Discorrendo di imperialismo
Ilario Salucci
Introduzione.
1
Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (1). Una cronaca.
2
Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (2). Un bilancio.
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Appendice:
La nuova epoca di guerre e rivoluzioni secondo Kautsky [Lih]
19
Manifesto dei socialisti della Turchia e degli Stati balcanici [Rakovsky]
21
Marx ed Engels (1). Il mercato mondiale.
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Marx ed Engels (2). La formazione dell’Europa borghese.
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Marx ed Engels (3). Il sistema di Stati europeo.
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L’imperialismo, oggi.
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marzo 2020
Introduzione.
Il lavoro che segue ha un semplice obiettivo, ma eccessivamente ambizioso – rispondere alla domanda: dove
sta andando il mondo?
Ho cercato di analizzare come hanno risposto Marx ed Engels e i teorici marxisti dell’Internazionale socialista
e operaia, prima del 1914, alla domanda di dove stava andando il mondo in cui stavano vivendo; i secondi hanno
definito il loro periodo quello dell’ “imperialismo”, e sotto questo titolo hanno formulato la loro risposta. Infine
ho analizzato come negli ultimi vent’anni i teorici marxisti dell’ “imperialismo” odierno hanno risposto in relazione
al mondo in cui noi adesso viviamo.
Mi sono convinto che per dare una risposta a questa domanda bisogna analizzare tre ambiti separati, con
dinamiche a loro specifiche, ma che parzialmente si sovrappongono, e che in aggiunta hanno tra di loro dei rapporti
parzialmente gerarchici. Questi tre ambiti sono la dinamica dell’economia capitalistica a livello mondiale, la
dinamica del “sistema internazionale degli Stati”, e la dinamica della lotta di classe a livello mondiale. Il fattore
causale fondamentale, ma solo in ultima analisi, è ovviamente il primo. Inoltre mi sono convinto che per dare una
risposta bisogna avere un approccio di lungo periodo, addirittura di secoli. E infine mi sono convinto che per dare
una risposta non si può non considerare la tendenza del capitalismo al collasso finale. Anche se molti compagni
non concorderanno, penso che leggere l’attualità in questo modo sia possibile e anche utile. La dimostrazione sia
della possibilità che dell’utilità è data dall’analisi del periodo precedente al 1914. Penso che bisognerebbe leggere la
nostra attualità con strumenti analoghi.
Dal punto di vista della dinamica economica considero un periodo in sé concluso quello che va dal 1870 al
1950, a cui, grazie a un a vero e proprio “miracolo” (come giustamente si diceva in Italia), hanno fatto seguito
vent’anni di prosperità. Dal 1970 siamo entrati a mio avviso in un periodo analogo a quello iniziato esattamente
un secolo prima. Considerare il “sistema di Stati” è per i più una frase enigmatica. Ho cercato di chiarire il concetto
rifacendomi a Marx ed Engels, e ho cercato di analizzare il sistema che è sussistito dal 1770 circa al 1914. Dopo
trent’anni di caos, di rivoluzioni e di guerre si è ricostituito un nuovo sistema di Stati. Non ho analizzato
quest’ultimo sistema, in quanto questo implicherebbe analizzare le dinamiche sociali dei singoli paesi, o gruppi di
paesi, sia internamente che internazionalmente, in questi ultimi settant’anni, ma ho solo ipotizzato una sorta di
quadro, una “cornice” in cui l’analisi di queste dinamiche sociali potrebbero essere inscritte. Cerco di fornire solo
dei punti di riferimento in cui collocare queste analisi. È il massimo che sono in grado di fare. Non dico nulla,
relativamente alla situazione attuale, né dell’Europa, né della Cina, né del Medio oriente, o di altri paesi. Mi dilungo
(poco) sugli Stati uniti per motivi che spero risultino chiari dalla lettura di quanto segue. Infine non dico neppure
una parola sulla dinamica della lotta di classe a livello mondiale: per questo ci vorrebbe uno studio voluminoso
come quello che avete tra le mani, ma spero in futuro di scrivere qualcosa di sensato a questo proposito.
Pur con tutti questi vistosi limiti mi sono azzardato lo stesso a dare una risposta alla domanda iniziale. Non
penso però di essermi scostato molto dalla risposta vera.
1
Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (1). Una cronaca.
“Imperialismo”, alla fine dell’800, è una parola relativamente nuova, e viene utilizzata non solo in modo
analitico, per dare una categoria generale alle politiche e alle guerre coloniali delle grandi potenze, ma anche come
slogan, come programma politico – per una “più grande Germania”, per una ”più grande Britannia”. C’è qualcosa
di nuovo nelle politiche governative d’Europa, a partire dalla metà dell’ ‘890, e “imperialismo” è il vocabolo con
cui lo si etichetta. Il colonialismo, invece, è di lunga data. Senza voler risalire al vecchio colonialismo di Portogallo,
Spagna, Olanda, Inghilterra e Francia, che si snoda dalla fine del XV secolo alla fine del XVIII, la grande espansione
coloniale delle grandi potenze europee precede l’ultimo decennio dell’ ‘800. Questa espansione è per lo più inglese,
ma anche francese a partire dal 1830 e tardivamente tedesca (dagli anni ‘880). Ma questa espansione coloniale era
talvolta fatta da pugni di avventurieri, le cui conquiste erano poi più o meno riluttantemente sancite dagli Stati
madre di questi elementi, talaltra erano condotte in prima persona dagli Stati, ma in certi casi in funzione delle
particolari configurazioni delle relazioni internazionali (come ad es. le politiche delle varie nazioni verso la
cosiddetta “Questione d’Oriente”, ovvero le politiche condotte nei confronti dell’Impero ottomano), mentre in
altri casi erano espressione degli strati sociali più reazionari, in contrasto agli interessi industriali, per i quali le
colonie erano “una pietra al collo” – militari, burocrati, grandi proprietari terrieri aristocratici, sia che fossero
inquadrabili come una vecchia borghesia, come in Inghilterra, o come una sopravvivenza precapitalista e
semifeudale come in Germania. È in questi termini che Kautsky nel 1898 caratterizza ancora il “nuovo
colonialismo” ottocentesco. Dagli anni ‘880 tuttavia, ad opera di Engels, viene aggiunto un ulteriore strato sociale
ai reazionari fautori della politica coloniale: gli speculatori di Borsa. Aggiunta tuttavia problematica. Kautsky
l’aggiunge puramente e semplicemente alle altre forze reazionarie che conducono una politica contraria agli
interessi industriali.
A considerare le cose più a fondo, si trova che la nuova fase della politica coloniale non è
dettata dalle esigenze dello sviluppo industriale, ma da interessi di classe che contrastano con
la spinta del progresso economico e da sistemi politici che ostacolano lo sviluppo civile. In
altre parole, come la politica protezionistica, anche l’attuale politica coloniale è sostenuta dalle
forze reazionarie. Per lo sviluppo economico essa è del tutto inutile, se non addirittura dannosa;
non è promossa dell’Inghilterra, ma dalla Francia, dalla Germania, dalla Russia e se l’Inghilterra
vi partecipa è per necessità e non per naturale tendenza, per ragioni di difesa e non per
aggressività. […] I veri responsabili di questa nuova fase del colonialismo sono i militari,
impazienti di agire e di avanzare nella carriera, i burocrati, che sospirano un aumento di posti
lucrosi, una politica economica fallimentare che ha strappato alla terra tanti contadini e spinto
tanti figli di grandi proprietari a cercare impieghi che richiedono poca cultura, ma molta
potenza; e inoltre la crescente avidità della chiesa, che vuole acquistare potere e ricchezze anche
nelle contrade selvagge, riuscendoci più facilmente con l’appoggio dello stato; e infine il sempre
maggior potere dell’alta finanza, per la quale diventa sempre più necessario allargare i propri
affari fino alle terre più lontane.
Ma funzione della Borsa (l’ “alta finanza” nella prosa di Kautsky) è ben diversa per Engels – la Borsa è
addirittura
Il rappresentante più notevole della produzione capitalistica […] la Borsa modifica la
distribuzione nel senso della centralizzazione, accelera enormemente la concentrazione dei
capitali ed in questo senso è altrettanto rivoluzionaria della macchina a vapore.
L’alta finanza è una forza parassitaria opposta agli interessi industriali o l’alfiere di questi stessi interessi?
Come che sia, che l’Inghilterra non potesse essere considerata “pacifica” in quanto prima potenza industriale –
e in cui gli interessi industriali primeggiavano a livello politico – fu inequivocabile solo un anno dopo l’uscita del
saggio di Kautsky quando scoppiò la guerra anglo-boera e il “jingoismo” in Inghilterra; ma già un anno prima vi
era stata la guerra americano-spagnola, con la conquista da parte statunitense (paese sì protezionista, ma anche
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potenza industriale emergente, già allora più o meno pari a quella inglese) di Portorico, Cuba e Filippine. Kautsky
fece ammenda e riconobbe che qualcosa di nuovo c’era, e doveva essere capito.
Fintanto che le guerre coloniali erano identificate con la reazione non c’erano problemi a livello politico: “non
un uomo né un soldo” era la parola d’ordine del movimento operaio in tutta Europa; e di fronte all’avventura
italiana in Africa Turati nel 1896 scriveva
Ciò che sembra il meglio per noi e il meglio per tutti… è che le nostre armi e la nostra
bandiera… siano battute così solennemente da togliere ai manigoldi, che ci guidano in quelle
forre maledette, non tanto la velleità – ché questo è impossibile – ma la possibilità morale di
ricominciare. Noi desideriamo ed auguriamo questa batosta sintetica e risolutiva
Ma se invece l’imperialismo non fosse la reazione, ma il progresso del capitalismo, che fare? Come scriveva la
Luxemburg nel 1913 e ancora nel 1915 era necessario
Identificare sotto [il] groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del
processo economico […] determinare in forma esatta le leggi economiche di questo intreccio
di fenomeni, scoprire la radice vera del grande e variopinto insieme di manifestazioni
dell’imperialismo
Bauer, nel 1909, sintetizza in modo efficace il “nuovo imperialismo” e introduce alcuni dei nessi causali che per
i socialisti spiegano l’insieme dei nuovi fenomeni.
Recinzione di territori economici con alte tariffe, al cui riparo si sono formati potenti cartelli e
trust; orientamento in modo sistematico della concorrenza nei mercati liberi, grazie ai ricchi
surplus dell’economia interna cartellizzata; promozione in modo sistematico degli investimenti
di capitale nei paesi stranieri ancora non-capitalisti, e orientamento della concorrenza nelle
opportunità di investimento ad opera degli Stati, i cui monarchi e ambasciatori appaiono in
terre straniere come agenti delle grandi banche; espansione e saccheggio delle colonie,
intervento degli stati capitalisti negli affari interni delle terre più distanti al fine di preparare le
condizioni per successive acquisizioni coloniali; enorme aumento degli armamenti su terra e
mare; costante reiterazione delle minacce di ricorrere alle armi nella lotta concorrenziale
capitalistica; l'atmosfera di guerra e il pericolo di guerra costantemente generati da queste
minacce; l'infezione contagiosa di grandi masse popolari da parte di una cinica ideologia
nazionalista, che rifugge da qualsiasi etica, tradisce tutti i valori culturali e non ha nulla in
comune con le vecchie idee nazionali se non il nome - queste sono le caratteristiche più
importanti delle tendenze che riassumiamo sotto la nozione di imperialismo.
Cartelli, trust, monopoli, banche, surplus di capitali, investimenti esteri. Questo, e altro ancora, verrà utilizzato
per capire l’epoca iniziata sul finire dell’ ‘800. Ma per il momento limitiamoci ai dati di fatto: protezionismo, corsa
alle colonie fatta propria da tutte le grandi potenze e conseguenti guerre coloniali, “la violenza, la frode,
l’oppressione, la rapina, la guerra” (Luxemburg), corsa agli armamenti (l’inizio del “marinismo”, come si diceva
allora, tedesco è del 1898), tensioni internazionali derivate dalla concorrenza coloniale (l’incidente di Fashoda, tra
Francia e Inghilterra, nel fatidico 1898, e poi le tensioni anglo-americane per il Venezuela), il “socialimperialismo”,
l’imperialismo come ideologia, lo “spirito di violenza e di volgarità” (Kautsky), in grado di mobilitare settori di
massa, anche proletari.
Tutto questo hanno davanti agli occhi i socialisti, nel fatidico biennio 1898-1899.
E nelle teste hanno una radicata convinzione: il capitalismo ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e il suo crollo
– economico, politico, o al contempo l’uno e l’altro – è imminente (e d’altronde a metà degli anni ‘890 l’Europa
aveva alle spalle vent’anni di crescita zero, in senso letterale; e se gli Stati uniti erano cresciuti in quegli anni, nel
1893-96 erano in preda a una grave crisi). I più fervidi sostenitori del collasso, del crollo, del crack sono il vecchio
Liebknecht, Bebel, Mehring, Kautsky, Bax, la Luxemburg, Parvus, Radek. Così Andreucci, nel 1988, ricrea
quell’atmosfera:
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Il 1° gennaio 1901 si discuteva sul relativo differimento del “crollo” e sugli elementi che ne
stavano ritardando il compimento, ma il 1900 era ugualmente definito “Das Jahr des Zerfalls”
(l’anno della caduta) poiché “Ogni pagina della sua storia è coperta dalle orme di una inarrestabile
decadenza”. E’ difficile rendere appieno il senso della diffusione di questa idea nella letteratura
socialista di fine secolo, un’idea che segna in modo indelebile tutti o quasi tutti i giudizi sull’età
contemporanea. Termini come Sturz, Zerfall, Zusammenbruch, Katastrophe, Bankrott, Niedergang (e in
altre lingue breakdown, décadence, ecc.) sono comunissimi e frequentissimi per delineare le
caratteristiche generali degli anni di fine secolo.
Nel 1911, in uno dei momenti più acuti di tensione internazionale, il vecchio Bebel proclamava al Reichstag:
E poi sopravviene la catastrofe. Allora verrà dato l’ordine del Generalmarsch, e da sedici a diciotto
milioni di uomini, il fiore della gioventù europea, armati dei migliori strumenti di morte,
verranno gettati sul campo, l’uno contro l’altro come nemici. Ma, secondo il mio modo di
vedere, dopo il grande massacro verrà il Kladderadatsch [grande cataclisma]… Esso non verrà
per mezzo nostro, verrà per causa di voi stessi. Voi tendete l’arco al massimo. Voi andate
incontro a una catastrofe. Finora non avete visto nulla al confronto, ma vivrete e sarete
testimoni di ben altro... Raccoglierete ciò che avete seminato. Il crepuscolo degli dei del mondo
borghese sta avvicinandosi! Siatene certi, sta già arrivando. Oggi state distruggendo il vostro ordine
politico e sociale. E quale sarà la conseguenza? Questa guerra significherà bancarotta generale,
miseria di massa, disoccupazione di massa, grande carestia. [Proteste dalla destra]. Volete
negarlo? ... Chiunque osservi gli eventi oggettivamente non può negare la veridicità di questa
affermazione. Cosa ha mostrato quest'estate il piccolo affair marocchino? Corsa alle banche di
risparmio, crollo della borsa, allarme nelle banche! Quello era solo un piccolo inizio; in realtà,
non era nulla! Cosa succederà quando le cose diventeranno davvero serie? Avverranno cose
che voi di certo non volete, ma avverranno lo stesso, necessariamente, ripeto, non per mezzo
nostro, ma per causa di voi stessi. Discite moniti!
Nuovi fatti e vecchie convinzioni – combinati hanno dato luogo alla teoria per cui l’ “imperialismo” era una
fase del capitalismo per tenerlo artificialmente in vita, dopo la fine della sua “spinta propulsiva”. Così Bax, a cavallo
tra ‘800 e ‘900, così Kautsky nel 1907, e ancora la Luxemburg nel 1913. Che l’imperialismo fosse una fase del
capitalismo già si era detto a Magonza, nel 1900, al congresso della SPD; e all’interno di una visione crollista del
capitalismo era ovvio che l’ “ultima” fase era sinonimo di fase “finale”. Così – tenendo a mente che in Germania
per nominare l’imperialismo si usava il termine Weltpolitik, “politica mondiale” – Mehring titolava un suo saggio
del 1900 “La politica mondiale del capitalismo morente”, e Liebknecht, lo stesso anno, poco prima di morire,
titolava un suo discorso “Potere mondiale e crack mondiale” e definiva in modo suggestivo la Weltpolitik:
la danza della morte dell’attuale società che ha giocato le sue ultime carte e che ha proclamato
il proprio fallimento
Vi era anche chi, nel movimento socialista, non si riconosceva in quest’ottica crollista, e nel 1907 emersero, al
congresso internazionale di Stoccarda, come la maggioranza dei delegati delle grandi potenze coloniali, pur
risultando, nel complesso del congresso, di poco minoritari. Per loro il colonialismo era una nuova fase di
espansione capitalistica, che dimostrava la sua vitalità e che la sua missione storica non era ancora terminata. E così
come il movimento operaio non poteva essere contro l’introduzione di nuovo macchinario più produttivo (pur se
usato capitalisticamente), non poteva egualmente essere contro le colonie in sé – ma semmai contro il loro modo
di conquista e di conduzione. La loro parola d’ordine era “per una politica coloniale socialista”, contro il
negazionismo politico che a loro avviso caratterizzava la maggioranza internazionale e la minoranza tedesca il cui
esponente più conosciuto era Kautsky (ma che annoverava altri brillanti teorici come la Luxemburg, Parvus,
Lensch, Pannekoek, Karski, e così via). Dibattito intricato, e tanto violento quanto intricato, con un Bebel
impegnato a non far esplodere il partito, mediando a parole tra posizioni di fatto inconciliabili, e in questo compito
lasciandosi andare ad alcune espressioni infelici. Almeno fornì l’occasione a Kautsky di ricordare che la storia non
procedeva in modo piattamente unilineare, rigidamente a stadi, per cui tutti i paesi del mondo dovevano prima
passare la fase capitalista per poter giungere al socialismo (argomento decisivo per i sostenitori della “politica
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coloniale socialista”), ma che in una serie di regioni del mondo si potevano “saltare” fasi storiche con condizioni
internazionali favorevoli, dopo una vittoriosa rivoluzione proletaria in Europa. E fornì sempre a Kautsky
l’occasione di scrivere pagine memorabili sull’ “etica del proletariato”:
La morale non è una forza che stia fuori o sopra la società: al contrario, emana da essa e muta
col mutare delle sue esigenze che per di più si diversificano tra le varie classi sociali. Ognuna
ha il suo particolare codice etico. È un’arma senza la quale una classe non può lottare per la
sua esistenza: un’arma adeguata alle sue particolari condizioni di vita, che deve conservare
fedelmente e rispettare per poter affermarsi e sviluppare interamente le sue energie. Dunque
anche il proletariato ha una sua morale, ne sente necessariamente il bisogno. […] Il preteso
diritto della civiltà superiore è una mistificazione morale indispensabile al capitalismo così
come la prerogativa della vera religione lo era per le classi feudali dominanti, specie al tempo
del passaggio alle strutture capitalistiche. In ogni paese questa morale viene spacciata come
sanzione del superiore diritto della classe padronale sul proletariato; per quanto riguarda gli
altri popoli da sfruttare, essa non fa in pratica che ratificare il diritto dei paesi capitalisti a
dominare sull’intera umanità. Il proletariato non può condividere un’etica di questo tipo senza
legittimare il proprio sfruttamento e sconfessare la sua lotta di emancipazione. […] Non si è
mai ancora verificato che una classe dominante tutrice abbia elevato le masse egemonizzate a
un più alto grado di maturità e all’indipendenza: ciò è accaduto sempre contro e non per merito
loro. […] L’istinto morale ispira al proletariato ripugnanza contro ogni forma di dominio di
razza o di classe, contro ogni oppressione straniera, e la ricerca scientifica dei fattori dello
sviluppo delle forze produttive dimostra che questo istinto è giusto: dimostra che, per il tipo
delle sue aspirazioni, il proletariato è una classe i cui interessi permanenti coincidono oggi con
quelli di tutta la società […] Il proletariato ha il dovere di opporsi energicamente alla conquista
di nuove colonie in generale, ma con altrettanta fermezza deve appoggiare ogni movimento
dei popoli coloniali verso la propria indipendenza. Il nostro obiettivo deve essere: rinuncia alle
colonie e liberazione dei popoli coloniali. […] Il proletariato vittorioso non svolgerà mai,
neppure nei paesi ancor oggi occupati come colonie, il ruolo di classe dominante, ma rifiuterà
ogni forma di dominazione straniera. Esso non può essere libero se non rende libera l’intera
umanità. Di qui viene la sua grandezza e il fascino potente esercitato fin dall’inizio dalla sua
spinta emancipatrice, dalla sua lotta di classe, su tutti gli spiriti più grandi e lungimiranti. Ed è
in questo segno che esso vincerà.
Il dibattito nell’SPD rimase irrisolto fino al 1911, quando altri elementi emersero, e che fecero evolvere (o
piuttosto involvere) gli assetti politici interni, con la rottura nella sinistra del partito e con la formazione di un
“centro” capeggiato da Kautsky, “centro” tatticamente alleato con la destra.
L’ottica crollista, fosse essa strettamente economica, o più direttamente politica, come espresse Kautsky dal
1905-1907 con la caratterizzazione del periodo contemporaneo come un’ “epoca di guerre e rivoluzioni”, permise
di riconciliare opposizione totale al colonialismo e il riconoscimento che la politica coloniale era espressione delle
forze capitaliste più moderne e avanzate. L’ottica crollista riuscì anche a venire a patti con la sostanziosa ripresa
economica a partire dalla metà degli anni ‘890, grazie al primissimo riconoscimento da parte di Parvus di quella
che anni dopo venne conosciuta come un’ “onda lunga” espansiva, successiva alla grande depressione. Parvus,
prima nel 1896 e poi nel 1901, affermò che era iniziato un periodo di Sturm und Drang capitalistico e che l’espansione
coloniale ne era una delle espressioni. In questi saggi Parvus predice un rovesciamento futuro di quest’onda
espansiva, e il suo tramutarsi in un’altra onda depressiva, e nel 1907 – considerando la crescita delle tensioni
internazionali tra i paesi imperialisti e la crescita incontrollabile della corsa agli armamenti – affermò che quando
la congiuntura avrebbe raggiunto il punto di svolta, il collasso politico capitalistico si sarebbe manifestato con lo
scoppio di una guerra mondiale, prologo della rivoluzione sociale. E’ probabilmente in riferimento a queste
teorizzazioni di Parvus che Trotsky affermerà più volte che l’elemento scatenante della guerra mondiale fu la crisi
economica del 1913.
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La riconciliazione tra l’ipotesi della fine della “spinta propulsiva” del capitalismo fin dagli anni ‘880 e il periodo
di Sturm und Drang capitalistico a partire dagli anni ‘890 non era tuttavia uno dei compiti più agevoli da risolvere.
Kautsky nel 1907 teorizza così che il capitalismo diventa sempre più ostacolo relativo alla crescita della produttività
– nel senso che un’altra organizzazione sociale ne permetterebbe una ben maggiore crescita – e che la stessa
dinamica capitalista fa sì che questo ostacolo diventi sempre maggiore (e di conseguenza in un futuro più o meno
distante sarebbe diventato anziché relativo un ostacolo assoluto). Il capitalismo nasconde “il suo aspetto decrepito
dietro una parvenza di giovanile vigore”.
Riprendiamo i dati di fatto già riportati: protezionismo, corsa generalizzata alle colonie, dove la popolazione
viene sfruttata in modo coercitivo e massacrata se si ribella, tensioni tra le grandi potenze sulla ripartizione
coloniale, corsa agli armamenti, imperialismo come ideologia di massa, periodo di Sturm und Drang economico.
Altri dati di fatto: sviluppo impetuoso delle ferrovie nei paesi coloniali e semicoloniali, e quindi esportazione di
capitali in questi paesi, esportazioni di merci in questi stessi paesi, e altri investimenti per piantagioni e miniere, con
una massa di materie prime dirette verso le grandi potenze. Quali le connessioni? Quali i pesi specifici da dare a
ogni elemento? Quali i nessi causali? E in ultima analisi, quali prospettive e quali politiche adottare?
Si possono individuare tre o quattro linee di ragionamento e di spiegazione.
Secondo la Luxemburg, nella sua opera del 1913 e del 1915, astraendo dai cicli economici, la condizione
fondamentale per la crescita capitalistica è l’aumento permanente di mercati di sbocco non capitalistici – prima in
patria, e poi nella sfera internazionale: mercati non “esteri”, ma “esterni” alla sfera di relazioni capitaliste. Ma
l’accumulazione di capitale che viene consentita da una domanda non capitalista porta a sua volta a una espansione
delle relazioni sociali capitaliste, e quindi distrugge le condizioni che l’avevano resa possibile; la fase successiva di
accumulazione richiederà quindi nuovi mercati non capitalisti su scala più ampia. In tale modo la dinamica
capitalista si svolge come una spirale sempre più ampia, da un lato avvicinandosi sempre più alla propria fine, e
dall’altro acuendo tutte le contraddizioni sociali e internazionali. Questa legge è immanente al capitalismo fin dalla
sua nascita, ma solo circa dal 1890 diventa il fattore determinante e dominante di tutta vita sociale.
Se dunque il capitalismo vive di formazioni non-capitalistiche, vive però – per essere più precisi
– della loro rovina, e se ha incondizionato bisogno per la sua accumulazione di un ambiente
non-capitalistico, ne ha bisogno come di un terreno di sviluppo a spese del quale, mediante il
cui dissanguamento, compiere l’accumulazione. Vista storicamente, l’accumulazione del
capitale è un processo di ricambio organico svolgentesi fra il modo di produzione capitalistico
e quelli non-capitalistici. Senza di essi l’accumulazione del capitale non può effettuarsi, ma,
vista in questa luce, l’accumulazione consiste nella loro erosione e assimilazione.
L’accumulazione del capitale non può esistere senza le formazioni non-capitalistiche, ma
queste, a loro volta, non possono coesistere con lei. […] Il capitalismo è la prima forma
economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca in sé la tendenza
immanente a espandersi in tutto il mondo e a espellere tutte le altre forme economiche; una
forma che non ne tollera altre accanto a sé. Ma nello stesso tempo la prima che non può
esistere da sola, senza altre forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che
perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s’infrange contro l’incapacità
intrinseca a essere una forma mondiale di produzione. È una vivente contraddizione storica; il
suo moto di accumulazione è insieme l’espressione, la soluzione continua e il potenziamento
di un’antitesi interna. A un determinato grado del suo sviluppo, questa contraddizione non
può essere risolta altrimenti che dal socialismo – cioè da quella forma economica che è insieme
forma mondiale per essenza e sistema in sé armonico, in quanto rivolto non all’accumulazione,
ma al soddisfacimento dei bisogni di vita dell’umanità che lavora, mediante lo spiegamento di
tutte le forze produttive della terra.
Secondo Hilferding, nella sua opera del 1910, l’accumulazione non richiede sempre nuovi mercati non
capitalisti, e problematizza invece il passaggio da una accumulazione nazionale ad una internazionale (per la
Luxemburg questo passaggio non costituiva un problema – era solo una questione di scala, di grado quantitativo
dell’accumulazione stessa). Hilferding, analizzando la realtà tedesca e statunitense, sostiene che lo sviluppo della
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concentrazione capitalista porta inevitabilmente alla formazione di cartelli, trust e monopoli più o meno tendenziali
o reali in senso stretto; che questa formazione permette il superamento della libera concorrenza, con la limitazione
della produzione per mantenere artificialmente alti i prezzi dei propri prodotti nel mercato interno (naturalmente
questo presuppone l’esistenza di un sistema protezionistico generalizzato e permette una politica di dumping
nell’esportazione – per questo Hilferding caratterizza il nuovo sistema protezionistico come un sistema offensivo,
come uno strumento di conquista dei mercati esteri). Questo comporta una limitazione alle possibilità di
investimento in patria, creando così un surplus di capitali che ricercano a livello internazionale un impiego
redditizio. Così, se per la Luxemburg alla base dell’imperialismo vi è il generalizzarsi alla massima scala possibile
della ricerca di mercati di sbocco, per Hilferding vi è invece il generalizzarsi della ricerca di campi esteri di
investimento redditizi – non esportazione di merci, ma esportazione di capitali.
Si può comunque dire che per entrambi l’internazionalizzazione del capitale è alla base del “nuovo
imperialismo”, anche se la catena causale che porta a questa internazionalizzazione è diversa nelle due visioni.
Questa internazionalizzazione viene identificata con lo sviluppo delle relazioni sociali capitaliste nel mondo non
capitalista, che comporta di necessità un colonialismo aggressivo e violento, perché solo con la forza si possono
distruggere le realtà non capitaliste e in tal modo “liberare” i lavoratori asiatici e africani per trasformarli in
lavoratori salariati.
Hilferding in aggiunta rileva che il processo di concentrazione capitalistica avviene anche in ambito bancario, a
tal punto che quest’ultimo riesce a sottomettersi le grandi società per azioni industriali e commerciali,
monopolistiche o associate in cartelli. È questo “capitale unificato” quello che Hilferding definisce capitale
finanziario, con un potere immenso sull’organizzazione e la pianificazione di settori economici sempre più ampi,
e in grado di orientare la politica statale secondo i propri desiderata. Un pugno di oligarchi, di magnati dell’alta
finanza decidono i destini dei rispettivi paesi – nelle parole di Lenin “poche centinaia di finanzieri, veri re della
moderna società capitalista”.
Il capitale finanziario nella sua forma più compiuta implica il completo dominio dell’oligarchia
capitalistica sul potere politico ed economico. Esso è la più compiuta realizzazione della
dittatura dei magnati del capitale. Ma appunto perciò la dittatura dei capitalisti che dominano
uno Stato entra in contrasto sempre più aspro con gli interessi capitalistici degli altri Stati; e ciò
mentre, all’interno, la signoria del capitale si fa sempre più incompatibile con gli interessi delle
masse popolari sfruttate dal capitale finanziario, ma perciò anche sollecitate alla lotta. Nello
scontro violento degli inconciliabili interessi, la dittatura dei magnati del capitale si rovescia,
infine, nella dittatura del proletariato.
Lenin riprende tutte le elaborazioni di Hilferding (salvo, nella sua definizione di capitale finanziario, porre su
un piano di parità capitale bancario e industriale, anziché un rapporto di subordinazione del secondo rispetto al
primo), ma si differenzia su alcuni punti. In primo luogo, alla base dell’internazionalizzazione del capitale, anziché
vedere un surplus relativo di capitale causato dall’organizzazione monopolista, vede piuttosto un surplus assoluto
di capitale, in una visione più vicina a quella luxemburghiana che vede l’internazionalizzazione come una questione
di scala di grandezza, ma a differenza di Luxemburg afferma la centralità della redditività dei capitali che vanno
all’estero, del maggior profitto che vi ricercano e che vi ottengono. In secondo luogo, anziché rilevare il potere di
organizzazione e pianificazione economica del capitale finanziario, ne sottolinea proprio l’opposto, cioè il
parassitismo dello strato sociale che lo incarna, costituito da meri rentiers (che “saccheggiano tutto il mondo
mediante il semplice ‘taglio delle cedole’”), e che domina un sistema industriale che in quanto monopolistico blocca
lo sviluppo tecnologico e conduce alla stasi economica, settoriale o temporaneamente generale, e a uno sviluppo
sempre più diseguale. Lenin, al pari di Luxemburg e Hilferding, identifica l’internazionalizzazione del capitale con
lo sviluppo delle relazioni sociali capitaliste nel mondo non capitalista.
Tutti e tre questi autori sottolineano che le cause economiche dell’imperialismo, sono dei veri e propri
imperativi, necessità economiche. Per loro l’imperialismo non è una opzione politica fra molteplici, ma è l’unica
incarnazione possibile del capitalismo a partire dalla fine dell’800. Diversamente Kautsky, negli ultimi anni prima
della Grande guerra, riconduce l’imperialismo e la corsa agli armamenti a una scelta possibile da parte della
borghesia, ma non obbligatoria, in quanto l’imperialismo e il militarismo non gioverebbero al complesso industriale
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del paese colonizzatore, ma solo alla sua frazione legata alla produzione pesante, e che partecipa alla corsa degli
armamenti. Per questo sosteneva che compito della socialdemocrazia era condurre una battaglia internazionale per
la limitazione della corsa agli armamenti, limitazione realistica in quanto corrispondente agli interessi di una serie
di settori borghesi, contro l’avviso di chi invece riteneva una simile iniziativa mistificatoria, in quanto il militarismo
era una caratteristica imprescindibile dell’imperialismo – per gli oppositori di sinistra di Kautsky (non Lenin, che
al tempo aveva preso posizione a suo favore) era necessaria una lotta intransigente contro l’imperialismo in quanto
tale, senza illusioni della sua “riformabilità”. Sugli interessi solo “settoriali” della borghesia nell’imperialismo Radek
scriveva nel 1912:
I più ampi circoli delle industrie manifatturiere e del commercio, che lavorano per il mercato interno o
che traggono i loro profitti dagli scambi con i paesi capitalisti stranieri, non hanno alcun
interesse [nella politica coloniale]. Il loro numero è di gran lunga superiore a quello delle sezioni
dell'industria che lavorano per le colonie e i per i paesi non civilizzati. La politica imperialista
ostacola il loro sviluppo perché perpetua le tariffe protezioniste, aumenta l'onere militare e, a
più riprese, sconvolge il mercato mondiale con minacce di guerra. Ma non sono in grado di
resistere alla politica imperialista, perché a loro appare come la politica che corrisponderà ai
loro interessi in futuro. Oggi, i cinque sesti delle esportazioni tedesche vanno verso i paesi
capitalisti sviluppati. Ma tutti gli strati della borghesia si chiedono: cosa succederà domani?
Tutti i paesi stanno sviluppando la propria industria; non ci saranno allora per noi mercati
sempre più ristretti? Anche se le terre coloniali sono oggi così poco sviluppate, non è forse
indispensabile svilupparle in modo che possano diventare in futuro un mercato pronto per
l'industria domestica?... [E poi, tutto sommato, sono] le masse popolari che coprono la maggior
parte del bilancio degli stati capitalisti attraverso le imposte indirette. E, infine, come può vivere
la borghesia senza il sogno coloniale; che cosa può contrapporre alle richieste sempre più forti
di socialismo delle masse popolari? […] Per le classi istruite, che non hanno alcuna
partecipazione alla produzione e vivono di briciole che cadono dal tavolo della borghesia,
l'imperialismo è anche l'unica ideologia possibile… Adorazione della personalità spietata e
forte: questa è la visione del mondo più comune tra questi circoli… In quale altro luogo la
“personalità” borghese trova oggi un'espressione più spietata che nelle colonie? E se la grigia
vita borghese disgusta l'intellettuale, dove vede delle persone che non si fermano davanti alle
avventure e che vivono la vita “al massimo”, indipendentemente dai costumi, dalle leggi e
dall'ipocrisia della patria? Nelle colonie! In tal modo l'imperialismo cattura uno strato borghese
dopo l'altro; li fissa al suo carro e celebra la sua processione trionfale in tutto il mondo. […]
Quindi vediamo nell'imperialismo una politica corrispondente agli interessi della moderna
industria pesante e di una parte dell'industria manifatturiera, nonché del capitale finanziario;
una politica che appare al capitale come l'unica salvezza dalle difficoltà minacciate dal suo
stesso ulteriore sviluppo e che attrae gli strati istruiti della borghesia in quanto unica visione
“totale” del mondo. La politica imperialista non è associata agli interessi del popolo, ma a quelli del capitale
nella sua ultima fase di sviluppo.
E in un altro scritto dello stesso anno, Radek specificava:
l’alternativa “tutto o niente”, socialismo o imperialismo devastatore, non è un’alternativa da offrire – come per
gli anarco-sindacalisti – o da deridere, – come per i realisti della politica, – ma è una alternativa obiettivamente
posta dal capitalismo. Il capitalismo gioca d’azzardo, e a trattenerlo da questo gioco pericoloso
non vale alcun buon consiglio, perché tutte le circostanze ve lo trascinano… L’imperialismo è
una malattia incurabile del capitalismo, che minaccia di contaminare il mondo.
Infine Kautsky, sviluppando un punto presente nell’analisi di Hilferding (su cui sia Lenin che Bucharin
concordavano, ma con sviluppi in quest’ultimo del tutto fantasiosi) – la tendenza alla costituzione di cartelli
internazionali – ipotizza degli accordi internazionali proprio a partire dai livelli sempre più ampi della
concentrazione capitalistica, che porterebbero alla cancellazione dei conflitti interimperialisti e alla pace in un
regime che definisce “ultraimperialista” (per il Lenin del 1916 una “ultrastupidaggine”).
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L’opera del 1910 di Hilferding venne da tutti acclamata, quella del 1913 della Luxemburg venne da tutti criticata
e derisa (in particolare da Bucharin, che nel 1924 scrisse un’opera disgustosa a sanzione della sua alleanza di ferro
con Stalin, un contributo alla violentissima campagna antiluxemburghista allora in corso nel KPD e
nell’Internazionale comunista), e quella del 1916 di Lenin venne citata quasi fosse un vangelo sulla terra. L’opera
del 1907 di Parvus, quella dello stesso anno di Kautsky, quella del 1912 di Radek, e i molti saggi e interventi che
apparvero tra il 1898 e il 1914, finirono invece tutti dimenticati.
Fu un dibattito soprattutto tedesco, ma non solo. Al programmato Congresso dell’Internazionale socialista del
1914 (si sarebbe dovuto tenere a Vienna in agosto) all’ordine del giorno vi era anche l’imperialismo, e uno dei
relatori su questo punto avrebbe dovuto essere Jaurès – ma, come si sa, Jaurès venne assassinato il 31 luglio, e il 1°
agosto iniziava la Grande guerra, che non mobilitò tra i sedici e i diciotto milioni di uomini, come ipotizzava Bebel
nel 1911, ma circa settanta, con un bilancio finale, solo per i soldati, di dieci milioni di morti e più di venti milioni
di feriti. L’orrore scorre nelle pagine della Luxemburg, datate 1916:
le belve feroci, che erano state scatenate dall’Europa capitalistica su tutte le altre parti del
mondo, sono saltate con un balzo in mezzo all’Europa […] è l’eccidio in massa del proletariato
europeo… Milioni di vite umane vengono annientate nei Vosgi, nelle Ardenne, nel Belgio, in
Polonia, sui Carpazi, sulle rive della Sava, altri milioni di uomini vengono mutilati. Ma questi
milioni sono composti per nove decimi dal popolo lavoratore della città e della campagna. È
la nostra forza, la nostra speranza, che viene falciata colà giorno per giorno a schiere, come
l’erba sotto la falce. Sono le forze migliori, più intelligenti e più istruite del socialismo
internazionale, i portatori delle più sacre tradizioni e del più audace eroismo del movimento
operaio moderno, le truppe d’avanguardia di tutto il proletariato mondiale: i lavoratori
d’Inghilterra, della Francia, del Belgio, della Germania, della Russia, che ora vengono
imbavagliati e massacrati in massa... per l’avanzata e la vittoria del socialismo è necessario un
proletariato forte, attivo, istruito, sono necessarie masse la cui forza risieda tanto nella loro
preparazione spirituale quanto nel loro numero. E proprio queste masse vengono decimate
nella guerra mondiale. Il fiore dell’età virile e la forza della giovinezza, centinaia di migliaia
d’uomini, la cui preparazione in Inghilterra e Francia, in Belgio, Germania e Russia, fu il
prodotto di un lavoro di educazione e di agitazione durato decenni, altre centinaia di migliaia
che sarebbero stati conquistati domani alla causa del socialismo, cadono e imputridiscono
miseramente sui campi di battaglia. Il frutto di sacrifici decennali e delle fatiche di generazioni
viene annientato in poche settimane, le truppe scelte del proletariato internazionale vengono
strappate alla vita.
Con la realtà prima descritta sullo sfondo, che bilancio trarre da questo dibattito sull’imperialismo?
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Il dibattito marxista classico sull’imperialismo, 1898-1916 (2). Un bilancio.
Engels, poco prima di morire, nel 1895, scriveva delle parole di cautela:
Nel giudicare avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai in
condizione di risalire sino alle cause economiche ultime. Persino oggi che la stampa tecnica
specializzata fornisce un materiale così ricco non è possibile nemmeno in Inghilterra seguire
giorno per giorno il corso dell’industria e del commercio sul mercato mondiale e i mutamenti
che sopravvengono nei metodi di produzione, in modo da poter in qualsiasi momento fare il
bilancio generale di questi fattori multiformi, complessi e in continua mutazione, fattori di cui i
più importanti, inoltre, agiscono a lungo e in modo latente prima di erompere improvvisamente
e violentemente alla superficie. Una netta visione della storia economica di un periodo
determinato non può mai formarsi contemporaneamente, ma solo successivamente, dopo che
sia stato raccolto e studiato tutto il materiale. La statistica è qui un ausiliare necessario e arriva
sempre in ritardo. Per la storia contemporanea corrente si è quindi costretti anche troppo spesso
a considerare questo fattore, che è il più decisivo, come costante, ad assumere come data e
immutabile per l’intero periodo la situazione che si riscontra all’inizio del periodo considerato,
o a prendere in considerazione soltanto quei mutamenti di questa situazione che sporgano da
avvenimenti che sono manifesti e che perciò si presentano essi pure in modo aperto. Il metodo
materialistico dovrà perciò limitarsi anche troppo spesso a ricondurre i conflitti politici a lotte di
interessi delle classi sociali e delle frazioni di classe preesistenti, determinate dalla evoluzione
economica, e ravvisare nei singoli partiti politici l’espressione politica più o meno adeguata di
queste stesse classi o frazioni di classe. È evidente che tale inevitabile noncuranza verso quei
mutamenti della situazione economica – base vera di tutti gli avvenimenti che si devono indagare
– che si producono durante gli avvenimenti stessi non può essere che una fonte di errori. Ma
tutte le condizioni di una esposizione sintetica della storia contemporanea racchiudono in sé
inevitabilmente fonti di errori, il che però non impedisce a nessuno di scrivere la storia
contemporanea.
Citando queste righe, Trotsky nel 1923 aggiungeva che
È un compito molto difficile, impossibile da risolvere nella sua totalità, determinare quegli
impulsi sotterranei che l’economia trasmette alla politica odierna; e tuttavia la spiegazione dei
fenomeni politici non può essere ritardata perché la lotta non ce lo permette. Da qui nasce la
necessità di ricorrere nell’attività politica quotidiana a spiegazioni così generali che attraverso
un largo uso sembrano essere diventate verità. Fin tanto che l’accumulazione di quantità
economiche non provochi un cambiamento di qualità politica, questo tipo di astrazioni
chiarificanti (“gli interessi della borghesia”, “l’imperialismo”, “il fascismo”) serve ancora più o
meno al suo compito; non interpreta un fatto politico in tutta la sua profondità, ma lo riduce
ad un tipo familiare che è, sicuramente, di inestimabile importanza.
Sono di buon senso queste parole del vecchio Engels e di Trotsky, che devono servirci da guida nello stilare un
bilancio del dibattito del 1898-1916 sull’imperialismo. Questo dibattito si svolse su un termine, un’astrazione,
“l’imperialismo”, che era proteiforme, dai confini indefiniti, e si identificava con il capitalismo contemporaneo,
quindi con tutta la realtà contemporanea. Aveva aspetti strettamente economici; si inseriva nelle elaborazioni più
o meno compiute di Marx, anche nei suoi aspetti più “ostici”; faceva battagliare attorno al tema dell’antimilitarismo,
delle milizie e della valutazione se era possibile una riduzione degli armamenti; gettava lo sguardo nel futuro, nella
possibilità o nella inevitabilità di un crollo; con il termine, l’astrazione “l’imperialismo” si decifravano le vicende
diplomatiche e militari, le relazioni internazionali, la “politica mondiale”, le “piccole” guerre correnti, la Grande
guerra incombente, i mezzi per evitarla prima, e come affrontarla quando oramai era in corso; assorbiva la
valutazione della politica coloniale, dei popoli “non civilizzati”, ma non si riduceva ad essa; dibattendo dell’
“imperialismo” si affrontavano i perché delle crisi economiche e le ragioni della crescita iniziata a metà degli anni
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‘890; e le varie “questioni nazionali”, balcaniche, dell’Alsazia-Lorena, dell’Irlanda, dei popoli costretti nell’Impero
zarista, e di quelli coloniali, diventavano aspetti da analizzare e giudicare con le lenti dell’ “imperialismo”; e tutto
questo si traduceva in programmi e azione politica, in strategie, tattiche, appelli all’azione di massa e di battaglie
parlamentari, in visioni contrastanti, e mutevoli, dell’importanza di uno strumento o di un altro, dell’ambito
nazionale e di quello internazionale. Sinonimo di “capitalismo contemporaneo” l’imperialismo non poteva non
essere tutto questo. Nel tentativo di tracciare un bilancio del dibattito sull’imperialismo seguirò due aspetti: l’uno,
relativo alle “cause economiche ultime”, ambito nel quale gli “errori sono inevitabili”, l’altro relativo alle relazioni
internazionali e alle origini della Grande guerra.
Monopoli, in senso stretto, si erano formati negli anni ‘880 negli Stati uniti in alcuni settori, ma già nel 1890 era
stata emanata la prima legislazione antitrust. Ma Hilferding e Lenin usando il termine “monopoli” intendevano
non tanto monopoli in senso stretto, ma due cose: la formazione grandi complessi finanziari-industrialicommerciali, con vari livelli di coesione interna, e il “superamento della libera concorrenza”. Sulla formazione dei
primi ci sono pochi dubbi, in Germania, in Francia (le Comité de Fourges), negli Stati uniti, in Giappone; meno in
Inghilterra. Semmai sia Hilferding che Lenin hanno mancato di sottolineare la nascita delle multinazionali in
Europa e negli Stati uniti – non in Giappone (tra le 60 più grandi multinazionali operanti in Europa a metà degli
anni ‘970, 31 erano nate prima del 1915). Dalla descrizione che soprattutto Hilferding faceva del superamento della
libera concorrenza appare chiaro che riteneva la cosa in senso letterale, cioè il superamento della legge del valore
nel regolamento dei prezzi e delle quantità prodotte. In questo preludeva alla sua successiva teorizzazione del
“capitalismo organizzato”. Questo aspetto delle teorizzazioni di allora deve essere rigettato, nonostante la
formazione (allora e nei decenni successivi, fino ai giorni nostri) di accordi temporanei tra grandi complessi per
“controllare” il mercato, permanentemente rotti non solo o tanto da legislazioni ad hoc, quanto dagli interessi di
questi grandi complessi a incrementare le proprie quote di profitto e quindi di mercato.
Già i protagonisti del dibattito sull’imperialismo avevano rilevato che i mercati coloniali erano marginali per le
economie delle grandi potenze – lo si è visto nel brano citato di Radek, ma anche Parvus e Kautsky l’avevano
precedentemente rilevato. Secondo i datti raccolti da Barrat Brown e da Bairoch le industrie dei paesi sviluppati
esportavano nei paesi successivamente inclusi nel “Terzo mondo”, quindi nel complesso dei paesi coloniali e
semicoloniali, solo circa l’1,5% della loro produzione totale, e se si considerano esclusivamente i paesi coloniali
questa percentuale si dimezza (questo corrisponde all’incirca a una percentuale delle esportazioni di prodotti
industriali pari al 17-20% verso il “Terzo mondo”). Se si guarda invece alle esportazioni del “Terzo mondo”,
materie prime per l’industria e prodotti agricoli, verso i paesi sviluppati, questi passarono dal 2-4% del loro
Prodotto nazionale lordo a metà ‘800 al 19-24% nel 1913.
L’esplosione delle costruzioni ferroviarie nei paesi non europei (eccetto l’Impero russo) e non considerando gli
Stati uniti è invece innegabile: si passa da 4,7 migliaia di km nel 1860, a 27,1 migliaia di km nel 1880, a 177,9 migliaia
di km nel 1900; passando dal 4% della rete ferroviaria mondiale nel 1860, al 22,5% nel 1900. Parallelamente lo
stock di investimenti esteri a livello mondiale cresce da circa 9,6 miliardi di dollari verso il 1870 a circa 47,5 miliardi
verso il 1913, con un tasso di incremento ben maggiore di quello delle esportazioni. La destinazione nel 1913 di
questi flussi di capitali era per la metà tra gli stessi paesi sviluppati, per circa il 10% verso la Russia, verso le colonie
di Africa e Asia per circa il 20%, e per il restante 20% verso i paesi latinoamericani. In questi anni si assiste a una
diversificazione dei paesi investitori: se nel 1874 il 75% dei capitali era inglese, la quota del Regno unito scende al
di sotto del 50% dal 1900. Tutti questi investimenti erano in larghissima parte (circa il 70%) destinati a finanziare
le ferrovie e altre opere pubbliche (porti e trasporto urbano), erano tutti esclusivamente privati (prestiti governativi
pubblici inizieranno solo durante la Grande guerra) e non esistevano investimenti diretti - erano pressoché tutti
(più o meno al 90%) investimenti di portafoglio, in azioni estere, in titoli statali esteri, o nella sottoscrizione di
prestiti statali garantiti.
Vi fu un solo paese per cui l’esistenza di una colonia fu essenziale alla sua sopravvivenza economica: il Regno
unito e il suo possesso dell’India. A livello di esportazioni il 67% della produzione tessile inglese in cotone veniva
esportata nei paesi del “Terzo mondo”, soprattutto in India, che passa dall’assorbire 13 milioni di yards nel 1820,
alla stratosferica cifra di 2.050 milioni di yards nel 1890, praticamente la totalità del fabbisogno totale (questa
dipendenza indiana dai tessuti in cotone inglesi diminuisce nel primo quindicennio del ‘900, quando c’è un inizio
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di reindustrializzazione indiana, che riesce ad arrivare a coprire il 28% del fabbisogno interno). Il rapporto
commerciale tra Regno unito e India è sempre stato nel complesso favorevole al primo, e il conseguente avanzo
che affluiva a Londra, insieme alle “Home charges” imposte dall’Inghilterra all’India, e alle “cedole” staccate dai
rentiers inglesi su titoli indiani, costituiva un enorme afflusso di denaro che consentiva sia di far fronte al
complessivo deficit della bilancia commerciale inglese, sia di compiere operazioni finanziarie all’estero – soprattutto
investimenti di portafoglio in America latina. L’India permise cioè al Regno unito di rimanere una grande potenza
nonostante il declino dell’apparato industriale, in cui predominava l’industria leggera, e favoriva soprattutto
interessi commerciali e finanziari.
Da questo quadro risulta che le spiegazioni economiche monocausali dell’imperialismo non reggono di fronte
ai dati oggi disponibili, tanto più se si limita questa spiegazione al ruolo delle vere e proprie colonie. Mercati di
sbocco marginali per tutti i paesi, eccetto che per l’Inghilterra; come sbocco di investimenti non rivaleggiano,
neppure da distante, con gli sbocchi offerti dagli altri paesi sviluppati. Solo per la potenza in declino, per
l’Inghilterra, l’India è lo strumento di salvataggio che riesce a farla galleggiare in un mondo che continua a cambiare
a suo svantaggio. Inoltre lo sviluppo delle relazioni capitaliste in tutto il mondo – di cui erano convinti tutti i
partecipanti al dibattito sull’imperialismo – fu in realtà più che dubbio, vista anche l’assenza di investimenti diretti,
e si è sostenuto con fondati argomenti nei decenni successivi che il colonialismo è stato un freno, sia pur relativo,
allo sviluppo di queste relazioni. Pochi guadagni per i colonizzatori e grandi disastri per i colonizzati, questo sembra
essere il bilancio. Ma allora perché la follia imperialista? Perché tante guerre, tanti morti e tante distruzioni nel
mondo extraeuropeo? Perché tanti conflitti tra le grandi potenze sulle spoglie coloniali? Perché, come diceva la
Luxemburg, scatenare le belve feroci in tutto il mondo, ritrovandosele poi con un balzo in mezzo all’Europa? Forse
solo per il miraggio di futuri guadagni, ironicamente testimoniati da come una potenza in declino riesca a mantenere
la sua grandeur solo grazie a una colonia, una sorta di assicurazione per la vecchiaia…
Un elemento del sostrato economico mantiene tuttavia, a mio avviso, la sua importanza – ed è il ruolo del
capitale finanziario, del capitalismo dei rentiers, più nel senso di Lenin che in quello di Hilferding, che lo porterà
poi a teorizzazioni sul “capitalismo organizzato” negli anni ‘920 (ma l’uno e l’altro sostenevano che speculazioni e
Borsa avrebbero perso via via importanza… non vi sono e non vi saranno mai dei “vangeli” a cui rifarsi). Non nel
senso di una “oligarchia finanziaria” che governa tutto il mondo, scatena guerre coloniali e generali, e si divide il
globo – una visione totalmente surreale. Ma nel senso di un tipo particolare di capitalismo in cui un ruolo
fondamentale viene assunto da questo tipo di capitale. Forse l’esperienza dei nostri ultimi decenni, a cavallo tra xx
e xxi secolo, può aiutarci a meglio intendere quel tipo di capitalismo. E’ questo un parallelo avanzato da Arrighi,
con esiti più o meno condivisibili, ma che richiede approfondimenti che ancora mancano. Lo studio di Hilferding,
pur se datato 1910, è ancora oggi una pietra miliare, nonostante i suoi limiti (le confusioni su alcune categorie
marxiste di base, come il denaro, il suo generalizzare il modello tedesco come via di sviluppo di tutte le società
capitaliste, e altro ancora); e lo è per la carenza nel secolo successivo di studi che cerchino di comprendere a partire
da Marx la dinamica del capitale finanziario, del “capitale fittizio”. Non casualmente penso che il poco che si sia
scritto sia a partire dalla metà degli anni ‘990, in coincidenza con un periodo storico in qualche modo affine. C’è
ancora molto da fare, e gli ostacoli oggi presenti per dei ricercatori marxisti sono forse maggiori di un secolo fa,
per i luoghi comuni imperanti sul ruolo dello Stato, sulla natura del denaro cartaceo, per la complessità finanziaria
oggi raggiunta dal capitalismo, per la presenza di teorizzazioni non-marxiste (post-keynesiane) che sembrano
“rendere la vita facile”, e spiegare tutto con solo un’opera di riverniciatura “marxista”, e così via. Il “capitale
finanziario” è, anche dal punto di vista della ricerca, un cantiere ancora aperto.
Il dibattito sull’imperialismo fu, nonostante questo, essenziale. Come diceva Trotsky, “imperialismo” costituiva
un’astrazione di inestimabile importanza, anche se non erano chiare radici economiche, connessioni sociali,
dinamiche specifiche. Anche nello specifico la Luxemburg contribuì a porre il problema della “domanda effettiva”,
Hilferding a teorizzare il “capitale finanziario”, Lenin a rendere autonomo il dibattito sull’imperialismo da quello
sulla politica coloniale, considerando i paesi semicoloniali, le sfere di influenza, la politica estera delle grandi
potenze in funzione del loro potere produttivo sul mercato mondiale. Permise di caratterizzare il periodo a loro
contemporaneo in modo geniale, come un’ “epoca di guerre e rivoluzioni”, perché davvero lo fu (questa
caratterizzazione che comportava numerosi elementi analitici e di prospettive è stata analizzata nei suoi vari aspetti
in un recente e importante saggio di Lih, un cui stralcio riporto in appendice). Permise di battersi in nome della
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pace contro tutte le grandi potenze, tra loro in concorrenza in tutto il mondo. Consentì di affrontare correttamente
il problema delle lotte dei popoli coloniali, decenni prima della grande ondata di decolonizzazione. Permise
l’internazionalismo di un pugno di dirigenti nella bufera della Grande guerra. Fu davvero un’astrazione di
inestimabile importanza.
Ma dopo tutte queste considerazioni, perché le guerre coloniali? Perché la Grande guerra? Per questo bisogna
allargare il discorso al mondo delle relazioni internazionali. Su questo il dibattito sull’imperialismo rivela più
debolezze che forze. Per capire una serie di dinamiche all’opera tra il 1895 e il 1914 bisognerà tornare indietro, al
periodo precedente il 1895, a Marx ed Engels.
La lotta del movimento operaio europeo contro la minaccia di una guerra generale conosce i suoi punti più alti
nella lunga e prolissa, ma radicale, risoluzione adottata dal congresso internazionale di Stoccarda nel 1907, nelle
manifestazioni in tutti i paesi il 5 novembre 1911 contro la guerra scatenata dall’Italia all’Impero ottomano, e dalle
manifestazioni in tutti i paesi il 17 novembre 1912, seguite il 24 e 25 novembre dal congresso straordinario di
Basilea, contro il rischio di un allargamento della guerra nei Balcani, iniziata il mese prima. Le due risoluzioni, di
Stoccarda e Basilea, vennero adottate unanimemente, e in entrambe venne sancito l’impegno dei socialisti, qualora
fosse scoppiata una guerra europea, a lavorare concretamente per la conquista del potere da parte della classe
operaia, per il rovesciamento del capitalismo. Il rischio di una guerra generale veniva fatto derivare dal “sistema
imperialista”, e il punto all’ordine del giorno del congresso di Stoccarda fu inserito a causa delle tensioni
internazionali tra Francia e Germania sorte nel 1905-1906 a proposito dello statuto del Marocco, un classico
conflitto sorto nell’ambito delle politiche coloniali. La “sensibilità” socialista ai rischi di guerra iniziò a salire di
grado in questa occasione, per toccare il suo apice nel 1910-1912, e poi rifluire nel 1914, quando lo scoppio della
guerra prese tutti di sorpresa.
Il problema è che dietro l’unanimità di Stoccarda e di Basilea vi erano una serie di divisioni e di debolezze
(alcune determinate da situazioni obiettive non modificabili dall’Internazionale) che esplosero in modo drammatico
tra il 1° e il 4 agosto 1914. Così, ad es., durante la guerra italo-turca del 1912 la giornata di mobilitazioni del 5
novembre venne snobbata dal partito più importante in quella congiuntura, quello italiano, e quest’appello ebbe
una debole eco anche nei paesi balcanici; durante la seconda crisi marocchina (la “crisi di Agadir”) del 1911 una
grave crisi scosse l’Internazionale, con una divisione tra i partiti dei due paesi coinvolti, Francia e Germania, sulla
gravità vera o presunta della situazione e sui mezzi da usare per prevenire la guerra; durante la prima guerra
balcanica (contro l’impero ottomano) tutti i partiti socialisti balcanici votarono contro i crediti di guerra, ma
ritenevano questa guerra storicamente giustificata, così da impedire la sottoscrizione del partito serbo all’appello
internazionale contro la guerra stilato da Rakovsky, e da portare il partito bulgaro (“stretto”) ad aderire solo
all’ultimissimo momento a condizione che non figurasse il suo nome sotto l’appello (che venne quindi firmato
genericamente dai “socialisti balcanici e di Turchia”) – successivamente sia Lenin, che Trotsky, che la Luxemburg
sostennero che i paesi balcanici avevano tutte le ragioni dalla loro parte in questa guerra.
Il problema era che le guerre imperialiste erano sinonimo di guerre coloniali, o derivanti da questo fattore; per
il resto era normale distinguere tra guerre difensive e offensive, e solo le seconde erano condannabili (questo sia in
Francia che in Germania). Poche voci si elevarono contro questa distinzione, tra cui la più importante fu quella di
Kautsky, che scrisse pagine profetiche per chi visse l’agosto 1914. E se più o meno tutti dal 1905-1908 ritenevano
una prossima guerra generale inevitabile (ma solo fino al 1913), vi era una (insanabile nei fatti, nonostante tutta la
diplomazia di Jaurès) divisione tra i “pessimisti” per cui il movimento operaio non poteva far nulla, e chi invece
sosteneva che spazi per l’azione c’erano – e anche tra questi ultimi una ulteriore divisione correva tra chi in un
momento dato privilegiava l’azione di massa, e chi invece una sorta di “diplomazia segreta” per mediare e conciliare,
per ricondurre “alla ragione” gli statisti del proprio paese. In generale non vi era una “politica estera
dell’Internazionale socialista”, e molti la consideravano anche dannosa, in quanto avrebbe fatto decidere ad altri,
senza le competenze per farlo, la condotta da tenere nel proprio paese.
Questi nodi contraddittori si ritrovano in un unico dirigente di altissimo livello, Bebel, il “kaiser” del movimento
operaio tedesco. Bebel aveva sostenuto fino al 1907 che era perfettamente possibile per i dirigenti socialisti, di
fronte allo scoppiare di una guerra europea, distinguere correttamente aggressori e aggrediti, e che se la Germania
si fosse ritrovata tra questi ultimi, attaccata a oriente dalla Russia e a occidente dalla Francia, ogni socialista, e lui
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per primo, avrebbero assolto i propri doveri militari per difendere la madrepatria. Pur considerando la gravità delle
tensioni anglo-tedesche, tenne sempre presente “il rischio russo”. Ma dall’autunno 1910 fino alla morte avvenuta
nel 1913 fece un passo stupefacente: contattò segretamente, e a livello personale, il governo britannico, e fornì una
serie di informazioni politiche e militari, anche riservate, relative alla Germania, per incitare e favorire lo sforzo
bellico inglese (tutto ciò considerando che l’Inghilterra era legata all’Impero russo da un accordo a partire dal 1907),
sottolineando che la guerra europea era assolutamente inevitabile, che il movimento operaio era assolutamente
impotente a fronte di questo, e che i circoli militari e di corte tedeschi erano decisi a fare il primo passo, che in
questa situazione predicare il disarmo era follia, e che quello che dovevano fare i piccoli Stati confinanti la Germania
era invece armarsi per far fronte all’attacco tedesco. Una tattica di “disfattismo rivoluzionario” ante-litteram, con
in vista una rivoluzione in Germania dopo la sua sconfitta? Nel 1911 Bebel considerava del tutto marginale la
guerra italo-turca, e nel 1912 era probabilmente il solo dirigente socialista ad augurarsi una vittoria turca, e sempre
nel 1912 scriveva ad Adler che considerava la Russia il maggior pericolo per la guerra europea, mentre sulle
intenzioni pacifiste di Berlino e Parigi non ci potevano essere dubbi, e probabilmente anche Londra aveva tali
intenzioni. Un caso di decadenza senile aggravata dalla malattia e da gravi lutti familiari? Ma in questi anni non vi
sono altre manifestazioni di questa supposta decadenza. A mio avviso la sua opinione comunicata ad Adler era
relativa in specifico a una improbabile (per lui) generalizzazione europea della prima guerra balcanica, non alla
inevitabilità di una guerra europea al cui centro vi era l’antagonismo anglo-tedesco. Finché nuovi elementi
d’archivio non apporteranno più luce su questi avvenimenti penso che l’ipotesi “disfattista rivoluzionaria” rimanga
valida: l’inevitabilità della guerra, l’impossibilità della classe operaia a fermare la guerra (anche Lenin nel 1922
sosterrà che la classe operaia era impotente in un tale frangente), uno sguardo disilluso ai balletti diplomatici per il
disarmo, copertura per preparare meglio la guerra futura (si parla di pace per meglio preparare la guerra), e in
generale degli strumenti diplomatici, idonei solo a localizzare guerre periferiche, tutto questo a mio avviso lo spinse
a giocare la sua partita più azzardata e forse folle, ma con ragioni terribilmente valide.
Il problema era che non solo non vi era una politica estera dell’Internazionale socialista, ma non ve ne era una
socialista, tout court. Non vi erano dei termini, dei punti di riferimento generali che permettevano di orientarsi nel
groviglio di avvenimenti in corso. L’importanza della pace era scontata, ma non risolveva il problema analitico. Il
paradigma “imperialista” era ovviamente importante per leggere il contenzioso anglo-tedesco, ma poteva indurre
in errore, quando tutti i socialisti (compresa la sinistra) pensarono che i rischi di guerra erano stati allontanati nel
1913-1914 grazie al riavvicinamento anglo-tedesco. Certo, pensare in termini “sistema imperialista” permise di
prendere una posizione risolutamente internazionalista alla sinistra socialista, nel 1914, ma non aveva permesso né
di seguire la preparazione della Grande guerra, né di districarsi nel corso concreto degli avvenimenti. Tutto
sommato aveva ragione Kautsky a obiettare ai sinistri che ridurre la Grande guerra a “guerra imperialista” portava
a delle aporie imbarazzanti: poteva venire considerato l’Impero Asburgico, che aveva iniziato la danza della morte
il 28 luglio con la dichiarazione di guerra alla Serbia, una potenza imperialista? Quali capitali esportava? Quali
colonie aveva? La risposta era negativa, sia per l’una che per l’altra cosa. Considerare la Bosnia Erzegovina una
colonia alla pari dell’Irlanda era una pura surenchère verbale, pur se ripetuta tante volte; e semmai era ben più corretta
la categoria coniata da Vivante dell’ “imperialismo della paura”, cioè che le mosse “imperialiste” da parte
dell’Austria erano condotte nell’esclusivo timore di disgregarsi – ma in questo modo il termine “imperialismo”
fuoriusciva dall’ambito delle teorizzazioni fino ad allora usate. A maggior ragione la Russia, paese che all’opposto
di queste teorizzazioni era un paese enormemente affamato di capitali. A queste obiezioni la sinistra socialista
rispondeva male, e debolmente, e riprendeva la caratterizzazione generale del “sistema imperialista” – cosa in sé
giustissima, ma che lasciava le obiezioni di Kautsky senza una risposta.
Ma non vi erano solo teorizzazioni – vi era anche la politica concreta che veniva sviluppata. Così nel concreto
contenzioso franco-tedesco durante la seconda crisi marocchina del 1911 entrarono in gioco altri fattori (oltre al
già citato ruolo dell’Internazionale, che per alcuni era fondamentale, e per altri era dannoso): vi era o no un rischio
di escalation verso una guerra generale? Per la SFIO sì, per la SPD no. Per quest’ultima era meglio avere un
atteggiamento di wait-and-see, perché in una Germania, e in generale in un’Europa, in cui i sentimenti nazionalisti a
livelli di massa erano forti, agire precipitosamente e a sproposito, agire troppo presto, comportava fare il gioco
dell’avversario di classe, esponendosi a campagne a cui diventava poi difficile rispondere. Certo, se la SFIO aveva
ragione nei suoi timori di escalation, la SPD correva il rischio di agire troppo tardi, con conseguenze devastanti.
Queste alternative erano obiettive, radicate nella situazione concreta, e le direzioni politiche facevano le loro scelte
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sull’onda degli avvenimenti – nel caso specifico gli sviluppi successivi dettero ragione all’SPD. Un fattore obiettivo
era il citato radicamento del nazionalismo, a differenza delle masse europee degli anni ‘930, che erano radicalmente
pacifiste (anche quelle tedesche), avendo alle proprie spalle la memoria ben viva della Grande guerra; e questo
nazionalismo nei settori popolari aveva alla propria base il desiderio di non vedere l’indipendenza del proprio paese
calpestata da un invasore straniero, di non essere governati da degli stranieri – e l’esperienza della Resistenza in
Europa durante la seconda guerra mondiale ci ricorda quanto questo sentimento poteva essere popolare e
progressista. Continuando con l’esempio della seconda crisi marocchina, vi erano altri fattori soggettivi e
congiunturali che dovevano essere tenuti in debito conto. L’SPD aveva una maggioranza di destra, ma la sinistra
aveva forti posizioni e il leader riconosciuto da tutti, Bebel, era un tipo particolare di sinistro che tuttavia parlava
in pubblico tenendo conto della geografia politica del proprio partito, per tenerlo unito ed evitargli crisi dilaceranti
(in questa occasione privatamente si scagliò contro la direzione, ma pubblicamente la difese a spada tratta). Infine
vi era il diverso peso di massa dei due partiti: nel 1911 la SFIO mobilitava a Parigi migliaia di persone, a Berlino la
SPD mobilitava decine, forse centinaia di migliaia di persone. Non si deve pensare al “pessimismo” e, in alcune
congiunture, all’ “attendismo” dei socialisti tedeschi come sinonimi di inattività. L’SPD sviluppò sempre un’enorme
attività di propaganda e di mobilitazione in quanto vedeva come suo compito fondamentale prevenire la psicosi
della guerra, cercando di guadagnare alle proprie posizioni pacifiste non solo i lavoratori, ma anche quanti più
settori non proletari. L’unica riconciliazione internazionale possibile era a livello delle masse popolari, non a livello
degli Stati, cosa che invece i socialisti francesi si illudevano (forse?) di poter influenzare. Nei dettagli si potevano e
si possono fare molteplici critiche sia alla SFIO che all’SPD (e allora vennero fatte), ma nel complesso il dato di
fondo è che comunque, nonostante tutti i problemi, la SFIO si scagliò contro il proprio governo in quanto vero
responsabile della crisi, e l’SPD contro il proprio, esattamente con la stessa logica. Certo, non sufficiente, a dir
poco, per avere una visione unitaria di politica estera del socialismo internazionale, ma comunque espressione di
un sincero e saldo internazionalismo sia della SFIO che dell’SPD. L’unico neo, semmai, è che l’ossessione della
guerra generale in quegli anni portò a giudicare i conflitti “periferici” non tanto in sé, quanto nella loro potenzialità
di innescare una guerra generale. La localizzazione delle guerre cosiddette periferiche faceva in ultima analisi tirare
un sospiro di sollievo a tutti quanti. La sottovalutazione di questi conflitti, e l’abitudine di vederli localizzati grazie
alla diplomazia internazionale, alle pressioni di ambienti della grande borghesia, e last but not the least, alle pressioni
del movimento operaio organizzato, portarono all’incredibile ingenuità del luglio 1914 quando sia i socialisti
francesi che quelli tedeschi, pur facendo attivamente propaganda e mobilitazione per la pace, mettevano entrambi
la mano sul fuoco sulla purezza delle intenzioni di pace dei rispettivi governi. Jaurès capì in parte l’errore
catastrofico fatto, ma era troppo tardi – era il pomeriggio del 31 luglio. Alle 21.00 dello stesso giorno moriva
assassinato. Il 1° agosto Francia e Germania ordinavano la mobilitazione generale.
Essere contrari alla politica estera del proprio governo non poteva essere sinonimo di politica estera socialista,
ma era comunque sinonimo di internazionalismo. Le cose cambiavano radicalmente quando un partito socialista,
anziché scagliarsi contro il proprio governo, lo critica blandamente (o non lo critica affatto), e si scaglia contro il
paese avversario del proprio. Non c’è bisogno di aspettare l’agosto del 1914 per vedere all’opera questa aberrazione,
e per questo, non considerando i settori apertamente imperialisti e guerrafondai presenti nei partiti socialisti, settori
che erano però una minoranza relativamente esigua, certe cattive interpretazioni dell’ “imperialismo” hanno dato
una mano. Per analizzare questa dinamica bisogna sprofondarsi nelle vicende balcaniche.
Fin dal 1896-1897, in anni che avevano visto succedersi la rivolta armena, quella cretese e la guerra greco-turca,
si venne formando nel movimento socialista un’opinione condivisa (Bernstein, Luxemburg, Kautsky, Rakovsky)
per cui la battaglia per l’indipendenza dei popoli balcanici era corretta, storicamente progressiva, e quindi da
sostenere, in quanto ogni rivoluzione o riforma radicale in Turchia era da escludersi. L’unica voce contraria era
quella del vecchio Liebknecht, su posizioni radicalmente antirusse, che continuava a difendere l’integrità
dell’Impero ottomano in nome della pace mondiale. Questa convinzione condivisa riprendeva la vecchia idea di
Marx ed Engels (all’inizio degli anni ‘850) per cui solo l’indipendenza dei popoli cristiani balcanici avrebbe
permesso la resistenza alla penetrazione russa nella regione, mentre lo status quo, con un impero ottomano in
disgregazione e totalmente dipendente dalle grandi potenze, era il miglior strumento dell’espansionismo russo.
Marx ed Engels abbandonarono subito questa posizione, considerandola idealistica, mentre venne “resuscitata”
(senza conoscere l’illustre precedente) in questi anni, grazie all’abbandono da parte della Russia della politica
panslavista e la sua alleanza con Costantinopoli. Ma nonostante questi orientamenti dell’Impero zarista cambiassero
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progressivamente dal 1904 fino poi alla svolta 1907, si era ormai radicata nel movimento socialista internazionale
l’idea che i popoli balcanici avevano tutte le ragioni per liberarsi dal “giogo ottomano” in sé e per sé,
indipendentemente dalla configurazione internazionale dei rapporti tra le grandi potenze. Quanto la divergenza tra
realtà e incrollabili convinzioni potessero annebbiare la lettura degli avvenimenti lo dimostrerà Kabakčiev (“stretto”
bulgaro) nel 1913 quando vide la Lega balcanica (che condusse la prima guerra balcanica contro gli Ottomani)
come una alleanza creata contro il volere russo e che condusse la guerra in diretta opposizione a una Russia filoottomana – uno stupefacente rovesciamento della realtà (oltre a una fantasiosa attribuzione all’Austria della
responsabilità della seconda guerra balcanica).
Questa “incrollabile convinzione” poggiava inoltre su una analisi ipersemplificata della realtà sociale balcanica,
per cui l’unico destino di tutta la regione era uno sviluppo capitalistico reso tuttavia impossibile dal “regime feudale”
ottomano; solo attraverso la sua distruzione si sarebbero liberate le energie che avrebbero portato al “progresso
storico”; analisi che quantomeno non si accordava con la situazione sociale regionale, che vedeva una terribile
arretratezza sia in termini di istruzione (era normale un tasso di analfabetismo vicino al 90%, eccetto la Bulgaria),
sia in termini di industrializzazione (a parte l’agroalimentare e il tessile, presente in modo limitato in tutti i paesi,
l’industria era per il resto pressoché inesistente in Serbia e in Grecia, e limitata in Bulgaria e in Romania – in
quest’ultima predominava l’estrazione del petrolio), sia in termini di conduzioni agrarie (ad es. in Romania vigeva
una situazione di dipendenza contadina senza paragoni in tutti i Balcani, giustamente analizzata dai socialisti rumeni
come “neo-servaggio”, al cui confronto la condizione contadina ottomana, pur se molto diversificata, era ovunque
di gran lunga migliore) senza distinzione tra terre ottomane o indipendenti, e con differenze anch’esse senza
distinzione tra terre ottomane o indipendenti, come il relativo sviluppo bulgaro (di fatto indipendente, anche se
formalmente lo diventerà solo dal 1908) e della Macedonia meridionale, con il centro nevralgico di Salonicco (terre
ottomane fino al 1912) a fronte delle indipendenti e arretratissime Serbia (indipendente dal 1877) e Grecia
(indipendente dal 1830). I socialisti balcanici fecero in Romania delle analisi approfondita della realtà delle
campagne, e in Bulgaria del processo di industrializzazione; ma a livello regionale predominava una visione tutta
“ideologica” funzionale a una visione di “emancipazione nazionale” preconcetta.
A ciò si aggiunse una versione distorta del paradigma “imperialismo”, soprattutto in Serbia. I socialisti serbi, in
particolare dal 1906-1908 al 1913, furono letteralmente ossessionati da una presunta presenza e oppressione
imperialista austriaca in tutti i Balcani. Tutte le loro dichiarazioni erano contro uno status quo che favoriva gli
“imperialismi europei” (sinonimo dell’Impero asburgico), e che portava all’assoggettamento dei popoli balcanici.
Questa ossessione, in una situazione in cui i gruppi di potere serbi avevano una forsennata politica antiaustriaca,
permise da un lato una consonanza dei socialisti serbi con i sentimenti di massa esistenti in Serbia, ma dall’altro li
portò a una sorprendente cecità di fronte a dati di fatto inequivocabili, come la diffusione di una massiccia
propaganda panslavista (che si tradusse nella formazione della “Mano nera” strettamente legata a vari apparati
statali serbi), la totale sudditanza del potere serbo a San Pietroburgo, e la totale dipendenza finanziaria dalla Francia
(alleata alla Russia): Tucović ripeté innumerevoli volte che sia il panslavismo, sia il ruolo russo in Serbia erano
inesistenti, invenzioni degli “imperialisti europei”, ironizzando pesantemente su chi sosteneva posizioni diverse.
Solo dopo la seconda guerra balcanica, nell’estate 1913, di fronte al regime generalizzato di terrore e di sterminio
del potere serbo nei confronti della popolazione albanese (in realtà anche turca e bulgara), un regime che si
protrasse fino allo scoppio della Grande guerra, utilizzò il termine “imperialismo” non in funzione antiaustriaca,
ma nell’accezione più generale, scrivendo che questa politica di Belgrado
illustra l’intolleranza e le ambizioni aggressive delle classi dominanti verso le altre nazioni, e la
prontezza della borghesia a realizzarle commettendo i crimini più brutali, fino ad ora commessi
solo nelle colonie d’oltremare […] l’economia capitalista del profitto e il sistema statale
borghese burocratico-militare fa nascere appetiti sia tra i grandi che tra i piccoli rappresentanti
dell’odierno ordine sociale, sia all’estero sia a casa propria, sia nella politica estera che in quella
interna.
Non più quindi una Serbia semicolonia preda degli appetiti altrui, ma essa stessa imperialista a pieno titolo.
Nel 1908 un approccio più realista era stato avanzato da Kautsky, quando in un importante saggio sostenne
che i principali ostacoli alla soluzione dei problemi nazionali e sociali nei Balcani erano sia interni che esterni – gli
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interessi delle dinastie al potere da un lato e gli interessi e la politica russa dall’altro. Pur se unanimemente
apprezzata, questa posizione di Kautsky venne traslata nella Conferenza socialista balcanica del 1910 sostituendo
a “Russia” le “potenze imperialiste” (su intervento serbo), e alle dinastie al potere le borghesie balcaniche (su
intervento bulgaro). Ma se rispondeva a una certa logica (pur se errata) denunciare l’Austria per il tramite delle
“potenze imperialiste” in Serbia, a livello regionale era del tutto illogico; e se rispondeva a una certa logica
denunciare la borghesia in Bulgaria, che conosceva un certo sviluppo industriale, a livello regionale era abbastanza
illogico. Al di sotto dell’unanimità sulla parola d’ordine della “Federazione balcanica” vi erano importanti
divergenze, e non solo quelle espresse dalla composizione di questa conferenza, che tra gli altri escluse i socialisti
rumeni e quelli della Federazione di Salonicco, oltre ai “larghi” bulgari. Quello su cui tutti concordavano era che la
“Federazione balcanica” era da un lato lo strumento per risolvere le questioni nazionali nei Balcani, dove la
mescolanza delle popolazioni impediva la costituzione di Stati nazionalmente omogenei, e dall’altro lo strumento
per avviare finalmente uno sviluppo economico capitalistico (non era un sogno da realizzarsi in un futuro
socialista), grazie a un grande mercato (per cui il primo passo era la realizzazione dell’unione doganale) e la
comunanza di numerose materie prime, e infine la garanzia di poter non dipendere più dalle grandi potenze, sia
dalla Russia, sia da quelle imperialiste occidentali. Le divergenze iniziavano quando si entrava sul terreno scivoloso
di chi e come avrebbe costituito questa Federazione.
Fino al 1908 non vi erano problemi sull’impostazione di questo problema: si doveva arrivare a realizzare le
aspirazioni nazionali dei vari popoli balcanici, liberando le terre ancora sotto dominio ottomano grazie allo sviluppo
delle lotte popolari, e arrivare così alla formazione di una Federazione di popoli liberi – in un’ottica in cui la
distruzione dell’Impero ottomano in Europa era sinonimo di distruzione delle sue strutture feudali e di potere,
mentre la popolazione lavoratrice turca e in generale musulmana d’Europa era a pieno titolo integrata nelle nazioni
che si sarebbero liberate dal “giogo ottomano”. Questa posizione era apparentemente identica a quella dei “padri
fondatori” del movimento socialista balcanico degli anni ‘870, salvo che mentre allora era vista entro una strategia
che mirava a evitare la fase capitalistica dello sviluppo storico (come i populisti russi), ora la strategia era
esattamente l’opposto – permettere la realizzazione di questa stessa fase capitalista. La rivoluzione dei Giovani
turchi nel luglio 1908 creò una divaricazione nel movimento socialista balcanico, con importanti conseguenze sulle
prospettive da perseguire. Gli “stretti” bulgari, i socialisti serbi e parte dei socialisti macedoni ritenevano la
rivoluzione giovane turca una falsa rivoluzione, un mero colpo di Stato per preservare la situazione esattamente
come prima, per salvare il “feudalesimo” turco. E’ evidente che per loro nulla era cambiato nella politica da seguire
rispetto alla situazione precedente al 1908. Invece i socialisti rumeni, quelli di Salonicco, parte dei socialisti
macedoni, e la minoranza di sinistra dei “larghi” bulgari (e a livello internazionale Jaurès), ritenevano la rivoluzione
giovane turca un primo passo verso una democratizzazione della stessa Turchia: per questo estesero la prospettiva
della Federazione balcanica anche a una Turchia libera dai pesi del passato e a sua volta federale. Una ulteriore
terreno di differenziazione tra questi due raggruppamenti era relativo al “chi” avrebbe potuto realizzare la
Federazione. Per serbi e “stretti” non certo le borghesie balcaniche, deboli, pavide e chiuse nella loro ristrettezza
nazionale – quindi il progetto di Federazione veniva rinviato a un futuro indefinito, quando un ulteriore sviluppo
capitalistico avrebbe incrementato a tal punto il proletariato e il movimento socialista da farlo rendere un
protagonista in grado di imporre la scelta della Federazione alle classi dirigenti (detta in modo brutale da Tucović:
la Federazione è una buona idea, ma niente di più). Invece per i sostenitori di un “appoggio critico” ai Giovani
turchi la Federazione era realmente possibile a breve termine, nella situazione data, perché l’ostacolo principale alla
Federazione era stato l’assolutismo di Costantinopoli, e questo era venuto a cadere, rendendo possibile, pur con le
dinastie e le borghesie esistenti, la realizzazione della Federazione, con accordi bilaterali molteplici, mediazioni e
concessioni reciproche; Rakovsky in particolare non si risparmiò nello sforzo propagandistico in questa direzione.
L’accordo tra serbi e “stretti” bulgari non portò a nulla, perché se la Federazione era per dopodomani, l’oggi
era occupato per i serbi dal problema dell’Austria “imperialista”, e per gli “stretti” bulgari dal problema dell’Impero
ottomano “feudale”, e il domani era per i serbi la liberazione della Bosnia dall’Austria e la sua unificazione con la
Serbia, mentre per gli “stretti” bulgari era la liberazione della Macedonia dagli Ottomani e la sua costituzione come
entità autonoma in una Federazione. L’opzione dell'altro raggruppamento socialista fu un fallimento: i Giovani
turchi, anziché superare i propri limiti e debolezze, si avvilupparono in politiche repressive sia contro le nazionalità
sia contro la classe operaia e le sue organizzazioni – i massacri degli armeni, la legislazione che vietava i partiti
politici a base nazionale e limitavano pesantemente il diritto di sciopero e l’attività sindacale, e la repressione contro
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i gruppi socialisti che pur li sostenevano criticamente, datano della primavera-estate 1909. Rakovsky proseguì nei
suoi sforzi e nelle sue speranze, ma prima arrivò la guerra italo-ottomana nell’ottobre 1911 e poi la prima guerra
balcanica nell’ottobre 1912 a metter fine a tutto. Il “canto del cigno” di questo raggruppamento socialista è
l’appello, pacifista e internazionalista, e che non dimentica l’ambito più ampio e i rischi di guerra europea, stilato
da Rakovsky nell’ottobre 1912 contro la guerra (e che riporto in appendice). Si può rimproverargli la fede disperata
nella riformabilità dell’Impero ottomano, unica garanzia di pace, l’utilizzo disinvolto dell’etichetta “imperialista”,
abbondantemente usata, a paesi e fatti che non lo erano affatto, alcune prospettive rivelatisi poi errate. Ma quello
che conta è che fu un appello vigoroso alla pace e all’internazionalismo, di fronte all’abisso che si spalancava nei
Balcani e nell’Europa. Venne rifiutato dai socialisti serbi, e accettato (ma non pubblicamente!) quanto a malincuore
dai socialisti “stretti” bulgari, che invece erano nei fatti del tutto a fianco della Lega balcanica e che giudicavano la
guerra e l’eventuale vittoria contro Costantinopoli una guerra giustificata e necessaria, la vittoria un evento
rivoluzionario – e che dei rischi di una eventuale guerra europea non proferivano parola. Guerra giusta, guerra
progressista per Tucović e Blagoev; insieme a Viktor Adler, il decano dei socialisti austriaci, e, dopo, come già ho
detto, dissero la stessa cosa Lenin, Trotsky e la Luxemburg. Nonostante la sfilza di grandissimi nomi mi permetto
nello specifico di dubitare della correttezza del loro giudizio.
Quali conclusioni trarre da questo groviglio politico? È che non ritengo corretti i presupposti da cui mossero i
socialisti balcanici e il movimento socialista internazionale dal 1896-97, cioè che il soddisfacimento delle
rivendicazioni nazionali dei popoli balcanici potessero essere soddisfatte senza un ampliamento della sfera di
influenza della Russia e senza rischi per la pace europea. Anche un’alleanza interbalcanica non era un antidoto – lo
si è visto con la formazione della Lega su impulso russo, e la cui rottura venne subita, e non determinata, da San
Pietroburgo. Questi presupposti portarono a catena a una serie di scelte politiche errate, e la fraseologia, e
soprattutto il modo di pensare le regole internazionali solo in termini di “imperialismi”, li aggravarono
ulteriormente. Non che questi errori siano stati decisivi per il corso degli avvenimenti nei Balcani – lì i socialisti
erano troppo pochi per influenzarlo. Ma il problema è che a livello europeo queste convinzioni e questi errori
contribuirono a formare quel nodo di contraddizioni che esplose tra il 1° e il 4 agosto 1914.
Tucović e Blagoev sbagliavano prima del 1909 a pensare che una rivoluzione in Turchia era impossibile, o detto
in altri termini, che l’impero ottomano era irriformabile – erano troppo rigidamente “ortodossi” visto che questa
convinzione stava alla base, insieme ad altre considerazioni, della svolta del 1896-97. Si illudevano di avere davanti
a sé i tempi lunghi, se non lunghissimi che avrebbero permesso sviluppo economico, industrializzazione, crescita
del proletariato “alla europea” – invece davanti a sé avevano tempi brevissimi, in cui ben altro era in gioco. E
Rakovsky dopo l’estate 1909 sbagliava a pensare che fosse ancora aperta una finestra di opportunità in direzione
di una vera rivoluzione in Turchia. La maggioranza della leadership internazionale socialista dopo l’estate 1909,
eccetto Jaurès, vide correttamente che questa finestra si era chiusa, ma non sospettò minimamente che cosa
comportasse. Jaurès e Rakovsky invece intravedevano, percepivano le conseguenze incalcolabili che ne sarebbero
derivate – per questo rifiutarono le fait acompli e lottarono fino all’ultimo per una riforma radicale della Turchia, pur
contro ogni evidenza.
Per una delle tante ironie della storia tutti parti socialisti balcanici, nessuno escluso e di qualsiasi tendenza
politica fossero nelle dispute degli anni precedenti, nei fatti alla fine uniti, votarono contro i crediti di guerra nella
Grande guerra, a differenza dei grandi partiti dell’Europa occidentale – in questo caso il trauma della seconda
guerra balcanica e il “paradigma imperialista” pesarono entrambi a favore di una corretta scelta politica.
Le mie critiche sono possibili solo perché a distanza di un secolo e passa sappiamo come andò a finire? È
possibile. Ma se il corso storico non è puramente e del tutto casuale, conoscibile nei suoi grandi tratti solo ex post,
allora dobbiamo chiederci perché fu possibile tutto questo – le mancanze, le debolezze, gli errori che portarono al
crollo della Seconda internazionale. A mio avviso i fattori causali furono molti, e molti ne furono indicati, fin dai
primi giorni dopo il 4 agosto. Ma un fattore è stato trascurato. È la comprensione della “politica mondiale”, non
come sinonimo di imperialismo, ma come categoria autonoma. Per capirne qualcosa di più dobbiamo però
rivolgerci a Marx ed Engels, e con il loro ausilio forse sarà possibile capire meglio le origini della Grande guerra, e
di conseguenza capire meglio quali furono le debolezze decisive della Seconda Internazionale.
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Appendice.
La nuova epoca di guerre e rivoluzioni secondo Kautsky [Lih]
Kautsky ha pubblicato La Rivoluzione sociale nel 1902, Socialismo e politica coloniale nel 1907 e La via al potere nel
1909. In queste tre opere, come pure in parecchi articoli sostanziali e influenti, Kautsky delineava una visione
globale del mondo contemporaneo. Questi erano gli elementi chiave dello scenario di Kautsky:
1. Dopo una generazione di relativa stabilità e di progresso soltanto graduale, l’Europa e il mondo entrano in
una nuova epoca di guerra e di rivoluzioni che sarà segnata da conflitti profondi e da rapidi spostamenti dei rapporti
di forza.
2. La nuova epoca di guerra e rivoluzione si differenzia da quella precedente, durata dal 1789 al 1871, soprattutto
per il fatto della sua espansione mondiale e per la nuova intensità delle interrelazioni rese possibili dai crescenti
rapporti tra paesi e soprattutto dai nuovi mezzi di comunicazione che consentono un accesso accelerato alle idee
e alle tecniche moderne.
3. La transizione da una situazione non rivoluzionaria a una situazione rivoluzionaria richiederà tattiche
radicalmente nuove.
4. Le rivoluzioni che segnano questa nuova epoca si suddividono in due grandi categorie: la rivoluzione
socialista, che è all’ordine del giorno in Europa occidentale e nel Nordamerica, e le rivoluzioni democratiche che
sono all’ordine del giorno in altre parti del mondo. La categoria delle rivoluzioni democratiche può essere
ulteriormente suddivisa in tre tipi principali: le rivoluzioni politiche per conquistare alcune libertà e rovesciare
l’oppressione assolutista; rivoluzioni per l’autodeterminazione contro l’oppressione nazionale; rivoluzioni
anticoloniali per rovesciare l’oppressione straniera.
5. Non si può più dire che una rivoluzione socialista non è ancora “matura” in Europa occidentale. L’acutizzarsi
degli antagonismi di classe è uno degli indicatori che ci troviamo alla vigilia di una rivoluzione socialista. Ogni
politica che non rigettasse con forza l’opportunismo e la collaborazione di classe sarebbe un suicidio politico.
6. I quattro tipi di rivoluzione si interpenetrano e interagiscono tra loro in modi invisibili, ma questo sicuramente
accrescerà l’intensità complessiva della crisi rivoluzionaria mondiale. Qualsiasi scenario di sviluppi futuri deve
quindi restare necessariamente aperto.
7. L’interrelazione mondiale implica il rifiuto di modelli semplicistici in cui i paesi “avanzati” indicano a quelli
“arretrati” l’immagine del loro futuro. Ad esempio, per certi aspetti cruciali, la Germania vede un’immagine del
proprio futuro nella Russia “arretrata”.
8. I principali tipi di interrelazione mondiale sono: l’intervento diretto, ad esempio la conquista, gli investimenti
e la dominazione coloniale; l’osservazione dell’esperienza degli altri paesi che consente ai ritardatari di raggiungere
rapidamente e superare quelli più avanzati; le ripercussioni dirette di eventi rivoluzionari, dovute all’entusiasmo
degli uni e al panico degli altri, la rottura di alcuni legami e lo stabilirsi di altri.
9. Il mondo capitalistico cercherà di proteggersi dai cambiamenti rivoluzionari con tutta una serie di mezzi, in
particolare con l’imperialismo, «l’ultimo rifugio del capitalismo». Le ideologie imperialiste e militariste possono
ritardare il tracollo consentendo a un’aristocrazia operaia di ottenere parte dei profitti coloniali, e presentando
un’uscita plausibile dalla crisi imminente. Tuttavia, questi tentativi alla fine falliranno, non foss’altro perché il
mondo è già stato diviso tra le potenze imperialiste.
10 L’imperialismo e il militarismo hanno aumentato notevolmente le probabilità di guerra, ma il proletariato
non ha vantaggi propri in guerre tra potenze imperialiste e quindi non si unirebbe alle classi dominanti per fare la
guerra. Il ruolo della guerra come incubatrice della rivoluzione sarà probabilmente molto grande e c’è una forte
correlazione tra sconfitta e rivoluzione.
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11. Solo una piattaforma radicalmente antirazzista consentirà alla socialdemocrazia di orientarsi nei futuri
turbinii della trasformazione rivoluzionaria. La condiscendenza razzista impedisce anche a certi socialdemocratici
di apprezzare un fatto elementare a proposito della politica mondiale: le colonie pretenderanno e si batteranno per
conquistare la propria indipendenza.
12. La Russia occupa una posizione cruciale nel processo delle situazioni rivoluzionarie mondiali. Le vittorie e
gli arretramenti della Rivoluzione russa avranno di conseguenza grande eco negli altri paesi.
Erano questi i tratti fondamentali dello scenario di interrelazione rivoluzionaria mondiale di Kautsky.
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Manifesto dei socialisti della Turchia e degli Stati balcanici [Rakovsky] (Avanti!, 19 ottobre 1912, p. 3)
Ai socialisti degli Stati balcanici e dell'Asia Minore
All’Internazionale dei lavoratori
All’opinione pubblica
La guerra è alle porte. Anzi, quando queste righe saranno pubblicate, essa sarà probabilmente un fatto compiuto.
Ma noi, socialisti dei paesi balcanici e dell’Oriente cui la guerra riguarda direttamente, non ci lasciamo trascinare
dall’onda sciovinistica; più alta che mai eleviamo la nostra protesta contro la guerra ed invitiamo i lavoratori dei
campi e dell’officina, come pure i sinceri democratici a contrapporre alla politica sanguinosa e ai suoi nefasti risultati
il nostro concetto della solidarietà internazionale.
I proletari degli Stati balcanici non hanno nulla da guadagnare da una simile avventura, poiché vinti o vincitori
si persuaderanno ugualmente come il militarismo, la burocrazia, la reaziono politica, le speculazioni finanziarie con
le loro conseguenze, l'aumento delle imposte e il rincaro dei viveri, lo sfruttamento e la miseria, si innalzerebbero
più che mai forti e arditi sui mucchi dei cadaveri e sulle rovine.
Per i paesi balcanici poi la guerra avrebbe conseguenze speciali derivanti dalle loro condizioni politiche e
geografiche. Se essi vincessero e il regno turco venisse spezzato, la parto del leone, cioè le regioni più ricche e
strategicamente più importanti, diventerebbero preda delle grandi potenze capitalistiche, che da un secolo stanno
strappando pezzi di territorio all’Impero turco.
L’Austria a Salonicco, la Russia nel Bosforo o nell’Anatolia Occidentale, l'Inghilterra in Arabia, la Germania nel
resto dell'Anatolia, l’Italia nell'Albania meridionale – questo è il modo in cui nel caso della sconfitta della Turchia
essa verrebbe divisa.
Ma nel giorno in cui gli Stati balcanici cadessero nelle unghie delle Potenze, sarebbe svanita qualsiasi speranza
della loro indipendenza nazionale. Il militarismo distruggerebbe ogni libertà politica e pubblica, mentre l'autocrazia
monarchica fattasi forte mercè la vittoria sui turchi esigerebbe nuovi crediti per i suoi eserciti, nuovi privilegi per
le classi dominanti. E, dopo queste dure prove, le lotte nazionali dei popoli si riaccenderebbero con maggiore
violenza mercè l'aspirazione degli uni o degli altri alla egemonia.
La vittoria della Turchia troverebbe seco il riaccendersi del fanatismo religioso e dello sciovinismo
mussulmanico, il trionfo della reazione politica, la perdita dei piccoli miglioramenti interni conquistati con tanti
sacrifici, e avrebbe per conseguenza il trionfo imperialistico della Russia e dell'Austria, che si erigerebbero a
salvatrici degli Stati balcanici per allargare il loro interessato protettorato sui popoli rovinati.
Per giustificare la guerra, i nazionalisti balcanici invocano la necessità di stabilire l’unità nazionale o quanto
meno di esigere l'autonomia per le diverse nazionalità, che si trovano sotto il dominio turco.
I partiti socialisti non si oppongono certamente alla unione politica degli elementi nazionali dei vari paesi. Il
diritto della nazionalità ad una vita autonoma è una conseguenza diretta dell'uguaglianza politica e nazionale
rivendicata dalla Internazionale Operaia, la soppressione di ogni privilegio dì classe, di casta, di razza e di religione.
Questa unità sarà però raggiunta mercè la divisione dei popoli e del territorio turco fra i piccoli Stati balcanici?
Avranno i turchi la loro unità nazionale sotto il dominio bulgaro, serbo o greco? Potranno i serbi di Novibazar, e
della vecchia Serbia, i bulgari, i greci, gli albanesi della Macedonia, i quali in caso di una divisione verrebbero
sottomessi al giogo dell’Italia o dell'Austria, potranno i greci, i turchi, i bulgari del Vilayet di Adrianopoli, che
diventerebbero preda della Russia, potranno essi tutti realizzare la unità nazionale?
La borghesia ed il nazionalismo sono incapaci di creare una vera e durevole unità nazionale. Ciò che viene
creato da una guerra da una guerra da un’altra viene distrutto. L'unità nazionale fondata sulla oppressione di altre
razze porta in sè il germe della propria distruzione, il peccato d'origine.
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Il nazionalismo modifica soltanto il nome del dominatore o il grado dell’oppressione — ma l'uno e l’altra
rimangono.
Soltanto la democrazia politica, colla vera uguaglianza che ne deriva per tutti gli elementi senza distinzione di
razza, di classe e di religione, può creare una vera unità nazionale. L'argomentazione nazionalistica non è in verità
che un pretesto dei governi balcanici. Il vero movente della loro politica è la tendenza all’espansione economica e
territoriale caratteristica a tutti i paesi con produzione capitalistica. I vicini della Turchia cercano gli stessi vantaggi
come le grandi potenze, che si nascondono dietro i piccoli Stati. Essi cercano crearsi u n mercato per collocare le
loro merci, i loro capitali, e l'avanzo del personale burocratico, che non trova più posto nella madrepatria.
Ma, se noi additiamo la grave responsabilità degli Stati balcanici nel presente e nel passato, se noi denunziamo
la doppiezza della diplomazia europea che non ha mai voluto riforme serie in Turchia non intendiamo però in
nessun modo di diminuire la responsabilità dei governi turchi. Noi li denunziamo al mondo civile, al popolo turco,
e specialmente alle masse mussulmane mercè il cui aiuto essi hanno conseguito il loro dominio. Noi rimproveriamo
al regime turco l'assoluta assenza di vera libertà ed eguaglianza verso le varie nazionalità, la mancanza di sicurezza
nelle vite dei cittadini, la mancanza di guarentigie giuridiche, di ogni giurisdizione, di un'amministrazione imparziale
e corretta.
Il governo turco mantiene un sistema d’imposte gravosissimo; esso rimane sordo a tutte le rivendicazioni dei
lavoratori e dei contadini mussulmani e non mussulmani. Esso ha sorretto soltanto i grossi proprietari, ed ha
scatenato le stirpi nomadi sui contadini inermi. I governi turchi hanno favorito, mercè la loro proverbiale indolenza,
la miseria, l’ignoranza, l’emigrazione, la rapina, i massacri in Anatolia e in Rumelia; insomma, hanno provocato
quell’anarchia, che serve di pretesto per gl'interventi nella guerra.
La speranza che il regime nuovo possa mettere fine al passato inaugurando una politica nuova, è fallita. I
Giovani turchi hanno non soltanto perpetuato gli errori del passato, ma hanno profittato dell’autorità e del prestigio
del quasi parlamentarismo, saturo di un esagerato burocratismo centralizzato, per opprimere i diritti della
nazionalità, o soffocare le rivendicazioni operaie; anzi, da certi punti di vista, il sistema nuova ha superato quello
vecchio, erigendo a norma la soppressione sistematica degli avversari politici.
Noi riconosciamo ai popoli, e soltanto ad essi il diritto di disporre del loro destino. Alla guerra che noi
combattiamo con tutti i mezzi, noi contrapponiamo le masse organizzate e coscienti. All'ideale sanguinoso dei
nazionalisti di decidere il destino della nazione colla guerra, noi rispondiamo riconfermando l'urgente necessità, già
proclamata alla conferenza socialista interbalcanica di Belgrado nel 1909 di unire tutti i popoli balcanici e del vicino
Oriente, senza distinzione di razza e religione, in una forma democratica.
Senza tale federazione non è possibile alcuna durevole unità nazionale; senza di essa non vi può essere progresso
economico e sociale.
Per ciò che riguarda in ispecial modo il governo turco, noi riteniamo che solo una radicale riforma politica possa
garantire la pace e la vita normale, allontanare l'intervento estero ed il pericolo delta guerra, e rendere possibile la
federazione democratica dei Balcani.
Non è cercando di riattivare progetti vecchi di mezzo secolo, ereditati da una miope burocrazia, che si possa
risolvere il problema delle nazionalità. Soltanto accordando l’autonomia, in ciò che riguarda la scuola, la chiesa,
ecc., e istituendo un governo locale, con la rappresentanza proporzionale dei popoli e dei partiti, e coll’eguaglianza
delle lingue; soltanto con un’amministrazione in cui siano rappresentati i diversi popoli dell'impero, si potranno
fornire sufficienti garanzie di imparzialità.
Soltanto la riforma agraria, la riforma tributaria, la legislazione sociale, la libertà di riunione, possono ispirare
alle masse lavoratrici mussulmane la fiducia nel nuovo regime.
Queste riforme non saranno certo gradite alla burocrazia turca, cioè a poche migliaia di privilegiati che
difendono i propri privilegi; ma esse saranno sommamente proficue al popolo turco.
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La soluzione dei grandi problemi, che agitano le popolazioni dell’impero ottomano, darà ai mussulmani la
sicurezza nazionale e permetterà loro di evolversi politicamente, economicamente e socialmente.
Per la realizzazione di questo programma noi chiediamo la collaborazione non solo del proletariato degli Stati
balcanici, ma anche quello del socialismo internazionale.
Noi socialisti dei Balcani e del vicino Oriente ci rendiamo ben conto del doppio compito, che ci incombe
rispetto a noi stessi e al proletariato mondiale.
Lottando contro le aspirazioni bellicose dei governi e della stampa nazionalista noi adempiamo il nostro dovere
di solidarietà internazionale. Infatti noi ci troviamo semplicemente agli avamposti, perchè la guerra nei Balcani
porta in sè il pericolo imminente per la pace generale. Svegliando gli appetiti capitalistici dei grandi Stati, favorendo
la politica imperialistica, essa può provocare non solo il conflitto fra le diverse nazionalità, ma una guerra civile.
Siccome i governi borghesi di diverse nazioni sono spinti alle ultime trincee dalle continue vittorie del proletariato,
cosi essi non mancheranno di cogliere l'occasione propizia per soffocare o per strangolare con una legislazione
restrittiva il nostro movimento d'emancipazione, di incivilimento e di progresso umano.
Già da mesi noi conduciamo una campagna contro la guerra; ma in questo momento vogliamo elevare più alta
la nostra protesta. Noi esprimiamo la nostra ferma volontà di sostenere con tutte le forze la lotta del proletariato
mondiale contro la guerra, contro il militarismo, contro lo sfruttamento capitalistico, per la libertà, per
l'uguaglianza, per l’emancipazione delle classi, in una parola, per la pace.
Abbasso la guerra!
Evviva la pace e la solidarietà internazionale dei popoli!
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Marx ed Engels (1). Il mercato mondiale.
Su Marx ed Engels la letteratura è sterminata. Tuttavia a mia conoscenza non vi è alcuno studio su di loro e le
origini della prima guerra mondiale – in molti citano una serie di loro affermazioni che prefigurano in modo
impressionante la Grande guerra, ma vengono considerate, visto il lasso di tempo intercorso tra la morte di Engels
e l’inizio delle ostilità (ben diciannove anni), alla stregua di semplici profezie che hanno colto nel segno,
testimonianze al più della loro acutezza intellettuale – in ultima analisi non più di una curiosità. Vi sono invece
studi su di loro e la loro concezione dell’imperialismo, un esercizio di futilità storica e teorica, visto che non esiste
né in Marx, né in Engels tale categoria. Vi sono le loro opinioni sulle politiche coloniali, e sugli imperi (e i correlati
imperialismi) di chi proclamava esserlo – l’Impero francese di Napoleone III e l’impero britannico da quando
l’India passò direttamente alla gestione statale inglese nel 1858. Ma nulla autorizza a disquisire sul loro “contributo”
alla teoria dell’imperialismo. Altra cosa è indagare cosa per loro significava il “mercato mondiale” e il “sistema degli
Stati”, abbinati da Marx in un passaggio della Critica al programma di Gotha del 1875. A proposito del passaggio
del programma di unificazione dei due partiti operai tedeschi dove si afferma
La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale,
essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti
i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli.
Marx postilla:
Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta,
economicamente “nell’ambito del mercato mondiale”, politicamente “nell’ambito del sistema
degli Stati”. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso
commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica
internazionale. […] Nemmeno una parola… delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca!
E così essa deve far fronte alla propria borghesia, affratellata, contro di essa, con la borghesia
di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor Bismarck! In realtà
la professione internazionalistica del programma è ancora infinitamente e profondamente al di sotto
di quella del partito del libero scambio. Anche questo partito sostiene che il risultato del suo
sforzo è “l’affratellamento internazionale dei popoli”. Ma esso fa pure qualche cosa per rendere
internazionale il commercio e non si accontenta in alcun modo della consapevolezza che tutti
i popoli, nel proprio paese, a casa loro, esercitano il commercio. L’attività internazionale delle
classi operaie non dipende in alcun modo dall’esistenza della “Associazione internazionale degli
Operai”.
In altri termini: il nazionale è al contempo internazionale, l’uno è sempre “nell’ambito” dell’altro, sia a livello
economico che politico; si internazionalizza il commercio, integrando sempre più mercato interno ed estero, e la
borghesia si “affratella” a livello internazionale nella lotta contro i lavoratori – questi ultimi talvolta un po’ meno,
nella loro lotta contro la borghesia… Le due categorie di “mercato mondiale” e “sistema degli Stati” hanno un
ruolo molto importante nei ragionamenti sviluppati da Marx ed Engels, a cui i marxisti hanno dedicato a mio avviso
troppo poca attenzione. Per fare solo un esempio, Harvey, nel suo riassunto e commento del primo libro del
Capitale, quando arriva al capitolo dove Marx discute del funzionamento della legge del valore sul mercato
mondiale scrive: in questo capitolo non c’è niente di rilevante, quindi passiamo direttamente a quello successivo.
Non è che Harvey non abbia capito cosa c’è scritto in questo capitolo, per carità. Solo che, sia lui che molti altri
marxisti contemporanei, non lo ritengono più rilevante in quanto Marx analizzerebbe un mercato mondiale le cui
unità costitutive, i vari Stati, i vari paesi, sarebbero stati economicamente chiusi agli investimenti esteri, limitandosi
al commercio internazionale. Tutto ciò sarebbe irrilevante nel mondo d’oggi, il mondo della globalizzazione, con
nessuna barriera al movimento internazionale dei capitali. Per alcuni marxisti d’oggi saremmo in un periodo in cui
si avrebbe un processo di “transnazionalizzazione” dei capitali – gli Stati, i paesi, se hanno ancora un ruolo nel
mercato mondiale, ce l’hanno in misura sempre più minore. A maggior ragione, dopo un secolo e mezzo dalla
pubblicazione del primo libro del Capitale, possiamo passare al capitolo successivo (tanto più che nello stesso
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capitolo Marx sostiene, con frasi sarcastiche all’indirizzo di chi non lo capisce, che le imposte sul reddito dei salari
non possono essere considerate una deduzione dei salari, ma sono quote parte del plusvalore, una bestemmia per
il 99% dei marxisti presenti e passati e per il 100% dei sindacalisti).
In questo ragionamento di apparente buon senso vi sono a mio avviso diversi errori intrecciati. Un errore è che
l’analisi di Marx del “valore internazionale” sia incompatibile con gli investimenti esteri. Un altro errore è affermare
che Marx non si sia occupato di questi stessi investimenti. Un ulteriore errore è ritenere che l’operare del “mercato
mondiale” possa svolgersi in una dimensione in cui la pluralità dei vari Stati, dei vari paesi, diventa irrilevante, o
progressivamente irrilevante. È vero che questi lavori che critico sono stati scritti per lo più nel periodo di
ubriacatura della cosiddetta globalizzazione, e forse se Trump e i suoi dazi fossero arrivati prima questi lavori
sarebbero stati scritti diversamente… Ma occupiamoci di cosa diceva Marx del mercato mondiale, anche se per
qualcuno così facendo perdiamo il nostro tempo.
Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema sociale, non un sistema astratto. Quando si parla di un dato
paese, Marocco, anziché Italia, anziché Cina, si parla di una data società, le cui specificità sono storicamente date.
Così ad es. sia la riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, sia la determinazione del salario rispondono a
una serie di fattori sociali specifici a ogni paese. Un lavoro “complesso” in un dato paese più essere valutato più
dello stesso lavoro in un altro paese sulla base di tradizioni storiche radicate nelle due società, come in un paese il
sistema di asili nido sarà diverso da un altro, quello che si ritiene un “giusto modo di allevare i propri figli” può
differire da un paese all’altro, come d’altronde le strutture familiari predominanti, differenziando i livelli salariati
considerati “accettabili”; in generale la grandezza della quota salariale che oltrepassa la stretta riproduzione fisica
della specie dei lavoratori e lavoratrici è molto variabile da paese a paese, come sono specifiche ad ogni paese le
molte “giustificazioni” di questa grandezza (questo anche ipotizzando che in nessun paese vi siano legislazioni
antisindacali e antisciopero; ovviamente tali legislazioni, se presenti, distorcono pesantemente queste differenze,
ampliandole ancor più). Dire “paesi diversi” significa parlare di “società diverse”, società di cui il capitalismo si
appropria, ma facendo proprie le caratteristiche storicamente date di queste società. Questo comporta in pratica
che, anche solo per il diverso operare della riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, la struttura dei prezzi
relativi sarà diverso da un paese all’altro; e che in generale per i motivi prima accennati i livelli salariali siano diversi
da paese a paese; e sia le strutture dei prezzi relativi sia i livelli salariali sono effettivamente diversi da paese a paese,
possono essere facilmente rilevati da chiunque. La pluralità delle società umane, e della loro secolare formazione
storica, comporta la pluralità di paesi capitalistici, diversi tra loro, che entrano reciprocamente in relazione.
In ogni determinato paese, in ogni specifica società, ogni tipo di merce ha in prima battuta un “valore” dato dal
lavoro socialmente necessario per produrlo. Socialmente perché non si considera il lavoro specifico che serve a
produrre in ogni unità produttiva il tipo di merce considerata, ma quello che è socialmente medio, e che in ogni
momento è dato. Ogni unità produttiva (ogni capitale) utilizza quantità diverse di lavoro per unità di merce, a
seconda della tecnologia utilizzata e dell’intensità del lavoro utilizzato (che in buona parte deriva dalla particolare
tecnologia, ma non solo). Quello che conta è la media. Questo “valore”, in quanto espressione di una media sociale,
non può essere misurato in tempo di lavoro, perché i tempi di lavoro spesi per questa merce sono molteplici; per
questo può essere misurato solo dalla quantità di una merce che sia misura per tutti i valori esistenti, che diventi
denaro, una merce che assolvendo questo compito non può per definizione avere un valore, perché è valore. Non
è un gioco di parole: questa merce-denaro è storicamente l’oro, e dire che non ha valore è semplicemente perché
una cosa non può esser misura di sé stessa – non ha molto interesse rimarcare che 1 gr. di oro è uguale a 1 gr. di
oro. L’unica misura del valore possibile sotto il capitalismo è l’oro: così possiamo dire che ad es. uno smartphone ha
un valore di 20 gr. d’oro. Per misurare il valore di questo smartphone non è necessario che abbia fisicamente dell’oro
in mano, è sufficiente un oro immaginato. Per comprarlo, lo smartphone, invece non è sufficiente immaginare
dell’oro: bisogna averlo, o avere del denaro che ne faccia le veci, del denaro che sia standard of price e mezzo di
circolazione. Lo standard of price è una convenzione: si può chiamare lira, dollaro, marco, quello che si vuole; e può
avere scale diverse, in termini di unità o di migliaia, in scala decimale o non decimale. Questo denaro come standard
of price che fa le veci dell’oro mi permette di dire che questo smartphone vale 1.000 euro (ovviamente se 1 gr. d’oro
è rappresentato da “50 euro”); anche in questo caso è un’operazione solo mentale. Per comprarlo, lo smartphone, è
necessario che gli euro in questione siano anche mezzi di circolazione, che quindi abbiano sia una loro fisicità
(moneta, banconota), e che soprattutto che ce li abbia in tasca. Nel paese considerato quindi il valore, che
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corrisponde a un dato lavoro socialmente necessario, di uno smartphone è quindi 20gr. d’oro = 1.000 euro, con
l’oro misura del valore, e l’euro come standard of price e mezzo di circolazione. Ma i diversi capitali che producono
smartphone non utilizzano tutti la stessa quantità di lavoro concreto, specifico: vi sarà chi ne utilizza più o meno,
ma concorrendo tra loro su un unico mercato, il prezzo, il valore che si impone sarà quello corrispondente alla
spesa di lavoro medio. Il capitale che ne utilizza di più perderà denaro e otterrà un profitto minore; quello ne
utilizza di meno otterrà un sovraprofitto. Le perdite degli uni corrispondono ai guadagni degli altri. Si ha quindi in
questo settore (rappresentabile mediante un vettore composto dai vari capitali ordinati per produttività e intensità
del lavoro) una concorrenza che chiamiamo intra-settoriale, un profitto medio settoriale e una produttività e
intensità media del lavoro.
Ma la determinazione del valore di una merce tramite il lavoro socialmente necessario è una determinazione
solo in prima battuta, in quanto il motore della concorrenza, cioè la ricerca di un profitto più alto, comporta anche
una concorrenza tra vari capitali non solo all’interno di un settore, ma anche tra settori diversi. Così se nel settore
sanitario privato si riesce a ottenere un profitto più elevato che nel settore della produzione di smartphone, nel
medio periodo si chiuderanno fabbriche di quest’ultimo e si apriranno più ospedali privati. Questo processo, per
farla molto in breve, fa sì che l’insieme di tutti i processi produttivi (rappresentabile mediante una matrice, ottenuta
componendo tra loro tutti i vettori settoriali), sviluppa oltre alla concorrenza intra-settoriale una concorrenza
intersettoriale, portando a un profitto medio tendenziale per tutta la società sotto considerazione, al fatto che i
valori delle varie merci cambieranno in qualcosa d’altro, che chiamiamo “prezzi di produzione”, a un tasso di
sfruttamento (“tasso di plusvalore”) tendenzialmente omogeneo, e a un valore medio di produttività e intensità del
lavoro per tutta la società, un cui proxy può essere considerato il rapporto di valore tra lo stock di capitale fisso più
le materie prime consumate rispetto alla massa salariale (“composizione organica del capitale”). Ma con tutto
questo non cambia il principio per cui i guadagni degli uni corrispondono alle perdite degli altri. Il valore sorge
solo dal lavoro, non vi sono altre fonti possibili; e non è una convenzione, una realtà simbolica, ma la dura realtà
del lavoro, della concorrenza, dello sfruttamento e della lotta di classe.
Mi scuso per questa veloce ricapitolazione che per molti sarà banale, ma è necessaria per comprendere le
modificazioni a cui incorre la legge del valore sul mercato mondiale. Detto in modo sintetico in questo ambito il
lavoro più produttivo conta come un lavoro più intenso, e di conseguenza il valore relativo del denaro, nel paese
più sviluppato, è più basso.
Si immagini di ordinare i vari paesi-società capitaliste in base alle rispettive produttività medie del lavoro e
intensità dello stesso lavoro, in ugual modo come avevamo potuto ordinare i singoli capitali entro uno specifico
settore (ad es. sanità privata) all’interno di un paese. In quest’ultimo, il capitale che gode di una maggiore
produttività del lavoro produce un pari numero di merci dei concorrenti (in questo prestazioni ospedaliere)
impiegando meno lavoro, e quindi meno valore; oppure detto in altro modo a parità di lavoro speso, e quindi a
parità di valore, il numero di merci prodotte è superiore, e quindi il valore unitario di queste merci diminuisce; ma
dato che il valore di queste merci sono regolate dal lavoro socialmente necessario, dalla produttività media del
lavoro in questo settore, quindi hanno un valore unitario più alto, il capitale con maggiore produttività del lavoro
venderà le proprie merci a un prezzo superiore al loro valore, intascando un sovraprofitto, a scapito dei capitali
che producono prestazioni ospedaliere con una produttività del lavoro inferiore alla media, che si vedranno
decurtare per uno stesso importo i loro profitti. A livello internazionale si considera la produttività media del lavoro
di tutta una società, e quanto più cresce questa produttività il valore creato cresce nella stessa misura dell’aumento
della produttività. In altri termini, a livello internazionale, con un aumento della produttività del lavoro a parità di
lavoro speso, il valore totale aumenta (anziché rimanere invariato se si considera un settore in un dato paese), e a
fronte del maggior numero di merci prodotte il loro valore unitario permane invariato (anziché diminuire se si
considera un settore in un dato paese). Un simile risultato, all’interno di un settore in un dato paese, cioè l’aumento
del valore creato senza un aumento corrispondente del tempo di lavoro speso si avrebbe solo con un aumento
dell’intensità del lavoro non derivante dall’aumento della produttività. Maggiore intensità, con una produttività
costante, porta a più merci, il cui valore totale aumenta rispetto alla situazione precedente, e il cui valore unitario
permane invariato. Infine se maggiore produttività sul mercato mondiale significa più valore, il paese che gode
della maggiore produttività del mondo produrrà merci che sul mercato mondiale hanno un valore
corrispondentemente più alto, e permanendo costante la produttività del lavoro che estrae l’oro, ciò comporta che
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una stessa quantità d’oro comprerà meno merci prodotte dal nostro paese superproduttivo – quindi il valore del
denaro nei termini delle merci con cui può essere scambiato, è più basso nel paese più avanzato, o, il che è lo stesso,
il prezzo in oro di queste merci sarà più alto.
Questo comporta che i lavori socialmente medi nazionali non si scambiano alla pari tra i paesi. Un’ora di lavoro
tedesco si scambia, ad es., con tre ore di lavoro russo, perché la produttività nazionale tedesca è il triplo di quella
russa. Se un tipografo russo vuole rinnovare la sua attrezzatura comprando macchinari tedeschi dovrà pagare una
quantità data di rubli, diciamo 9.000 rubli in Russia, che corrispondono a una data quantità di lavoro socialmente
medio in Russia, diciamo tre settimane di lavoro. Il tasso di cambio tra rubli e marchi farà sì che il corrispettivo in
marchi di 9.000 rubli corrisponda a un terzo di lavoro tedesco socialmente medio, cioè una settimana di lavoro,
quindi il nostro tipografo russo dovrà mobilitare in denaro tre settimane di lavoro russo per ottenere in
contropartita il prodotto di una settimana di lavoro tedesco. Il nostro tipografo comprerà lo stesso questi
macchinari tedeschi se non vi sono equivalenti sul mercato russo, oppure, se sono presenti e sono di qualità
comparabile, se il loro prezzo fosse superiore ai 9.000 rubli, per es. se costassero 12.000 rubli. Non così all’interno
di una nazione: un acquirente tedesco degli stessi macchinari spenderà in marchi una somma di lavoro identica
quella incorporata in quei macchinari, una settimana di lavoro. Al centro di tutto vi è il fatto che la produttività
nazionale determina i tassi di cambio – più un paese è produttivo, più la sua valuta è forte; e siccome più produttività
è sinonimo di tasso di plusvalore più alto, cioè di tasso di sfruttamento più alto, allora più i lavoratori sono sfruttati
in un paese, più questo paese avrà una valuta forte. Parlo qui di tasso di sfruttamento, cioè il rapporto tra quanto
viene intascato dalla borghesia e quanto questa borghesia deve sborsare come massa salariale ai lavoratori, e non
dell’adeguatezza o meno di questa massa salariale per i singoli lavoratori; un lavoratore può morire di fame con il
suo salario, ma il tasso di sfruttamento può essere molto basso se la produttività, data dalla tecnologia, è molto
bassa. In generale il tasso di sfruttamento è più alto nei paesi avanzati; è più alto in Germania che in Bangladesh,
anche se i salari in Bangladesh sono letteralmente da fame.
Valuta più forte del paese più produttivo significa che i lavoratori di questo paese, se vanno in vacanza in un
paese più arretrato, se la spassano; in patria possono comprare una data quantità di merci con il loro salario, in un
paese arretrato molti di più. Per i capitalisti che esportano invece una valuta forte è solo una zavorra: loro sono i
più produttivi, ma quando esportano le loro merci i loro prezzi, grazie ai cambi, lievitano, e non sono più
concorrenziali. In generale consideriamo due paesi, A con più alto livello di produttività e quindi con valuta più
forte, rispetto al paese B, e consideriamo quando si avrà esportazione di una merce x dal paese A al paese B, ed
esportazione della merce y dal paese B al paese A, ipotizzando che entrambe le merci siano prodotte in entrambi i
paesi. Il paese A esporterà la merce x nel paese B solo se lo scarto di produttività settoriale per questa merce tra i
due paesi risulti maggiore dello scarto di produttività globale nazionale. Lo si è visto con il tipografo russo: se i
macchinari in questione costano 12.000 rubli (equivalenti a quattro settimane di lavoro russo) e il produttore
tedesco li esporta a 9.000 rubli (corrispondenti a una settimana di lavoro tedesco e a tre settimane di lavoro russo),
significa che a fronte uno scarto di produttività globale nazionale di uno a tre, vi è uno scarto di produttività
settoriale di uno a quattro, e quindi si avrà esportazione dalla Germania alla Russia, anche se l’acquirente russo
dovrà spendere scambiare l’equivalente di tre settimane di lavoro russo con una settimana di lavoro tedesco.
All’opposto il paese B esporterà la merce y nel paese A solo se lo scarto di produttività settoriale di questa merce
risulti inferiore dello scarto di produttività globale. Ipotizzando che i produttori russi riescano a costruire
macchinari per tipografia con due settimane di lavoro (e quindi i macchinari costeranno 6.000 rubli), pur essendo
la produttività del lavoro metà di quella tedesca purtuttavia questi produttori russi riusciranno a esportare e a
piazzare le loro merci sul mercato tedesco.
Sembra che il tutto non sia così male. Sì, vi è scambio ineguale (ma in realtà a guardar meglio più che “scambio
ineguale” è “produzione ineguale”), ma alla fine i paesi che dànno via più lavoro ci guadagnano essi stessi, e pur
essendo arretrati riescono ad esportare le loro merci anche nei paesi avanzati, ad alcune condizioni. Nel suo stile
inconfondibile (ma è più una modalità di pensare che di stile) Marx scriveva nelle Teorie del plusvalore, ironizzando
su Ricardo per cui nel commercio internazionale tutti si avvantaggiano egualmente, che il paese più ricco sfrutta il
paese più povero, anche se quest’ultimo è avvantaggiato nello scambio. Naturalmente la precondizione è essere
degli Stati indipendenti, con una propria valuta, non delle colonie. Ma c’è anche un’altra precondizione: che le varie
merci siano prodotte in entrambi i paesi. Se il paese arretrato B non produce la merce x, e ne ha davvero bisogno,
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o la produce ma di qualità sensibilmente inferiore rispetto a quella importata, allora il paese B dovrà importare la
merce x a qualsiasi prezzo, o comunque a un prezzo molto alto. Allora la condizione di scambio ineguale diventa
pesante e oppressiva. Nel 1867 Marx scriveva di una “influenza diabolica” dell’Inghilterra sul mercato mondiale
dovuta alle leggi naturali della produzione capitalista.
Sul mercato mondiale non vi è una vera concorrenza intra-settoriale. Vi è concorrenza intra-settoriale all’interno
del paese A e all’interno del paese B, stimolata a propria volta dal loro commercio internazionale, ma non esiste
tra i due paesi. L’interscambio commerciale influisce su questa concorrenza, ma sempre all’interno dei due rispettivi
paesi. All’interno di un paese questo tipo di concorrenza si sviluppa con la formazione di un profitto medio
settoriale, e con investimenti in migliori tecnologie, che rialzando direttamente la produttività del lavoro per quel
tipo specifico di merce (smartphone, prestazioni ospedaliere, ecc.) consentono di abbassare il valore unitario della
merce e di ottenere quindi dei sovraprofitti. Nulla di tutto ciò sul mercato mondiale. Le merci anziché confrontarsi
l’una con l’altra direttamente, sono ciascuna vestite con abiti nazionali, e sono abiti pesanti, costrittivi: non conta
solo la produttività del lavoro del singolo capitale che produce quella merce, ma diventa decisiva la produttività del
lavoro globale, dell’intera nazione in cui la merce è prodotta, di tutti i rami produttivi del paese, con effetti
distorcenti per quanto attiene la singola merce. E non solo: l’aumento della produttività del lavoro globale gioca a
sfavore del capitale settoriale produttivo, perché l’aumento della produttività globale aumenta i valori anziché
diminuirli. La fonte dei sovraprofitti in questo modo scompare. I paesi sono ordinati su una scala, ma non vi è
media settoriale tra i vari paesi. E non ha neppure senso una media delle medie produttività nazionali. Qui è tutto
diverso dall’ambito nazionale. Sotto una nazione c’è una società, con singoli capitali tra loro in diretta concorrenza
e regole e tradizioni assestate; sotto il mercato mondiale ci sono le diverse nazioni che pesano in quanto tali. Qui i
tassi di plusvalore cambiano da paese a paese. Qui non si forma un profitto medio mondiale settoriale. Qui le
medie sono solo nominali, sono delle astrazioni, non sono medie sociali, reali. Il lavoro nazionale più produttivo
vale più oro degli altri, ma non vi è un lavoro nazionale che vale una quantità “giusta” di oro, rispetto al quale gli
altri lavori nazionali si parametrano. Qui al guadagno dell’uno non corrisponde la perdita dell’altro e viceversa, non
vi è compensazione.
Nell’esposizione che precede ho semplificato all’estremo la realtà. I tassi di cambio non dipendono
esclusivamente dagli scarti della produttività nazionale del lavoro. Non ho considerato le peculiarità dei prodotti
agricoli, dove interviene la rendita. Non ho considerato il sistema creditizio, e neppure il sistema monetario
internazionale. Non ho considerato le variazioni che intervengono quando si modifica questo o quel dato (come
ad es. quando e in che situazioni la produttività del lavoro globale nazionale non conta come lavoro intensivo, ma
sono situazioni solo temporanee). Ma soprattutto non ho considerato la mobilità internazionale del capitale.
Considerando quest’ultima si viene a realizzare una vera concorrenzialità intra-settoriale a livello mondiale? E forse
anche una concorrenza intersettoriale mondiale, tale da portare a un tasso di profitto tendenzialmente uguale a
livello mondiale? Cosa succede quando il paese A esporta non solo merci, ma anche capitali nel paese B?
Consideriamo un investimento estero diretto, con l’esportazione di una fabbrica “chiavi in mano”, dalla
Germania al Bangladesh. Ipotizziamo che si tratti di una fabbrica tessile, con una tecnologia media tedesca a questo
settore. Considerando la lunghezza della giornata lavorativa, ben più lunga in Bangladesh che in Germania, e i
livelli salariali, incredibilmente più bassi, è lecito aspettarsi da questo investimento in Bangladesh rispetto a uno
analogo in Germania dei sostanziosi sovraprofitti, pur ammettendo realisticamente che la produttività del lavoro
sarebbe stata più alta in Germania, grazie a un lavoro più intenso, e pur considerando i costi di trasporto dei
macchinari. Se questi prodotti tessili vengono venduti sul mercato interno i profitti che sono rimpatriati devono
essere convertiti in valuta tedesca, secondo il rapporto tra le rispettive produttività nazionali. Perché il gioco valga
la candela il profitto in Bangladesh rispetto a quello ottenibile in Germania dev’essere superiore allo scarto tra le
rispettive produttività nazionali, il che sembra ben poco probabile. Se le merci prodotte vengono invece importate
in Germania e lì vendute, in un mercato dove il valore, il lavoro socialmente necessario a produrlo, è dato, è
intuitivo che il sovraprofitto dev’essere molto alto. Si può specificare in termini quantitativi con due, tre calcoli,
ma il risultato sarebbe scontato.
Ma si tratta di una concorrenza intra-settoriale tra Germania e Bangladesh, o non si tratta piuttosto ed
esclusivamente di una concorrenza intra-settoriale interna alla Germania in cui il nostro capitale esportato riesce
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a ottenere eccezionali profitti grazie allo sfruttamento delle peculiarità nazionali e sociali (e quindi,
conseguentemente, valutarie) del Bangladesh, come se si fosse annesso alla Germania il piccolo territorio di
Bangladesh dove sorge la sua fabbrica, ma senza annetterlo legalmente e socialmente alla Germania, ma lasciandolo
come una piccolissima enclave extraterritoriale? Concettualmente è lo stesso meccanismo di quando venne
sfruttato sotto il Terzo Reich il lavoro di quanti erano internati nei campi di concentramento, né più, né meno. La
diffusione degli investimenti diretti nei paesi del “Terzo mondo” si è avuta quando i costi dei trasporti sono crollati,
e soprattutto quando poi si è sviluppata una tecnologia dell’informazione tale da poter gestire a livello mondiale
impianti delocalizzati in tutto il mondo. I capitalisti tedeschi durante il nazismo in guerra non avevano questi
problemi da risolvere: i campi e i sottocampi di concentramento erano centinaia, sparsi in modo da coprire tutto il
territorio tedesco.
Ma si potrebbe obiettare che in Bangladesh lo spostamento di questa fabbrica potrebbe portare qualcosa di
buono, ipotizzando ad es. che anziché essere tutto e solo capitale tedesco si tratti di una joint-venture, e che parte
della produzione venga smerciata sul mercato locale. Ipotizziamo anche che il settore tessile in Bangladesh sia
particolarmente avanzato, a confronto della società di cui è parte, per cui se lo scarto di produttività con la
Germania a livello nazionale è, poniamo, di uno a dieci, considerando solo il tessile lo scarto è di uno a cinque. Ma
anche con queste ipotesi non si ha una estensione della concorrenza intra-settoriale nel paese arretrato, ma
esattamente il suo contrario, il suo blocco. Con un gap tecnologico così importante, le nuove tecniche produttive
non riescono a generalizzarsi, e i sovraprofitti della nostra impresa in joint-venture diventano quasi permanenti,
come un capitale estraneo, un’isola in una società estranea, una società che tuttavia assorbe le sue merci, e i cui
capitali sono costretti a misurarsi con essa; di conseguenza anche la concorrenza intersettoriale si blocca. La legge
del valore non riesce quindi a operare se non parzialmente, e di conseguenza nel tessuto produttivo e sociale si
creano distorsioni che disintegrano o mettono a rischio la riproduzione della società stessa. I concorrenti autoctoni
della nostra impresa in joint-venture, impossibilitati ad aumentare la produttività al livello che viene loro imposto,
cercheranno abbassare i prezzi vendendo le merci sotto il loro valore, aumentando il plusvalore assoluto
(allungando le giornate lavorative), riducendo il già misero livello salariale. A termine questi capitali in parte esteri
riescono a conquistare interi settori della produzione nel paese arretrato, modificando in tal modo la produttività
globale nazionale – la rivalutazione valutaria che ne consegue aumenterà a sua volta i problemi per tutti i capitali
autoctoni. È questo fenomeno che permette di capire il paradosso evidenziato a suo tempo da Arrighi, quando
constatò che i paesi del Terzo mondo si erano in gran numero industrializzati tanto quanto quelli del “Primo
mondo”, se non di più, ma con la permanenza di un PIL pro-capite sempre basso, o addirittura molto basso. Il
risultato non è quindi tendenziale equalizzazione del profitto a livello mondiale, ma frammentazione e
fragilizzazione delle strutture produttive dei paesi più arretrati, con uno spettro di rendimenti da capitale sempre
più ampio e diversificato, radice e causa dello spettro anch’esso sempre più ampio e diversificato dei tassi
d’interesse.
Ma se gli investimenti di capitale in termini di investimenti diretti hanno effetti disastrosi per il paese arretrato
tanto più ampio è il gap tecnologico tra paese esportatore e paese importatore, non considerando neppure la
condizione ancora peggiore delle colonie, questi flussi di capitali tra paesi con relativamente piccole differenze
produttività nazionali di lavoro hanno invece effetti ben diversi – stimolando la concorrenza intra- e intersettoriale
nei due paesi; ma anche in questo caso non è possibile parlare di concorrenza a livello mondiale, ma entro i singoli
paesi, ciascuno con le proprie e distinte strutture istituzionali e sociali, con le proprie distinte dotazioni naturali.
Il Marx maturo (non quello dell’inizio anni ‘850, sempre purtroppo largamente citato), a differenza di tutti i
socialisti del periodo della seconda internazionale, aveva ben presente quanto il colonialismo anziché diffondere le
relazioni capitalistiche creava solo una “parvenza di sviluppo”, ma in realtà distruggeva le società conquistate
costringendole a una anomia sociale per decenni, “le forme economiche e sociali tradizionali potevano essere
distrutte dal capitalismo senza che fossero assorbite dal sistema capitalistico”, come ha scritto recentemente un
commentatore di Marx – da qui la marginalità delle esportazioni delle economie europee nelle colonie, e il loro
utilizzo solo per estorcere materie prime altrimenti introvabili e a buon mercato. Più e più volte, relativamente
all’India, al Bengala, all’Algeria, ha parole di condanna e di disprezzo per l’opera dei colonialisti, negando loro
qualsiasi presunto risvolto storico “progressivo”. In questo era ben più lucido e “moderno” di chi lo seguì nel
successivo cinquantennio.
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Analizzando la situazione russa e il ruolo delle ferrovie e della finanza Marx scriveva nel 1879 (questo brano
venne pubblicato per la prima volta nel 1908, in russo):
Le ferrovie sorsero dapprima come “couronnement de l’œuvre” in quei paesi in cui l’industria
moderna era più ampiamente sviluppata, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Belgio, Francia, ecc. Le
chiamo “couronnement de l’œuvre” non solo nel senso che esse erano finalmente… i mezzi di
comunicazione adeguati ai moderni mezzi di produzione, ma anche perché posero le basi per
gigantesche società per azioni e, così, nello stesso tempo costituirono un nuovo punto di
partenza per tutti gli altri tipi di società per azioni, a partire dalle società bancarie. In una parola,
diedero alla concentrazione del capitale un impulso mai prima immaginato […] la nascita del sistema
ferroviario… costrinse alcuni Stati, in cui il capitalismo era ancora limitato a pochi punti della
società, a creare d’allora in poi, in breve tempo, la propria sovrastruttura capitalistica e ad
ampliarla su dimensioni del tutto sproporzionate rispetto alla parte predominante della società,
che gestisce la maggior parte della produzione nelle forme tradizionali. Non sussiste quindi il
minimo dubbio che, in questi Stati, la costruzione di ferrovie abbia accelerato la disgregazione
sociale e politica […] In generale, naturalmente, le ferrovie diedero un potente impulso allo
sviluppo del commercio estero, tuttavia questo commercio, in paesi che esportavano
principalmente prodotti grezzi, accrebbe la miseria delle masse […] la Russia ricorda i tempi di
Luigi XIV e Luigi XV, quando la sovrastruttura finanziaria, commerciale, industriale o
piuttosto la facciata dell’edificio sociale irrideva alla situazione stagnante della maggior parte
della produzione (agricoltura) e all’indigenza dei produttori
In un altro testo, relativo all’India, Marx scrive di “ferrovie inutili” agli indiani, e in un’altra annotazione scrive
che “i russi…. per preservare l’ombra della loro indipendenza economica, hanno diretto i loro sforzi non allo
sviluppo della produzione capitalistica, ma ai suoi risultati – ferrovie e banche”. Ma ritornando al testo del 1879,
Marx parlando delle ferrovie nei paesi sviluppati conclude affermando che
contribuirono all’accelerazione e ad una potente crescita dell’attività cosmopolita del capitale
mutuato, il quale ora avvolge il mondo con una rete di truffe finanziarie e di reciproco
indebitamento, forma capitalistica della fratellanza “internazionale”.
L’ “attività cosmopolita del capitale mutuato” è un termine traducibile come “capitale finanziario
internazionale”, e successivamente Engels riprese più volte la connessione tra capitale finanziario e politica
coloniale. Ed è qui chiarita anche la contraddizione insita nella faccia di Giano della finanza, da un lato “alfiere del
capitale” nei paesi sviluppati, e dall’altro rovina dei paesi coloniali e arretrati. E ritroviamo qui anche la “fratellanza”
internazionale della borghesia da cui eravamo partiti – lì era questione delle “cospirazioni internazionali” di
Bismarck, qui della “rete di truffe finanziarie e di reciproco indebitamento”.
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Marx ed Engels (2). La formazione dell’Europa borghese.
Qual era la concezione di Marx ed Engels delle relazioni internazionali? Nessuna. Hanno scritto molto degli
eventi internazionali loro contemporanei, ma non ne emerge alcuna visione unitaria e coerente. Questa è l’opinione
generale tra i marxisti, da quando Soëll ha pubblicato un suo saggio in Germania nel 1972, al novembre 2019,
quando nel volume intitolato “Marx revival. Concetti essenziali e nuove letture” Teschke arriva alle medesime
conclusioni, utilizzando per lo più gli stessi argomenti di Soëll. A meno che non si voglia prendere sul serio
Papaioannou, per cui una logica c’era nelle prese di posizione internazionali di Marx ed Engels, ed era “l’odio per
i russi”… Mi sembra che molti marxisti si trovano a disagio con Marx ed Engels, perché non pochi dei loro scritti
contengono affermazioni che i “marxisti” non ritengono degne di chi le ha scritte, non sono “marxiste”. C’è una
sorta di incomunicabilità. Ancora vivente Engels questo processo era già iniziato: lo intuisce Franco Andreucci,
commentando uno scambio epistolare del 1882 tra Engels (al tempo sessantaduenne) e Bernstein (al tempo
trentaduenne). Quella di Bernstein era “una generazione...[che] aveva la tendenza a valutare le relazioni
internazionali… sul terreno dei rapporti reali tra Stati e tra politiche… con la conseguenza che la politica reazionaria
della monarchia austro-ungarica veniva messa sullo stesso terreno della politica reazionaria russa… Engels criticava
con durezza e severità simili opinioni dall’alto della sua esperienza quarantottesca”, e la divergenza era radicata nel
diverso metodo di interpretazione del presente. Perché sarebbe stato errato per Engels “valutare le relazioni
internazionali sul terreno dei rapporti reali tra Stati”? Qual era il suo “metodo della interpretazione del presente”?
Iniziamo dall’es. citato, relativo alla politica estera austro-ungarica: perché Engels era scandalizzato se la si
considerava paragonabile a quella russa? Semplicemente perché le due società, austro-ungarica e russa, erano
diverse. La politica estera non era espressione né delle forme del potere, più o meno assolutiste, né del loro
contenuto ideologico o politico, quindi più o meno reazionario, ma era espressione delle forze sociali al potere,
espressione delle rispettive società, a loro volta risultanti da un insieme di processi storici dati, nazionali e al
contempo internazionali. Questa è la chiave dell’approccio di Marx ed Engels alle relazioni internazionali: sono il
risultato dell’agire internazionale delle varie classi e frazioni di classe dei vari paesi, in cui l’interesse della tal classe
del tal paese può esser ben diverso “dall’interesse materiale della nazione” – tutto dipende dai rapporti sociali
esistenti nel paese in questione. In quest’ottica il “sistema degli Stati” europeo ottocentesco è lo sviluppo storico
delle varie società europee, nei suoi molteplici e contraddittori aspetti, tra loro interrelati. Per questo, per capire
l’approccio di Marx ed Engels alle relazioni internazionali europee del loro tempo, dobbiamo, sia pure a grandi
linee, avere presente la loro visione delle varie società europee.
Inghilterra
L’Inghilterra era il primo paese borghese d’Europa. Lo Stato inglese si trasformò in modo radicale con la
rivoluzione iniziata nel 1640, e conclusasi con il “compromesso” del 1689. Per Marx l’Inghilterra era la “nazione
la più borghese di tutte”, il “despota” del mercato mondiale. Ma questo non comportava ipso facto che la politica
estera inglese fosse funzionale alla classe che predominava nella società. Semmai l’opposto: per Marx ed Engels la
politica estera condotta metteva addirittura a rischio “la posizione dell’Inghilterra nel mondo”, la predominanza
nel mercato mondiale. Com’era possibile?
In primo luogo, l’aristocrazia terriera e la borghesia costituivano per Marx due distinte, diverse classi sociali,
non l’una “feudale” e l’altra “capitalista”, ma entrambe interne, funzionali alla formazione economica borghese.
Insieme sono le ruling classes dell’Inghilterra. Aristocrazia terriera e borghesia erano entrambe capitaliste perché la
“proprietà fondiaria [era] corrispondente al modo di produzione capitalistico”, ma avevano interessi diversi –
convergenti in alcuni campi, divergenti in altri, non riducibili a “cultura” e “stile”. Il compromesso del 1689 fu per
Marx quello tra l’aristocrazia fondiaria (l’ “oligarchia”) e finanziaria (l’ “haute finance”), alleata ai settori mercantili
dipendenti dai monopoli concessi dal Parlamento. Queste ruling classes se da un lato favorirono e protessero il
fiorente capitalismo agrario e quello manifatturiero che muoveva i suoi primi passi, si dedicarono dall’altro senza
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ritegno alla rapina e al saccheggio, in patria e all’estero, tanto che, come ricorda Thompson, “nei primi decenni del
secolo, la similitudine tra l’alta politica e il mondo della malavita era una figura retorica comune della satira” e in
India, citava Marx, si ricorreva “ad estorsioni atroci quando la semplice corruzione non poteva tenere il passo con
la rapacità”. Verso i funzionari coloniali inglesi Marx ha sempre avuto solo disprezzo, e nelle sue annotazioni li
qualifica variamente come “furfanti”, “asini”, “cani”, “stupidi”, “canaglie”, “miserabili”, “bestie” e “pidocchiosi
‘Orientalisti’”. Dalla metà del ‘700 “la produzione manifatturiera divenne più redditizia del commercio e della
speculazione, [e] certe forme di privilegio e corruzione [in patria] cominciarono ad essere nocive agli stessi ricchi
che si riconciliarono con la imparziale e razionalizzata arena del libero mercato: i grossi colpi potevano ora essere
fatti senza alcun appoggio politico negli organi dello Stato”, e nell’ultimo trentennio del ‘700 sorse una “classe
media, industriale o professionale”, “unita e determinata” (Thompson). È quella che Marx chiama la “nuova
borghesia” di contro alla vecchia: “mentre la vecchia borghesia combatte contro la rivoluzione francese, la nuova
si conquista il mercato mondiale”. Nel 1832 una riforma elettorale permetteva l’ingresso nel Parlamento di alcuni
rappresentanti di questa classe e il 1846, con l’abolizione delle leggi protezioniste sul grano, vedeva “la più grande
vittoria della borghesia… specialmente della sua frazione più attiva, i fabbricanti, sull’aristocrazia fondiaria”, “non
solo sulla grande proprietà fondiaria, ma anche su quelle frazioni di capitalisti i cui interessi più o meno
coincidevano o erano legati a quelli del grande proprietario fondiario: banchieri, agenti di borsa, rentier ecc.” Negli
anni ‘850 Marx scrive che in Inghilterra “la borghesia non ufficialmente ma di fatto predomina in tutte le sfere decisive
della società e l’aristocrazia terriera [è] ufficialmente regnante” e utilizzando una terminologia a noi familiare, Marx
ripete il concetto affermando che “la casta al governo… in Inghilterra non coincide assolutamente con la classe
dominante”. I tories, che rappresentano l’oligarchia fondiaria cercano “di conservare un potere politico, la cui base
sociale ha cessato di esistere”, mentre l’altra forza politica aristocratica, i whigs, “esattamente come i tories,
costituiscono una frazione della grande proprietà fondiaria della Gran Bretagna. Anzi, la parte più vecchia, più
ricca e più arrogante della proprietà fondiaria… Che cosa allora li distingue dai tories? I whigs sono i rappresentanti
aristocratici della borghesia, dei ceti medi industriali e commerciali. A condizione che la borghesia abbandoni nelle
loro mani, a un’oligarchia di famiglie aristocratiche, il monopolio del governo e l’esclusivo possesso delle cariche,
essi fanno alla borghesia – e l’aiutano a conquistarle – tutte quelle concessioni che nel corso dello sviluppo sociale
e politico dimostrano di essere divenute inevitabili e indilazionabili”. Questa situazione era comunque contraddittoria
perché l’oligarchia e la borghesia industriale avevano anche interessi diversi, come, ad es., nella politica coloniale,
rimasta esclusivo terreno di caccia dell’oligarchia e della plutocrazia – in questo campo la frattura è pubblica e gli
industriali denunciano il possesso dell’India come “una pietra al collo”. Dall’inizio degli anni ‘850 fino agli anni
‘870 vi furono diverse fasi nella vita politica inglese, con alti e bassi nelle fortune degli “industrialisti”. L’esito finale
fu un compromesso registrato da Engels all’insegna dello humour: “i borghesi inglesi erano, in media, dei villani
rifatti che, volere o no, dovevano abbandonare all’aristocrazia quei posti superiori nell’apparato di governo per i
quali si esigevano altre qualità che la grettezza e la vanagloria insulari condite di astuzia mercantile”, mentre in
Europa “sembra sia una legge dell’evoluzione storica che la borghesia non possa in nessun paese d’Europa
conquistare il potere politico – almeno per un periodo abbastanza lungo – in modo così esclusivo come fece
l’aristocrazia feudale nel Medioevo”. Tuttavia, l’elemento decisivo in questa scelta borghese fu la presenza di una
minaccia proletaria alla borghesia, in modo talvolta potenziale, talvolta reale.
L’aristocrazia inglese fu “costretta, dopo il 1830, a condurre la politica interna esclusivamente nell’interesse delle
classi medie industriali e commerciali”, ma “ha... mantenuto il possesso di tutti i posti di governo perché ha
conservato il monopolio della politica estera e dell’esercito”. In modo drastico Marx afferma che “l’aristocrazia
britannica… sacrificherebbe gli interessi inglesi ai suoi interessi particolari di classe e permetterebbe il
consolidamento di un giovane dispotismo in Oriente nella speranza di trovare un appoggio per la sua oligarchia”.
Le scelte in politica estera per Marx ed Engels erano chiare: il “particolare carattere russo della diplomazia
inglese… tradizionale nel corso del XVIII secolo” è stata “la continua collaborazione segreta tra il gabinetto di
Londra e San Pietroburgo”; nelle “ignominiose guerre contro la rivoluzione francese dal 1792 al 1815, [nell’]
oppressione dell’Italia dal 1815 e della Polonia dal 1772, ma chi stava dietro...? L’Inghilterra e la Russia”; “la vecchia
scuola politica britannica è interessata all’ingrandimento della Russia, in base alla sua vecchia politica di
frazionamento dell’Europa centrale in una miriade di staterelli in lite gli uni contro gli altri, politica che permette
all’Inghilterra di applicare nei loro confronti il principio ‘divide et impera’” [sott. ns]; “tutta la diplomazia inglese
dal 1830 al 1854 si riduce pertanto a un unico principio: evitare a qualunque costo la guerra contro la Russia. Di
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qui le continue concessioni devolute alla Russia da 24 anni a questa parte”. Fin dal ‘700 l’oligarchia avrebbe
inventato pretesti commerciali per la sua politica estera, ma quest’ultima avrebbe risposto ad altri logiche:
L’oligarchia che dopo ‘la gloriosa rivoluzione’ usurpò ricchezza e potere a spese della massa
del popolo britannico era naturalmente costretta a cercarsi i propri alleati… all’estero […]
Quanto alla sua politica estera essa voleva darle almeno l’apparenza di essere interamente guidata
dagli interessi del commercio, un’apparenza che era tanto più facile dare in quanto in realtà
questa o quella misura ministeriale si appoggiava sugli interessi dell’una o dell’altra piccola
frazione della classe. La frazione interessata cominciava allora le sue grida in nome del
commercio e della navigazione, e stupidamente le faceva eco tutta la nazione. In quel tempo
nondimeno era il gabinetto che si faceva carico di inventare i pretesti commerciali, per quanto futili
fossero, per le misure di politica estera. Nella nostra epoca, i ministri britannici hanno ributtato
il peso sulle nazioni straniere, lasciando ai francesi, ai tedeschi ecc., il fastidioso compito di
scoprire le segrete e nascoste origini commerciali delle loro azioni.
Le conseguenze erano altrettanto chiare: “l’Europa... [è] nella sua vecchia duplice schiavitù, la schiavitù anglo-russa”.
L’egemonia anglo-russa, schiavitù per l’Europa continentale, inizia a formarsi all’inizio del XVIII secolo. Così come
la Russia divenne una riconosciuta potenza europea con il trattato di Nystad (1721) che pose fine alla “grande
guerra del Nord”, così l’Inghilterra venne riconosciuta anch’essa grande potenza europea con il trattato di Utrecht
(1713), al termine della guerra di successione spagnola. L’ascesa di queste due potenze arrivò, per l’Inghilterra
(ormai grande potenza coloniale e commerciale) a un culmine con la sconfitta francese al termine della guerra dei
sette anni, nel 1763; per la Russia con il riconoscimento di garante del Sacro Romano Impero dal 1779, ormai
potenza egemone in centro Europa – la Londra di Charles Fox e Giorgio III vide la Russia come “il più prezioso
e il più naturale degli alleati per la Gran Bretagna”.
Il perché di queste scelte tuttavia non era per Marx l’ “idiozia” della diplomazia inglese, come hanno creduto
Rjazanov e Bongiovanni. L’interesse dell’oligarchia inglese era molto semplicemente quello di rimanere al potere,
mantenendo tutte le leve fondamentali dello stato inglese. In questo il suo nemico immediato era la borghesia, e
ogni estensione a livello continentale della società borghese avrebbe reso più fragile il suo potere, rafforzando il
“nemico” interno. Solo il mantenimento di uno status quo reazionario internazionale avrebbe potuto fare da argine
a questo. Senza più basi sociali interne a partire dalla metà del XIX secolo, l’importanza della dimensione
internazionale della sua politica, l’importanza del mantenimento di questo status quo reazionario, diventava
questione di vita o di morte. Questa era la soluzione al problema di come “conservare un potere politico, la cui
base sociale ha cessato di esistere”. Questa politica estera aveva come perno la Russia perché la Russia era il garante
in Europa di questo status quo reazionario, ne era diventata la colonna portante fin dalla seconda metà del XVIII
secolo. La rottura di questo equilibrio avrebbe scatenato forze incontrollabili, e la vecchia oligarchia, senza più
alcuna base, ne sarebbe stata travolta. La questione decisiva era questa: “una guerra contro la Russia rappresenta
per l’aristocrazia inglese la perdita del proprio monopolio di governo”. Nella guerra di Crimea “l’oligarchia inglese
[fu] trascinata dal popolo”, ma riuscì a condurla in modo tale da mantenere i vecchi equilibri, facendo una “guerra
simulata” in cui “tutti i partecipanti furono soddisfatti”. In Asia ogni mossa inglese era più che attenta a non portar
danno agli interessi russi, spesso anzi favorendoli. Il debole equilibrio politico inglese, la contraddizione tra
orientamento estero reale, filorusso, e quello di facciata, fieramente antirusso, comportava una gestione della
politica estera attenta e sottratta agli sguardi pubblici. Così nel 1861 Marx scriveva che
l’aristocrazia, che aveva monopolizzato la gestione degli affari esteri, ridotta a un’oligarchia, si
faceva rappresentare da un conclave segreto, chiamato gabinetto, e in seguito il gabinetto fu
sostituito da un solo uomo, Lord Palmerston, che, negli ultimi trenta anni, ha usurpato il potere
assoluto nell’uso delle forze nazionali dell’Impero britannico e nel determinare la linea della
sua politica estera.
Palmerston, per Marx, era puramente e semplicemente un agente russo. La borghesia inglese aveva invece
interessi opposti a quelli aristocratici: “il partito della pace non è altro che un travestimento del partito del libero scambio.
Lo stesso contenuto, lo stesso scopo, gli stessi capi. Come i liberoscambisti attaccarono l’aristocrazia all’interno nei
suoi fondamenti materiali, abolendo le leggi sui grani e sulla navigazione, così adesso essi l’attaccano nella sua
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politica estera, nelle sue connessioni e diramazioni in Europa, cercando di spezzare la Santa Alleanza”. Marx ritorna
più volte negli anni ‘850 sul “pacifismo” della borghesia inglese, per cui il “metodo feudale di far guerra viene
soppiantato da quello commerciale... il cannone è soppiantato dal capitale”. “Le guerre nazionali? Faux frais di
produzione. L’Inghilterra può sfruttare le nazioni estere più a buon mercato in tempo di pace”; “la scuola di
Manchester in realtà vuole la pace per poter condurre la guerra industriale, tanto verso l’esterno che verso l’interno.
Essa vuole il predominio inglese della borghesia inglese sul mercato mondiale su cui si dovrebbe combattere
esclusivamente con le sue armi, con balle di cotone”. La borghesia inglese ha quindi obiettivi opposti a quelli
oligarchici in politica estera – estensione a livello continentale della società borghese e rottura dello status quo
reazionario internazionale. Ma è timorosa, e fa una campagna pacifista del tutto inadeguata alla contingenza data,
fa proclami contro lo status quo reazionario internazionale da un lato e pratica un pacifismo inerte dall’altro, per cui
si ritrovano solo i cartisti a reclamare una “vera guerra” in Crimea contro i russi, e alla fine, dagli anni ‘870, la
borghesia scende a un compromesso con l’aristocrazia. Perché? “Così come la nobiltà russa vive a disagio tra
l’oppressione dello zar al di sopra di essa e la paura delle masse asservite al di sotto, la borghesia inglese è accerchiata
dall’aristocrazia da una parte e dalle classi lavoratrici dall’altra”. Ogni guerra inglese contro la Russia è sinonimo di
rivoluzione: “il Journal des débats l’altro ieri ha svelato il vero motivo per cui la Russia è così sfacciata. O, dice, il
continente deve esporre la sua indipendenza al pericolo russo o si deve esporre alla guerra, e questa è ‘la révolution
sociale’”. Se la rottura dello status quo reazionario internazionale fa paura all’aristocrazia perché rafforzerebbe il suo
immediato avversario, la borghesia, questa rottura fa paura anche alla borghesia, perché rafforzerebbe anche il suo
immediato avversario, il proletariato. Dagli anni ‘870 la motivazione di classe interna alla situazione britannica per
l’alleanza di fatto anglo-russa viene a decadere, ma sopravvive per anni. Marx nel 1877 condurrà un’attiva campagna
da dietro le quinte per sostenere e indirizzare (a insaputa dei destinatari) il “partito antirusso” nei circoli di potere
inglese, e nel 1890 Engels scrive “La politica estera degli zar” con la medesima finalità. Un “partito filorusso”
nell’oligarchia inglese permaneva grazie a sottili equilibri interni all’aristocrazia, a prassi consolidate e tradizioni
interiorizzate, e soprattutto grazie agli intrighi della diplomazia russa, che seduceva (talvolta letteralmente),
comprava o ricattava gli esponenti inglesi – le storie di spionaggio, di cospirazioni, di intrighi, e di complotti hanno
avuto un ruolo nello sviluppo della politica estera inglese. Di questo almeno erano convinti sia Marx che Engels.
Francia
Per quanto riguarda la Francia, i testi di Marx ed Engels relativi all’assolutismo francese del ‘600 e ‘700 appaiono
in prima battuta molto contraddittori fra loro. Quello scelto da sempre come l’ “approccio marxista” per
definizione è la cosiddetta “teoria dell’equilibrio”, per cui, nelle parole di Engels del 1872 la “condizione base della
vecchia monarchia assoluta [era l’] equilibrio fra nobiltà terriera e borghesia… nella vecchia monarchia assoluta…
il potere governativo sta[va] in realtà nelle mani di una casta particolare di ufficiali e funzionari… L’autonomia di
questa casta, che apparentemente sta al di fuori e per così dire al di sopra della società, dà allo Stato il lustro
dell’autonomia rispetto alla società”. Un altro approccio è quello della monarchia assoluta come “strumento della
società borghese”: così nel 1871 Marx scrive che “il potere centralizzato dello Stato… ha origine nell’epoca della
monarchia assoluta, quando servì alla nascente società borghese come un’arma poderosa nelle sue lotte contro il
feudalesimo”, un “potere statale che la nascente società borghese aveva cominciato ad elaborare come strumento
della propria emancipazione dal feudalesimo”. Un terzo approccio è quello della “monarchia feudale”: la monarchia
assoluta va “definita... come monarchia degli stati [ordini] [ständische Monarchie; monarchy based on estates] (ancora
feudale, feudale in decomposizione e borghese in stato embrionale)” – in modo netto e preciso: “l’ordinamento
statale rimase feudale, mentre la società diventò sempre più borghese”. Lo Stato assoluto francese fu autonomo
dalle classi, risultante da un’alleanza tra borghesia e nobiltà, strumento della borghesia o strumento della nobiltà?
Sicuramente fu “monarchia degli stati [ordini]”, se con questo si intende che fu totalmente in mano alla nobiltà.
Sicuramente fu tuttavia “eretta sulle rovine della società feudale”, per salvare il salvabile della vecchia società. E
nonostante salvò il salvabile, il complesso della nobiltà conobbe comunque un impoverimento assoluto nel corso
di questi secoli. Sicuramente favorì inizialmente (sotto Enrico IV e Luigi XIII) settori borghesi per ridurre alla
ragione i settori nobiliari recalcitranti – essendo uno stato nobiliare si può parlare di un iniziale “compromesso tra
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nobiltà e borghesia” a reciproco beneficio e contro i settori nobiliari che non volevano piegarsi all’innovazione
della monarchia assoluta. Ma la questione decisiva è un’altra. La monarchia assoluta non poteva essere una
“ständische Monarchie”. La “ständische Monarchie” è lo stato dell’aristocrazia perché si basa sul potere sociale
dell’aristocrazia, sul suo controllo della terra e della rendita fondiaria; lo stato, le sue risorse, dipendono solo e
unicamente dal volere di questa aristocrazia, che si appropria della ricchezza sociale, e la può negare al sovrano. La
“ständische Monarchie” non era più possibile in assenza di questo potere sociale aristocratico. Lo Stato assoluto,
basato sulla fiscalità (con conseguenti apparati burocratici inesistenti nella “ständische Monarchie”), acquisisce
apparentemente una base indipendente. Ma lo Stato assoluto dipende nei fatti dalla ricchezza sociale prodotta e da chi
se ne appropria. Nella Francia del XVII e XVIII secolo vi è da questo punto di vista una situazione complessa:
“diritti signorili” feudali acquisiti dall’aristocrazia si incrociano con le mille forme della ricchezza borghese, che
affluisce dalle terre, dal commercio, da forme protoindustriali, e il tutto sovrapposto a piccole produzioni contadine
indipendenti. In questo senso è corretta la “teoria dell’equilibrio”: sono molte le “società” che convivono
conflittualmente in Francia, e lo Stato assoluto dipende, per le proprie risorse, da tutte queste diverse “società”.
Ma questa è, per così dire, una visione statica, che “fotografa” la situazione in un dato istante. L’elemento dinamico
è il declino sociale della nobiltà, nonostante momenti di “restaurazione” aristocratica come quelli che caratterizzano
il regno di Luigi XIV (non casualmente anche un periodo di declino economico), e il declino della società contadina,
attaccata da nobili, Stato e borghesi. Il rafforzamento e l’estensione della società borghese è l’elemento che
caratterizza la prima parte del XVII e tutto il XVIII secolo. Questo rafforzamento ed estensione sociale borghese
è un fattore del tutto indipendente dalla soggettiva posizione pro-aristocratica (predominante fino alla metà del
‘700) di questo o quel settore borghese, dal loro desiderio di essere accettati nell’aristocrazia. La politica
mercantilista e lo sviluppo coloniale del XVIII secolo per aumentare la ricchezza della nazione e di conseguenza la
ricchezza e la potenza dello Stato (l’arricchimento come “fine ultimo dello Stato”) non si realizzarono in una
situazione di città sovrane strutturalmente integrate in un mondo feudale dominato dalla nobiltà, ma furono
“accumulazione e concentrazione violentemente accelerata dei capitali”. In questo senso lo Stato assoluto fu “uno
strumento, un’arma, della società borghese”: perché per vivere, crescere, pagare le pensioni agli aristocratici e fare
guerre, lo Stato assoluto non poteva che appoggiarsi alla “società” che si appropriava gran parte della ricchezza
sociale – uccidere quest’ultima significava commettere suicidio. La posizione dell’aristocrazia ai vertici dello Stato,
del tutto indipendentemente dagli orientamenti soggettivi sicuramente antiborghesi, era una contraddizione
insolubile. Spinta dalle proprie esigenze era costretta a fare cose che avrebbero segnato la propria fine.
Le varie, “contraddittorie” affermazioni di Marx ed Engels sullo Stato assoluto colgono quindi diversi aspetti
di quest’ultimo: il come è nato, individuando chi è al potere, fotografando la società sottostante, vedendo la
dinamica di questa stessa società. Ma qual è allora una “definizione” dello Stato assoluto? Era lo Stato di una
aristocrazia, una volta classe dominante nel medioevo, ora senza più funzioni sociali, parassitaria, uno Stato che
per vivere doveva fare scelte che favorivano una “società borghese” in espansione, non perché lo volesse, ma perché
la sua stessa esistenza era dovuta al fatto che la “vecchia società” nobiliare non poteva più sussistere, riprodursi.
Era lo Stato di una società in transizione, che creò le condizioni del capitalismo cercando di salvare il feudalesimo.
L’esito furono le tempeste del 1789, del 1830, del 1848. Così Marx in poche righe riassume più di mezzo secolo di
storia francese:
La scopa gigantesca della Rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò via tutte [le] reliquie
dei tempi passati, sgomberando così simultaneamente il suolo sociale dagli ultimi intralci alla
sovrastruttura dell’edificio dello Stato moderno, edificato sotto il Primo Impero, a sua volta
scaturito dalle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia
moderna. Durante i successivi régimes, il governo, posto sotto il controllo parlamentare – cioè
sotto il diretto controllo delle classi possidenti – non diventò solamente il focolaio di enormi
debiti nazionali e di tasse opprimenti; con le sue irresistibili attrattive di posti, guadagni,
clientele, non solo divenne il pomo della discordia tra le fazioni rivali e gli avventurieri delle
classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cambiò insieme ai cambiamenti economici
della società. […] Sotto i Borboni aveva regnato la grande proprietà terriera, coi suoi preti e i suoi
lacchè; sotto gli Orléans l’alta finanza, la grande industria, il grande commercio, cioè il capitale,
col suo seguito di avvocati, professori e retori. La monarchia legittima era soltanto l’espressione
politica del dominio ereditario dei grandi proprietari fondiari, mentre la monarchia di luglio
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non era altro che l’espressione politica del dominio usurpato dei parvenus borghesi. Dunque
ciò che opponeva l’una all’altra queste frazioni… erano le condizioni materiali d’esistenza, due
diverse specie della proprietà; era il vecchio contrasto tra la città e la campagna, la rivalità tra il
capitale e la proprietà fondiaria […] E parliamo di due interessi della borghesia perché la grande
proprietà fondiaria, malgrado civettasse col feudalismo e malgrado il suo orgoglio di razza, era,
in conseguenza dello sviluppo della società moderna, completamente imborghesita […] Alla
monarchia borghese di Luigi Filippo può succedere soltanto la repubblica borghese, il che vuol dire
che se prima una parte limitata della borghesia regnava in nome dei re, ora deve dominare in
nome del popolo la totalità della borghesia… La repubblica borghese trionfò. Essa aveva per
sé l’aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i piccoli borghesi, l’esercito,
la canaglia organizzata in Guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale.
Il 2 dicembre 1851 con un colpo di stato inizia la dittatura di Luigi Napoleone Bonaparte, che si proclama
Imperatore col nome di Napoleone III meno di un anno dopo. Si trattava di una “innovazione” storica, come
mutatis mutandis lo fu il sorgere della monarchia assoluta, ma una “innovazione” che si concretizzava in un
personaggio, Luigi Bonaparte, “mediocre e grottesco”: come era possibile che la borghesia francese all’apice del
suo potere sociale e politico rinunciasse alla “forma completa e pura” del suo dominio e accettasse di cedere tutte
le leve del potere a un qualsiasi, volgare avventuriero? Per Marx Luigi Bonaparte ha “usurpato il potere sfruttando
la lotta di classe in Francia”. L’avvenimento decisivo fu l’ingresso nell’arena politica delle classi lavoratrici come
soggetto autonomo, indipendente, reso manifesto nell’insurrezione operaia del giugno 1848. La “chiave” del
bonapartismo è che “per mantenere intatto il… potere sociale [della borghesia], dev’essere spezzato il suo potere
politico… per salvare la propria borsa, essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve
in pari tempo pendere come una spada di Damocle sulla propria testa”. “I singoli borghesi possono continuare a
sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell’ordine soltanto
a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi”. Questa
situazione può essere illustrata con una particolare versione della “teoria dell’equilibrio”: “Tutto il segreto del
successo di Luigi Napoleone consiste in questo: grazie alle tradizioni legate al suo nome, egli si è collocato in una
posizione tale da poter tenere nelle sue mani, temporaneamente, l’equilibrio delle classi antagoniste della società francese”,
“il bonapartismo… del Secondo Impero francese… giocò il proletariato contro la borghesia e questa contro il
proletariato”. Ma mentre lo Stato assoluto cercava di difendere gli interessi di una vecchia classe dominante, in
declino e parassitaria, il bonapartismo inizialmente si autonomizzò completamente dalle due classi fondamentali,
borghesia e proletariato, “professa[ndo] di appoggiarsi sui contadini, la grande massa di produttori non
direttamente coinvolta nella lotta tra capitale e lavoro”, e trovando la sua base effettiva nell’esercito. Lo sviluppo
della lotta di classe a livello politico, la “minaccia rossa”, acuendo i contrasti all’interno della borghesia, creò una
situazione di stallo, di paralisi, al punto che solo il potere dello Stato potè risolvere la situazione – rivelando una
incompatibilità di fondo tra capitalismo e democrazia:
Tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo
dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè
diventate ‘socialiste’. In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva con ragione il segreto
del socialismo… La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da essa forgiate contro il
feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da essa escogitati
insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da essa creati l’abbandonavano […]
In paesi di vecchia civiltà e con un’avanzata struttura di classe, con condizioni di produzione
moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee tradizionali sono state dissolte da un
lavoro secolare, la repubblica non è altro, in generale, che la forma in cui si compie la trasformazione politica
della società borghese, ma non la forma della sua conservazione.
Quest’ultima affermazione, espressa in forma sintetica, è la lezione che Marx trae dal bonapartismo,
l’espressione della faglia storica rappresentata dalle rivoluzioni del 1848-1849 e dall’insurrezione proletaria parigina
del giugno 1848. L’ “autogoverno” borghese comportava rischi tali da rinunciare a tale “forma completa e pura”
del proprio dominio, a rinunciare a subordinare al proprio interesse complessivo tutte le altri classi della società e
le pretese di sue singole frazioni. La “faglia” storica del 1848 rivela questi pericoli e mette di conseguenza la parola
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fine alle rivoluzioni borghesi dal basso. La “repubblica democratica” diventa un obiettivo delle classi lavoratrici
contro la borghesia. Inizia un periodo in cui, in funzione della situazione della lotta di classe, la borghesia opta, o più
spesso è costretta a optare, per una repubblica democratica; oppure sceglie una cessione del potere statale a un
dittatore bonapartista, oppure ancora sceglie una qualche forma statale intermedia di “relativa autonomia dello
Stato” dalla stessa classe borghese. Engels ironizza su chi assolutizzava la richiesta di repubblica democratica:
Una superstiziosa venerazione dello Stato e per tutto ciò che con esso ha relazione… subentra
tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari comuni
di tutta la società non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino ad ora,
cioè per mezzo dello Stato e dei suoi ben remunerati funzionari. E si crede d’aver già fatto un
passo estremamente audace quando ci si è liberati della fede nella monarchia ereditaria e si
giura nella repubblica democratica.
Per Marx ed Engels, “la repubblica democratica non elimina l’antagonismo di classe, offre al contrario proprio
il terreno dello scontro”, portando il proletariato vittorioso a sbarazzarsi di tutto il “ciarpame statale”. Anche la
terza repubblica francese mostrava segni di “decadenza”:
La borghesia francese, la più avida di denaro e di piaceri di tutte, è accecata dalla propria avidità
di denaro e non vede i suoi interessi futuri; vede solo dall’oggi al domani e, assetata di profitto,
si getta nella corruzione più scandalosa, dichiara che un’imposta sul reddito è alto tradimento
socialista, di fronte a ogni sciopero sa rispondere solo con le salve della fanteria.
La Francia dell’ancien règime ha cullato sogni di “Monarchia universale” con Luigi XIV, costruendo un “sistema
fondato sul vandalismo e la perfidia”, ma potevano rivelarsi solo sogni. L’ascesa dell’Inghilterra costringe la Francia
dalla metà del ‘700 a un ruolo internazionale marginale, ruolo confermato nell’assetto europeo del 1815. Napoleone
III cerca di ritrovare l’antico splendore, ma con sotterfugi e millanterie. Il regime bonapartista è per definizione
militarista ed espansionista, caratterizzato da quella che Marx stigmatizza come una “imperiale ribalderia militare”.
È dipendente dall’esercito, e una permanente crisi strutturale interna, il cui precipitare è procrastinabile solo con
successi all’estero, porta a perpetuare il potere solo “attraverso periodiche guerre all’estero”, purché limitate e
localizzate. “Per paura della rivoluzione, l’Europa ufficiale ha accettato il regime di Luigi Bonaparte, ma un
rinnovarsi periodico della guerra è una delle condizioni vitali di quel regime”. Napoleone III oscilla tra la protezione
offertagli dall’Inghilterra, l’alleanza con la Russia e avventure militari, in un gioco in cui spesso il bluff predomina
(“ha una paura del diavolo di una guerra sul serio”), ma in cui accumula gli elementi di un conflitto internazionale
senza poterli controllare. Il suo crollo salva temporaneamente l’Europa da una guerra generale, ma crea, per Marx
ed Engels, nuove condizioni per questa stessa guerra.
Prussia e Germania
Per quanto riguarda la Germania, Marx ed Engels non potevano interpretare la sua storia sub specie ‘1933’,
oggetto delle controversie contemporanee su una vera o presunta Sonderweg tedesca, per cui la catastrofe nazista
sarebbe da ascrivere alla sopravvivenza di élites feudali o precapitaliste, né con un approccio “da Lutero a Hitler”,
né tantomeno con uno “da Bismarck a Hitler”, ma svilupparono un’analisi specifica della storia prussiana e tedesca
con un approccio “da Lutero a Bismarck”, e non solo distinguendo, ma contrapponendo gli interessi prussiani e
quelli tedeschi. Per certi aspetti la loro analisi sembra sovrapponibile a quella dei sostenitori di una “peculiarità
tedesca”, sia sottolineando le sopravvivenze feudali o semifeudali nella Prussia dell’ultimo quarto del XIX secolo,
sia denunciando il peso di una burocrazia ottusa e onnipresente, sia eguagliando “rivoluzione borghese” con
“potere politico della borghesia”, sia sostenendo che questo potere politico può essere esercitato dalla borghesia
come classe solo in una “repubblica democratica”. Ma se il lessico è sovrapponibile, la sintassi è radicalmente
diversa. Così, ad es., non considerano quella francese il paradigma della “rivoluzione borghese”, rivoluzione che
per loro può invece svolgersi nell’arco di un secolo, o più: “la Prussia ha il singolare destino di compiere alla fine
di questo secolo e nella gradevole forma del bonapartismo la sua rivoluzione borghese, iniziata nel periodo dal
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1808 al 1813 e spinta avanti per un certo tratto nel 1848. E se tutto andrà bene, se il mondo avrà la compiacenza
di restare tranquillo, e se noi tutti vivremo abbastanza, forse nell’anno 1900 potremo vedere che il governo
prussiano ha abbandonato tutte le istituzioni feudali e che la Prussia finalmente giunge al punto in cui la Francia si
trovava nel 1792”. Così, ad es., non considerano una peculiarità tedesca il “tradimento” della borghesia che non
persegue “i propri interessi” – come si è visto sia nel caso inglese che francese la borghesia ha fatto esattamente
questo, pur in assenza di residui precapitalisti, per effetto del terrore che la “repubblica democratica” potesse
diventare sinonimo di una “repubblica rossa” grazie all’ascesa di un proletariato dotato di coscienza di classe.
Per Marx ed Engels vi è una sorta di enigma prussiano in due atti. Il primo data fin dalla nascita di uno “Stato”
con questa connotazione geografica alla metà del XVII secolo, prima Ducato poi, nel 1701, Regno. Dal 1641, per
più di un secolo e mezzo, fino alla sconfitta di Jena nel 1806, quando “l’intero Stato prussiano fu fatto a pezzi in
un sol giorno” (sconfitta “salvifica” per Engels), si ebbe uno Stato con caratteristiche simili a quello assolutista
francese, poggiando però su una società pienamente feudale a differenza della Francia. Il secondo enigma fu la
Prussia bismarckiana, dagli anni ‘860 in poi, quando uno Stato tardivamente assolutista si trasmuta, senza perdere
le sue caratteristiche precapitaliste, in Stato borghese.
Il primo atto di questo enigma ha una serie di precondizioni storiche. A cavallo tra XV e XVI secolo la
Germania vive un precoce sviluppo capitalista. Nelle campagne a est dell’Elba vive “quello che fino allora era stato
uno dei ceti contadini più liberi d’Europa” (Brenner). In questo quadro la Riforma e la guerra dei contadini del
1524-1526 sono viste da Engels come una fallita rivoluzione borghese, con la vittoria di una controrivoluzione
nobiliare che riuscì a soggiogare i contadini (uno “stato ideale di signoria feudale terriera, cui la nobiltà tedesca
aveva invano aspirato per tutto il Medioevo e che ora, al tramonto dell’economia feudale, aveva finalmente
raggiunto, fu adesso gradualmente esteso anche alle terre situare all’est dell’Elba”) e portare al declino la nascente
società borghese. Declino del capitalismo tedesco e processo di “neo-feudalizzazione” a est dell’Elba si
completeranno nella prima metà del XVII secolo in contemporanea con le devastazioni della Guerra dei Trent’anni.
La conclusione di questa guerra comportò la sopravvivenza solo nominale dell’Impero, le cui terre non asburgiche
vennero sottoposte a un codominio franco-svedese, e “la Germania fu rigettata indietro di duecento anni nel suo
sviluppo”. Il XVIII secolo tedesco è così riassunto in una serie di note di Engels:
Stato della Germania nel 1789. a) Agricoltura – condizioni contadine. Servitù, punizione
corporale, tasse. b) Industria – totale inedia, essenzialmente lavoro manuale, ma in Inghilterra
già inizio dell’industria su larga scala, l’industria tedesca destinata a morire prima ancora di
svilupparsi. c) Commercio— passivo. d) Status sociale dei borghesi nei confronti della nobiltà
e del governo. e) Ostacolo politico allo sviluppo: frammentazione.
Fino alla Guerra dei Trent’anni la “dinastia Hohenzollern” e la Marca di Brandeburgo erano stati assolutamente
marginali negli sviluppi tedeschi. L’anno della svolta è il 1641, con l’investitura di Federico Guglielmo I del Ducato
di Prussia dalla Corona polacca, dietro compensi in denaro e giuramento di vassallaggio. Cos’è questo Ducato? Gli
storici in generale lo identificano a uno Stato assolutista. Per Marx lo Stato di Prussia è l’ “estate”, lo “stato
patrimoniale (giacché altro non è lo Stato per loro, né altro può essere per un piccolo marchesato di Brandeburgo)”,
il “bene demaniale” della famiglia Hohenzollern; i Hohenzollern erano dei super-Junker, in un paese in cui la classe
dominante, anche negli affari di Stato, era quella nobiliare dei Junker: “Sia pure un re assoluto, purché agisca
secondo il nostro volere!”. Il regno prussiano del XVIII secolo fu per Marx un “cosiddetto Stato”, un “aborto del
XVIII secolo”; successivamente Mehring scriverà che “fra il 1648 e il 1789... in Germania la monarchia assoluta
era nient’altro che una caricatura grottesca”. La “ständische Monarchie” è lo Stato dell’aristocrazia perché si basa sul
potere sociale dell’aristocrazia, sul suo controllo della terra e della rendita fondiaria. La Prussia fu uno Ständestaat con
alcune forme tratte dalla monarchia assolutista francese. Lo Stato prussiano fu preda dei Junker, sia nella burocrazia,
che nell’esercito, per Marx gli stessi sovrani erano “guitti” che si alternano a dei “tetr[i] miscugli di sergente
istruttore, burocrate e maestro di scuola”. Ma cosa rendeva possibile che uno Stato basato sulla servitù contadina
e su degli onnipotenti nobili terrieri potesse assumere forme da assolutismo francese? La risposta di Marx ed Engels
è che questo fu possibile solo perché la Prussia riuscì ad ampliarsi territorialmente, acquisendo risorse, ben oltre i
limiti di quello che era in suo potere, solo e unicamente ponendosi al servizio, diventando una sorta di vassallo, di
una grande potenza straniera, la Russia.
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la ‘piccola marca’ poteva sperare di poter procedere ad usurpazioni in Germania solamente a
patto di accostarsi ad una potenza straniera ostile all’Impero […] Era del tutto naturale… da
parte dei Hohenzollern la politica di avvicinamento alla Russia, ossia alla potenza nascente
sulle macerie della Svezia… La spartizione del regno svedese fu il primo vero patto politico che fece
notare sulla scena europea il regno di Prussia in veste di sciacallo russo […] [la monarchia dei
Hohenzollern è] fondata sul patronato russo... comprato... aprendo alla Russia la via per
penetrare in Germania,… sacrifica[ndo] alla Russia tutti gli interessi tedeschi […] L’esistenza
stessa dello Stato prussiano dipendeva dalla decadenza e dall’annientamento politico della
Polonia ovvero – visto dal lato attivo – dal predominio della Russia. Ma, se così è, la restaurazione
della Polonia e la caduta del predominio russo equivarrebbero alla fine dello Stato di Prussia
[...] Il declino della Polonia coincide con la nascita della Prussia, e il progresso della Russia
rappresenta la legge di sviluppo della Prussia. Non c’è Prussia senza Russia.
Questo concetto è più e più volte ripetuto da Marx ed Engels. È questo ruolo internazionale che ha permesso
“le fellonie, le perfidie, le caccie alle eredità con cui è diventata grande quella famiglia di caporali che porta il nome
di Hohenzollern”, che ha permesso a mediocrità, corruzione, volgarità, di riuscire. “C’est dégoutant”, conclude Marx.
Questo “guazzabuglio di dispotismo, burocratismo e feudalesimo”, questo coacervo di “dispotismo poliziesco,
dominio della nobiltà, arbitrio burocratico” termina il 14 ottobre 1806, sui campi di Jena e Auerstädt. “Jena” nella
scrittura di Marx ed Engels diventa la metafora del crollo subitaneo di uno Stato e di un ordine sociale basato su
oppressione e sfruttamento, odiato e disprezzato.
Lo Stato prussiano viene ricostruito, ma non è più lo stesso, perché la sua base sociale cambia. Con un editto
del 1807 viene abolita la servitù contadina, più sulla carta che nei fatti, ma inizia un processo secolare di progressiva
emancipazione contadina. La nobiltà junker si ritrova in declino, e cerca di salvare il salvabile. Nel corso dei decenni
si ritrova a sopravvivere grazie ai sostegni statali. A poco a poco nasce e si sviluppa una società borghese,
soprattutto a partire dagli anni ‘930, aiutata dalla formazione nel 1834 del Zollverein (l’unione doganale) tra Prussia
e una serie di altri regni tedeschi. Si sviluppa a dismisura una burocrazia che appare al di sopra della società,
indipendente dalla stessa. Inizia molto tardivamente l’era della monarchia assolutista prussiana, con caratteristiche
simili a quelle identificate nel precedente caso francese, ma ereditando dal periodo precedente il suo ruolo – e la
sua raison d’être – a livello internazionale. Il 1848 viene visto da Marx ed Engels come l’equivalente tedesco del 1789,
questa volta con reali potenzialità di emancipazione dei lavoratori. Proprio questo dato porterà al “tradimento”
della borghesia, che non perseguirà “i propri interessi” contro un feudalesimo e una monarchia assoluta in declino,
che “si andava lentamente putrefacendo”.
A partire dal decennio ‘850 si ha uno sviluppo “inaudito” del capitalismo tedesco. Questo è il preludio a un’altra,
inattesa, innovazione nello sviluppo storico: l’unificazione della “Piccola Germania” (senza cioè le terre asburgiche)
sotto la direzione prussiana. Per Engels “l’unità grande prussiana della Piccola Germania” ad opera di Bismarck,
fu una rivoluzione, una “completa rivoluzione” pur se ben “singolare”. Fin dal 1866 Engels aveva analizzato questa
unificazione tedesca come la realizzazione della politica della borghesia. Certo, il risultato era una “sozzura”, ma
bisognava “accettare il fatto, senza approvarlo, e trar profitto, per quanto possiamo, dalle facilitazioni che in ogni
modo si offrono per l’organizzazione nazionale e l’unione del proletariato tedesco”. Ma da dove sorgeva questa
“rivoluzione dall’alto”? E quali erano i suoi effetti? La causa fondamentale era lo sviluppo “inaudito” del
capitalismo in Prussia, e lo Stato, qualsiasi Stato, dipende nei fatti dalla ricchezza sociale prodotta nel paese e da chi
se ne appropria. “Le basi sociali del vecchio Stato avevano subìto, anche nel loro intimo, una trasformazione
completa”. Lo Stato prussiano, credendo che “non [fosse] mutato nulla [con l’unificazione tedesca], fuor che… è
diventato più potente”, in realtà eseguiva gli interessi e i piani borghesi. “Dall’istante in cui non si trattava più di
difendere la nobiltà dalla pressione della borghesia, ma di difendere tutte le classi possidenti dalla pressione della
classe operaia, la monarchia assoluta fu costretta a trapassare completamente in quella forma di Stato che era stata
elaborata proprio per questo fine: la monarchia bonapartista… questo passaggio fu il più grande progresso fatto dalla
Prussia dopo il 1848”, nota ironicamente Engels. Per lui la singolare rivoluzione dall’alto del 1866-1871 aveva posto
fine alla vecchia monarchia assolutista nata nel 1807-1815, uno “Stato semi-feudale”, e aveva dato nascita a qualcosa
di radicalmente diverso, al “bonapartismo [che] è, in ogni caso, una forma moderna di Stato che ha come suo
presupposto la soppressione del feudalesimo”. Per questo Inizialmente Engels era convinto che il Reich fosse
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obbligato all’eliminazione dei residui feudali a causa dello sviluppo inarrestabile della società borghese e del
capitalismo, ipotizzando un processo lungo 30-35 anni, l’ “orizzonte 1900”. Questi residui feudali consistevano nei
privilegi della nobiltà junker, nella condizione di fatto servile degli operai agricoli in Prussia, in una serie di
caratteristiche particolari delle istituzioni dello Stato guglielmino, e nella centralità dei junker nell’apparato e nel
sistema di potere di questo Stato. Nel corso degli anni tuttavia Engels cambia in parte opinione. Nel 1894 individua
un ostacolo che allunga in modo indefinito i tempi della “rivoluzione borghese” in Germania. “La potenza di questi
Junker consiste nel fatto che essi dispongono della proprietà del suolo nel territorio chiuso delle sette antiche
provincie della Prussia — vale a dire di un terzo di tutto il territorio del Reich — il che porta con sé il potere
economico e politico”. Lo Stato si erge a difesa dei “residui feudali” esistenti: “Solo la semi-schiavitù di fatto,
sanzionata dalla legge e dalla consuetudine, e lo sfruttamento senza limiti degli operai agricoli che essa rende possibile,
tiene ancora a galla questo regime dei junker”. Questo ostacolo all’espansione della società borghese in Prussia,
socio-economico e dato dalla politica statale, rimane comunque, per Engels, temporaneo. Si tratta di un blocco
relativo, non assoluto – i junker sono comunque destinati al fallimento come classe sociale. Questo blocco incide
sui tempi della singolare “rivoluzione borghese” tedesca, non sulla direzione della sua dinamica. L’orizzonte del
“1900” si allunga. In questa situazione Engels definisce lo Stato guglielmino “un ordinamento politico ancora per
metà assolutistico ed indicibilmente confuso” ed Engels approva Liebknecht che “definì questo Reichstag la foglia
di fico dell’assolutismo”.
Come si può dunque concludere la caratterizzazione dello Stato guglielmino? Il frutto da un lato dello sviluppo
capitalistico nel quadro di una monarchia assolutista semi-feudale e dall’altro dalla totale abdicazione borghese al
potere per il terrore di uno sviluppo autonomo del proletariato (“la borghesia è venuta a patti… [con] la monarchia
col suo esercito e la sua burocrazia, la grande nobiltà feudale, i piccoli nobilotti di campagna e perfino i preti”).
Grazie a questo il vecchio Stato prussiano procedette a una “rivoluzione”, alla realizzazione del più importante
progetto borghese, un’unificazione tedesca, pur se limitata, mantenendo però una dominazione prussiana. Il
vecchio Stato prussiano si era visto delegare il potere da parte della borghesia, secondo una logica bonapartista.
Eseguì correttamente il suo compito, contribuendo in modo decisivo al rafforzamento capitalistico tedesco; ma al
contempo non rinnegò le proprie radici semi-feudali, potendolo fare per le specifiche caratteristiche socioeconomiche del potere dei junker nella Prussia orientale, che li ponevano al riparo dall’estensione della società
borghese tedesca. Così si ebbe un regime bonapartista borghese, con “colossali residui di feudalesimo, che
conferiscono in Germania a tutto il nostro marciume politico la sua specifica impronta reazionaria”. In questa
situazione la battaglia contro le sopravvivenze di feudalesimo e di assolutismo erano indistinguibili dalla battaglia
contro il bonapartismo: perché se la borghesia francese delegò il potere a una burocrazia e a un esercito senza
radici sociali precapitaliste, in Germania delegò anch’essa il potere a burocrazia ed esercito – ma in Germania
queste ultime avevano forti radici precapitaliste, semifeudali e assolutiste. Così abbiamo una formazione sociale in
cui “vediamo aggirarsi, tra capitalisti e operai perfettamente moderni, i più incredibili fossili antidiluviani: feudatari,
corti di giustizia padronali, signorotti di campagna, bastonature, consiglieri governativi, presidenti distrettuali,
corporazioni, conflitti di competenza, potere punitivo amministrativo”, “una società... in cui lo junker feudale e il
maestro della corporazione si aggirano come spettri alla ricerca di un nuovo corpo; uno stato del diritto in cui
l’arbitrio poliziesco apre ancora ogni giorno nuove falle”. Come scriveva Marx: “uno Stato che non è altro se non
un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato a residui feudali, e allo stesso tempo già
influenzato dalla borghesia, tenuto assieme dalla burocrazia, difeso dalla polizia”. Un mostro che perirà nel 1919,
ma solo dopo una guerra che lasciò nei cimiteri tedeschi due milioni e mezzo di persone.
L’Impero asburgico
Per quanto riguarda l’Austria, non stupisce che Marx scriva degli Asburgo (come gli Hohenzollern) come nulla
più di “titolari di beni demaniali” in Germania, impegnati nella guerra di successione spagnola “soltanto [per] gli
interessi della famiglia”. Questo faceva e fa parte di una conoscenza storica acquisita e diffusa. Entrambi si
soffermano invece in modo più interessante sulle analogie e sulle differenze tra Hohenzollern e Asburgo. Quello
che accomuna i domini dinastici di Hohenzollern e Asburgo è che nella formazione di entrambe giocò un ruolo
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decisivo “il fatto di esser coinvolto… con tutta la situazione politica internazionale”. Ma a differenza della Prussia,
“la storia austriaca, che narra come un vassallo dell’impero tedesco si fondi una potenza dinastica, diventa
interessante per la circostanza che il vassallo, una volta imperatore, resta buggerato con le complicazioni con
l’oriente, la Boemia, l’Italia, l’Ungheria ecc. e infine col fatto che la sua potenza dinastica acquista tali dimensioni
che l’Europa teme in essa una monarchia universale”. Nel XVII e all’inizio del XVIII secolo si susseguirono tra le
grandi potenze europee, Francia, Inghilterra e Austria, “dispute interminabili dalla tradizione, dalle condizioni di
vita economiche, da interessi politici e dinastici o da sete di conquista”, “per estendere il potere, l’influenza e i
possedimenti territoriali” di ciascuno a spese altrui.
Una delle conclusioni precedentemente raggiunte analizzando i testi di Marx ed Engels su Francia e Prussia era
la incompatibilità tra Ständestaaten e monarchie assolute, per la differenza delle classi sociali che si appropriavano
del surplus sociale prodotto (per lo più) dalle masse contadine. Per quando riguarda l’Impero asburgico fino alla
metà del XVIII secolo non vi possono essere dubbi – era un classico esempio di Ständestaat, basato su nobiltà e
contadini in larghissima parte in condizione servile. Come ricorda Venturi, “[l’] impero era una sorta di aggregato
di domini nobiliari, dove il signore era non soltanto padrone, ma anche amministratore, giudice ufficiale. La
Boemia, col suo migliaio di simili feudi, era esempio tipico d’un tal tessuto connettivo della monarchia asburgica”.
Anche dai contemporanei l’Impero asburgico veniva visto come uno “Stato” con delle strutture arcaiche e
inefficienti. “Allorché ascese il trono Teresa era la monarchia pel’esterno senza influenza e considerazione,
pel’interno senza nervo e soccorso, il talento senza incoragimento, senza emulazione, l’agricoltura in mani
infiacchite”, scriveva il più influente scrittore viennese di cose politiche ed economiche di quegli anni. La seconda
metà del XVIII secolo vide un doppio rivolgimento. Sotto il regno di Maria Teresa (soprattutto a partire dal
decennio ‘760) e di Giuseppe II vennero prima introdotte delle misure parziali, poi via via più conseguenti, miranti
a sopprimere la condizione servile dei contadini (la “servitù personale”) e a limitare i poteri politici nobiliari,
accentrando una serie di prerogative fiscali e militari nello Stato. Queste misure incontrarono molta resistenza,
furono successivamente in parte ritirate e poi reintrodotte, e così via, e trovarono un’applicazione pratica parziale
sul terreno dei rapporti agrari, dove il peso delle corvée (robot) dovute dai contadini rimaneva più che opprimente.
Ma segnarono comunque una rottura decisiva con il passato, pur nell’enorme differenziazione provinciale,
segnando l’inizio dell’assolutismo asburgico. I limiti e le contraddizioni di questo doppio rivolgimento segnarono
la debolezza dell’assolutismo austriaco, che nel periodo metternichiano si chiuse totalmente nei confronti
dell’estero, ispirandosi a una improbabile immobilità interna di stampo iper-reazionario. Per Engels “Metternich
circondò il suo Stato… con una vera e propria muraglia cinese”; “l’Austria fino al marzo 1848 era ermeticamente
chiusa agli occhi delle nazioni straniere, quasi altrettanto quanto la Cina… l’Austria rimase quasi sconosciuta
all’Europa, e l’Europa altrettanto sconosciuta all’Austria… [fu] la Cina d’Europa”; in Austria c’era “un arbitrio
assolutistico che non aveva eguali neppure in Germania; “in Austria la borghesia era molto meno politicamente
sviluppata” che in Germania. “Metternich… ad eccezione dei più potenti baroni feudali… tolse al resto della
nobiltà ogni influenza sulla direzione dello Stato. Alla borghesia tolse la sua forza tirando dalla sua parte i baroni
finanziari più potenti; doveva farlo, le finanze ve lo costringevano. Così, appoggiato all’alta feudalità e all’alta
finanza, nonché alla burocrazia e all’esercito, raggiunse nel modo più completo… l’ideale della monarchia assoluta”.
Le rivoluzioni del 1848 nell’Impero asburgico, pur se sanguinosamente sconfitte grazie all’aiuto militare russo,
portarono a un risultato decisivo: la soppressione delle più odiose forme di assoggettamento contadino, tra cui il
famigerato robot. Non fu un 1789 contadino, ma completò e assestò le riforme giuseppine del decennio ‘780. Dal
punto di vista statale la reazione postrivoluzionaria si concretizzò nel tentativo più estremo mai tentato dagli
Asburgo di centralizzare l’Impero. Dopo la sconfitta in Italia e la perdita della Lombardia, dal 1860 Marx ed Engels
si aspettano un “1789” austriaco: la crisi viene invece superata; ma solo sei anni dopo l’Impero austriaco crollò in
modo subitaneo nella guerra contro la Prussia. Marx ed Engels non se lo aspettavano: “il corso degli avvenimenti
ha dimostrato la straordinaria cancrena del regime austriaco”, “la straordinaria degenerazione degli Asburgo”,
commenta a caldo Marx. Secondo loro
Non c’è altro paese in cui, più dell’Austria, il ceto medio liberale ha mostrato i suoi istinti
egoisti, la sua inferiorità mentale e il suo ridicolo astio contro la classe operaia. Il suo governo,
vedendo l’impero lacerato e minacciato di rovina da una lotta di razze e di nazionalità,
perseguita gli operai, i quali soli proclamano la fratellanza di tutte le razze e di tutte le
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nazionalità. Lo stesso ceto medio, che ha raggiunto la sua nuova posizione non per il suo
proprio eroismo, ma esclusivamente grazie al grande disastro dell’armata austriaca, è appena
in grado di difendere, come esso stesso sa, le sue nuove conquiste contro gli attacchi della
dinastia, dell’aristocrazia e del clero, e sciupa nondimeno la sua energia nel miserevole tentativo
di escludere la classe operaia dal diritto di coalizione, di pubblica riunione e di stampa […] Con
la guerra del 1866, l’Austria è piovuta come un regalo tra le braccia della borghesia. Ma questa
non è capace di esercitare il potere; essa è assolutamente impotente e incapace di fare qualsiasi
cosa. Una cosa sola sa fare: scatenarsi contro i lavoratori, non appena questi si muovono […]
[In questo zelo] il governo austriaco si aggrappa, ancor saldo per la paura, al suo antico
privilegio di rappresentare il don Chisciotte della reazione europea.
L’Austria è uno “Stato borghese”, come quello tedesco-prussiano, ben particolare. In primo luogo, è anch’esso
una “finzione di monarchia costituzionale”, con un “Reichsrat… [che] è uno stagno di ranocchi, infinitamente più
impantanato del Reichstag tedesco e perfino della Camera sassone o bavarese”; dove “il feudalesimo è superato
solo in parte” e “le classi dominanti” sono “in pari grado l’aristocrazia feudale e la borghesia”, le “classi dominanti”
sono “nobiltà feudale” e “borghesia”. La “situazione austriaca” è “ingarbugliata”, l’Austria è “un paese dove
l’intreccio delle vecchie forme feudali, burocratiche, poliziesche con istituzioni più o meno moderne, borghesi, ha
lasciato alle prime una preponderanza così forte, che la situazione porta a complicazioni impossibili”.
Marx ed Engels consideravano la “dissoluzione” dell’Austria, il suo “dissolversi nelle sue parti costitutive” un
destino inevitabile dell’Austria. I “popoli schiacciati sotto il dominio asburgico” si sarebbero liberati da questo
giogo. Nel 1882 e poi ancora nel 1888 Engels lo vede in conseguenza di una rivoluzione in Russia, che avrebbe
privato dell’ “unica ragion d’essere storica” dell’Austria, “quella di barriera contro l’avanzata russa”.
Nel periodo 1815-59, per quanto la sua politica sia stata folle e codarda, l’Austria è stata
effettivamente un argine contro la Russia. Ma offrire all’Austria un’altra opportunità – ora, alla
vigilia della rivoluzione in Russia – di ergersi come ‘bastione’, significherebbe concederle una
dilazione di sopravvivenza, una nuova giustificazione storica della propria esistenza, e
procrastinare la disgregazione che sicuramente l’attende […] Una volta annientato lo
zarismo… l’Austria cadrà in pezzi, giacché avrà perduto la sua unica ragion d’essere: quella di
impedire – con la sua semplice esistenza – allo zarismo conquistatore di annettersi le nazioni
sparse dei Carpazi e dei Balcani; la Polonia risorgerà, la Piccola Russia [l’Ucraina] sceglierà
liberamente la sua posizione politica, i romeni, i magiari, gli slavi del sud potranno regolare tra
loro le proprie questioni e i loro nuovi confini, liberi da qualsiasi ingerenza straniera; la nobile
nazione grande-russa… svilupperà di conserto con l’occidente le sue vaste facoltà intellettuali,
invece di sacrificare il suo sangue migliore sul patibolo e nei lavori forzati.
L’Impero zarista
Riguardo alla Russia, alla metà dell’ ‘800 ben pochi potevano avere dubbi sulla sua potenza. La sua ascesa come
potenza mondiale fu fulminea. Nella “grande guerra del Nord” (1700-1721) la Svezia – potenza dominante in
Europa insieme alla Francia dalla fine della guerra dei trent’anni (pace di Vestfalia, 1648) – venne disfatta, e
scomparve come grande potenza mondiale. Nel mar Baltico iniziò una supremazia russa. Nel 1726 la Russia strinse
un’alleanza con l’Austria che, salvo alcuni intervalli, resse fino alla metà dell’ ‘800: secondo le parole di uno storico
odierno, Anisimov, “l’alleanza con l’Austria consentì alla Russia di entrare nel sistema di relazioni westfaliano. La
Russia venne accettata come un potere europeo a pieno titolo, membro della comunità mondiale e del cerchio dei
dominatori del mondo, e divenne un elemento costitutivo indispensabile delle combinazioni politiche e del generale
balance of power in Europa”. Nel 1772 Russia, Austria e Prussia procedettero alla prima spartizione della Polonia, e
costituirono la “Lega del Nord”, per Marx “culla della Santa Alleanza... Questa Lega… diede alla Russia la
supremazia in quanto la lasciò arbitra della rivalità tra Austria e Prussia”. “L’enorme riaggiustamento delle frontiere
in Europa orientale avvenuto tra il 1772 e il 1775 rese evidente uno spostamento di equilibri di forza verso est, che
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si preparava da tempo. Si trattò della prima importante guerra combattuta nella regione conclusasi senza alcun tipo
di mediazione da parte degli occidentali. In realtà le offerte in tal senso non mancarono, ma furono decisamente
rifiutate” (Blanning). Nel 1779, in conseguenza del trattato di Teschen, la Russia divenne garante della costituzione
del Sacro Romano Impero, un balzo in avanti dell’influenza russa in Europa. Negli anni successivi fece sentire la
sua presenza nel Mediterraneo e si installò nell’America settentrionale. Grazie alla vittoria sulle truppe napoleoniche
i trattati di Vienna sancirono la supremazia russa in Europa: “la Turchia, tradita dalla Francia, nel 1812 aveva
segnato la pace a Bucarest e aveva sacrificato ai russi la Bessarabia. Il congresso di Vienna portò alla Russia il reame
della Polonia, cosicché ora quasi i nove decimi dell’originario territorio polacco erano unificati con la Russia. Più
di tutto ciò però contava la posizione europea che lo zar ora occupava. Sul continente europeo non aveva più rivali
[…] Mai prima di allora la Russia aveva detenuto una posizione tanto imponente”; e Russia, Austria e Prussia
costituirono la Santa Alleanza in funzione controrivoluzionaria, ergendosi a “gendarmi” della reazione. Questo
ruolo della Russia venne confermato nel 1848-1849, con gli interventi militari prima nei principati di Moldavia e
Valacchia e poi in Ungheria.
Non stupisce che fosse opinione comune negli ambienti radicali e liberali che la potenza russa fosse pericolosa
per ogni sviluppo democratico in Europa e che avesse una innata tendenza espansionistica. Marx ed Engels
condividevano questa opinione. Marx la documenta elencando l’allargarsi delle frontiere russe nel corso di un
secolo e mezzo e richiama il cosiddetto “testamento” di Pietro I (un testo che in cui veniva illustrata la politica
estera che la Russia avrebbe dovuto seguire; i primi dubbi sulla sua autenticità sorsero nel 1854, un anno dopo la
pubblicazione dell’articolo di Marx, ma la prima smentita ufficiale russa arrivò nel 1878, ma essendo stata fatta
proprio durante l’ennesima guerra russa all’Impero ottomano non risultò molto credibile…) e testi ancora
precedenti per illustrare questa tendenza espansionista.
Marx ed Engels hanno sottolineato con forza la natura “non europea” della società e dello Stato russo, la loro
natura “asiatica”, o “semiasiatica”. Lo Russia, per Marx ed Engels, era una creatura del dominio mongolo-tataro
del XIII-XIV secolo, “fu nella terribile e abietta scuola della schiavitù mongola che fu allevata e crebbe la Moscovia.
Acquistò forza e potere solo perfezionandosi nell’arte della servitù”, “il pantano sanguinoso della schiavitù
mongola… costituisce la culla della Moscovia, di cui la Russia moderna non è che una metamorfosi”; lo Stato era
l’espressione di un “dispotismo orientale”, “la forma più rozza di Stato” per Engels. La società russa era segnata
sia da una “servitù” nobiliare allo Stato, sia da una servitù contadina con forti tratti schiavistici. Non ha senso
chiedere chi fosse la classe dominante in Russia: non certo i contadini, servi mezzi schiavi, non certo una borghesia
quasi inesistente, non certo una nobiltà asservita allo Stato. Gerschenkron coglie nel segno affermando che “lo
Stato di Pietro… non era di questa o quella classe, ma era lo Stato dello Stato”, mentre nella società doveva regnare
il “silenzio”. “Il segreto dei successi della diplomazia russa abroad consisteva nel silenzio di tomba of Russia at
home”. “Il silenzio è la virtù degli schiavi” ricordava Marx parafrasando Heine.
Potenza barbarica nel senso pieno del termine, dunque, ma anche guidata verso il dominio mondiale, figlia degli
analoghi incubi dell’Impero nomade mongolo-tataro: “la politica della Russia è immutabile… la stella principale
della sua politica è una stella fissa – il dominio del mondo”. E nel corso del XVIII e XIX secolo era diventata
davvero una potenza mondiale, ancora in espansione. Per questo per Marx ed Engels la Russia era una minaccia
costante alle società europee, in grado, se vincente, di distruggere tutto lo sviluppo sociale di secoli. Solo la
distruzione dello zarismo poteva permettere l’emancipazione borghese e in prospettiva proletaria dell’Europa, per
cui nel 1849 scrivevano sulla “Neue Rheinische Zeitung”: “l’odio per i russi è stato ed è ancora la prima passione
rivoluzionaria dei tedeschi […] una guerra europea verrà, deve venire. Dividerà l’Europa in due campi militari… da
una parte la civiltà, dall’altra la barbarie [...] ogni riforma sociale resta un’utopia fino a che la rivoluzione proletaria
e la controrivoluzione feudale non si sono misurate con le armi in una guerra mondiale […] Nel congedarci
ricordiamo ai nostri lettori le parole del nostro primo numero di gennaio: ‘Insurrezione rivoluzionaria della classe operaia
francese, guerra mondiale: ecco il sommario dell’anno 1849’”. Per questo durante la guerra di Crimea sia loro che i cartisti
chiedevano a gran voce una “vera guerra” alla Russia.
Le peculiarità dello Stato zarista lo portavano a privilegiare gli strumenti diplomatici a quelli strettamente
militari. Nel XVIII secolo, non avendo una “logica dinastica”, come quella europea dominante (il che non escludeva
che venissero usate anche delle modalità dinastiche, come strategie matrimoniali, ecc.), era in grado di adottare una
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politica che all’epoca appariva “non convenzionale”. Infatti quello che allarmò e confuse l’Europa di allora
(“curiosità, incredulità e crescente stupore”, per Venturi) fu questo carattere non convenzionale della politica estera
russa, molto spregiudicata, che giocava sulle debolezze e indecisioni altrui, interferendo nella vita politica interna
degli altri stati (avversari o alleati), dedicandosi a “eccitar le rivoluzioni” tra i sudditi dei suoi avversari e a “fomentar
torbidi”, a “suscitare e utilizzare i fermenti di rivolta esistenti... ovunque potessero esser messi in dubbio e in
pericolo i vecchi equilibri e le dominazioni tradizionali” (Venturi). Engels, ricapitolando la politica estera russa nel
1890 scriveva che “la diplomazia russa zarista metteva il suo zampino in tutte… [le] congiure e insurrezioni; non
che le avesse suscitate o che avesse anche solamente contribuito ai loro successi momentanei in modo essenziale.
Ma attraverso i suoi agenti ufficiosi, faceva quel che poteva per seminare discordia […] La diplomazia russa
costituisce in un certo senso un moderno ordine dei gesuiti… La politica estera [la politica diplomatica] rappresenta
il lato forte – molto forte – dello zarismo”. La Russia è “questa potenza barbarica, la cui testa è San Pietroburgo e
le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali d’Europa”. Venturi, riprendendo commenti giornalistici della fine
del settecento, afferma da parte sua che “Pietroburgo pareva aver adottato la morale [pieghevole] della Compagnia
di Gesù, tanto generosamente ospitata nella Russia di Caterina II”. Per questo “lavoro” lo Stato russo utilizzò,
all’occorrenza reclutando all’estero, “personale specializzato”: “una banda di avventurieri” nelle parole di Engels,
spregiudicati quanto era necessario nel loro operare “a beneficio della politica espansionista russa”, come i famosi
Pozzo di Borgo e Nikolai Ignatiev.
Ma dopo la guerra di Crimea il silenzio russo si ruppe, con la morte di Nicola I, una ondata crescente di rivolte
contadine, il risveglio della Russia intellettuale. Il 29 aprile 1858 Marx scriveva a Engels che “il movimento di
emancipazione della servitù della gleba in Russia segna l’inizio di una storia interna del paese”; Engels ritornando
sull’argomento trentadue anni dopo scrisse che fu “l’inizio di una storia interna della Russia, di un movimento
spirituale all’interno della nazione stessa e come suo riflesso di una per quanto debole opinione pubblica che andava
vieppiù affermandosi, sempre meno trascurabile”. Non certo grazie alla nobiltà, che invece rifiutava la propria
emancipazione e si stringeva sempre di più attorno allo zarismo: “nulla impediva al governo di scaricare la questione
del servaggio sulle spalle della nobiltà fondiaria… Questa scelta avrebbe implicato il lasciar mano libera alla nobiltà.
Ora, il punto è che la nobiltà non era pronta ad accettare questa libertà e quest’onere. Essa aveva paura dei
contadini, e aveva pertanto bisogno del bastione dello Stato… la nobiltà provinciale non poteva pensarsi priva
dello schermo protettore dello Stato; e ciò le faceva accettare la propria subordinazione, l’assenza di un’autonomia
corporativa”.
Nel gennaio 1860 per Marx “il fatto più grosso che sta accadendo ora nel mondo è, da una parte, il movimento
degli schiavi d’America, apertosi con la morte di Brown, dall’altra, il movimento degli schiavi in Russia” - Engels
gli rispose che “la tua opinione sull’importanza del movimento degli schiavi in America e in Russia trova sin d’ora
conferma”. Fino al decennio ‘820 il sistema russo riuscì ma reggere, ma successivamente i limiti imposti dal lavoro
servile con forti tratti schiavistici divenne un limite via via maggiore all’assolvimento delle necessità economiche, e
di conseguenza militari, dato il confronto e la concorrenza con un mondo dove si affermavano relazioni borghesi
e ricchezza capitalistica. Il problema era in ultima analisi senza soluzione: “è impossibile emancipare la classe
oppressa senza recare danno alla classe che vive su quell’oppressione, e senza al tempo stesso sconvolgere l’intera
sovrastruttura dello Stato fondato su una così triste base sociale”.
L’emancipazione contadina, i tentativi da parte dello Stato di avviare un processo di modernizzazione a spese
degli stessi contadini “liberati”, la nascita e lo sviluppo di movimenti rivoluzionari interni, cambiano radicalmente
la situazione. Il “pericolo russo” nei confronti dell’Europa permane, ma a dagli anni ‘860 esclusivamente come uno
strumento di salvezza della borghesia europea contro il proletariato. La agognata distruzione dello zarismo è
all’ordine del giorno non più grazie a una “guerra europea”, in cui le borghesie europee avrebbero scelto il proprio
posto a fianco dello zarismo, ma grazie a una rivoluzione interna. Marx ed Engels la considerano inevitabile a
partire dagli anni ‘870, e si augurano una sconfitta russa contro i turchi nel 1877-78 perché questo avrebbe
accelerato la rivoluzione russa. Marx ed Engels vedono quest’ultima come la chiave di volta dell’emancipazione
proletaria in Europa occidentale: la rivoluzione russa avrebbe “lasciato sole” le borghesie europee di fronte al
proletariato, e sarebbe stata il segnale che avrebbe dato avvio alla rivoluzione sociale. In questo quadro una guerra
europea sarebbe stata una catastrofe, che avrebbe interrotto il naturale sviluppo della rivoluzione in Russia e del
movimento operaio in Europa occidentale.
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L’Impero ottomano
Marx ed Engels si occuparono della Turchia, dell’Impero ottomano, in occasione di crisi internazionali relative
alla cosiddetta “Questione d’oriente”. Le loro prese di posizione si concentrarono conseguentemente durante la
guerra di Crimea, la crisi del 1875-1878 e gli anni ‘880. Mi limito alle loro letture delle società e dell’Impero
ottomano a partire dal 1875, molto diverse da quelle iniziali.
La valutazione dei “turchi” era entusiasta: “Ogni altro popolo sarebbe stato mandato in rovina dai quattrocento
anni di corruzione, derivante dai bizantini, della capitale – i turchi non devono far altro che eliminare lo strato
superiore, per essere [militarmente] completamente all’altezza della Russia. Tradimento, venalità dei capi
dell’esercito e dei comandanti delle fortezze, sperpero del denaro destinato all’esercito, appropriazioni indebite di
ogni genere, tutto ciò che rovinerebbe qualunque altro stato, è in Turchia abbastanza rilevante, ma tuttavia non
tanto da farli soccombere”; “l’unico pericolo per i turchi sta nell’intromissione della diplomazia europea, e
soprattutto di quella inglese, che trattenga i turchi dall’impiegare senza remore i loro mezzi di combattimento e
pretenda da loro che accettino le provocazioni più inaudite”. Marx ed Engels si esprimevano sui contadini turchi
in questi termini:
Fintanto che la massa popolare - in questo caso il contadino turco... – è sana, ed è così, una
simile comunità orientale può reggere colpi assolutamente incredibili […] il vigoroso soldato
comune, figlio del vigoroso contadino turco, trovò... l’occasione di rimediare i danni provocati
dai pascià corrotti [nel 1806]. I turchi potevano essere battuti, ma non domati […] il contadino
turco – quindi la massa del popolo turco - … abbiamo imparato a conoscerlo come uno dei
rappresentanti in assoluto migliori e più onesti del ceto contadino in Europa.
Data questa valutazione estremamente positiva dei turchi, il fatto che non abbiano “fatto una rivoluzione” a
Costantinopoli si tramuta in una “colpa storica”: “i turchi hanno trascurato di fare una rivoluzione a Costantinopoli,
così l’incarnazione del vecchio governo del Serraglio – Machmud Damad – il cognato del Sultano, rimase la vera
guida della guerra; esattamente come se il governo russo avesse diretto di persona la guerra contro se stesso…
[una] colpa storica dei turchi. Un popolo che in tali momenti di altissima crisi non sa intervenire in senso
rivoluzionario è perduto”.
Sicuramente a termine l’impero turco era destinato alla dissoluzione, ma per le sue istituzioni, non per
caratteristiche intrinseche alla popolazione turca in quanto tale: “la dominanza turca... come tutte le dominazioni
orientali, è incompatibile con la società capitalistica; il plusvalore arraffato non è al sicuro davanti all’arbitrio di
rapaci satrapi e pascià; manca la prima condizione fondamentale del profitto borghese: la sicurezza della persona
commerciante e della sua proprietà”. Ma gli eventuali progressi della società capitalista verso la Turchia anziché
esser visti positivamente erano visti negativamente. Mentre nel 1853 venivano magnificati i progressi serbi
dall’indipendenza dalla Turchia, ora il giudizio è ribaltato: “I serbi invece, che da 80 anni sono liberi dai turchi,
hanno mandato in rovina le loro vecchie istituzioni gentilizie con una burocrazia e una legislazione di scuola
austriaca, e perciò si sono fatti battere inevitabilmente dai bulgari. Dai ai bulgari 60 anni di sviluppo borghese –
dove tuttavia non concludono nulla – e di governo burocratico e saranno rovinati come adesso i serbi”. Anche i
contadini cristiani nella Turchia europea stavano meglio sotto l’impero turco, dove godevano di “pieno
autogoverno”: “Il contadino cristiano sotto dominazione turca si trovava materialmente meglio che da qualsiasi
altra parte. Aveva conservato le sue istituzioni pre-turche, la sua totale autonomia amministrativa; fin quando
pagava le tasse il turco in genere non si occupava di lui; soltanto raramente era esposto a violenze come quelle che
il contadino dell’Europa occidentale doveva sopportare da parte della nobiltà europea del Medioevo. Era una
esistenza indegna, giusto tollerata, ma non depressa materialmente, non inadeguata allo stato culturale dei popoli
di quest’epoca, e così durò a lungo fino a che il raya slavo scoprì che questa esistenza era insopportabile”. “I
bulgari… finora si comportano inaspettatamente bene… Ciò lo devono al fatto di esser stati così a lungo sotto i
turchi, i quali hanno tranquillamente conservato i vecchi resti delle loro istituzioni gentilizie e hanno ostacolato –
con i saccheggi dei pascià – solo la nascente borghesia. … Per i bulgari, come per noi, sarebbe stato infinitamente
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meglio se fossero rimasti turchi fino alla rivoluzione europea; le istituzioni gentilizie sarebbero state un eccellente
punto d’aggancio per lo sviluppo nel comunismo, proprio come il mir russo, che adesso ci viene anch’esso distrutto
sotto il naso”.
A fronte di una rivoluzione in Russia
l’Europa perde ogni interesse all’esistenza di questo agglomerato bizzarro ed eterogeneo di
popoli. Altrettanto indifferente diviene allora tutta la cosiddetta questione orientale, la
persistenza della dominazione turca nelle regioni slave, greche e albanesi e la disputa per il
possesso dell’accesso al mar Nero che a quel punto nessuno può più monopolizzare contro
l’Europa. Magiari, rumeni, serbi, bulgari, arnauti, greci e turchi, si troveranno infine nella
posizione in cui risolveranno i loro reciproci motivi di litigio senza l’ingerenza da parte di una
potenza straniera, fisseranno tra di loro le frontiere dei loro singoli territori nazionali,
regoleranno i loro affari interni secondo il proprio giudizio. D’un sol colpo si vede come il
grande impedimento all’autonomia e al libero raggruppamento di popoli e frazioni di popoli
tra i Carpazi e il mare Egeo stava proprio nello zarismo che aveva utilizzato la presunta
liberazione di questi popoli come manto di copertura per mascherare i suoi piani di
dominazione mondiale.
La posizione di Engels è così riassunta nel 1886:
Come stanno le cose adesso la mia opinione è questa: 1) Appoggiare gli slavi del Sud se e fino
a quando vanno contro la Russia, poi essi andranno col movimento europeo rivoluzionario. 2)
Se essi però vanno contro i turchi, pretendono cioè à tout prix l’annessione dei pochi serbi e
bulgari [che sono] ancora adesso turchi, consapevolmente o inconsapevolmente lavorano per
la Russia e quindi noi non possiamo collaborare. Questo può essere ottenuto solo rischiando
una guerra europea e non ne vale la pena, quei signori devono aspettare, proprio come gli
alsaziani, i lorenesi, i trentini ecc. Inoltre, ogni nuovo attacco contro i turchi – nelle condizioni
attuali – potrebbe avere come unica conseguenza il fatto che le piccole nazioncine vittoriose –
ma vittoriose lo potrebbero diventare solo per mezzo dei russi – o entrerebbero direttamente
sotto il giogo russo oppure – cfr. la carta linguistica della penisola – si accapiglierebbero
irrimediabilmente tra di loro. 3) Ma non appena scoppia la rivoluzione in Russia, quei signori
possono fare ciò che vogliono. Dopo però si accorgeranno che anche coi turchi non la
spunteranno.
Marx ed Engels vedevano la Turchia, come la Russia, come una società non assimilabile a quelle dell’Europa
occidentale, radicalmente diverse dal quel feudalesimo un tempo lì imperante e che nell’ottocento aveva in una
serie di paesi importanti residui ancora esistenti, che condizionavano società e Stati.
Le mie conclusioni, da uno studio che ho condotto sulla società turca, sono che la società contadina turca con
il tributo di sangue versato durante il collasso del XVII secolo ha vissuto una sorta di “azzeramento” nella sua
articolazione sociale, con la quasi scomparsa sia del suo strato superiore, sia di quello (ben più ampio) inferiore.
Nel XVIII secolo questa società riprende a svilupparsi, iniziando un nuovo sviluppo demografico, diventato
impetuoso il secolo successivo, e ad autoaffermarsi in un quadro in cui il controllo sociale è inferiore a quello del
XVI secolo. A questo proposito basti ricordare come in ambito urbano nel corso del XVIII secolo i giannizzeri,
perdendo il loro status privilegiato, diventino artigiani, commercianti, lavoratori generici, ma mantenendo il loro
potere militare; organizzati, armati, diventano uno strumento della sovranità popolare, temuti e odiati dai sultani e
da tutta l’aristocrazia di corte, per cui erano solo degli “scorpioni” da sterminare. Dopo il secolo del “recupero”,
questa società contadina, grazie anche a una positiva congiuntura nei prezzi agricoli internazionali, vive tra il 1820
e il 1873 un momento di particolare crescita, con un alto tasso di commercializzazione; iniziano a delinearsi dei
processi di differenziazione al suo interno, ma nei primi due terzi del secolo rimangono embrionali. Questa
dinamica permette a mio avviso di dare un senso alla realtà piccolo contadina quale si presentava nel 1878 (realtà,
ça va sans dire, storicamente provvisoria), e a riconoscere genesi, sconfitte, conquiste e tenacia di quel “contadino
turco” che tanta ammirazione aveva suscitato sia in Marx che in Engels.
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Marx ed Engels cambiarono quadro d’analisi nel corso del quarto di secolo che intercorre dall’inizio della guerra
di Crimea alla guerra russo-turca del 1877-1878. Alcuni fattori sono cambiamenti obiettivi: il mutamento della
situazione internazionale, il sorgere e l’affermarsi del movimento rivoluzionario russo, la fine di ogni ruolo
progressista della borghesia. Altri fattori sono invece cambiamenti teorici nell’analisi di Marx ed Engels, derivanti
dagli approfondimenti e dall’esperienza accumulati in quel venticinquennio, come la nuovi studi sulle realtà
contadine; la scoperta delle “vecchie istituzioni gentilizie” nelle società contadine, e del ruolo progressista che
potrebbero avere nel futuro di un’umanità libera dal capitalismo – scoperta fatta sia sulla base dello studio delle
contemporanee strutture agrarie russe, sia dello sviluppo storico delle società più antiche; e come la scoperta che
la diffusione del capitalismo nelle società tradizionali poteva avere effetti regressivi nel lungo periodo, non solo
congiunturali in una fase transitoria, allorquando si vengono a creare situazioni coloniali o semicoloniali.
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Marx ed Engels (3). Il sistema di Stati europeo.
Dopo questa carrellata si potrebbe concludere che davvero Marx ed Engels non avevano una teoria delle
relazioni internazionali, ma non nel senso in cui comunemente si intende tale affermazione, cioè che Marx ed
Engels abbiano fatto una serie di analisi puntuali tra loro incoerenti e contraddittorie. Le loro analisi sono in realtà
coerenti, e le contraddizioni che vengono rilevate lo sono perché non si coglie la logica del loro approccio. Ma si
potrebbe lo stesso affermare che non avevano una teoria delle relazioni internazionali perché per loro questo non
era un ambito analizzabile in sé, perché sono la risultante di una serie di politiche di classi sociali e di frazioni di
classi che si sviluppano sempre a un livello nazionale e al contempo internazionale. Storia, società, classi, politiche,
contingenze, tutte queste pluralità nelle loro interrelazioni concorrono a formare una politica mondiale in cui non
è possibile estrarre un ambito separato denominato “teoria delle relazioni internazionali”. Ma questo non esaurisce
ovviamente l’analisi, perché se Marx ed Engels non hanno mai pensato che fosse possibile una “teoria delle
relazioni internazionali” hanno tuttavia analizzato le relazioni internazionali in cui erano immersi come un
“sistema” internazionale dato, con una propria logica, una propria dinamica, con contraddizioni specifiche, con
una data di nascita e una di morte prevista. Un “sistema degli Stati” formato da tutte le società e le forze sociali
che abbiamo passato in rassegna, e che al contempo ha determinato lo sviluppo di queste stesse società e forze
sociali. E hanno anche sostenuto che la fine di questo sistema sarebbe sfociato in una guerra europea generale, e
non in qualcos’altro, un nuovo equilibrio, o un periodo indefinito di instabilità relativa. Tutti elementi per nulla
scontati: è davvero esistito un “sistema internazionale”? In cosa consisteva? Perché doveva terminare con una
guerra? Alla prima domanda Schroeder, uno dei più importanti studiosi di storia diplomatica, risponde
affermativamente, affermando che un “sistema”, cioè un insieme di vincoli, possibilità e regole che legavano tra
loro le Potenze europee, è esistito tra il 1815 e la guerra di Crimea, terminata con la pace di Parigi del 1856, ed era
esemplificato dall’esistenza del “Concerto europeo”, cioè l’esistenza di regole non scritte per cui a fronte di crisi
internazionali le grandi Potenze si consultavano tra loro trovando una soluzione alle crisi insorte; Schroeder inoltre
sostiene che questo “sistema” sopravvisse alla guerra di Crimea in termini di una cultura politica internazionale
condivisa, che scomparve nei primi anni del XX secolo. Il giudizio di Schroeder è positivo su questo “sistema”, in
quanto fece sì che nessuna guerra generale sconvolgesse l’Europa per ben un secolo, dal 1815 al 1914. Marx ed
Engels non avevano una visione così irenica del sistema internazionale varato dal Congresso di Vienna nel 1815,
la cosiddetta “era di Metternich”, che consideravano invece reazionario, oppressivo, e da distruggere, e per loro
non era una cultura politica condivisa a livello internazionale che permetteva la pace, ma fattori materiali e interessi
concreti. Per analizzare questo “sistema” nella loro ottica introduco una differenza, solo implicita nei loro scritti,
tra interessi di classe sostanziali e prudenziali, differenza messa in luce dalla Benner:
interessi sostanziali a livello economico e politico, e interessi prudenziali, che si formano nel
processo di contrapposizione, di conflitto con altre classi. Il primo insieme di interessi spiega
l’azione di classe con i fini che si pongono gli attori di questa classe. Il secondo insieme si
riferisce invece a interessi negativi di autopreservazione, che diventano di primaria importanza
quando gli sforzi per assicurarsi gli interessi sostanziali vengono bloccati o deviati
dall’opposizione delle altre classi e delle istituzioni che le sostengono.
Per Marx ed Engels un “sistema degli Stati” europeo venne varato tra il 1763 e il 1772, tra la fine della guerra
dei sette anni e la prima spartizione della Polonia, ed era ancora funzionante alla morte di Engels, nel 1895.
Consisteva, come si è visto, in una alleanza anglo-russa sulle spoglie del precedente predominio franco-svedese, il
dominio marittimo e mondiale dell’Inghilterra, la supremazia continentale russa, ottenuta grazie all’attiva
“riconoscenza” prussiana a San Pietroburgo e alla neutralizzazione degli Asburgo, e il “congelamento” dell’Impero
ottomano per bloccare l’ingresso della Russia nel mar Mediterraneo, riserva britannica. La supremazia di una Russia
immobile, garante dello status quo, e il predominio economico inglese incontrastato erano i poli di un campo di
forze che delimitava vincoli e possibilità per tutti gli attori e stabiliva le regole del sistema internazionale, ed era un
“sistema” di Stati nella misura in cui le classi e le frazioni di classe nazionali accettavano questi vincoli e possibilità
offerti dal seguire una serie regole, norme, procedure – come in una partita di poker ciascuno cercava di spennare
tutti gli altri, ma accettando (o fingendo di accettare) le regole del gioco. Ma a differenza di una partita di poker, i
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partecipanti non erano su un piano di parità, perché permetteva il raggiungimento degli interessi sostanziali –
aumentare il proprio potere, la propria supremazia, il proprio commercio, la propria ricchezza – di qualcuno a
scapito di altri, a favore dei due attori principali, l’autocrazia zarista e la “vecchia borghesia” britannica, e a scapito
degli altri attori sociali europei. Si trattava di un “sistema” che assicurava un predominio feudale e “asiatico” sul
continente, con la marginalizzazione della Francia, alla cui guida vi era un’aristocrazia parassitaria e nella cui società
i rapporti borghesi erano penetrati talmente in profondità da condizionarne lo sviluppo, e con il mantenimento
dell’estrema frammentazione germanica tra i due poli pienamente feudali del Regno di Prussia e dell’Impero
asburgico.
Come può un tale sistema, feudale e “asiatico”, sopravvivere per più di un secolo? I cambiamenti nel quadro
europeo sono stati impressionanti, e per potere rispondere a questa domanda bisogna distinguere, come Schroeder,
tra il periodo fino alla guerra di Crimea e quello successivo. In effetti dal 1858 una serie di processi si mettono in
moto e cambiano radicalmente la situazione, che si assesta suppergiù verso il 1873.
Il Congresso di Vienna fu l’esito della vittoria della coalizione antifrancese nel 1814-1815, episodio finale di una
serie di guerre iniziata nel 1792, prima contro la Francia rivoluzionaria, poi contro quella napoleonica. La vittoria
fu in primo luogo dell’Inghilterra e della Russia, e questo Congresso di conseguenza ratificò il sistema europeo
preesistente, rafforzando ulteriormente il potere “asiatico” della Russia. Ma già molto era cambiato: i vecchi Stati
feudali erano scomparsi lasciando spazio a Stati assolutisti, con i primi, per quanto limitati passi verso l’abolizione
della servitù contadina, dalle riforme di Maria Teresa e Giuseppe II alla “salvifica” sconfitta di Jena; in Francia la
vecchia aristocrazia parassitaria aveva lasciato il posto a un dominio che, pur scimmiottando l’ancien règime, era
pienamente borghese; e in Inghilterra prendeva sempre più piede la “nuova borghesia” e la situazione era matura
per l’apparire delle prime lotte e organizzazioni operaie. Solo la Russia era immune da questi sommovimenti sociali.
A fronte di questa situazione Marx, anni dopo, affermò che il Congresso di Vienna “rattoppò” il vecchio “sistema
degli Stati”. L’ordine feudale e “asiatico” dell’Europa già nel 1815 non corrispondeva più all’ordine sociale
effettivamente esistente.
Per circa trent’anni questa situazione resse a tutte le crisi e gli scossoni, dalla rivoluzione in Francia del 1830,
alla secessione del Belgio, alle varie crisi orientali e polacche. Ma le grandi rivoluzioni del 1848, che misero in
discussione tutte le potenze europee eccetto la Russia, non riuscirono a rompere quest’ordine reazionario solo
grazie a una svolta storica di portata immensa, la rinuncia delle borghesie europee (in specifico quella tedesca) ad
avere un qualsiasi ruolo rivoluzionario contro le aristocrazie e le monarchie semifeudali, per timore di un’ascesa
delle rivendicazioni e delle lotte operaie. Il periodo delle rivoluzioni borghesi “dal basso” era storicamente concluso.
Solo questo permise al vecchio “sistema” di reggere alle tempeste quarantottesche. Ma dopo il ’48 seguì un altro
avvenimento storico allora stupefacente, la rinuncia al potere politico della borghesia francese, che lo consegnò a
un avventuriero da strapazzo, l’autonominato Napoleone III. Sia l’abdicazione a un ruolo rivoluzionario nel 1848
in Germania, sia la rinuncia sic et simpliciter al potere politico nel 1851 in Francia, da parte della borghesia,
preannunciavano avvenimenti e processi che avrebbero avuto un impatto direttamente internazionale nel periodo
di transizione tra il 1858 e il 1873.
Dopo la “colossale commedia degli errori” della guerra di Crimea una serie di processi si scatenarono. In primo
luogo, la fine del monolitismo russo, con le rivolte contadine e l’ “emancipazione” loro concessa, il risveglio
intellettuale, la formazione di movimenti rivoluzionari – alla metà dell’870 la rivoluzione in Russia era all’ordine del
giorno. La Russia da “grande salvatore” per tutte le forze più reazionarie europee era diventato un “grande malato”,
su cui tutti si affacciavano timorosi che potesse esser scosso da una rivoluzione dalle dimensioni e dagli esiti
inimmaginabili. In secondo luogo, iniziò l’era delle rivoluzioni borghesi “dall’alto”, grazie a delle alleanze tra
borghesie e aristocrazie semifeudali, che si piegarono alla trasformazione ma senza rinunciare in nulla alle proprie
prerogative politiche, sociali ed economiche. Così si ebbe prima l’unificazione italiana e poi quella tedesca, sia pur
su scala ridotta, e ottenuta a prezzo di una frattura insanabile con la Francia, grazie all’annessione dell’AlsaziaLorena nel 1871. La Russia assistette impotente all’unificazione tedesca illudendosi che grazie alla direzione
prussiana nulla fosse cambiato, grazie alla secolare “riconoscenza” degli Hohenzollern. San Pietroburgo aveva
ragione sulla “riconoscenza”, ma torto sulla valutazione della situazione che si era venuta a creare: l’unificazione
tedesca era in sé un elemento che cambiava le carte in tavola nei rapporti di potere sul continente, e una
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contraddizione si apriva tra una Germania di fatto emancipata dalla tutela russa e una Russia che non poteva
rinunciare a una secolare supremazia. Infine, in Inghilterra la “nuova borghesia” rinunciò a conquistare il potere
politico che ricercava da anni, e si accontentò di un compromesso spurio con le vecchie aristocrazie, con la “vecchia
borghesia”; e in contemporanea iniziò il relativo declino industriale rispetto a paesi come la Germania e gli Stati
uniti, e l’assoluto declino agrario a favore di paesi come gli Stati uniti e l’Argentina. Last, but not least, emerse un
movimento operaio organizzato a livello internazionale, con la nascita dell’Associazione internazionale dei
lavoratori, e la “Repubblica rossa” uscì dal novero degli incubi notturni borghesi e fece ingresso nella tangibile
realtà della Comune di Parigi. In tutto questo turbinio di avvenimenti, i potenti che usarono “mezzi rivoluzionari”,
che non rispettavano le regole del “sistema” europeo, come Cavour e Bismarck, lo fecero in modo rapido e
puntuale, prendendo tutte le precauzioni del caso e rientrando nelle regole subito dopo l’ottenimento del risultato
ricercato. Ma dopo quindici anni di trasformazioni radicali l’Europa aveva cambiato volto in tutto e per tutto. La
fine del “sistema” europeo era all’ordine del giorno?
Marx ne era convinto. Nel gennaio 1878, nell’ennesima crisi orientale, la Russia riuscì a infliggere una sconfitta
storica all’Impero ottomano, più che per la forza del proprio esercito e dei suoi generali, per i tradimenti consumati
nei centri dirigenti del campo avverso. A febbraio Marx scrisse una lettera destinata alla pubblicazione in cui
affermava:
Naturalmente sullo sfondo del successo russo vi è… Bismarck. Questi fondò l’Alleanza dei Tre
Imperatori, attraverso la quale l’Austria fu tenuta tranquilla. Anche dopo la caduta di Pleven,
all’Austria sarebbe bastato mettere in campo soltanto 100.000 uomini – e i russi avrebbero
dovuto ritirarsi in silenzio oppure accontentarsi di risultati più modesti. L’abdicazione austriaca
diede fin dall’inizio il sopravvento al partito russo in Inghilterra, dato che la Francia (a seguito
della catastrofe post-sedaniana – catastrofe dopo Sedan – favorita dal signor Gladstone, allora
primo ministro) per l’Inghilterra non esisteva più come potenza militare continentale. La
conseguenza è semplicemente la dissoluzione dell’Austria, che è inevitabile, se le condizioni di
pace russe vengono accettate e quindi la Turchia (per lo meno in Europa) continuerà ad esistere
solo formalmente. La Turchia costituiva la diga dell’Austria contro la Russia e il suo seguito slavo…
Ma la Prussia in quanto Prussia – quindi nella sua specifica contrapposizione con la Germania
– ha ancora altri interessi: la Prussia in quanto tale è la sua dinastia, è diventata ed è ciò che è su
“pegno” russo. Una sconfitta della Russia – la rivoluzione in Russia – sarebbe la campana a
morto per la Prussia. Altrimenti persino il signor von Bismarck, dopo la grande vittoria sulla
Francia, dopo che la Prussia [è] divenuta la prima potenza militare d’Europa, non le avrebbe
attribuito di nuovo di fronte alla Russia la stessa posizione che essa assunse nel 1815, come
quinta ruota della vettura degli Stati europei […] Ma tutta la faccenda ha anche altri aspetti. La
Turchia e l’Austria erano l’ultimo baluardo del vecchio ordinamento degli Stati europei, che
venne di nuovo rattoppato nel 1815: con il declino di quello esso crolla completamente. Il crollo,
che si compirà in una serie di guerre (“localizzate” e infine “generali”), accelera la crisi sociale…
e con essa la decadenza di tutte queste bellicose shampowers (potenze fittizie).
Lo stesso giorno in una lettera privata specificava:
Turchia e Austria erano gli ultimi puntelli del vecchio sistema di Stati d’Europa… Ora avrà
definitivamente la peggio, spirando in una successione di guerre che faranno precipitare la crisi
sociale e inghiottiranno tutte le cosiddette Potenze, quelle potenze fasulle, vincitrici e vinte, per
lasciare posto a una Rivoluzione Sociale Europea.
Tra giugno e luglio dello stesso anno il Congresso di Berlino ridimensionò le conquiste russe (la “vittoria
mutilata”) e diede nuovo ossigeno all’Impero ottomano, pur consegnando di fatto la Bosnia all’Austria. A settembre
Marx scrisse:
Per me è cosa certa che nulla di ciò che la Russia e la Prussia possono fare ora into the
bargain (in più) nel teatro mondiale può avere altre conseguenze perniciose se non quelle
per il loro regime, né [può] frenare il crollo di questo stesso, bensì solo affrettarne la
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spaventosa fine.
Tralasciamo per il momento la questione della “guerra inevitabile” e consideriamo gli assetti internazionali
esistenti in Europa tra il 1873 e il 1895. In primo luogo, Marx afferma che il vecchio “sistema” è ancora in piedi:
come è possibile che un sistema feudale e “asiatico” fosse ancora all’opera nel capitalistico 1878? Lo era davvero?
E se sì perché? Inoltre, Marx afferma che Turchia e Austria erano gli ultimi puntelli, erano l’ultimo baluardo di
questo sistema, e che con il loro declino il sistema era destinato a crollare. Perché Turchia e Austria avevano tutta
questa importanza? Perché non i grandi paesi europei, Russia, Inghilterra, Francia, Germania? Perché il sistema
avrebbe dovuto crollare con il declino di Austria e Turchia? Per completare il quadro aggiungo che sia Marx che
Engels ritenevano inevitabile a termine una rivoluzione in Russia, e che se questa fosse intervenuta prima del crollo
del sistema degli Stati europeo avrebbe portato a una rivoluzione sociale nei paesi europei, rivoluzione sicuramente
vittoriosa in quanto le varie borghesie sarebbero state private delle risorse militari costituite dal “bastione della
reazione” zarista. La velocità rispettiva dei due processi, verso la rivoluzione in Russia e verso il crollo del sistema
internazionale europeo, avrebbe deciso il futuro dell’Europa.
L’assetto europeo tra il 1878 e il 1895 era certamente del tutto anacronistico, ma continuava a operare – lo
dimostra il Congresso di Berlino che limitò la vittoria russa in oriente e rafforzò Costantinopoli e Vienna. Nei
rapporti tra Russia ed Europa continentale si venne a creare uno strano gioco di reciprocità: da un lato la debolezza
russa faceva paura a tutte le potenze, in specifico alle classi dominanti di Germania e a quelle di Francia, entrambe
pronte a soccorrere lo zarismo; dall’altro lato la frattura franco-tedesca permetteva a San Pietroburgo, nonostante
la sua dipendenza dagli aiuti esteri, di ergersi ad arbitro tra Francia e Germania, ritrovandosi una supremazia per
così dire di second’ordine. Era la paura a reggere questo equilibrio: la paura del proletariato, la paura della
rivoluzione, la paura reciproca del vicino, a oriente e a occidente, la coscienza – di chiunque – della propria
debolezza di fondo. Il declino inglese si faceva tangibile, le classi dominanti francesi si dilaniavano tra loro dopo il
grande massacro inflitto ai parigini, rei di esser stati comunardi, l’Austria perdeva, dopo la Lombardia, anche il
Veneto a beneficio dell’unificazione italiana, e si costituzionalizzava, ma con una borghesia ancor più pavida, se
possibile, della sua omologa tedesca. Le classi dominanti europee nel 1815 si erano unite contro le forze borghesi,
nell’870 sono al loro servizio, ma tutte con soluzioni di ripiego, di secondo e di terz’ordine. Era il periodo della
complessa diplomazia europea bismarckiana, sviluppata su più tavoli al contempo, in modo da contenere le crisi e
stabilizzare le situazioni anche con manovre tra loro contraddittorie, una politica fatta al contempo di compromessi
e di iniziative spregiudicate. Il sistema degli Stati europei era diventato solo il fantasma di se stesso, composto di
“Potenze fittizie”, che non governavano gli eventi, ma ne erano governati. Il futuro era diventato minaccioso e
incerto, in Europa la crisi iniziata nel 1873 proseguiva senza mai finire, e ogni sviluppo pericoloso in un paese si
ripercuoteva immediatamente sugli altri, sia nel settore bancario e che in quello politico.
La ragion d’essere di questo sistema era che permetteva, nel nuovo quadro sociale europeo, di perseguire gli
interessi delle varie classi dominanti, non gli interessi sostanziali, ma quelli prudenziali: mantenere in piedi la
potenza zarista perché sarebbe potuta tornare utile, ma impedirle di rafforzarsi nell’Europa sudorientale; evitare
una guerra generale rischiosa per tutti; sopravvivere al livello già raggiunto, sia in termini economici, sia a livelli di
confini statali e di influenza internazionale; e soprattutto sopravvivere di fronte alla minaccia costituita dai
movimenti dei lavoratori e in generale dalle classi oppresse e sfruttate. Questi interessi prudenziali delle varie
potenze europee si concretizzavano in due concreti interessi internazionali, tra loro connessi e bilanciati: evitare la
caduta dello zarismo e al contempo operare per il suo contenimento nella regione balcanica, “congelando” l’Impero
ottomano e quello asburgico. In altri termini: evitare la rivoluzione in Russia, ed evitare il crollo del sistema europeo.
Evitare sia la rivoluzione, sia la guerra, e mantenere a tutti i costi lo status quo, anche se anacronistico, ma nel
frattempo lanciarsi in una corsa agli armamenti, sempre utili sia un caso che nell’altro. Non solo Marx ed Engels,
ma anche le classi dirigenti borghesi e aristocratiche semifeudali, ritenevano che l’ingresso della Russia nel
Mediterraneo avrebbe comportato il crollo dell’ordine interstatale europeo, portando allo zenit le tensioni russoinglesi e russo-tedesche, e che questo crollo avrebbe comportato una guerra generale; e che una rivoluzione in
Russia avrebbe portato la rivoluzione in tutto il continente. Le classi dominanti non avevano altra scelta che tentare
disperatamente di bloccare tutti e due i processi la cui velocità decideva del futuro dell’Europa. Riuscirono a
posticiparli entrambi, nulla più.
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Perché un ammuffito e anacronistico “sistema degli Stati europeo” poteva solo terminare con una guerra
generale? Semplicemente perché il crollo dell’ordine europeo era sinonimo di scomparsa di interessi prudenziali
condivisi, e quindi i diversi Stati, le classi, le frazioni di classe che erano al potere, avrebbero iniziato a perseguire
ciascuno i propri specifici interessi sostanziali, che sono per definizione a scapito altrui. Potere, supremazia,
commerci, ricchezza: non tutti possono avere tutte queste cose al contempo, e quale fetta ciascuno potrà ritagliarsi
potrà esser deciso solo dagli esiti di una guerra. Perseguire interessi puramente sostanziali è la concorrenza brutale,
senza regole, arrivare ai propri obiettivi impedendo al concorrente di raggiungere i suoi, in cui c’è sempre un
vincitore e un vinto, in cui il più forte schiaccia il più debole, e se la forza si equivale, allora ci si mette d’accordo a
spese di quelli rimasti più deboli. È la concorrenza fra Stati secondo le modalità della concorrenza dei capitali, “chi
soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo, trasportata,
con accresciuto furore, dalla natura alla società”:
Se il profitto è congruo, il capitale si fa audace. Un 10% sicuro ne garantirà l’impiego dovunque;
un 20% sicuro lo renderà animoso; il 50%, addirittura temerario; il 100% lo spingerà a mettersi
sotto i piedi tutte le leggi umane. Assicurategli il 300%, e non vi sarà delitto che non arrischi,
neppure pena la forca.
D’altronde, come diceva Marx, “la rapacità è il principio vitale di ogni borghesia, e prendere terre altrui è pur
sempre ‘prendere’”. Ma perché dopo anche una guerra generale né Marx né Engels immaginavano un nuovo ordine
internazionale borghese dell’Europa? Intendendo qui, per “Europa”, l’intero mondo capitalista. Per loro l’esito
poteva essere solo la rivoluzione sociale, per cui la futura guerra generale “sarà sicuramente l’ultima”. Di certo il
loro ottimismo rivoluzionario ha avuto un ruolo. Ma perché un “nuovo ordine” potesse reggersi si potevano
immaginare solo due ipotesi: o un ordine imposto con la forza delle armi da parte di uno degli attori, o di un’alleanza
di attori, ma quest’ordine sarebbe stato temporaneo, “a scadenza”; oppure avrebbe dovuto riunire in modo
duraturo degli interessi prudenziali condivisi da tutti gli Stati capitalisti, interessi che potevano fungere da collante
internazionale, costringendoli ad accettare vincoli, opportunità e regole che congelavano parzialmente le loro
rispettive posizioni in un “sistema di Stati”. Ma per definizione solo un fattore non-borghese poteva essere
l’oggetto di questi interessi condivisi di tutte le classi dominanti capitaliste, per proteggersi, per contenerlo, o per
mantenerlo in vita, o tutte queste cose insieme; con la progressiva trasformazione capitalistica della Russia non vi
erano più candidati a questo ruolo.
Guerra e rivoluzione? Marx, nel testo citato, e in altri precedenti, riteneva che una guerra avrebbe
inevitabilmente portato alla rivoluzione in Europa; per lui, in questo periodo, penso sia applicabile una bella poesia
di Brecht del 1953: “Siedo sul ciglio della strada. / Il guidatore cambia la ruota. / Non mi piace da dove vengo. /
Non mi piace dove vado. / Perché guardo il cambio della ruota / con impazienza?”. Ma dal 1879 Engels iniziò a
sostenere, e convincerà Marx nell’anno successivo, che una guerra generale sarebbe stata una catastrofe per il
movimento socialista – che la guerra non avrebbe portato alla rivoluzione, ma l’avrebbe ritardata, posticipata, per
anni se non per decenni. Con una guerra generale, da un lato il potere avrebbe represso nel modo più violento il
movimento operaio, e dall’altro l’isteria sciovinista di massa l’avrebbe sommerso, e così “il nostro movimento
andrebbe in rovina” per 5-10 anni, o per 15-20 anni. Per questo dal 1879 fino alla morte avvenuta nel 1895 Engels
si batté sempre per la pace, e la Seconda internazionale, nata nel 1889, poté a buon diritto qualificarsi come il
partito internazionale della pace. L’importante era operare per posticipare il più possibile il crollo del sistema degli
Stati europeo, e anticipare il più possibile la rivoluzione in Russia, o in Germania, purché ovviamente le condizioni
fossero favorevoli per una vittoria.
Dal 1879 al 1891, per dodici anni, Engels fu ossessionato dall’eventualità di una guerra generale, da una
situazione in cui “alla fine la guerra, invece di apparire uno spaventoso flagello, sembra una crisi salutare, che pone
fine a una situazione insostenibile” – sono decine e decine i suoi testi sull’argomento. La grande catastrofe che
temeva ebbe nella realtà, nel 1914, dimensioni ben più ampie – a fronte dei 10-20 milioni di soldati coinvolti che
lui ipotizzava ve ne furono circa settanta, e i morti anziché la terribile cifra di mezzo milione furono in realtà una
ventina di milioni. Ma scrisse pagine indimenticabili per forza d’espressione, lucidità d’analisi, preveggenza sugli
esiti di una tale guerra. Ma non erano tuttavia delle “profezie”, come non lo erano gli scritti sulla imminenza della
rivoluzione in Russia, o sulle possibilità a breve-medio termine di una rivoluzione in Germania – erano tutte delle
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premesse, derivate da un’analisi complessiva, da cui scaturivano indicazioni politiche per l’azione socialista di massa,
per creare le condizioni internazionali, per modificare gli equilibri internazionali nel senso più favorevole alla
rivoluzione futura. Guerra inevitabile? Senza alcun dubbio, se la situazione europea non fosse cambiata
radicalmente con la rivoluzione in Russia o quella in Europa occidentale, in particolare in Germania; e l’avvento
della prima veniva visto come il sicuro prologo alla seconda. Dilazionabile? Sicuramente, grazie al fatto che chi
poteva darvi avvio erano la Russia, la cui estrema debolezza escludeva però anche una guerra per disperazione, e i
paesi dell’Europa occidentale che, per l’impossibilità di predire l’esito di una tale guerra, e soprattutto per il rischio
che potesse portare a una rivoluzione da parte di un proletariato sempre più conscio e organizzato, arretravano di
fronte alla decisione fatale. La debolezza russa, evidenziata dalle carestie e dalle epidemie che la sconvolsero dal
1891, tranquillizzarono Engels sull’imminenza di questa guerra, e negli ultimi anni di vita i suoi scritti
sull’argomento si diradarono, pur attivandosi nel 1893, con l’opuscolo “Può l’Europa disarmare?”, perché il
movimento operaio fosse portatore di una proposta di disarmo continentale, con la graduale estinzione degli
eserciti regolari e la loro sostituzione con un sistema di milizie con scopi esclusivamente difensivi (una analoga
proposta per la Francia venne sviluppata da Jaurès nel 1911 col volume “L’Armée nouvelle”). Ma le dilazioni non
potevano essere infinite… E soprattutto la guerra poteva arrivare senza che nessuno la volesse: Engels lo scriveva
nel settembre 1887, e ancora nel gennaio 1888 – “appena si sparerà il primo colpo il cavallo prenderà la mano al
cavaliere, e partirà di gran carriera”. Infine, per Engels, in considerazione della centralità della Russia come potenza
che poteva dare inizio alla guerra, il punto critico che poteva far precipitare la guerra generale erano i Balcani, da
un lato perché l’obiettivo dello sbocco nel Mediterraneo per San Pietroburgo era un obiettivo strategico
irrinunciabile, dall’altro perché la Russia poteva essere tentata da una disperata guerra esterna come valvola di sfogo
della crisi interna. Di nuovo il destino dell’Impero ottomano e dell’Impero asburgico erano il sottile filo su cui si
reggeva la pace in Europa. Per questo, come abbiamo già visto, nel 1886 Engels diceva di “appoggiare gli slavi del
Sud se e fino a quando vanno contro la Russia… Se essi però vanno contro i turchi… consapevolmente o
inconsapevolmente lavorano per la Russia… Questo può essere ottenuto solo rischiando una guerra europea e non
ne vale la pena, quei signori devono aspettare, proprio come gli alsaziani, i lorenesi, i trentini ecc.”
Lotta per preservare la pace e per accelerare la rivoluzione. Ma se la guerra fosse scoppiata comunque? La
risposta di Engels è inequivocabile. Di fronte a una guerra generale “non sarebbe possibile simpatizzare con alcuno
dei contendenti; al contrario si augurerebbe loro d’essere sconfitti tutti, se fosse possibile”. Sconfitti tutti, perché
sconfitta era sinonimo di rivoluzione, “saranno quelli che subiranno la sconfitta ad avere la possibilità e il dovere di fare
la rivoluzione”. Queste parole di Engels del 1888 e del 1892 riecheggiano quelle di Marx, del lontano 1859, quando
si prospettava una guerra tra Francia e Inghilterra, la prima autoproclamatisi Impero nel 1852, la seconda divenuta
tale di fatto dopo il passaggio dell’India sotto il controllo diretto della Corona britannica nel 1858 (di qui
l’espressione “borghesia imperialista”). Come al solito la prosa di Marx è inconfondibile:
Fra tutti i dogmi della miope politica dei nostri tempi, nessuno ha fatto più danno di quello
che afferma: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Questa somma verità, il cui tratto più saliente
è di contenere una grande menzogna, è il grido di battaglia che ha chiamato alle armi l’Europa
intera e prodotto un tale fanatismo bellico che ogni nuovo accordo di pace viene considerato
una nuova dichiarazione di guerra e come tale avidamente sfruttato. In un momento in cui gli
Stati europei sono diventati altrettanti campi muniti, i cui mercenari ardono dal desiderio di
buttarsi gli uni addosso agli altri e tagliarsi vicendevolmente la gola a maggior gloria della pace,
la sola cosa a cui si pensa davanti ad ogni nuova esplosione è un particolare del tutto
secondario: da quale parte ci si debba schierare. Non appena questa questione del tutto
accidentale sia stata soddisfacentemente sistemata dai parlementaires diplomatici, con l’aiuto del
vecchio e fidato si vis pacem, para bellum, ecco cominciare una di quelle guerre di civiltà la cui
futile barbarie ricorda i più bei tempi dei saccheggi cavallereschi, mentre la loro sottile perfidia
appartiene in esclusiva alla più moderna età della borghesia imperialista. Ciò posto, non
dobbiamo stupirci se la generale inclinazione verso la barbarie acquista un certo metodo, se
l’immoralità viene eretta a sistema, se l’illegalità trova i suoi legislatori e la legge del più forte i
suoi codici.
L’anno 1891 vide apparire un articolo di Engels, “Il socialismo in Germania”, che ebbe una fama postuma
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immeritata nella misura in cui il suo senso venne totalmente stravolto dai “socialisti” fautori della guerra nel 1914.
Nel giugno 1914 Vollmar, un “destro” della SPD della Baviera, pronunciò un discorso in cui sostenne che i
socialdemocratici avrebbero collaborato con il potere in carica se la patria fosse stata aggredita – Engels reagì
sostenendo in pratica che Vollmar era solo un volgare sciovinista. Ma nel settembre uscì un articolo di Bebel che,
pur distante dalle posizioni di Vollmar, faceva emergere che tra i socialisti tedeschi la questione della “guerra
difensiva” era un tema aperto e delicato, non liquidabile con due parole. Tenendo conto di questa situazione, Engels
ebbe una serie di scambi epistolari e scrisse l’articolo ricordato. Una delle sue preoccupazioni era di non urtare la
sensibilità di Bebel, la cui collaborazione era per Engels importantissima – per questo utilizzò un modo di
argomentare particolare. In pratica Engels affermava che il rischio di guerra c’era, ma non imminente, e lo si poteva
escludere per i prossimi anni. Alla domanda se i socialisti, gli operai tedeschi dovevano difendere la loro patria in
caso di aggressione, la risposta di Engels era “sì”, ma era un sì condizionato. A livello epistolare specificava di
essere a favore del voto dei crediti di guerra, purché almeno fosse attuato l’armamento di massa di tutta la
popolazione: in pratica questo significava votare no ai crediti di guerra; a favore della guerra difensiva, ma solo con
“metodi rivoluzionari”, come il riconoscimento dell’autodeterminazione dell’Alsazia-Lorena e dello Schleswig: in
pratica questo significava no alla guerra condotta dal Kaiser. Nell’articolo diceva che nell’ipotesi di una invasione
russo-francese del territorio tedesco i tedeschi avrebbero potuto vincere solo con i mezzi più rivoluzionari, e che
in pratica la salvezza della Germania sarebbe stata assicurata solo dalla conquista del potere da parte dei
socialdemocratici, in grado di utilizzare questi metodi. Il principio è quello, ovvio per Engels, che il movimento
operaio non può mai affidare l’esecuzione dei suoi compiti a un governo borghese, fosse pure una repubblica
democratica, figuriamoci a un mostro qual era il potere di Berlino. Per incredibile che possa apparire, questo articolo
e le lettere connesse sono state utilizzate per riconciliare Engels, il Kaiser e i Junker, giustificare il voto del 4 agosto
1914, la pace civile e l’obbedienza per lo sforzo bellico negli anni successivi.
A metà degli anni ‘890, poco prima o poco dopo la morte di Engels, la situazione cambiò. Cambiò sia a livello
economico, sia nei rapporti tra gli Stati. Da un lato i due interessi prudenziali internazionali sembravano essere
soddisfatti, sia pure in modo precario: dalla metà degli anni ‘880 il fallimento della Narodnaja Volija sembrava
allontanare il pericolo di una rivoluzione in Russia, e nell’ultimo decennio dell’ ‘800 la debolezza zarista era stata
rivelata da carestie ed epidemie, e anche il contemporaneo grande slancio dell’industrializzazione russa, a spese del
mondo rurale, anziché rafforzare lo zarismo introdusse nuove contraddizioni, con il sorgere di una classe operaia
combattiva e organizzata, a partire dagli scioperi di San Pietroburgo del 1896, e con il dilagare delle rivolte
contadine dal 1900. La politica russa nei Balcani in questi anni fu di conseguenza molto prudente, con l’abbandono
della retorica panslavista, e il sostegno al potere ottomano, mentre gli sforzi espansionisti furono tutti orientati a
est, in Asia. Dall’altro lato, ebbe inizio non la “crisi gigantesca” che si aspettava Engels, ma un inatteso Sturm und
Drang capitalistico. E’ in questi anni che prese avvio l’ “imperialismo”.
La ripresa economica della metà degli anni ‘890 fu a mio parere uno dei fattori che consentì la nascita
dell’imperialismo, non la sua conseguenza, come spesso si afferma. Ma cosa a sua volta consentì questo Sturm und
Drang? Problema complesso su cui non mi azzardo a fare affermazioni. Mi limito a una ipotesi: che la crescita del
capitale finanziario internazionale, del “capitale fittizio”, della sovrastruttura capitalistica fatta di banche, borse e
debito pubblico, abbia da un lato consentito una ristrutturazione industriale in grado di far ripartire i profitti, e
dall’altro abbia avuto l’effetto di una “droga” che allargava, pro tempore, il mercato. In questa ipotesi il ventennale
boom economico precedente alla Grande guerra potrebbe esser visto come una lunga parentesi, permessa
dall’assunzione della “droga” finanziaria, di un lunghissimo periodo storico che si estese dalla Grande depressione
alla Grande crisi degli anni ‘930, e la “crisi gigantesca” che si aspettava Engels nel 1892 sarebbe stata procrastinata
decennio dopo decennio, ma solo rendendola sempre più gigantesca quando alla fine arrivò. Ma è solo un’ipotesi,
azzardata, tutta da verificare.
A mio avviso l’imperialismo fu il tentativo delle Potenze di allora di adeguare il potere statale al proprio potere
economico. Si è visto come sul mercato mondiale gli Stati siano posizionati su una scala gerarchica in funzione
della produttività del lavoro delle rispettive società – l’imperialismo fu lo sforzo da parte dei vari attori di adeguare
il proprio potere statale internazionale a questa scala. Come scriverà Lenin nel 1916 era il tentativo di “eliminare la
sproporzione tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulazione di capitale da un lato, e dall’altro la
ripartizione delle colonie e ‘sfere’ d’influenza”. Fu il perseguimento di interessi sostanziali in una congiuntura
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storica, sia economica che di “equilibri” internazionali, che lo rendeva di nuovo possibile. Ma c’era un problema,
perché adeguare il potere statale al proprio potere economico non permetteva alcun equilibrio, e se ve ne era uno
preesistente sarebbe stato distrutto, in quanto il potere economico, la posizione di ogni singolo Stato sulla famosa
scala gerarchica del mercato mondiale, era (ed è) in continuo mutamento. È come se un ordine internazionale
strettamente borghese fosse impossibile, e fosse possibile solo anarchia e guerra.
La politica dei vari Stati esprimeva gli interessi dei propri capitali nazionali? Sì e no. In linea generale, in quasi
tutte le società della storia umana (un’eccezione sono gli odierni Stati petroliferi), uno Stato può vivere solo
estraendo ricchezze da chi le possiede, ed è quindi suo interesse nutrire e ingrassare la gallina che gli produce le
uova d’oro, e quindi nel caso la gallina sia capitalistica è ovviamente nell’interesse dello Stato far sì che prosperi
quanto più. Ma fuor di metafora, nella realtà non esiste un “capitale nazionale”, ma tanti capitalisti nazionali e il
“capitale nazionale”, la “produttività media del lavoro in una società”, è una media nazionale astratta di cui nessuno
è a conoscenza ex ante. Ci sono tanti capitalisti che si muovono mossi dalla ricerca del profitto e dalla concorrenza,
ma come dei sonnambuli – vigili, ma solo apparentemente, ciechi in realtà di fronte al movimento complessivo dei
loro capitali. L’elaborazione degli “interessi” del capitale nazionale, in altri termini, non è data, non è trasparente,
ma è soggetta a oscillazioni, contingenze, pressioni, rapporti di forza, configurazioni sociali peculiari. Una cosa
però è certa: la potenza internazionale dello Stato fa bene ai capitali, li rassicura e porta loro benessere. Un sistema
coloniale importante permetteva all’Inghilterra di rimanere il centro finanziario mondiale nonostante il suo relativo
declino, e la sua potenza marittima era una minaccia per le economie più ricche, e quindi più dipendenti dai
commerci internazionali. Un paese quanto più è ricco quanto più è dipendente dalla configurazione di potere
internazionale: maggiore è la ricchezza maggiore è la percezione delle minacce potenziali, maggiore è la propria
vulnerabilità. Se per Bismarck negli anni ‘880 “le colonie sarebbero per noi tedeschi come gli abiti da parata del
nobile polacco, che non aveva la camicia da mettersi sotto”, dieci anni dopo la ricchezza capitalistica era talmente
cresciuta non solo da potersi permettere le camicie, ma da richiedere a gran voce colonie e potenza internazionale,
in un mondo insicuro e incerto. Così per la Germania; per gli Stati che invece vivevano sulle spalle di galline ben
smagrite, e non potevano permettersi le camicie, era meglio star zitti e non fare nulla, come gli Asburgo, perché
altrimenti si pigliavano solo un mucchio di bastonate, come quelle prese dall’Italia ad Adua. In sintesi, a mio avviso,
l’imperialismo aveva radici economiche, ma non direttamente misurabili, come il commercio o gli investimenti di
capitali nelle colonie; era adeguare il potere statale internazionale al potere economico, per proteggerlo e accrescerlo
in prospettiva, per assicurare futuri commerci e futuri investimenti al riparo da brutte sorprese; per essere
semplicemente rispettati e considerati nell’arena internazionale.
Questa ricerca di maggior potere statale a livello internazionale si espresse come espansione territoriale a livello
extraeuropeo, come slancio colonialista. Da un certo punto di vista lo scatenamento della concorrenza interstatale
in ambito extraeuropeo consentì la sopravvivenza, ma solo pro tempore, del sistema degli Stati in Europa, rendendo
tuttavia la guerra generale, esito della rottura di quel sistema, ancora più catastrofica di quanto sarebbe stata se
fosse scoppiata prima. Qui si poteva fare quello che si riteneva vietato in Europa, niente più “sistema degli Stati”
fuori d’Europa, solo la concorrenza brutale, e gli ultimi venuti erano i più spregiudicati, consapevoli del rischio di
essere eliminati definitivamente. L’ “etica” imperialista ne fu il prodotto, con gli annessi massacri coloniali senza
fine. In questa corsa coloniale le tensioni tra potenze europee non potevano rimanere limitate all’ambito
extraeuropeo, e si ebbero conseguenze e tensioni gravi anche sul suolo europeo, in primo luogo con una folle corsa
agli armamenti. Tuttavia, fino al 1914, tutte queste crisi trovarono tutte delle soluzioni diplomatiche, naturalmente
a spese di qualche popolo coloniale. Lo scoppio della Grande guerra fu il prodotto della concorrenza tra gli Stati,
in lotta per conquistare un potere internazionale adeguato, fu quindi una “guerra imperialista”, ma scaturì non da
contese coloniali, ma dalla finale rottura del sistema degli Stati europei sul suolo europeo, che consentì l’ingresso
della “concorrenza brutale” anche nel cuore stesso dell’Europa. La “concorrenza brutale” era sinonimo di vita o
morte, era la guerra, erano gli orrori visti fino ad allora solo fuori d’Europa.
Tra il 1904 e il 1909 avvenne quello che Marx immaginava venticinque anni prima – il sistema degli Stati europeo
cadde a pezzi definitivamente; dal 1911 al 1913 si svilupparono una serie di guerre locali, e fu sufficiente solo un
anno per far scoppiare quella generale.
I due interessi internazionali prudenziali, connessi ed equilibrati, i due pilastri dell’ordine europeo crollarono
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uno dopo l’altro. Fin dal 1890 una serie di processi si accumulavano in Russia, tutti convergenti nell’indebolimento
dello zarismo; ma il colpo definitivo fu la sconfitta ad opera del Giappone nel 1904, e la gigantesca rivoluzione del
1905-06. Rivoluzione sconfitta, ma che evidenziava in modo definitivo che la Russia era diventata un paese come
tutti gli altri, dilaniata dalla lotta di classe ancor più degli altri paesi. Pur senza una rivoluzione vittoriosa, questi
quindici anni trasformarono la Russia – dagli anni ‘870 era un “grande malato”, ma conservava ancora le forze per
rimanere il “bastione della reazione” qual era dalla metà del ‘700; dal 1904-1906 c’est fini. Effetti indiretti della
rivoluzione russa del 1905-06 furono la concessione del suffragio universale nell’Impero Asburgico nel 1907 e la
rivoluzione dei Giovani turchi nell’Impero ottomano nel 1908, due avvenimenti epocali, in quanto evidenziarono
che questi Imperi, anziché rigenerarsi grazie a una democratizzazione delle loro strutture, si trovavano in un punto
di non ritorno della loro crisi, la stessa democratizzazione contribuiva a questa stessa crisi, anziché contribuire a
risolverla, creando una serie di problemi nazionali oltre la soglia della gestibilità. Questi due poteri evidenziarono
la loro crisi terminale lanciandosi in iniziative inconsulte e dettate dal panico – l’annessione della Bosnia in un caso
e i massacri armeni dall’altro. La situazione europea alla fine del 1909 era quindi mutata radicalmente rispetto a un
quindicennio prima. Gli Imperi ottomano e asburgico non erano crollati, e la rivoluzione in Russia non aveva vinto,
ma era solo una questione di tempo, di poco tempo. Quadro finale: inevitabilità del crollo a breve dei pilastri del
sistema europeo ed estrema vulnerabilità sociale delle classi dominanti europee per il venir meno del “bastione
della reazione” zarista. Non c’era più nulla, nella percezione dei governi europei d’allora e nella realtà, da preservare
collettivamente. Iniziava la concorrenza brutale anche sul suolo europeo, e non l’avrebbe lasciato per molti decenni.
Per le classi dominanti dei paesi europei più grandi e sviluppati, alla percezione della loro vulnerabilità esterna
economica e militare si aggiungeva ora la percezione della vulnerabilità interna di fronte all’ascesa del movimento
operaio. Un mix di sfide micidiali che portò al diapason bellicismo, nazionalismo, socialimperialismo. Le borghesie
capirono che si era aperta “un’epoca di guerre e rivoluzioni”, e non si tirarono indietro. Le modalità specifiche che
portarono al baratro furono le iniziative inconsulte di Russia e Italia. La Russia nel 1907 ruppe il patto con gli
Asburgo per mantenere lo status quo nei Balcani e si lanciò in un folle corso panslavista diretto sia contro gli
Ottomani che gli Asburgo, per il tramite dei piccoli Stati balcanici. Ma fu l’Italia, l’ultima venuta nell’arena
imperialista, che fece il passo decisivo, cercando il proprio posto al sole dichiarando guerra non in un angolo
sperduto del mondo extraeuropeo, ma a un paese europeo, all’Impero ottomano. La sconfitta ottomana innescò
come in un domino il realizzarsi dei progetti panslavisti di San Pietroburgo, con lo scatenamento della prima guerra
balcanica nel 1912, e poi, via, via, tutto il resto. Si era aperta un’epoca di guerre e rivoluzioni, in cui tutti gli attori
erano portati al va banque. Asburgo, Ottomani, Russia, Italia. Ma anche la Germania, che quanto più diventava
fragile politicamente tanto più sviluppava il militarismo più sfrenato, e la Francia e l’Inghilterra, che anch’esse in
modo inconsulto si illudevano, credevano di vedere una eccezionale potenza socio-militare zarista, che era in realtà
scomparsa da tempo, come d’altronde si vide già nel 1915, con il totale collasso militare russo.
Va banque, iniziative prese per disperazione (come gli Asburgo nel fatidico luglio 1914); errato senso di
onnipotenza, percezione dell’ “inevitabilità del corso storico”, di essere agiti più che di agire, volontà,
determinazione di vincere le sfide, qualsiasi esse siano, istinto di sopravvivenza. Tutto questo ha portato alla Grande
guerra. L’imperialismo strictu sensu ha innescato l’ultima miccia (la guerra dell’Italia all’Impero ottomano per la Libia)
e ha allineato i contendenti, facendo unire i big del colonialismo, Gran Bretagna, Francia e Russia, e infine gli Stati
uniti. Senza una preventiva rivoluzione vittoriosa in Russia o in Germania il corso catastrofico era predeterminato,
e la catastrofe, la nuova “Guerra dei Trent’anni”, iniziò nel 1914 in un vortice di violenza barbarica prima
assolutamente inimmaginabile.
Le origini della Prima guerra mondiale sono a mio avviso da rintracciare in questo insieme di fattori. Il
contributo di Marx ed Engels è a mio avviso fondamentale per orientarsi nel groviglio di avvenimenti economici,
sociali, politici, di relazioni e di sistemi internazionali all’opera. Questo approccio si differenzia in modo radicale
da chi vede una predominante “responsabilità” tedesca nello scoppio del conflitto (ed è la maggioranza degli
storici), non si limita a qualificare a ‘mo di etichetta la Grande guerra come “guerra imperialista” eludendo i
problemi che con la distanza del tempo possono oggi essere affrontati, e si avvicina alle conclusioni a cui è giunto
uno storico come Clark, la cui opera del 2012 è significativamente intitolata “I sonnambuli. Come l’Europa arrivò
alla Grande Guerra”, e uno studioso di storia diplomatica, Schroeder, che ha dedicato vari studi sulla china che
portò alla guerra del 1914.
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Come elaborarono queste dinamiche i dirigenti/teorici del movimento operaio di allora? Nessuno di loro ebbe
la profondità di visione storica e sociale che ebbero Marx ed Engels. Ripalda scrive giustamente di Marx:
La distanza enorme e lucida di Marx di fronte all’epoca storica in cui visse è la distanza di una
individualità sradicata. La sua riflessione è il risultato di questo sradicamento e il riflesso di
quanto lo ha prodotto, la dissoluzione dei vincoli dispotici del vecchio organismo
precapitalista… La demistificazione radicale di Marx è la stessa che ha consentito ad Adam
Smith di mettere insieme re, preti, cuochi e puttane nella stessa categoria delle classi
improduttive.
I dirigenti socialisti di allora non ebbero questa “distanza enorme e lucida”. Fa impressione la ingenuità, la
irresponsabilità della Luxemburg nel 1896:
la liberazione delle terre cristiane dalla Turchia è progresso nella vita politica internazionale.
L'esistenza di una posizione artificiale come quella dell'attuale Turchia, dove convergono così
tanti interessi del mondo capitalista, restringe e ritarda lo sviluppo politico generale. La
Questione Orientale, insieme a quella dell'Alsazia-Lorena, costringe le potenze europee a
perseguire una politica di stratagemmi e inganni, a nascondere i loro interessi reali sotto nomi
ingannevoli e a cercare di raggiungerli con dei sotterfugi. Con la liberazione delle nazioni
cristiane dalla Turchia, la politica borghese sarà spogliata di uno dei suoi ultimi stracci idealistici
– la “protezione dei cristiani” – e sarà ridotta al suo vero contenuto, il nudo interesse nel
saccheggio.
E quanto era anch’esso ingenuo e irresponsabile Bauer nel 1907:
[il] periodo, ora quasi superato, in cui il sistema dell’equilibrio europeo sembrava il fine specifico
di tutta l’attività politica. Ma da quando i grandi temi della politica mondiale hanno prevalso
sui vecchi problemi della piccola Europa, risulta più chiaro di prima che la lotta per il potere
condotta dagli Stati capitalistici nasconde sempre una sollecitazione economica.
Davvero non comprendevano le terrificanti conseguenze reali di quanto auspicavano, come se tutto il problema
fosse demistificare dei discorsi, e non evitare un corso rovinoso verso la guerra generale!
Nessuno seppe cogliere la svolta europea del 1907-1909 nella sua vera dimensione, e solo Jaurès e Rakovsky
capirono, intuirono che le contraddizioni delle grandi potenze si erano “balcanizzate”; per questo prevalse una
babele di lingue nell’affrontare il ginepraio balcanico.
Nessuno, a parte la Luxemburg e pochissimi altri, percepirono gli effetti internazionali, europei della rivoluzione
russa del 1905-06, e cioè che era definitivamente finito il periodo della “strategia di logoramento”, e che si era
aperto un periodo in cui il movimento operaio doveva porsi all’offensiva, perché aveva la possibilità di vincere, e
quest’ultima era l’ultima occasione per evitare la catastrofe. Ma la classe operaia in modo istintivo aveva percepito
la nuova situazione. Bauer, nel 1917, ricostruisce il clima degli anni 1911-1914:
Il crescente costo della vita e lo sviluppo delle associazioni dei datori di lavoro avevano
notevolmente approfondito l'antagonismo di classe. La crescita della socialdemocrazia tedesca,
la mostruosa ondata di scioperi in Inghilterra, il risveglio del proletariato russo annunciavano
gigantesche lotte di classe. Ovunque, le illusioni dei riformisti sembravano appartenere al
passato: in Francia il “ministerialismo” sembrava fosse stato abolito; in Italia la classe operaia
aveva espulso i riformisti dal partito; in Austria, la maggioranza al Congresso di Vienna del
1913 si era schierata con apparente risolutezza contro le illusioni dei riformisti, moltiplicatesi
dopo la vittoria elettorale. Ovunque, la classe operaia sembrava determinata a seguire i passi di
Marx. Il potente sviluppo di cartelli e trust, il rapido processo di subordinazione dell'economia
mondiale al capitale finanziario, il rinnovato antagonismo tra le grandi potenze imperialiste,
prefiguravano l’epoca dello scontro decisivo tra Capitale e Lavoro.
E aggiungo a questo anche l’importante ondata di scioperi che scosse la Germania tra il 1910-1913, un
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prosieguo di quella del 1904-1906, in singolare sincronismo con il movimento di classe dei lavoratori russo,
l’analoga ondata di scioperi in Francia negli stessi anni, l’epopea degli IWW negli Stati uniti.
Per quanto riguarda la Russia è Trotsky, nell’ottobre 1914, a sviluppare degli importanti ragionamenti sul corso
della lotta di classe nel suo rapporto con la guerra:
Coloro che credono che la guerra russo-giapponese portò la rivoluzione, non conoscono né
comprendono gli avvenimenti politici e le loro reazioni. La guerra fece semplicemente
precipitare lo scoppio della rivoluzione; però, per questa stessa ragione, la indebolì. Se poi la
rivoluzione si fosse svolta come un risultato della crescita organica delle forze interne, sarebbe
venuta più tardi, però sarebbe stata assai più forte e più sistematica. Per questo la rivoluzione
non ha il minimo interesse nella guerra. Questa è la prima considerazione. La seconda è che,
mentre la guerra russo-giapponese indeboliva lo czarismo, rafforzava il militarismo giapponese.
La stessa considerazione si applica, in più alto grado, alla [odierna] guerra russo-tedesca. Nel
periodo dal 1912 al 1914 l’enorme sviluppo industriale della Russia sollevò il paese, una volta
per tutte, dallo stato di prostrazione in cui era prima della rivoluzione. L’aumento del
movimento rivoluzionario, basato sulle condizioni economiche e politiche della massa
lavoratrice, la crescita della opposizione in ampi settori della popolazione, condusse a un nuovo
periodo di agitazione e di violenza. Però, in contrasto cogli anni 1902-1905, questo movimento
si svolgeva in un modo più sistematico e cosciente, e, ciò che è più, era basato sopra un
fondamento sociale più ampio. La rivoluzione aveva bisogno di tempo per maturare, però non
le erano necessarie le lance del samurai prussiano. Al contrario, il samurai prussiano dava allo
czar l’opportunità di giocare la parte di difensore dei serbi, dei belgi e dei francesi.
Nel prosieguo Trotsky ipotizza una sconfitta militare russa e una conseguente rivoluzione, che tuttavia sarebbe
risultata più debole, meno sistematica, di quella che sarebbe stato l’esito naturale dei movimenti e della situazione
del 1912-1914. Anche la Luxemburg, nella sua opera del 1915, afferma che la guerra aveva seppellito sotto le
macerie la rivoluzione russa. Infine, Haupt, nel suo libro del 1972, riprende le stesse considerazioni di Trotsky,
allargandole a livello internazionale, e ipotizza che esistesse una situazione sociale esplosiva sia in Russia che in
Italia (la “settimana rossa”), e che la guerra ruppe i ritmi delle crisi rivoluzionarie, posticipandole e deviandole, e
rendendole più violente nel 1918, e con esiti diversi. Dal 1904-1906 il movimento dei lavoratori aveva tutte le chances
per svilupparsi e vincere, e dal 1909 vi era una urgenza storica perché questo avvenisse, ma la sua direzione mancò
all’appuntamento, e in gran parte nel 1914 si riconciliò con le rispettive borghesie.
Ma a Cesare quel che è di Cesare. I dirigenti socialisti di allora non potevano avere lo stesso sguardo di Marx ed
Engels sulla realtà loro contemporanea, perché non erano personalmente il frutto della disgregazione di un ordine
sociale, ma erano il frutto di un ordine sociale consolidato, da cui non potevano avere la stessa distanza di
osservazione. Inoltre, i teorici della Seconda internazionale furono tutti dirigenti politici (a differenza di oggi, tutti
solo accademici), e in questa veste, essendo a contatto quotidiano con le masse operaie, sentivano la responsabilità
immensa che pesava sulle loro spalle, ed erano quindi di una integrità intellettuale ineguagliata, di una apertura
mentale e di una concretezza di pensiero che si ritroverà raramente nel periodo successivo al 1914. Che in
quell’anno taluni siano crollati non può cambiare il giudizio su una generazione unica. Sia reso loro onore.
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L’imperialismo, oggi.
Temo che chi sia giunto a questo punto si senta un po’ frastornato, e si chieda di cosa si stia parlando. Che
cos’è allora questa astrazione che risponde alla parola “imperialismo”? Dalla esposizione fin qui fatta è emerso che
quanto affermavano i marxisti all’inizio del XX secolo era un sistema analitico abbastanza debole, che la fase
imperialista (nel senso di colonialista) ebbe una logica specifica alla configurazione europea di quegli anni, ben
diversa da quella attuale, che tutti si aspettavano il crollo del capitalismo che non solo non c’è mai stato, ma che
dopo la seconda guerra mondiale ridivenne addirittura giovane e fiorente, e che ciò che crollò, alla fine del XX
secolo, fu il sistema dei paesi dell’est, denominati quanto mai ironicamente paesi del “socialismo reale”, e che infine
lungi dall’avere solo “anarchia e guerra” in un mondo esclusivamente borghese, noi ci stiamo vivendo da trent’anni
senza ombre di conflitti militari, neppure in prospettiva, tra i paesi più ricchi. “Imperialismo” è quindi solo
un’astrazione dai tratti indefiniti tutt’al più utile a leggere una fase specifica, e quanto mai remota, della storia
europea? Insomma, tanto tempo speso da te, lettore o lettrice giunto o giunta a questo punto, e tutto questo
assolutamente per nulla?
Spero proprio di no. Cerco di riprendere alcuni fili di ragionamento da quanto precede. In primo luogo che
cosa non è l’ “imperialismo”: non è lo sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi. Questo sfruttamento,
come abbiamo visto, è inerente al funzionamento del capitalismo fin dalla sua infanzia, e allora “imperialismo”
sarebbe una categoria puro e semplice sinonimo di “capitalismo”, di nessuna utilità. L’imperialismo non è lo
“scambio diseguale”. “Imperialismo” non sono gli intrighi e i complotti della più grande potenza (o delle più grandi
potenze) del mondo per aumentare, o quanto meno mantenere, il proprio potere. Come abbiamo visto intrighi e
complotti (ma anche bluff e atti inconsulti) sono anch’essi una parte ineliminabile della storia capitalistica europea
fin dai suoi esordi. L’imperialismo non è né “Wall Street & Federal Reserve”, né “Washington, CIA e Pentagono”.
Già solo questo è sufficiente per non considerare una buona quota della letteratura pubblicata in questi ultimi anni
sull’ “imperialismo”. Quello che cercavano di capire i teorici marxisti nel primo ventennio del XX secolo con
l’astrazione “imperialismo” era un’altra cosa: di fronte a una situazione mondiale inedita, evidenziata da tutta una
serie di fattori, cercavano di ricostruirne la logica. Per far questo era necessario capire a che punto era il capitalismo
dal punto di vista storico, e quindi quale la sua traiettoria nel tempo; capire la dinamica della “politica mondiale”
delle varie potenze, nella loro interrelazione; e di conseguenza capire qual’era la “politica estera” che la classe
lavoratrice doveva perseguire per favorire la propria vittoria nella lotta contro la borghesia. L’insieme di queste
analisi, più o meno ben condotte, dava contenuto all’astrazione “imperialismo”, un periodo specifico e non mero
sinonimo di capitalismo, qualcosa di inedito a livello storico che emerse circa a metà degli anni ‘890. Ricostruendo
l’approccio di Marx ed Engels, e applicandolo agli anni tra il 1895 e il 1914, siamo arrivati alla conclusione che
“imperialismo” fu il periodo storico di incubazione di una “crisi gigantesca” del sistema capitalistico, del
progressivo crollo del sistema degli Stati europeo sfociato nella Grande guerra, e dell’ascesa della rivoluzione in
Russia e in Europa. In modo molto generale si può dire che l’analisi dell’imperialismo derivava dall’analisi di tre
ambiti, ciascuno con una propria logica, ma in parziale sovrapposizione l’uno all’altro, e con relazioni parzialmente
gerarchiche: l’ambito dell’evoluzione capitalistica, l’ambito delle politiche statali, espressione delle classi e delle
frazioni di classi sia borghesi sia non capitalistiche, e l’ambito della dinamica della classe lavoratrice, dei suoi livelli
di coscienza, delle sue organizzazioni, delle sue lotte. La politica “aggressiva e violenta” degli Stati, gli “atti politici
di forza e di violenza espliciti” erano espressioni ineliminabili del capitalismo di allora, ma l’imperialismo non era
questa politica e questi atti – era la cognizione della fase storica complessiva che produceva questi atti e questa
politica.
Oggi evidentemente non siamo in una situazione identica a quella del 1895-1914, anche solo per un elemento
determinante, la dinamica della classe lavoratrice. Non erano figure retoriche quelle che usavano i socialisti di allora,
quando parlavano di richieste sempre più forti di socialismo da parte delle masse popolari, di acutizzazione dei
conflitti di classe, di “sacre tradizioni”, di “preparazione spirituale” e di “audace eroismo” dei lavoratori, frutto di
sacrifici e fatiche di generazioni. Il livello di coscienza dei lavoratori europei era altissimo, e quello dei lavoratori
russi ancor più. In termini oggi più comuni si può dire che erano convinti che un altro mondo era possibile, aveva
nome socialismo, e loro come classe ne sarebbero stati gli artefici vincendo contro la borghesia. Si sentivano fieri di
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sé stessi, forti “nel numero e nella speranza”, ed erano convinti che il futuro sarebbe stato loro. Questa coscienza
si concretizzava in una molteplicità di organizzazioni e si esprimeva nelle tante lotte condotte. Niente di tutto ciò
oggi. Così in Europa, la percezione di massa del personale sanitario che si sacrifica oltre ogni limite nei terribili
giorni del coronavirus è quella degli “eroi nazionali”, non di working class heroes quali sono. Il periodo che stiamo
vivendo è quello di una “energia rivoluzionaria latente” (Chesnais) nella classe lavoratrice.
Se si vuole parlare di imperialismo oggi, questo significa parlare della fase storica complessiva che stiamo
attraversando. Da questo punto di vista la ricostruzione di come Marx, Engels, e i marxisti prima del 1914
analizzarono la realtà loro contemporanea ci lascia in eredità alcuni strumenti fondamentali per interrogare il
presente, tra cui l’importanza di individuare e comprendere le svolte, le cesure storiche, le analisi sul capitale
finanziario e quelle sul “sistema di Stati”.
Tre a mio avviso sono state le svolte storiche a livello mondiale dalla fine della Seconda guerra mondiale. La
prima si è prodotta verso il 1950, ed è stato il “miracolo” capitalistico: il vecchio, decrepito, mostruoso capitalismo,
quello degli “olocausti vittoriani” e degli “olocausti nazisti”, risorse giovane e pieno di energie. Quasi nessuno se
lo aspettava. Non era retorica quella che usava Trotsky nel 1938 quando scriveva dell’ “agonia del capitalismo”, e
come lui la pensavano in molti, anche nel “campo opposto”, come il walrasiano Schumpeter. La seconda svolta
storica è avvenuta nei paesi a “capitalismo avanzato” a metà degli anni ‘980, con un collasso del movimento
operaio, dei suoi livelli di coscienza e di combattività senza paragoni (su questo e sulle dinamiche della classe
lavoratrice a livello internazionale che ne sono seguite spero di poter scrivere qualcosa in futuro). La terza, seguita
a breve a quest’ultima e probabilmente in qualche modo connessa, è stato l’allargamento a tutto il pianeta dei
rapporti borghesi. Per la prima volta nella storia tutte le grandi nazioni, le “Grandi potenze” sono tutte società
borghesi – ciascuna con le proprie peculiarità, ma in ultima analisi tutte rette da rapporti di tipo capitalistico.
Come è stato possibile il miracolo del 1950? Trotsky nel 1921 scriveva: “se ammettiamo che la classe operaia
non riesca a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, ma permetta alla borghesia di decidere le sorti del mondo
per un lungo numero di anni, diciamo per tre decenni, allora sicuramente un nuovo equilibrio sarà in qualche modo
ristabilito. Gli Stati Uniti saranno costretti a riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e a
subire una contrazione per un periodo considerevole. L’Europa sarà spinta violentemente indietro. Milioni di operai europei
moriranno. Dopo di che, dopo che con grandi lacerazioni sarà stata ristabilita una nuova divisione mondiale del
lavoro, per 20 anni forse seguirà una nuova epoca di rilancio capitalistico.” Ho leggermente modificato la sequenza
delle frasi, ho tolto i lassi temporali alternativi che Trotsky proponeva, e ho tolto la specificazione “per
disoccupazione e denutrizione” relativa alla morte di milioni di operai europei, che vent’anni dopo morirono
davvero, ma per la guerra. In questo stupefacente brano la prima condizione fondamentale per un rilancio
capitalistico era che la classe operaia non riuscisse a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, condizione che
venne più che egregiamente assicurata dalla socialdemocrazia e dalla burocrazia stalinista. La seconda condizione
era la distruzione del continente europeo, sia in termini materiali che umani. La terza condizione era una gigantesca
crisi economica e il rivoluzionamento dell’industria e dell’economia statunitensi: e in effetti nel corso degli anni
‘930, durante la Grande crisi (ma anche nel decennio precedente), l’industria americana che sopravvisse conobbe
un enorme incremento del tasso di plusvalore relativo, storicamente mai eguagliato da nessun altro paese in
qualsiasi periodo della storia del capitalismo, con l’introduzione spinta di innovazioni tecniche e organizzative; e la
scelta nel 1950 di orientarsi sul mercato mondiale fu una scelta obbligata. Ma anche così forse sarebbe sopraggiunta
una nuova epoca di rilancio capitalistico: ci fu davvero nella realtà, ma fu qualcosa di vicino a un vero miracolo, a
cui contribuirono anche elementi contingenti e non predeterminabili (come ad esempio l’attacco da parte della
Corea del Nord a quella del Sud il 25 giugno 1950). Quello che mi sembra errato è l’approccio di molti economisti
marxisti che considerano “normale” questa rinascita e gli eccezionali vent’anni che ne seguirono, e che
conseguentemente dibattono oggi su quali siano le chanches di una analoga ripresa capitalistica. I miracoli non si
ripetono, soprattutto senza le distruzioni materiali e umane della Seconda guerra mondiale.
Come caratterizzare la fase attuale del capitalismo? Dopo gli anni ‘960, in cui il tasso di incremento annuo del
PIL sia europeo che statunitense era attorno al 5%, sono seguiti decenni di costante abbassamento di questo tasso:
quello statunitense si attestò in media al 3% tra il 1970 e il 1999, mentre nel ventennio successivo è sceso
mediamente al 2%. In Europa dopo circa un 3,5% negli anni settanta, si ebbe circa un 2% negli anni ottanta e
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novanta, e circa un 1,5% nell’ultimo ventennio. Un indicatore più preciso è il tasso medio di incremento annuo
della produttività del lavoro (PIL per ora lavorata): in Europa è sceso in modo regolare dal 4% degli anni settanta
allo 0,8% degli ultimi vent’anni; negli Usa negli anni settanta questo tasso era di molto inferiore a quello europeo,
e cioè l’1,8%, ha conosciuto alcune oscillazioni in su e in giù di decennio in decennio, fino a raggiungere il 2,7%
nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, ma alla fine nell’ultimo decennio si è posizionato sullo stesso identico
livello europeo, lo 0,8%. Un ultimo indicatore è quello che può essere considerato un proxy (certo imperfetto, ma
è l’unico che abbiamo) della produttività nel senso in cui la intendeva Marx (incremento del plusvalore relativo), la
produttività globale dei fattori: negli Usa tra il 2010 e il 2017 era lo 0,1% annuo a cui è seguito un -0,3% nel 2018;
nell’area euro i rispettivi dati erano 0,1% e -0,1%. A titolo comparativo negli Stati uniti era circa del 2% annuo tra
il 1950 e il 1970, e meno dell’1% tra il 1970 e il 1990. La Cina a partire dagli anni novanta è stato un paese che ha
in modo importante dato slancio al capitalismo mondiale, ma negli ultimi anni il “motore cinese” è andato fuori
giri, cosicché la sua produttività globale dei fattori nel 2010-2017 era uno -0,4% annuo e nel 2018 un ulteriore 0,6%. In generale quindi si è avuto un progressivo rallentamento della crescita di decennio in decennio, sia pure in
modo non lineare, finché, dopo la grave crisi del 2008-2009, si è giunti a una situazione mondiale di pressoché
stagnazione.
Un’unica e interminabile “crisi” dal 1973 in poi? Sì e no. Sì nel senso che nell’ultimo cinquantennio si ha una
sovrapproduzione e sovraccumulazione generale, non limitata a uno o più settori, a livello mondiale, combinata
con un basso tasso di profitto nelle attività produttive. Questi sono dati permanenti. Per dare un’idea dell’ordine
di grandezza dal 2013-2014 la Cina ha riconosciuto ufficialmente che ha un problema di sovraproduzione
(sovraccumulazione), che nel settore dell’acciaio arriva addirittura ad essere pari a tutto il potenziale produttivo
europeo. Per quanto riguarda l’andamento del tasso di profitto nei settori produttivi i calcoli sono possibili e
affidabili solo per gli Usa, e le varie ricostruzioni fatte dagli economisti sono unanimi nell’individuare un drastico
calo di questo saggio fino al 1982 e un suo leggero recupero fino al 1990, ma largamente al di sotto del livello
iniziale. Dopo il 1990 il peso crescente delle attività finanziarie anche da parte delle imprese industriali, di servizi e
commerciali, complica enormemente il lavoro di ricostruzione: per taluni questo saggio cresce fino a quasi
raggiungere il picco del 1966 (Husson), mentre all’opposto per altri declina in modo uniforme (Freeman), e infine
vi è chi individua due picchi nel 1993-1997 e nel 2004-2006 ma che rimangono comunque a un livello pari a poco
più della metà del livello del 1950-1966, con un trend nell’ultimo cinquantennio decisamente decrescente (Smith e
Bukovsky; a un risultato compatibile giungono anche Carchedi e Roberts). Considerando una serie di altri dati
ritengo personalmente corretta quest’ultima ricostruzione, che è anche compatibile con un’analisi della finanza su
cui ritornerò successivamente.
Un’unica e interminabile “crisi” dal 1973 in poi? No nel senso che gli ultimi cinquant’anni hanno visto
cambiamenti radicali. Dal punto di vista economico gli Usa hanno conosciuto delle crisi in senso stretto nel 19741975, nel 1980-1982, nel 1990-1991, nel 2001 e nel 2008-2009; l’Europa ne ha conosciuto delle simili, con alcuni
scostamenti temporali. Gli anni ‘980 sono gli anni in cui un enorme flusso di ricchezza viene drenato dai paesi più
poveri a quelli più ricchi grazie ai meccanismi del debito, e sono gli anni in cui inizia un aumento del tasso di
sfruttamento dei lavoratori che prosegue ininterrotto fino ai giorni nostri. Dagli inizi degli anni ‘990 e per circa
vent’anni si susseguono cambiamenti epocali: l’Unione sovietica, i suoi paesi satelliti, e la Cina rientrano nel mercato
mondiale e nell’orbita capitalistica raddoppiando la forza-lavoro mondiale, e le multinazionali si impiantano
stabilmente in Cina ottenendo sovraprofitti favolosi; si avvia un processo di liberalizzazione, di deregulation e di
globalizzazione della finanza, del commercio e del movimento dei capitali; si internazionalizzano i processi
produttivi, non solo con investimenti esteri, ma soprattutto con global value chains, in pratica il subappalto da parte
delle multinazionali della loro produzione in una molteplicità di paesi, sfruttando i differenziali salariali e di
condizione delle classi operaie (all’apice dello sviluppo del mercato mondiale si stimava che più del 60% delle merci
esportate e importate fossero dei semilavorati); si sviluppa in modo impetuoso la tecnologia informatica e delle
comunicazioni, la cui diffusione nell’industria, nei servizi e nel commercio porta a enormi investimenti; si
affermano e si sviluppano oltre ogni limite ogni genere di attività finanziaria, che si allarga dal sistema bancario a
tutto il sistema produttivo, e si svincola da ogni tipo di regolamentazione grazie all’affermarsi di un sistema bancario
ombra a livello mondiale. In questo turbinio gli Stati uniti hanno conosciuto una primavera tra il 1992 e il 2006,
interrotta dalla crisi del 2001: in quindici anni ben sette hanno avuto un tasso di incremento del PIL superiore al
4%, e altri due un tasso superiore al 3%; tra il 1996 e il 2004 la produttività del lavoro media annua è cresciuta a
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un tasso superiore al 3%, nonostante la crisi intermedia – un valore su più anni ineguagliato dal 1971 a oggi; la
produttività globale dei fattori tra il 1996 e il 2005 è stata ben del 2% annuo (salvo il 2001), un valore paragonabile
a quello dei vent’anni “dorati” succeduti al 1950 (ma ben inferiore a quella degli anni ‘930 e ‘920); già si sono visti
i picchi in questo periodo dei saggi di profitto. Ma la belle époque clintoniana, e il successivo tetro periodo all’insegna
di Bush jr., anziché essere la fase iniziale di un’ “onda lunga” espansiva, sono stati il prologo al grande crollo del
2008-2009 e alla successiva stagnazione, in quanto dei grappoli di innovazioni tecnologiche sono sì elemento
necessario allo scatenamento di una tale “onda”, ma sono ben lungi dall’essere un elemento sufficiente – senza
contare che questa primavera fu solo statunitense e cinese, non mondiale, e che la primavera statunitense non riuscì
comunque a risolvere i problemi strutturali nell’industria, con la conseguenza che i deficit della bilancia
commerciale continuarono imperterriti.
In questi ultimi trent’anni è difficile sottovalutare il ruolo del “capitale finanziario” e della globalizzazione
finanziaria. Ha permesso ristrutturazioni industriali, ha favorito investimenti esteri e global value chains. Si è imposto
come la forma principale del capitale, e bilanci aziendali e bilanci statali devono sottostare alle sue regole. Infinite
truffe si consumano in suo nome, e atroci sfruttamenti. A mio avviso la migliore trattazione di questo soggetto è
un volume di Chesnais del 2016. Per lui il “capitale finanziario” (come opposto alla semplice “finanza”) è un
insieme che include non solo il sistema bancario ufficiale e quello “ombra”, ma anche i vari dipartimenti finanziari
delle grandi imprese industriali, di servizi e di commercio (la grande distribuzione a livello mondiale). A questo
proposito il “capitale fittizio” è un concetto chiave, di cui è possibile qui darne solo i tratti di base. Si parla di
azioni, di obbligazioni, di titoli di debito pubblico, di certo credito bancario e non bancario (da parte di fondi di
investimento e così via) che viene oggi “cartolarizzato”, cioè diventa un titolo finanziario acquistato e venduto.
Tutti questi titoli non sono dei capitali, ma sono dei diritti sul capitale altrui; ma vengono trattati come fossero
invece come capitali reali. Non si tratta di una truffa, anche se grazie a questi titoli se ne commettono parecchie.
Le azioni che circolano sono state inizialmente del credito a una data impresa, che lo ha investito per il suo
funzionamento, e che ai prestatori di denaro corrisponde una quota parte del profitto, un tipo particolare di
interesse chiamato dividendo, salvo annullare il debito riacquistando le azioni emesse. Ma il capitale non esiste due
volte, una sotto forma di capannoni e macchinari, e una sotto forma di azioni. Il valore di queste ultime è un valore
“fittizio”, “illusorio”, dato dalla capitalizzazione dei dividendi futuri attesi. Similmente i titoli di debito pubblico
sono stati inizialmente del credito allo Stato, che lo ha speso per pagare i suoi dipendenti e acquistare beni, o lo ha
investito in proprie imprese economiche, e che ai prestatori di denaro corrisponde una quota parte delle imposte
e delle tasse che preleva, un dato interesse sull’ammontare del credito ricevuto, salvo annullare il debito
riacquistando, o non rinnovando, i titoli di debito pubblico emessi. Ma anche qui non esistono due “capitali”, l’uno
materializzato nelle spese e negli investimenti statali e l’altro sotto forma di titoli di debito pubblico. Il valore di
questi ultimi è un valore “fittizio”, “illusorio”, dato dalla capitalizzazione degli interessi futuri attesi. Similmente le
aperture di credito bancario alle imprese oltre il capitale proprio e quello altrui dato in gestione, credito allo
scoperto, “creazione di denaro ex nihilo”, è capitale denaro fittizio, che si converte in capitale reale negli investimenti
delle imprese, e permane come attività finanziaria nel bilancio bancario. Questo capitale fittizio viene annullato
quando le imprese, producendo plusvalore, saldano il debito bancario contratto. Sia le azioni (le obbligazioni e il
credito bancario), sia i titoli di debito pubblico rappresentano diritti sulla produzione futura, in modo diretto per
le azioni (le obbligazioni e il credito bancario), e in modo indiretto per i titoli di debito pubblico (in questo caso il
plusvalore futuro deve prima tramutarsi in imposte e tasse). Uno sviluppo finanziario che data da circa un
trentennio è la cartolarizzazione dei crediti bancari, per cui anch’essi diventano dei titoli negoziabili sui mercati.
Questi titoli di credito, scambiandosi sui mercati finanziari, diventando merci i cui prezzi variano nel tempo, e
queste variazioni in parte riflettono la profittabilità futura attesa delle imprese interessate o del loro complesso, e
in parte sono speculative (ma la speculazione è sempre un gioco a somma zero, il guadagno dell’uno è la perdita
dell’altro – les affaires, c’est l’argent des autres). Per il singolo possessore di un dato ammontare di azioni questo “capitale
fittizio” può diventare reale se riesce a convertirle in denaro, ma solo a condizione che vi sia un compratore che
faccia una conversione opposta. Questo “capitale fittizio” svolge un ruolo essenziale nel capitalismo, permettendo
una moltiplicazione degli investimenti a livelli altrimenti impensati, concentrazioni industriali altrimenti
irrealizzabili, spostamenti di capitali tra i diversi settori tali da consentire una tendenziale equalizzazione dei saggi
di profitto, e fornisce delle garanzie, delle assicurazioni a fronte dei rischi d’impresa. Ma dall’altro crea l’illusione
che il capitale si moltiplichi per due, tre, quattro volte (così se A presta un capitale a B, e questi a sua volta lo presta
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a C, nel sistema bancario vengono registrati tre capitali, ma nella realtà ne esiste uno solo), entrando nei libri
contabili bancari e in quelli delle aziende che sviluppano attività finanziarie in proprio, figurando sia come attività
sia come profitti; ed entrando per questa via nella contabilità nazionale. È lo sviluppo immenso di questo capitale
fittizio, nelle sue nuove e inedite forme, che spiega le valutazioni così divergenti del saggio di profitto statunitense
dopo il 1992, inflazionando in taluni calcoli il numeratore (i profitti) con la conseguenza che vi è l’apparenza di
una crescita esponenziale del saggio di profitto; e in altri il denominatore (il capitale accumulato e investito), con
la conseguenza che vi è l’apparenza di un crollo costante dello stesso saggio.
La tesi fondamentale di Chesnais è che tutti i processi intercorsi negli ultimi 30 anni, e che si concretizzano in
un enorme aumento del tasso di plusvalore a livello mondiale, non siano riusciti a rialzare stabilmente il saggio di
profitto nelle attività produttive, in una situazione di sovraproduzione e sovraccumulazione che si prolunga da
cinquant’anni, ma hanno prodotto nel corso del tempo una enorme massa di profitti che cerca una valorizzazione
non più ottenibile nella produzione. “Questi profitti devono andare da qualche parte. Vengono affidati ai
dipartimenti finanziari aziendali a cercare, in concorrenza con banche, fondi pensione, fondi comuni di
investimento e hedge funds, una valorizzazione nei mercati attraverso prestiti e asset trading. Mentre l'accumulazione
vacilla e la quantità di plusvalore appropriato rallenta nonostante gli aumenti del tasso di sfruttamento, inizia un
processo cumulativo. L'insaziabilità degli investitori (la forma finanziaria dell’inestinguibile sete capitalistica di
plusvalore) accentua la finanziarizzazione sotto forma di innovazioni finanziarie e di sviluppo di capitale fittizio
nelle sue nuove forme contemporanee”. Questa crescente offerta di capitale denaro porta a una caduta del tasso
di interesse, rendendo sempre più difficile la sua stessa valorizzazione finanziaria: così solo operazioni sempre più
rischiose possono dare i risultati ricercati. Di qui una instabilità finanziaria endemica che porta a continue misure
di quantitative easing e di supporto al capitale fittizio con strumenti non convenzionali da parte delle Banche centrali,
la cui efficacia nel medio e lungo termine è tutt’altro che certa.
In quest’ottica lo sviluppo del capitale finanziario anziché essere antitetico all’industria è invece l’ “ultimo
rifugio” del capitalismo industriale, che permette sia di evitare un crollo alla anni ‘930, con conseguente distruzione
di capacità produttiva in eccedenza e di capitali sovraccumulati, sia di rialzare il tasso di sfruttamento e quindi
evitare un tracollo dei saggi di rendimento dei capitali. Ma da un lato sposta in là il problema senza risolverlo, e
dall’altro aggiunge nuovo materiale infiammabile sotto forma di bolle finanziarie destinate a scoppiare, con effetti
di ritorno sui meccanismi base capitalisti imprevedibili e potenzialmente catastrofici. Perché se il capitale finanziario
si nutre di plusvalore futuro, in una situazione di stagnazione (e di totale assenza di innovazione tecnologica) può
reggere solo con “piramidi”, che si autoalimentano fino al momento della inevitabile rottura. Così nei giorni
drammatici della pandemia del coronavirus mai è stato così chiaro che è solo il lavoro umano che permette alla
società di riprodursi, e dall’altro che la sete di plusvalore nella finanza e nella produzione è un ostacolo a questa
riproduzione, ma l’unica “soluzione” adottata a livello economico è aumentare sempre più il capitale finanziario
fittizio, in una infinita spirale di crescita.
Questa situazione drammatica non può terminare senza un crollo economico duraturo, che non sarà un prologo
ad altri vent’anni dorati senza che molte altre precondizioni siano soddisfatte. C’è qualcosa di vagamente simile alla
situazione dell’epoca classica dell’imperialismo? Questo parallelo è stato sviluppato da Arrighi in un suo lungo
saggio del 2003, poi rifuso nel suo ultimo libro, apparso nel 2007. Non considero quello che è il pensiero centrale
di Arrighi, quello dei cambiamenti di egemonia mondiale dal XV secolo a oggi, su cui non concordo; mi limito agli
spunti che solleva in un confronto serrato con le analisi di Brenner sul capitalismo contemporaneo. Confrontando
il periodo tra il 1873 e il 1896 (la “Grande depressione”) e il periodo tra il 1973 e il 1993 Arrighi trova “sorprendenti
analogie”: entrambi sono lunghi periodi di riduzione dei saggi di profitto caratterizzati da un inasprimento della
concorrenza tra le imprese capitalistiche, ed tutt’e due hanno fatto seguito a dei periodi di eccezionale prosperità,
in termini di produzione, di commercio, di profitti ottenuti. “In entrambi i casi la crisi dei profitti e l’intensificazione
della concorrenza sono stati generati dalle stesse tendenze che avevano dato vita all’espansione nel periodo
immediatamente precedente: il successo dei paesi emergenti nell’inseguimento del paese guida del momento e il
conseguente raggiungimento da parte loro di traguardi di sviluppo economico che prima erano ‘monopolio’ del
solo paese guida”. Mentre Brenner sostiene che solo con un drastico sfoltimento del sistema il capitalismo può
risolvere i problemi di sovraproduzione, di sovraccumulazione e di profittabilità, Arrighi ricorda che alla fine del
XIX secolo dopo “un periodo più che ventennale di relativa stagnazione, costellato da episodi di crisi e recessioni
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locali o di breve durata” i saggi di profitto tornarono a livelli alti senza alcun “drastico sfoltimento”. La chiave che
permette di spiegare questa dinamica per Arrighi è la finanziarizzazione dell’accumulazione, avvenuta sia nella Belle
Époque di fine ‘800 e inizio ‘900, sia in quella statunitense di fine ‘900 e inizio anni 2000, e ricorda che in quest’ultimo
periodo nella “tendenza verso la ‘finanziarizzazione’ dell’economia non finanziaria, non solo il settore
manifatturiero è [stato] quantitativamente predominante, ma è stato addirittura alla guida del processo”. Minacciate
dall’inasprirsi della concorrenza e per evitare un “macello dei capitali”, “le aziende mature ad alti costi hanno
risposto al calo dei profitti indirizzando una quota crescente delia disponibilità derivante dai ricavi verso la liquidità
o impieghi finanziari, invece che investirla in merci e capitale fisso”. Questo ragionamento di Arrighi si conclude
in un paragrafo significativamente intitolato “La Belle Époque come preludio alla crisi terminale”:
All’inizio degli anni novanta… sostenevo in un mio scritto che “l’analogia più sorprendente
[fra questa nuova Belle Époque e quella edoardiana] è la quasi totale assenza nei suoi beneficiati
della consapevolezza che l’improvvisa prosperità senza precedenti di cui stavano godendo non
si fondava sul superamento della crisi del processo di accumulazione che l’aveva preceduta”.
Invece “quell’improvvisa prosperità dipendeva dallo spostamento della crisi da un insieme di
relazioni a un altro insieme di relazioni. Era solo questione di tempo perché la crisi tornasse a
emergere in forme ancora più pericolose”. È una diagnosi che ricorda quella di Brenner
secondo cui la ripresa economica della seconda metà degli anni novanta negli Stati Uniti non
rappresentava “un superamento definitivo della lunga svolta recessiva”; e che, in effetti, il
peggio doveva ancora venire […] Il crollo e la Grande depressione degli anni trenta (l’unico
esempio negli ultimi centocinquanta anni che possa corrispondere a quello sfoltimento
generalizzalo di tutto il sistema, o “vera e propria depressione” evocata da Brenner) costituisce
una parte integrante dell’ultima rottura del sistema. Il successo colto dalla controrivoluzione
monetarista nel fare dell’espansione finanziaria degli anni settanta il motore del recupero di
ricchezza e potere degli Stati Uniti negli anni ottanta e novanta non è affatto una garanzia che
un simile crollo sistemico non possa ripetersi ancora. Anzi, le dimensioni stesse e la profondità
della trasformazione potrebbero aver aggravato a tal punto i problemi di realizzo monetario
su scala globale da rendere più probabile una “vera e propria depressione”.
Arrighi sottolinea anche le profonde differenze che caratterizzano questi periodi. Quella ovvia è la formazione
di Imperi coloniali e la corsa verso la Grande guerra tra XIX e XX secolo, che non ha riscontri odierni – ma questo
è un aspetto specifico che può essere analizzato solo considerando una serie di fattori aggiuntivi, su cui ritornerò
più avanti. A livello economico balzano agli occhi il predominio del protezionismo e della tendenza alla rottura del
mercato mondiale tra ‘800 e ‘900, rispetto all’ampliamento del mercato mondiale e alla sua generale liberalizzazione
tra ‘900 e anni 2000 (anche se la liberalizzazione reale dei paesi avanzati è ben minore di quanto ufficialmente
proclamato): da un lato questo esprime la maggiore estensione e la maggiore profondità della finanziarizzazione
dell’accumulazione quale la stiamo vivendo oggi rispetto a un secolo fa, consentendo un’estrazione mondiale di
plusvalore assoluto (e in minor grado relativo) a livelli storicamente inediti, e dall’altro rinvia a dinamiche della
politica mondiale su cui mi soffermo successivamente. Infine, Arrighi sottolinea il fatto che la potenza allora
egemone (ma in declino), l’Inghilterra, continuò a rifornire di capitali il mondo intero, mentre da decenni gli Stati
uniti importano capitali esteri “a una velocità senza precedenti nella storia”. Quello che permise questo ruolo
all’Inghilterra un secolo orsono fu il possesso dell’India, che funzionò da “assicurazione sulla vecchiaia”, mentre
non solo gli Stati uniti oggi non godono di una tale “assicurazione”, ma a fronte dello squilibrio crescente della
bilancia dei pagamenti dal 2014 l’afflusso di capitali non è più coperto dall’insieme delle Banche centrali estere, ma
da capitali privati, creando angosciose incertezze nell’establishment statunitense. Il tentativo di Trump di ricondurre
a un certo equilibrio la bilancia commerciale per mezzo di molteplici guerre tariffarie sembra destinato
all’insuccesso. La configurazione internazionale odierna è quindi molto più fragile di quella di un secolo or sono.
A queste differenze aggiungerei anche che la Belle Époque del 1896-1914 fu più robusta e più estesa, cioè fu in tutto
e per tutto mondiale, rispetto alla Belle Époque del 1992-2006, grazie all’effetto sull’economia mondiale della scoperta
dei ricchi giacimenti auriferi del Rand sudafricano, e quindi dell’aumento drastico della produttività del lavoro nelle
miniere aurifere, mentre oggi stiamo vivendo da almeno un ventennio la situazione esattamente opposta, la
produzione di oro da miniere sempre meno produttive e quindi una diminuzione drastica della produttività del
lavoro nelle miniere aurifere.
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Ero partito con la domanda: come caratterizzare la fase attuale del capitalismo? Personalmente vedo una fase
storica in sé conclusa di circa ottanta anni dal 1870 al 1950, e una analoga apertasi nel 1970. Pur con diverse ottiche
sia Arrighi che Freeman ritmano la storia del capitalismo in questo modo. La mia risposta alla caratterizzazione
della fase attuale è che viviamo un periodo storico di incubazione di una “crisi gigantesca” del sistema capitalistico,
esattamente come un secolo fa, e non vi è all’orizzonte alcun elemento che possa far pensare che a questa “crisi
gigantesca” possa succedere un nuovo rilancio capitalistico. Siamo, oggi come un secolo fa, in un periodo di
“capitalismo morente”, di “agonia del capitalismo”. Alla domanda che si pose Schumpeter nel 1942 “può il
capitalismo sopravvivere?”, anch’io rispondo: “no, non penso”.
La seconda domanda è relativa alla “politica mondiale”, all’ambito delle politiche statali, espressione delle classi
e delle frazioni delle classi dominanti. Esiste un “sistema di Stati” che regge la politica mondiale? Qual è la sua
dinamica? Il dibattito di questi ultimi venti anni sul “nuovo imperialismo” non si pone in questa ottica, ma di certo
affronta gli stessi argomenti.
Dal 2000-2003 c’è stato un diluvio di letteratura sul “nuovo imperialismo”, diluvio che ha conosciuto i suoi
momenti più straripanti con l’attacco statunitense all’Afghanistan e all’Iraq, e con la proclamazione di Washington
di una “guerra infinita” contro i suoi veri o presunti nemici variamente definiti a seconda delle occasioni. Di tutta
questa letteratura utilizzo due sintesi, fatte rispettivamente da Callinicos nel 2009, e da Webber e Gordon nel 2020.
Secondo Callinicos si possono individuare tre posizioni: la prima, espressa da Hardt, Negri e Robinson, sostiene
che oggi il capitalismo è organizzato lungo linee transnazionali sia economicamente che politicamente, e di
conseguenza i conflitti geopolitici tra i principali stati capitalisti sarebbero obsoleti; la seconda, espressa tra gli altri
da Panitch e Gindin (secondo Callinicos in questo gruppo andrebbe iscritta anche la Wood), sostiene che il
capitalismo necessita di un sistema di Stati, e che dalla Seconda guerra mondiale gli Usa sono riusciti a costruire un
“impero informale” dove gli Stati uniti da una lato subordinano a sé gli altri grandi Stati capitalisti e dall’altro
gestiscono i loro comuni interessi – di conseguenza anche per questa posizione i conflitti geopolitici tra i principali
stati capitalisti sarebbero obsoleti; la terza posizione (in cui si riconoscerebbero lo stesso Callinicos, Harvey, Serfati
e altri) si articola su tre tesi: il capitalismo globale “deve ancora uscire” dalla crisi iniziata nei primi anni settanta, i
tre centri di questo capitalismo (Europa occidentale, Usa e Asia orientale) sono tra loro in competizione economica
e politica, e di conseguenza nel contesto di una “onda lunga” depressiva persistente possono sorgere tra loro
conflitti geopolitici, nonostante le asimmetrie di potere militare esistenti tra loro. Infine per Callinicos vi sono
posizioni “eccentriche” a questo schema, come quelle di Arrighi (“si espande con brio in tutte e tre le posizioni:
respinge certamente le premesse di Hardt e Negri ma accetta le loro conclusioni, che le rivalità geopolitiche sono
obsolete, affermando inoltre che, sebbene gli Stati Uniti siano attualmente egemonici, il loro dominio è
probabilmente entrato in una ‘crisi terminale’) e di Brenner (“occupa una posizione in qualche modo più vicina a
Hardt e Negri e Robinson, secondo la quale l’egemonia degli Stati Uniti, quando esercitata razionalmente, e non
lo era sotto Bush II, serve gli interessi condivisi degli Stati capitalisti avanzati in una pacifica globalizzazione
neoliberista […] Brenner… ha sostenuto che l'unilateralismo militarista adottato dall’amministrazione di George
W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre non era nell'interesse del capitale americano”). Questa divisione in tre
posizioni richiama quella standard che veniva usata da decenni, tra sostenitori dell’esistenza di un
superimperialismo (per cui gli Usa dominano tutti gli altri stati capitalisti, ridotti ad avere limitati margini di manovra
politici ed economici a livello internazionale), i sostenitori dell’esistenza di un ultraimperialismo alla Kautsky (per
cui esiste una coalizione tra le grandi potenze capitaliste che preserva l’unità e la continuità del sistema), e i
sostenitori dell’esistenza di una continua rivalità interimperialista. Tra i sostenitori della odierna terza posizione
Harvey e Callinicos hanno affermato che vi sarebbero due distinte logiche all’opera, una “territoriale”
(coinvolgendo questioni di sicurezza, territori, risorse e influenza internazionale) da parte degli Stati, e una
capitalista in senso stretto, e l’imperialismo sarebbe “l'intersezione della competizione economica e geopolitica”
(Callinicos).
Webber e Gordon accettano lo schema proposto da Callinicos, ma sono critici di tutte e tre le letture attuali
dell’imperialismo. Per loro
le teorie esistenti sull'impero e la formazione dello Stato transnazionale sottostimano il potere
permanente degli Stati-nazione nell'attuale ordine mondiale. Le tesi che sostengono la
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formazione di una classe capitalista transnazionale descrivono accuratamente alcuni aspetti
degli sviluppi recenti nel capitalismo globale, ma esagerano la maturità di questi processi in
modi non comprovati. Le teorie incentrate sulla supremazia statale degli Stati Uniti valutano
in modo insufficiente la subordinazione di tutti gli Stati alla legge del valore, che opera dentro
e attraverso lo spazio del mercato mondiale, che è diseguale e iper-complesso. Infine, gli
approcci delle due logiche dell’imperialismo capitalista non sono in grado di cogliere
l'integrazione dialettica di stato e capitale […] La disputa accademica sulle questioni
“economiche” tende in ultima analisi a stabilire se predominano i capitali nazionali o il capitale
transnazionale, mentre il dibattito sulle questioni “geopolitiche”... tende a ruotare attorno al
predominio della concorrenza rispetto al coordinamento nel sistema mondiale. Ognuno di
questi dibattiti ha incontrato i propri limiti interni. Vi sono una serie di lacune e di limitazioni
nella letteratura esistente sull'economia politica internazionale e la geopolitica.
In specifico contro la terza posizione affermano che c’è un’integrazione storicamente data di Stato e capitale, e
che questa integrazione va contro la nozione di due distinte logiche di potere: questa integrazione sarebbe data
dalla commistione di mercati finanziari privati e debito pubblico. Il denaro di uno Stato (denaro di credito) dipende
dai mercati finanziari, che convalidano questo denaro solo se gli attori del mercato sono convinti che la logica della
finanza capitalista è stata interiorizzata dallo Stato e che i suoi imperativi governano la traiettoria generale della
politica fiscale, fiscale e monetaria; in ultima analisi gli Stati sarebbero subordinati al mercato mondiale, dove
dominano “intense rivalità, gerarchie e dominio imperiale” (nel formulare questa critica Gordon e Webber
utilizzano un lavoro del 2014 di McNally). Tuttavia, questa critica non rende troppa giustizia al lavoro di Callinicos
che (sulla base di vecchi lavori di Barker e di Block) afferma che le risorse statali debbono essere considerate come
una quota parte del plusvalore nazionale e riconosce
la tendenza dello Stato ad agire nell’interesse del capitale senza che sia necessario sostenere
una cospirazione da parte delle grandi imprese per modellare le politiche pubbliche in base alle
sue esigenze, o anche per supporre connessioni particolarmente strette tra capitalisti e dirigenti
statali. Tutto ciò che serve è che i singoli capitali prendano decisioni di investimento calcolate
per massimizzare la propria redditività; e l’effetto netto e non intenzionale di queste azioni...
sarà quello di spingere la politica statale in una direzione che tende a promuovere
l’accumulazione di capitale.
Una critica a mio avviso più fondata alle “due logiche” è invece quella avanzata da Sakellaropoulos e Sotiris in
un loro lavoro del 2015, dove criticano l’identificazione dell'imperialismo con l’espansione territoriale e le
spiegazioni delle rivalità internazionali sulla base della geopolitica delle risorse e della scarsità:
Lenin cercò di pensare al sistema internazionale come una complessa unità di contraddizioni
economiche, sociali e politiche, come una gerarchia di formazioni sociali, impegnata non solo
nella competizione economica ma anche nell’antagonismo politico e militare. Il punto più
importante nell'approccio di Lenin è che le relazioni sociali hanno la priorità analitica rispetto
alle relazioni interstatali. I comportamenti degli Stati sul piano internazionale sono condizionati
dalla loro struttura sociale e dall’equilibrio delle forze nella lotta di classe. L’imperialismo non
è il risultato di una semplice spinta verso l’espansione territoriale, ma è sia il risultato di
tendenze specifiche nello sviluppo dell’accumulazione capitalistica… e delle contraddizioni che
emergono dalla natura antagonista di classe del capitalismo. Questo è il motivo per cui Lenin
considera l’imperialismo come una tappa specifica nello sviluppo del capitale […] La
geopolitica tradizionale, al contrario, con i suoi riferimenti alle “sfere di influenza”, agli
“interessi strategici” e alle “risorse vitali”, tende a riprodurre un’immagine del mondo che ha
più a che fare con la visione coloniale-imperiale […] non bisogna dimenticare che le due guerre
mondiali non furono principalmente il risultato di controversie territoriali... Erano una lotta
per la leadership e l’egemonia nel mondo capitalista. Queste guerre erano principalmente
forme del crescente antagonismo politico... riguardanti la posizione egemonica nella catena
imperialista. […] Il fatto che questo antagonismo prenda la forma di uno scontro militare o
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rimanga in termini politici (vale a dire, entro i limiti dell’attuale diritto e consuetudine
internazionale) dipende dalla congiuntura, dalla portata degli interessi e delle strategie in gioco,
dall’equilibrio delle forze sia a livello regionale che globale, dalla configurazione sociale e
politica interna e dalla valutazione se lo sforzo bellico galvanizzerà o destabilizzerà l’egemonia.
Ma qual’è l’attuale configurazione della “catena imperialista”? E come fare a misurarla? Su questo aspetto del
problema si sofferma Norfield in un suo lavoro del 2017. Utilizzando le misure del PIL, dello stock di investimenti
all’estero, delle attività e passività bancarie internazionali, del ruolo della valuta nelle transazioni internazionali e
delle dimensioni della spesa militare, Norfield individua sotto gli Stati uniti un secondo livello di Grandi potenze
che include Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone e Cina, e un terzo livello che comprende tra gli altri
Svizzera, Italia, Canada, Russia e Australia, pur riconoscendo che nessuna statistica è in grado di catturare processi
dinamici con interazioni complesse e di lungo periodo tra i vari paesi (determinati dalle tendenze proprie del
capitalismo a sviluppi diseguali e combinati).
La conclusione di Callinicos è che la concorrenza tra i paesi capitalisti avanzati a partire dagli anni ‘960 e ‘970
non si sia tradotta conflitti geopolitici per tre ragioni: il conflitto bipolare con l'URSS agiva come una forza
disciplinante sugli Stati capitalisti avanzati; gli Stati Uniti hanno cercato aggressivamente di mantenere la propria
posizione egemonica; e da ultimo ci sono stati i benefici che gli altri Stati hanno ottenuto partecipando allo spazio
liberale transnazionale, in particolare grazie all’aumento dell’integrazione economica globale. Quindi gli Stati Uniti
sono rimasti il potere capitalista dominante, sia pure in relativo declino, ma mantengono questa posizione grazie a
importanti sforzi per mantenere la propria egemonia nelle tre regioni chiave, Europa, Estremo Oriente e Medio
Oriente. Callinicos ritiene che questa situazione sia tuttavia instabile soprattutto per la crescente distribuzione
globale del potere economico, che può limitare le risorse americane ed espandere le opzioni di altri Stati-potenze.
Webber e Gordon non arrivano a delle vere e proprie conclusioni, ma a una agenda di lavoro per la ricerca futura.
Per loro bisogna partire dal concetto di un “sistema mondo” stratificato in modo complesso, la cui dinamica deve
essere colta sia considerando le specificità capitaliste, e la sua totalità, la molteplicità di Stati e capitali, e la
strutturazione del mondo in catene imperialiste. Sottolineano comunque “la persistenza, e non l’obsolescenza, di
forme variegate di rivalità geopolitica tra diversi capitali e Stati, anche se ciò non significa una guerra militare
imminente tra le grandi potenze. I processi di accumulazione globale portano a concentrazioni territoriali e
geografiche... di capitali che privilegiano determinate aree a spese di altre e tendono a rafforzarsi nel tempo”.
La letteratura sul “nuovo imperialismo” ha ricevuto un decisivo impulso dalla guerra di Washington contro
l’Iraq nel 2003, e quindi è doveroso attendersi che i vari autori abbiano risposto alla semplice domanda del perché
di questa guerra. Così come è doveroso attendersi che i sostenitori di una “concorrenza interimperialista” tra Stati
uniti, Europa e Giappone (la “triade”) abbiano risposto alla semplice domanda del perché questa concorrenza non
si sia sviluppata sul piano “geopolitico” dopo il 1991, con il crollo dell’Unione sovietica. Alla prima domanda,
nonostante l’ampio spettro di posizioni teoriche avanzate, la risposta (quasi) corale è stata: il petrolio. Per alcuni è
stato il solo motivo di questa guerra, pur con articolazioni diverse degli interessi statunitensi a questo proposito,
per altri sono intervenuti anche altri fattori, più o meno rilevanti, ma alla fine al centro rimane il petrolio iracheno.
Così la pensano, per fare alcuni nomi, Harvey, Serfati, Callinicos, Katz, Desai, Astarita, Achcar, Mann… anche i
sostenitori dell’imperialismo non territoriale, Sakellaropoulos e Sotiris, si uniscono al gruppo. Uniche voci fuori dal
coro sono stati Brenner, come già si è visto, e la Wood, per la quale la guerra irachena era una dimostrazione di
forza da parte statunitense per ribadire al mondo intero la propria supremazia. Alla seconda domanda le risposte
variano. Per qualcuno l’importante è che sussistano le potenzialità di conflitti “geopolitici”, la cui trasformazione
in realtà dipende da una molteplicità di fattori (Davidson, Sakellaropoulos e Sotiris), o fanno dipendere il
manifestarsi di tali conflitti al prolungamento dell’ “onda lunga” depressiva (Callinicos; Albo prende in
considerazione questa ipotesi ma per rigettarla), o semplicemente dicono che la comunanza di interessi prevale
sulla concorrenza, pur non annullandola o che la supremazia militare Usa è talmente schiacciante da impedire
qualsiasi velleità di confronto militare da parte delle altre potenze (per entrambe queste ultime due spiegazioni:
Wood, Katz, Serfati). Infine in diversi sostengono che l’integrazione dei capitali transatlantici assicurerebbe la pace
(giustamente Callinicos ricorda che la relazione tra integrazione internazionale dei capitali e guerra è storicamente
l’opposto di quanto sostengono questi autori). Ma a parte queste ultime due posizioni, che arrivano a negare
possibili competizioni “geopolitiche” nel futuro, tutte le altre non spiegano perché né l’Europa, né il Giappone si
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siano mai neppure preparate a dei conflitti “geopolitici” futuri, non abbiano cioè mai proceduto ad aumentare le
proprie spese militari e a preparare ideologicamente la propria popolazione. Il ruolo della Cina nella “concorrenza
interimperialista” crea abbastanza imbarazzi, visto che non vi è affatto unanimità sulla natura imperialista di questo
paese.
In generale questo dibattito è stato a mio avviso abbastanza deludente, ben diverso dalla vibrante discussione
di un secolo fa, pur con tutti i limiti che oggi, col senno del poi, si possono rilevare in quel vecchio dibattito. La
maggior parte degli interventi oggi è di tipo accademico, scritti in una lingua franca incomprensibile alla gente
ordinaria, con il prevalere di teorizzazioni astratte sulle spiegazioni del corso degli avvenimenti, con la
preoccupazione di dare una patina elegante e sofisticata del marxismo, in modo che possa essere degno di figurare
a pieno titolo nel mondo accademico. L’aggettivo più ricorrente in questi contributi è “complesso”. La maggior
parte degli interventi non è fatta per esser letta da dei lavoratori o delle lavoratrici. Inoltre prevale il conio di
espressioni ad effetto, che dovrebbero sintetizzare il pensiero dell’autore, ma che in realtà sono per lo più solo
“etichette” brillanti: “l’Impero del capitale” (Katz, Wood), “l’accumulazione per espropriazione” (Harvey), “la
globalizzazione armata” (Serfati), “l’imperialismo globale” (Screpanti), “l’Impero come catena imperialista nel suo
insieme” (Milios e Sotiropoulos), e così via. Non mancano teorizzazioni bizzarre, come quella dei Patnaik, per cui
i prodotti agricoli tropicali assicurerebbero la sopravvivenza del capitalismo, teoria fatta a pezzi da uno dei pochi
testi di Harvey che ho apprezzato (confesso che mi ha stupito che una grande e importante studiosa come Utsa
Patnaik abbia potuto scrivere cose del genere). Infine può essere utile chiarire alcuni punti specifici, finora incontrati
nella ricostruzione del dibattito di questi ultimi vent’anni. In primo luogo, affermare che gli Stati dipendono
dall’accumulazione dei capitali nazionali è vero ma troppo generico. Le risorse di ogni Stato dipendono dalle
imposte, che sono certo quota parte del plusvalore prodotto, ma non solo, in quanto si devono considerare le
imposte dirette sulla piccola borghesia e lavoratori autonomi, che non possono essere considerate plusvalore, e le
imposte indirette, pagate per lo più dai lavoratori e dalle lavoratrici. In altri termini lo Stato oltre a essere uno
strumento nella lotta di classe, è anche un terreno di lotta fra le classi. Lo Stato arraffa le uova d’oro della gallina
capitalista, da cui in ultima analisi dipende, ma la gallina in questione cerca di trattenere per sé il più possibile, e
cerca di indirizzare lo Stato altrove, verso piccola borghesia e lavoratori, che talvolta però lanciano grida indignate
per i furti che devono subire sui loro pochi averi. Volta per volta, paese per paese, bisogna analizzare la situazione.
Inoltre il potere statale può essere detenuto da specifiche frazioni della classe dominante, che antepongono i propri
specifici interessi a quelli complessivi dei capitali nazionali – non si può postulare una integrazione tout court tra
Stato e capitale, bisogna invece analizzare concretamente caso per caso, periodo storico per periodo storico. E poi:
quali sono gli interessi complessivi dei capitali nazionali? Come si determinano? Attraverso quali processi
emergono in modo esplicito? Come fa un’opzione ad avere la meglio sulle altre? In secondo luogo, il tentativo di
Norfield di identificare la scala gerarchica imperialista è confuso: una cosa è la scala gerarchica dei vari paesi da
punto di vista capitalistico, che Marx sosteneva fosse determinata dalla produttività complessiva nazionale del
lavoro; altra cosa (e che può divergere dalla prima) è la scala gerarchica del potere di ogni paese e del riconoscimento
che gode da parte altrui – la Germania verso la fine dell’800 poteva essere un importante paese dal punto di vista
capitalistico, avere il migliore esercito in Europa, e al contempo essere la “quinta ruota del carro” nel sistema
internazionale europeo. In terzo luogo, molti autori odierni sottolineano le iniziative statali, soprattutto statunitensi,
ma non solo, di tipo “cospirativo”, che indubitabilmente esistono, ma nell’ambito delle relazioni internazionali,
non nell’ambito del funzionamento economico del capitalismo. Pensare che gli Stati determinino a loro piacere
tassi d’interesse, tassi di cambio, crescita economica, e via discorrendo, è attribuire agli Stati dei poteri che
certamente non hanno (vi è chi ha seriamente sostenuto che le crisi asiatiche del 1997-98 furono il risultato di una
cospirazione americana!). In quarto luogo, condivido la critica alla “geopolitica” espressa da Sakellaropoulos e
Sotiris contro Harvey e Callinicos, e che sia una cosa importante riconoscere che “i comportamenti degli Stati sul
piano internazionale sono condizionati dalla loro struttura sociale” (più che condizionati determinati), ma è
riduttivo dire che vi può essere solo “una lotta per la leadership e l’egemonia nel mondo capitalista”. Ciascuno
Stato ha poteri e ruoli variabili nel sistema internazionale, e anche se uno Stato non ha ambizioni egemoniche,
semplicemente perché non se lo può permettere, può però cercare di migliorare la propria posizione, o cercare di
non venire retrocesso, e innestare lotte e iniziative il cui esito non è predeterminato. Come ho già detto non penso
che “imperialismo” sia lo sfruttamento del sud del mondo, o dei suoi lavoratori: entrambe le cose ci sono e
rientrano nel normale funzionamento del capitalismo e degli Stati capitalisti. Smith ha prodotto un libro, la cui
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prima metà di tipo empirico è ottima, sullo sfruttamento dei lavoratori dei paesi poveri da parte dei capitali dei
paesi ricchi – l’unico suo errore è aver intitolato il libro “L’imperialismo del ventunesimo secolo”. Come non penso
che “imperialismo” possa essere qualcosa come “Wall Street e Washington”, come fanno Panitch e Gindin, e
tantomeno ritengo che la globalizzazione abbia ridotto a poco più di nulla i poteri degli Stati. Mi ritrovo quindi
nell’ambito dei sostenitori della “concorrenza interimperialista”, sia pure in modo critico. Da parte mia cerco di
porre alcuni problemi, alcuni spunti e di proporre alcuni “modi di pensare” diversamente la situazione attuale.
Si è visto che dalla seconda metà del ‘700 ai primi anni del ‘900 è stato in vigore un sistema di Stati che prevedeva
una serie di vincoli, possibilità e regole, che permise un secolo senza guerre generali in Europa. Questo sistema,
nato per mantenere una Europa arretrata e semifeudale, fu eretto da una alleanza tra una “vecchia borghesia”
inglese, più versata alla rapina e al saccheggio che alla produzione, e l’autocrazia asiatica russa, e permise una
supremazia zarista nell’Europa continentale per circa un secolo. Questo sistema resse nonostante le trasformazioni
del periodo rivoluzionario e napoleonico (1789-1815) e non crollò nel 1848-49 solo per l’abdicazione della
borghesia al potere. Dopo 25 anni di trasformazioni prodigiose tra il 1858 e il 1873, sopravvisse a sé stesso fino al
1896 retto solo dalla paura della rivoluzione e di una guerra dagli esiti imprevedibili, dalle debolezze di tutti gli
attori in gioco, ridotti a Potenze fittizie, dalla praticabilità esclusiva di soluzioni di ripiego, in cui solo interessi
prudenziali erano soddisfatti. Il debole perno che permetteva la sopravvivenza di questo sistema era la tenuta della
coppia Impero asburgico e ottomano (i due “grandi malati” d’Europa) – quando gli altri Stati se ne disinteressarono
e permisero il loro crollo, crollò tutto il sistema internazionale. In questo sistema per lungo tempo il governo
inglese condusse una politica estera contraria agli interessi nazionali, i nemici ufficiali erano alleati con favori
reciproci (Russia e Inghilterra), gli alleati ufficiali erano di fatto nemici (Austria e Russia), e nella politica mondiale
valeva più essere arbitro che essere il più potente. La politica interna di ogni Stato, dove i rapporti di classe
determinavano le scelte, era inestricabilmente in un ambito internazionale, e non solo le alleanze di classe
internazionali permettevano a settori senza basi di massa di governare (Inghilterra), ma addirittura le alleanze di
fatto internazionali permettevano l’esistenza di Stati altrimenti improbabili (Prussia), e guerre in cui quello che
predominava era il bluff permettevano a regimi in crisi di continuare a vivere (Francia). Ci furono guerre “false”,
pur con numeri terrificanti di morti (Crimea), l’autocrazia asiatica russa divenne da garante dell’ordine semifeudale
europeo l’ancora di salvezza delle borghesie europee, e i paesi più ricchi diventarono quelli più vulnerabili. Mi scuso
per l’ennesima ripetizione di cose già dette, ma ritengo che a questo punto dell’esposizione la ripresa di questi temi
possa essere utile per capire la situazione attuale. L’intelligibilità delle “complessità” di allora può essere utile ad
avere uno sguardo più spregiudicato sulle “complessità” odierne.
La mia ipotesi è che gli Stati uniti siano oggi nei fatti non solo una Potenza fittizia, ma anche il “grande malato”
del mondo d’oggi. La prima affermazione può stupire: la potenza militare statunitense non ha lontanamente alcun
concorrente possibile in tutto il mondo. Quasi tutti i commentatori sono abbagliati dalle percentuali mirabolanti
delle spese in armamenti degli Usa, ma non tutti. Chesnais ci ricorda che gli Usa non hanno né la capacità militare
(ben diversa dalla sola alta tecnologia), né le relazioni internazionali, né probabilmente le relazioni politiche interne,
necessarie per avere un Impero territoriale. Sapir analizza la dottrina militare americana, derivata da quella sovietica
degli anni ‘980, e conclude sul suo totale fallimento in Iraq (un analogo fallimento fu quello israeliano in Libano
nel 2006, e personalmente aggiungerei il fallimento saudita nello Yemen negli ultimi anni). Afferma: “è possibile, e
anche probabile, che l’opinione americana non sia pronta ad accettare un ritorno a forme di coscrizione… Il
fallimento americano trova qui la sua radice”. Arrighi conclude:
Con il 2005, il progetto imperiale neoconservatore si è rivelato un completo fallimento, sulla
base del quale si possono trarre le seguenti conclusioni. Primo, la guerra in Iraq, anziché
rappresentare per gli Stati uniti un modo per liberarsi dalla “sindrome del Vietnam”, ha
confermato le lezioni della sconfitta in Vietnam. Il fatto che gli Stati uniti controllino un
apparato militare con una capacità di distruzione senza precedenti nella storia significa poco o
nulla in termini di capacità d’imporre sul terreno la propria volontà agli altri popoli. Il
fallimento in Iraq – in condizioni più favorevoli rispetto al Vietnam – ha minato il potere che
gli Stati uniti potevano trarre da una credibile minaccia di uso della forza, in quanto unica
superpotenza militare al mondo.
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L’impossibilità politica di mobilitare la propria popolazione in delle guerre “serie” rende tutto l’apparato di
“armi di distruzione di massa” in possesso agli Stati uniti un’arma spuntata – le guerre “serie” si vincono con i
soldati, non con un po’ di mercenari, e con la tenuta del “fronte interno”. Washington non può oggi permettersi
guerre serie. Ma non solo gli Usa sono una Potenza fittizia, ma anche il “grande malato” del mondo. La sua
dipendenza dai capitali esteri è un refrain ben noto. Per la Desai “la struttura finanziaria mondiale... si comporta
essenzialmente come un gigantesco aspirapolvere, che succhia capitali dal resto del mondo e li riversa nell’economia
americana”. Trentacinque anni di bilance commerciali negative cumulate hanno creato una situazione che
metterebbe in ginocchio una potenza dieci volte più forte di quella americana se gli investitori esteri ritirassero i
loro averi. La fragilità statunitense è in questa dipendenza. Katz domanda: se i sostenitori del declino americano
avessero ragione, perché diavolo i suoi concorrenti lo sostengono, anziché annientarlo? Perché nessuno ne
approfitta? La risposta è nella configurazione dell’attuale sistema di Stati: tutti accorrono a sostenere gli Usa perché
un suo crollo, a termine comunque inevitabile, comporterebbe il crollo di tutto il sistema internazionale interstatale,
con conseguenze inimmaginabili e catastrofiche.
La domanda da cui ero partito era se esista oggi un “sistema di Stati” e quale sia la sua dinamica. La mia ipotesi
è che oggi sussista ancora il sistema di Stati inaugurato nel 1945-1949. Le politiche statali sono determinate dalle
classi e dalle frazioni delle classi dominanti, e quindi un’analisi di questo sistema nella sua fase di “piena operatività”,
dal 1945-49 al 1989-92 implica un lavoro di ricostruzione, ben superiore alle mie energie e capacità, delle dinamiche
sociali nei singoli paesi e delle loro interrelazioni internazionali in questo periodo. La ripresa e la riconsiderazione
critica delle varie analisi della situazione mondiale tra il 1945 e il 1985 fatte dalla Quarta internazionale sarebbero
un passaggio obbligato in questo lavoro di ricostruzione. Ma alcune considerazioni generiche sono a mio avviso lo
stesso possibili. Come nell’ottocento l’allora sistema sopravvisse a cambiamenti radicali nella situazione sociale e
statale europea, grazie prima al “tradimento della borghesia”, e poi alla comune fragilità, così ritengo che analoghi
enormi cambiamenti sociali e statali intervenuti negli ultimi trent’anni non siano riusciti a distruggere il sistema
interstatale esistente. Penso che il “collasso” del movimento operaio negli anni ‘980 in Europa occidentale e negli
Stati uniti sia stato un fattore di una qualche importanza per questa sopravvivenza. Questo sistema è certo il
“fantasma di sé stesso”, ma regge ancora i destini del mondo. Una sua espressione è la Nato, un’altra è l’Onu,
un’altra ancora sono i vertici tra i paesi più importanti; ma al di là di queste organizzazioni più o meno formalizzate,
sussistono regole non scritte, vincoli impliciti, possibilità consentite, ambiti mentali, condivisi dai governi di questi
paesi. Questo sistema fa sì che sia vero solo molto parzialmente quello che afferma Brenner, per cui i governi fanno
la loro politica estera, ma non potendo controllare e predire quella altrui possono innescare reazioni a catena non
controllabili da nessuno Stato. Ma questo sistema, da almeno trent’anni del tutto anacronistico (come per tantissimi
decenni lo fu il suo omologo ottocentesco), fatica sempre più a gestire le crisi che inevitabilmente sorgono in tutto
il pianeta, crisi sociali in primo luogo, ma anche nazionali, e di collassi statali che permettono l’emergere di “signori
della guerra” che sono anticonvenzionali attori economici-militari, come Daesh (che a differenza di altri si è dotata
di una patina ideologica per legittimare adesioni e atrocità). Fatica anche a gestire le aspirazioni da parte delle nuove
potenze (o di quelle vecchie, ma risospinte violentemente all’indietro, come la Russia) di salire di un gradino nella
scala del proprio potere internazionale: oltre alla Russia già citata, un elenco non esaustivo include la Turchia,
l’Egitto, l’Iran, l’India, l’Indonesia, il Brasile, il Sud Africa e last but not least ovviamente la Cina. Gli ultimi arrivati,
oggi come un secolo fa, sono anche i più spregiudicati. Queste “nuove potenze” hanno storie diverse: la Cina è
sempre stata esterna all’ “ordine di Yalta”; la Russia ne faceva ben parte, ma si è ritrovata retrocessa di un buon
numero di posizioni; anche la Turchia ne faceva parte in una posizione semicoloniale, ma pur continuando a far
parte della Nato segue un percorso largamente autonomo; gli altri paesi hanno seguito un analogo percorso di
emancipazione più o meno compiuto. Tutte vogliono salire di un gradino nella scala del proprio potere
internazionale, ovviamente in funzione della propria capacità e forza economica, e le ambizioni cinesi sono di
conseguenza ben più sostanziali di quelle delle altre “nuove potenze”. Sono imperialisti tutti i paesi che servono gli
interessi della propria borghesia nazionale, e oltre alle “vecchie Potenze” nel cui interesse venne costruito il
“sistema di Stati” dopo la Seconda guerra mondiale, anche le “nuove potenze” rientrano in questa definizione.
Rimangono semicoloniali i paesi i cui governi, pur essendo formalmente autonomi, operano nell’interesse dei
capitali esteri.
In questo quadro come leggere le innumerevoli guerre condotte dagli Stati uniti nell’ultimo venticinquennio? A
mio avviso non furono mai effettuate per affermare la propria supremazia, e tantomeno per garantire una sorta di
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“Impero”. Risposero al funzionamento standard del sistema interstatale vigente, e con l’eccezione dell’invasione
dell’Iraq del 2003 furono sempre fatte con l’approvazione e spesso con la partecipazione delle altre Potenze
occidentali. Alcuni interventi militari furono fatti all’insegna della “stabilizzazione”. Quelli classici furono i due
interventi nei Balcani, in Bosnia e in Kosovo; nel primo caso l’intervento fu un successo e portò alla pace,
ovviamente reazionaria (cos’altro ci si sarebbe potuti aspettare?), nel secondo caso fu molto meno riuscito, vista
l’ostinazione di Belgrado (non so quanto autonoma) a rifiutare la proposta di divisione del Kosovo – alla fine la
questione kosovara è ancora oggi un fattore di destabilizzazione nell’area. Un analogo intervento in Somalia fu
invece una catastrofe. In altri casi l’intervento militare era diretto a fermare dinamiche potenzialmente esplosive:
l’intervento in Libia era diretto a impedire a Tripoli di compiere massacri indiscriminati di massa mentre nel
confinante Egitto era in corso una rivoluzione, e dove la reazione a tali massacri sarebbe stata imprevedibile,
probabilmente con un balzo in avanti dei processi rivoluzionari. La soppressione del gruppo di potere di Gheddafi
ottenne a breve gli obiettivi perseguiti, ma nel medio termine l’intervento fu un insuccesso: la Libia è oggi un
fattore di instabilità maggiore in tutto il Medio oriente. L’intervento a sostegno delle truppe kurde contro Daesch
era evidentemente anch’esso un intervento di stabilizzazione, riuscito nel brevissimo periodo, ma un cui bilancio
già nel breve periodo rivela tutti i suoi limiti. L’intervento in Afghanistan e in Iraq ebbe invece un’altra logica,
“evitare un’umiliante disfatta” dopo l’11 settembre 2001, e farla finita con la sindrome del Vietnam – abbiamo già
visto come è andata a finire. Tutti questi interventi militari hanno provocato un numero enorme di morti, di
sofferenze, di distruzioni, e hanno evidenziato quanto le “gestioni delle crisi” dell’attuale sistema internazionale si
rivelano essere sempre più problematiche, e in ultima analisi fallimentari. La problematicità dell’attuale gestione
delle crisi è evidenziata dalle alleanze contraddittorie in cui si ritrovano gli Usa: alleati della Turchia ma al contempo
(per un certo lasso di tempo) con le forze kurde; alleati al contempo di Turchia e di Egitto che si fanno la guerra
in Libia; “nemici” dell’Iran, ma alleati con lo stesso in Afghanistan (accordo con i talebani) e in Iraq. Il crescente
protagonismo, talvolta anche militare, delle “nuove potenze” completa questo quadro. Il sistema internazionale
degli Stati, creato in una altra epoca, a favore di un ristretto numero di Potenze, e che queste Potenze cercano di
congelare, di “stabilizzare”, vista la situazione di privilegio di cui godono, è sottoposto a tensioni e strappi crescenti,
che vengono riassorbiti con difficoltà o vengono momentaneamente isolati, in attesa di tempi migliori. Ma la
“localizzazione” dei conflitti, come si è visto nel 1914, talvolta non funziona.
Quanto precede è solo un “quadro”, una “cornice”, per fissare riferimenti e dare prospettiva e direzione storica
agli avvenimenti attuali, allo svolgersi quotidiano della politica mondiale. Questa cornice dovrebbe essere riempita
dall’analisi delle forze sociali all’opera negli Usa, in Europa, in Giappone, in Cina, e così via, per avere una visione
articolata dell’odierna politica mondiale, analoga alla visione articolata che abbiamo ricostruito per il XIX secolo.
Ma ritornando a vecchie domande: perché la concorrenza interimperialista non ha preso aspetti “geopolitici” in
questi ultimi trent’anni? Perché l’Unione europea è rimasta dal punto di vista militare “un verme”? In tutto questo
cos’è allora l’imperialismo? Le poche considerazioni fatte almeno consentono delle risposte plausibili. Dal punto
di vista del “sistema degli Stati” fintanto che gli Usa reggono, le vecchie Potenze hanno tutto l’interesse che il
sistema attuale si mantenga – sono le “nuove potenze” che più o meno aggressivamente cercano un posto al sole
(e l’ “antimperialismo” degli imbecilli li applaude), proporzionato alle proprie forze. L’Europa non ha per ora scelto
la strada della corsa agli armamenti perché ben sa che essere degli arbitri nelle situazioni internazionali dà ben
maggior potere rispetto a degli arsenali pieni, e punta le sue carte su questo ruolo – con quanto successo è un altro
discorso. Oggi nel campo della politica mondiale l’imperialismo è la fase della progressiva disgregazione del sistema
internazionale, la cui distruzione può portare con ogni probabilità a una serie di guerre locali, con all’orizzonte una
nuova guerra generale.
Ma l’analisi del “sistema di Stati” non può essere isolata da quella delle tendenze dell’economia capitalista a
livello mondiale. La passata stagnazione, la presente depressione, e la “crisi gigantesca” in incubazione, aggiungono
benzina al fuoco delle tensioni sociali in tutti i paesi, accrescono i timori di vulnerabilità delle classi dominanti di
tutti i paesi, e per questo si accrescono i rischi di iniziative sconsiderate a livello internazionale da parte dei paesi
imperialisti che si sentono più fragili. Questo perché, come giustamente ricorda Davidson, il capitalismo si basa
sulla concorrenza, ma i capitalisti la intendono a modo loro – se sono perdenti, e di perdenti in una crisi ce ne sono
tanti, vogliono che le conseguenze le subisca qualcun altro, e la richiesta corale è che lo Stato faccia sì che queste
conseguenze ricadano sulle spalle di qualcuno all’estero. La situazione di depressione e crisi inoltre riduce le risorse
disponibili per i vari Stati, in prima battuta per le “nuove potenze” economicamente più fragili, ma in generale per
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tutte le potenze. Ma se si vuole avere una politica estera aggressiva con risorse decrescenti, la “democrazia” diventa
un lusso che la borghesia non può permettersi (la borghesia-burocrazia cinese ha sempre ritenuto qualsiasi forma
democratica un lusso, senza aspettare depressioni e crisi). Per questo varie forme di limitazione delle libertà
democratiche, dalla dittatura aperta a forme di bonapartismo, da una sorta di neofascismo a forme più o meno
autoritarie, caratterizzano queste “nuove potenze”, ciascuna a modo proprio. La situazione è in continua evoluzione
e involuzione in ogni singolo paese: l’autoritarismo di Erdogan e di Bolsonaro è in crisi, mentre ad es. quello di
Modi e Widodo è in ascesa. Il proseguimento di depressioni e crisi metterà all’ordine del giorno anche nelle “vecchie
Potenze” questa dinamica di riduzione (e al limite annullamento) della democrazia – Salvini e la Meloni ne sono in
Italia la sinistra avanguardia.
L’imperialismo odierno sta indirizzando il nostro pianeta verso forme di regressione epocale e di catastrofi
inedite, ancor più amplificate allorquando si tiene in conto la drammatica emergenza ecologica e ambientale. Non
è più solo una semplice questione di inefficienza economica. Mandel, scrivendo della tendenza del capitalismo al
collasso finale, diceva che non si tratta
necessariamente di un collasso a favore di una forma superiore di organizzazione sociale o di
civiltà. A causa della degenerazione del capitalismo, fenomeni di decadenza culturale, di
regressione nei campi dell'ideologia e del rispetto dei diritti si moltiplicano parallelamente alla
successione ininterrotta di crisi multiformi prodotta da questa stessa degenerazione. La
barbarie, come possibile risultato del crollo del sistema, è oggi una prospettiva molto più
concreta e precisa di quella degli anni Venti e Trenta. La continua decadenza del sistema farà
sì che perfino gli orrori di Auschwitz e Hiroshima appariranno lievi rispetto agli orrori che
l’umanità dovrà affrontare. In queste circostanze, la lotta per una soluzione socialista diventa
sinonimo di una lotta per la sopravvivenza stessa della civiltà umana e della razza umana.
Vi sono due processi in svolgimento, la tendenza del capitalismo verso la distruzione finale e la tendenza della
classe lavoratrice verso il socialismo, in termini di coscienza, di organizzazione, di lotta e di vittoria finale (le
mobilitazioni di massa in molti paesi e in tutti i continenti nell’anno appena trascorso attestano quanto questa
tendenza sia reale). Oggi più che mai “la lotta per una soluzione socialista diventa sinonimo di una lotta per la
sopravvivenza stessa della civiltà umana e della razza umana”.
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