasso di incremento ben maggiore di quello delle esportazioni. La destinazione nel 1913 di questi flussi di capitali era per la metà tra gli stessi paesi sviluppati, per circa il 10% verso la Russia, verso le colonie di Africa e Asia per circa il 20%, e per il restante 20% verso i paesi latinoamericani. In questi anni si assiste a una diversificazione dei paesi investitori: se nel 1874 il 75% dei capitali era inglese, la quota del Regno unito scende al di sotto del 50% dal 1900. Tutti questi investimenti erano in larghissima parte (circa il 70%) destinati a finanziare le ferrovie e altre opere pubbliche (porti e trasporto urbano), erano tutti esclusivamente privati (prestiti governativi pubblici inizieranno solo durante la Grande guerra) e non esistevano investimenti diretti - erano pressoché tutti (più o meno al 90%) investimenti di portafoglio, in azioni estere, in titoli statali esteri, o nella sottoscrizione di prestiti statali garantiti. Vi fu un solo paese per cui l’esistenza di una colonia fu essenziale alla sua sopravvivenza economica: il Regno unito e il suo possesso dell’India. A livello di esportazioni il 67% della produzione tessile inglese in cotone veniva esportata nei paesi del “Terzo mondo”, soprattutto in India, che passa dall’assorbire 13 milioni di yards nel 1820, alla stratosferica cifra di 2.050 milioni di yards nel 1890, praticamente la totalità del fabbisogno totale (questa dipendenza indiana dai tessuti in cotone inglesi diminuisce nel primo quindicennio del ‘900, quando c’è un inizio 11 di reindustrializzazione indiana, che riesce ad arrivare a coprire il 28% del fabbisogno interno). Il rapporto commerciale tra Regno unito e India è sempre stato nel complesso favorevole al primo, e il conseguente avanzo che affluiva a Londra, insieme alle “Home charges” imposte dall’Inghilterra all’India, e alle “cedole” staccate dai rentiers inglesi su titoli indiani, costituiva un enorme afflusso di denaro che consentiva sia di far fronte al complessivo deficit della bilancia commerciale inglese, sia di compiere operazioni finanziarie all’estero – soprattutto investimenti di portafoglio in America latina. L’India permise cioè al Regno unito di rimanere una grande potenza nonostante il declino dell’apparato industriale, in cui predominava l’industria leggera, e favoriva soprattutto interessi commerciali e finanziari. Da questo quadro risulta che le spiegazioni economiche monocausali dell’imperialismo non reggono di fronte ai dati oggi disponibili, tanto più se si limita questa spiegazione al ruolo delle vere e proprie colonie. Mercati di sbocco marginali per tutti i paesi, eccetto che per l’Inghilterra; come sbocco di investimenti non rivaleggiano, neppure da distante, con gli sbocchi offerti dagli altri paesi sviluppati. Solo per la potenza in declino, per l’Inghilterra, l’India è lo strumento di salvataggio che riesce a farla galleggiare in un mondo che continua a cambiare a suo svantaggio. Inoltre lo sviluppo delle relazioni capitaliste in tutto il mondo – di cui erano convinti tutti i partecipanti al dibattito sull’imperialismo – fu in realtà più che dubbio, vista anche l’assenza di investimenti diretti, e si è sostenuto con fondati argomenti nei decenni successivi che il colonialismo è stato un freno, sia pur relativo, allo sviluppo di queste relazioni. Pochi guadagni per i colonizzatori e grandi disastri per i colonizzati, questo sembra essere il bilancio. Ma allora perché la follia imperialista? Perché tante guerre, tanti morti e tante distruzioni nel mondo extraeuropeo? Perché tanti conflitti tra le grandi potenze sulle spoglie coloniali? Perché, come diceva la Luxemburg, scatenare le belve feroci in tutto il mondo, ritrovandosele poi con un balzo in mezzo all’Europa? Forse solo per il miraggio di futuri guadagni, ironicamente testimoniati da come una potenza in declino riesca a mantenere la sua grandeur solo grazie a una colonia, una sorta di assicurazione per la vecchiaia… Un elemento del sostrato economico mantiene tuttavia, a mio avviso, la sua importanza – ed è il ruolo del capitale finanziario, del capitalismo dei rentiers, più nel senso di Lenin che in quello di Hilferding, che lo porterà poi a teorizzazioni sul “capitalismo organizzato” negli anni ‘920 (ma l’uno e l’altro sostenevano che speculazioni e Borsa avrebbero perso via via importanza… non vi sono e non vi saranno mai dei “vangeli” a cui rifarsi). Non nel senso di una “oligarchia finanziaria” che governa tutto il mondo, scatena guerre coloniali e generali, e si divide il globo – una visione totalmente surreale. Ma nel senso di un tipo particolare di capitalismo in cui un ruolo fondamentale viene assunto da questo tipo di capitale. Forse l’esperienza dei nostri ultimi decenni, a cavallo tra xx e xxi secolo, può aiutarci a meglio intendere quel tipo di capitalismo. E’ questo un parallelo avanzato da Arrighi, con esiti più o meno condivisibili, ma che richiede approfondimenti che ancora mancano. Lo studio di Hilferding, pur se datato 1910, è ancora oggi una pietra miliare, nonostante i suoi limiti (le confusioni su alcune categorie marxiste di base, come il denaro, il suo generalizzare il modello tedesco come via di sviluppo di tutte le società capitaliste, e altro ancora); e lo è per la carenza nel secolo successivo di studi che cerchino di comprendere a partire da Marx la dinamica del capitale finanziario, del “capitale fittizio”. Non casualmente penso che il poco che si sia scritto sia a partire dalla metà degli anni ‘990, in coincidenza con un periodo storico in qualche modo affine. C’è ancora molto da fare, e gli ostacoli oggi presenti per dei ricercatori marxisti sono forse maggiori di un secolo fa, per i luoghi comuni imperanti sul ruolo dello Stato, sulla natura del denaro cartaceo, per la complessità finanziaria oggi raggiunta dal capitalismo, per la presenza di teorizzazioni non-marxiste (post-keynesiane) che sembrano “rendere la vita facile”, e spiegare tutto con solo un’opera di riverniciatura “marxista”, e così via. Il “capitale finanziario” è, anche dal punto di vista della ricerca, un cantiere ancora aperto. Il dibattito sull’imperialismo fu, nonostante questo, essenziale. Come diceva Trotsky, “imperialismo” costituiva un’astrazione di inestimabile importanza, anche se non erano chiare radici economiche, connessioni sociali, dinamiche specifiche. Anche nello specifico la Luxemburg contribuì a porre il problema della “domanda effettiva”, Hilferding a teorizzare il “capitale finanziario”, Lenin a rendere autonomo il dibattito sull’imperialismo da quello sulla politica coloniale, considerando i paesi semicoloniali, le sfere di influenza, la politica estera delle grandi potenze in funzione del loro potere produttivo sul mercato mondiale. Permise di caratterizzare il periodo a loro contemporaneo in modo geniale, come un’ “epoca di guerre e rivoluzioni”, perché davvero lo fu (questa caratterizzazione che comportava numerosi elementi analitici e di prospettive è stata analizzata nei suoi vari aspetti in un recente e importante saggio di Lih, un cui stralcio riporto in appendice). Permise di battersi in nome della 12 pace contro tutte le grandi potenze, tra loro in concorrenza in tutto il mondo. Consentì di affrontare correttamente il problema delle lotte dei popoli coloniali, decenni prima della grande ondata di decolonizzazione. Permise l’internazionalismo di un pugno di dirigenti nella bufera della Grande guerra. Fu davvero un’astrazione di inestimabile importanza. Ma dopo tutte queste considerazioni, perché le guerre coloniali? Perché la Grande guerra? Per questo bisogna allargare il discorso al mondo delle relazioni internazionali. Su questo il dibattito sull’imperialismo rivela più debolezze che forze. Per capire una serie di dinamiche all’opera tra il 1895 e il 1914 bisognerà tornare indietro, al periodo precedente il 1895, a Marx ed Engels. La lotta del movimento operaio europeo contro la minaccia di una guerra generale conosce i suoi punti più alti nella lunga e prolissa, ma radicale, risoluzione adottata dal congresso internazionale di Stoccarda nel 1907, nelle manifestazioni in tutti i paesi il 5 novembre 1911 contro la guerra scatenata dall’Italia all’Impero ottomano, e dalle manifestazioni in tutti i paesi il 17 novembre 1912, seguite il 24 e 25 novembre dal congresso straordinario di Basilea, contro il rischio di un allargamento della guerra nei Balcani, iniziata il mese prima. Le due risoluzioni, di Stoccarda e Basilea, vennero adottate unanimemente, e in entrambe venne sancito l’impegno dei socialisti, qualora fosse scoppiata una guerra europea, a lavorare concretamente per la conquista del potere da parte della classe operaia, per il rovesciamento del capitalismo. Il rischio di una guerra generale veniva fatto derivare dal “sistema imperialista”, e il punto all’ordine del giorno del congresso di Stoccarda fu inserito a causa delle tensioni internazionali tra Francia e Germania sorte nel 1905-1906 a proposito dello statuto del Marocco, un classico conflitto sorto nell’ambito delle politiche coloniali. La “sensibilità” socialista ai rischi di guerra iniziò a salire di grado in questa occasione, per toccare il suo apice nel 1910-1912, e poi rifluire nel 1914, quando lo scoppio della guerra prese tutti di sorpresa. Il problema è che dietro l’unanimità di Stoccarda e di Basilea vi erano una serie di divisioni e di debolezze (alcune determinate da situazioni obiettive non modificabili dall’Internazionale) che esplosero in modo drammatico tra il 1° e il 4 agosto 1914. Così, ad es., durante la guerra italo-turca del 1912 la giornata di mobilitazioni del 5 novembre venne snobbata dal partito più importante in quella congiuntura, quello italiano, e quest’appello ebbe una debole eco anche nei paesi balcanici; durante la seconda crisi marocchina (la “crisi di Agadir”) del 1911 una grave crisi scosse l’Internazionale, con una divisione tra i partiti dei due paesi coinvolti, Francia e Germania, sulla gravità vera o presunta della situazione e sui mezzi da usare per prevenire la guerra; durante la prima guerra balcanica (contro l’impero ottomano) tutti i partiti socialisti balcanici votarono contro i crediti di guerra, ma ritenevano questa guerra storicamente giustificata, così da impedire la sottoscrizione del partito serbo all’appello internazionale contro la guerra stilato da Rakovsky, e da portare il partito bulgaro (“stretto”) ad aderire solo all’ultimissimo momento a condizione che non figurasse il suo nome sotto l’appello (che venne quindi firmato genericamente dai “socialisti balcanici e di Turchia”) – successivamente sia Lenin, che Trotsky, che la Luxemburg sostennero che i paesi balcanici avevano tutte le ragioni dalla loro parte in questa guerra. Il problema era che le guerre imperialiste erano sinonimo di guerre coloniali, o derivanti da questo fattore; per il resto era normale distinguere tra guerre difensive e offensive, e solo le seconde erano condannabili (questo sia in Francia che in Germania). Poche voci si elevarono contro questa distinzione, tra cui la più importante fu quella di Kautsky, che scrisse pagine profetiche per chi visse l’agosto 1914. E se più o meno tutti dal 1905-1908 ritenevano una prossima guerra generale inevitabile (ma solo fino al 1913), vi era una (insanabile nei fatti, nonostante tutta la diplomazia di Jaurès) divisione tra i “pessimisti” per cui il movimento operaio non poteva far nulla, e chi invece sosteneva che spazi per l’azione c’erano – e anche tra questi ultimi una ulteriore divisione correva tra chi in un momento dato privilegiava l’azione di massa, e chi invece una sorta di “diplomazia segreta” per mediare e conciliare, per ricondurre “alla ragione” gli statisti del proprio paese. In generale non vi era una “politica estera dell’Internazionale socialista”, e molti la consideravano anche dannosa, in quanto avrebbe fatto decidere ad altri, senza le competenze per farlo, la condotta da tenere nel proprio paese. Questi nodi contraddittori si ritrovano in un unico dirigente di altissimo livello, Bebel, il “kaiser” del movimento operaio tedesco. Bebel aveva sostenuto fino al 1907 che era perfettamente possibile per i dirigenti socialisti, di fronte allo scoppiare di una guerra europea, distinguere correttamente aggressori e aggrediti, e che se la Germania si fosse ritrovata tra questi ultimi, attaccata a oriente dalla Russia e a occidente dalla Francia, ogni socialista, e lui 13 per primo, avrebbero assolto i propri doveri militari per difendere la madrepatria. Pur considerando la gravità delle tensioni anglo-tedesche, tenne sempre presente “il rischio russo”. Ma dall’autunno 1910 fino alla morte avvenuta nel 1913 fece un passo stupefacente: contattò segretamente, e a livello personale, il governo britannico, e fornì una serie di informazioni politiche e militari, anche riservate, relative alla Germania, per incitare e favorire lo sforzo bellico inglese (tutto ciò considerando che l’Inghilterra era legata all’Impero russo da un accordo a partire dal 1907), sottolineando che la guerra europea era assolutamente inevitabile, che il movimento operaio era assolutamente impotente a fronte di questo, e che i circoli militari e di corte tedeschi erano decisi a fare il primo passo, che in questa situazione predicare il disarmo era follia, e che quello che dovevano fare i piccoli Stati confinanti la Germania era invece armarsi per far fronte all’attacco tedesco. Una tattica di “disfattismo rivoluzionario” ante-litteram, con in vista una rivoluzione in Germania dopo la sua sconfitta? Nel 1911 Bebel considerava del tutto marginale la guerra italo-turca, e nel 1912 era probabilmente il solo dirigente socialista ad augurarsi una vittoria turca, e sempre nel 1912 scriveva ad Adler che considerava la Russia il maggior pericolo per la guerra europea, mentre sulle intenzioni pacifiste di Berlino e Parigi non ci potevano essere dubbi, e probabilmente anche Londra aveva tali intenzioni. Un caso di decadenza senile aggravata dalla malattia e da gravi lutti familiari? Ma in questi anni non vi sono altre manifestazioni di questa supposta decadenza. A mio avviso la sua opinione comunicata ad Adler era relativa in specifico a una improbabile (per lui) generalizzazione europea della prima guerra balcanica, non alla inevitabilità di una guerra europea al cui centro vi era l’antagonismo anglo-tedesco. Finché nuovi elementi d’archivio non apporteranno più luce su questi avvenimenti penso che l’ipotesi “disfattista rivoluzionaria” rimanga valida: l’inevitabilità della guerra, l’impossibilità della classe operaia a fermare la guerra (anche Lenin nel 1922 sosterrà che la classe operaia era impotente in un tale frangente), uno sguardo disilluso ai balletti diplomatici per il disarmo, copertura per preparare meglio la guerra futura (si parla di pace per meglio preparare la guerra), e in generale degli strumenti diplomatici, idonei solo a localizzare guerre periferiche, tutto questo a mio avviso lo spinse a giocare la sua partita più azzardata e forse folle, ma con ragioni terribilmente valide. Il problema era che non solo non vi era una politica estera dell’Internazionale socialista, ma non ve ne era una socialista, tout court. Non vi erano dei termini, dei punti di riferimento generali che permettevano di orientarsi nel groviglio di avvenimenti in corso. L’importanza della pace era scontata, ma non risolveva il problema analitico. Il paradigma “imperialista” era ovviamente importante per leggere il contenzioso anglo-tedesco, ma poteva indurre in errore, quando tutti i socialisti (compresa la sinistra) pensarono che i rischi di guerra erano stati allontanati nel 1913-1914 grazie al riavvicinamento anglo-tedesco. Certo, pensare in termini “sistema imperialista” permise di prendere una posizione risolutamente internazionalista alla sinistra socialista, nel 1914, ma non aveva permesso né di seguire la preparazione della Grande guerra, né di districarsi nel corso concreto degli avvenimenti. Tutto sommato aveva ragione Kautsky a obiettare ai sinistri che ridurre la Grande guerra a “guerra imperialista” portava a delle aporie imbarazzanti: poteva venire considerato l’Impero Asburgico, che aveva iniziato la danza della morte il 28 luglio con la dichiarazione di guerra alla Serbia, una potenza imperialista? Quali capitali esportava? Quali colonie aveva? La risposta era negativa, sia per l’una che per l’altra cosa. Considerare la Bosnia Erzegovina una colonia alla pari dell’Irlanda era una pura surenchère verbale, pur se ripetuta tante volte; e semmai era ben più corretta la categoria coniata da Vivante dell’ “imperialismo della paura”, cioè che le mosse “imperialiste” da parte dell’Austria erano condotte nell’esclusivo timore di disgregarsi – ma in questo modo il termine “imperialismo” fuoriusciva dall’ambito delle teorizzazioni fino ad allora usate. A maggior ragione la Russia, paese che all’opposto di queste teorizzazioni era un paese enormemente affamato di capitali. A queste obiezioni la sinistra socialista rispondeva male, e debolmente, e riprendeva la caratterizzazione generale del “sistema imperialista” – cosa in sé giustissima, ma che lasciava le obiezioni di Kautsky senza una risposta. Ma non vi erano solo teorizzazioni – vi era anche la politica concreta che veniva sviluppata. Così nel concreto contenzioso franco-tedesco durante la seconda crisi marocchina del 1911 entrarono in gioco altri fattori (oltre al già citato ruolo dell’Internazionale, che per alcuni era fondamentale, e per altri era dannoso): vi era o no un rischio di escalation verso una guerra generale? Per la SFIO sì, per la SPD no. Per quest’ultima era meglio avere un atteggiamento di wait-and-see, perché in una Germania, e in generale in un’Europa, in cui i sentimenti nazionalisti a livelli di massa erano forti, agire precipitosamente e a sproposito, agire troppo presto, comportava fare il gioco dell’avversario di classe, esponendosi a campagne a cui diventava poi difficile rispondere. Certo, se la SFIO aveva ragione nei suoi timori di escalation, la SPD correva il rischio di agire troppo tardi, con conseguenze devastanti. Queste alternative erano obiettive, radicate nella situazione concreta, e le direzioni politiche facevano le loro scelte 14 sull’onda degli avvenimenti – nel caso specifico gli sviluppi successivi dettero ragione all’SPD. Un fattore obiettivo era il citato radicamento del nazionalismo, a differenza delle masse europee degli anni ‘930, che erano radicalmente pacifiste (anche quelle tedesche), avendo alle proprie spalle la memoria ben viva della Grande guerra; e questo nazionalismo nei settori popolari aveva alla propria base il desiderio di non vedere l’indipendenza del proprio paese calpestata da un invasore straniero, di non essere governati da degli stranieri – e l’esperienza della Resistenza in Europa durante la seconda guerra mondiale ci ricorda quanto questo sentimento poteva essere popolare e progressista. Continuando con l’esempio della seconda crisi marocchina, vi erano altri fattori soggettivi e congiunturali che dovevano essere tenuti in debito conto. L’SPD aveva una maggioranza di destra, ma la sinistra aveva forti posizioni e il leader riconosciuto da tutti, Bebel, era un tipo particolare di sinistro che tuttavia parlava in pubblico tenendo conto della geografia politica del proprio partito, per tenerlo unito ed evitargli crisi dilaceranti (in questa occasione privatamente si scagliò contro la direzione, ma pubblicamente la difese a spada tratta). Infine vi era il diverso peso di massa dei due partiti: nel 1911 la SFIO mobilitava a Parigi migliaia di persone, a Berlino la SPD mobilitava decine, forse centinaia di migliaia di persone. Non si deve pensare al “pessimismo” e, in alcune congiunture, all’ “attendismo” dei socialisti tedeschi come sinonimi di inattività. L’SPD sviluppò sempre un’enorme attività di propaganda e di mobilitazione in quanto vedeva come suo compito fondamentale prevenire la psicosi della guerra, cercando di guadagnare alle proprie posizioni pacifiste non solo i lavoratori, ma anche quanti più settori non proletari. L’unica riconciliazione internazionale possibile era a livello delle masse popolari, non a livello degli Stati, cosa che invece i socialisti francesi si illudevano (forse?) di poter influenzare. Nei dettagli si potevano e si possono fare molteplici critiche sia alla SFIO che all’SPD (e allora vennero fatte), ma nel complesso il dato di fondo è che comunque, nonostante tutti i problemi, la SFIO si scagliò contro il proprio governo in quanto vero responsabile della crisi, e l’SPD contro il proprio, esattamente con la stessa logica. Certo, non sufficiente, a dir poco, per avere una visione unitaria di politica estera del socialismo internazionale, ma comunque espressione di un sincero e saldo internazionalismo sia della SFIO che dell’SPD. L’unico neo, semmai, è che l’ossessione della guerra generale in quegli anni portò a giudicare i conflitti “periferici” non tanto in sé, quanto nella loro potenzialità di innescare una guerra generale. La localizzazione delle guerre cosiddette periferiche faceva in ultima analisi tirare un sospiro di sollievo a tutti quanti. La sottovalutazione di questi conflitti, e l’abitudine di vederli localizzati grazie alla diplomazia internazionale, alle pressioni di ambienti della grande borghesia, e last but not the least, alle pressioni del movimento operaio organizzato, portarono all’incredibile ingenuità del luglio 1914 quando sia i socialisti francesi che quelli tedeschi, pur facendo attivamente propaganda e mobilitazione per la pace, mettevano entrambi la mano sul fuoco sulla purezza delle intenzioni di pace dei rispettivi governi. Jaurès capì in parte l’errore catastrofico fatto, ma era troppo tardi – era il pomeriggio del 31 luglio. Alle 21.00 dello stesso giorno moriva assassinato. Il 1° agosto Francia e Germania ordinavano la mobilitazione generale. Essere contrari alla politica estera del proprio governo non poteva essere sinonimo di politica estera socialista, ma era comunque sinonimo di internazionalismo. Le cose cambiavano radicalmente quando un partito socialista, anziché scagliarsi contro il proprio governo, lo critica blandamente (o non lo critica affatto), e si scaglia contro il paese avversario del proprio. Non c’è bisogno di aspettare l’agosto del 1914 per vedere all’opera questa aberrazione, e per questo, non considerando i settori apertamente imperialisti e guerrafondai presenti nei partiti socialisti, settori che erano però una minoranza relativamente esigua, certe cattive interpretazioni dell’ “imperialismo” hanno dato una mano. Per analizzare questa dinamica bisogna sprofondarsi nelle vicende balcaniche. Fin dal 1896-1897, in anni che avevano visto succedersi la rivolta armena, quella cretese e la guerra greco-turca, si venne formando nel movimento socialista un’opinione condivisa (Bernstein, Luxemburg, Kautsky, Rakovsky) per cui la battaglia per l’indipendenza dei popoli balcanici era corretta, storicamente progressiva, e quindi da sostenere, in quanto ogni rivoluzione o riforma radicale in Turchia era da escludersi. L’unica voce contraria era quella del vecchio Liebknecht, su posizioni radicalmente antirusse, che continuava a difendere l’integrità dell’Impero ottomano in nome della pace mondiale. Questa convinzione condivisa riprendeva la vecchia idea di Marx ed Engels (all’inizio degli anni ‘850) per cui solo l’indipendenza dei popoli cristiani balcanici avrebbe permesso la resistenza alla penetrazione russa nella regione, mentre lo status quo, con un impero ottomano in disgregazione e totalmente dipendente dalle grandi potenze, era il miglior strumento dell’espansionismo russo. Marx ed Engels abbandonarono subito questa posizione, considerandola idealistica, mentre venne “resuscitata” (senza conoscere l’illustre precedente) in questi anni, grazie all’abbandono da parte della Russia della politica panslavista e la sua alleanza con Costantinopoli. Ma nonostante questi orientamenti dell’Impero zarista cambiassero 15 progressivamente dal 1904 fino poi alla svolta 1907, si era ormai radicata nel movimento socialista internazionale l’idea che i popoli balcanici avevano tutte le ragioni per liberarsi dal “giogo ottomano” in sé e per sé, indipendentemente dalla configurazione internazionale dei rapporti tra le grandi potenze. Quanto la divergenza tra realtà e incrollabili convinzioni potessero annebbiare la lettura degli avvenimenti lo dimostrerà Kabakčiev (“stretto” bulgaro) nel 1913 quando vide la Lega balcanica (che condusse la prima guerra balcanica contro gli Ottomani) come una alleanza creata contro il volere russo e che condusse la guerra in diretta opposizione a una Russia filoottomana – uno stupefacente rovesciamento della realtà (oltre a una fantasiosa attribuzione all’Austria della responsabilità della seconda guerra balcanica). Questa “incrollabile convinzione” poggiava inoltre su una analisi ipersemplificata della realtà sociale balcanica, per cui l’unico destino di tutta la regione era uno sviluppo capitalistico reso tuttavia impossibile dal “regime feudale” ottomano; solo attraverso la sua distruzione si sarebbero liberate le energie che avrebbero portato al “progresso storico”; analisi che quantomeno non si accordava con la situazione sociale regionale, che vedeva una terribile arretratezza sia in termini di istruzione (era normale un tasso di analfabetismo vicino al 90%, eccetto la Bulgaria), sia in termini di industrializzazione (a parte l’agroalimentare e il tessile, presente in modo limitato in tutti i paesi, l’industria era per il resto pressoché inesistente in Serbia e in Grecia, e limitata in Bulgaria e in Romania – in quest’ultima predominava l’estrazione del petrolio), sia in termini di conduzioni agrarie (ad es. in Romania vigeva una situazione di dipendenza contadina senza paragoni in tutti i Balcani, giustamente analizzata dai socialisti rumeni come “neo-servaggio”, al cui confronto la condizione contadina ottomana, pur se molto diversificata, era ovunque di gran lunga migliore) senza distinzione tra terre ottomane o indipendenti, e con differenze anch’esse senza distinzione tra terre ottomane o indipendenti, come il relativo sviluppo bulgaro (di fatto indipendente, anche se formalmente lo diventerà solo dal 1908) e della Macedonia meridionale, con il centro nevralgico di Salonicco (terre ottomane fino al 1912) a fronte delle indipendenti e arretratissime Serbia (indipendente dal 1877) e Grecia (indipendente dal 1830). I socialisti balcanici fecero in Romania delle analisi approfondita della realtà delle campagne, e in Bulgaria del processo di industrializzazione; ma a livello regionale predominava una visione tutta “ideologica” funzionale a una visione di “emancipazione nazionale” preconcetta. A ciò si aggiunse una versione distorta del paradigma “imperialismo”, soprattutto in Serbia. I socialisti serbi, in particolare dal 1906-1908 al 1913, furono letteralmente ossessionati da una presunta presenza e oppressione imperialista austriaca in tutti i Balcani. Tutte le loro dichiarazioni erano contro uno status quo che favoriva gli “imperialismi europei” (sinonimo dell’Impero asburgico), e che portava all’assoggettamento dei popoli balcanici. Questa ossessione, in una situazione in cui i gruppi di potere serbi avevano una forsennata politica antiaustriaca, permise da un lato una consonanza dei socialisti serbi con i sentimenti di massa esistenti in Serbia, ma dall’altro li portò a una sorprendente cecità di fronte a dati di fatto inequivocabili, come la diffusione di una massiccia propaganda panslavista (che si tradusse nella formazione della “Mano nera” strettamente legata a vari apparati statali serbi), la totale sudditanza del potere serbo a San Pietroburgo, e la totale dipendenza finanziaria dalla Francia (alleata alla Russia): Tucović ripeté innumerevoli volte che sia il panslavismo, sia il ruolo russo in Serbia erano inesistenti, invenzioni degli “imperialisti europei”, ironizzando pesantemente su chi sosteneva posizioni diverse. Solo dopo la seconda guerra balcanica, nell’estate 1913, di fronte al regime generalizzato di terrore e di sterminio del potere serbo nei confronti della popolazione albanese (in realtà anche turca e bulgara), un regime che si protrasse fino allo scoppio della Grande guerra, utilizzò il termine “imperialismo” non in funzione antiaustriaca, ma nell’accezione più generale, scrivendo che questa politica di Belgrado illustra l’intolleranza e le ambizioni aggressive delle classi dominanti verso le altre nazioni, e la prontezza della borghesia a realizzarle commettendo i crimini più brutali, fino ad ora commessi solo nelle colonie d’oltremare […] l’economia capitalista del profitto e il sistema statale borghese burocratico-militare fa nascere appetiti sia tra i grandi che tra i piccoli rappresentanti dell’odierno ordine sociale, sia all’estero sia a casa propria, sia nella politica estera che in quella interna. Non più quindi una Serbia semicolonia preda degli appetiti altrui, ma essa stessa imperialista a pieno titolo. Nel 1908 un approccio più realista era stato avanzato da Kautsky, quando in un importante saggio sostenne che i principali ostacoli alla soluzione dei problemi nazionali e sociali nei Balcani erano sia interni che esterni – gli 16 interessi delle dinastie al potere da un lato e gli interessi e la politica russa dall’altro. Pur se unanimemente apprezzata, questa posizione di Kautsky venne traslata nella Conferenza socialista balcanica del 1910 sostituendo a “Russia” le “potenze imperialiste” (su intervento serbo), e alle dinastie al potere le borghesie balcaniche (su intervento bulgaro). Ma se rispondeva a una certa logica (pur se errata) denunciare l’Austria per il tramite delle “potenze imperialiste” in Serbia, a livello regionale era del tutto illogico; e se rispondeva a una certa logica denunciare la borghesia in Bulgaria, che conosceva un certo sviluppo industriale, a livello regionale era abbastanza illogico. Al di sotto dell’unanimità sulla parola d’ordine della “Federazione balcanica” vi erano importanti divergenze, e non solo quelle espresse dalla composizione di questa conferenza, che tra gli altri escluse i socialisti rumeni e quelli della Federazione di Salonicco, oltre ai “larghi” bulgari. Quello su cui tutti concordavano era che la “Federazione balcanica” era da un lato lo strumento per risolvere le questioni nazionali nei Balcani, dove la mescolanza delle popolazioni impediva la costituzione di Stati nazionalmente omogenei, e dall’altro lo strumento per avviare finalmente uno sviluppo economico capitalistico (non era un sogno da realizzarsi in un futuro socialista), grazie a un grande mercato (per cui il primo passo era la realizzazione dell’unione doganale) e la comunanza di numerose materie prime, e infine la garanzia di poter non dipendere più dalle grandi potenze, sia dalla Russia, sia da quelle imperialiste occidentali. Le divergenze iniziavano quando si entrava sul terreno scivoloso di chi e come avrebbe costituito questa Federazione. Fino al 1908 non vi erano problemi sull’impostazione di questo problema: si doveva arrivare a realizzare le aspirazioni nazionali dei vari popoli balcanici, liberando le terre ancora sotto dominio ottomano grazie allo sviluppo delle lotte popolari, e arrivare così alla formazione di una Federazione di popoli liberi – in un’ottica in cui la distruzione dell’Impero ottomano in Europa era sinonimo di distruzione delle sue strutture feudali e di potere, mentre la popolazione lavoratrice turca e in generale musulmana d’Europa era a pieno titolo integrata nelle nazioni che si sarebbero liberate dal “giogo ottomano”. Questa posizione era apparentemente identica a quella dei “padri fondatori” del movimento socialista balcanico degli anni ‘870, salvo che mentre allora era vista entro una strategia che mirava a evitare la fase capitalistica dello sviluppo storico (come i populisti russi), ora la strategia era esattamente l’opposto – permettere la realizzazione di questa stessa fase capitalista. La rivoluzione dei Giovani turchi nel luglio 1908 creò una divaricazione nel movimento socialista balcanico, con importanti conseguenze sulle prospettive da perseguire. Gli “stretti” bulgari, i socialisti serbi e parte dei socialisti macedoni ritenevano la rivoluzione giovane turca una falsa rivoluzione, un mero colpo di Stato per preservare la situazione esattamente come prima, per salvare il “feudalesimo” turco. E’ evidente che per loro nulla era cambiato nella politica da seguire rispetto alla situazione precedente al 1908. Invece i socialisti rumeni, quelli di Salonicco, parte dei socialisti macedoni, e la minoranza di sinistra dei “larghi” bulgari (e a livello internazionale Jaurès), ritenevano la rivoluzione giovane turca un primo passo verso una democratizzazione della stessa Turchia: per questo estesero la prospettiva della Federazione balcanica anche a una Turchia libera dai pesi del passato e a sua volta federale. Una ulteriore terreno di differenziazione tra questi due raggruppamenti era relativo al “chi” avrebbe potuto realizzare la Federazione. Per serbi e “stretti” non certo le borghesie balcaniche, deboli, pavide e chiuse nella loro ristrettezza nazionale – quindi il progetto di Federazione veniva rinviato a un futuro indefinito, quando un ulteriore sviluppo capitalistico avrebbe incrementato a tal punto il proletariato e il movimento socialista da farlo rendere un protagonista in grado di imporre la scelta della Federazione alle classi dirigenti (detta in modo brutale da Tucović: la Federazione è una buona idea, ma niente di più). Invece per i sostenitori di un “appoggio critico” ai Giovani turchi la Federazione era realmente possibile a breve termine, nella situazione data, perché l’ostacolo principale alla Federazione era stato l’assolutismo di Costantinopoli, e questo era venuto a cadere, rendendo possibile, pur con le dinastie e le borghesie esistenti, la realizzazione della Federazione, con accordi bilaterali molteplici, mediazioni e concessioni reciproche; Rakovsky in particolare non si risparmiò nello sforzo propagandistico in questa direzione. L’accordo tra serbi e “stretti” bulgari non portò a nulla, perché se la Federazione era per dopodomani, l’oggi era occupato per i serbi dal problema dell’Austria “imperialista”, e per gli “stretti” bulgari dal problema dell’Impero ottomano “feudale”, e il domani era per i serbi la liberazione della Bosnia dall’Austria e la sua unificazione con la Serbia, mentre per gli “stretti” bulgari era la liberazione della Macedonia dagli Ottomani e la sua costituzione come entità autonoma in una Federazione. L’opzione dell'altro raggruppamento socialista fu un fallimento: i Giovani turchi, anziché superare i propri limiti e debolezze, si avvilupparono in politiche repressive sia contro le nazionalità sia contro la classe operaia e le sue organizzazioni – i massacri degli armeni, la legislazione che vietava i partiti politici a base nazionale e limitavano pesantemente il diritto di sciopero e l’attività sindacale, e la repressione contro 17 i gruppi socialisti che pur li sostenevano criticamente, datano della primavera-estate 1909. Rakovsky proseguì nei suoi sforzi e nelle sue speranze, ma prima arrivò la guerra italo-ottomana nell’ottobre 1911 e poi la prima guerra balcanica nell’ottobre 1912 a metter fine a tutto. Il “canto del cigno” di questo raggruppamento socialista è l’appello, pacifista e internazionalista, e che non dimentica l’ambito più ampio e i rischi di guerra europea, stilato da Rakovsky nell’ottobre 1912 contro la guerra (e che riporto in appendice). Si può rimproverargli la fede disperata nella riformabilità dell’Impero ottomano, unica garanzia di pace, l’utilizzo disinvolto dell’etichetta “imperialista”, abbondantemente usata, a paesi e fatti che non lo erano affatto, alcune prospettive rivelatisi poi errate. Ma quello che conta è che fu un appello vigoroso alla pace e all’internazionalismo, di fronte all’abisso che si spalancava nei Balcani e nell’Europa. Venne rifiutato dai socialisti serbi, e accettato (ma non pubblicamente!) quanto a malincuore dai socialisti “stretti” bulgari, che invece erano nei fatti del tutto a fianco della Lega balcanica e che giudicavano la guerra e l’eventuale vittoria contro Costantinopoli una guerra giustificata e necessaria, la vittoria un evento rivoluzionario – e che dei rischi di una eventuale guerra europea non proferivano parola. Guerra giusta, guerra progressista per Tucović e Blagoev; insieme a Viktor Adler, il decano dei socialisti austriaci, e, dopo, come già ho detto, dissero la stessa cosa Lenin, Trotsky e la Luxemburg. Nonostante la sfilza di grandissimi nomi mi permetto nello specifico di dubitare della correttezza del loro giudizio. Quali conclusioni trarre da questo groviglio politico? È che non ritengo corretti i presupposti da cui mossero i socialisti balcanici e il movimento socialista internazionale dal 1896-97, cioè che il soddisfacimento delle rivendicazioni nazionali dei popoli balcanici potessero essere soddisfatte senza un ampliamento della sfera di influenza della Russia e senza rischi per la pace europea. Anche un’alleanza interbalcanica non era un antidoto – lo si è visto con la formazione della Lega su impulso russo, e la cui rottura venne subita, e non determinata, da San Pietroburgo. Questi presupposti portarono a catena a una serie di scelte politiche errate, e la fraseologia, e soprattutto il modo di pensare le regole internazionali solo in termini di “imperialismi”, li aggravarono ulteriormente. Non che questi errori siano stati decisivi per il corso degli avvenimenti nei Balcani – lì i socialisti erano troppo pochi per influenzarlo. Ma il problema è che a livello europeo queste convinzioni e questi errori contribuirono a formare quel nodo di contraddizioni che esplose tra il 1° e il 4 agosto 1914. Tucović e Blagoev sbagliavano prima del 1909 a pensare che una rivoluzione in Turchia era impossibile, o detto in altri termini, che l’impero ottomano era irriformabile – erano troppo rigidamente “ortodossi” visto che questa convinzione stava alla base, insieme ad altre considerazioni, della svolta del 1896-97. Si illudevano di avere davanti a sé i tempi lunghi, se non lunghissimi che avrebbero permesso sviluppo economico, industrializzazione, crescita del proletariato “alla europea” – invece davanti a sé avevano tempi brevissimi, in cui ben altro era in gioco. E Rakovsky dopo l’estate 1909 sbagliava a pensare che fosse ancora aperta una finestra di opportunità in direzione di una vera rivoluzione in Turchia. La maggioranza della leadership internazionale socialista dopo l’estate 1909, eccetto Jaurès, vide correttamente che questa finestra si era chiusa, ma non sospettò minimamente che cosa comportasse. Jaurès e Rakovsky invece intravedevano, percepivano le conseguenze incalcolabili che ne sarebbero derivate – per questo rifiutarono le fait acompli e lottarono fino all’ultimo per una riforma radicale della Turchia, pur contro ogni evidenza. Per una delle tante ironie della storia tutti parti socialisti balcanici, nessuno escluso e di qualsiasi tendenza politica fossero nelle dispute degli anni precedenti, nei fatti alla fine uniti, votarono contro i crediti di guerra nella Grande guerra, a differenza dei grandi partiti dell’Europa occidentale – in questo caso il trauma della seconda guerra balcanica e il “paradigma imperialista” pesarono entrambi a favore di una corretta scelta politica. Le mie critiche sono possibili solo perché a distanza di un secolo e passa sappiamo come andò a finire? È possibile. Ma se il corso storico non è puramente e del tutto casuale, conoscibile nei suoi grandi tratti solo ex post, allora dobbiamo chiederci perché fu possibile tutto questo – le mancanze, le debolezze, gli errori che portarono al crollo della Seconda internazionale. A mio avviso i fattori causali furono molti, e molti ne furono indicati, fin dai primi giorni dopo il 4 agosto. Ma un fattore è stato trascurato. È la comprensione della “politica mondiale”, non come sinonimo di imperialismo, ma come categoria autonoma. Per capirne qualcosa di più dobbiamo però rivolgerci a Marx ed Engels, e con il loro ausilio forse sarà possibile capire meglio le origini della Grande guerra, e di conseguenza capire meglio quali furono le debolezze decisive della Seconda Internazionale. 18 Appendice. La nuova epoca di guerre e rivoluzioni secondo Kautsky [Lih] Kautsky ha pubblicato La Rivoluzione sociale nel 1902, Socialismo e politica coloniale nel 1907 e La via al potere nel 1909. In queste tre opere, come pure in parecchi articoli sostanziali e influenti, Kautsky delineava una visione globale del mondo contemporaneo. Questi erano gli elementi chiave dello scenario di Kautsky: 1. Dopo una generazione di relativa stabilità e di progresso soltanto graduale, l’Europa e il mondo entrano in una nuova epoca di guerra e di rivoluzioni che sarà segnata da conflitti profondi e da rapidi spostamenti dei rapporti di forza. 2. La nuova epoca di guerra e rivoluzione si differenzia da quella precedente, durata dal 1789 al 1871, soprattutto per il fatto della sua espansione mondiale e per la nuova intensità delle interrelazioni rese possibili dai crescenti rapporti tra paesi e soprattutto dai nuovi mezzi di comunicazione che consentono un accesso accelerato alle idee e alle tecniche moderne. 3. La transizione da una situazione non rivoluzionaria a una situazione rivoluzionaria richiederà tattiche radicalmente nuove. 4. Le rivoluzioni che segnano questa nuova epoca si suddividono in due grandi categorie: la rivoluzione socialista, che è all’ordine del giorno in Europa occidentale e nel Nordamerica, e le rivoluzioni democratiche che sono all’ordine del giorno in altre parti del mondo. La categoria delle rivoluzioni democratiche può essere ulteriormente suddivisa in tre tipi principali: le rivoluzioni politiche per conquistare alcune libertà e rovesciare l’oppressione assolutista; rivoluzioni per l’autodeterminazione contro l’oppressione nazionale; rivoluzioni anticoloniali per rovesciare l’oppressione straniera. 5. Non si può più dire che una rivoluzione socialista non è ancora “matura” in Europa occidentale. L’acutizzarsi degli antagonismi di classe è uno degli indicatori che ci troviamo alla vigilia di una rivoluzione socialista. Ogni politica che non rigettasse con forza l’opportunismo e la collaborazione di classe sarebbe un suicidio politico. 6. I quattro tipi di rivoluzione si interpenetrano e interagiscono tra loro in modi invisibili, ma questo sicuramente accrescerà l’intensità complessiva della crisi rivoluzionaria mondiale. Qualsiasi scenario di sviluppi futuri deve quindi restare necessariamente aperto. 7. L’interrelazione mondiale implica il rifiuto di modelli semplicistici in cui i paesi “avanzati” indicano a quelli “arretrati” l’immagine del loro futuro. Ad esempio, per certi aspetti cruciali, la Germania vede un’immagine del proprio futuro nella Russia “arretrata”. 8. I principali tipi di interrelazione mondiale sono: l’intervento diretto, ad esempio la conquista, gli investimenti e la dominazione coloniale; l’osservazione dell’esperienza degli altri paesi che consente ai ritardatari di raggiungere rapidamente e superare quelli più avanzati; le ripercussioni dirette di eventi rivoluzionari, dovute all’entusiasmo degli uni e al panico degli altri, la rottura di alcuni legami e lo stabilirsi di altri. 9. Il mondo capitalistico cercherà di proteggersi dai cambiamenti rivoluzionari con tutta una serie di mezzi, in particolare con l’imperialismo, «l’ultimo rifugio del capitalismo». Le ideologie imperialiste e militariste possono ritardare il tracollo consentendo a un’aristocrazia operaia di ottenere parte dei profitti coloniali, e presentando un’uscita plausibile dalla crisi imminente. Tuttavia, questi tentativi alla fine falliranno, non foss’altro perché il mondo è già stato diviso tra le potenze imperialiste. 10 L’imperialismo e il militarismo hanno aumentato notevolmente le probabilità di guerra, ma il proletariato non ha vantaggi propri in guerre tra potenze imperialiste e quindi non si unirebbe alle classi dominanti per fare la guerra. Il ruolo della guerra come incubatrice della rivoluzione sarà probabilmente molto grande e c’è una forte correlazione tra sconfitta e rivoluzione. 19 11. Solo una piattaforma radicalmente antirazzista consentirà alla socialdemocrazia di orientarsi nei futuri turbinii della trasformazione rivoluzionaria. La condiscendenza razzista impedisce anche a certi socialdemocratici di apprezzare un fatto elementare a proposito della politica mondiale: le colonie pretenderanno e si batteranno per conquistare la propria indipendenza. 12. La Russia occupa una posizione cruciale nel processo delle situazioni rivoluzionarie mondiali. Le vittorie e gli arretramenti della Rivoluzione russa avranno di conseguenza grande eco negli altri paesi. Erano questi i tratti fondamentali dello scenario di interrelazione rivoluzionaria mondiale di Kautsky. 20 Manifesto dei socialisti della Turchia e degli Stati balcanici [Rakovsky] (Avanti!, 19 ottobre 1912, p. 3) Ai socialisti degli Stati balcanici e dell'Asia Minore All’Internazionale dei lavoratori All’opinione pubblica La guerra è alle porte. Anzi, quando queste righe saranno pubblicate, essa sarà probabilmente un fatto compiuto. Ma noi, socialisti dei paesi balcanici e dell’Oriente cui la guerra riguarda direttamente, non ci lasciamo trascinare dall’onda sciovinistica; più alta che mai eleviamo la nostra protesta contro la guerra ed invitiamo i lavoratori dei campi e dell’officina, come pure i sinceri democratici a contrapporre alla politica sanguinosa e ai suoi nefasti risultati il nostro concetto della solidarietà internazionale. I proletari degli Stati balcanici non hanno nulla da guadagnare da una simile avventura, poiché vinti o vincitori si persuaderanno ugualmente come il militarismo, la burocrazia, la reaziono politica, le speculazioni finanziarie con le loro conseguenze, l'aumento delle imposte e il rincaro dei viveri, lo sfruttamento e la miseria, si innalzerebbero più che mai forti e arditi sui mucchi dei cadaveri e sulle rovine. Per i paesi balcanici poi la guerra avrebbe conseguenze speciali derivanti dalle loro condizioni politiche e geografiche. Se essi vincessero e il regno turco venisse spezzato, la parto del leone, cioè le regioni più ricche e strategicamente più importanti, diventerebbero preda delle grandi potenze capitalistiche, che da un secolo stanno strappando pezzi di territorio all’Impero turco. L’Austria a Salonicco, la Russia nel Bosforo o nell’Anatolia Occidentale, l'Inghilterra in Arabia, la Germania nel resto dell'Anatolia, l’Italia nell'Albania meridionale – questo è il modo in cui nel caso della sconfitta della Turchia essa verrebbe divisa. Ma nel giorno in cui gli Stati balcanici cadessero nelle unghie delle Potenze, sarebbe svanita qualsiasi speranza della loro indipendenza nazionale. Il militarismo distruggerebbe ogni libertà politica e pubblica, mentre l'autocrazia monarchica fattasi forte mercè la vittoria sui turchi esigerebbe nuovi crediti per i suoi eserciti, nuovi privilegi per le classi dominanti. E, dopo queste dure prove, le lotte nazionali dei popoli si riaccenderebbero con maggiore violenza mercè l'aspirazione degli uni o degli altri alla egemonia. La vittoria della Turchia troverebbe seco il riaccendersi del fanatismo religioso e dello sciovinismo mussulmanico, il trionfo della reazione politica, la perdita dei piccoli miglioramenti interni conquistati con tanti sacrifici, e avrebbe per conseguenza il trionfo imperialistico della Russia e dell'Austria, che si erigerebbero a salvatrici degli Stati balcanici per allargare il loro interessato protettorato sui popoli rovinati. Per giustificare la guerra, i nazionalisti balcanici invocano la necessità di stabilire l’unità nazionale o quanto meno di esigere l'autonomia per le diverse nazionalità, che si trovano sotto il dominio turco. I partiti socialisti non si oppongono certamente alla unione politica degli elementi nazionali dei vari paesi. Il diritto della nazionalità ad una vita autonoma è una conseguenza diretta dell'uguaglianza politica e nazionale rivendicata dalla Internazionale Operaia, la soppressione di ogni privilegio dì classe, di casta, di razza e di religione. Questa unità sarà però raggiunta mercè la divisione dei popoli e del territorio turco fra i piccoli Stati balcanici? Avranno i turchi la loro unità nazionale sotto il dominio bulgaro, serbo o greco? Potranno i serbi di Novibazar, e della vecchia Serbia, i bulgari, i greci, gli albanesi della Macedonia, i quali in caso di una divisione verrebbero sottomessi al giogo dell’Italia o dell'Austria, potranno i greci, i turchi, i bulgari del Vilayet di Adrianopoli, che diventerebbero preda della Russia, potranno essi tutti realizzare la unità nazionale? La borghesia ed il nazionalismo sono incapaci di creare una vera e durevole unità nazionale. Ciò che viene creato da una guerra da una guerra da un’altra viene distrutto. L'unità nazionale fondata sulla oppressione di altre razze porta in sè il germe della propria distruzione, il peccato d'origine. 21 Il nazionalismo modifica soltanto il nome del dominatore o il grado dell’oppressione — ma l'uno e l’altra rimangono. Soltanto la democrazia politica, colla vera uguaglianza che ne deriva per tutti gli elementi senza distinzione di razza, di classe e di religione, può creare una vera unità nazionale. L'argomentazione nazionalistica non è in verità che un pretesto dei governi balcanici. Il vero movente della loro politica è la tendenza all’espansione economica e territoriale caratteristica a tutti i paesi con produzione capitalistica. I vicini della Turchia cercano gli stessi vantaggi come le grandi potenze, che si nascondono dietro i piccoli Stati. Essi cercano crearsi u n mercato per collocare le loro merci, i loro capitali, e l'avanzo del personale burocratico, che non trova più posto nella madrepatria. Ma, se noi additiamo la grave responsabilità degli Stati balcanici nel presente e nel passato, se noi denunziamo la doppiezza della diplomazia europea che non ha mai voluto riforme serie in Turchia non intendiamo però in nessun modo di diminuire la responsabilità dei governi turchi. Noi li denunziamo al mondo civile, al popolo turco, e specialmente alle masse mussulmane mercè il cui aiuto essi hanno conseguito il loro dominio. Noi rimproveriamo al regime turco l'assoluta assenza di vera libertà ed eguaglianza verso le varie nazionalità, la mancanza di sicurezza nelle vite dei cittadini, la mancanza di guarentigie giuridiche, di ogni giurisdizione, di un'amministrazione imparziale e corretta. Il governo turco mantiene un sistema d’imposte gravosissimo; esso rimane sordo a tutte le rivendicazioni dei lavoratori e dei contadini mussulmani e non mussulmani. Esso ha sorretto soltanto i grossi proprietari, ed ha scatenato le stirpi nomadi sui contadini inermi. I governi turchi hanno favorito, mercè la loro proverbiale indolenza, la miseria, l’ignoranza, l’emigrazione, la rapina, i massacri in Anatolia e in Rumelia; insomma, hanno provocato quell’anarchia, che serve di pretesto per gl'interventi nella guerra. La speranza che il regime nuovo possa mettere fine al passato inaugurando una politica nuova, è fallita. I Giovani turchi hanno non soltanto perpetuato gli errori del passato, ma hanno profittato dell’autorità e del prestigio del quasi parlamentarismo, saturo di un esagerato burocratismo centralizzato, per opprimere i diritti della nazionalità, o soffocare le rivendicazioni operaie; anzi, da certi punti di vista, il sistema nuova ha superato quello vecchio, erigendo a norma la soppressione sistematica degli avversari politici. Noi riconosciamo ai popoli, e soltanto ad essi il diritto di disporre del loro destino. Alla guerra che noi combattiamo con tutti i mezzi, noi contrapponiamo le masse organizzate e coscienti. All'ideale sanguinoso dei nazionalisti di decidere il destino della nazione colla guerra, noi rispondiamo riconfermando l'urgente necessità, già proclamata alla conferenza socialista interbalcanica di Belgrado nel 1909 di unire tutti i popoli balcanici e del vicino Oriente, senza distinzione di razza e religione, in una forma democratica. Senza tale federazione non è possibile alcuna durevole unità nazionale; senza di essa non vi può essere progresso economico e sociale. Per ciò che riguarda in ispecial modo il governo turco, noi riteniamo che solo una radicale riforma politica possa garantire la pace e la vita normale, allontanare l'intervento estero ed il pericolo delta guerra, e rendere possibile la federazione democratica dei Balcani. Non è cercando di riattivare progetti vecchi di mezzo secolo, ereditati da una miope burocrazia, che si possa risolvere il problema delle nazionalità. Soltanto accordando l’autonomia, in ciò che riguarda la scuola, la chiesa, ecc., e istituendo un governo locale, con la rappresentanza proporzionale dei popoli e dei partiti, e coll’eguaglianza delle lingue; soltanto con un’amministrazione in cui siano rappresentati i diversi popoli dell'impero, si potranno fornire sufficienti garanzie di imparzialità. Soltanto la riforma agraria, la riforma tributaria, la legislazione sociale, la libertà di riunione, possono ispirare alle masse lavoratrici mussulmane la fiducia nel nuovo regime. Queste riforme non saranno certo gradite alla burocrazia turca, cioè a poche migliaia di privilegiati che difendono i propri privilegi; ma esse saranno sommamente proficue al popolo turco. 22 La soluzione dei grandi problemi, che agitano le popolazioni dell’impero ottomano, darà ai mussulmani la sicurezza nazionale e permetterà loro di evolversi politicamente, economicamente e socialmente. Per la realizzazione di questo programma noi chiediamo la collaborazione non solo del proletariato degli Stati balcanici, ma anche quello del socialismo internazionale. Noi socialisti dei Balcani e del vicino Oriente ci rendiamo ben conto del doppio compito, che ci incombe rispetto a noi stessi e al proletariato mondiale. Lottando contro le aspirazioni bellicose dei governi e della stampa nazionalista noi adempiamo il nostro dovere di solidarietà internazionale. Infatti noi ci troviamo semplicemente agli avamposti, perchè la guerra nei Balcani porta in sè il pericolo imminente per la pace generale. Svegliando gli appetiti capitalistici dei grandi Stati, favorendo la politica imperialistica, essa può provocare non solo il conflitto fra le diverse nazionalità, ma una guerra civile. Siccome i governi borghesi di diverse nazioni sono spinti alle ultime trincee dalle continue vittorie del proletariato, cosi essi non mancheranno di cogliere l'occasione propizia per soffocare o per strangolare con una legislazione restrittiva il nostro movimento d'emancipazione, di incivilimento e di progresso umano. Già da mesi noi conduciamo una campagna contro la guerra; ma in questo momento vogliamo elevare più alta la nostra protesta. Noi esprimiamo la nostra ferma volontà di sostenere con tutte le forze la lotta del proletariato mondiale contro la guerra, contro il militarismo, contro lo sfruttamento capitalistico, per la libertà, per l'uguaglianza, per l’emancipazione delle classi, in una parola, per la pace. Abbasso la guerra! Evviva la pace e la solidarietà internazionale dei popoli! 23 Marx ed Engels (1). Il mercato mondiale. Su Marx ed Engels la letteratura è sterminata. Tuttavia a mia conoscenza non vi è alcuno studio su di loro e le origini della prima guerra mondiale – in molti citano una serie di loro affermazioni che prefigurano in modo impressionante la Grande guerra, ma vengono considerate, visto il lasso di tempo intercorso tra la morte di Engels e l’inizio delle ostilità (ben diciannove anni), alla stregua di semplici profezie che hanno colto nel segno, testimonianze al più della loro acutezza intellettuale – in ultima analisi non più di una curiosità. Vi sono invece studi su di loro e la loro concezione dell’imperialismo, un esercizio di futilità storica e teorica, visto che non esiste né in Marx, né in Engels tale categoria. Vi sono le loro opinioni sulle politiche coloniali, e sugli imperi (e i correlati imperialismi) di chi proclamava esserlo – l’Impero francese di Napoleone III e l’impero britannico da quando l’India passò direttamente alla gestione statale inglese nel 1858. Ma nulla autorizza a disquisire sul loro “contributo” alla teoria dell’imperialismo. Altra cosa è indagare cosa per loro significava il “mercato mondiale” e il “sistema degli Stati”, abbinati da Marx in un passaggio della Critica al programma di Gotha del 1875. A proposito del passaggio del programma di unificazione dei due partiti operai tedeschi dove si afferma La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli. Marx postilla: Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito del mercato mondiale”, politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale. […] Nemmeno una parola… delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca! E così essa deve far fronte alla propria borghesia, affratellata, contro di essa, con la borghesia di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor Bismarck! In realtà la professione internazionalistica del programma è ancora infinitamente e profondamente al di sotto di quella del partito del libero scambio. Anche questo partito sostiene che il risultato del suo sforzo è “l’affratellamento internazionale dei popoli”. Ma esso fa pure qualche cosa per rendere internazionale il commercio e non si accontenta in alcun modo della consapevolezza che tutti i popoli, nel proprio paese, a casa loro, esercitano il commercio. L’attività internazionale delle classi operaie non dipende in alcun modo dall’esistenza della “Associazione internazionale degli Operai”. In altri termini: il nazionale è al contempo internazionale, l’uno è sempre “nell’ambito” dell’altro, sia a livello economico che politico; si internazionalizza il commercio, integrando sempre più mercato interno ed estero, e la borghesia si “affratella” a livello internazionale nella lotta contro i lavoratori – questi ultimi talvolta un po’ meno, nella loro lotta contro la borghesia… Le due categorie di “mercato mondiale” e “sistema degli Stati” hanno un ruolo molto importante nei ragionamenti sviluppati da Marx ed Engels, a cui i marxisti hanno dedicato a mio avviso troppo poca attenzione. Per fare solo un esempio, Harvey, nel suo riassunto e commento del primo libro del Capitale, quando arriva al capitolo dove Marx discute del funzionamento della legge del valore sul mercato mondiale scrive: in questo capitolo non c’è niente di rilevante, quindi passiamo direttamente a quello successivo. Non è che Harvey non abbia capito cosa c’è scritto in questo capitolo, per carità. Solo che, sia lui che molti altri marxisti contemporanei, non lo ritengono più rilevante in quanto Marx analizzerebbe un mercato mondiale le cui unità costitutive, i vari Stati, i vari paesi, sarebbero stati economicamente chiusi agli investimenti esteri, limitandosi al commercio internazionale. Tutto ciò sarebbe irrilevante nel mondo d’oggi, il mondo della globalizzazione, con nessuna barriera al movimento internazionale dei capitali. Per alcuni marxisti d’oggi saremmo in un periodo in cui si avrebbe un processo di “transnazionalizzazione” dei capitali – gli Stati, i paesi, se hanno ancora un ruolo nel mercato mondiale, ce l’hanno in misura sempre più minore. A maggior ragione, dopo un secolo e mezzo dalla pubblicazione del primo libro del Capitale, possiamo passare al capitolo successivo (tanto più che nello stesso 24 capitolo Marx sostiene, con frasi sarcastiche all’indirizzo di chi non lo capisce, che le imposte sul reddito dei salari non possono essere considerate una deduzione dei salari, ma sono quote parte del plusvalore, una bestemmia per il 99% dei marxisti presenti e passati e per il 100% dei sindacalisti). In questo ragionamento di apparente buon senso vi sono a mio avviso diversi errori intrecciati. Un errore è che l’analisi di Marx del “valore internazionale” sia incompatibile con gli investimenti esteri. Un altro errore è affermare che Marx non si sia occupato di questi stessi investimenti. Un ulteriore errore è ritenere che l’operare del “mercato mondiale” possa svolgersi in una dimensione in cui la pluralità dei vari Stati, dei vari paesi, diventa irrilevante, o progressivamente irrilevante. È vero che questi lavori che critico sono stati scritti per lo più nel periodo di ubriacatura della cosiddetta globalizzazione, e forse se Trump e i suoi dazi fossero arrivati prima questi lavori sarebbero stati scritti diversamente… Ma occupiamoci di cosa diceva Marx del mercato mondiale, anche se per qualcuno così facendo perdiamo il nostro tempo. Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema sociale, non un sistema astratto. Quando si parla di un dato paese, Marocco, anziché Italia, anziché Cina, si parla di una data società, le cui specificità sono storicamente date. Così ad es. sia la riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, sia la determinazione del salario rispondono a una serie di fattori sociali specifici a ogni paese. Un lavoro “complesso” in un dato paese più essere valutato più dello stesso lavoro in un altro paese sulla base di tradizioni storiche radicate nelle due società, come in un paese il sistema di asili nido sarà diverso da un altro, quello che si ritiene un “giusto modo di allevare i propri figli” può differire da un paese all’altro, come d’altronde le strutture familiari predominanti, differenziando i livelli salariati considerati “accettabili”; in generale la grandezza della quota salariale che oltrepassa la stretta riproduzione fisica della specie dei lavoratori e lavoratrici è molto variabile da paese a paese, come sono specifiche ad ogni paese le molte “giustificazioni” di questa grandezza (questo anche ipotizzando che in nessun paese vi siano legislazioni antisindacali e antisciopero; ovviamente tali legislazioni, se presenti, distorcono pesantemente queste differenze, ampliandole ancor più). Dire “paesi diversi” significa parlare di “società diverse”, società di cui il capitalismo si appropria, ma facendo proprie le caratteristiche storicamente date di queste società. Questo comporta in pratica che, anche solo per il diverso operare della riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, la struttura dei prezzi relativi sarà diverso da un paese all’altro; e che in generale per i motivi prima accennati i livelli salariali siano diversi da paese a paese; e sia le strutture dei prezzi relativi sia i livelli salariali sono effettivamente diversi da paese a paese, possono essere facilmente rilevati da chiunque. La pluralità delle società umane, e della loro secolare formazione storica, comporta la pluralità di paesi capitalistici, diversi tra loro, che entrano reciprocamente in relazione. In ogni determinato paese, in ogni specifica società, ogni tipo di merce ha in prima battuta un “valore” dato dal lavoro socialmente necessario per produrlo. Socialmente perché non si considera il lavoro specifico che serve a produrre in ogni unità produttiva il tipo di merce considerata, ma quello che è socialmente medio, e che in ogni momento è dato. Ogni unità produttiva (ogni capitale) utilizza quantità diverse di lavoro per unità di merce, a seconda della tecnologia utilizzata e dell’intensità del lavoro utilizzato (che in buona parte deriva dalla particolare tecnologia, ma non solo). Quello che conta è la media. Questo “valore”, in quanto espressione di una media sociale, non può essere misurato in tempo di lavoro, perché i tempi di lavoro spesi per questa merce sono molteplici; per questo può essere misurato solo dalla quantità di una merce che sia misura per tutti i valori esistenti, che diventi denaro, una merce che assolvendo questo compito non può per definizione avere un valore, perché è valore. Non è un gioco di parole: questa merce-denaro è storicamente l’oro, e dire che non ha valore è semplicemente perché una cosa non può esser misura di sé stessa – non ha molto interesse rimarcare che 1 gr. di oro è uguale a 1 gr. di oro. L’unica misura del valore possibile sotto il capitalismo è l’oro: così possiamo dire che ad es. uno smartphone ha un valore di 20 gr. d’oro. Per misurare il valore di questo smartphone non è necessario che abbia fisicamente dell’oro in mano, è sufficiente un oro immaginato. Per comprarlo, lo smartphone, invece non è sufficiente immaginare dell’oro: bisogna averlo, o avere del denaro che ne faccia le veci, del denaro che sia standard of price e mezzo di circolazione. Lo standard of price è una convenzione: si può chiamare lira, dollaro, marco, quello che si vuole; e può avere scale diverse, in termini di unità o di migliaia, in scala decimale o non decimale. Questo denaro come standard of price che fa le veci dell’oro mi permette di dire che questo smartphone vale 1.000 euro (ovviamente se 1 gr. d’oro è rappresentato da “50 euro”); anche in questo caso è un’operazione solo mentale. Per comprarlo, lo smartphone, è necessario che gli euro in questione siano anche mezzi di circolazione, che quindi abbiano sia una loro fisicità (moneta, banconota), e che soprattutto che ce li abbia in tasca. Nel paese considerato quindi il valore, che 25 corrisponde a un dato lavoro socialmente necessario, di uno smartphone è quindi 20gr. d’oro = 1.000 euro, con l’oro misura del valore, e l’euro come standard of price e mezzo di circolazione. Ma i diversi capitali che producono smartphone non utilizzano tutti la stessa quantità di lavoro concreto, specifico: vi sarà chi ne utilizza più o meno, ma concorrendo tra loro su un unico mercato, il prezzo, il valore che si impone sarà quello corrispondente alla spesa di lavoro medio. Il capitale che ne utilizza di più perderà denaro e otterrà un profitto minore; quello ne utilizza di meno otterrà un sovraprofitto. Le perdite degli uni corrispondono ai guadagni degli altri. Si ha quindi in questo settore (rappresentabile mediante un vettore composto dai vari capitali ordinati per produttività e intensità del lavoro) una concorrenza che chiamiamo intra-settoriale, un profitto medio settoriale e una produttività e intensità media del lavoro. Ma la determinazione del valore di una merce tramite il lavoro socialmente necessario è una determinazione solo in prima battuta, in quanto il motore della concorrenza, cioè la ricerca di un profitto più alto, comporta anche una concorrenza tra vari capitali non solo all’interno di un settore, ma anche tra settori diversi. Così se nel settore sanitario privato si riesce a ottenere un profitto più elevato che nel settore della produzione di smartphone, nel medio periodo si chiuderanno fabbriche di quest’ultimo e si apriranno più ospedali privati. Questo processo, per farla molto in breve, fa sì che l’insieme di tutti i processi produttivi (rappresentabile mediante una matrice, ottenuta componendo tra loro tutti i vettori settoriali), sviluppa oltre alla concorrenza intra-settoriale una concorrenza intersettoriale, portando a un profitto medio tendenziale per tutta la società sotto considerazione, al fatto che i valori delle varie merci cambieranno in qualcosa d’altro, che chiamiamo “prezzi di produzione”, a un tasso di sfruttamento (“tasso di plusvalore”) tendenzialmente omogeneo, e a un valore medio di produttività e intensità del lavoro per tutta la società, un cui proxy può essere considerato il rapporto di valore tra lo stock di capitale fisso più le materie prime consumate rispetto alla massa salariale (“composizione organica del capitale”). Ma con tutto questo non cambia il principio per cui i guadagni degli uni corrispondono alle perdite degli altri. Il valore sorge solo dal lavoro, non vi sono altre fonti possibili; e non è una convenzione, una realtà simbolica, ma la dura realtà del lavoro, della concorrenza, dello sfruttamento e della lotta di classe. Mi scuso per questa veloce ricapitolazione che per molti sarà banale, ma è necessaria per comprendere le modificazioni a cui incorre la legge del valore sul mercato mondiale. Detto in modo sintetico in questo ambito il lavoro più produttivo conta come un lavoro più intenso, e di conseguenza il valore relativo del denaro, nel paese più sviluppato, è più basso. Si immagini di ordinare i vari paesi-società capitaliste in base alle rispettive produttività medie del lavoro e intensità dello stesso lavoro, in ugual modo come avevamo potuto ordinare i singoli capitali entro uno specifico settore (ad es. sanità privata) all’interno di un paese. In quest’ultimo, il capitale che gode di una maggiore produttività del lavoro produce un pari numero di merci dei concorrenti (in questo prestazioni ospedaliere) impiegando meno lavoro, e quindi meno valore; oppure detto in altro modo a parità di lavoro speso, e quindi a parità di valore, il numero di merci prodotte è superiore, e quindi il valore unitario di queste merci diminuisce; ma dato che il valore di queste merci sono regolate dal lavoro socialmente necessario, dalla produttività media del lavoro in questo settore, quindi hanno un valore unitario più alto, il capitale con maggiore produttività del lavoro venderà le proprie merci a un prezzo superiore al loro valore, intascando un sovraprofitto, a scapito dei capitali che producono prestazioni ospedaliere con una produttività del lavoro inferiore alla media, che si vedranno decurtare per uno stesso importo i loro profitti. A livello internazionale si considera la produttività media del lavoro di tutta una società, e quanto più cresce questa produttività il valore creato cresce nella stessa misura dell’aumento della produttività. In altri termini, a livello internazionale, con un aumento della produttività del lavoro a parità di lavoro speso, il valore totale aumenta (anziché rimanere invariato se si considera un settore in un dato paese), e a fronte del maggior numero di merci prodotte il loro valore unitario permane invariato (anziché diminuire se si considera un settore in un dato paese). Un simile risultato, all’interno di un settore in un dato paese, cioè l’aumento del valore creato senza un aumento corrispondente del tempo di lavoro speso si avrebbe solo con un aumento dell’intensità del lavoro non derivante dall’aumento della produttività. Maggiore intensità, con una produttività costante, porta a più merci, il cui valore totale aumenta rispetto alla situazione precedente, e il cui valore unitario permane invariato. Infine se maggiore produttività sul mercato mondiale significa più valore, il paese che gode della maggiore produttività del mondo produrrà merci che sul mercato mondiale hanno un valore corrispondentemente più alto, e permanendo costante la produttività del lavoro che estrae l’oro, ciò comporta che 26 una stessa quantità d’oro comprerà meno merci prodotte dal nostro paese superproduttivo – quindi il valore del denaro nei termini delle merci con cui può essere scambiato, è più basso nel paese più avanzato, o, il che è lo stesso, il prezzo in oro di queste merci sarà più alto. Questo comporta che i lavori socialmente medi nazionali non si scambiano alla pari tra i paesi. Un’ora di lavoro tedesco si scambia, ad es., con tre ore di lavoro russo, perché la produttività nazionale tedesca è il triplo di quella russa. Se un tipografo russo vuole rinnovare la sua attrezzatura comprando macchinari tedeschi dovrà pagare una quantità data di rubli, diciamo 9.000 rubli in Russia, che corrispondono a una data quantità di lavoro socialmente medio in Russia, diciamo tre settimane di lavoro. Il tasso di cambio tra rubli e marchi farà sì che il corrispettivo in marchi di 9.000 rubli corrisponda a un terzo di lavoro tedesco socialmente medio, cioè una settimana di lavoro, quindi il nostro tipografo russo dovrà mobilitare in denaro tre settimane di lavoro russo per ottenere in contropartita il prodotto di una settimana di lavoro tedesco. Il nostro tipografo comprerà lo stesso questi macchinari tedeschi se non vi sono equivalenti sul mercato russo, oppure, se sono presenti e sono di qualità comparabile, se il loro prezzo fosse superiore ai 9.000 rubli, per es. se costassero 12.000 rubli. Non così all’interno di una nazione: un acquirente tedesco degli stessi macchinari spenderà in marchi una somma di lavoro identica quella incorporata in quei macchinari, una settimana di lavoro. Al centro di tutto vi è il fatto che la produttività nazionale determina i tassi di cambio – più un paese è produttivo, più la sua valuta è forte; e siccome più produttività è sinonimo di tasso di plusvalore più alto, cioè di tasso di sfruttamento più alto, allora più i lavoratori sono sfruttati in un paese, più questo paese avrà una valuta forte. Parlo qui di tasso di sfruttamento, cioè il rapporto tra quanto viene intascato dalla borghesia e quanto questa borghesia deve sborsare come massa salariale ai lavoratori, e non dell’adeguatezza o meno di questa massa salariale per i singoli lavoratori; un lavoratore può morire di fame con il suo salario, ma il tasso di sfruttamento può essere molto basso se la produttività, data dalla tecnologia, è molto bassa. In generale il tasso di sfruttamento è più alto nei paesi avanzati; è più alto in Germania che in Bangladesh, anche se i salari in Bangladesh sono letteralmente da fame. Valuta più forte del paese più produttivo significa che i lavoratori di questo paese, se vanno in vacanza in un paese più arretrato, se la spassano; in patria possono comprare una data quantità di merci con il loro salario, in un paese arretrato molti di più. Per i capitalisti che esportano invece una valuta forte è solo una zavorra: loro sono i più produttivi, ma quando esportano le loro merci i loro prezzi, grazie ai cambi, lievitano, e non sono più concorrenziali. In generale consideriamo due paesi, A con più alto livello di produttività e quindi con valuta più forte, rispetto al paese B, e consideriamo quando si avrà esportazione di una merce x dal paese A al paese B, ed esportazione della merce y dal paese B al paese A, ipotizzando che entrambe le merci siano prodotte in entrambi i paesi. Il paese A esporterà la merce x nel paese B solo se lo scarto di produttività settoriale per questa merce tra i due paesi risulti maggiore dello scarto di produttività globale nazionale. Lo si è visto con il tipografo russo: se i macchinari in questione costano 12.000 rubli (equivalenti a quattro settimane di lavoro russo) e il produttore tedesco li esporta a 9.000 rubli (corrispondenti a una settimana di lavoro tedesco e a tre settimane di lavoro russo), significa che a fronte uno scarto di produttività globale nazionale di uno a tre, vi è uno scarto di produttività settoriale di uno a quattro, e quindi si avrà esportazione dalla Germania alla Russia, anche se l’acquirente russo dovrà spendere scambiare l’equivalente di tre settimane di lavoro russo con una settimana di lavoro tedesco. All’opposto il paese B esporterà la merce y nel paese A solo se lo scarto di produttività settoriale di questa merce risulti inferiore dello scarto di produttività globale. Ipotizzando che i produttori russi riescano a costruire macchinari per tipografia con due settimane di lavoro (e quindi i macchinari costeranno 6.000 rubli), pur essendo la produttività del lavoro metà di quella tedesca purtuttavia questi produttori russi riusciranno a esportare e a piazzare le loro merci sul mercato tedesco. Sembra che il tutto non sia così male. Sì, vi è scambio ineguale (ma in realtà a guardar meglio più che “scambio ineguale” è “produzione ineguale”), ma alla fine i paesi che dànno via più lavoro ci guadagnano essi stessi, e pur essendo arretrati riescono ad esportare le loro merci anche nei paesi avanzati, ad alcune condizioni. Nel suo stile inconfondibile (ma è più una modalità di pensare che di stile) Marx scriveva nelle Teorie del plusvalore, ironizzando su Ricardo per cui nel commercio internazionale tutti si avvantaggiano egualmente, che il paese più ricco sfrutta il paese più povero, anche se quest’ultimo è avvantaggiato nello scambio. Naturalmente la precondizione è essere degli Stati indipendenti, con una propria valuta, non delle colonie. Ma c’è anche un’altra precondizione: che le varie merci siano prodotte in entrambi i paesi. Se il paese arretrato B non produce la merce x, e ne ha davvero bisogno, 27 o la produce ma di qualità sensibilmente inferiore rispetto a quella importata, allora il paese B dovrà importare la merce x a qualsiasi prezzo, o comunque a un prezzo molto alto. Allora la condizione di scambio ineguale diventa pesante e oppressiva. Nel 1867 Marx scriveva di una “influenza diabolica” dell’Inghilterra sul mercato mondiale dovuta alle leggi naturali della produzione capitalista. Sul mercato mondiale non vi è una vera concorrenza intra-settoriale. Vi è concorrenza intra-settoriale all’interno del paese A e all’interno del paese B, stimolata a propria volta dal loro commercio internazionale, ma non esiste tra i due paesi. L’interscambio commerciale influisce su questa concorrenza, ma sempre all’interno dei due rispettivi paesi. All’interno di un paese questo tipo di concorrenza si sviluppa con la formazione di un profitto medio settoriale, e con investimenti in migliori tecnologie, che rialzando direttamente la produttività del lavoro per quel tipo specifico di merce (smartphone, prestazioni ospedaliere, ecc.) consentono di abbassare il valore unitario della merce e di ottenere quindi dei sovraprofitti. Nulla di tutto ciò sul mercato mondiale. Le merci anziché confrontarsi l’una con l’altra direttamente, sono ciascuna vestite con abiti nazionali, e sono abiti pesanti, costrittivi: non conta solo la produttività del lavoro del singolo capitale che produce quella merce, ma diventa decisiva la produttività del lavoro globale, dell’intera nazione in cui la merce è prodotta, di tutti i rami produttivi del paese, con effetti distorcenti per quanto attiene la singola merce. E non solo: l’aumento della produttività del lavoro globale gioca a sfavore del capitale settoriale produttivo, perché l’aumento della produttività globale aumenta i valori anziché diminuirli. La fonte dei sovraprofitti in questo modo scompare. I paesi sono ordinati su una scala, ma non vi è media settoriale tra i vari paesi. E non ha neppure senso una media delle medie produttività nazionali. Qui è tutto diverso dall’ambito nazionale. Sotto una nazione c’è una società, con singoli capitali tra loro in diretta concorrenza e regole e tradizioni assestate; sotto il mercato mondiale ci sono le diverse nazioni che pesano in quanto tali. Qui i tassi di plusvalore cambiano da paese a paese. Qui non si forma un profitto medio mondiale settoriale. Qui le medie sono solo nominali, sono delle astrazioni, non sono medie sociali, reali. Il lavoro nazionale più produttivo vale più oro degli altri, ma non vi è un lavoro nazionale che vale una quantità “giusta” di oro, rispetto al quale gli altri lavori nazionali si parametrano. Qui al guadagno dell’uno non corrisponde la perdita dell’altro e viceversa, non vi è compensazione. Nell’esposizione che precede ho semplificato all’estremo la realtà. I tassi di cambio non dipendono esclusivamente dagli scarti della produttività nazionale del lavoro. Non ho considerato le peculiarità dei prodotti agricoli, dove interviene la rendita. Non ho considerato il sistema creditizio, e neppure il sistema monetario internazionale. Non ho considerato le variazioni che intervengono quando si modifica questo o quel dato (come ad es. quando e in che situazioni la produttività del lavoro globale nazionale non conta come lavoro intensivo, ma sono situazioni solo temporanee). Ma soprattutto non ho considerato la mobilità internazionale del capitale. Considerando quest’ultima si viene a realizzare una vera concorrenzialità intra-settoriale a livello mondiale? E forse anche una concorrenza intersettoriale mondiale, tale da portare a un tasso di profitto tendenzialmente uguale a livello mondiale? Cosa succede quando il paese A esporta non solo merci, ma anche capitali nel paese B? Consideriamo un investimento estero diretto, con l’esportazione di una fabbrica “chiavi in mano”, dalla Germania al Bangladesh. Ipotizziamo che si tratti di una fabbrica tessile, con una tecnologia media tedesca a questo settore. Considerando la lunghezza della giornata lavorativa, ben più lunga in Bangladesh che in Germania, e i livelli salariali, incredibilmente più bassi, è lecito aspettarsi da questo investimento in Bangladesh rispetto a uno analogo in Germania dei sostanziosi sovraprofitti, pur ammettendo realisticamente che la produttività del lavoro sarebbe stata più alta in Germania, grazie a un lavoro più intenso, e pur considerando i costi di trasporto dei macchinari. Se questi prodotti tessili vengono venduti sul mercato interno i profitti che sono rimpatriati devono essere convertiti in valuta tedesca, secondo il rapporto tra le rispettive produttività nazionali. Perché il gioco valga la candela il profitto in Bangladesh rispetto a quello ottenibile in Germania dev’essere superiore allo scarto tra le rispettive produttività nazionali, il che sembra ben poco probabile. Se le merci prodotte vengono invece importate in Germania e lì vendute, in un mercato dove il valore, il lavoro socialmente necessario a produrlo, è dato, è intuitivo che il sovraprofitto dev’essere molto alto. Si può specificare in termini quantitativi con due, tre calcoli, ma il risultato sarebbe scontato. Ma si tratta di una concorrenza intra-settoriale tra Germania e Bangladesh, o non si tratta piuttosto ed esclusivamente di una concorrenza intra-settoriale interna alla Germania in cui il nostro capitale esportato riesce 28 a ottenere eccezionali profitti grazie allo sfruttamento delle peculiarità nazionali e sociali (e quindi, conseguentemente, valutarie) del Bangladesh, come se si fosse annesso alla Germania il piccolo territorio di Bangladesh dove sorge la sua fabbrica, ma senza annetterlo legalmente e socialmente alla Germania, ma lasciandolo come una piccolissima enclave extraterritoriale? Concettualmente è lo stesso meccanismo di quando venne sfruttato sotto il Terzo Reich il lavoro di quanti erano internati nei campi di concentramento, né più, né meno. La diffusione degli investimenti diretti nei paesi del “Terzo mondo” si è avuta quando i costi dei trasporti sono crollati, e soprattutto quando poi si è sviluppata una tecnologia dell’informazione tale da poter gestire a livello mondiale impianti delocalizzati in tutto il mondo. I capitalisti tedeschi durante il nazismo in guerra non avevano questi problemi da risolvere: i campi e i sottocampi di concentramento erano centinaia, sparsi in modo da coprire tutto il territorio tedesco. Ma si potrebbe obiettare che in Bangladesh lo spostamento di questa fabbrica potrebbe portare qualcosa di buono, ipotizzando ad es. che anziché essere tutto e solo capitale tedesco si tratti di una joint-venture, e che parte della produzione venga smerciata sul mercato locale. Ipotizziamo anche che il settore tessile in Bangladesh sia particolarmente avanzato, a confronto della società di cui è parte, per cui se lo scarto di produttività con la Germania a livello nazionale è, poniamo, di uno a dieci, considerando solo il tessile lo scarto è di uno a cinque. Ma anche con queste ipotesi non si ha una estensione della concorrenza intra-settoriale nel paese arretrato, ma esattamente il suo contrario, il suo blocco. Con un gap tecnologico così importante, le nuove tecniche produttive non riescono a generalizzarsi, e i sovraprofitti della nostra impresa in joint-venture diventano quasi permanenti, come un capitale estraneo, un’isola in una società estranea, una società che tuttavia assorbe le sue merci, e i cui capitali sono costretti a misurarsi con essa; di conseguenza anche la concorrenza intersettoriale si blocca. La legge del valore non riesce quindi a operare se non parzialmente, e di conseguenza nel tessuto produttivo e sociale si creano distorsioni che disintegrano o mettono a rischio la riproduzione della società stessa. I concorrenti autoctoni della nostra impresa in joint-venture, impossibilitati ad aumentare la produttività al livello che viene loro imposto, cercheranno abbassare i prezzi vendendo le merci sotto il loro valore, aumentando il plusvalore assoluto (allungando le giornate lavorative), riducendo il già misero livello salariale. A termine questi capitali in parte esteri riescono a conquistare interi settori della produzione nel paese arretrato, modificando in tal modo la produttività globale nazionale – la rivalutazione valutaria che ne consegue aumenterà a sua volta i problemi per tutti i capitali autoctoni. È questo fenomeno che permette di capire il paradosso evidenziato a suo tempo da Arrighi, quando constatò che i paesi del Terzo mondo si erano in gran numero industrializzati tanto quanto quelli del “Primo mondo”, se non di più, ma con la permanenza di un PIL pro-capite sempre basso, o addirittura molto basso. Il risultato non è quindi tendenziale equalizzazione del profitto a livello mondiale, ma frammentazione e fragilizzazione delle strutture produttive dei paesi più arretrati, con uno spettro di rendimenti da capitale sempre più ampio e diversificato, radice e causa dello spettro anch’esso sempre più ampio e diversificato dei tassi d’interesse. Ma se gli investimenti di capitale in termini di investimenti diretti hanno effetti disastrosi per il paese arretrato tanto più ampio è il gap tecnologico tra paese esportatore e paese importatore, non considerando neppure la condizione ancora peggiore delle colonie, questi flussi di capitali tra paesi con relativamente piccole differenze produttività nazionali di lavoro hanno invece effetti ben diversi – stimolando la concorrenza intra- e intersettoriale nei due paesi; ma anche in questo caso non è possibile parlare di concorrenza a livello mondiale, ma entro i singoli paesi, ciascuno con le proprie e distinte strutture istituzionali e sociali, con le proprie distinte dotazioni naturali. Il Marx maturo (non quello dell’inizio anni ‘850, sempre purtroppo largamente citato), a differenza di tutti i socialisti del periodo della seconda internazionale, aveva ben presente quanto il colonialismo anziché diffondere le relazioni capitalistiche creava solo una “parvenza di sviluppo”, ma in realtà distruggeva le società conquistate costringendole a una anomia sociale per decenni, “le forme economiche e sociali tradizionali potevano essere distrutte dal capitalismo senza che fossero assorbite dal sistema capitalistico”, come ha scritto recentemente un commentatore di Marx – da qui la marginalità delle esportazioni delle economie europee nelle colonie, e il loro utilizzo solo per estorcere materie prime altrimenti introvabili e a buon mercato. Più e più volte, relativamente all’India, al Bengala, all’Algeria, ha parole di condanna e di disprezzo per l’opera dei colonialisti, negando loro qualsiasi presunto risvolto storico “progressivo”. In questo era ben più lucido e “moderno” di chi lo seguì nel successivo cinquantennio. 29 Analizzando la situazione russa e il ruolo delle ferrovie e della finanza Marx scriveva nel 1879 (questo brano venne pubblicato per la prima volta nel 1908, in russo): Le ferrovie sorsero dapprima come “couronnement de l’œuvre” in quei paesi in cui l’industria moderna era più ampiamente sviluppata, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Belgio, Francia, ecc. Le chiamo “couronnement de l’œuvre” non solo nel senso che esse erano finalmente… i mezzi di comunicazione adeguati ai moderni mezzi di produzione, ma anche perché posero le basi per gigantesche società per azioni e, così, nello stesso tempo costituirono un nuovo punto di partenza per tutti gli altri tipi di società per azioni, a partire dalle società bancarie. In una parola, diedero alla concentrazione del capitale un impulso mai prima immaginato […] la nascita del sistema ferroviario… costrinse alcuni Stati, in cui il capitalismo era ancora limitato a pochi punti della società, a creare d’allora in poi, in breve tempo, la propria sovrastruttura capitalistica e ad ampliarla su dimensioni del tutto sproporzionate rispetto alla parte predominante della società, che gestisce la maggior parte della produzione nelle forme tradizionali. Non sussiste quindi il minimo dubbio che, in questi Stati, la costruzione di ferrovie abbia accelerato la disgregazione sociale e politica […] In generale, naturalmente, le ferrovie diedero un potente impulso allo sviluppo del commercio estero, tuttavia questo commercio, in paesi che esportavano principalmente prodotti grezzi, accrebbe la miseria delle masse […] la Russia ricorda i tempi di Luigi XIV e Luigi XV, quando la sovrastruttura finanziaria, commerciale, industriale o piuttosto la facciata dell’edificio sociale irrideva alla situazione stagnante della maggior parte della produzione (agricoltura) e all’indigenza dei produttori In un altro testo, relativo all’India, Marx scrive di “ferrovie inutili” agli indiani, e in un’altra annotazione scrive che “i russi…. per preservare l’ombra della loro indipendenza economica, hanno diretto i loro sforzi non allo sviluppo della produzione capitalistica, ma ai suoi risultati – ferrovie e banche”. Ma ritornando al testo del 1879, Marx parlando delle ferrovie nei paesi sviluppati conclude affermando che contribuirono all’accelerazione e ad una potente crescita dell’attività cosmopolita del capitale mutuato, il quale ora avvolge il mondo con una rete di truffe finanziarie e di reciproco indebitamento, forma capitalistica della fratellanza “internazionale”. L’ “attività cosmopolita del capitale mutuato” è un termine traducibile come “capitale finanziario internazionale”, e successivamente Engels riprese più volte la connessione tra capitale finanziario e politica coloniale. Ed è qui chiarita anche la contraddizione insita nella faccia di Giano della finanza, da un lato “alfiere del capitale” nei paesi sviluppati, e dall’altro rovina dei paesi coloniali e arretrati. E ritroviamo qui anche la “fratellanza” internazionale della borghesia da cui eravamo partiti – lì era questione delle “cospirazioni internazionali” di Bismarck, qui della “rete di truffe finanziarie e di reciproco indebitamento”. 30 Marx ed Engels (2). La formazione dell’Europa borghese. Qual era la concezione di Marx ed Engels delle relazioni internazionali? Nessuna. Hanno scritto molto degli eventi internazionali loro contemporanei, ma non ne emerge alcuna visione unitaria e coerente. Questa è l’opinione generale tra i marxisti, da quando Soëll ha pubblicato un suo saggio in Germania nel 1972, al novembre 2019, quando nel volume intitolato “Marx revival. Concetti essenziali e nuove letture” Teschke arriva alle medesime conclusioni, utilizzando per lo più gli stessi argomenti di Soëll. A meno che non si voglia prendere sul serio Papaioannou, per cui una logica c’era nelle prese di posizione internazionali di Marx ed Engels, ed era “l’odio per i russi”… Mi sembra che molti marxisti si trovano a disagio con Marx ed Engels, perché non pochi dei loro scritti contengono affermazioni che i “marxisti” non ritengono degne di chi le ha scritte, non sono “marxiste”. C’è una sorta di incomunicabilità. Ancora vivente Engels questo processo era già iniziato: lo intuisce Franco Andreucci, commentando uno scambio epistolare del 1882 tra Engels (al tempo sessantaduenne) e Bernstein (al tempo trentaduenne). Quella di Bernstein era “una generazione...[che] aveva la tendenza a valutare le relazioni internazionali… sul terreno dei rapporti reali tra Stati e tra politiche… con la conseguenza che la politica reazionaria della monarchia austro-ungarica veniva messa sullo stesso terreno della politica reazionaria russa… Engels criticava con durezza e severità simili opinioni dall’alto della sua esperienza quarantottesca”, e la divergenza era radicata nel diverso metodo di interpretazione del presente. Perché sarebbe stato errato per Engels “valutare le relazioni internazionali sul terreno dei rapporti reali tra Stati”? Qual era il suo “metodo della interpretazione del presente”? Iniziamo dall’es. citato, relativo alla politica estera austro-ungarica: perché Engels era scandalizzato se la si considerava paragonabile a quella russa? Semplicemente perché le due società, austro-ungarica e russa, erano diverse. La politica estera non era espressione né delle forme del potere, più o meno assolutiste, né del loro contenuto ideologico o politico, quindi più o meno reazionario, ma era espressione delle forze sociali al potere, espressione delle rispettive società, a loro volta risultanti da un insieme di processi storici dati, nazionali e al contempo internazionali. Questa è la chiave dell’approccio di Marx ed Engels alle relazioni internazionali: sono il risultato dell’agire internazionale delle varie classi e frazioni di classe dei vari paesi, in cui l’interesse della tal classe del tal paese può esser ben diverso “dall’interesse materiale della nazione” – tutto dipende dai rapporti sociali esistenti nel paese in questione. In quest’ottica il “sistema degli Stati” europeo ottocentesco è lo sviluppo storico delle varie società europee, nei suoi molteplici e contraddittori aspetti, tra loro interrelati. Per questo, per capire l’approccio di Marx ed Engels alle relazioni internazionali europee del loro tempo, dobbiamo, sia pure a grandi linee, avere presente la loro visione delle varie società europee. Inghilterra L’Inghilterra era il primo paese borghese d’Europa. Lo Stato inglese si trasformò in modo radicale con la rivoluzione iniziata nel 1640, e conclusasi con il “compromesso” del 1689. Per Marx l’Inghilterra era la “nazione la più borghese di tutte”, il “despota” del mercato mondiale. Ma questo non comportava ipso facto che la politica estera inglese fosse funzionale alla classe che predominava nella società. Semmai l’opposto: per Marx ed Engels la politica estera condotta metteva addirittura a rischio “la posizione dell’Inghilterra nel mondo”, la predominanza nel mercato mondiale. Com’era possibile? In primo luogo, l’aristocrazia terriera e la borghesia costituivano per Marx due distinte, diverse classi sociali, non l’una “feudale” e l’altra “capitalista”, ma entrambe interne, funzionali alla formazione economica borghese. Insieme sono le ruling classes dell’Inghilterra. Aristocrazia terriera e borghesia erano entrambe capitaliste perché la “proprietà fondiaria [era] corrispondente al modo di produzione capitalistico”, ma avevano interessi diversi – convergenti in alcuni campi, divergenti in altri, non riducibili a “cultura” e “stile”. Il compromesso del 1689 fu per Marx quello tra l’aristocrazia fondiaria (l’ “oligarchia”) e finanziaria (l’ “haute finance”), alleata ai settori mercantili dipendenti dai monopoli concessi dal Parlamento. Queste ruling classes se da un lato favorirono e protessero il fiorente capitalismo agrario e quello manifatturiero che muoveva i suoi primi passi, si dedicarono dall’altro senza 31 ritegno alla rapina e al saccheggio, in patria e all’estero, tanto che, come ricorda Thompson, “nei primi decenni del secolo, la similitudine tra l’alta politica e il mondo della malavita era una figura retorica comune della satira” e in India, citava Marx, si ricorreva “ad estorsioni atroci quando la semplice corruzione non poteva tenere il passo con la rapacità”. Verso i funzionari coloniali inglesi Marx ha sempre avuto solo disprezzo, e nelle sue annotazioni li qualifica variamente come “furfanti”, “asini”, “cani”, “stupidi”, “canaglie”, “miserabili”, “bestie” e “pidocchiosi ‘Orientalisti’”. Dalla metà del ‘700 “la produzione manifatturiera divenne più redditizia del commercio e della speculazione, [e] certe forme di privilegio e corruzione [in patria] cominciarono ad essere nocive agli stessi ricchi che si riconciliarono con la imparziale e razionalizzata arena del libero mercato: i grossi colpi potevano ora essere fatti senza alcun appoggio politico negli organi dello Stato”, e nell’ultimo trentennio del ‘700 sorse una “classe media, industriale o professionale”, “unita e determinata” (Thompson). È quella che Marx chiama la “nuova borghesia” di contro alla vecchia: “mentre la vecchia borghesia combatte contro la rivoluzione francese, la nuova si conquista il mercato mondiale”. Nel 1832 una riforma elettorale permetteva l’ingresso nel Parlamento di alcuni rappresentanti di questa classe e il 1846, con l’abolizione delle leggi protezioniste sul grano, vedeva “la più grande vittoria della borghesia… specialmente della sua frazione più attiva, i fabbricanti, sull’aristocrazia fondiaria”, “non solo sulla grande proprietà fondiaria, ma anche su quelle frazioni di capitalisti i cui interessi più o meno coincidevano o erano legati a quelli del grande proprietario fondiario: banchieri, agenti di borsa, rentier ecc.” Negli anni ‘850 Marx scrive che in Inghilterra “la borghesia non ufficialmente ma di fatto predomina in tutte le sfere decisive della società e l’aristocrazia terriera [è] ufficialmente regnante” e utilizzando una terminologia a noi familiare, Marx ripete il concetto affermando che “la casta al governo… in Inghilterra non coincide assolutamente con la classe dominante”. I tories, che rappresentano l’oligarchia fondiaria cercano “di conservare un potere politico, la cui base sociale ha cessato di esistere”, mentre l’altra forza politica aristocratica, i whigs, “esattamente come i tories, costituiscono una frazione della grande proprietà fondiaria della Gran Bretagna. Anzi, la parte più vecchia, più ricca e più arrogante della proprietà fondiaria… Che cosa allora li distingue dai tories? I whigs sono i rappresentanti aristocratici della borghesia, dei ceti medi industriali e commerciali. A condizione che la borghesia abbandoni nelle loro mani, a un’oligarchia di famiglie aristocratiche, il monopolio del governo e l’esclusivo possesso delle cariche, essi fanno alla borghesia – e l’aiutano a conquistarle – tutte quelle concessioni che nel corso dello sviluppo sociale e politico dimostrano di essere divenute inevitabili e indilazionabili”. Questa situazione era comunque contraddittoria perché l’oligarchia e la borghesia industriale avevano anche interessi diversi, come, ad es., nella politica coloniale, rimasta esclusivo terreno di caccia dell’oligarchia e della plutocrazia – in questo campo la frattura è pubblica e gli industriali denunciano il possesso dell’India come “una pietra al collo”. Dall’inizio degli anni ‘850 fino agli anni ‘870 vi furono diverse fasi nella vita politica inglese, con alti e bassi nelle fortune degli “industrialisti”. L’esito finale fu un compromesso registrato da Engels all’insegna dello humour: “i borghesi inglesi erano, in media, dei villani rifatti che, volere o no, dovevano abbandonare all’aristocrazia quei posti superiori nell’apparato di governo per i quali si esigevano altre qualità che la grettezza e la vanagloria insulari condite di astuzia mercantile”, mentre in Europa “sembra sia una legge dell’evoluzione storica che la borghesia non possa in nessun paese d’Europa conquistare il potere politico – almeno per un periodo abbastanza lungo – in modo così esclusivo come fece l’aristocrazia feudale nel Medioevo”. Tuttavia, l’elemento decisivo in questa scelta borghese fu la presenza di una minaccia proletaria alla borghesia, in modo talvolta potenziale, talvolta reale. L’aristocrazia inglese fu “costretta, dopo il 1830, a condurre la politica interna esclusivamente nell’interesse delle classi medie industriali e commerciali”, ma “ha... mantenuto il possesso di tutti i posti di governo perché ha conservato il monopolio della politica estera e dell’esercito”. In modo drastico Marx afferma che “l’aristocrazia britannica… sacrificherebbe gli interessi inglesi ai suoi interessi particolari di classe e permetterebbe il consolidamento di un giovane dispotismo in Oriente nella speranza di trovare un appoggio per la sua oligarchia”. Le scelte in politica estera per Marx ed Engels erano chiare: il “particolare carattere russo della diplomazia inglese… tradizionale nel corso del XVIII secolo” è stata “la continua collaborazione segreta tra il gabinetto di Londra e San Pietroburgo”; nelle “ignominiose guerre contro la rivoluzione francese dal 1792 al 1815, [nell’] oppressione dell’Italia dal 1815 e della Polonia dal 1772, ma chi stava dietro...? L’Inghilterra e la Russia”; “la vecchia scuola politica britannica è interessata all’ingrandimento della Russia, in base alla sua vecchia politica di frazionamento dell’Europa centrale in una miriade di staterelli in lite gli uni contro gli altri, politica che permette all’Inghilterra di applicare nei loro confronti il principio ‘divide et impera’” [sott. ns]; “tutta la diplomazia inglese dal 1830 al 1854 si riduce pertanto a un unico principio: evitare a qualunque costo la guerra contro la Russia. Di 32 qui le continue concessioni devolute alla Russia da 24 anni a questa parte”. Fin dal ‘700 l’oligarchia avrebbe inventato pretesti commerciali per la sua politica estera, ma quest’ultima avrebbe risposto ad altri logiche: L’oligarchia che dopo ‘la gloriosa rivoluzione’ usurpò ricchezza e potere a spese della massa del popolo britannico era naturalmente costretta a cercarsi i propri alleati… all’estero […] Quanto alla sua politica estera essa voleva darle almeno l’apparenza di essere interamente guidata dagli interessi del commercio, un’apparenza che era tanto più facile dare in quanto in realtà questa o quella misura ministeriale si appoggiava sugli interessi dell’una o dell’altra piccola frazione della classe. La frazione interessata cominciava allora le sue grida in nome del commercio e della navigazione, e stupidamente le faceva eco tutta la nazione. In quel tempo nondimeno era il gabinetto che si faceva carico di inventare i pretesti commerciali, per quanto futili fossero, per le misure di politica estera. Nella nostra epoca, i ministri britannici hanno ributtato il peso sulle nazioni straniere, lasciando ai francesi, ai tedeschi ecc., il fastidioso compito di scoprire le segrete e nascoste origini commerciali delle loro azioni. Le conseguenze erano altrettanto chiare: “l’Europa... [è] nella sua vecchia duplice schiavitù, la schiavitù anglo-russa”. L’egemonia anglo-russa, schiavitù per l’Europa continentale, inizia a formarsi all’inizio del XVIII secolo. Così come la Russia divenne una riconosciuta potenza europea con il trattato di Nystad (1721) che pose fine alla “grande guerra del Nord”, così l’Inghilterra venne riconosciuta anch’essa grande potenza europea con il trattato di Utrecht (1713), al termine della guerra di successione spagnola. L’ascesa di queste due potenze arrivò, per l’Inghilterra (ormai grande potenza coloniale e commerciale) a un culmine con la sconfitta francese al termine della guerra dei sette anni, nel 1763; per la Russia con il riconoscimento di garante del Sacro Romano Impero dal 1779, ormai potenza egemone in centro Europa – la Londra di Charles Fox e Giorgio III vide la Russia come “il più prezioso e il più naturale degli alleati per la Gran Bretagna”. Il perché di queste scelte tuttavia non era per Marx l’ “idiozia” della diplomazia inglese, come hanno creduto Rjazanov e Bongiovanni. L’interesse dell’oligarchia inglese era molto semplicemente quello di rimanere al potere, mantenendo tutte le leve fondamentali dello stato inglese. In questo il suo nemico immediato era la borghesia, e ogni estensione a livello continentale della società borghese avrebbe reso più fragile il suo potere, rafforzando il “nemico” interno. Solo il mantenimento di uno status quo reazionario internazionale avrebbe potuto fare da argine a questo. Senza più basi sociali interne a partire dalla metà del XIX secolo, l’importanza della dimensione internazionale della sua politica, l’importanza del mantenimento di questo status quo reazionario, diventava questione di vita o di morte. Questa era la soluzione al problema di come “conservare un potere politico, la cui base sociale ha cessato di esistere”. Questa politica estera aveva come perno la Russia perché la Russia era il garante in Europa di questo status quo reazionario, ne era diventata la colonna portante fin dalla seconda metà del XVIII secolo. La rottura di questo equilibrio avrebbe scatenato forze incontrollabili, e la vecchia oligarchia, senza più alcuna base, ne sarebbe stata travolta. La questione decisiva era questa: “una guerra contro la Russia rappresenta per l’aristocrazia inglese la perdita del proprio monopolio di governo”. Nella guerra di Crimea “l’oligarchia inglese [fu] trascinata dal popolo”, ma riuscì a condurla in modo tale da mantenere i vecchi equilibri, facendo una “guerra simulata” in cui “tutti i partecipanti furono soddisfatti”. In Asia ogni mossa inglese era più che attenta a non portar danno agli interessi russi, spesso anzi favorendoli. Il debole equilibrio politico inglese, la contraddizione tra orientamento estero reale, filorusso, e quello di facciata, fieramente antirusso, comportava una gestione della politica estera attenta e sottratta agli sguardi pubblici. Così nel 1861 Marx scriveva che l’aristocrazia, che aveva monopolizzato la gestione degli affari esteri, ridotta a un’oligarchia, si faceva rappresentare da un conclave segreto, chiamato gabinetto, e in seguito il gabinetto fu sostituito da un solo uomo, Lord Palmerston, che, negli ultimi trenta anni, ha usurpato il potere assoluto nell’uso delle forze nazionali dell’Impero britannico e nel determinare la linea della sua politica estera. Palmerston, per Marx, era puramente e semplicemente un agente russo. La borghesia inglese aveva invece interessi opposti a quelli aristocratici: “il partito della pace non è altro che un travestimento del partito del libero scambio. Lo stesso contenuto, lo stesso scopo, gli stessi capi. Come i liberoscambisti attaccarono l’aristocrazia all’interno nei suoi fondamenti materiali, abolendo le leggi sui grani e sulla navigazione, così adesso essi l’attaccano nella sua 33 politica estera, nelle sue connessioni e diramazioni in Europa, cercando di spezzare la Santa Alleanza”. Marx ritorna più volte negli anni ‘850 sul “pacifismo” della borghesia inglese, per cui il “metodo feudale di far guerra viene soppiantato da quello commerciale... il cannone è soppiantato dal capitale”. “Le guerre nazionali? Faux frais di produzione. L’Inghilterra può sfruttare le nazioni estere più a buon mercato in tempo di pace”; “la scuola di Manchester in realtà vuole la pace per poter condurre la guerra industriale, tanto verso l’esterno che verso l’interno. Essa vuole il predominio inglese della borghesia inglese sul mercato mondiale su cui si dovrebbe combattere esclusivamente con le sue armi, con balle di cotone”. La borghesia inglese ha quindi obiettivi opposti a quelli oligarchici in politica estera – estensione a livello continentale della società borghese e rottura dello status quo reazionario internazionale. Ma è timorosa, e fa una campagna pacifista del tutto inadeguata alla contingenza data, fa proclami contro lo status quo reazionario internazionale da un lato e pratica un pacifismo inerte dall’altro, per cui si ritrovano solo i cartisti a reclamare una “vera guerra” in Crimea contro i russi, e alla fine, dagli anni ‘870, la borghesia scende a un compromesso con l’aristocrazia. Perché? “Così come la nobiltà russa vive a disagio tra l’oppressione dello zar al di sopra di essa e la paura delle masse asservite al di sotto, la borghesia inglese è accerchiata dall’aristocrazia da una parte e dalle classi lavoratrici dall’altra”. Ogni guerra inglese contro la Russia è sinonimo di rivoluzione: “il Journal des débats l’altro ieri ha svelato il vero motivo per cui la Russia è così sfacciata. O, dice, il continente deve esporre la sua indipendenza al pericolo russo o si deve esporre alla guerra, e questa è ‘la révolution sociale’”. Se la rottura dello status quo reazionario internazionale fa paura all’aristocrazia perché rafforzerebbe il suo immediato avversario, la borghesia, questa rottura fa paura anche alla borghesia, perché rafforzerebbe anche il suo immediato avversario, il proletariato. Dagli anni ‘870 la motivazione di classe interna alla situazione britannica per l’alleanza di fatto anglo-russa viene a decadere, ma sopravvive per anni. Marx nel 1877 condurrà un’attiva campagna da dietro le quinte per sostenere e indirizzare (a insaputa dei destinatari) il “partito antirusso” nei circoli di potere inglese, e nel 1890 Engels scrive “La politica estera degli zar” con la medesima finalità. Un “partito filorusso” nell’oligarchia inglese permaneva grazie a sottili equilibri interni all’aristocrazia, a prassi consolidate e tradizioni interiorizzate, e soprattutto grazie agli intrighi della diplomazia russa, che seduceva (talvolta letteralmente), comprava o ricattava gli esponenti inglesi – le storie di spionaggio, di cospirazioni, di intrighi, e di complotti hanno avuto un ruolo nello sviluppo della politica estera inglese. Di questo almeno erano convinti sia Marx che Engels. Francia Per quanto riguarda la Francia, i testi di Marx ed Engels relativi all’assolutismo francese del ‘600 e ‘700 appaiono in prima battuta molto contraddittori fra loro. Quello scelto da sempre come l’ “approccio marxista” per definizione è la cosiddetta “teoria dell’equilibrio”, per cui, nelle parole di Engels del 1872 la “condizione base della vecchia monarchia assoluta [era l’] equilibrio fra nobiltà terriera e borghesia… nella vecchia monarchia assoluta… il potere governativo sta[va] in realtà nelle mani di una casta particolare di ufficiali e funzionari… L’autonomia di questa casta, che apparentemente sta al di fuori e per così dire al di sopra della società, dà allo Stato il lustro dell’autonomia rispetto alla società”. Un altro approccio è quello della monarchia assoluta come “strumento della società borghese”: così nel 1871 Marx scrive che “il potere centralizzato dello Stato… ha origine nell’epoca della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società borghese come un’arma poderosa nelle sue lotte contro il feudalesimo”, un “potere statale che la nascente società borghese aveva cominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo”. Un terzo approccio è quello della “monarchia feudale”: la monarchia assoluta va “definita... come monarchia degli stati [ordini] [ständische Monarchie; monarchy based on estates] (ancora feudale, feudale in decomposizione e borghese in stato embrionale)” – in modo netto e preciso: “l’ordinamento statale rimase feudale, mentre la società diventò sempre più borghese”. Lo Stato assoluto francese fu autonomo dalle classi, risultante da un’alleanza tra borghesia e nobiltà, strumento della borghesia o strumento della nobiltà? Sicuramente fu “monarchia degli stati [ordini]”, se con questo si intende che fu totalmente in mano alla nobiltà. Sicuramente fu tuttavia “eretta sulle rovine della società feudale”, per salvare il salvabile della vecchia società. E nonostante salvò il salvabile, il complesso della nobiltà conobbe comunque un impoverimento assoluto nel corso di questi secoli. Sicuramente favorì inizialmente (sotto Enrico IV e Luigi XIII) settori borghesi per ridurre alla ragione i settori nobiliari recalcitranti – essendo uno stato nobiliare si può parlare di un iniziale “compromesso tra 34 nobiltà e borghesia” a reciproco beneficio e contro i settori nobiliari che non volevano piegarsi all’innovazione della monarchia assoluta. Ma la questione decisiva è un’altra. La monarchia assoluta non poteva essere una “ständische Monarchie”. La “ständische Monarchie” è lo stato dell’aristocrazia perché si basa sul potere sociale dell’aristocrazia, sul suo controllo della terra e della rendita fondiaria; lo stato, le sue risorse, dipendono solo e unicamente dal volere di questa aristocrazia, che si appropria della ricchezza sociale, e la può negare al sovrano. La “ständische Monarchie” non era più possibile in assenza di questo potere sociale aristocratico. Lo Stato assoluto, basato sulla fiscalità (con conseguenti apparati burocratici inesistenti nella “ständische Monarchie”), acquisisce apparentemente una base indipendente. Ma lo Stato assoluto dipende nei fatti dalla ricchezza sociale prodotta e da chi se ne appropria. Nella Francia del XVII e XVIII secolo vi è da questo punto di vista una situazione complessa: “diritti signorili” feudali acquisiti dall’aristocrazia si incrociano con le mille forme della ricchezza borghese, che affluisce dalle terre, dal commercio, da forme protoindustriali, e il tutto sovrapposto a piccole produzioni contadine indipendenti. In questo senso è corretta la “teoria dell’equilibrio”: sono molte le “società” che convivono conflittualmente in Francia, e lo Stato assoluto dipende, per le proprie risorse, da tutte queste diverse “società”. Ma questa è, per così dire, una visione statica, che “fotografa” la situazione in un dato istante. L’elemento dinamico è il declino sociale della nobiltà, nonostante momenti di “restaurazione” aristocratica come quelli che caratterizzano il regno di Luigi XIV (non casualmente anche un periodo di declino economico), e il declino della società contadina, attaccata da nobili, Stato e borghesi. Il rafforzamento e l’estensione della società borghese è l’elemento che caratterizza la prima parte del XVII e tutto il XVIII secolo. Questo rafforzamento ed estensione sociale borghese è un fattore del tutto indipendente dalla soggettiva posizione pro-aristocratica (predominante fino alla metà del ‘700) di questo o quel settore borghese, dal loro desiderio di essere accettati nell’aristocrazia. La politica mercantilista e lo sviluppo coloniale del XVIII secolo per aumentare la ricchezza della nazione e di conseguenza la ricchezza e la potenza dello Stato (l’arricchimento come “fine ultimo dello Stato”) non si realizzarono in una situazione di città sovrane strutturalmente integrate in un mondo feudale dominato dalla nobiltà, ma furono “accumulazione e concentrazione violentemente accelerata dei capitali”. In questo senso lo Stato assoluto fu “uno strumento, un’arma, della società borghese”: perché per vivere, crescere, pagare le pensioni agli aristocratici e fare guerre, lo Stato assoluto non poteva che appoggiarsi alla “società” che si appropriava gran parte della ricchezza sociale – uccidere quest’ultima significava commettere suicidio. La posizione dell’aristocrazia ai vertici dello Stato, del tutto indipendentemente dagli orientamenti soggettivi sicuramente antiborghesi, era una contraddizione insolubile. Spinta dalle proprie esigenze era costretta a fare cose che avrebbero segnato la propria fine. Le varie, “contraddittorie” affermazioni di Marx ed Engels sullo Stato assoluto colgono quindi diversi aspetti di quest’ultimo: il come è nato, individuando chi è al potere, fotografando la società sottostante, vedendo la dinamica di questa stessa società. Ma qual è allora una “definizione” dello Stato assoluto? Era lo Stato di una aristocrazia, una volta classe dominante nel medioevo, ora senza più funzioni sociali, parassitaria, uno Stato che per vivere doveva fare scelte che favorivano una “società borghese” in espansione, non perché lo volesse, ma perché la sua stessa esistenza era dovuta al fatto che la “vecchia società” nobiliare non poteva più sussistere, riprodursi. Era lo Stato di una società in transizione, che creò le condizioni del capitalismo cercando di salvare il feudalesimo. L’esito furono le tempeste del 1789, del 1830, del 1848. Così Marx in poche righe riassume più di mezzo secolo di storia francese: La scopa gigantesca della Rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò via tutte [le] reliquie dei tempi passati, sgomberando così simultaneamente il suolo sociale dagli ultimi intralci alla sovrastruttura dell’edificio dello Stato moderno, edificato sotto il Primo Impero, a sua volta scaturito dalle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi régimes, il governo, posto sotto il controllo parlamentare – cioè sotto il diretto controllo delle classi possidenti – non diventò solamente il focolaio di enormi debiti nazionali e di tasse opprimenti; con le sue irresistibili attrattive di posti, guadagni, clientele, non solo divenne il pomo della discordia tra le fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cambiò insieme ai cambiamenti economici della società. […] Sotto i Borboni aveva regnato la grande proprietà terriera, coi suoi preti e i suoi lacchè; sotto gli Orléans l’alta finanza, la grande industria, il grande commercio, cioè il capitale, col suo seguito di avvocati, professori e retori. La monarchia legittima era soltanto l’espressione politica del dominio ereditario dei grandi proprietari fondiari, mentre la monarchia di luglio 35 non era altro che l’espressione politica del dominio usurpato dei parvenus borghesi. Dunque ciò che opponeva l’una all’altra queste frazioni… erano le condizioni materiali d’esistenza, due diverse specie della proprietà; era il vecchio contrasto tra la città e la campagna, la rivalità tra il capitale e la proprietà fondiaria […] E parliamo di due interessi della borghesia perché la grande proprietà fondiaria, malgrado civettasse col feudalismo e malgrado il suo orgoglio di razza, era, in conseguenza dello sviluppo della società moderna, completamente imborghesita […] Alla monarchia borghese di Luigi Filippo può succedere soltanto la repubblica borghese, il che vuol dire che se prima una parte limitata della borghesia regnava in nome dei re, ora deve dominare in nome del popolo la totalità della borghesia… La repubblica borghese trionfò. Essa aveva per sé l’aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i piccoli borghesi, l’esercito, la canaglia organizzata in Guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale. Il 2 dicembre 1851 con un colpo di stato inizia la dittatura di Luigi Napoleone Bonaparte, che si proclama Imperatore col nome di Napoleone III meno di un anno dopo. Si trattava di una “innovazione” storica, come mutatis mutandis lo fu il sorgere della monarchia assoluta, ma una “innovazione” che si concretizzava in un personaggio, Luigi Bonaparte, “mediocre e grottesco”: come era possibile che la borghesia francese all’apice del suo potere sociale e politico rinunciasse alla “forma completa e pura” del suo dominio e accettasse di cedere tutte le leve del potere a un qualsiasi, volgare avventuriero? Per Marx Luigi Bonaparte ha “usurpato il potere sfruttando la lotta di classe in Francia”. L’avvenimento decisivo fu l’ingresso nell’arena politica delle classi lavoratrici come soggetto autonomo, indipendente, reso manifesto nell’insurrezione operaia del giugno 1848. La “chiave” del bonapartismo è che “per mantenere intatto il… potere sociale [della borghesia], dev’essere spezzato il suo potere politico… per salvare la propria borsa, essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempo pendere come una spada di Damocle sulla propria testa”. “I singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell’ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi”. Questa situazione può essere illustrata con una particolare versione della “teoria dell’equilibrio”: “Tutto il segreto del successo di Luigi Napoleone consiste in questo: grazie alle tradizioni legate al suo nome, egli si è collocato in una posizione tale da poter tenere nelle sue mani, temporaneamente, l’equilibrio delle classi antagoniste della società francese”, “il bonapartismo… del Secondo Impero francese… giocò il proletariato contro la borghesia e questa contro il proletariato”. Ma mentre lo Stato assoluto cercava di difendere gli interessi di una vecchia classe dominante, in declino e parassitaria, il bonapartismo inizialmente si autonomizzò completamente dalle due classi fondamentali, borghesia e proletariato, “professa[ndo] di appoggiarsi sui contadini, la grande massa di produttori non direttamente coinvolta nella lotta tra capitale e lavoro”, e trovando la sua base effettiva nell’esercito. Lo sviluppo della lotta di classe a livello politico, la “minaccia rossa”, acuendo i contrasti all’interno della borghesia, creò una situazione di stallo, di paralisi, al punto che solo il potere dello Stato potè risolvere la situazione – rivelando una incompatibilità di fondo tra capitalismo e democrazia: Tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè diventate ‘socialiste’. In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva con ragione il segreto del socialismo… La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da essa forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da essa escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da essa creati l’abbandonavano […] In paesi di vecchia civiltà e con un’avanzata struttura di classe, con condizioni di produzione moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee tradizionali sono state dissolte da un lavoro secolare, la repubblica non è altro, in generale, che la forma in cui si compie la trasformazione politica della società borghese, ma non la forma della sua conservazione. Quest’ultima affermazione, espressa in forma sintetica, è la lezione che Marx trae dal bonapartismo, l’espressione della faglia storica rappresentata dalle rivoluzioni del 1848-1849 e dall’insurrezione proletaria parigina del giugno 1848. L’ “autogoverno” borghese comportava rischi tali da rinunciare a tale “forma completa e pura” del proprio dominio, a rinunciare a subordinare al proprio interesse complessivo tutte le altri classi della società e le pretese di sue singole frazioni. La “faglia” storica del 1848 rivela questi pericoli e mette di conseguenza la parola 36 fine alle rivoluzioni borghesi dal basso. La “repubblica democratica” diventa un obiettivo delle classi lavoratrici contro la borghesia. Inizia un periodo in cui, in funzione della situazione della lotta di classe, la borghesia opta, o più spesso è costretta a optare, per una repubblica democratica; oppure sceglie una cessione del potere statale a un dittatore bonapartista, oppure ancora sceglie una qualche forma statale intermedia di “relativa autonomia dello Stato” dalla stessa classe borghese. Engels ironizza su chi assolutizzava la richiesta di repubblica democratica: Una superstiziosa venerazione dello Stato e per tutto ciò che con esso ha relazione… subentra tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari comuni di tutta la società non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi ben remunerati funzionari. E si crede d’aver già fatto un passo estremamente audace quando ci si è liberati della fede nella monarchia ereditaria e si giura nella repubblica democratica. Per Marx ed Engels, “la repubblica democratica non elimina l’antagonismo di classe, offre al contrario proprio il terreno dello scontro”, portando il proletariato vittorioso a sbarazzarsi di tutto il “ciarpame statale”. Anche la terza repubblica francese mostrava segni di “decadenza”: La borghesia francese, la più avida di denaro e di piaceri di tutte, è accecata dalla propria avidità di denaro e non vede i suoi interessi futuri; vede solo dall’oggi al domani e, assetata di profitto, si getta nella corruzione più scandalosa, dichiara che un’imposta sul reddito è alto tradimento socialista, di fronte a ogni sciopero sa rispondere solo con le salve della fanteria. La Francia dell’ancien règime ha cullato sogni di “Monarchia universale” con Luigi XIV, costruendo un “sistema fondato sul vandalismo e la perfidia”, ma potevano rivelarsi solo sogni. L’ascesa dell’Inghilterra costringe la Francia dalla metà del ‘700 a un ruolo internazionale marginale, ruolo confermato nell’assetto europeo del 1815. Napoleone III cerca di ritrovare l’antico splendore, ma con sotterfugi e millanterie. Il regime bonapartista è per definizione militarista ed espansionista, caratterizzato da quella che Marx stigmatizza come una “imperiale ribalderia militare”. È dipendente dall’esercito, e una permanente crisi strutturale interna, il cui precipitare è procrastinabile solo con successi all’estero, porta a perpetuare il potere solo “attraverso periodiche guerre all’estero”, purché limitate e localizzate. “Per paura della rivoluzione, l’Europa ufficiale ha accettato il regime di Luigi Bonaparte, ma un rinnovarsi periodico della guerra è una delle condizioni vitali di quel regime”. Napoleone III oscilla tra la protezione offertagli dall’Inghilterra, l’alleanza con la Russia e avventure militari, in un gioco in cui spesso il bluff predomina (“ha una paura del diavolo di una guerra sul serio”), ma in cui accumula gli elementi di un conflitto internazionale senza poterli controllare. Il suo crollo salva temporaneamente l’Europa da una guerra generale, ma crea, per Marx ed Engels, nuove condizioni per questa stessa guerra. Prussia e Germania Per quanto riguarda la Germania, Marx ed Engels non potevano interpretare la sua storia sub specie ‘1933’, oggetto delle controversie contemporanee su una vera o presunta Sonderweg tedesca, per cui la catastrofe nazista sarebbe da ascrivere alla sopravvivenza di élites feudali o precapitaliste, né con un approccio “da Lutero a Hitler”, né tantomeno con uno “da Bismarck a Hitler”, ma svilupparono un’analisi specifica della storia prussiana e tedesca con un approccio “da Lutero a Bismarck”, e non solo distinguendo, ma contrapponendo gli interessi prussiani e quelli tedeschi. Per certi aspetti la loro analisi sembra sovrapponibile a quella dei sostenitori di una “peculiarità tedesca”, sia sottolineando le sopravvivenze feudali o semifeudali nella Prussia dell’ultimo quarto del XIX secolo, sia denunciando il peso di una burocrazia ottusa e onnipresente, sia eguagliando “rivoluzione borghese” con “potere politico della borghesia”, sia sostenendo che questo potere politico può essere esercitato dalla borghesia come classe solo in una “repubblica democratica”. Ma se il lessico è sovrapponibile, la sintassi è radicalmente diversa. Così, ad es., non considerano quella francese il paradigma della “rivoluzione borghese”, rivoluzione che per loro può invece svolgersi nell’arco di un secolo, o più: “la Prussia ha il singolare destino di compiere alla fine di questo secolo e nella gradevole forma del bonapartismo la sua rivoluzione borghese, iniziata nel periodo dal 37 1808 al 1813 e spinta avanti per un certo tratto nel 1848. E se tutto andrà bene, se il mondo avrà la compiacenza di restare tranquillo, e se noi tutti vivremo abbastanza, forse nell’anno 1900 potremo vedere che il governo prussiano ha abbandonato tutte le istituzioni feudali e che la Prussia finalmente giunge al punto in cui la Francia si trovava nel 1792”. Così, ad es., non considerano una peculiarità tedesca il “tradimento” della borghesia che non persegue “i propri interessi” – come si è visto sia nel caso inglese che francese la borghesia ha fatto esattamente questo, pur in assenza di residui precapitalisti, per effetto del terrore che la “repubblica democratica” potesse diventare sinonimo di una “repubblica rossa” grazie all’ascesa di un proletariato dotato di coscienza di classe. Per Marx ed Engels vi è una sorta di enigma prussiano in due atti. Il primo data fin dalla nascita di uno “Stato” con questa connotazione geografica alla metà del XVII secolo, prima Ducato poi, nel 1701, Regno. Dal 1641, per più di un secolo e mezzo, fino alla sconfitta di Jena nel 1806, quando “l’intero Stato prussiano fu fatto a pezzi in un sol giorno” (sconfitta “salvifica” per Engels), si ebbe uno Stato con caratteristiche simili a quello assolutista francese, poggiando però su una società pienamente feudale a differenza della Francia. Il secondo enigma fu la Prussia bismarckiana, dagli anni ‘860 in poi, quando uno Stato tardivamente assolutista si trasmuta, senza perdere le sue caratteristiche precapitaliste, in Stato borghese. Il primo atto di questo enigma ha una serie di precondizioni storiche. A cavallo tra XV e XVI secolo la Germania vive un precoce sviluppo capitalista. Nelle campagne a est dell’Elba vive “quello che fino allora era stato uno dei ceti contadini più liberi d’Europa” (Brenner). In questo quadro la Riforma e la guerra dei contadini del 1524-1526 sono viste da Engels come una fallita rivoluzione borghese, con la vittoria di una controrivoluzione nobiliare che riuscì a soggiogare i contadini (uno “stato ideale di signoria feudale terriera, cui la nobiltà tedesca aveva invano aspirato per tutto il Medioevo e che ora, al tramonto dell’economia feudale, aveva finalmente raggiunto, fu adesso gradualmente esteso anche alle terre situare all’est dell’Elba”) e portare al declino la nascente società borghese. Declino del capitalismo tedesco e processo di “neo-feudalizzazione” a est dell’Elba si completeranno nella prima metà del XVII secolo in contemporanea con le devastazioni della Guerra dei Trent’anni. La conclusione di questa guerra comportò la sopravvivenza solo nominale dell’Impero, le cui terre non asburgiche vennero sottoposte a un codominio franco-svedese, e “la Germania fu rigettata indietro di duecento anni nel suo sviluppo”. Il XVIII secolo tedesco è così riassunto in una serie di note di Engels: Stato della Germania nel 1789. a) Agricoltura – condizioni contadine. Servitù, punizione corporale, tasse. b) Industria – totale inedia, essenzialmente lavoro manuale, ma in Inghilterra già inizio dell’industria su larga scala, l’industria tedesca destinata a morire prima ancora di svilupparsi. c) Commercio— passivo. d) Status sociale dei borghesi nei confronti della nobiltà e del governo. e) Ostacolo politico allo sviluppo: frammentazione. Fino alla Guerra dei Trent’anni la “dinastia Hohenzollern” e la Marca di Brandeburgo erano stati assolutamente marginali negli sviluppi tedeschi. L’anno della svolta è il 1641, con l’investitura di Federico Guglielmo I del Ducato di Prussia dalla Corona polacca, dietro compensi in denaro e giuramento di vassallaggio. Cos’è questo Ducato? Gli storici in generale lo identificano a uno Stato assolutista. Per Marx lo Stato di Prussia è l’ “estate”, lo “stato patrimoniale (giacché altro non è lo Stato per loro, né altro può essere per un piccolo marchesato di Brandeburgo)”, il “bene demaniale” della famiglia Hohenzollern; i Hohenzollern erano dei super-Junker, in un paese in cui la classe dominante, anche negli affari di Stato, era quella nobiliare dei Junker: “Sia pure un re assoluto, purché agisca secondo il nostro volere!”. Il regno prussiano del XVIII secolo fu per Marx un “cosiddetto Stato”, un “aborto del XVIII secolo”; successivamente Mehring scriverà che “fra il 1648 e il 1789... in Germania la monarchia assoluta era nient’altro che una caricatura grottesca”. La “ständische Monarchie” è lo Stato dell’aristocrazia perché si basa sul potere sociale dell’aristocrazia, sul suo controllo della terra e della rendita fondiaria. La Prussia fu uno Ständestaat con alcune forme tratte dalla monarchia assolutista francese. Lo Stato prussiano fu preda dei Junker, sia nella burocrazia, che nell’esercito, per Marx gli stessi sovrani erano “guitti” che si alternano a dei “tetr[i] miscugli di sergente istruttore, burocrate e maestro di scuola”. Ma cosa rendeva possibile che uno Stato basato sulla servitù contadina e su degli onnipotenti nobili terrieri potesse assumere forme da assolutismo francese? La risposta di Marx ed Engels è che questo fu possibile solo perché la Prussia riuscì ad ampliarsi territorialmente, acquisendo risorse, ben oltre i limiti di quello che era in suo potere, solo e unicamente ponendosi al servizio, diventando una sorta di vassallo, di una grande potenza straniera, la Russia. 38 la ‘piccola marca’ poteva sperare di poter procedere ad usurpazioni in Germania solamente a patto di accostarsi ad una potenza straniera ostile all’Impero […] Era del tutto naturale… da parte dei Hohenzollern la politica di avvicinamento alla Russia, ossia alla potenza nascente sulle macerie della Svezia… La spartizione del regno svedese fu il primo vero patto politico che fece notare sulla scena europea il regno di Prussia in veste di sciacallo russo […] [la monarchia dei Hohenzollern è] fondata sul patronato russo... comprato... aprendo alla Russia la via per penetrare in Germania,… sacrifica[ndo] alla Russia tutti gli interessi tedeschi […] L’esistenza stessa dello Stato prussiano dipendeva dalla decadenza e dall’annientamento politico della Polonia ovvero – visto dal lato attivo – dal predominio della Russia. Ma, se così è, la restaurazione della Polonia e la caduta del predominio russo equivarrebbero alla fine dello Stato di Prussia [...] Il declino della Polonia coincide con la nascita della Prussia, e il progresso della Russia rappresenta la legge di sviluppo della Prussia. Non c’è Prussia senza Russia. Questo concetto è più e più volte ripetuto da Marx ed Engels. È questo ruolo internazionale che ha permesso “le fellonie, le perfidie, le caccie alle eredità con cui è diventata grande quella famiglia di caporali che porta il nome di Hohenzollern”, che ha permesso a mediocrità, corruzione, volgarità, di riuscire. “C’est dégoutant”, conclude Marx. Questo “guazzabuglio di dispotismo, burocratismo e feudalesimo”, questo coacervo di “dispotismo poliziesco, dominio della nobiltà, arbitrio burocratico” termina il 14 ottobre 1806, sui campi di Jena e Auerstädt. “Jena” nella scrittura di Marx ed Engels diventa la metafora del crollo subitaneo di uno Stato e di un ordine sociale basato su oppressione e sfruttamento, odiato e disprezzato. Lo Stato prussiano viene ricostruito, ma non è più lo stesso, perché la sua base sociale cambia. Con un editto del 1807 viene abolita la servitù contadina, più sulla carta che nei fatti, ma inizia un processo secolare di progressiva emancipazione contadina. La nobiltà junker si ritrova in declino, e cerca di salvare il salvabile. Nel corso dei decenni si ritrova a sopravvivere grazie ai sostegni statali. A poco a poco nasce e si sviluppa una società borghese, soprattutto a partire dagli anni ‘930, aiutata dalla formazione nel 1834 del Zollverein (l’unione doganale) tra Prussia e una serie di altri regni tedeschi. Si sviluppa a dismisura una burocrazia che appare al di sopra della società, indipendente dalla stessa. Inizia molto tardivamente l’era della monarchia assolutista prussiana, con caratteristiche simili a quelle identificate nel precedente caso francese, ma ereditando dal periodo precedente il suo ruolo – e la sua raison d’être – a livello internazionale. Il 1848 viene visto da Marx ed Engels come l’equivalente tedesco del 1789, questa volta con reali potenzialità di emancipazione dei lavoratori. Proprio questo dato porterà al “tradimento” della borghesia, che non perseguirà “i propri interessi” contro un feudalesimo e una monarchia assoluta in declino, che “si andava lentamente putrefacendo”. A partire dal decennio ‘850 si ha uno sviluppo “inaudito” del capitalismo tedesco. Questo è il preludio a un’altra, inattesa, innovazione nello sviluppo storico: l’unificazione della “Piccola Germania” (senza cioè le terre asburgiche) sotto la direzione prussiana. Per Engels “l’unità grande prussiana della Piccola Germania” ad opera di Bismarck, fu una rivoluzione, una “completa rivoluzione” pur se ben “singolare”. Fin dal 1866 Engels aveva analizzato questa unificazione tedesca come la realizzazione della politica della borghesia. Certo, il risultato era una “sozzura”, ma bisognava “accettare il fatto, senza approvarlo, e trar profitto, per quanto possiamo, dalle facilitazioni che in ogni modo si offrono per l’organizzazione nazionale e l’unione del proletariato tedesco”. Ma da dove sorgeva questa “rivoluzione dall’alto”? E quali erano i suoi effetti? La causa fondamentale era lo sviluppo “inaudito” del capitalismo in Prussia, e lo Stato, qualsiasi Stato, dipende nei fatti dalla ricchezza sociale prodotta nel paese e da chi se ne appropria. “Le basi sociali del vecchio Stato avevano subìto, anche nel loro intimo, una trasformazione completa”. Lo Stato prussiano, credendo che “non [fosse] mutato nulla [con l’unificazione tedesca], fuor che… è diventato più potente”, in realtà eseguiva gli interessi e i piani borghesi. “Dall’istante in cui non si trattava più di difendere la nobiltà dalla pressione della borghesia, ma di difendere tutte le classi possidenti dalla pressione della classe operaia, la monarchia assoluta fu costretta a trapassare completamente in quella forma di Stato che era stata elaborata proprio per questo fine: la monarchia bonapartista… questo passaggio fu il più grande progresso fatto dalla Prussia dopo il 1848”, nota ironicamente Engels. Per lui la singolare rivoluzione dall’alto del 1866-1871 aveva posto fine alla vecchia monarchia assolutista nata nel 1807-1815, uno “Stato semi-feudale”, e aveva dato nascita a qualcosa di radicalmente diverso, al “bonapartismo [che] è, in ogni caso, una forma moderna di Stato che ha come suo presupposto la soppressione del feudalesimo”. Per questo Inizialmente Engels era convinto che il Reich fosse 39 obbligato all’eliminazione dei residui feudali a causa dello sviluppo inarrestabile della società borghese e del capitalismo, ipotizzando un processo lungo 30-35 anni, l’ “orizzonte 1900”. Questi residui feudali consistevano nei privilegi della nobiltà junker, nella condizione di fatto servile degli operai agricoli in Prussia, in una serie di caratteristiche particolari delle istituzioni dello Stato guglielmino, e nella centralità dei junker nell’apparato e nel sistema di potere di questo Stato. Nel corso degli anni tuttavia Engels cambia in parte opinione. Nel 1894 individua un ostacolo che allunga in modo indefinito i tempi della “rivoluzione borghese” in Germania. “La potenza di questi Junker consiste nel fatto che essi dispongono della proprietà del suolo nel territorio chiuso delle sette antiche provincie della Prussia — vale a dire di un terzo di tutto il territorio del Reich — il che porta con sé il potere economico e politico”. Lo Stato si erge a difesa dei “residui feudali” esistenti: “Solo la semi-schiavitù di fatto, sanzionata dalla legge e dalla consuetudine, e lo sfruttamento senza limiti degli operai agricoli che essa rende possibile, tiene ancora a galla questo regime dei junker”. Questo ostacolo all’espansione della società borghese in Prussia, socio-economico e dato dalla politica statale, rimane comunque, per Engels, temporaneo. Si tratta di un blocco relativo, non assoluto – i junker sono comunque destinati al fallimento come classe sociale. Questo blocco incide sui tempi della singolare “rivoluzione borghese” tedesca, non sulla direzione della sua dinamica. L’orizzonte del “1900” si allunga. In questa situazione Engels definisce lo Stato guglielmino “un ordinamento politico ancora per metà assolutistico ed indicibilmente confuso” ed Engels approva Liebknecht che “definì questo Reichstag la foglia di fico dell’assolutismo”. Come si può dunque concludere la caratterizzazione dello Stato guglielmino? Il frutto da un lato dello sviluppo capitalistico nel quadro di una monarchia assolutista semi-feudale e dall’altro dalla totale abdicazione borghese al potere per il terrore di uno sviluppo autonomo del proletariato (“la borghesia è venuta a patti… [con] la monarchia col suo esercito e la sua burocrazia, la grande nobiltà feudale, i piccoli nobilotti di campagna e perfino i preti”). Grazie a questo il vecchio Stato prussiano procedette a una “rivoluzione”, alla realizzazione del più importante progetto borghese, un’unificazione tedesca, pur se limitata, mantenendo però una dominazione prussiana. Il vecchio Stato prussiano si era visto delegare il potere da parte della borghesia, secondo una logica bonapartista. Eseguì correttamente il suo compito, contribuendo in modo decisivo al rafforzamento capitalistico tedesco; ma al contempo non rinnegò le proprie radici semi-feudali, potendolo fare per le specifiche caratteristiche socioeconomiche del potere dei junker nella Prussia orientale, che li ponevano al riparo dall’estensione della società borghese tedesca. Così si ebbe un regime bonapartista borghese, con “colossali residui di feudalesimo, che conferiscono in Germania a tutto il nostro marciume politico la sua specifica impronta reazionaria”. In questa situazione la battaglia contro le sopravvivenze di feudalesimo e di assolutismo erano indistinguibili dalla battaglia contro il bonapartismo: perché se la borghesia francese delegò il potere a una burocrazia e a un esercito senza radici sociali precapitaliste, in Germania delegò anch’essa il potere a burocrazia ed esercito – ma in Germania queste ultime avevano forti radici precapitaliste, semifeudali e assolutiste. Così abbiamo una formazione sociale in cui “vediamo aggirarsi, tra capitalisti e operai perfettamente moderni, i più incredibili fossili antidiluviani: feudatari, corti di giustizia padronali, signorotti di campagna, bastonature, consiglieri governativi, presidenti distrettuali, corporazioni, conflitti di competenza, potere punitivo amministrativo”, “una società... in cui lo junker feudale e il maestro della corporazione si aggirano come spettri alla ricerca di un nuovo corpo; uno stato del diritto in cui l’arbitrio poliziesco apre ancora ogni giorno nuove falle”. Come scriveva Marx: “uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato a residui feudali, e allo stesso tempo già influenzato dalla borghesia, tenuto assieme dalla burocrazia, difeso dalla polizia”. Un mostro che perirà nel 1919, ma solo dopo una guerra che lasciò nei cimiteri tedeschi due milioni e mezzo di persone. L’Impero asburgico Per quanto riguarda l’Austria, non stupisce che Marx scriva degli Asburgo (come gli Hohenzollern) come nulla più di “titolari di beni demaniali” in Germania, impegnati nella guerra di successione spagnola “soltanto [per] gli interessi della famiglia”. Questo faceva e fa parte di una conoscenza storica acquisita e diffusa. Entrambi si soffermano invece in modo più interessante sulle analogie e sulle differenze tra Hohenzollern e Asburgo. Quello che accomuna i domini dinastici di Hohenzollern e Asburgo è che nella formazione di entrambe giocò un ruolo 40 decisivo “il fatto di esser coinvolto… con tutta la situazione politica internazionale”. Ma a differenza della Prussia, “la storia austriaca, che narra come un vassallo dell’impero tedesco si fondi una potenza dinastica, diventa interessante per la circostanza che il vassallo, una volta imperatore, resta buggerato con le complicazioni con l’oriente, la Boemia, l’Italia, l’Ungheria ecc. e infine col fatto che la sua potenza dinastica acquista tali dimensioni che l’Europa teme in essa una monarchia universale”. Nel XVII e all’inizio del XVIII secolo si susseguirono tra le grandi potenze europee, Francia, Inghilterra e Austria, “dispute interminabili dalla tradizione, dalle condizioni di vita economiche, da interessi politici e dinastici o da sete di conquista”, “per estendere il potere, l’influenza e i possedimenti territoriali” di ciascuno a spese altrui. Una delle conclusioni precedentemente raggiunte analizzando i testi di Marx ed Engels su Francia e Prussia era la incompatibilità tra Ständestaaten e monarchie assolute, per la differenza delle classi sociali che si appropriavano del surplus sociale prodotto (per lo più) dalle masse contadine. Per quando riguarda l’Impero asburgico fino alla metà del XVIII secolo non vi possono essere dubbi – era un classico esempio di Ständestaat, basato su nobiltà e contadini in larghissima parte in condizione servile. Come ricorda Venturi, “[l’] impero era una sorta di aggregato di domini nobiliari, dove il signore era non soltanto padrone, ma anche amministratore, giudice ufficiale. La Boemia, col suo migliaio di simili feudi, era esempio tipico d’un tal tessuto connettivo della monarchia asburgica”. Anche dai contemporanei l’Impero asburgico veniva visto come uno “Stato” con delle strutture arcaiche e inefficienti. “Allorché ascese il trono Teresa era la monarchia pel’esterno senza influenza e considerazione, pel’interno senza nervo e soccorso, il talento senza incoragimento, senza emulazione, l’agricoltura in mani infiacchite”, scriveva il più influente scrittore viennese di cose politiche ed economiche di quegli anni. La seconda metà del XVIII secolo vide un doppio rivolgimento. Sotto il regno di Maria Teresa (soprattutto a partire dal decennio ‘760) e di Giuseppe II vennero prima introdotte delle misure parziali, poi via via più conseguenti, miranti a sopprimere la condizione servile dei contadini (la “servitù personale”) e a limitare i poteri politici nobiliari, accentrando una serie di prerogative fiscali e militari nello Stato. Queste misure incontrarono molta resistenza, furono successivamente in parte ritirate e poi reintrodotte, e così via, e trovarono un’applicazione pratica parziale sul terreno dei rapporti agrari, dove il peso delle corvée (robot) dovute dai contadini rimaneva più che opprimente. Ma segnarono comunque una rottura decisiva con il passato, pur nell’enorme differenziazione provinciale, segnando l’inizio dell’assolutismo asburgico. I limiti e le contraddizioni di questo doppio rivolgimento segnarono la debolezza dell’assolutismo austriaco, che nel periodo metternichiano si chiuse totalmente nei confronti dell’estero, ispirandosi a una improbabile immobilità interna di stampo iper-reazionario. Per Engels “Metternich circondò il suo Stato… con una vera e propria muraglia cinese”; “l’Austria fino al marzo 1848 era ermeticamente chiusa agli occhi delle nazioni straniere, quasi altrettanto quanto la Cina… l’Austria rimase quasi sconosciuta all’Europa, e l’Europa altrettanto sconosciuta all’Austria… [fu] la Cina d’Europa”; in Austria c’era “un arbitrio assolutistico che non aveva eguali neppure in Germania; “in Austria la borghesia era molto meno politicamente sviluppata” che in Germania. “Metternich… ad eccezione dei più potenti baroni feudali… tolse al resto della nobiltà ogni influenza sulla direzione dello Stato. Alla borghesia tolse la sua forza tirando dalla sua parte i baroni finanziari più potenti; doveva farlo, le finanze ve lo costringevano. Così, appoggiato all’alta feudalità e all’alta finanza, nonché alla burocrazia e all’esercito, raggiunse nel modo più completo… l’ideale della monarchia assoluta”. Le rivoluzioni del 1848 nell’Impero asburgico, pur se sanguinosamente sconfitte grazie all’aiuto militare russo, portarono a un risultato decisivo: la soppressione delle più odiose forme di assoggettamento contadino, tra cui il famigerato robot. Non fu un 1789 contadino, ma completò e assestò le riforme giuseppine del decennio ‘780. Dal punto di vista statale la reazione postrivoluzionaria si concretizzò nel tentativo più estremo mai tentato dagli Asburgo di centralizzare l’Impero. Dopo la sconfitta in Italia e la perdita della Lombardia, dal 1860 Marx ed Engels si aspettano un “1789” austriaco: la crisi viene invece superata; ma solo sei anni dopo l’Impero austriaco crollò in modo subitaneo nella guerra contro la Prussia. Marx ed Engels non se lo aspettavano: “il corso degli avvenimenti ha dimostrato la straordinaria cancrena del regime austriaco”, “la straordinaria degenerazione degli Asburgo”, commenta a caldo Marx. Secondo loro Non c’è altro paese in cui, più dell’Austria, il ceto medio liberale ha mostrato i suoi istinti egoisti, la sua inferiorità mentale e il suo ridicolo astio contro la classe operaia. Il suo governo, vedendo l’impero lacerato e minacciato di rovina da una lotta di razze e di nazionalità, perseguita gli operai, i quali soli proclamano la fratellanza di tutte le razze e di tutte le 41 nazionalità. Lo stesso ceto medio, che ha raggiunto la sua nuova posizione non per il suo proprio eroismo, ma esclusivamente grazie al grande disastro dell’armata austriaca, è appena in grado di difendere, come esso stesso sa, le sue nuove conquiste contro gli attacchi della dinastia, dell’aristocrazia e del clero, e sciupa nondimeno la sua energia nel miserevole tentativo di escludere la classe operaia dal diritto di coalizione, di pubblica riunione e di stampa […] Con la guerra del 1866, l’Austria è piovuta come un regalo tra le braccia della borghesia. Ma questa non è capace di esercitare il potere; essa è assolutamente impotente e incapace di fare qualsiasi cosa. Una cosa sola sa fare: scatenarsi contro i lavoratori, non appena questi si muovono […] [In questo zelo] il governo austriaco si aggrappa, ancor saldo per la paura, al suo antico privilegio di rappresentare il don Chisciotte della reazione europea. L’Austria è uno “Stato borghese”, come quello tedesco-prussiano, ben particolare. In primo luogo, è anch’esso una “finzione di monarchia costituzionale”, con un “Reichsrat… [che] è uno stagno di ranocchi, infinitamente più impantanato del Reichstag tedesco e perfino della Camera sassone o bavarese”; dove “il feudalesimo è superato solo in parte” e “le classi dominanti” sono “in pari grado l’aristocrazia feudale e la borghesia”, le “classi dominanti” sono “nobiltà feudale” e “borghesia”. La “situazione austriaca” è “ingarbugliata”, l’Austria è “un paese dove l’intreccio delle vecchie forme feudali, burocratiche, poliziesche con istituzioni più o meno moderne, borghesi, ha lasciato alle prime una preponderanza così forte, che la situazione porta a complicazioni impossibili”. Marx ed Engels consideravano la “dissoluzione” dell’Austria, il suo “dissolversi nelle sue parti costitutive” un destino inevitabile dell’Austria. I “popoli schiacciati sotto il dominio asburgico” si sarebbero liberati da questo giogo. Nel 1882 e poi ancora nel 1888 Engels lo vede in conseguenza di una rivoluzione in Russia, che avrebbe privato dell’ “unica ragion d’essere storica” dell’Austria, “quella di barriera contro l’avanzata russa”. Nel periodo 1815-59, per quanto la sua politica sia stata folle e codarda, l’Austria è stata effettivamente un argine contro la Russia. Ma offrire all’Austria un’altra opportunità – ora, alla vigilia della rivoluzione in Russia – di ergersi come ‘bastione’, significherebbe concederle una dilazione di sopravvivenza, una nuova giustificazione storica della propria esistenza, e procrastinare la disgregazione che sicuramente l’attende […] Una volta annientato lo zarismo… l’Austria cadrà in pezzi, giacché avrà perduto la sua unica ragion d’essere: quella di impedire – con la sua semplice esistenza – allo zarismo conquistatore di annettersi le nazioni sparse dei Carpazi e dei Balcani; la Polonia risorgerà, la Piccola Russia [l’Ucraina] sceglierà liberamente la sua posizione politica, i romeni, i magiari, gli slavi del sud potranno regolare tra loro le proprie questioni e i loro nuovi confini, liberi da qualsiasi ingerenza straniera; la nobile nazione grande-russa… svilupperà di conserto con l’occidente le sue vaste facoltà intellettuali, invece di sacrificare il suo sangue migliore sul patibolo e nei lavori forzati. L’Impero zarista Riguardo alla Russia, alla metà dell’ ‘800 ben pochi potevano avere dubbi sulla sua potenza. La sua ascesa come potenza mondiale fu fulminea. Nella “grande guerra del Nord” (1700-1721) la Svezia – potenza dominante in Europa insieme alla Francia dalla fine della guerra dei trent’anni (pace di Vestfalia, 1648) – venne disfatta, e scomparve come grande potenza mondiale. Nel mar Baltico iniziò una supremazia russa. Nel 1726 la Russia strinse un’alleanza con l’Austria che, salvo alcuni intervalli, resse fino alla metà dell’ ‘800: secondo le parole di uno storico odierno, Anisimov, “l’alleanza con l’Austria consentì alla Russia di entrare nel sistema di relazioni westfaliano. La Russia venne accettata come un potere europeo a pieno titolo, membro della comunità mondiale e del cerchio dei dominatori del mondo, e divenne un elemento costitutivo indispensabile delle combinazioni politiche e del generale balance of power in Europa”. Nel 1772 Russia, Austria e Prussia procedettero alla prima spartizione della Polonia, e costituirono la “Lega del Nord”, per Marx “culla della Santa Alleanza... Questa Lega… diede alla Russia la supremazia in quanto la lasciò arbitra della rivalità tra Austria e Prussia”. “L’enorme riaggiustamento delle frontiere in Europa orientale avvenuto tra il 1772 e il 1775 rese evidente uno spostamento di equilibri di forza verso est, che 42 si preparava da tempo. Si trattò della prima importante guerra combattuta nella regione conclusasi senza alcun tipo di mediazione da parte degli occidentali. In realtà le offerte in tal senso non mancarono, ma furono decisamente rifiutate” (Blanning). Nel 1779, in conseguenza del trattato di Teschen, la Russia divenne garante della costituzione del Sacro Romano Impero, un balzo in avanti dell’influenza russa in Europa. Negli anni successivi fece sentire la sua presenza nel Mediterraneo e si installò nell’America settentrionale. Grazie alla vittoria sulle truppe napoleoniche i trattati di Vienna sancirono la supremazia russa in Europa: “la Turchia, tradita dalla Francia, nel 1812 aveva segnato la pace a Bucarest e aveva sacrificato ai russi la Bessarabia. Il congresso di Vienna portò alla Russia il reame della Polonia, cosicché ora quasi i nove decimi dell’originario territorio polacco erano unificati con la Russia. Più di tutto ciò però contava la posizione europea che lo zar ora occupava. Sul continente europeo non aveva più rivali […] Mai prima di allora la Russia aveva detenuto una posizione tanto imponente”; e Russia, Austria e Prussia costituirono la Santa Alleanza in funzione controrivoluzionaria, ergendosi a “gendarmi” della reazione. Questo ruolo della Russia venne confermato nel 1848-1849, con gli interventi militari prima nei principati di Moldavia e Valacchia e poi in Ungheria. Non stupisce che fosse opinione comune negli ambienti radicali e liberali che la potenza russa fosse pericolosa per ogni sviluppo democratico in Europa e che avesse una innata tendenza espansionistica. Marx ed Engels condividevano questa opinione. Marx la documenta elencando l’allargarsi delle frontiere russe nel corso di un secolo e mezzo e richiama il cosiddetto “testamento” di Pietro I (un testo che in cui veniva illustrata la politica estera che la Russia avrebbe dovuto seguire; i primi dubbi sulla sua autenticità sorsero nel 1854, un anno dopo la pubblicazione dell’articolo di Marx, ma la prima smentita ufficiale russa arrivò nel 1878, ma essendo stata fatta proprio durante l’ennesima guerra russa all’Impero ottomano non risultò molto credibile…) e testi ancora precedenti per illustrare questa tendenza espansionista. Marx ed Engels hanno sottolineato con forza la natura “non europea” della società e dello Stato russo, la loro natura “asiatica”, o “semiasiatica”. Lo Russia, per Marx ed Engels, era una creatura del dominio mongolo-tataro del XIII-XIV secolo, “fu nella terribile e abietta scuola della schiavitù mongola che fu allevata e crebbe la Moscovia. Acquistò forza e potere solo perfezionandosi nell’arte della servitù”, “il pantano sanguinoso della schiavitù mongola… costituisce la culla della Moscovia, di cui la Russia moderna non è che una metamorfosi”; lo Stato era l’espressione di un “dispotismo orientale”, “la forma più rozza di Stato” per Engels. La società russa era segnata sia da una “servitù” nobiliare allo Stato, sia da una servitù contadina con forti tratti schiavistici. Non ha senso chiedere chi fosse la classe dominante in Russia: non certo i contadini, servi mezzi schiavi, non certo una borghesia quasi inesistente, non certo una nobiltà asservita allo Stato. Gerschenkron coglie nel segno affermando che “lo Stato di Pietro… non era di questa o quella classe, ma era lo Stato dello Stato”, mentre nella società doveva regnare il “silenzio”. “Il segreto dei successi della diplomazia russa abroad consisteva nel silenzio di tomba of Russia at home”. “Il silenzio è la virtù degli schiavi” ricordava Marx parafrasando Heine. Potenza barbarica nel senso pieno del termine, dunque, ma anche guidata verso il dominio mondiale, figlia degli analoghi incubi dell’Impero nomade mongolo-tataro: “la politica della Russia è immutabile… la stella principale della sua politica è una stella fissa – il dominio del mondo”. E nel corso del XVIII e XIX secolo era diventata davvero una potenza mondiale, ancora in espansione. Per questo per Marx ed Engels la Russia era una minaccia costante alle società europee, in grado, se vincente, di distruggere tutto lo sviluppo sociale di secoli. Solo la distruzione dello zarismo poteva permettere l’emancipazione borghese e in prospettiva proletaria dell’Europa, per cui nel 1849 scrivevano sulla “Neue Rheinische Zeitung”: “l’odio per i russi è stato ed è ancora la prima passione rivoluzionaria dei tedeschi […] una guerra europea verrà, deve venire. Dividerà l’Europa in due campi militari… da una parte la civiltà, dall’altra la barbarie [...] ogni riforma sociale resta un’utopia fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale non si sono misurate con le armi in una guerra mondiale […] Nel congedarci ricordiamo ai nostri lettori le parole del nostro primo numero di gennaio: ‘Insurrezione rivoluzionaria della classe operaia francese, guerra mondiale: ecco il sommario dell’anno 1849’”. Per questo durante la guerra di Crimea sia loro che i cartisti chiedevano a gran voce una “vera guerra” alla Russia. Le peculiarità dello Stato zarista lo portavano a privilegiare gli strumenti diplomatici a quelli strettamente militari. Nel XVIII secolo, non avendo una “logica dinastica”, come quella europea dominante (il che non escludeva che venissero usate anche delle modalità dinastiche, come strategie matrimoniali, ecc.), era in grado di adottare una 43 politica che all’epoca appariva “non convenzionale”. Infatti quello che allarmò e confuse l’Europa di allora (“curiosità, incredulità e crescente stupore”, per Venturi) fu questo carattere non convenzionale della politica estera russa, molto spregiudicata, che giocava sulle debolezze e indecisioni altrui, interferendo nella vita politica interna degli altri stati (avversari o alleati), dedicandosi a “eccitar le rivoluzioni” tra i sudditi dei suoi avversari e a “fomentar torbidi”, a “suscitare e utilizzare i fermenti di rivolta esistenti... ovunque potessero esser messi in dubbio e in pericolo i vecchi equilibri e le dominazioni tradizionali” (Venturi). Engels, ricapitolando la politica estera russa nel 1890 scriveva che “la diplomazia russa zarista metteva il suo zampino in tutte… [le] congiure e insurrezioni; non che le avesse suscitate o che avesse anche solamente contribuito ai loro successi momentanei in modo essenziale. Ma attraverso i suoi agenti ufficiosi, faceva quel che poteva per seminare discordia […] La diplomazia russa costituisce in un certo senso un moderno ordine dei gesuiti… La politica estera [la politica diplomatica] rappresenta il lato forte – molto forte – dello zarismo”. La Russia è “questa potenza barbarica, la cui testa è San Pietroburgo e le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali d’Europa”. Venturi, riprendendo commenti giornalistici della fine del settecento, afferma da parte sua che “Pietroburgo pareva aver adottato la morale [pieghevole] della Compagnia di Gesù, tanto generosamente ospitata nella Russia di Caterina II”. Per questo “lavoro” lo Stato russo utilizzò, all’occorrenza reclutando all’estero, “personale specializzato”: “una banda di avventurieri” nelle parole di Engels, spregiudicati quanto era necessario nel loro operare “a beneficio della politica espansionista russa”, come i famosi Pozzo di Borgo e Nikolai Ignatiev. Ma dopo la guerra di Crimea il silenzio russo si ruppe, con la morte di Nicola I, una ondata crescente di rivolte contadine, il risveglio della Russia intellettuale. Il 29 aprile 1858 Marx scriveva a Engels che “il movimento di emancipazione della servitù della gleba in Russia segna l’inizio di una storia interna del paese”; Engels ritornando sull’argomento trentadue anni dopo scrisse che fu “l’inizio di una storia interna della Russia, di un movimento spirituale all’interno della nazione stessa e come suo riflesso di una per quanto debole opinione pubblica che andava vieppiù affermandosi, sempre meno trascurabile”. Non certo grazie alla nobiltà, che invece rifiutava la propria emancipazione e si stringeva sempre di più attorno allo zarismo: “nulla impediva al governo di scaricare la questione del servaggio sulle spalle della nobiltà fondiaria… Questa scelta avrebbe implicato il lasciar mano libera alla nobiltà. Ora, il punto è che la nobiltà non era pronta ad accettare questa libertà e quest’onere. Essa aveva paura dei contadini, e aveva pertanto bisogno del bastione dello Stato… la nobiltà provinciale non poteva pensarsi priva dello schermo protettore dello Stato; e ciò le faceva accettare la propria subordinazione, l’assenza di un’autonomia corporativa”. Nel gennaio 1860 per Marx “il fatto più grosso che sta accadendo ora nel mondo è, da una parte, il movimento degli schiavi d’America, apertosi con la morte di Brown, dall’altra, il movimento degli schiavi in Russia” - Engels gli rispose che “la tua opinione sull’importanza del movimento degli schiavi in America e in Russia trova sin d’ora conferma”. Fino al decennio ‘820 il sistema russo riuscì ma reggere, ma successivamente i limiti imposti dal lavoro servile con forti tratti schiavistici divenne un limite via via maggiore all’assolvimento delle necessità economiche, e di conseguenza militari, dato il confronto e la concorrenza con un mondo dove si affermavano relazioni borghesi e ricchezza capitalistica. Il problema era in ultima analisi senza soluzione: “è impossibile emancipare la classe oppressa senza recare danno alla classe che vive su quell’oppressione, e senza al tempo stesso sconvolgere l’intera sovrastruttura dello Stato fondato su una così triste base sociale”. L’emancipazione contadina, i tentativi da parte dello Stato di avviare un processo di modernizzazione a spese degli stessi contadini “liberati”, la nascita e lo sviluppo di movimenti rivoluzionari interni, cambiano radicalmente la situazione. Il “pericolo russo” nei confronti dell’Europa permane, ma a dagli anni ‘860 esclusivamente come uno strumento di salvezza della borghesia europea contro il proletariato. La agognata distruzione dello zarismo è all’ordine del giorno non più grazie a una “guerra europea”, in cui le borghesie europee avrebbero scelto il proprio posto a fianco dello zarismo, ma grazie a una rivoluzione interna. Marx ed Engels la considerano inevitabile a partire dagli anni ‘870, e si augurano una sconfitta russa contro i turchi nel 1877-78 perché questo avrebbe accelerato la rivoluzione russa. Marx ed Engels vedono quest’ultima come la chiave di volta dell’emancipazione proletaria in Europa occidentale: la rivoluzione russa avrebbe “lasciato sole” le borghesie europee di fronte al proletariato, e sarebbe stata il segnale che avrebbe dato avvio alla rivoluzione sociale. In questo quadro una guerra europea sarebbe stata una catastrofe, che avrebbe interrotto il naturale sviluppo della rivoluzione in Russia e del movimento operaio in Europa occidentale. 44 L’Impero ottomano Marx ed Engels si occuparono della Turchia, dell’Impero ottomano, in occasione di crisi internazionali relative alla cosiddetta “Questione d’oriente”. Le loro prese di posizione si concentrarono conseguentemente durante la guerra di Crimea, la crisi del 1875-1878 e gli anni ‘880. Mi limito alle loro letture delle società e dell’Impero ottomano a partire dal 1875, molto diverse da quelle iniziali. La valutazione dei “turchi” era entusiasta: “Ogni altro popolo sarebbe stato mandato in rovina dai quattrocento anni di corruzione, derivante dai bizantini, della capitale – i turchi non devono far altro che eliminare lo strato superiore, per essere [militarmente] completamente all’altezza della Russia. Tradimento, venalità dei capi dell’esercito e dei comandanti delle fortezze, sperpero del denaro destinato all’esercito, appropriazioni indebite di ogni genere, tutto ciò che rovinerebbe qualunque altro stato, è in Turchia abbastanza rilevante, ma tuttavia non tanto da farli soccombere”; “l’unico pericolo per i turchi sta nell’intromissione della diplomazia europea, e soprattutto di quella inglese, che trattenga i turchi dall’impiegare senza remore i loro mezzi di combattimento e pretenda da loro che accettino le provocazioni più inaudite”. Marx ed Engels si esprimevano sui contadini turchi in questi termini: Fintanto che la massa popolare - in questo caso il contadino turco... – è sana, ed è così, una simile comunità orientale può reggere colpi assolutamente incredibili […] il vigoroso soldato comune, figlio del vigoroso contadino turco, trovò... l’occasione di rimediare i danni provocati dai pascià corrotti [nel 1806]. I turchi potevano essere battuti, ma non domati […] il contadino turco – quindi la massa del popolo turco - … abbiamo imparato a conoscerlo come uno dei rappresentanti in assoluto migliori e più onesti del ceto contadino in Europa. Data questa valutazione estremamente positiva dei turchi, il fatto che non abbiano “fatto una rivoluzione” a Costantinopoli si tramuta in una “colpa storica”: “i turchi hanno trascurato di fare una rivoluzione a Costantinopoli, così l’incarnazione del vecchio governo del Serraglio – Machmud Damad – il cognato del Sultano, rimase la vera guida della guerra; esattamente come se il governo russo avesse diretto di persona la guerra contro se stesso… [una] colpa storica dei turchi. Un popolo che in tali momenti di altissima crisi non sa intervenire in senso rivoluzionario è perduto”. Sicuramente a termine l’impero turco era destinato alla dissoluzione, ma per le sue istituzioni, non per caratteristiche intrinseche alla popolazione turca in quanto tale: “la dominanza turca... come tutte le dominazioni orientali, è incompatibile con la società capitalistica; il plusvalore arraffato non è al sicuro davanti all’arbitrio di rapaci satrapi e pascià; manca la prima condizione fondamentale del profitto borghese: la sicurezza della persona commerciante e della sua proprietà”. Ma gli eventuali progressi della società capitalista verso la Turchia anziché esser visti positivamente erano visti negativamente. Mentre nel 1853 venivano magnificati i progressi serbi dall’indipendenza dalla Turchia, ora il giudizio è ribaltato: “I serbi invece, che da 80 anni sono liberi dai turchi, hanno mandato in rovina le loro vecchie istituzioni gentilizie con una burocrazia e una legislazione di scuola austriaca, e perciò si sono fatti battere inevitabilmente dai bulgari. Dai ai bulgari 60 anni di sviluppo borghese – dove tuttavia non concludono nulla – e di governo burocratico e saranno rovinati come adesso i serbi”. Anche i contadini cristiani nella Turchia europea stavano meglio sotto l’impero turco, dove godevano di “pieno autogoverno”: “Il contadino cristiano sotto dominazione turca si trovava materialmente meglio che da qualsiasi altra parte. Aveva conservato le sue istituzioni pre-turche, la sua totale autonomia amministrativa; fin quando pagava le tasse il turco in genere non si occupava di lui; soltanto raramente era esposto a violenze come quelle che il contadino dell’Europa occidentale doveva sopportare da parte della nobiltà europea del Medioevo. Era una esistenza indegna, giusto tollerata, ma non depressa materialmente, non inadeguata allo stato culturale dei popoli di quest’epoca, e così durò a lungo fino a che il raya slavo scoprì che questa esistenza era insopportabile”. “I bulgari… finora si comportano inaspettatamente bene… Ciò lo devono al fatto di esser stati così a lungo sotto i turchi, i quali hanno tranquillamente conservato i vecchi resti delle loro istituzioni gentilizie e hanno ostacolato – con i saccheggi dei pascià – solo la nascente borghesia. … Per i bulgari, come per noi, sarebbe stato infinitamente 45 meglio se fossero rimasti turchi fino alla rivoluzione europea; le istituzioni gentilizie sarebbero state un eccellente punto d’aggancio per lo sviluppo nel comunismo, proprio come il mir russo, che adesso ci viene anch’esso distrutto sotto il naso”. A fronte di una rivoluzione in Russia l’Europa perde ogni interesse all’esistenza di questo agglomerato bizzarro ed eterogeneo di popoli. Altrettanto indifferente diviene allora tutta la cosiddetta questione orientale, la persistenza della dominazione turca nelle regioni slave, greche e albanesi e la disputa per il possesso dell’accesso al mar Nero che a quel punto nessuno può più monopolizzare contro l’Europa. Magiari, rumeni, serbi, bulgari, arnauti, greci e turchi, si troveranno infine nella posizione in cui risolveranno i loro reciproci motivi di litigio senza l’ingerenza da parte di una potenza straniera, fisseranno tra di loro le frontiere dei loro singoli territori nazionali, regoleranno i loro affari interni secondo il proprio giudizio. D’un sol colpo si vede come il grande impedimento all’autonomia e al libero raggruppamento di popoli e frazioni di popoli tra i Carpazi e il mare Egeo stava proprio nello zarismo che aveva utilizzato la presunta liberazione di questi popoli come manto di copertura per mascherare i suoi piani di dominazione mondiale. La posizione di Engels è così riassunta nel 1886: Come stanno le cose adesso la mia opinione è questa: 1) Appoggiare gli slavi del Sud se e fino a quando vanno contro la Russia, poi essi andranno col movimento europeo rivoluzionario. 2) Se essi però vanno contro i turchi, pretendono cioè à tout prix l’annessione dei pochi serbi e bulgari [che sono] ancora adesso turchi, consapevolmente o inconsapevolmente lavorano per la Russia e quindi noi non possiamo collaborare. Questo può essere ottenuto solo rischiando una guerra europea e non ne vale la pena, quei signori devono aspettare, proprio come gli alsaziani, i lorenesi, i trentini ecc. Inoltre, ogni nuovo attacco contro i turchi – nelle condizioni attuali – potrebbe avere come unica conseguenza il fatto che le piccole nazioncine vittoriose – ma vittoriose lo potrebbero diventare solo per mezzo dei russi – o entrerebbero direttamente sotto il giogo russo oppure – cfr. la carta linguistica della penisola – si accapiglierebbero irrimediabilmente tra di loro. 3) Ma non appena scoppia la rivoluzione in Russia, quei signori possono fare ciò che vogliono. Dopo però si accorgeranno che anche coi turchi non la spunteranno. Marx ed Engels vedevano la Turchia, come la Russia, come una società non assimilabile a quelle dell’Europa occidentale, radicalmente diverse dal quel feudalesimo un tempo lì imperante e che nell’ottocento aveva in una serie di paesi importanti residui ancora esistenti, che condizionavano società e Stati. Le mie conclusioni, da uno studio che ho condotto sulla società turca, sono che la società contadina turca con il tributo di sangue versato durante il collasso del XVII secolo ha vissuto una sorta di “azzeramento” nella sua articolazione sociale, con la quasi scomparsa sia del suo strato superiore, sia di quello (ben più ampio) inferiore. Nel XVIII secolo questa società riprende a svilupparsi, iniziando un nuovo sviluppo demografico, diventato impetuoso il secolo successivo, e ad autoaffermarsi in un quadro in cui il controllo sociale è inferiore a quello del XVI secolo. A questo proposito basti ricordare come in ambito urbano nel corso del XVIII secolo i giannizzeri, perdendo il loro status privilegiato, diventino artigiani, commercianti, lavoratori generici, ma mantenendo il loro potere militare; organizzati, armati, diventano uno strumento della sovranità popolare, temuti e odiati dai sultani e da tutta l’aristocrazia di corte, per cui erano solo degli “scorpioni” da sterminare. Dopo il secolo del “recupero”, questa società contadina, grazie anche a una positiva congiuntura nei prezzi agricoli internazionali, vive tra il 1820 e il 1873 un momento di particolare crescita, con un alto tasso di commercializzazione; iniziano a delinearsi dei processi di differenziazione al suo interno, ma nei primi due terzi del secolo rimangono embrionali. Questa dinamica permette a mio avviso di dare un senso alla realtà piccolo contadina quale si presentava nel 1878 (realtà, ça va sans dire, storicamente provvisoria), e a riconoscere genesi, sconfitte, conquiste e tenacia di quel “contadino turco” che tanta ammirazione aveva suscitato sia in Marx che in Engels. 46 Marx ed Engels cambiarono quadro d’analisi nel corso del quarto di secolo che intercorre dall’inizio della guerra di Crimea alla guerra russo-turca del 1877-1878. Alcuni fattori sono cambiamenti obiettivi: il mutamento della situazione internazionale, il sorgere e l’affermarsi del movimento rivoluzionario russo, la fine di ogni ruolo progressista della borghesia. Altri fattori sono invece cambiamenti teorici nell’analisi di Marx ed Engels, derivanti dagli approfondimenti e dall’esperienza accumulati in quel venticinquennio, come la nuovi studi sulle realtà contadine; la scoperta delle “vecchie istituzioni gentilizie” nelle società contadine, e del ruolo progressista che potrebbero avere nel futuro di un’umanità libera dal capitalismo – scoperta fatta sia sulla base dello studio delle contemporanee strutture agrarie russe, sia dello sviluppo storico delle società più antiche; e come la scoperta che la diffusione del capitalismo nelle società tradizionali poteva avere effetti regressivi nel lungo periodo, non solo congiunturali in una fase transitoria, allorquando si vengono a creare situazioni coloniali o semicoloniali. 47 Marx ed Engels (3). Il sistema di Stati europeo. Dopo questa carrellata si potrebbe concludere che davvero Marx ed Engels non avevano una teoria delle relazioni internazionali, ma non nel senso in cui comunemente si intende tale affermazione, cioè che Marx ed Engels abbiano fatto una serie di analisi puntuali tra loro incoerenti e contraddittorie. Le loro analisi sono in realtà coerenti, e le contraddizioni che vengono rilevate lo sono perché non si coglie la logica del loro approccio. Ma si potrebbe lo stesso affermare che non avevano una teoria delle relazioni internazionali perché per loro questo non era un ambito analizzabile in sé, perché sono la risultante di una serie di politiche di classi sociali e di frazioni di classi che si sviluppano sempre a un livello nazionale e al contempo internazionale. Storia, società, classi, politiche, contingenze, tutte queste pluralità nelle loro interrelazioni concorrono a formare una politica mondiale in cui non è possibile estrarre un ambito separato denominato “teoria delle relazioni internazionali”. Ma questo non esaurisce ovviamente l’analisi, perché se Marx ed Engels non hanno mai pensato che fosse possibile una “teoria delle relazioni internazionali” hanno tuttavia analizzato le relazioni internazionali in cui erano immersi come un “sistema” internazionale dato, con una propria logica, una propria dinamica, con contraddizioni specifiche, con una data di nascita e una di morte prevista. Un “sistema degli Stati” formato da tutte le società e le forze sociali che abbiamo passato in rassegna, e che al contempo ha determinato lo sviluppo di queste stesse società e forze sociali. E hanno anche sostenuto che la fine di questo sistema sarebbe sfociato in una guerra europea generale, e non in qualcos’altro, un nuovo equilibrio, o un periodo indefinito di instabilità relativa. Tutti elementi per nulla scontati: è davvero esistito un “sistema internazionale”? In cosa consisteva? Perché doveva terminare con una guerra? Alla prima domanda Schroeder, uno dei più importanti studiosi di storia diplomatica, risponde affermativamente, affermando che un “sistema”, cioè un insieme di vincoli, possibilità e regole che legavano tra loro le Potenze europee, è esistito tra il 1815 e la guerra di Crimea, terminata con la pace di Parigi del 1856, ed era esemplificato dall’esistenza del “Concerto europeo”, cioè l’esistenza di regole non scritte per cui a fronte di crisi internazionali le grandi Potenze si consultavano tra loro trovando una soluzione alle crisi insorte; Schroeder inoltre sostiene che questo “sistema” sopravvisse alla guerra di Crimea in termini di una cultura politica internazionale condivisa, che scomparve nei primi anni del XX secolo. Il giudizio di Schroeder è positivo su questo “sistema”, in quanto fece sì che nessuna guerra generale sconvolgesse l’Europa per ben un secolo, dal 1815 al 1914. Marx ed Engels non avevano una visione così irenica del sistema internazionale varato dal Congresso di Vienna nel 1815, la cosiddetta “era di Metternich”, che consideravano invece reazionario, oppressivo, e da distruggere, e per loro non era una cultura politica condivisa a livello internazionale che permetteva la pace, ma fattori materiali e interessi concreti. Per analizzare questo “sistema” nella loro ottica introduco una differenza, solo implicita nei loro scritti, tra interessi di classe sostanziali e prudenziali, differenza messa in luce dalla Benner: interessi sostanziali a livello economico e politico, e interessi prudenziali, che si formano nel processo di contrapposizione, di conflitto con altre classi. Il primo insieme di interessi spiega l’azione di classe con i fini che si pongono gli attori di questa classe. Il secondo insieme si riferisce invece a interessi negativi di autopreservazione, che diventano di primaria importanza quando gli sforzi per assicurarsi gli interessi sostanziali vengono bloccati o deviati dall’opposizione delle altre classi e delle istituzioni che le sostengono. Per Marx ed Engels un “sistema degli Stati” europeo venne varato tra il 1763 e il 1772, tra la fine della guerra dei sette anni e la prima spartizione della Polonia, ed era ancora funzionante alla morte di Engels, nel 1895. Consisteva, come si è visto, in una alleanza anglo-russa sulle spoglie del precedente predominio franco-svedese, il dominio marittimo e mondiale dell’Inghilterra, la supremazia continentale russa, ottenuta grazie all’attiva “riconoscenza” prussiana a San Pietroburgo e alla neutralizzazione degli Asburgo, e il “congelamento” dell’Impero ottomano per bloccare l’ingresso della Russia nel mar Mediterraneo, riserva britannica. La supremazia di una Russia immobile, garante dello status quo, e il predominio economico inglese incontrastato erano i poli di un campo di forze che delimitava vincoli e possibilità per tutti gli attori e stabiliva le regole del sistema internazionale, ed era un “sistema” di Stati nella misura in cui le classi e le frazioni di classe nazionali accettavano questi vincoli e possibilità offerti dal seguire una serie regole, norme, procedure – come in una partita di poker ciascuno cercava di spennare tutti gli altri, ma accettando (o fingendo di accettare) le regole del gioco. Ma a differenza di una partita di poker, i 48 partecipanti non erano su un piano di parità, perché permetteva il raggiungimento degli interessi sostanziali – aumentare il proprio potere, la propria supremazia, il proprio commercio, la propria ricchezza – di qualcuno a scapito di altri, a favore dei due attori principali, l’autocrazia zarista e la “vecchia borghesia” britannica, e a scapito degli altri attori sociali europei. Si trattava di un “sistema” che assicurava un predominio feudale e “asiatico” sul continente, con la marginalizzazione della Francia, alla cui guida vi era un’aristocrazia parassitaria e nella cui società i rapporti borghesi erano penetrati talmente in profondità da condizionarne lo sviluppo, e con il mantenimento dell’estrema frammentazione germanica tra i due poli pienamente feudali del Regno di Prussia e dell’Impero asburgico. Come può un tale sistema, feudale e “asiatico”, sopravvivere per più di un secolo? I cambiamenti nel quadro europeo sono stati impressionanti, e per potere rispondere a questa domanda bisogna distinguere, come Schroeder, tra il periodo fino alla guerra di Crimea e quello successivo. In effetti dal 1858 una serie di processi si mettono in moto e cambiano radicalmente la situazione, che si assesta suppergiù verso il 1873. Il Congresso di Vienna fu l’esito della vittoria della coalizione antifrancese nel 1814-1815, episodio finale di una serie di guerre iniziata nel 1792, prima contro la Francia rivoluzionaria, poi contro quella napoleonica. La vittoria fu in primo luogo dell’Inghilterra e della Russia, e questo Congresso di conseguenza ratificò il sistema europeo preesistente, rafforzando ulteriormente il potere “asiatico” della Russia. Ma già molto era cambiato: i vecchi Stati feudali erano scomparsi lasciando spazio a Stati assolutisti, con i primi, per quanto limitati passi verso l’abolizione della servitù contadina, dalle riforme di Maria Teresa e Giuseppe II alla “salvifica” sconfitta di Jena; in Francia la vecchia aristocrazia parassitaria aveva lasciato il posto a un dominio che, pur scimmiottando l’ancien règime, era pienamente borghese; e in Inghilterra prendeva sempre più piede la “nuova borghesia” e la situazione era matura per l’apparire delle prime lotte e organizzazioni operaie. Solo la Russia era immune da questi sommovimenti sociali. A fronte di questa situazione Marx, anni dopo, affermò che il Congresso di Vienna “rattoppò” il vecchio “sistema degli Stati”. L’ordine feudale e “asiatico” dell’Europa già nel 1815 non corrispondeva più all’ordine sociale effettivamente esistente. Per circa trent’anni questa situazione resse a tutte le crisi e gli scossoni, dalla rivoluzione in Francia del 1830, alla secessione del Belgio, alle varie crisi orientali e polacche. Ma le grandi rivoluzioni del 1848, che misero in discussione tutte le potenze europee eccetto la Russia, non riuscirono a rompere quest’ordine reazionario solo grazie a una svolta storica di portata immensa, la rinuncia delle borghesie europee (in specifico quella tedesca) ad avere un qualsiasi ruolo rivoluzionario contro le aristocrazie e le monarchie semifeudali, per timore di un’ascesa delle rivendicazioni e delle lotte operaie. Il periodo delle rivoluzioni borghesi “dal basso” era storicamente concluso. Solo questo permise al vecchio “sistema” di reggere alle tempeste quarantottesche. Ma dopo il ’48 seguì un altro avvenimento storico allora stupefacente, la rinuncia al potere politico della borghesia francese, che lo consegnò a un avventuriero da strapazzo, l’autonominato Napoleone III. Sia l’abdicazione a un ruolo rivoluzionario nel 1848 in Germania, sia la rinuncia sic et simpliciter al potere politico nel 1851 in Francia, da parte della borghesia, preannunciavano avvenimenti e processi che avrebbero avuto un impatto direttamente internazionale nel periodo di transizione tra il 1858 e il 1873. Dopo la “colossale commedia degli errori” della guerra di Crimea una serie di processi si scatenarono. In primo luogo, la fine del monolitismo russo, con le rivolte contadine e l’ “emancipazione” loro concessa, il risveglio intellettuale, la formazione di movimenti rivoluzionari – alla metà dell’870 la rivoluzione in Russia era all’ordine del giorno. La Russia da “grande salvatore” per tutte le forze più reazionarie europee era diventato un “grande malato”, su cui tutti si affacciavano timorosi che potesse esser scosso da una rivoluzione dalle dimensioni e dagli esiti inimmaginabili. In secondo luogo, iniziò l’era delle rivoluzioni borghesi “dall’alto”, grazie a delle alleanze tra borghesie e aristocrazie semifeudali, che si piegarono alla trasformazione ma senza rinunciare in nulla alle proprie prerogative politiche, sociali ed economiche. Così si ebbe prima l’unificazione italiana e poi quella tedesca, sia pur su scala ridotta, e ottenuta a prezzo di una frattura insanabile con la Francia, grazie all’annessione dell’AlsaziaLorena nel 1871. La Russia assistette impotente all’unificazione tedesca illudendosi che grazie alla direzione prussiana nulla fosse cambiato, grazie alla secolare “riconoscenza” degli Hohenzollern. San Pietroburgo aveva ragione sulla “riconoscenza”, ma torto sulla valutazione della situazione che si era venuta a creare: l’unificazione tedesca era in sé un elemento che cambiava le carte in tavola nei rapporti di potere sul continente, e una 49 contraddizione si apriva tra una Germania di fatto emancipata dalla tutela russa e una Russia che non poteva rinunciare a una secolare supremazia. Infine, in Inghilterra la “nuova borghesia” rinunciò a conquistare il potere politico che ricercava da anni, e si accontentò di un compromesso spurio con le vecchie aristocrazie, con la “vecchia borghesia”; e in contemporanea iniziò il relativo declino industriale rispetto a paesi come la Germania e gli Stati uniti, e l’assoluto declino agrario a favore di paesi come gli Stati uniti e l’Argentina. Last, but not least, emerse un movimento operaio organizzato a livello internazionale, con la nascita dell’Associazione internazionale dei lavoratori, e la “Repubblica rossa” uscì dal novero degli incubi notturni borghesi e fece ingresso nella tangibile realtà della Comune di Parigi. In tutto questo turbinio di avvenimenti, i potenti che usarono “mezzi rivoluzionari”, che non rispettavano le regole del “sistema” europeo, come Cavour e Bismarck, lo fecero in modo rapido e puntuale, prendendo tutte le precauzioni del caso e rientrando nelle regole subito dopo l’ottenimento del risultato ricercato. Ma dopo quindici anni di trasformazioni radicali l’Europa aveva cambiato volto in tutto e per tutto. La fine del “sistema” europeo era all’ordine del giorno? Marx ne era convinto. Nel gennaio 1878, nell’ennesima crisi orientale, la Russia riuscì a infliggere una sconfitta storica all’Impero ottomano, più che per la forza del proprio esercito e dei suoi generali, per i tradimenti consumati nei centri dirigenti del campo avverso. A febbraio Marx scrisse una lettera destinata alla pubblicazione in cui affermava: Naturalmente sullo sfondo del successo russo vi è… Bismarck. Questi fondò l’Alleanza dei Tre Imperatori, attraverso la quale l’Austria fu tenuta tranquilla. Anche dopo la caduta di Pleven, all’Austria sarebbe bastato mettere in campo soltanto 100.000 uomini – e i russi avrebbero dovuto ritirarsi in silenzio oppure accontentarsi di risultati più modesti. L’abdicazione austriaca diede fin dall’inizio il sopravvento al partito russo in Inghilterra, dato che la Francia (a seguito della catastrofe post-sedaniana – catastrofe dopo Sedan – favorita dal signor Gladstone, allora primo ministro) per l’Inghilterra non esisteva più come potenza militare continentale. La conseguenza è semplicemente la dissoluzione dell’Austria, che è inevitabile, se le condizioni di pace russe vengono accettate e quindi la Turchia (per lo meno in Europa) continuerà ad esistere solo formalmente. La Turchia costituiva la diga dell’Austria contro la Russia e il suo seguito slavo… Ma la Prussia in quanto Prussia – quindi nella sua specifica contrapposizione con la Germania – ha ancora altri interessi: la Prussia in quanto tale è la sua dinastia, è diventata ed è ciò che è su “pegno” russo. Una sconfitta della Russia – la rivoluzione in Russia – sarebbe la campana a morto per la Prussia. Altrimenti persino il signor von Bismarck, dopo la grande vittoria sulla Francia, dopo che la Prussia [è] divenuta la prima potenza militare d’Europa, non le avrebbe attribuito di nuovo di fronte alla Russia la stessa posizione che essa assunse nel 1815, come quinta ruota della vettura degli Stati europei […] Ma tutta la faccenda ha anche altri aspetti. La Turchia e l’Austria erano l’ultimo baluardo del vecchio ordinamento degli Stati europei, che venne di nuovo rattoppato nel 1815: con il declino di quello esso crolla completamente. Il crollo, che si compirà in una serie di guerre (“localizzate” e infine “generali”), accelera la crisi sociale… e con essa la decadenza di tutte queste bellicose shampowers (potenze fittizie). Lo stesso giorno in una lettera privata specificava: Turchia e Austria erano gli ultimi puntelli del vecchio sistema di Stati d’Europa… Ora avrà definitivamente la peggio, spirando in una successione di guerre che faranno precipitare la crisi sociale e inghiottiranno tutte le cosiddette Potenze, quelle potenze fasulle, vincitrici e vinte, per lasciare posto a una Rivoluzione Sociale Europea. Tra giugno e luglio dello stesso anno il Congresso di Berlino ridimensionò le conquiste russe (la “vittoria mutilata”) e diede nuovo ossigeno all’Impero ottomano, pur consegnando di fatto la Bosnia all’Austria. A settembre Marx scrisse: Per me è cosa certa che nulla di ciò che la Russia e la Prussia possono fare ora into the bargain (in più) nel teatro mondiale può avere altre conseguenze perniciose se non quelle per il loro regime, né [può] frenare il crollo di questo stesso, bensì solo affrettarne la 50 spaventosa fine. Tralasciamo per il momento la questione della “guerra inevitabile” e consideriamo gli assetti internazionali esistenti in Europa tra il 1873 e il 1895. In primo luogo, Marx afferma che il vecchio “sistema” è ancora in piedi: come è possibile che un sistema feudale e “asiatico” fosse ancora all’opera nel capitalistico 1878? Lo era davvero? E se sì perché? Inoltre, Marx afferma che Turchia e Austria erano gli ultimi puntelli, erano l’ultimo baluardo di questo sistema, e che con il loro declino il sistema era destinato a crollare. Perché Turchia e Austria avevano tutta questa importanza? Perché non i grandi paesi europei, Russia, Inghilterra, Francia, Germania? Perché il sistema avrebbe dovuto crollare con il declino di Austria e Turchia? Per completare il quadro aggiungo che sia Marx che Engels ritenevano inevitabile a termine una rivoluzione in Russia, e che se questa fosse intervenuta prima del crollo del sistema degli Stati europeo avrebbe portato a una rivoluzione sociale nei paesi europei, rivoluzione sicuramente vittoriosa in quanto le varie borghesie sarebbero state private delle risorse militari costituite dal “bastione della reazione” zarista. La velocità rispettiva dei due processi, verso la rivoluzione in Russia e verso il crollo del sistema internazionale europeo, avrebbe deciso il futuro dell’Europa. L’assetto europeo tra il 1878 e il 1895 era certamente del tutto anacronistico, ma continuava a operare – lo dimostra il Congresso di Berlino che limitò la vittoria russa in oriente e rafforzò Costantinopoli e Vienna. Nei rapporti tra Russia ed Europa continentale si venne a creare uno strano gioco di reciprocità: da un lato la debolezza russa faceva paura a tutte le potenze, in specifico alle classi dominanti di Germania e a quelle di Francia, entrambe pronte a soccorrere lo zarismo; dall’altro lato la frattura franco-tedesca permetteva a San Pietroburgo, nonostante la sua dipendenza dagli aiuti esteri, di ergersi ad arbitro tra Francia e Germania, ritrovandosi una supremazia per così dire di second’ordine. Era la paura a reggere questo equilibrio: la paura del proletariato, la paura della rivoluzione, la paura reciproca del vicino, a oriente e a occidente, la coscienza – di chiunque – della propria debolezza di fondo. Il declino inglese si faceva tangibile, le classi dominanti francesi si dilaniavano tra loro dopo il grande massacro inflitto ai parigini, rei di esser stati comunardi, l’Austria perdeva, dopo la Lombardia, anche il Veneto a beneficio dell’unificazione italiana, e si costituzionalizzava, ma con una borghesia ancor più pavida, se possibile, della sua omologa tedesca. Le classi dominanti europee nel 1815 si erano unite contro le forze borghesi, nell’870 sono al loro servizio, ma tutte con soluzioni di ripiego, di secondo e di terz’ordine. Era il periodo della complessa diplomazia europea bismarckiana, sviluppata su più tavoli al contempo, in modo da contenere le crisi e stabilizzare le situazioni anche con manovre tra loro contraddittorie, una politica fatta al contempo di compromessi e di iniziative spregiudicate. Il sistema degli Stati europei era diventato solo il fantasma di se stesso, composto di “Potenze fittizie”, che non governavano gli eventi, ma ne erano governati. Il futuro era diventato minaccioso e incerto, in Europa la crisi iniziata nel 1873 proseguiva senza mai finire, e ogni sviluppo pericoloso in un paese si ripercuoteva immediatamente sugli altri, sia nel settore bancario e che in quello politico. La ragion d’essere di questo sistema era che permetteva, nel nuovo quadro sociale europeo, di perseguire gli interessi delle varie classi dominanti, non gli interessi sostanziali, ma quelli prudenziali: mantenere in piedi la potenza zarista perché sarebbe potuta tornare utile, ma impedirle di rafforzarsi nell’Europa sudorientale; evitare una guerra generale rischiosa per tutti; sopravvivere al livello già raggiunto, sia in termini economici, sia a livelli di confini statali e di influenza internazionale; e soprattutto sopravvivere di fronte alla minaccia costituita dai movimenti dei lavoratori e in generale dalle classi oppresse e sfruttate. Questi interessi prudenziali delle varie potenze europee si concretizzavano in due concreti interessi internazionali, tra loro connessi e bilanciati: evitare la caduta dello zarismo e al contempo operare per il suo contenimento nella regione balcanica, “congelando” l’Impero ottomano e quello asburgico. In altri termini: evitare la rivoluzione in Russia, ed evitare il crollo del sistema europeo. Evitare sia la rivoluzione, sia la guerra, e mantenere a tutti i costi lo status quo, anche se anacronistico, ma nel frattempo lanciarsi in una corsa agli armamenti, sempre utili sia un caso che nell’altro. Non solo Marx ed Engels, ma anche le classi dirigenti borghesi e aristocratiche semifeudali, ritenevano che l’ingresso della Russia nel Mediterraneo avrebbe comportato il crollo dell’ordine interstatale europeo, portando allo zenit le tensioni russoinglesi e russo-tedesche, e che questo crollo avrebbe comportato una guerra generale; e che una rivoluzione in Russia avrebbe portato la rivoluzione in tutto il continente. Le classi dominanti non avevano altra scelta che tentare disperatamente di bloccare tutti e due i processi la cui velocità decideva del futuro dell’Europa. Riuscirono a posticiparli entrambi, nulla più. 51 Perché un ammuffito e anacronistico “sistema degli Stati europeo” poteva solo terminare con una guerra generale? Semplicemente perché il crollo dell’ordine europeo era sinonimo di scomparsa di interessi prudenziali condivisi, e quindi i diversi Stati, le classi, le frazioni di classe che erano al potere, avrebbero iniziato a perseguire ciascuno i propri specifici interessi sostanziali, che sono per definizione a scapito altrui. Potere, supremazia, commerci, ricchezza: non tutti possono avere tutte queste cose al contempo, e quale fetta ciascuno potrà ritagliarsi potrà esser deciso solo dagli esiti di una guerra. Perseguire interessi puramente sostanziali è la concorrenza brutale, senza regole, arrivare ai propri obiettivi impedendo al concorrente di raggiungere i suoi, in cui c’è sempre un vincitore e un vinto, in cui il più forte schiaccia il più debole, e se la forza si equivale, allora ci si mette d’accordo a spese di quelli rimasti più deboli. È la concorrenza fra Stati secondo le modalità della concorrenza dei capitali, “chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo, trasportata, con accresciuto furore, dalla natura alla società”: Se il profitto è congruo, il capitale si fa audace. Un 10% sicuro ne garantirà l’impiego dovunque; un 20% sicuro lo renderà animoso; il 50%, addirittura temerario; il 100% lo spingerà a mettersi sotto i piedi tutte le leggi umane. Assicurategli il 300%, e non vi sarà delitto che non arrischi, neppure pena la forca. D’altronde, come diceva Marx, “la rapacità è il principio vitale di ogni borghesia, e prendere terre altrui è pur sempre ‘prendere’”. Ma perché dopo anche una guerra generale né Marx né Engels immaginavano un nuovo ordine internazionale borghese dell’Europa? Intendendo qui, per “Europa”, l’intero mondo capitalista. Per loro l’esito poteva essere solo la rivoluzione sociale, per cui la futura guerra generale “sarà sicuramente l’ultima”. Di certo il loro ottimismo rivoluzionario ha avuto un ruolo. Ma perché un “nuovo ordine” potesse reggersi si potevano immaginare solo due ipotesi: o un ordine imposto con la forza delle armi da parte di uno degli attori, o di un’alleanza di attori, ma quest’ordine sarebbe stato temporaneo, “a scadenza”; oppure avrebbe dovuto riunire in modo duraturo degli interessi prudenziali condivisi da tutti gli Stati capitalisti, interessi che potevano fungere da collante internazionale, costringendoli ad accettare vincoli, opportunità e regole che congelavano parzialmente le loro rispettive posizioni in un “sistema di Stati”. Ma per definizione solo un fattore non-borghese poteva essere l’oggetto di questi interessi condivisi di tutte le classi dominanti capitaliste, per proteggersi, per contenerlo, o per mantenerlo in vita, o tutte queste cose insieme; con la progressiva trasformazione capitalistica della Russia non vi erano più candidati a questo ruolo. Guerra e rivoluzione? Marx, nel testo citato, e in altri precedenti, riteneva che una guerra avrebbe inevitabilmente portato alla rivoluzione in Europa; per lui, in questo periodo, penso sia applicabile una bella poesia di Brecht del 1953: “Siedo sul ciglio della strada. / Il guidatore cambia la ruota. / Non mi piace da dove vengo. / Non mi piace dove vado. / Perché guardo il cambio della ruota / con impazienza?”. Ma dal 1879 Engels iniziò a sostenere, e convincerà Marx nell’anno successivo, che una guerra generale sarebbe stata una catastrofe per il movimento socialista – che la guerra non avrebbe portato alla rivoluzione, ma l’avrebbe ritardata, posticipata, per anni se non per decenni. Con una guerra generale, da un lato il potere avrebbe represso nel modo più violento il movimento operaio, e dall’altro l’isteria sciovinista di massa l’avrebbe sommerso, e così “il nostro movimento andrebbe in rovina” per 5-10 anni, o per 15-20 anni. Per questo dal 1879 fino alla morte avvenuta nel 1895 Engels si batté sempre per la pace, e la Seconda internazionale, nata nel 1889, poté a buon diritto qualificarsi come il partito internazionale della pace. L’importante era operare per posticipare il più possibile il crollo del sistema degli Stati europeo, e anticipare il più possibile la rivoluzione in Russia, o in Germania, purché ovviamente le condizioni fossero favorevoli per una vittoria. Dal 1879 al 1891, per dodici anni, Engels fu ossessionato dall’eventualità di una guerra generale, da una situazione in cui “alla fine la guerra, invece di apparire uno spaventoso flagello, sembra una crisi salutare, che pone fine a una situazione insostenibile” – sono decine e decine i suoi testi sull’argomento. La grande catastrofe che temeva ebbe nella realtà, nel 1914, dimensioni ben più ampie – a fronte dei 10-20 milioni di soldati coinvolti che lui ipotizzava ve ne furono circa settanta, e i morti anziché la terribile cifra di mezzo milione furono in realtà una ventina di milioni. Ma scrisse pagine indimenticabili per forza d’espressione, lucidità d’analisi, preveggenza sugli esiti di una tale guerra. Ma non erano tuttavia delle “profezie”, come non lo erano gli scritti sulla imminenza della rivoluzione in Russia, o sulle possibilità a breve-medio termine di una rivoluzione in Germania – erano tutte delle 52 premesse, derivate da un’analisi complessiva, da cui scaturivano indicazioni politiche per l’azione socialista di massa, per creare le condizioni internazionali, per modificare gli equilibri internazionali nel senso più favorevole alla rivoluzione futura. Guerra inevitabile? Senza alcun dubbio, se la situazione europea non fosse cambiata radicalmente con la rivoluzione in Russia o quella in Europa occidentale, in particolare in Germania; e l’avvento della prima veniva visto come il sicuro prologo alla seconda. Dilazionabile? Sicuramente, grazie al fatto che chi poteva darvi avvio erano la Russia, la cui estrema debolezza escludeva però anche una guerra per disperazione, e i paesi dell’Europa occidentale che, per l’impossibilità di predire l’esito di una tale guerra, e soprattutto per il rischio che potesse portare a una rivoluzione da parte di un proletariato sempre più conscio e organizzato, arretravano di fronte alla decisione fatale. La debolezza russa, evidenziata dalle carestie e dalle epidemie che la sconvolsero dal 1891, tranquillizzarono Engels sull’imminenza di questa guerra, e negli ultimi anni di vita i suoi scritti sull’argomento si diradarono, pur attivandosi nel 1893, con l’opuscolo “Può l’Europa disarmare?”, perché il movimento operaio fosse portatore di una proposta di disarmo continentale, con la graduale estinzione degli eserciti regolari e la loro sostituzione con un sistema di milizie con scopi esclusivamente difensivi (una analoga proposta per la Francia venne sviluppata da Jaurès nel 1911 col volume “L’Armée nouvelle”). Ma le dilazioni non potevano essere infinite… E soprattutto la guerra poteva arrivare senza che nessuno la volesse: Engels lo scriveva nel settembre 1887, e ancora nel gennaio 1888 – “appena si sparerà il primo colpo il cavallo prenderà la mano al cavaliere, e partirà di gran carriera”. Infine, per Engels, in considerazione della centralità della Russia come potenza che poteva dare inizio alla guerra, il punto critico che poteva far precipitare la guerra generale erano i Balcani, da un lato perché l’obiettivo dello sbocco nel Mediterraneo per San Pietroburgo era un obiettivo strategico irrinunciabile, dall’altro perché la Russia poteva essere tentata da una disperata guerra esterna come valvola di sfogo della crisi interna. Di nuovo il destino dell’Impero ottomano e dell’Impero asburgico erano il sottile filo su cui si reggeva la pace in Europa. Per questo, come abbiamo già visto, nel 1886 Engels diceva di “appoggiare gli slavi del Sud se e fino a quando vanno contro la Russia… Se essi però vanno contro i turchi… consapevolmente o inconsapevolmente lavorano per la Russia… Questo può essere ottenuto solo rischiando una guerra europea e non ne vale la pena, quei signori devono aspettare, proprio come gli alsaziani, i lorenesi, i trentini ecc.” Lotta per preservare la pace e per accelerare la rivoluzione. Ma se la guerra fosse scoppiata comunque? La risposta di Engels è inequivocabile. Di fronte a una guerra generale “non sarebbe possibile simpatizzare con alcuno dei contendenti; al contrario si augurerebbe loro d’essere sconfitti tutti, se fosse possibile”. Sconfitti tutti, perché sconfitta era sinonimo di rivoluzione, “saranno quelli che subiranno la sconfitta ad avere la possibilità e il dovere di fare la rivoluzione”. Queste parole di Engels del 1888 e del 1892 riecheggiano quelle di Marx, del lontano 1859, quando si prospettava una guerra tra Francia e Inghilterra, la prima autoproclamatisi Impero nel 1852, la seconda divenuta tale di fatto dopo il passaggio dell’India sotto il controllo diretto della Corona britannica nel 1858 (di qui l’espressione “borghesia imperialista”). Come al solito la prosa di Marx è inconfondibile: Fra tutti i dogmi della miope politica dei nostri tempi, nessuno ha fatto più danno di quello che afferma: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Questa somma verità, il cui tratto più saliente è di contenere una grande menzogna, è il grido di battaglia che ha chiamato alle armi l’Europa intera e prodotto un tale fanatismo bellico che ogni nuovo accordo di pace viene considerato una nuova dichiarazione di guerra e come tale avidamente sfruttato. In un momento in cui gli Stati europei sono diventati altrettanti campi muniti, i cui mercenari ardono dal desiderio di buttarsi gli uni addosso agli altri e tagliarsi vicendevolmente la gola a maggior gloria della pace, la sola cosa a cui si pensa davanti ad ogni nuova esplosione è un particolare del tutto secondario: da quale parte ci si debba schierare. Non appena questa questione del tutto accidentale sia stata soddisfacentemente sistemata dai parlementaires diplomatici, con l’aiuto del vecchio e fidato si vis pacem, para bellum, ecco cominciare una di quelle guerre di civiltà la cui futile barbarie ricorda i più bei tempi dei saccheggi cavallereschi, mentre la loro sottile perfidia appartiene in esclusiva alla più moderna età della borghesia imperialista. Ciò posto, non dobbiamo stupirci se la generale inclinazione verso la barbarie acquista un certo metodo, se l’immoralità viene eretta a sistema, se l’illegalità trova i suoi legislatori e la legge del più forte i suoi codici. L’anno 1891 vide apparire un articolo di Engels, “Il socialismo in Germania”, che ebbe una fama postuma 53 immeritata nella misura in cui il suo senso venne totalmente stravolto dai “socialisti” fautori della guerra nel 1914. Nel giugno 1914 Vollmar, un “destro” della SPD della Baviera, pronunciò un discorso in cui sostenne che i socialdemocratici avrebbero collaborato con il potere in carica se la patria fosse stata aggredita – Engels reagì sostenendo in pratica che Vollmar era solo un volgare sciovinista. Ma nel settembre uscì un articolo di Bebel che, pur distante dalle posizioni di Vollmar, faceva emergere che tra i socialisti tedeschi la questione della “guerra difensiva” era un tema aperto e delicato, non liquidabile con due parole. Tenendo conto di questa situazione, Engels ebbe una serie di scambi epistolari e scrisse l’articolo ricordato. Una delle sue preoccupazioni era di non urtare la sensibilità di Bebel, la cui collaborazione era per Engels importantissima – per questo utilizzò un modo di argomentare particolare. In pratica Engels affermava che il rischio di guerra c’era, ma non imminente, e lo si poteva escludere per i prossimi anni. Alla domanda se i socialisti, gli operai tedeschi dovevano difendere la loro patria in caso di aggressione, la risposta di Engels era “sì”, ma era un sì condizionato. A livello epistolare specificava di essere a favore del voto dei crediti di guerra, purché almeno fosse attuato l’armamento di massa di tutta la popolazione: in pratica questo significava votare no ai crediti di guerra; a favore della guerra difensiva, ma solo con “metodi rivoluzionari”, come il riconoscimento dell’autodeterminazione dell’Alsazia-Lorena e dello Schleswig: in pratica questo significava no alla guerra condotta dal Kaiser. Nell’articolo diceva che nell’ipotesi di una invasione russo-francese del territorio tedesco i tedeschi avrebbero potuto vincere solo con i mezzi più rivoluzionari, e che in pratica la salvezza della Germania sarebbe stata assicurata solo dalla conquista del potere da parte dei socialdemocratici, in grado di utilizzare questi metodi. Il principio è quello, ovvio per Engels, che il movimento operaio non può mai affidare l’esecuzione dei suoi compiti a un governo borghese, fosse pure una repubblica democratica, figuriamoci a un mostro qual era il potere di Berlino. Per incredibile che possa apparire, questo articolo e le lettere connesse sono state utilizzate per riconciliare Engels, il Kaiser e i Junker, giustificare il voto del 4 agosto 1914, la pace civile e l’obbedienza per lo sforzo bellico negli anni successivi. A metà degli anni ‘890, poco prima o poco dopo la morte di Engels, la situazione cambiò. Cambiò sia a livello economico, sia nei rapporti tra gli Stati. Da un lato i due interessi prudenziali internazionali sembravano essere soddisfatti, sia pure in modo precario: dalla metà degli anni ‘880 il fallimento della Narodnaja Volija sembrava allontanare il pericolo di una rivoluzione in Russia, e nell’ultimo decennio dell’ ‘800 la debolezza zarista era stata rivelata da carestie ed epidemie, e anche il contemporaneo grande slancio dell’industrializzazione russa, a spese del mondo rurale, anziché rafforzare lo zarismo introdusse nuove contraddizioni, con il sorgere di una classe operaia combattiva e organizzata, a partire dagli scioperi di San Pietroburgo del 1896, e con il dilagare delle rivolte contadine dal 1900. La politica russa nei Balcani in questi anni fu di conseguenza molto prudente, con l’abbandono della retorica panslavista, e il sostegno al potere ottomano, mentre gli sforzi espansionisti furono tutti orientati a est, in Asia. Dall’altro lato, ebbe inizio non la “crisi gigantesca” che si aspettava Engels, ma un inatteso Sturm und Drang capitalistico. E’ in questi anni che prese avvio l’ “imperialismo”. La ripresa economica della metà degli anni ‘890 fu a mio parere uno dei fattori che consentì la nascita dell’imperialismo, non la sua conseguenza, come spesso si afferma. Ma cosa a sua volta consentì questo Sturm und Drang? Problema complesso su cui non mi azzardo a fare affermazioni. Mi limito a una ipotesi: che la crescita del capitale finanziario internazionale, del “capitale fittizio”, della sovrastruttura capitalistica fatta di banche, borse e debito pubblico, abbia da un lato consentito una ristrutturazione industriale in grado di far ripartire i profitti, e dall’altro abbia avuto l’effetto di una “droga” che allargava, pro tempore, il mercato. In questa ipotesi il ventennale boom economico precedente alla Grande guerra potrebbe esser visto come una lunga parentesi, permessa dall’assunzione della “droga” finanziaria, di un lunghissimo periodo storico che si estese dalla Grande depressione alla Grande crisi degli anni ‘930, e la “crisi gigantesca” che si aspettava Engels nel 1892 sarebbe stata procrastinata decennio dopo decennio, ma solo rendendola sempre più gigantesca quando alla fine arrivò. Ma è solo un’ipotesi, azzardata, tutta da verificare. A mio avviso l’imperialismo fu il tentativo delle Potenze di allora di adeguare il potere statale al proprio potere economico. Si è visto come sul mercato mondiale gli Stati siano posizionati su una scala gerarchica in funzione della produttività del lavoro delle rispettive società – l’imperialismo fu lo sforzo da parte dei vari attori di adeguare il proprio potere statale internazionale a questa scala. Come scriverà Lenin nel 1916 era il tentativo di “eliminare la sproporzione tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulazione di capitale da un lato, e dall’altro la ripartizione delle colonie e ‘sfere’ d’influenza”. Fu il perseguimento di interessi sostanziali in una congiuntura 54 storica, sia economica che di “equilibri” internazionali, che lo rendeva di nuovo possibile. Ma c’era un problema, perché adeguare il potere statale al proprio potere economico non permetteva alcun equilibrio, e se ve ne era uno preesistente sarebbe stato distrutto, in quanto il potere economico, la posizione di ogni singolo Stato sulla famosa scala gerarchica del mercato mondiale, era (ed è) in continuo mutamento. È come se un ordine internazionale strettamente borghese fosse impossibile, e fosse possibile solo anarchia e guerra. La politica dei vari Stati esprimeva gli interessi dei propri capitali nazionali? Sì e no. In linea generale, in quasi tutte le società della storia umana (un’eccezione sono gli odierni Stati petroliferi), uno Stato può vivere solo estraendo ricchezze da chi le possiede, ed è quindi suo interesse nutrire e ingrassare la gallina che gli produce le uova d’oro, e quindi nel caso la gallina sia capitalistica è ovviamente nell’interesse dello Stato far sì che prosperi quanto più. Ma fuor di metafora, nella realtà non esiste un “capitale nazionale”, ma tanti capitalisti nazionali e il “capitale nazionale”, la “produttività media del lavoro in una società”, è una media nazionale astratta di cui nessuno è a conoscenza ex ante. Ci sono tanti capitalisti che si muovono mossi dalla ricerca del profitto e dalla concorrenza, ma come dei sonnambuli – vigili, ma solo apparentemente, ciechi in realtà di fronte al movimento complessivo dei loro capitali. L’elaborazione degli “interessi” del capitale nazionale, in altri termini, non è data, non è trasparente, ma è soggetta a oscillazioni, contingenze, pressioni, rapporti di forza, configurazioni sociali peculiari. Una cosa però è certa: la potenza internazionale dello Stato fa bene ai capitali, li rassicura e porta loro benessere. Un sistema coloniale importante permetteva all’Inghilterra di rimanere il centro finanziario mondiale nonostante il suo relativo declino, e la sua potenza marittima era una minaccia per le economie più ricche, e quindi più dipendenti dai commerci internazionali. Un paese quanto più è ricco quanto più è dipendente dalla configurazione di potere internazionale: maggiore è la ricchezza maggiore è la percezione delle minacce potenziali, maggiore è la propria vulnerabilità. Se per Bismarck negli anni ‘880 “le colonie sarebbero per noi tedeschi come gli abiti da parata del nobile polacco, che non aveva la camicia da mettersi sotto”, dieci anni dopo la ricchezza capitalistica era talmente cresciuta non solo da potersi permettere le camicie, ma da richiedere a gran voce colonie e potenza internazionale, in un mondo insicuro e incerto. Così per la Germania; per gli Stati che invece vivevano sulle spalle di galline ben smagrite, e non potevano permettersi le camicie, era meglio star zitti e non fare nulla, come gli Asburgo, perché altrimenti si pigliavano solo un mucchio di bastonate, come quelle prese dall’Italia ad Adua. In sintesi, a mio avviso, l’imperialismo aveva radici economiche, ma non direttamente misurabili, come il commercio o gli investimenti di capitali nelle colonie; era adeguare il potere statale internazionale al potere economico, per proteggerlo e accrescerlo in prospettiva, per assicurare futuri commerci e futuri investimenti al riparo da brutte sorprese; per essere semplicemente rispettati e considerati nell’arena internazionale. Questa ricerca di maggior potere statale a livello internazionale si espresse come espansione territoriale a livello extraeuropeo, come slancio colonialista. Da un certo punto di vista lo scatenamento della concorrenza interstatale in ambito extraeuropeo consentì la sopravvivenza, ma solo pro tempore, del sistema degli Stati in Europa, rendendo tuttavia la guerra generale, esito della rottura di quel sistema, ancora più catastrofica di quanto sarebbe stata se fosse scoppiata prima. Qui si poteva fare quello che si riteneva vietato in Europa, niente più “sistema degli Stati” fuori d’Europa, solo la concorrenza brutale, e gli ultimi venuti erano i più spregiudicati, consapevoli del rischio di essere eliminati definitivamente. L’ “etica” imperialista ne fu il prodotto, con gli annessi massacri coloniali senza fine. In questa corsa coloniale le tensioni tra potenze europee non potevano rimanere limitate all’ambito extraeuropeo, e si ebbero conseguenze e tensioni gravi anche sul suolo europeo, in primo luogo con una folle corsa agli armamenti. Tuttavia, fino al 1914, tutte queste crisi trovarono tutte delle soluzioni diplomatiche, naturalmente a spese di qualche popolo coloniale. Lo scoppio della Grande guerra fu il prodotto della concorrenza tra gli Stati, in lotta per conquistare un potere internazionale adeguato, fu quindi una “guerra imperialista”, ma scaturì non da contese coloniali, ma dalla finale rottura del sistema degli Stati europei sul suolo europeo, che consentì l’ingresso della “concorrenza brutale” anche nel cuore stesso dell’Europa. La “concorrenza brutale” era sinonimo di vita o morte, era la guerra, erano gli orrori visti fino ad allora solo fuori d’Europa. Tra il 1904 e il 1909 avvenne quello che Marx immaginava venticinque anni prima – il sistema degli Stati europeo cadde a pezzi definitivamente; dal 1911 al 1913 si svilupparono una serie di guerre locali, e fu sufficiente solo un anno per far scoppiare quella generale. I due interessi internazionali prudenziali, connessi ed equilibrati, i due pilastri dell’ordine europeo crollarono 55 uno dopo l’altro. Fin dal 1890 una serie di processi si accumulavano in Russia, tutti convergenti nell’indebolimento dello zarismo; ma il colpo definitivo fu la sconfitta ad opera del Giappone nel 1904, e la gigantesca rivoluzione del 1905-06. Rivoluzione sconfitta, ma che evidenziava in modo definitivo che la Russia era diventata un paese come tutti gli altri, dilaniata dalla lotta di classe ancor più degli altri paesi. Pur senza una rivoluzione vittoriosa, questi quindici anni trasformarono la Russia – dagli anni ‘870 era un “grande malato”, ma conservava ancora le forze per rimanere il “bastione della reazione” qual era dalla metà del ‘700; dal 1904-1906 c’est fini. Effetti indiretti della rivoluzione russa del 1905-06 furono la concessione del suffragio universale nell’Impero Asburgico nel 1907 e la rivoluzione dei Giovani turchi nell’Impero ottomano nel 1908, due avvenimenti epocali, in quanto evidenziarono che questi Imperi, anziché rigenerarsi grazie a una democratizzazione delle loro strutture, si trovavano in un punto di non ritorno della loro crisi, la stessa democratizzazione contribuiva a questa stessa crisi, anziché contribuire a risolverla, creando una serie di problemi nazionali oltre la soglia della gestibilità. Questi due poteri evidenziarono la loro crisi terminale lanciandosi in iniziative inconsulte e dettate dal panico – l’annessione della Bosnia in un caso e i massacri armeni dall’altro. La situazione europea alla fine del 1909 era quindi mutata radicalmente rispetto a un quindicennio prima. Gli Imperi ottomano e asburgico non erano crollati, e la rivoluzione in Russia non aveva vinto, ma era solo una questione di tempo, di poco tempo. Quadro finale: inevitabilità del crollo a breve dei pilastri del sistema europeo ed estrema vulnerabilità sociale delle classi dominanti europee per il venir meno del “bastione della reazione” zarista. Non c’era più nulla, nella percezione dei governi europei d’allora e nella realtà, da preservare collettivamente. Iniziava la concorrenza brutale anche sul suolo europeo, e non l’avrebbe lasciato per molti decenni. Per le classi dominanti dei paesi europei più grandi e sviluppati, alla percezione della loro vulnerabilità esterna economica e militare si aggiungeva ora la percezione della vulnerabilità interna di fronte all’ascesa del movimento operaio. Un mix di sfide micidiali che portò al diapason bellicismo, nazionalismo, socialimperialismo. Le borghesie capirono che si era aperta “un’epoca di guerre e rivoluzioni”, e non si tirarono indietro. Le modalità specifiche che portarono al baratro furono le iniziative inconsulte di Russia e Italia. La Russia nel 1907 ruppe il patto con gli Asburgo per mantenere lo status quo nei Balcani e si lanciò in un folle corso panslavista diretto sia contro gli Ottomani che gli Asburgo, per il tramite dei piccoli Stati balcanici. Ma fu l’Italia, l’ultima venuta nell’arena imperialista, che fece il passo decisivo, cercando il proprio posto al sole dichiarando guerra non in un angolo sperduto del mondo extraeuropeo, ma a un paese europeo, all’Impero ottomano. La sconfitta ottomana innescò come in un domino il realizzarsi dei progetti panslavisti di San Pietroburgo, con lo scatenamento della prima guerra balcanica nel 1912, e poi, via, via, tutto il resto. Si era aperta un’epoca di guerre e rivoluzioni, in cui tutti gli attori erano portati al va banque. Asburgo, Ottomani, Russia, Italia. Ma anche la Germania, che quanto più diventava fragile politicamente tanto più sviluppava il militarismo più sfrenato, e la Francia e l’Inghilterra, che anch’esse in modo inconsulto si illudevano, credevano di vedere una eccezionale potenza socio-militare zarista, che era in realtà scomparsa da tempo, come d’altronde si vide già nel 1915, con il totale collasso militare russo. Va banque, iniziative prese per disperazione (come gli Asburgo nel fatidico luglio 1914); errato senso di onnipotenza, percezione dell’ “inevitabilità del corso storico”, di essere agiti più che di agire, volontà, determinazione di vincere le sfide, qualsiasi esse siano, istinto di sopravvivenza. Tutto questo ha portato alla Grande guerra. L’imperialismo strictu sensu ha innescato l’ultima miccia (la guerra dell’Italia all’Impero ottomano per la Libia) e ha allineato i contendenti, facendo unire i big del colonialismo, Gran Bretagna, Francia e Russia, e infine gli Stati uniti. Senza una preventiva rivoluzione vittoriosa in Russia o in Germania il corso catastrofico era predeterminato, e la catastrofe, la nuova “Guerra dei Trent’anni”, iniziò nel 1914 in un vortice di violenza barbarica prima assolutamente inimmaginabile. Le origini della Prima guerra mondiale sono a mio avviso da rintracciare in questo insieme di fattori. Il contributo di Marx ed Engels è a mio avviso fondamentale per orientarsi nel groviglio di avvenimenti economici, sociali, politici, di relazioni e di sistemi internazionali all’opera. Questo approccio si differenzia in modo radicale da chi vede una predominante “responsabilità” tedesca nello scoppio del conflitto (ed è la maggioranza degli storici), non si limita a qualificare a ‘mo di etichetta la Grande guerra come “guerra imperialista” eludendo i problemi che con la distanza del tempo possono oggi essere affrontati, e si avvicina alle conclusioni a cui è giunto uno storico come Clark, la cui opera del 2012 è significativamente intitolata “I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra”, e uno studioso di storia diplomatica, Schroeder, che ha dedicato vari studi sulla china che portò alla guerra del 1914. 56 Come elaborarono queste dinamiche i dirigenti/teorici del movimento operaio di allora? Nessuno di loro ebbe la profondità di visione storica e sociale che ebbero Marx ed Engels. Ripalda scrive giustamente di Marx: La distanza enorme e lucida di Marx di fronte all’epoca storica in cui visse è la distanza di una individualità sradicata. La sua riflessione è il risultato di questo sradicamento e il riflesso di quanto lo ha prodotto, la dissoluzione dei vincoli dispotici del vecchio organismo precapitalista… La demistificazione radicale di Marx è la stessa che ha consentito ad Adam Smith di mettere insieme re, preti, cuochi e puttane nella stessa categoria delle classi improduttive. I dirigenti socialisti di allora non ebbero questa “distanza enorme e lucida”. Fa impressione la ingenuità, la irresponsabilità della Luxemburg nel 1896: la liberazione delle terre cristiane dalla Turchia è progresso nella vita politica internazionale. L'esistenza di una posizione artificiale come quella dell'attuale Turchia, dove convergono così tanti interessi del mondo capitalista, restringe e ritarda lo sviluppo politico generale. La Questione Orientale, insieme a quella dell'Alsazia-Lorena, costringe le potenze europee a perseguire una politica di stratagemmi e inganni, a nascondere i loro interessi reali sotto nomi ingannevoli e a cercare di raggiungerli con dei sotterfugi. Con la liberazione delle nazioni cristiane dalla Turchia, la politica borghese sarà spogliata di uno dei suoi ultimi stracci idealistici – la “protezione dei cristiani” – e sarà ridotta al suo vero contenuto, il nudo interesse nel saccheggio. E quanto era anch’esso ingenuo e irresponsabile Bauer nel 1907: [il] periodo, ora quasi superato, in cui il sistema dell’equilibrio europeo sembrava il fine specifico di tutta l’attività politica. Ma da quando i grandi temi della politica mondiale hanno prevalso sui vecchi problemi della piccola Europa, risulta più chiaro di prima che la lotta per il potere condotta dagli Stati capitalistici nasconde sempre una sollecitazione economica. Davvero non comprendevano le terrificanti conseguenze reali di quanto auspicavano, come se tutto il problema fosse demistificare dei discorsi, e non evitare un corso rovinoso verso la guerra generale! Nessuno seppe cogliere la svolta europea del 1907-1909 nella sua vera dimensione, e solo Jaurès e Rakovsky capirono, intuirono che le contraddizioni delle grandi potenze si erano “balcanizzate”; per questo prevalse una babele di lingue nell’affrontare il ginepraio balcanico. Nessuno, a parte la Luxemburg e pochissimi altri, percepirono gli effetti internazionali, europei della rivoluzione russa del 1905-06, e cioè che era definitivamente finito il periodo della “strategia di logoramento”, e che si era aperto un periodo in cui il movimento operaio doveva porsi all’offensiva, perché aveva la possibilità di vincere, e quest’ultima era l’ultima occasione per evitare la catastrofe. Ma la classe operaia in modo istintivo aveva percepito la nuova situazione. Bauer, nel 1917, ricostruisce il clima degli anni 1911-1914: Il crescente costo della vita e lo sviluppo delle associazioni dei datori di lavoro avevano notevolmente approfondito l'antagonismo di classe. La crescita della socialdemocrazia tedesca, la mostruosa ondata di scioperi in Inghilterra, il risveglio del proletariato russo annunciavano gigantesche lotte di classe. Ovunque, le illusioni dei riformisti sembravano appartenere al passato: in Francia il “ministerialismo” sembrava fosse stato abolito; in Italia la classe operaia aveva espulso i riformisti dal partito; in Austria, la maggioranza al Congresso di Vienna del 1913 si era schierata con apparente risolutezza contro le illusioni dei riformisti, moltiplicatesi dopo la vittoria elettorale. Ovunque, la classe operaia sembrava determinata a seguire i passi di Marx. Il potente sviluppo di cartelli e trust, il rapido processo di subordinazione dell'economia mondiale al capitale finanziario, il rinnovato antagonismo tra le grandi potenze imperialiste, prefiguravano l’epoca dello scontro decisivo tra Capitale e Lavoro. E aggiungo a questo anche l’importante ondata di scioperi che scosse la Germania tra il 1910-1913, un 57 prosieguo di quella del 1904-1906, in singolare sincronismo con il movimento di classe dei lavoratori russo, l’analoga ondata di scioperi in Francia negli stessi anni, l’epopea degli IWW negli Stati uniti. Per quanto riguarda la Russia è Trotsky, nell’ottobre 1914, a sviluppare degli importanti ragionamenti sul corso della lotta di classe nel suo rapporto con la guerra: Coloro che credono che la guerra russo-giapponese portò la rivoluzione, non conoscono né comprendono gli avvenimenti politici e le loro reazioni. La guerra fece semplicemente precipitare lo scoppio della rivoluzione; però, per questa stessa ragione, la indebolì. Se poi la rivoluzione si fosse svolta come un risultato della crescita organica delle forze interne, sarebbe venuta più tardi, però sarebbe stata assai più forte e più sistematica. Per questo la rivoluzione non ha il minimo interesse nella guerra. Questa è la prima considerazione. La seconda è che, mentre la guerra russo-giapponese indeboliva lo czarismo, rafforzava il militarismo giapponese. La stessa considerazione si applica, in più alto grado, alla [odierna] guerra russo-tedesca. Nel periodo dal 1912 al 1914 l’enorme sviluppo industriale della Russia sollevò il paese, una volta per tutte, dallo stato di prostrazione in cui era prima della rivoluzione. L’aumento del movimento rivoluzionario, basato sulle condizioni economiche e politiche della massa lavoratrice, la crescita della opposizione in ampi settori della popolazione, condusse a un nuovo periodo di agitazione e di violenza. Però, in contrasto cogli anni 1902-1905, questo movimento si svolgeva in un modo più sistematico e cosciente, e, ciò che è più, era basato sopra un fondamento sociale più ampio. La rivoluzione aveva bisogno di tempo per maturare, però non le erano necessarie le lance del samurai prussiano. Al contrario, il samurai prussiano dava allo czar l’opportunità di giocare la parte di difensore dei serbi, dei belgi e dei francesi. Nel prosieguo Trotsky ipotizza una sconfitta militare russa e una conseguente rivoluzione, che tuttavia sarebbe risultata più debole, meno sistematica, di quella che sarebbe stato l’esito naturale dei movimenti e della situazione del 1912-1914. Anche la Luxemburg, nella sua opera del 1915, afferma che la guerra aveva seppellito sotto le macerie la rivoluzione russa. Infine, Haupt, nel suo libro del 1972, riprende le stesse considerazioni di Trotsky, allargandole a livello internazionale, e ipotizza che esistesse una situazione sociale esplosiva sia in Russia che in Italia (la “settimana rossa”), e che la guerra ruppe i ritmi delle crisi rivoluzionarie, posticipandole e deviandole, e rendendole più violente nel 1918, e con esiti diversi. Dal 1904-1906 il movimento dei lavoratori aveva tutte le chances per svilupparsi e vincere, e dal 1909 vi era una urgenza storica perché questo avvenisse, ma la sua direzione mancò all’appuntamento, e in gran parte nel 1914 si riconciliò con le rispettive borghesie. Ma a Cesare quel che è di Cesare. I dirigenti socialisti di allora non potevano avere lo stesso sguardo di Marx ed Engels sulla realtà loro contemporanea, perché non erano personalmente il frutto della disgregazione di un ordine sociale, ma erano il frutto di un ordine sociale consolidato, da cui non potevano avere la stessa distanza di osservazione. Inoltre, i teorici della Seconda internazionale furono tutti dirigenti politici (a differenza di oggi, tutti solo accademici), e in questa veste, essendo a contatto quotidiano con le masse operaie, sentivano la responsabilità immensa che pesava sulle loro spalle, ed erano quindi di una integrità intellettuale ineguagliata, di una apertura mentale e di una concretezza di pensiero che si ritroverà raramente nel periodo successivo al 1914. Che in quell’anno taluni siano crollati non può cambiare il giudizio su una generazione unica. Sia reso loro onore. 58 L’imperialismo, oggi. Temo che chi sia giunto a questo punto si senta un po’ frastornato, e si chieda di cosa si stia parlando. Che cos’è allora questa astrazione che risponde alla parola “imperialismo”? Dalla esposizione fin qui fatta è emerso che quanto affermavano i marxisti all’inizio del XX secolo era un sistema analitico abbastanza debole, che la fase imperialista (nel senso di colonialista) ebbe una logica specifica alla configurazione europea di quegli anni, ben diversa da quella attuale, che tutti si aspettavano il crollo del capitalismo che non solo non c’è mai stato, ma che dopo la seconda guerra mondiale ridivenne addirittura giovane e fiorente, e che ciò che crollò, alla fine del XX secolo, fu il sistema dei paesi dell’est, denominati quanto mai ironicamente paesi del “socialismo reale”, e che infine lungi dall’avere solo “anarchia e guerra” in un mondo esclusivamente borghese, noi ci stiamo vivendo da trent’anni senza ombre di conflitti militari, neppure in prospettiva, tra i paesi più ricchi. “Imperialismo” è quindi solo un’astrazione dai tratti indefiniti tutt’al più utile a leggere una fase specifica, e quanto mai remota, della storia europea? Insomma, tanto tempo speso da te, lettore o lettrice giunto o giunta a questo punto, e tutto questo assolutamente per nulla? Spero proprio di no. Cerco di riprendere alcuni fili di ragionamento da quanto precede. In primo luogo che cosa non è l’ “imperialismo”: non è lo sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi. Questo sfruttamento, come abbiamo visto, è inerente al funzionamento del capitalismo fin dalla sua infanzia, e allora “imperialismo” sarebbe una categoria puro e semplice sinonimo di “capitalismo”, di nessuna utilità. L’imperialismo non è lo “scambio diseguale”. “Imperialismo” non sono gli intrighi e i complotti della più grande potenza (o delle più grandi potenze) del mondo per aumentare, o quanto meno mantenere, il proprio potere. Come abbiamo visto intrighi e complotti (ma anche bluff e atti inconsulti) sono anch’essi una parte ineliminabile della storia capitalistica europea fin dai suoi esordi. L’imperialismo non è né “Wall Street & Federal Reserve”, né “Washington, CIA e Pentagono”. Già solo questo è sufficiente per non considerare una buona quota della letteratura pubblicata in questi ultimi anni sull’ “imperialismo”. Quello che cercavano di capire i teorici marxisti nel primo ventennio del XX secolo con l’astrazione “imperialismo” era un’altra cosa: di fronte a una situazione mondiale inedita, evidenziata da tutta una serie di fattori, cercavano di ricostruirne la logica. Per far questo era necessario capire a che punto era il capitalismo dal punto di vista storico, e quindi quale la sua traiettoria nel tempo; capire la dinamica della “politica mondiale” delle varie potenze, nella loro interrelazione; e di conseguenza capire qual’era la “politica estera” che la classe lavoratrice doveva perseguire per favorire la propria vittoria nella lotta contro la borghesia. L’insieme di queste analisi, più o meno ben condotte, dava contenuto all’astrazione “imperialismo”, un periodo specifico e non mero sinonimo di capitalismo, qualcosa di inedito a livello storico che emerse circa a metà degli anni ‘890. Ricostruendo l’approccio di Marx ed Engels, e applicandolo agli anni tra il 1895 e il 1914, siamo arrivati alla conclusione che “imperialismo” fu il periodo storico di incubazione di una “crisi gigantesca” del sistema capitalistico, del progressivo crollo del sistema degli Stati europeo sfociato nella Grande guerra, e dell’ascesa della rivoluzione in Russia e in Europa. In modo molto generale si può dire che l’analisi dell’imperialismo derivava dall’analisi di tre ambiti, ciascuno con una propria logica, ma in parziale sovrapposizione l’uno all’altro, e con relazioni parzialmente gerarchiche: l’ambito dell’evoluzione capitalistica, l’ambito delle politiche statali, espressione delle classi e delle frazioni di classi sia borghesi sia non capitalistiche, e l’ambito della dinamica della classe lavoratrice, dei suoi livelli di coscienza, delle sue organizzazioni, delle sue lotte. La politica “aggressiva e violenta” degli Stati, gli “atti politici di forza e di violenza espliciti” erano espressioni ineliminabili del capitalismo di allora, ma l’imperialismo non era questa politica e questi atti – era la cognizione della fase storica complessiva che produceva questi atti e questa politica. Oggi evidentemente non siamo in una situazione identica a quella del 1895-1914, anche solo per un elemento determinante, la dinamica della classe lavoratrice. Non erano figure retoriche quelle che usavano i socialisti di allora, quando parlavano di richieste sempre più forti di socialismo da parte delle masse popolari, di acutizzazione dei conflitti di classe, di “sacre tradizioni”, di “preparazione spirituale” e di “audace eroismo” dei lavoratori, frutto di sacrifici e fatiche di generazioni. Il livello di coscienza dei lavoratori europei era altissimo, e quello dei lavoratori russi ancor più. In termini oggi più comuni si può dire che erano convinti che un altro mondo era possibile, aveva nome socialismo, e loro come classe ne sarebbero stati gli artefici vincendo contro la borghesia. Si sentivano fieri di 59 sé stessi, forti “nel numero e nella speranza”, ed erano convinti che il futuro sarebbe stato loro. Questa coscienza si concretizzava in una molteplicità di organizzazioni e si esprimeva nelle tante lotte condotte. Niente di tutto ciò oggi. Così in Europa, la percezione di massa del personale sanitario che si sacrifica oltre ogni limite nei terribili giorni del coronavirus è quella degli “eroi nazionali”, non di working class heroes quali sono. Il periodo che stiamo vivendo è quello di una “energia rivoluzionaria latente” (Chesnais) nella classe lavoratrice. Se si vuole parlare di imperialismo oggi, questo significa parlare della fase storica complessiva che stiamo attraversando. Da questo punto di vista la ricostruzione di come Marx, Engels, e i marxisti prima del 1914 analizzarono la realtà loro contemporanea ci lascia in eredità alcuni strumenti fondamentali per interrogare il presente, tra cui l’importanza di individuare e comprendere le svolte, le cesure storiche, le analisi sul capitale finanziario e quelle sul “sistema di Stati”. Tre a mio avviso sono state le svolte storiche a livello mondiale dalla fine della Seconda guerra mondiale. La prima si è prodotta verso il 1950, ed è stato il “miracolo” capitalistico: il vecchio, decrepito, mostruoso capitalismo, quello degli “olocausti vittoriani” e degli “olocausti nazisti”, risorse giovane e pieno di energie. Quasi nessuno se lo aspettava. Non era retorica quella che usava Trotsky nel 1938 quando scriveva dell’ “agonia del capitalismo”, e come lui la pensavano in molti, anche nel “campo opposto”, come il walrasiano Schumpeter. La seconda svolta storica è avvenuta nei paesi a “capitalismo avanzato” a metà degli anni ‘980, con un collasso del movimento operaio, dei suoi livelli di coscienza e di combattività senza paragoni (su questo e sulle dinamiche della classe lavoratrice a livello internazionale che ne sono seguite spero di poter scrivere qualcosa in futuro). La terza, seguita a breve a quest’ultima e probabilmente in qualche modo connessa, è stato l’allargamento a tutto il pianeta dei rapporti borghesi. Per la prima volta nella storia tutte le grandi nazioni, le “Grandi potenze” sono tutte società borghesi – ciascuna con le proprie peculiarità, ma in ultima analisi tutte rette da rapporti di tipo capitalistico. Come è stato possibile il miracolo del 1950? Trotsky nel 1921 scriveva: “se ammettiamo che la classe operaia non riesca a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, ma permetta alla borghesia di decidere le sorti del mondo per un lungo numero di anni, diciamo per tre decenni, allora sicuramente un nuovo equilibrio sarà in qualche modo ristabilito. Gli Stati Uniti saranno costretti a riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e a subire una contrazione per un periodo considerevole. L’Europa sarà spinta violentemente indietro. Milioni di operai europei moriranno. Dopo di che, dopo che con grandi lacerazioni sarà stata ristabilita una nuova divisione mondiale del lavoro, per 20 anni forse seguirà una nuova epoca di rilancio capitalistico.” Ho leggermente modificato la sequenza delle frasi, ho tolto i lassi temporali alternativi che Trotsky proponeva, e ho tolto la specificazione “per disoccupazione e denutrizione” relativa alla morte di milioni di operai europei, che vent’anni dopo morirono davvero, ma per la guerra. In questo stupefacente brano la prima condizione fondamentale per un rilancio capitalistico era che la classe operaia non riuscisse a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, condizione che venne più che egregiamente assicurata dalla socialdemocrazia e dalla burocrazia stalinista. La seconda condizione era la distruzione del continente europeo, sia in termini materiali che umani. La terza condizione era una gigantesca crisi economica e il rivoluzionamento dell’industria e dell’economia statunitensi: e in effetti nel corso degli anni ‘930, durante la Grande crisi (ma anche nel decennio precedente), l’industria americana che sopravvisse conobbe un enorme incremento del tasso di plusvalore relativo, storicamente mai eguagliato da nessun altro paese in qualsiasi periodo della storia del capitalismo, con l’introduzione spinta di innovazioni tecniche e organizzative; e la scelta nel 1950 di orientarsi sul mercato mondiale fu una scelta obbligata. Ma anche così forse sarebbe sopraggiunta una nuova epoca di rilancio capitalistico: ci fu davvero nella realtà, ma fu qualcosa di vicino a un vero miracolo, a cui contribuirono anche elementi contingenti e non predeterminabili (come ad esempio l’attacco da parte della Corea del Nord a quella del Sud il 25 giugno 1950). Quello che mi sembra errato è l’approccio di molti economisti marxisti che considerano “normale” questa rinascita e gli eccezionali vent’anni che ne seguirono, e che conseguentemente dibattono oggi su quali siano le chanches di una analoga ripresa capitalistica. I miracoli non si ripetono, soprattutto senza le distruzioni materiali e umane della Seconda guerra mondiale. Come caratterizzare la fase attuale del capitalismo? Dopo gli anni ‘960, in cui il tasso di incremento annuo del PIL sia europeo che statunitense era attorno al 5%, sono seguiti decenni di costante abbassamento di questo tasso: quello statunitense si attestò in media al 3% tra il 1970 e il 1999, mentre nel ventennio successivo è sceso mediamente al 2%. In Europa dopo circa un 3,5% negli anni settanta, si ebbe circa un 2% negli anni ottanta e 60 novanta, e circa un 1,5% nell’ultimo ventennio. Un indicatore più preciso è il tasso medio di incremento annuo della produttività del lavoro (PIL per ora lavorata): in Europa è sceso in modo regolare dal 4% degli anni settanta allo 0,8% degli ultimi vent’anni; negli Usa negli anni settanta questo tasso era di molto inferiore a quello europeo, e cioè l’1,8%, ha conosciuto alcune oscillazioni in su e in giù di decennio in decennio, fino a raggiungere il 2,7% nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, ma alla fine nell’ultimo decennio si è posizionato sullo stesso identico livello europeo, lo 0,8%. Un ultimo indicatore è quello che può essere considerato un proxy (certo imperfetto, ma è l’unico che abbiamo) della produttività nel senso in cui la intendeva Marx (incremento del plusvalore relativo), la produttività globale dei fattori: negli Usa tra il 2010 e il 2017 era lo 0,1% annuo a cui è seguito un -0,3% nel 2018; nell’area euro i rispettivi dati erano 0,1% e -0,1%. A titolo comparativo negli Stati uniti era circa del 2% annuo tra il 1950 e il 1970, e meno dell’1% tra il 1970 e il 1990. La Cina a partire dagli anni novanta è stato un paese che ha in modo importante dato slancio al capitalismo mondiale, ma negli ultimi anni il “motore cinese” è andato fuori giri, cosicché la sua produttività globale dei fattori nel 2010-2017 era uno -0,4% annuo e nel 2018 un ulteriore 0,6%. In generale quindi si è avuto un progressivo rallentamento della crescita di decennio in decennio, sia pure in modo non lineare, finché, dopo la grave crisi del 2008-2009, si è giunti a una situazione mondiale di pressoché stagnazione. Un’unica e interminabile “crisi” dal 1973 in poi? Sì e no. Sì nel senso che nell’ultimo cinquantennio si ha una sovrapproduzione e sovraccumulazione generale, non limitata a uno o più settori, a livello mondiale, combinata con un basso tasso di profitto nelle attività produttive. Questi sono dati permanenti. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza dal 2013-2014 la Cina ha riconosciuto ufficialmente che ha un problema di sovraproduzione (sovraccumulazione), che nel settore dell’acciaio arriva addirittura ad essere pari a tutto il potenziale produttivo europeo. Per quanto riguarda l’andamento del tasso di profitto nei settori produttivi i calcoli sono possibili e affidabili solo per gli Usa, e le varie ricostruzioni fatte dagli economisti sono unanimi nell’individuare un drastico calo di questo saggio fino al 1982 e un suo leggero recupero fino al 1990, ma largamente al di sotto del livello iniziale. Dopo il 1990 il peso crescente delle attività finanziarie anche da parte delle imprese industriali, di servizi e commerciali, complica enormemente il lavoro di ricostruzione: per taluni questo saggio cresce fino a quasi raggiungere il picco del 1966 (Husson), mentre all’opposto per altri declina in modo uniforme (Freeman), e infine vi è chi individua due picchi nel 1993-1997 e nel 2004-2006 ma che rimangono comunque a un livello pari a poco più della metà del livello del 1950-1966, con un trend nell’ultimo cinquantennio decisamente decrescente (Smith e Bukovsky; a un risultato compatibile giungono anche Carchedi e Roberts). Considerando una serie di altri dati ritengo personalmente corretta quest’ultima ricostruzione, che è anche compatibile con un’analisi della finanza su cui ritornerò successivamente. Un’unica e interminabile “crisi” dal 1973 in poi? No nel senso che gli ultimi cinquant’anni hanno visto cambiamenti radicali. Dal punto di vista economico gli Usa hanno conosciuto delle crisi in senso stretto nel 19741975, nel 1980-1982, nel 1990-1991, nel 2001 e nel 2008-2009; l’Europa ne ha conosciuto delle simili, con alcuni scostamenti temporali. Gli anni ‘980 sono gli anni in cui un enorme flusso di ricchezza viene drenato dai paesi più poveri a quelli più ricchi grazie ai meccanismi del debito, e sono gli anni in cui inizia un aumento del tasso di sfruttamento dei lavoratori che prosegue ininterrotto fino ai giorni nostri. Dagli inizi degli anni ‘990 e per circa vent’anni si susseguono cambiamenti epocali: l’Unione sovietica, i suoi paesi satelliti, e la Cina rientrano nel mercato mondiale e nell’orbita capitalistica raddoppiando la forza-lavoro mondiale, e le multinazionali si impiantano stabilmente in Cina ottenendo sovraprofitti favolosi; si avvia un processo di liberalizzazione, di deregulation e di globalizzazione della finanza, del commercio e del movimento dei capitali; si internazionalizzano i processi produttivi, non solo con investimenti esteri, ma soprattutto con global value chains, in pratica il subappalto da parte delle multinazionali della loro produzione in una molteplicità di paesi, sfruttando i differenziali salariali e di condizione delle classi operaie (all’apice dello sviluppo del mercato mondiale si stimava che più del 60% delle merci esportate e importate fossero dei semilavorati); si sviluppa in modo impetuoso la tecnologia informatica e delle comunicazioni, la cui diffusione nell’industria, nei servizi e nel commercio porta a enormi investimenti; si affermano e si sviluppano oltre ogni limite ogni genere di attività finanziaria, che si allarga dal sistema bancario a tutto il sistema produttivo, e si svincola da ogni tipo di regolamentazione grazie all’affermarsi di un sistema bancario ombra a livello mondiale. In questo turbinio gli Stati uniti hanno conosciuto una primavera tra il 1992 e il 2006, interrotta dalla crisi del 2001: in quindici anni ben sette hanno avuto un tasso di incremento del PIL superiore al 4%, e altri due un tasso superiore al 3%; tra il 1996 e il 2004 la produttività del lavoro media annua è cresciuta a 61 un tasso superiore al 3%, nonostante la crisi intermedia – un valore su più anni ineguagliato dal 1971 a oggi; la produttività globale dei fattori tra il 1996 e il 2005 è stata ben del 2% annuo (salvo il 2001), un valore paragonabile a quello dei vent’anni “dorati” succeduti al 1950 (ma ben inferiore a quella degli anni ‘930 e ‘920); già si sono visti i picchi in questo periodo dei saggi di profitto. Ma la belle époque clintoniana, e il successivo tetro periodo all’insegna di Bush jr., anziché essere la fase iniziale di un’ “onda lunga” espansiva, sono stati il prologo al grande crollo del 2008-2009 e alla successiva stagnazione, in quanto dei grappoli di innovazioni tecnologiche sono sì elemento necessario allo scatenamento di una tale “onda”, ma sono ben lungi dall’essere un elemento sufficiente – senza contare che questa primavera fu solo statunitense e cinese, non mondiale, e che la primavera statunitense non riuscì comunque a risolvere i problemi strutturali nell’industria, con la conseguenza che i deficit della bilancia commerciale continuarono imperterriti. In questi ultimi trent’anni è difficile sottovalutare il ruolo del “capitale finanziario” e della globalizzazione finanziaria. Ha permesso ristrutturazioni industriali, ha favorito investimenti esteri e global value chains. Si è imposto come la forma principale del capitale, e bilanci aziendali e bilanci statali devono sottostare alle sue regole. Infinite truffe si consumano in suo nome, e atroci sfruttamenti. A mio avviso la migliore trattazione di questo soggetto è un volume di Chesnais del 2016. Per lui il “capitale finanziario” (come opposto alla semplice “finanza”) è un insieme che include non solo il sistema bancario ufficiale e quello “ombra”, ma anche i vari dipartimenti finanziari delle grandi imprese industriali, di servizi e di commercio (la grande distribuzione a livello mondiale). A questo proposito il “capitale fittizio” è un concetto chiave, di cui è possibile qui darne solo i tratti di base. Si parla di azioni, di obbligazioni, di titoli di debito pubblico, di certo credito bancario e non bancario (da parte di fondi di investimento e così via) che viene oggi “cartolarizzato”, cioè diventa un titolo finanziario acquistato e venduto. Tutti questi titoli non sono dei capitali, ma sono dei diritti sul capitale altrui; ma vengono trattati come fossero invece come capitali reali. Non si tratta di una truffa, anche se grazie a questi titoli se ne commettono parecchie. Le azioni che circolano sono state inizialmente del credito a una data impresa, che lo ha investito per il suo funzionamento, e che ai prestatori di denaro corrisponde una quota parte del profitto, un tipo particolare di interesse chiamato dividendo, salvo annullare il debito riacquistando le azioni emesse. Ma il capitale non esiste due volte, una sotto forma di capannoni e macchinari, e una sotto forma di azioni. Il valore di queste ultime è un valore “fittizio”, “illusorio”, dato dalla capitalizzazione dei dividendi futuri attesi. Similmente i titoli di debito pubblico sono stati inizialmente del credito allo Stato, che lo ha speso per pagare i suoi dipendenti e acquistare beni, o lo ha investito in proprie imprese economiche, e che ai prestatori di denaro corrisponde una quota parte delle imposte e delle tasse che preleva, un dato interesse sull’ammontare del credito ricevuto, salvo annullare il debito riacquistando, o non rinnovando, i titoli di debito pubblico emessi. Ma anche qui non esistono due “capitali”, l’uno materializzato nelle spese e negli investimenti statali e l’altro sotto forma di titoli di debito pubblico. Il valore di questi ultimi è un valore “fittizio”, “illusorio”, dato dalla capitalizzazione degli interessi futuri attesi. Similmente le aperture di credito bancario alle imprese oltre il capitale proprio e quello altrui dato in gestione, credito allo scoperto, “creazione di denaro ex nihilo”, è capitale denaro fittizio, che si converte in capitale reale negli investimenti delle imprese, e permane come attività finanziaria nel bilancio bancario. Questo capitale fittizio viene annullato quando le imprese, producendo plusvalore, saldano il debito bancario contratto. Sia le azioni (le obbligazioni e il credito bancario), sia i titoli di debito pubblico rappresentano diritti sulla produzione futura, in modo diretto per le azioni (le obbligazioni e il credito bancario), e in modo indiretto per i titoli di debito pubblico (in questo caso il plusvalore futuro deve prima tramutarsi in imposte e tasse). Uno sviluppo finanziario che data da circa un trentennio è la cartolarizzazione dei crediti bancari, per cui anch’essi diventano dei titoli negoziabili sui mercati. Questi titoli di credito, scambiandosi sui mercati finanziari, diventando merci i cui prezzi variano nel tempo, e queste variazioni in parte riflettono la profittabilità futura attesa delle imprese interessate o del loro complesso, e in parte sono speculative (ma la speculazione è sempre un gioco a somma zero, il guadagno dell’uno è la perdita dell’altro – les affaires, c’est l’argent des autres). Per il singolo possessore di un dato ammontare di azioni questo “capitale fittizio” può diventare reale se riesce a convertirle in denaro, ma solo a condizione che vi sia un compratore che faccia una conversione opposta. Questo “capitale fittizio” svolge un ruolo essenziale nel capitalismo, permettendo una moltiplicazione degli investimenti a livelli altrimenti impensati, concentrazioni industriali altrimenti irrealizzabili, spostamenti di capitali tra i diversi settori tali da consentire una tendenziale equalizzazione dei saggi di profitto, e fornisce delle garanzie, delle assicurazioni a fronte dei rischi d’impresa. Ma dall’altro crea l’illusione che il capitale si moltiplichi per due, tre, quattro volte (così se A presta un capitale a B, e questi a sua volta lo presta 62 a C, nel sistema bancario vengono registrati tre capitali, ma nella realtà ne esiste uno solo), entrando nei libri contabili bancari e in quelli delle aziende che sviluppano attività finanziarie in proprio, figurando sia come attività sia come profitti; ed entrando per questa via nella contabilità nazionale. È lo sviluppo immenso di questo capitale fittizio, nelle sue nuove e inedite forme, che spiega le valutazioni così divergenti del saggio di profitto statunitense dopo il 1992, inflazionando in taluni calcoli il numeratore (i profitti) con la conseguenza che vi è l’apparenza di una crescita esponenziale del saggio di profitto; e in altri il denominatore (il capitale accumulato e investito), con la conseguenza che vi è l’apparenza di un crollo costante dello stesso saggio. La tesi fondamentale di Chesnais è che tutti i processi intercorsi negli ultimi 30 anni, e che si concretizzano in un enorme aumento del tasso di plusvalore a livello mondiale, non siano riusciti a rialzare stabilmente il saggio di profitto nelle attività produttive, in una situazione di sovraproduzione e sovraccumulazione che si prolunga da cinquant’anni, ma hanno prodotto nel corso del tempo una enorme massa di profitti che cerca una valorizzazione non più ottenibile nella produzione. “Questi profitti devono andare da qualche parte. Vengono affidati ai dipartimenti finanziari aziendali a cercare, in concorrenza con banche, fondi pensione, fondi comuni di investimento e hedge funds, una valorizzazione nei mercati attraverso prestiti e asset trading. Mentre l'accumulazione vacilla e la quantità di plusvalore appropriato rallenta nonostante gli aumenti del tasso di sfruttamento, inizia un processo cumulativo. L'insaziabilità degli investitori (la forma finanziaria dell’inestinguibile sete capitalistica di plusvalore) accentua la finanziarizzazione sotto forma di innovazioni finanziarie e di sviluppo di capitale fittizio nelle sue nuove forme contemporanee”. Questa crescente offerta di capitale denaro porta a una caduta del tasso di interesse, rendendo sempre più difficile la sua stessa valorizzazione finanziaria: così solo operazioni sempre più rischiose possono dare i risultati ricercati. Di qui una instabilità finanziaria endemica che porta a continue misure di quantitative easing e di supporto al capitale fittizio con strumenti non convenzionali da parte delle Banche centrali, la cui efficacia nel medio e lungo termine è tutt’altro che certa. In quest’ottica lo sviluppo del capitale finanziario anziché essere antitetico all’industria è invece l’ “ultimo rifugio” del capitalismo industriale, che permette sia di evitare un crollo alla anni ‘930, con conseguente distruzione di capacità produttiva in eccedenza e di capitali sovraccumulati, sia di rialzare il tasso di sfruttamento e quindi evitare un tracollo dei saggi di rendimento dei capitali. Ma da un lato sposta in là il problema senza risolverlo, e dall’altro aggiunge nuovo materiale infiammabile sotto forma di bolle finanziarie destinate a scoppiare, con effetti di ritorno sui meccanismi base capitalisti imprevedibili e potenzialmente catastrofici. Perché se il capitale finanziario si nutre di plusvalore futuro, in una situazione di stagnazione (e di totale assenza di innovazione tecnologica) può reggere solo con “piramidi”, che si autoalimentano fino al momento della inevitabile rottura. Così nei giorni drammatici della pandemia del coronavirus mai è stato così chiaro che è solo il lavoro umano che permette alla società di riprodursi, e dall’altro che la sete di plusvalore nella finanza e nella produzione è un ostacolo a questa riproduzione, ma l’unica “soluzione” adottata a livello economico è aumentare sempre più il capitale finanziario fittizio, in una infinita spirale di crescita. Questa situazione drammatica non può terminare senza un crollo economico duraturo, che non sarà un prologo ad altri vent’anni dorati senza che molte altre precondizioni siano soddisfatte. C’è qualcosa di vagamente simile alla situazione dell’epoca classica dell’imperialismo? Questo parallelo è stato sviluppato da Arrighi in un suo lungo saggio del 2003, poi rifuso nel suo ultimo libro, apparso nel 2007. Non considero quello che è il pensiero centrale di Arrighi, quello dei cambiamenti di egemonia mondiale dal XV secolo a oggi, su cui non concordo; mi limito agli spunti che solleva in un confronto serrato con le analisi di Brenner sul capitalismo contemporaneo. Confrontando il periodo tra il 1873 e il 1896 (la “Grande depressione”) e il periodo tra il 1973 e il 1993 Arrighi trova “sorprendenti analogie”: entrambi sono lunghi periodi di riduzione dei saggi di profitto caratterizzati da un inasprimento della concorrenza tra le imprese capitalistiche, ed tutt’e due hanno fatto seguito a dei periodi di eccezionale prosperità, in termini di produzione, di commercio, di profitti ottenuti. “In entrambi i casi la crisi dei profitti e l’intensificazione della concorrenza sono stati generati dalle stesse tendenze che avevano dato vita all’espansione nel periodo immediatamente precedente: il successo dei paesi emergenti nell’inseguimento del paese guida del momento e il conseguente raggiungimento da parte loro di traguardi di sviluppo economico che prima erano ‘monopolio’ del solo paese guida”. Mentre Brenner sostiene che solo con un drastico sfoltimento del sistema il capitalismo può risolvere i problemi di sovraproduzione, di sovraccumulazione e di profittabilità, Arrighi ricorda che alla fine del XIX secolo dopo “un periodo più che ventennale di relativa stagnazione, costellato da episodi di crisi e recessioni 63 locali o di breve durata” i saggi di profitto tornarono a livelli alti senza alcun “drastico sfoltimento”. La chiave che permette di spiegare questa dinamica per Arrighi è la finanziarizzazione dell’accumulazione, avvenuta sia nella Belle Époque di fine ‘800 e inizio ‘900, sia in quella statunitense di fine ‘900 e inizio anni 2000, e ricorda che in quest’ultimo periodo nella “tendenza verso la ‘finanziarizzazione’ dell’economia non finanziaria, non solo il settore manifatturiero è [stato] quantitativamente predominante, ma è stato addirittura alla guida del processo”. Minacciate dall’inasprirsi della concorrenza e per evitare un “macello dei capitali”, “le aziende mature ad alti costi hanno risposto al calo dei profitti indirizzando una quota crescente delia disponibilità derivante dai ricavi verso la liquidità o impieghi finanziari, invece che investirla in merci e capitale fisso”. Questo ragionamento di Arrighi si conclude in un paragrafo significativamente intitolato “La Belle Époque come preludio alla crisi terminale”: All’inizio degli anni novanta… sostenevo in un mio scritto che “l’analogia più sorprendente [fra questa nuova Belle Époque e quella edoardiana] è la quasi totale assenza nei suoi beneficiati della consapevolezza che l’improvvisa prosperità senza precedenti di cui stavano godendo non si fondava sul superamento della crisi del processo di accumulazione che l’aveva preceduta”. Invece “quell’improvvisa prosperità dipendeva dallo spostamento della crisi da un insieme di relazioni a un altro insieme di relazioni. Era solo questione di tempo perché la crisi tornasse a emergere in forme ancora più pericolose”. È una diagnosi che ricorda quella di Brenner secondo cui la ripresa economica della seconda metà degli anni novanta negli Stati Uniti non rappresentava “un superamento definitivo della lunga svolta recessiva”; e che, in effetti, il peggio doveva ancora venire […] Il crollo e la Grande depressione degli anni trenta (l’unico esempio negli ultimi centocinquanta anni che possa corrispondere a quello sfoltimento generalizzalo di tutto il sistema, o “vera e propria depressione” evocata da Brenner) costituisce una parte integrante dell’ultima rottura del sistema. Il successo colto dalla controrivoluzione monetarista nel fare dell’espansione finanziaria degli anni settanta il motore del recupero di ricchezza e potere degli Stati Uniti negli anni ottanta e novanta non è affatto una garanzia che un simile crollo sistemico non possa ripetersi ancora. Anzi, le dimensioni stesse e la profondità della trasformazione potrebbero aver aggravato a tal punto i problemi di realizzo monetario su scala globale da rendere più probabile una “vera e propria depressione”. Arrighi sottolinea anche le profonde differenze che caratterizzano questi periodi. Quella ovvia è la formazione di Imperi coloniali e la corsa verso la Grande guerra tra XIX e XX secolo, che non ha riscontri odierni – ma questo è un aspetto specifico che può essere analizzato solo considerando una serie di fattori aggiuntivi, su cui ritornerò più avanti. A livello economico balzano agli occhi il predominio del protezionismo e della tendenza alla rottura del mercato mondiale tra ‘800 e ‘900, rispetto all’ampliamento del mercato mondiale e alla sua generale liberalizzazione tra ‘900 e anni 2000 (anche se la liberalizzazione reale dei paesi avanzati è ben minore di quanto ufficialmente proclamato): da un lato questo esprime la maggiore estensione e la maggiore profondità della finanziarizzazione dell’accumulazione quale la stiamo vivendo oggi rispetto a un secolo fa, consentendo un’estrazione mondiale di plusvalore assoluto (e in minor grado relativo) a livelli storicamente inediti, e dall’altro rinvia a dinamiche della politica mondiale su cui mi soffermo successivamente. Infine, Arrighi sottolinea il fatto che la potenza allora egemone (ma in declino), l’Inghilterra, continuò a rifornire di capitali il mondo intero, mentre da decenni gli Stati uniti importano capitali esteri “a una velocità senza precedenti nella storia”. Quello che permise questo ruolo all’Inghilterra un secolo orsono fu il possesso dell’India, che funzionò da “assicurazione sulla vecchiaia”, mentre non solo gli Stati uniti oggi non godono di una tale “assicurazione”, ma a fronte dello squilibrio crescente della bilancia dei pagamenti dal 2014 l’afflusso di capitali non è più coperto dall’insieme delle Banche centrali estere, ma da capitali privati, creando angosciose incertezze nell’establishment statunitense. Il tentativo di Trump di ricondurre a un certo equilibrio la bilancia commerciale per mezzo di molteplici guerre tariffarie sembra destinato all’insuccesso. La configurazione internazionale odierna è quindi molto più fragile di quella di un secolo or sono. A queste differenze aggiungerei anche che la Belle Époque del 1896-1914 fu più robusta e più estesa, cioè fu in tutto e per tutto mondiale, rispetto alla Belle Époque del 1992-2006, grazie all’effetto sull’economia mondiale della scoperta dei ricchi giacimenti auriferi del Rand sudafricano, e quindi dell’aumento drastico della produttività del lavoro nelle miniere aurifere, mentre oggi stiamo vivendo da almeno un ventennio la situazione esattamente opposta, la produzione di oro da miniere sempre meno produttive e quindi una diminuzione drastica della produttività del lavoro nelle miniere aurifere. 64 Ero partito con la domanda: come caratterizzare la fase attuale del capitalismo? Personalmente vedo una fase storica in sé conclusa di circa ottanta anni dal 1870 al 1950, e una analoga apertasi nel 1970. Pur con diverse ottiche sia Arrighi che Freeman ritmano la storia del capitalismo in questo modo. La mia risposta alla caratterizzazione della fase attuale è che viviamo un periodo storico di incubazione di una “crisi gigantesca” del sistema capitalistico, esattamente come un secolo fa, e non vi è all’orizzonte alcun elemento che possa far pensare che a questa “crisi gigantesca” possa succedere un nuovo rilancio capitalistico. Siamo, oggi come un secolo fa, in un periodo di “capitalismo morente”, di “agonia del capitalismo”. Alla domanda che si pose Schumpeter nel 1942 “può il capitalismo sopravvivere?”, anch’io rispondo: “no, non penso”. La seconda domanda è relativa alla “politica mondiale”, all’ambito delle politiche statali, espressione delle classi e delle frazioni delle classi dominanti. Esiste un “sistema di Stati” che regge la politica mondiale? Qual è la sua dinamica? Il dibattito di questi ultimi venti anni sul “nuovo imperialismo” non si pone in questa ottica, ma di certo affronta gli stessi argomenti. Dal 2000-2003 c’è stato un diluvio di letteratura sul “nuovo imperialismo”, diluvio che ha conosciuto i suoi momenti più straripanti con l’attacco statunitense all’Afghanistan e all’Iraq, e con la proclamazione di Washington di una “guerra infinita” contro i suoi veri o presunti nemici variamente definiti a seconda delle occasioni. Di tutta questa letteratura utilizzo due sintesi, fatte rispettivamente da Callinicos nel 2009, e da Webber e Gordon nel 2020. Secondo Callinicos si possono individuare tre posizioni: la prima, espressa da Hardt, Negri e Robinson, sostiene che oggi il capitalismo è organizzato lungo linee transnazionali sia economicamente che politicamente, e di conseguenza i conflitti geopolitici tra i principali stati capitalisti sarebbero obsoleti; la seconda, espressa tra gli altri da Panitch e Gindin (secondo Callinicos in questo gruppo andrebbe iscritta anche la Wood), sostiene che il capitalismo necessita di un sistema di Stati, e che dalla Seconda guerra mondiale gli Usa sono riusciti a costruire un “impero informale” dove gli Stati uniti da una lato subordinano a sé gli altri grandi Stati capitalisti e dall’altro gestiscono i loro comuni interessi – di conseguenza anche per questa posizione i conflitti geopolitici tra i principali stati capitalisti sarebbero obsoleti; la terza posizione (in cui si riconoscerebbero lo stesso Callinicos, Harvey, Serfati e altri) si articola su tre tesi: il capitalismo globale “deve ancora uscire” dalla crisi iniziata nei primi anni settanta, i tre centri di questo capitalismo (Europa occidentale, Usa e Asia orientale) sono tra loro in competizione economica e politica, e di conseguenza nel contesto di una “onda lunga” depressiva persistente possono sorgere tra loro conflitti geopolitici, nonostante le asimmetrie di potere militare esistenti tra loro. Infine per Callinicos vi sono posizioni “eccentriche” a questo schema, come quelle di Arrighi (“si espande con brio in tutte e tre le posizioni: respinge certamente le premesse di Hardt e Negri ma accetta le loro conclusioni, che le rivalità geopolitiche sono obsolete, affermando inoltre che, sebbene gli Stati Uniti siano attualmente egemonici, il loro dominio è probabilmente entrato in una ‘crisi terminale’) e di Brenner (“occupa una posizione in qualche modo più vicina a Hardt e Negri e Robinson, secondo la quale l’egemonia degli Stati Uniti, quando esercitata razionalmente, e non lo era sotto Bush II, serve gli interessi condivisi degli Stati capitalisti avanzati in una pacifica globalizzazione neoliberista […] Brenner… ha sostenuto che l'unilateralismo militarista adottato dall’amministrazione di George W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre non era nell'interesse del capitale americano”). Questa divisione in tre posizioni richiama quella standard che veniva usata da decenni, tra sostenitori dell’esistenza di un superimperialismo (per cui gli Usa dominano tutti gli altri stati capitalisti, ridotti ad avere limitati margini di manovra politici ed economici a livello internazionale), i sostenitori dell’esistenza di un ultraimperialismo alla Kautsky (per cui esiste una coalizione tra le grandi potenze capitaliste che preserva l’unità e la continuità del sistema), e i sostenitori dell’esistenza di una continua rivalità interimperialista. Tra i sostenitori della odierna terza posizione Harvey e Callinicos hanno affermato che vi sarebbero due distinte logiche all’opera, una “territoriale” (coinvolgendo questioni di sicurezza, territori, risorse e influenza internazionale) da parte degli Stati, e una capitalista in senso stretto, e l’imperialismo sarebbe “l'intersezione della competizione economica e geopolitica” (Callinicos). Webber e Gordon accettano lo schema proposto da Callinicos, ma sono critici di tutte e tre le letture attuali dell’imperialismo. Per loro le teorie esistenti sull'impero e la formazione dello Stato transnazionale sottostimano il potere permanente degli Stati-nazione nell'attuale ordine mondiale. Le tesi che sostengono la 65 formazione di una classe capitalista transnazionale descrivono accuratamente alcuni aspetti degli sviluppi recenti nel capitalismo globale, ma esagerano la maturità di questi processi in modi non comprovati. Le teorie incentrate sulla supremazia statale degli Stati Uniti valutano in modo insufficiente la subordinazione di tutti gli Stati alla legge del valore, che opera dentro e attraverso lo spazio del mercato mondiale, che è diseguale e iper-complesso. Infine, gli approcci delle due logiche dell’imperialismo capitalista non sono in grado di cogliere l'integrazione dialettica di stato e capitale […] La disputa accademica sulle questioni “economiche” tende in ultima analisi a stabilire se predominano i capitali nazionali o il capitale transnazionale, mentre il dibattito sulle questioni “geopolitiche”... tende a ruotare attorno al predominio della concorrenza rispetto al coordinamento nel sistema mondiale. Ognuno di questi dibattiti ha incontrato i propri limiti interni. Vi sono una serie di lacune e di limitazioni nella letteratura esistente sull'economia politica internazionale e la geopolitica. In specifico contro la terza posizione affermano che c’è un’integrazione storicamente data di Stato e capitale, e che questa integrazione va contro la nozione di due distinte logiche di potere: questa integrazione sarebbe data dalla commistione di mercati finanziari privati e debito pubblico. Il denaro di uno Stato (denaro di credito) dipende dai mercati finanziari, che convalidano questo denaro solo se gli attori del mercato sono convinti che la logica della finanza capitalista è stata interiorizzata dallo Stato e che i suoi imperativi governano la traiettoria generale della politica fiscale, fiscale e monetaria; in ultima analisi gli Stati sarebbero subordinati al mercato mondiale, dove dominano “intense rivalità, gerarchie e dominio imperiale” (nel formulare questa critica Gordon e Webber utilizzano un lavoro del 2014 di McNally). Tuttavia, questa critica non rende troppa giustizia al lavoro di Callinicos che (sulla base di vecchi lavori di Barker e di Block) afferma che le risorse statali debbono essere considerate come una quota parte del plusvalore nazionale e riconosce la tendenza dello Stato ad agire nell’interesse del capitale senza che sia necessario sostenere una cospirazione da parte delle grandi imprese per modellare le politiche pubbliche in base alle sue esigenze, o anche per supporre connessioni particolarmente strette tra capitalisti e dirigenti statali. Tutto ciò che serve è che i singoli capitali prendano decisioni di investimento calcolate per massimizzare la propria redditività; e l’effetto netto e non intenzionale di queste azioni... sarà quello di spingere la politica statale in una direzione che tende a promuovere l’accumulazione di capitale. Una critica a mio avviso più fondata alle “due logiche” è invece quella avanzata da Sakellaropoulos e Sotiris in un loro lavoro del 2015, dove criticano l’identificazione dell'imperialismo con l’espansione territoriale e le spiegazioni delle rivalità internazionali sulla base della geopolitica delle risorse e della scarsità: Lenin cercò di pensare al sistema internazionale come una complessa unità di contraddizioni economiche, sociali e politiche, come una gerarchia di formazioni sociali, impegnata non solo nella competizione economica ma anche nell’antagonismo politico e militare. Il punto più importante nell'approccio di Lenin è che le relazioni sociali hanno la priorità analitica rispetto alle relazioni interstatali. I comportamenti degli Stati sul piano internazionale sono condizionati dalla loro struttura sociale e dall’equilibrio delle forze nella lotta di classe. L’imperialismo non è il risultato di una semplice spinta verso l’espansione territoriale, ma è sia il risultato di tendenze specifiche nello sviluppo dell’accumulazione capitalistica… e delle contraddizioni che emergono dalla natura antagonista di classe del capitalismo. Questo è il motivo per cui Lenin considera l’imperialismo come una tappa specifica nello sviluppo del capitale […] La geopolitica tradizionale, al contrario, con i suoi riferimenti alle “sfere di influenza”, agli “interessi strategici” e alle “risorse vitali”, tende a riprodurre un’immagine del mondo che ha più a che fare con la visione coloniale-imperiale […] non bisogna dimenticare che le due guerre mondiali non furono principalmente il risultato di controversie territoriali... Erano una lotta per la leadership e l’egemonia nel mondo capitalista. Queste guerre erano principalmente forme del crescente antagonismo politico... riguardanti la posizione egemonica nella catena imperialista. […] Il fatto che questo antagonismo prenda la forma di uno scontro militare o 66 rimanga in termini politici (vale a dire, entro i limiti dell’attuale diritto e consuetudine internazionale) dipende dalla congiuntura, dalla portata degli interessi e delle strategie in gioco, dall’equilibrio delle forze sia a livello regionale che globale, dalla configurazione sociale e politica interna e dalla valutazione se lo sforzo bellico galvanizzerà o destabilizzerà l’egemonia. Ma qual’è l’attuale configurazione della “catena imperialista”? E come fare a misurarla? Su questo aspetto del problema si sofferma Norfield in un suo lavoro del 2017. Utilizzando le misure del PIL, dello stock di investimenti all’estero, delle attività e passività bancarie internazionali, del ruolo della valuta nelle transazioni internazionali e delle dimensioni della spesa militare, Norfield individua sotto gli Stati uniti un secondo livello di Grandi potenze che include Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone e Cina, e un terzo livello che comprende tra gli altri Svizzera, Italia, Canada, Russia e Australia, pur riconoscendo che nessuna statistica è in grado di catturare processi dinamici con interazioni complesse e di lungo periodo tra i vari paesi (determinati dalle tendenze proprie del capitalismo a sviluppi diseguali e combinati). La conclusione di Callinicos è che la concorrenza tra i paesi capitalisti avanzati a partire dagli anni ‘960 e ‘970 non si sia tradotta conflitti geopolitici per tre ragioni: il conflitto bipolare con l'URSS agiva come una forza disciplinante sugli Stati capitalisti avanzati; gli Stati Uniti hanno cercato aggressivamente di mantenere la propria posizione egemonica; e da ultimo ci sono stati i benefici che gli altri Stati hanno ottenuto partecipando allo spazio liberale transnazionale, in particolare grazie all’aumento dell’integrazione economica globale. Quindi gli Stati Uniti sono rimasti il potere capitalista dominante, sia pure in relativo declino, ma mantengono questa posizione grazie a importanti sforzi per mantenere la propria egemonia nelle tre regioni chiave, Europa, Estremo Oriente e Medio Oriente. Callinicos ritiene che questa situazione sia tuttavia instabile soprattutto per la crescente distribuzione globale del potere economico, che può limitare le risorse americane ed espandere le opzioni di altri Stati-potenze. Webber e Gordon non arrivano a delle vere e proprie conclusioni, ma a una agenda di lavoro per la ricerca futura. Per loro bisogna partire dal concetto di un “sistema mondo” stratificato in modo complesso, la cui dinamica deve essere colta sia considerando le specificità capitaliste, e la sua totalità, la molteplicità di Stati e capitali, e la strutturazione del mondo in catene imperialiste. Sottolineano comunque “la persistenza, e non l’obsolescenza, di forme variegate di rivalità geopolitica tra diversi capitali e Stati, anche se ciò non significa una guerra militare imminente tra le grandi potenze. I processi di accumulazione globale portano a concentrazioni territoriali e geografiche... di capitali che privilegiano determinate aree a spese di altre e tendono a rafforzarsi nel tempo”. La letteratura sul “nuovo imperialismo” ha ricevuto un decisivo impulso dalla guerra di Washington contro l’Iraq nel 2003, e quindi è doveroso attendersi che i vari autori abbiano risposto alla semplice domanda del perché di questa guerra. Così come è doveroso attendersi che i sostenitori di una “concorrenza interimperialista” tra Stati uniti, Europa e Giappone (la “triade”) abbiano risposto alla semplice domanda del perché questa concorrenza non si sia sviluppata sul piano “geopolitico” dopo il 1991, con il crollo dell’Unione sovietica. Alla prima domanda, nonostante l’ampio spettro di posizioni teoriche avanzate, la risposta (quasi) corale è stata: il petrolio. Per alcuni è stato il solo motivo di questa guerra, pur con articolazioni diverse degli interessi statunitensi a questo proposito, per altri sono intervenuti anche altri fattori, più o meno rilevanti, ma alla fine al centro rimane il petrolio iracheno. Così la pensano, per fare alcuni nomi, Harvey, Serfati, Callinicos, Katz, Desai, Astarita, Achcar, Mann… anche i sostenitori dell’imperialismo non territoriale, Sakellaropoulos e Sotiris, si uniscono al gruppo. Uniche voci fuori dal coro sono stati Brenner, come già si è visto, e la Wood, per la quale la guerra irachena era una dimostrazione di forza da parte statunitense per ribadire al mondo intero la propria supremazia. Alla seconda domanda le risposte variano. Per qualcuno l’importante è che sussistano le potenzialità di conflitti “geopolitici”, la cui trasformazione in realtà dipende da una molteplicità di fattori (Davidson, Sakellaropoulos e Sotiris), o fanno dipendere il manifestarsi di tali conflitti al prolungamento dell’ “onda lunga” depressiva (Callinicos; Albo prende in considerazione questa ipotesi ma per rigettarla), o semplicemente dicono che la comunanza di interessi prevale sulla concorrenza, pur non annullandola o che la supremazia militare Usa è talmente schiacciante da impedire qualsiasi velleità di confronto militare da parte delle altre potenze (per entrambe queste ultime due spiegazioni: Wood, Katz, Serfati). Infine in diversi sostengono che l’integrazione dei capitali transatlantici assicurerebbe la pace (giustamente Callinicos ricorda che la relazione tra integrazione internazionale dei capitali e guerra è storicamente l’opposto di quanto sostengono questi autori). Ma a parte queste ultime due posizioni, che arrivano a negare possibili competizioni “geopolitiche” nel futuro, tutte le altre non spiegano perché né l’Europa, né il Giappone si 67 siano mai neppure preparate a dei conflitti “geopolitici” futuri, non abbiano cioè mai proceduto ad aumentare le proprie spese militari e a preparare ideologicamente la propria popolazione. Il ruolo della Cina nella “concorrenza interimperialista” crea abbastanza imbarazzi, visto che non vi è affatto unanimità sulla natura imperialista di questo paese. In generale questo dibattito è stato a mio avviso abbastanza deludente, ben diverso dalla vibrante discussione di un secolo fa, pur con tutti i limiti che oggi, col senno del poi, si possono rilevare in quel vecchio dibattito. La maggior parte degli interventi oggi è di tipo accademico, scritti in una lingua franca incomprensibile alla gente ordinaria, con il prevalere di teorizzazioni astratte sulle spiegazioni del corso degli avvenimenti, con la preoccupazione di dare una patina elegante e sofisticata del marxismo, in modo che possa essere degno di figurare a pieno titolo nel mondo accademico. L’aggettivo più ricorrente in questi contributi è “complesso”. La maggior parte degli interventi non è fatta per esser letta da dei lavoratori o delle lavoratrici. Inoltre prevale il conio di espressioni ad effetto, che dovrebbero sintetizzare il pensiero dell’autore, ma che in realtà sono per lo più solo “etichette” brillanti: “l’Impero del capitale” (Katz, Wood), “l’accumulazione per espropriazione” (Harvey), “la globalizzazione armata” (Serfati), “l’imperialismo globale” (Screpanti), “l’Impero come catena imperialista nel suo insieme” (Milios e Sotiropoulos), e così via. Non mancano teorizzazioni bizzarre, come quella dei Patnaik, per cui i prodotti agricoli tropicali assicurerebbero la sopravvivenza del capitalismo, teoria fatta a pezzi da uno dei pochi testi di Harvey che ho apprezzato (confesso che mi ha stupito che una grande e importante studiosa come Utsa Patnaik abbia potuto scrivere cose del genere). Infine può essere utile chiarire alcuni punti specifici, finora incontrati nella ricostruzione del dibattito di questi ultimi vent’anni. In primo luogo, affermare che gli Stati dipendono dall’accumulazione dei capitali nazionali è vero ma troppo generico. Le risorse di ogni Stato dipendono dalle imposte, che sono certo quota parte del plusvalore prodotto, ma non solo, in quanto si devono considerare le imposte dirette sulla piccola borghesia e lavoratori autonomi, che non possono essere considerate plusvalore, e le imposte indirette, pagate per lo più dai lavoratori e dalle lavoratrici. In altri termini lo Stato oltre a essere uno strumento nella lotta di classe, è anche un terreno di lotta fra le classi. Lo Stato arraffa le uova d’oro della gallina capitalista, da cui in ultima analisi dipende, ma la gallina in questione cerca di trattenere per sé il più possibile, e cerca di indirizzare lo Stato altrove, verso piccola borghesia e lavoratori, che talvolta però lanciano grida indignate per i furti che devono subire sui loro pochi averi. Volta per volta, paese per paese, bisogna analizzare la situazione. Inoltre il potere statale può essere detenuto da specifiche frazioni della classe dominante, che antepongono i propri specifici interessi a quelli complessivi dei capitali nazionali – non si può postulare una integrazione tout court tra Stato e capitale, bisogna invece analizzare concretamente caso per caso, periodo storico per periodo storico. E poi: quali sono gli interessi complessivi dei capitali nazionali? Come si determinano? Attraverso quali processi emergono in modo esplicito? Come fa un’opzione ad avere la meglio sulle altre? In secondo luogo, il tentativo di Norfield di identificare la scala gerarchica imperialista è confuso: una cosa è la scala gerarchica dei vari paesi da punto di vista capitalistico, che Marx sosteneva fosse determinata dalla produttività complessiva nazionale del lavoro; altra cosa (e che può divergere dalla prima) è la scala gerarchica del potere di ogni paese e del riconoscimento che gode da parte altrui – la Germania verso la fine dell’800 poteva essere un importante paese dal punto di vista capitalistico, avere il migliore esercito in Europa, e al contempo essere la “quinta ruota del carro” nel sistema internazionale europeo. In terzo luogo, molti autori odierni sottolineano le iniziative statali, soprattutto statunitensi, ma non solo, di tipo “cospirativo”, che indubitabilmente esistono, ma nell’ambito delle relazioni internazionali, non nell’ambito del funzionamento economico del capitalismo. Pensare che gli Stati determinino a loro piacere tassi d’interesse, tassi di cambio, crescita economica, e via discorrendo, è attribuire agli Stati dei poteri che certamente non hanno (vi è chi ha seriamente sostenuto che le crisi asiatiche del 1997-98 furono il risultato di una cospirazione americana!). In quarto luogo, condivido la critica alla “geopolitica” espressa da Sakellaropoulos e Sotiris contro Harvey e Callinicos, e che sia una cosa importante riconoscere che “i comportamenti degli Stati sul piano internazionale sono condizionati dalla loro struttura sociale” (più che condizionati determinati), ma è riduttivo dire che vi può essere solo “una lotta per la leadership e l’egemonia nel mondo capitalista”. Ciascuno Stato ha poteri e ruoli variabili nel sistema internazionale, e anche se uno Stato non ha ambizioni egemoniche, semplicemente perché non se lo può permettere, può però cercare di migliorare la propria posizione, o cercare di non venire retrocesso, e innestare lotte e iniziative il cui esito non è predeterminato. Come ho già detto non penso che “imperialismo” sia lo sfruttamento del sud del mondo, o dei suoi lavoratori: entrambe le cose ci sono e rientrano nel normale funzionamento del capitalismo e degli Stati capitalisti. Smith ha prodotto un libro, la cui 68 prima metà di tipo empirico è ottima, sullo sfruttamento dei lavoratori dei paesi poveri da parte dei capitali dei paesi ricchi – l’unico suo errore è aver intitolato il libro “L’imperialismo del ventunesimo secolo”. Come non penso che “imperialismo” possa essere qualcosa come “Wall Street e Washington”, come fanno Panitch e Gindin, e tantomeno ritengo che la globalizzazione abbia ridotto a poco più di nulla i poteri degli Stati. Mi ritrovo quindi nell’ambito dei sostenitori della “concorrenza interimperialista”, sia pure in modo critico. Da parte mia cerco di porre alcuni problemi, alcuni spunti e di proporre alcuni “modi di pensare” diversamente la situazione attuale. Si è visto che dalla seconda metà del ‘700 ai primi anni del ‘900 è stato in vigore un sistema di Stati che prevedeva una serie di vincoli, possibilità e regole, che permise un secolo senza guerre generali in Europa. Questo sistema, nato per mantenere una Europa arretrata e semifeudale, fu eretto da una alleanza tra una “vecchia borghesia” inglese, più versata alla rapina e al saccheggio che alla produzione, e l’autocrazia asiatica russa, e permise una supremazia zarista nell’Europa continentale per circa un secolo. Questo sistema resse nonostante le trasformazioni del periodo rivoluzionario e napoleonico (1789-1815) e non crollò nel 1848-49 solo per l’abdicazione della borghesia al potere. Dopo 25 anni di trasformazioni prodigiose tra il 1858 e il 1873, sopravvisse a sé stesso fino al 1896 retto solo dalla paura della rivoluzione e di una guerra dagli esiti imprevedibili, dalle debolezze di tutti gli attori in gioco, ridotti a Potenze fittizie, dalla praticabilità esclusiva di soluzioni di ripiego, in cui solo interessi prudenziali erano soddisfatti. Il debole perno che permetteva la sopravvivenza di questo sistema era la tenuta della coppia Impero asburgico e ottomano (i due “grandi malati” d’Europa) – quando gli altri Stati se ne disinteressarono e permisero il loro crollo, crollò tutto il sistema internazionale. In questo sistema per lungo tempo il governo inglese condusse una politica estera contraria agli interessi nazionali, i nemici ufficiali erano alleati con favori reciproci (Russia e Inghilterra), gli alleati ufficiali erano di fatto nemici (Austria e Russia), e nella politica mondiale valeva più essere arbitro che essere il più potente. La politica interna di ogni Stato, dove i rapporti di classe determinavano le scelte, era inestricabilmente in un ambito internazionale, e non solo le alleanze di classe internazionali permettevano a settori senza basi di massa di governare (Inghilterra), ma addirittura le alleanze di fatto internazionali permettevano l’esistenza di Stati altrimenti improbabili (Prussia), e guerre in cui quello che predominava era il bluff permettevano a regimi in crisi di continuare a vivere (Francia). Ci furono guerre “false”, pur con numeri terrificanti di morti (Crimea), l’autocrazia asiatica russa divenne da garante dell’ordine semifeudale europeo l’ancora di salvezza delle borghesie europee, e i paesi più ricchi diventarono quelli più vulnerabili. Mi scuso per l’ennesima ripetizione di cose già dette, ma ritengo che a questo punto dell’esposizione la ripresa di questi temi possa essere utile per capire la situazione attuale. L’intelligibilità delle “complessità” di allora può essere utile ad avere uno sguardo più spregiudicato sulle “complessità” odierne. La mia ipotesi è che gli Stati uniti siano oggi nei fatti non solo una Potenza fittizia, ma anche il “grande malato” del mondo d’oggi. La prima affermazione può stupire: la potenza militare statunitense non ha lontanamente alcun concorrente possibile in tutto il mondo. Quasi tutti i commentatori sono abbagliati dalle percentuali mirabolanti delle spese in armamenti degli Usa, ma non tutti. Chesnais ci ricorda che gli Usa non hanno né la capacità militare (ben diversa dalla sola alta tecnologia), né le relazioni internazionali, né probabilmente le relazioni politiche interne, necessarie per avere un Impero territoriale. Sapir analizza la dottrina militare americana, derivata da quella sovietica degli anni ‘980, e conclude sul suo totale fallimento in Iraq (un analogo fallimento fu quello israeliano in Libano nel 2006, e personalmente aggiungerei il fallimento saudita nello Yemen negli ultimi anni). Afferma: “è possibile, e anche probabile, che l’opinione americana non sia pronta ad accettare un ritorno a forme di coscrizione… Il fallimento americano trova qui la sua radice”. Arrighi conclude: Con il 2005, il progetto imperiale neoconservatore si è rivelato un completo fallimento, sulla base del quale si possono trarre le seguenti conclusioni. Primo, la guerra in Iraq, anziché rappresentare per gli Stati uniti un modo per liberarsi dalla “sindrome del Vietnam”, ha confermato le lezioni della sconfitta in Vietnam. Il fatto che gli Stati uniti controllino un apparato militare con una capacità di distruzione senza precedenti nella storia significa poco o nulla in termini di capacità d’imporre sul terreno la propria volontà agli altri popoli. Il fallimento in Iraq – in condizioni più favorevoli rispetto al Vietnam – ha minato il potere che gli Stati uniti potevano trarre da una credibile minaccia di uso della forza, in quanto unica superpotenza militare al mondo. 69 L’impossibilità politica di mobilitare la propria popolazione in delle guerre “serie” rende tutto l’apparato di “armi di distruzione di massa” in possesso agli Stati uniti un’arma spuntata – le guerre “serie” si vincono con i soldati, non con un po’ di mercenari, e con la tenuta del “fronte interno”. Washington non può oggi permettersi guerre serie. Ma non solo gli Usa sono una Potenza fittizia, ma anche il “grande malato” del mondo. La sua dipendenza dai capitali esteri è un refrain ben noto. Per la Desai “la struttura finanziaria mondiale... si comporta essenzialmente come un gigantesco aspirapolvere, che succhia capitali dal resto del mondo e li riversa nell’economia americana”. Trentacinque anni di bilance commerciali negative cumulate hanno creato una situazione che metterebbe in ginocchio una potenza dieci volte più forte di quella americana se gli investitori esteri ritirassero i loro averi. La fragilità statunitense è in questa dipendenza. Katz domanda: se i sostenitori del declino americano avessero ragione, perché diavolo i suoi concorrenti lo sostengono, anziché annientarlo? Perché nessuno ne approfitta? La risposta è nella configurazione dell’attuale sistema di Stati: tutti accorrono a sostenere gli Usa perché un suo crollo, a termine comunque inevitabile, comporterebbe il crollo di tutto il sistema internazionale interstatale, con conseguenze inimmaginabili e catastrofiche. La domanda da cui ero partito era se esista oggi un “sistema di Stati” e quale sia la sua dinamica. La mia ipotesi è che oggi sussista ancora il sistema di Stati inaugurato nel 1945-1949. Le politiche statali sono determinate dalle classi e dalle frazioni delle classi dominanti, e quindi un’analisi di questo sistema nella sua fase di “piena operatività”, dal 1945-49 al 1989-92 implica un lavoro di ricostruzione, ben superiore alle mie energie e capacità, delle dinamiche sociali nei singoli paesi e delle loro interrelazioni internazionali in questo periodo. La ripresa e la riconsiderazione critica delle varie analisi della situazione mondiale tra il 1945 e il 1985 fatte dalla Quarta internazionale sarebbero un passaggio obbligato in questo lavoro di ricostruzione. Ma alcune considerazioni generiche sono a mio avviso lo stesso possibili. Come nell’ottocento l’allora sistema sopravvisse a cambiamenti radicali nella situazione sociale e statale europea, grazie prima al “tradimento della borghesia”, e poi alla comune fragilità, così ritengo che analoghi enormi cambiamenti sociali e statali intervenuti negli ultimi trent’anni non siano riusciti a distruggere il sistema interstatale esistente. Penso che il “collasso” del movimento operaio negli anni ‘980 in Europa occidentale e negli Stati uniti sia stato un fattore di una qualche importanza per questa sopravvivenza. Questo sistema è certo il “fantasma di sé stesso”, ma regge ancora i destini del mondo. Una sua espressione è la Nato, un’altra è l’Onu, un’altra ancora sono i vertici tra i paesi più importanti; ma al di là di queste organizzazioni più o meno formalizzate, sussistono regole non scritte, vincoli impliciti, possibilità consentite, ambiti mentali, condivisi dai governi di questi paesi. Questo sistema fa sì che sia vero solo molto parzialmente quello che afferma Brenner, per cui i governi fanno la loro politica estera, ma non potendo controllare e predire quella altrui possono innescare reazioni a catena non controllabili da nessuno Stato. Ma questo sistema, da almeno trent’anni del tutto anacronistico (come per tantissimi decenni lo fu il suo omologo ottocentesco), fatica sempre più a gestire le crisi che inevitabilmente sorgono in tutto il pianeta, crisi sociali in primo luogo, ma anche nazionali, e di collassi statali che permettono l’emergere di “signori della guerra” che sono anticonvenzionali attori economici-militari, come Daesh (che a differenza di altri si è dotata di una patina ideologica per legittimare adesioni e atrocità). Fatica anche a gestire le aspirazioni da parte delle nuove potenze (o di quelle vecchie, ma risospinte violentemente all’indietro, come la Russia) di salire di un gradino nella scala del proprio potere internazionale: oltre alla Russia già citata, un elenco non esaustivo include la Turchia, l’Egitto, l’Iran, l’India, l’Indonesia, il Brasile, il Sud Africa e last but not least ovviamente la Cina. Gli ultimi arrivati, oggi come un secolo fa, sono anche i più spregiudicati. Queste “nuove potenze” hanno storie diverse: la Cina è sempre stata esterna all’ “ordine di Yalta”; la Russia ne faceva ben parte, ma si è ritrovata retrocessa di un buon numero di posizioni; anche la Turchia ne faceva parte in una posizione semicoloniale, ma pur continuando a far parte della Nato segue un percorso largamente autonomo; gli altri paesi hanno seguito un analogo percorso di emancipazione più o meno compiuto. Tutte vogliono salire di un gradino nella scala del proprio potere internazionale, ovviamente in funzione della propria capacità e forza economica, e le ambizioni cinesi sono di conseguenza ben più sostanziali di quelle delle altre “nuove potenze”. Sono imperialisti tutti i paesi che servono gli interessi della propria borghesia nazionale, e oltre alle “vecchie Potenze” nel cui interesse venne costruito il “sistema di Stati” dopo la Seconda guerra mondiale, anche le “nuove potenze” rientrano in questa definizione. Rimangono semicoloniali i paesi i cui governi, pur essendo formalmente autonomi, operano nell’interesse dei capitali esteri. In questo quadro come leggere le innumerevoli guerre condotte dagli Stati uniti nell’ultimo venticinquennio? A mio avviso non furono mai effettuate per affermare la propria supremazia, e tantomeno per garantire una sorta di 70 “Impero”. Risposero al funzionamento standard del sistema interstatale vigente, e con l’eccezione dell’invasione dell’Iraq del 2003 furono sempre fatte con l’approvazione e spesso con la partecipazione delle altre Potenze occidentali. Alcuni interventi militari furono fatti all’insegna della “stabilizzazione”. Quelli classici furono i due interventi nei Balcani, in Bosnia e in Kosovo; nel primo caso l’intervento fu un successo e portò alla pace, ovviamente reazionaria (cos’altro ci si sarebbe potuti aspettare?), nel secondo caso fu molto meno riuscito, vista l’ostinazione di Belgrado (non so quanto autonoma) a rifiutare la proposta di divisione del Kosovo – alla fine la questione kosovara è ancora oggi un fattore di destabilizzazione nell’area. Un analogo intervento in Somalia fu invece una catastrofe. In altri casi l’intervento militare era diretto a fermare dinamiche potenzialmente esplosive: l’intervento in Libia era diretto a impedire a Tripoli di compiere massacri indiscriminati di massa mentre nel confinante Egitto era in corso una rivoluzione, e dove la reazione a tali massacri sarebbe stata imprevedibile, probabilmente con un balzo in avanti dei processi rivoluzionari. La soppressione del gruppo di potere di Gheddafi ottenne a breve gli obiettivi perseguiti, ma nel medio termine l’intervento fu un insuccesso: la Libia è oggi un fattore di instabilità maggiore in tutto il Medio oriente. L’intervento a sostegno delle truppe kurde contro Daesch era evidentemente anch’esso un intervento di stabilizzazione, riuscito nel brevissimo periodo, ma un cui bilancio già nel breve periodo rivela tutti i suoi limiti. L’intervento in Afghanistan e in Iraq ebbe invece un’altra logica, “evitare un’umiliante disfatta” dopo l’11 settembre 2001, e farla finita con la sindrome del Vietnam – abbiamo già visto come è andata a finire. Tutti questi interventi militari hanno provocato un numero enorme di morti, di sofferenze, di distruzioni, e hanno evidenziato quanto le “gestioni delle crisi” dell’attuale sistema internazionale si rivelano essere sempre più problematiche, e in ultima analisi fallimentari. La problematicità dell’attuale gestione delle crisi è evidenziata dalle alleanze contraddittorie in cui si ritrovano gli Usa: alleati della Turchia ma al contempo (per un certo lasso di tempo) con le forze kurde; alleati al contempo di Turchia e di Egitto che si fanno la guerra in Libia; “nemici” dell’Iran, ma alleati con lo stesso in Afghanistan (accordo con i talebani) e in Iraq. Il crescente protagonismo, talvolta anche militare, delle “nuove potenze” completa questo quadro. Il sistema internazionale degli Stati, creato in una altra epoca, a favore di un ristretto numero di Potenze, e che queste Potenze cercano di congelare, di “stabilizzare”, vista la situazione di privilegio di cui godono, è sottoposto a tensioni e strappi crescenti, che vengono riassorbiti con difficoltà o vengono momentaneamente isolati, in attesa di tempi migliori. Ma la “localizzazione” dei conflitti, come si è visto nel 1914, talvolta non funziona. Quanto precede è solo un “quadro”, una “cornice”, per fissare riferimenti e dare prospettiva e direzione storica agli avvenimenti attuali, allo svolgersi quotidiano della politica mondiale. Questa cornice dovrebbe essere riempita dall’analisi delle forze sociali all’opera negli Usa, in Europa, in Giappone, in Cina, e così via, per avere una visione articolata dell’odierna politica mondiale, analoga alla visione articolata che abbiamo ricostruito per il XIX secolo. Ma ritornando a vecchie domande: perché la concorrenza interimperialista non ha preso aspetti “geopolitici” in questi ultimi trent’anni? Perché l’Unione europea è rimasta dal punto di vista militare “un verme”? In tutto questo cos’è allora l’imperialismo? Le poche considerazioni fatte almeno consentono delle risposte plausibili. Dal punto di vista del “sistema degli Stati” fintanto che gli Usa reggono, le vecchie Potenze hanno tutto l’interesse che il sistema attuale si mantenga – sono le “nuove potenze” che più o meno aggressivamente cercano un posto al sole (e l’ “antimperialismo” degli imbecilli li applaude), proporzionato alle proprie forze. L’Europa non ha per ora scelto la strada della corsa agli armamenti perché ben sa che essere degli arbitri nelle situazioni internazionali dà ben maggior potere rispetto a degli arsenali pieni, e punta le sue carte su questo ruolo – con quanto successo è un altro discorso. Oggi nel campo della politica mondiale l’imperialismo è la fase della progressiva disgregazione del sistema internazionale, la cui distruzione può portare con ogni probabilità a una serie di guerre locali, con all’orizzonte una nuova guerra generale. Ma l’analisi del “sistema di Stati” non può essere isolata da quella delle tendenze dell’economia capitalista a livello mondiale. La passata stagnazione, la presente depressione, e la “crisi gigantesca” in incubazione, aggiungono benzina al fuoco delle tensioni sociali in tutti i paesi, accrescono i timori di vulnerabilità delle classi dominanti di tutti i paesi, e per questo si accrescono i rischi di iniziative sconsiderate a livello internazionale da parte dei paesi imperialisti che si sentono più fragili. Questo perché, come giustamente ricorda Davidson, il capitalismo si basa sulla concorrenza, ma i capitalisti la intendono a modo loro – se sono perdenti, e di perdenti in una crisi ce ne sono tanti, vogliono che le conseguenze le subisca qualcun altro, e la richiesta corale è che lo Stato faccia sì che queste conseguenze ricadano sulle spalle di qualcuno all’estero. La situazione di depressione e crisi inoltre riduce le risorse disponibili per i vari Stati, in prima battuta per le “nuove potenze” economicamente più fragili, ma in generale per 71 tutte le potenze. Ma se si vuole avere una politica estera aggressiva con risorse decrescenti, la “democrazia” diventa un lusso che la borghesia non può permettersi (la borghesia-burocrazia cinese ha sempre ritenuto qualsiasi forma democratica un lusso, senza aspettare depressioni e crisi). Per questo varie forme di limitazione delle libertà democratiche, dalla dittatura aperta a forme di bonapartismo, da una sorta di neofascismo a forme più o meno autoritarie, caratterizzano queste “nuove potenze”, ciascuna a modo proprio. La situazione è in continua evoluzione e involuzione in ogni singolo paese: l’autoritarismo di Erdogan e di Bolsonaro è in crisi, mentre ad es. quello di Modi e Widodo è in ascesa. Il proseguimento di depressioni e crisi metterà all’ordine del giorno anche nelle “vecchie Potenze” questa dinamica di riduzione (e al limite annullamento) della democrazia – Salvini e la Meloni ne sono in Italia la sinistra avanguardia. L’imperialismo odierno sta indirizzando il nostro pianeta verso forme di regressione epocale e di catastrofi inedite, ancor più amplificate allorquando si tiene in conto la drammatica emergenza ecologica e ambientale. Non è più solo una semplice questione di inefficienza economica. Mandel, scrivendo della tendenza del capitalismo al collasso finale, diceva che non si tratta necessariamente di un collasso a favore di una forma superiore di organizzazione sociale o di civiltà. A causa della degenerazione del capitalismo, fenomeni di decadenza culturale, di regressione nei campi dell'ideologia e del rispetto dei diritti si moltiplicano parallelamente alla successione ininterrotta di crisi multiformi prodotta da questa stessa degenerazione. La barbarie, come possibile risultato del crollo del sistema, è oggi una prospettiva molto più concreta e precisa di quella degli anni Venti e Trenta. La continua decadenza del sistema farà sì che perfino gli orrori di Auschwitz e Hiroshima appariranno lievi rispetto agli orrori che l’umanità dovrà affrontare. In queste circostanze, la lotta per una soluzione socialista diventa sinonimo di una lotta per la sopravvivenza stessa della civiltà umana e della razza umana. Vi sono due processi in svolgimento, la tendenza del capitalismo verso la distruzione finale e la tendenza della classe lavoratrice verso il socialismo, in termini di coscienza, di organizzazione, di lotta e di vittoria finale (le mobilitazioni di massa in molti paesi e in tutti i continenti nell’anno appena trascorso attestano quanto questa tendenza sia reale). Oggi più che mai “la lotta per una soluzione socialista diventa sinonimo di una lotta per la sopravvivenza stessa della civiltà umana e della razza umana”. 72