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Il paesaggio urbano nel cinema italiano degli anni Trenta

2021, Il paesaggio urbano nel cinema italiano degli anni Trenta

Il paesaggio italiano è da secoli un soggetto privilegiato della rappresentazione artistica. Fin dal Trecento, ad esempio con Giotto e Ambrogio Lorenzetti, venivano raffigurate le campagne e le città italiane sulle pareti di chiese e palazzi pubblici. L’idea di paesaggio artistico raggiungerà il suo apice tra XVIII e XIX secolo grazie all’influenza del Romanticismo, per arrivare, nel XX secolo, alle sue raffigurazione più metafisiche con le opere di Giorgio De Chirico. Con l’avvento del cinema, il paesaggio diventa strumento per ricostruire la storia, la cultura e la geografia della Penisola. Il cinema italiano assume il ruolo di testimone dell’evoluzione del paesaggio nazionale, mostrando tutte le tappe che l’Italia ha percorso nell’ultimo secolo: costruzione, ricostruzione, industrializzazione, immigrazione verso il Nord, abbandono delle campagne, espansione delle periferie urbane e nascita di nuovi quartieri residenziali.

Il paesaggio urbano nel cinema italiano degli anni Trenta A cura di Villa Martina Università Cattolica del Sacro Cuore Introduzione Il paesaggio italiano è da secoli un soggetto privilegiato della rappresentazione artistica. Fin dal Trecento, ad esempio con Giotto (fig. 1) e Ambrogio Lorenzetti Ci si riferisce agli affreschi di Giotto raffiguranti le Storie di San Francesco nella Basilica Superiore di Assisi e agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena che mostrano Gli effetti del buono e del cattivo governo. (fig. 2), venivano raffigurate le campagne e le città italiane sulle pareti di chiese e palazzi pubblici. L’idea di paesaggio artistico raggiungerà il suo apice tra XVIII e XIX secolo grazie all’influenza del Romanticismo, per arrivare, nel XX secolo, alle sue raffigurazione più metafisiche con le opere di Giorgio De Chirico Ad esempio, in L’enigma di una giornata (1914) o in Piazza d’Italia (1948). (fig. 3). Con l’avvento del cinema, il paesaggio diventa strumento per ricostruire la storia, la cultura e la geografia della Penisola. Il cinema italiano assume il ruolo di testimone dell’evoluzione del paesaggio nazionale, mostrando tutte le tappe che l’Italia ha percorso nell’ultimo secolo: costruzione, ricostruzione, industrializzazione, immigrazione verso il Nord, abbandono delle campagne, espansione delle periferie urbane e nascita di nuovi quartieri residenziali I. Bignardi, Il paesaggio nel cinema italiano, in Touring Club Italiano (a cura di) Il paesaggio italiano nel Novecento, Milano, Touring editore, Milano 1994, pp. 123-132. Figura SEQ Figura \* ARABIC 1 - Giotto, La cacciata dei diavoli da Arezzo, Basilica Superiore di Assisi (1299) Figura SEQ Figura \* ARABIC 2 – Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del buon governo, Palazzo Pubblico di Siena, (1338-39) Figura SEQ Figura \* ARABIC 3 – Giorgio de Chirico, L'enigma di una giornata, Museu de Arte Contemporânea de São Paulo (1914) Nonostante le campagne e l’ambiente rurale occupino un posto d’onore nel cinema italiano, in questo elaborato ci si concentrerà soprattutto sul paesaggio urbano nel corso del XX secolo, facendo particolare riferimento agli anni Trenta e ad alcune opere del regista Mario Camerini. La scelta di questo decennio è determinata dal ruolo fondamentale che le città iniziano ad occupare sulla scena cinematografica. Lo scopo di questo testo è mostrare come il paesaggio cittadino non faccia semplicemente da sfondo alle vicende narrate, ma diventi un elemento rappresentativo di un’epoca caratterizzata da rapidi e decisivi cambiamenti sociali e urbani. Si comincerà con una breve digressione sull’evoluzione del tema in esame all’interno del cinema italiano, partendo dalla produzione muta di fine Ottocento per arrivare agli anni Novanta del Novecento, citando alcuni tra i più significativi autori che hanno affrontato il tema del paesaggio urbano nelle sue diverse accezioni e mostrando come ci siano state stagioni di grande consonanza tra il cinema e il paese, tra il sentirsi parte di qualcosa e il vederlo ritratto sullo schermo. Si passerà poi ad esaminare il contesto storico, politico, culturale e produttivo degli anni Trenta, caratterizzato da un forte sviluppo delle metropoli sia dal punto di vista urbanistico sia culturale. Verranno ricordati i più significativi interventi operati, da singole figure o direttamente dal regime fascista, all’interno dell’industria cinematografica italiana. Si farà anche una breve analisi di come le città erano percepite e vissute nella mentalità dell’epoca, cercando così di motivare la loro comparsa sugli schermi. Si citeranno alcuni registi attivi in questo decennio, mostrando il loro rapporto con il paesaggio italiano. In seguito, si analizzerà nel dettaglio un film considerato particolarmente rappresentativo del tema scelto: Gli uomini…che mascalzoni (1932) di Mario Camerini, facendo un breve riferimento anche a Grandi magazzini (1939) dello stesso autore. Si analizzeranno la trama e alcune sequenze precise e significative in modo da chiarire meglio l’articolazione del discorso. Entrambi i titoli citati sono considerati importanti per poter comprendere a pieno il tema del paesaggio urbano, in quanto mettono in scena sia i cambiamenti vissuti dalle città nel corso degli anni Trenta, sia il nuovo rapporto che si crea tra i personaggi delle storie raccontate e l’ambiente metropolitano e industriale che li circonda. Verrà anche posta particolare attenzione all’analisi stilistica e alla poetica di Camerini, mostrando come il regista abbia posto le basi per la più famosa commedia all’italiana degli anni Sessanta. L’elaborato si concluderà, dopo una breve descrizione del contesto cinematografico attuale, con un’analisi del paesaggio urbano nel cinema italiano contemporaneo, cercando soprattutto di mostrare e motivare le differenze che presenta, rispetto ai film degli anni Trenta, nel rapporto tra personaggio e città. Verranno citati film dal 2000 ad oggi e alcuni registi che hanno saputo interpretare, in meglio o in peggio, il rapporto con il paesaggio urbano. Contesto storico Per questo paragrafo si è fatto riferimento al sito https://www.doppiozero.com/materiali/il-paesaggio-italiano-al-cinema Accesso 26 maggio 2021 Non è certamente casuale che, contemporaneamente alla nascita del cinema, si assista allo sviluppo delle città moderne e industriali. La città è, infatti, luogo per eccellenza di incontro tra l’uomo come essere vivente e come soggetto sociale. Il cinema nasce come fenomeno tipicamente urbano e come tale avrà la sua collocazione privilegiata nella forma-città, contribuendo in modo determinante ad una qualificazione in senso prevalentemente urbano, o meglio, metropolitano dell’imagerie popolare moderna e postmoderna A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, cit. p. 117.. La città del XX secolo, con i suoi ritmi, la sua velocità, la sua dinamicità e il suo ininterrotto flusso di stimoli, si propone come l’ambiente favorito in cui sperimentare il linguaggio cinematografico e le nuove modalità di rappresentazione del visibile. Già dai primi filmati muti è possibile osservare la presenza delle città sullo schermo, come in Milano, Piazza Duomo (1896) di Giuseppe Filippi, cortometraggio realizzato per conto dei Lumière. Tra gli anni Dieci e gli anni Trenta del Novecento sono le avanguardie europee a interpretare con uno sguardo nuovo lo spazio metropolitano, la città diventa il luogo, il simbolo per eccellenza della vita dinamica, veloce e fervente. Purtroppo, molta della produzione cinematografica futurista è andata persa, ma per il discorso in atto è possibile fare riferimento a un’opera considerata «futurista inconsapevolmente» Considerazione critica data da Giovanni Lista in G. Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano 2001, ossia Stramilano (1929) di Corrado D’Errico. È con l’avvento del fascismo che le città iniziano a occupare un ruolo davvero principale sulla scena. Proprio in questo contesto inizia a lavorare Mario Camerini, il quale porterà sullo schermo vedute di città e riprese dall’esterno inedite. L’ambientazione urbana e industriale di molti suoi film dimostra come il passaggio verso la modernità sia ormai in atto e inarrestabile, basti citare Rotaie (1929) e Gli uomini…che mascalzoni (1932). Negli anni della Seconda guerra mondiale l’approccio al paesaggio muterà considerevolmente. L’ambiente diventerà infatti specchio dei sentimenti umani (Ossessione di Luchino Visconti, 1943) e, preferendo l’ambiente rurale, le città passeranno in secondo piano, per tornare ad essere protagoniste nei film del dopoguerra per merito del neorealismo. Cinecittà, dopo la guerra, non è più agibile e si è costretti a girare i film per strada e così, quasi casualmente, nasce Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini. Il paesaggio che appare agli spettatori è stravolto, con città distrutte e ancora da riedificare. Si sente la necessità di portare la macchina da presa per le strade e di mostrare le storie della gente comune alle prese con la propria ricostruzione e quella di un intero Paese. Gli anni Sessanta, del boom economico, segnano poi un ulteriore passaggio nel rapporto tra cinema e paesaggio urbano. In questi anni si assiste a una convivenza di paesaggi che si trasformano in mezzo a facce ancora legate al secondo dopoguerra. Al riguardo è significativo l’apporto di Pier Paolo Pasolini, che gira Accattone nel 1961 e Mamma Roma nel 1962, riprendendo in parte l’eredità lasciata dal neorealismo. Altro importante film è Il sorpasso (1962) di Dino Risi, dove, oltre ai principali monumenti e luoghi simbolo di Roma, attorno all’Aurelia, si mette in scena un paesaggio caratterizzato da periferie disordinate e dai primi abusi edilizi. Il tema della speculazione edilizia diventerà sempre più presente a partire dagli anni Sessanta e lo si ritrova ad esempio anche nel film Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi. Gli anni Settanta hanno ormai completamente dimenticato l’Italia contadina (ad eccezione di Ermanno Olmi nel film L’albero degli zoccoli del 1978). La città è la vera protagonista, con le tangenziali, gli snodi autostradali e i nuovi quartieri (Milano calibro 9 di Fernando di Leo, 1972). Le metropoli, in questi anni, diventano anche il luogo d’eccellenza per raccontare con acume critico ciò che sta avvenendo nel Paese. Molti critici cinematografici hanno fatto notare che negli anni Ottanta ha avuto inizio un periodo di crisi produttiva e creativa per il cinema italiano L. Miccichè, Schermi opachi, Il cinema italiano degli anni ’80, Marsilio Editori, Venezia 1998. I film iniziano a basarsi su vicende private, ambientate per lo più in interni domestici, perdendo interesse per il racconto del territorio in sé. Tra i registi che mostrano comunque uno stile caratterizzante nella rappresentazione del paesaggio si ricordano Giuseppe Tornatore (Stanno tutti bene, 1990) e Gianni Amelio (Il ladro di bambini, 1992). Negli anni Novanta il paesaggio ritorna lentamente sulla scena, spogliato però dal valore di documentario realistico, come invece avveniva negli anni Settanta. Il cinema di questi anni ritrae un’Italia da tante facce, quanti sono i suoi centri urbani, che vengono reinventati dalla macchina da presa e diventano i coprotagonisti delle vicende individuali dei personaggi. Le città, in quest’ottica, diventano funzionali alla narrazione e consentono di interpretare meglio le valenze sociali, morali ed etiche dei protagonisti. Un esempio in tal senso è il film Caro Diario (1993) di Nanni Moretti, in cui, nel primo episodio intitolato In vespa, si vede una Roma semideserta che fa da sfondo alle vicende e alle riflessioni personali dello stesso regista. Dopo questa breve descrizione dell’evoluzione del paesaggio urbano nel cinema italiano, si passa ora ad analizzare più nel dettaglio il contesto storico degli anni Trenta. È bene anticipare che il cinema in questi anni diventa uno specchio della società italiana. La macchina da presa percorre tutta la Penisola, dalle zone più rurali alle metropoli in piena evoluzione. A un solo anno di distanza escono Terra madre (1931) di Alessandro Blasetti e Gli uomini…che mascalzoni di Mario Camerini. L’Italia di questi anni presenta una duplice faccia, quella della campagna, virile, pesante, disagevole, ma genuinamente etica e quella rapida, industriale e moderna, ma infidamente tentatrice della città. Accanto a un contesto da Depressione americana, si vede un’Italia industriale V. Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari. Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 53-55. Gli anni Trenta sono per l’Italia un momento di grande rielaborazione identitaria e in questo contesto la città svolge un ruolo centrale. Il centro urbano viene ridefinito secondo una nuova idea di modernità, allo «Strapaese» si contrappone ora la «Stracittà», che esibisce visivamente i nuovi stili di vita che si stanno definendo, a partire dall’architettura, dal design, dalla moda. La città ospita il lusso, la ricchezza, le novità e diventa luogo di esibizione e di attrazione insieme. Il paesaggio urbano entra nello schermo e diventa il simbolo delle aspirazioni e dei desideri degli italiani. Le città sono ritratte per ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo: modernità, velocità e industrializzazione. I luoghi per eccellenza che vengono ripresi sono i monumenti simbolo che contraddistinguono una metropoli da un’altra. Per Milano, ad esempio, verranno ripresi soprattutto il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele e Corso Sempione. Il decennio in analisi è per il cinema italiano, dal punto di vista produttivo, estremamente significativo. Grazie ai finanziamenti della Banca Commerciale Italiana, il 23 maggio 1930 vengono inaugurati a Roma i nuovi studi della Cines che assorbirà gran parte della produzione italiana di questi anni. A tale riguardo, è sicuramente da citare la figura di Stefano Pittaluga, unica persona capace di fronteggiare gli effetti della rivoluzione che investe il cinema nel passaggio tra gli anni Venti e Trenta. Dopo la sua prematura morte, avvenuta nell’aprile 1931, la Cines-Pittaluga sarà affidata alla gestione di Guido Pedrazzini e, successivamente, di Ludovico Toeplitz con Emilio Cecchi come direttore artistico, per poi cessare di esistere nel 1934. La Cines assume in questi anni i maggiori registi dell’epoca, ovvero Alessandro Blasetti, Mario Camerini, Gennaro Righelli, Mario Almirante, Anton Giulio Bragaglia e Carlo Campogalliani, dando sempre più importanza agli sceneggiatori che, proprio a partire da questo decennio, diventano figure fondamentali per la realizzazione dei film. Gli sceneggiatori che cominciano a scrivere per il cinema degli anni Trenta si dimostrano consapevoli della varietà linguistica regionale e della pressione estera su una lingua nazionale ancora in via di formazione, consentendo così di presentare atmosfere moderne e cosmopolite. Tra i principali autori vanno ricordati Ivo Perilli, Cesare Zavattini, Sergio Amidei e Aldo De Benedetti. Negli studi della Cines vengono rappresentati i due volti dell’Italia, quello minore e popolare, ma anche quello moderno e cittadino. In questi anni si girano i primi film en plein air (Gli uomini…che mascalzoni) e, al tempo stesso, si costruiscono scenografie affidate spesso a designer e architetti di fama nazionale, quali Antonio Valente, Virgilio Marchi e Ottavio Scotti D. Bruni, Commedia degli anni Trenta, Il Castoro, Milano 2013, pp. 14-15. Per una quindicina d’anni gli schermi diventano vetrine, punti mobili di esposizione di tutti i prodotti del più moderno e avanzato design industriale europeo G. P. Brunetta, Le comete e le lucciole: grandi e piccoli sogni luminosi di quarant’anni di cinema, in P. Hultén – G. Celant (a cura di), Arte Italiana. Presenze 1900-1945, Bompiani, Milano 1989, cit. p. 196.. Inoltre, dal 1932, grazie a Emilio Cecchi, si cerca di stabilire un rapporto più stretto tra cinema e letterati come Luigi Pirandello, Corrado Alvaro, Giacomo Debenedetti e Umberto Barbaro. In questi anni, infatti, nascono le prime riviste di critica cinematografica «Cinema» (1936) e «Bianco e Nero» (1937). Molti intellettuali, tra i quali Luigi Pirandello, saranno inoltre coinvolti direttamente nella scrittura di sceneggiature. Oltre a Stefano Pittaluga, a partire dalla fine degli anni Venti, emergono altre figure di produttori, tra i quali Gustavo Lombardo che nel 1928 aveva fondato la Titanus, Giuseppe Amato, Angelo Rizzoli, Carlo Roncoroni e Riccardo Gualino, fondatore della Lux. Tra questi, Angelo Rizzoli occupa un ruolo particolarmente importante, sarà lui infatti a lanciare l’attrice Isa Miranda, considerata la prima diva italiana del cinema sonoro, nonché a dare fiducia alla persona di Cesare Zavattini, il quale lavorava da qualche tempo per la casa editrice Rizzoli e che entrerà nel mondo del cinema con Darò un milione (1935) di Mario Camerini. Come già è stato scritto, la Penisola sta conoscendo anni di importanti cambiamenti, non solo dal punto di vista culturale, ma anche sul piano politico. Il regime fascista, infatti, sta rafforzando sempre più il suo potere (si ricordano, ad esempio, la Guerra d’Etiopia tra il 1935-36 e la creazione dell’Asse Roma-Berlino nel 1936). L’influenza dell’ideologia fascista colpisce ogni aspetto della società e, ovviamente, condizionerà per molti anni anche la produzione cinematografica. A partire dal 1923 si inizia ad attuare la censura preventiva nei confronti delle sceneggiature nazionali e verso quelle importate dall’estero. Nel 1924 nasce l’Istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa), i cui cinegiornali dal 1926 saranno proiettati obbligatoriamente nelle sale cinematografiche con il compito di descrivere l’Italia come il migliore dei mondi possibili, come il Paese capace di raggiungere primati in ogni campo. Nel 1931 il governo emette una legge a sostegno della produzione cinematografica italiana. Nel 1932 si tiene la prima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Nel 1934 viene istituita la Direzione generale per la cinematografia, grazie a cui avrebbe dovuto attivarsi un deciso processo di fascistizzazione diretta dei prodotti cinematografici. Nel 1937 viene istituito il Ministero della Cultura Popolare e il 28 aprile dello stesso anno Mussolini inaugura Cinecittà, luogo che apre una nuova era nella storia del cinema italiano. Nel 1939 viene emanata la legge Alfieri che determina il monopolio di Stato per l’acquisto e la distribuzione dei film stranieri in Italia e segna una svolta autarchica decisiva. Questi interventi consentono la rinascita di una cinematografia che negli anni Venti aveva quasi toccato quota zero Nel 1929 uscirono 23 titoli tra corti e lungometraggi (A. Bernardini, Il cinema muto 1905-1931, Anica, Roma 1991).. In questo difficile contesto, in bilico tra la diffusione di modelli socio-culturali nuovi e la tutela di un sistema di valori tradizionali, il cinema esercita un ruolo fondamentale nella spinta verso la modernità. Sono infatti le commedie di questi anni a raccontare le principali dinamiche sociali italiane. Dai primi anni Trenta fino alla caduta del regime, gli autori, fascisti e antifascisti, iniziano ad aprire gli occhi sull’Italia finora assente sullo schermo. I registi cominciano a confrontarsi con un Paese che sta cambiando e il tema del paesaggio diventa centrale. In questo contesto operano figure come Alessandro Blasetti, il quale tratta soprattutto il tema del «ruralismo» ed esalta i valori contadini e il ritorno alla terra (Terra madre, 1931). Contemporaneamente per la Cines lavora anche il regista tedesco Walter Ruttman, che nel 1933 dirige Acciaio, tutto ambientato in esterni presso l’acciaieria di Terni. Negli stessi anni lavora anche Mario Camerini, che analizza principalmente il paesaggio urbano, il mondo industriale, il gusto cosmopolita e il nuovo rapporto tra città e uomo (Rotaie, 1929, Gli uomini…che mascalzoni, 1932 e Grandi magazzini, 1937). Film rappresentativo Quale film rappresentativo per meglio comprendere il tema del paesaggio urbano negli anni Trenta si è scelto Gli uomini…che mascalzoni (1932) di Mario Camerini (fig. 4). Figura SEQ Figura \* ARABIC 4 - Locandina del film «Gli uomini...che mascalzoni» Il film venne presentato al pubblico durante la prima Mostra del Cinema di Venezia nel 1932, raccogliendo un grande successo internazionale. Questa pellicola contribuì a lanciare il giovane attore protagonista, Vittorio De Sica, e rese celebre la canzone Parlami d’amore Mariù scritta e composta da Ennio Neri e Cesare Andrea Bixio. Da ricordare è sicuramente anche l’importante contributo degli sceneggiatori Aldo De Benedetti e Mario Soldati, che, insieme allo stesso Camerini, hanno creato una favola amorosa e ironica, indispensabile per comprendere l’epoca in esame. Il film costituisce, insieme ai successivi Darò un milione (1935), Ma non è una cosa seria (1936), Il signor Max (1937) e Grandi Magazzini (1939), la cosiddetta «pentalogia piccolo-borghese» G. C. Castello, Una pentalogia piccolo-borghese, «Cinema», 3 (1950), 31, pp. 57-59. . Il decennio in cui vengono distribuiti questi film è considerato il periodo più florido della carriera di Mario Camerini, essendo caratterizzato da standard qualitativi particolarmente elevati e da un grande apprezzamento da parte del pubblico che riesce a riconoscersi rappresentato nei soggetti trasmessi sul grande schermo. Il regista racconta sempre la realtà in modo diretto, ma cerca di regalare al pubblico uno spettacolo leggero. Camerini porta in scena una modernizzazione dei soggetti, ponendo particolare attenzione al mondo industriale e produttivo italiano. Le sue commedie, caratterizzate da una collocazione piccolo-borghese, da toni sommessi, da una costruzione chiara delle inquadrature e da un realismo sfumato, diventano rappresentative del genere. Camerini non è definibile un virtuoso, ma più un «artigiano della macchina da presa», come lui stesso si definì. Al contrario di Alessandro Blasetti, infatti, egli cerca di cancellarsi e fare aderire l’occhio della macchina da presa alle storie dei personaggi, che vengono raccontate quasi con un’attenzione paterna. Nonostante questa artigianalità, nelle sue opere non mancano innovazioni tecniche e stilistiche come, ad esempio, portare il cinema all’esterno, in mezzo alla gente, in un mondo reale popolato da impiegati, commesse di negozio e non da aristocratici e personaggi irraggiungibili socialmente, come avveniva nel cinema dei telefoni bianchi o nelle commedie all’ungherese. Mario Camerini si fa interprete dei sogni, delle ambizioni, degli atteggiamenti, dei pensieri dell’Italia piccolo e medio borghese del tempo. A lui va il merito di aver inventato la commedia italiana moderna, che diventerà modello per la più celebre commedia degli anni Sessanta. La pellicola Gli uomini…che mascalzoni inizia con una Milano che si sveglia alle prime luci del giorno e un gruppo di taxisti che fanno ritorno al garage dopo una notte di lavoro. La storia vera e propria comincia quando Bruno, un giovanotto che lavora da autista, incontra Mariuccia e se ne innamora. Per cercare di conquistarla si finge ricco e la porta a fare una gita ai Laghi sulla Fiat 525 Torpedo del suo datore di lavoro, ottenuta con la scusa di condurla dal meccanico. Mentre i due giovani si riposano nella «Trattoria della Vedova Musso», la moglie del padrone di Bruno, pure lei in gita da quelle parti, riconosce la sua macchina e così l’autista è costretto a riportare la donna in città, ma promettendo a Mariuccia che sarebbe tornato presto. Ripercorrendo di nuovo la strada che da Milano porta al lago Maggiore, Bruno, per l’eccessiva velocità, fa un incidente. La giovane, disperata per il mancato ritorno del ragazzo, viene accolta per la notte nella trattoria dove era rimasta e ritorna a Milano la mattina seguente, in tempo per lavorare. Bruno, per aver distrutto la macchina, viene licenziato e, invano, cerca di scusarsi con Mariuccia. I due si perdono di vista e poi si ritrovano quando il nuovo padrone di Bruno dà un passaggio in auto proprio alla ragazza. Bruno, umiliato, si licenzia e abbandona l’auto in mezzo alla strada. Mariuccia, dopo aver scoperto la vera identità del ragazzo, decide di dargli una seconda occasione, ma lui la accusa di essere interessata solo a uomini ricchi. Dopo essersi ricreduto, Bruno cerca la ragazza presso il suo nuovo posto di lavoro, uno stand della Fiera Campionaria. I due sembrano essersi riappacificati, ma, a causa di un’ulteriore incomprensione, il loro rapporto viene messo nuovamente in crisi. Il film si conclude con i due giovani che, in un taxi, si chiariscono e Bruno propone alla ragazza di sposarlo. Il caso vuole che la persona alla guida del taxi sia il padre di Mariuccia, che si dichiara favorevole alla nuova unione. Questo film è considerato particolarmente significativo per comprendere il rapporto uomo-città negli anni Trenta, in quanto si tratta della prima pellicola girata in esterno, in una città non ricostruita in studio, Milano, vera protagonista del racconto. La metropoli non fa da semplice sfondo alle vicende dei protagonisti, ma viene descritta come unica e vera capitale industriale italiana dell’epoca. Emblematica a questo proposito è l’affermazione di Filippo Sacchi, che recensendo nel 1932 il film sul «Corriere della Sera», afferma: «E’ la prima volta che vediamo Milano sullo schermo. Ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica?» F. Sacchi, La serata italiana al Festival del Lido, «Corriere della Sera», 12 agosto 1932, p. 5. Quella che si vede proiettata è l’autentica Milano dei primi anni Trenta, nel pieno della sua rivoluzione culturale, della sua trasformazione nella città del progresso, della pubblicità, dell’industria, della tecnologia e anche del cinema. Camerini, con la decisione di girare il film in esterni, invece che nei soliti teatri di posa, che avrebbero limitato molto le capacità espressive dell’ambientazione, ha saputo cogliere con grande finezza il volto in movimento di Milano e trasmettere allo spettatore la sua inconfondibile vitalità (fig. 5). Figura SEQ Figura \* ARABIC 5 - La frenesia della città di Milano La trama del film è molto semplice, presa dalla vita di tutti i giorni e priva di ogni riferimento alla realtà politica del Paese e all’ideologia fascista. La storia racconta dell’amore di due giovani lavoratori basato su sorrisi e piccole gelosie; è un amore forte eppure comune. Vengono rappresentate le pure emozioni di due ragazzi lontani dal controllo ideologico e politico. Si tratta di una produzione di puro intrattenimento che però mostra, seppur in termini comici, la relazione problematica tra individuo e società che scaturisce dal desiderio del personaggio di sentirsi parte della collettività e di riuscire nell’impossibile salto di classe. Anche in questo film, come negli altri della pentalogia cameriniana, il regista vuole trasmettere la morale che bisogna accontentarsi di ciò che si ha e del proprio destino, cercando la felicità nelle cose semplici e non aspirando ad un’altra classe sociale. I temi centrali di questo film, oltre al sogno borghese della scalata sociale, sono la modernità e la velocità, raffigurate sullo schermo in modo simbolico: la vera storia la fanno i grandi magazzini, la vita notturna, il design industriale, le fiere e, soprattutto, i mezzi di trasporto. Basti pensare alla Fiat 525 Torpedo (fig. 6) quale elemento fondamentale per l’evoluzione della storia: dapprima veicolo di seduzione nei confronti di Mariuccia, poi causa della momentanea separazione tra i due e, infine, strumento destinato a condurre Bruno a una paradossale immobilità, dopo essersi scontrato con un carretto e aver sradicato un paletto raffigurante la pubblicità della Fiera del Levante. La presenza di questi elementi sullo schermo segna l’ingresso in una nuova epoca per Milano e per l’Italia intera. Un altro elemento che costituisce un aspetto moderno è la raffigurazione della figura femminile come donna emancipata e lavoratrice, che trascorre la notte fuori casa e torna la mattina seguente senza dire nulla al padre. Nonostante questa parziale apertura, tale aspetto innovativo alla fine verrà ridimensionato, sia quando Bruno affermerà che Mariuccia, da sposata, dovrà smettere di lavorare alla profumeria e restare sempre in casa a preparare il risotto, sia quando il padre di lei chiuderà simbolicamente il portone di casa alle sue spalle. Figura SEQ Figura \* ARABIC 6 – Bruno, Mariuccia e la Fiat 525 Torpedo sulla strada verso i Laghi Ricollegandosi direttamente a questa duplice faccia dello stesso argomento, cioè modernità e tradizione insieme, è bene ricordare come nel film sia evidente la presenza continua di elementi contrastanti tra di loro, ma che convivono pacificamente. Ad esempio, la storia d’amore di Bruno e Mariuccia inizia nell’atmosfera bucolica della trattoria lacustre, ma avrà il suo coronamento nella città di Milano, di cui si sottolinea, a contrasto, l’aspetto dinamico e industrializzato. La convivenza appare possibile anche tra le abitudini e i comportamenti dei personaggi. I due giovani, infatti, sono impegnati in occupazioni emblematiche di uno stile di vita moderno che ruota attorno a oggetti simbolo di benessere fisico ed economico (Bruno fa l’autista e Mariuccia lavora in una profumeria), ma sono anche due figure semplici, di poche pretese, mosse da valori tradizionali e concreti D. Bruni, Commedia degli anni Trenta, Il Castoro, Milano 2013, pp. 63-64. L’aspetto che sicuramente più di tutti caratterizza questo film sono le riprese degli esterni dal vero, benché non manchino le grandi scenografie interne. La storia di Bruno e Mariuccia si sviluppa negli spazi urbani (il centro di Milano, il Duomo, Corso Sempione, la Fiera Campionaria) ed extraurbani (la gita al lago) e, in questo modo, il panorama metropolitano diventa un terzo protagonista che conferisce alla storia un alto valore spettacolare. La città di Milano viene descritta con entusiasmo, con negozi addobbati, con la strada Milano-Laghi tappezzata di manifesti pubblicitari e con la Fiera campionaria affollata. Le inquadrature girate all’interno della Fiera mostrano stand riempiti con prodotti di ogni tipo e presi d’assalto dai visitatori, attirati dal crescente e contagioso consumismo. Così facendo, vengono sottolineati ulteriormente la velocità, la frenesia e il dinamismo, nuovi valori cardine di una città moderna e industrializzata. Alcuni critici cinematografici hanno definito questo film «futurista», in quanto dominano i temi del movimento, del progresso e della rapidità (ad esempio si ricordano le sequenze della corsa di Bruno con l’auto o il finale con la ripresa della ruota del taxi). Per comprendere meglio questa affermazione è significativa la sequenza della Fiera, introdotta da una sezione documentaristica che alterna riprese dall’alto a dettagli quasi astratti di apparecchiature in vendita (fig. 7). Sullo sfondo, il rumore assordante delle macchine che lavorano senza sosta. Le inquadrature in questa sequenza sono inusuali per una commedia e in qualche modo ricordano i tentativi sperimentali di Stramilano (1929) di Antonio d’Errico. La commedia cameriniana sembra raccogliere l’eredità lasciata dalle cosiddette sinfonie urbane e metropolitane, filone documentaristico degli anni Venti e debitore nei confronti delle avanguardie Si fa qui riferimento, ad esempio, a Berlin - Die Sinfonie der Großstadt (1927) di Walter Ruttmann.. Questo è un film che proietta l’Italia verso il progresso e fa sentire gli spettatori pienamente inseriti in questo processo. Camerini mostra una città e una società che si stanno costruendo, che vogliono spingersi verso il futuro. Quello del regista è uno sguardo su una metropoli che si sta modernizzando, che sta crescendo, che sta progredendo. Le scene ambientate alla Fiera campionaria sono particolarmente esplicative perché sono, come si afferma nel «Dizionario Mereghetti», «una testimonianza di un momento di cambiamento e ristrutturazione del capitalismo italiano» P. Mereghetti, Il Mereghetti - Dizionario dei Film 2008, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2007, cit. p. 3119.. Figura SEQ Figura \* ARABIC 7 - La Fiera campionaria vista dall'alto Con la forte presenza del paesaggio urbano e del progresso industriale, gli avvenimenti comico-sentimentali di Bruno e Mariuccia sembrano finire in secondo piano. Le vicende dei protagonisti accompagnano lo spettatore alla scoperta della città fin dall’inizio, quando, da una saracinesca alzata, si vede il Duomo e, con esso, affiora progressivamente l’intera immagine di Milano «grande crocevia di riti commerciali, di traffici e di informazioni che uniscono le persone, e altrettanto facilmente, le separano» R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000, p. 138. (fig. 8). Figura SEQ Figura \* ARABIC 8 - Da una saracinesca alzata compare il Duomo di Milano Nonostante la presenza e la cura registica nel ritrarre gli ambienti più popolari e bucolici (la casa di Mariuccia, la «Trattoria Della Vedova Musso», etc.), sono i ritmi incalzanti a occupare la scena principale. Basti citare le pubblicità all’interno della Fiera degli strumenti tessili di cui si sottolinea come siano «tre volte più veloci della filatura a mano», oppure il cartello che si trova vicino allo stand della venditrice di caramelle, erogate «alla velocità di 145 al minuto» (fig. 9). Figura SEQ Figura \* ARABIC 9 - In basso, il cartello che recita «Velocità 145 al minuto» L’irruzione della modernità non è solo qualcosa di simbolico, ma diventa una vera e propria questione di stili di vita. Il legame con la grafica pubblicitaria in Gli uomini…che mascalzoni è più forte che in altre commedie dello stesso periodo. Le vie di Milano sono tappezzate da insegne pubblicitarie, manifesti e cartelloni. Le riprese in esterno, come è stato detto, costituiscono una novità propria del film, ma lo è anche l’elevata presenza di marchi industriali e prodotti presenti sulle pubblicità sparse per la città (Alemagna, Birra Italiana, Cinzano, Coca Cola, Rinascente etc.), costituendo un product placement ante litteram (fig. 10). Figura SEQ Figura \* ARABIC 10 – Sullo sfondo è affissa la pubblicità della Coca Cola In conclusione, è particolarmente significativo citare nuovamente l’episodio tragicomico dell’incidente che compie Bruno mentre torna al lago da Mariuccia. Scontrandosi con un lento carretto, la veloce auto guidata dal ragazzo abbatte un cartello che reca l’iscrizione «Fiera del Levante Bari Italia contadina e industriale», manifesto che appare quasi come un sistematico riassunto di tutta l’Italia dell’epoca. È come se, attraverso una pubblicità, l’Italia possa essere legata e spinta tutta insieme verso un’età nuova e più moderna. Il fatto che questo cartello venga abbattuto porta con sé l’idea che, con esso, viene distrutta anche l’utopico mito fascista della riappacificazione sociale, della ricomposizione tra nord e sud, tra città e campagna. Mario Camerini porta così in scena una sottile e delicata critica alla modernità, alle dinamiche industriali, al fatto che l’Italia è tutt’altro che unita e perfetta, come invece il regime voleva far pensare. La pentalogia cameriniana si conclude con Grandi Magazzini del 1939. Con questo film il regista intende mettere un punto finale al discorso, iniziato al principio del decennio con Gli uomini…che mascalzoni, circa la rappresentazione della metropoli italiana e dei suoi luoghi canonici. Per quanto riguarda questa pellicola, il centro non è più la città intera, ma lo diventano i grandi magazzini, interamente ricostruiti negli studi di Cinecittà a opera di Guido Fiorini e Gastone Medin, che si fanno sineddoche dell’intera metropoli moderna e che, con le loro strutture architettoniche, è come se diventassero una micro-città al coperto. Anche in questo film, sotto il ritmo incalzante e il tono tipicamente da commedia, continua a essere presente l’Italia vera, o quanto meno verosimile, molto diversa da quella propagandata dal regime e dai film «dei telefoni bianchi». Eredità nel cinema contemporaneo A partire soprattutto dagli ultimi dieci anni del Novecento, con la diffusione del digitale, il paesaggio è diventato sempre più virtuale, rappresentabile grazie alla tecnologia. È possibile ora sovrapporre luoghi e tempi, personaggi e sfondi come mai prima era stato fatto. La tecnologia preferisce risolvere nell’immagine tutto il reale, piuttosto che riflettere il reale nell’immagine S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio Editori, Venezia 2003.. Negli ultimi due decenni l’industria cinematografica italiana si è purtroppo dimostrata particolarmente debole. Il giudizio critico nei confronti del cinema contemporaneo sottolinea come sia avvenuto uno scollamento tra cinema e storia. Il cinema italiano contemporaneo rimane «nel suo complesso immutabile, imponente, microcosmo isolato e desolato» V. Zagarrio, Cinema italiano anni Novanta, Marsilio Editori, Venezia 1998.. Negli ultimi anni un ulteriore elemento di indebolimento del cinema italiano è stato provocato dal progressivo allontanamento dello spettatore dalla sala cinematografica. Il pubblico non ama più il cinema italiano, perché fatica a trovare un confronto tra sé e l’oggetto raccontato. Lo scopo principale del cinema italiano contemporaneo non è più quello di rendere il mondo a portata di sguardo, contribuendo a definire il modo di osservare il paesaggio. Il cinema, negli ultimi anni, è diventato sempre meno il luogo del riconoscimento per eccellenza. L’Italia che emerge quasi sempre dagli schermi è qualcosa che è stato svuotato di ogni valore sociale e che affiora quasi esclusivamente attraverso i caratteri e i clichés di benessere, di «dolce vita» e di «bel Paese», dando l’idea che in Italia si viva in un’estate perenne. Il tessuto urbano contemporaneo, soprattutto quello di metropoli come Roma, Milano, Torino, Napoli e Palermo, è uno spazio ricco, affascinante, che invita a essere vissuto. Il cinema d’ambientazione urbana vorrebbe impadronirsi della stessa vitalità penetrante dei luoghi della città, così da renderli a loro volta materia viva delle storie e non meri sfondi appiattiti, ma, nonostante le buone intenzioni, la metropoli cinematografica è, nella maggior parte dei casi, uno «spazio trasparente», asservito solo al ritmo narrativo. Il contesto urbano viene messo da parte e le inquadrature in esterni svolgono la funzione di quinte scenografiche. Rispetto al passato, quando la localizzazione delle storie era tanto importante quanto la trama stessa del film, appare oggi a volte quasi difficile distinguere un’ambientazione romana da una milanese. La sensazione di «abbandono» della città sul piano non solo visivo, ma anche su quello narrativo e tematico, si accompagna a un progressivo abbandono dello «stile». Le inquadrature diventano banali, facili, incorniciando dialoghi che potrebbero avvenire in una qualsiasi città del mondo G. Canova – L. Farinotti, Atlante del cinema italiano. Corpi, paesaggi, figure del contemporaneo, Garzanti Libri, Milano 2011.. Esempi significativi di questa cancellazione d’identità spaziale sono film come Gli anni più belli (2020) di Gabriele Muccino, che non lasciano spazio a una riflessione sull’ambientazione che circonda i personaggi. La città di Roma è ridotta a muri sporchi, fontane generiche e parchi anonimi. Un altro esempio a riguardo sono i film di Ferzan Ozpetek, il quale rinuncia all’apertura nei confronti dello spazio pubblico per rifugiarsi in storie ambientate in interni domestici (La dea fortuna, 2019) o in luoghi privi di identità (Cuore sacro, 2005). Nonostante ciò, è giusto ricordare come non manchino registi capaci di creare nuove visioni e di ridisegnare il legame tra spettatore e tessuto urbano, senza cadere in banali stereotipi. A questo proposito vanno citati autori come Marco Bellocchio, Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, i quali riescono a connotare la città, quasi sempre Roma, come spazio del potere, degli intrighi, dell’attualità, ma anche dell’interiorità e della soggettività (L’ora di religione di Bellocchio, 2002; Habemus Papam di Moretti, 2011; La grande bellezza di Sorrentino, 2013). Questi registi sono in grado di mostrare, anche con pochi tratti, quanto l’eredità architettonica, urbana, storica e sociale della città sia inseparabile dalla vita dei suoi abitanti, ribadendo, come in passato, il legame inscindibile tra personaggi e paesaggi. Bibliografia R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000, p. 138. S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio Editori, Venezia 2003. A. Bernardini, Il cinema muto 1905-1931, Anica, Roma 1991 I. Bignardi, Il paesaggio nel cinema italiano, in Touring Club Italiano (a cura di) Il paesaggio italiano nel Novecento, Milano, Touring editore, Milano 1994, pp. 123-132 G. P. Brunetta, Dal sonoro a Salò, in Guida alla storia del cinema italiano, Giulio Einaudi, Torino 2003, pp. 73-110. G. P. Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” a “Ossessione”, Editori Laterza, Bari 2009. G. P. Brunetta, Le comete e le lucciole: grandi e piccoli sogni luminosi di quarant’anni di cinema, in P. Hultén – G. Celant (a cura di), Arte Italiana. Presenze 1900-1945, Bompiani, Milano 1989, p. 196. D. Bruni, Commedia degli anni Trenta, Il Castoro, Milano 2013. G. Canova – L. Farinotti, Atlante del cinema italiano. Corpi, paesaggi, figure del contemporaneo, Garzanti Libri, Milano 2011. G. C. Castello, Una pentalogia piccolo-borghese, «Cinema», 3 (1950), 31, pp. 57-59. A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002. R. Eugeni, La scenografia della modernità. La vita metropolitana come rappresentazione nell’Italia degli anni trenta, «Studi Novecenteschi», 42 (2015), 90, pp. 289–300. A. Faccioli, Schermi di regime. Cinema italiano degli anni Trenta: la produzione e i generi, Marsilio Editori, Venezia 2010. A. Farassino, Anni Trenta. Arte e Cultura in Italia, Mazzotta, Milano 1982. S. Grmek Germani, Mario Camerini, La nuova Italia, Firenze 1980, Il castoro cinema, 84. M. Gromo, Gli uomini, che mascalzoni, «La Stampa», 16 ottobre 1932, poi in Davanti allo schermo, Torino 1992. G. Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano 2001 E. Mastropietro, La “grande bellezza” del paesaggio italiano nel cinema contemporaneo: tra falsificazione e finanziamento locale, in E. Nicosia (a cura di), La città di celluloide tra vocazione turistica ed esperienze creative, Atti della giornata di studio dell’Università di Macerata, edizioni università di macerata, Macerata 2016. P. Mereghetti, Il Mereghetti - Dizionario dei Film 2008, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2007, p. 3119. L. Miccichè, Schermi opachi, Il cinema italiano degli anni ’80, Marsilio Editori, Venezia 1998. F. Montesanti, Gli uomini, che mascalzoni, in «Bianco e nero», 7-8 (1952). E. Roma, I nuovi film, «Cinema Illustrazione», 42 (1932), p. 12. F. Sacchi, La serata italiana al Festival del Lido, «Corriere della Sera», 12 agosto 1932, p. 5 F. Savio, Ma l’amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Sonzogno, Milano 1975, p. 14 V. Zagarrio, Cinema italiano anni Novanta, Marsilio Editori, Venezia 1998. V. Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari. Marsilio Editori, Venezia 2004. Filmografia Milano, Piazza Duomo (G. Filippi, Fratelli Lumière, Francia 1896) Berlino – Sinfonia di una grande città (Berlin - Die Sinfonie der Großstadt, W. Ruttmann, Deutsche Vereins-Film, Les Productions Fox Europa, Germania 1927) Stramilano (C. D’Errico, Za Bum, Italia 1929) Rotaie (M. Camerini, SACIA, Italia 1929) Terra madre (A. Blasetti, Cines, Italia 1931) Gli uomini…che mascalzoni (M. Camerini, Cines, Italia 1932) Acciaio (W. Ruttmann, Cines, Italia 1933) Darò un milione (M. Camerini, Novella Film, Italia 1935) Ma non è una cosa seria (M. Camerini, Colombo Film, Italia 1936) Il signor Max (M. Camerini, Astra Film, Italia 1937) Grandi magazzini (M. Camerini, Giuseppe Amato, Italia 1939) Ossessione (L. Visconti, Industrie Cinematografiche Italiane S.A., Italia 1943) Roma città aperta (R. Rossellini, Excelsa Film, Italia 1945) Accattone (P.P. Pasolini, Cino Del Duca, Italia 1961) Il sorpasso (D. Risi, Fair Film, INCEI Film, Sancro Film, Italia 1962) Mamma Roma (P.P. Pasolini, Arco Film, Italia 1962) Le mani sulla città (F. Rosi, Galatea Film, Italia 1963) Milano calibro 9 (F. Di Leo, Cineproduzione Daunia 70, Italia 1972) L’albero degli zoccoli (E. Olmi, Rai, Italnoleggio Cinematografico, Italia 1978) Stanno tutti bene (G. Tornatore, Silvio Berlusconi Communications, Erre Produzioni, Italia-Francia 1990) Il ladro di bambini (G. Amelio, Erre Produzioni, Alia Film, Rai Due, Arema Film, Vega Film, Italia-Francia-Svizzera-Germania 1992) Caro Diario (N. Moretti, Sacher Film, Banfilm – La Sept Cinéma, Italia-Francia, 1993) L’ora di religione (M. Bellocchio, Rai Cinema, Italia 2002) Cuore sacro (F. Ozpetek, R&C Produzioni, Italia 2005) Habemus Papam (N. Moretti, Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Italia-Francia 2011) La grande bellezza (P. Sorrentino, Indigo Film, Medusa Film, Babe Film, Pathé, Italia-Francia 2013) La dea fortuna (F. Ozpetek, Warner Bros. Entertainment Italia, R&C Produzioni, Faros Film, Italia 2019) Gli anni più belli (G. Muccino, Lotus Production, Rai Cinema, 3 Marys Entertainment, Italia 2020) Sitografia https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/gli-uomini-che-mascalzoni-/30828/ Accesso 26 maggio 2021 https://www.doppiozero.com/materiali/il-paesaggio-italiano-al-cinema Accesso 26 maggio 2021 https://www.treccani.it/enciclopedia/gli-uomini-che-mascalzoni_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ Accesso 26 maggio 2021 https://it.wikipedia.org/wiki/Gli_uomini,_che_mascalzoni... Accesso 28 maggio 2021 3