PALLADIO
NUOVA SERIE - ANNO XXXI - NN. 61-62 GENNAIO-DICEMBRE 2018
La rivista Palladio, fondata da Gustavo Giovannoni e specializzata in Storia
dell’Architettura e Restauro, da oltre settanta anni coltiva questo campo storiografico
nelle vicende che vanno dall’antico al contemporaneo.
Atti del Convegno internazionale “Le città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma”, tenutosi in occasione
delle Celebrazioni per l’ottantesimo della realizzazione della Nuova Città Universitaria di Roma 1935-2015, Roma, 23 25 novembre 2017.
Volume II
a cura di Bartolomeo Azzaro
Questo numero accoglie studi vagliati dal Comitato scientifico del Convegno internazionale Le città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma
Il presente fascicolo è stato realizzato con il contributo di:
Sapienza Università di Roma
Comitato direttivo: Augusto Roca De Amicis (direttore responsabile), Bartolomeo Azzaro, Claudio Varagnoli
Consiglio scientifico: Simona Benedetti, Maria Beltramini, Francesco Benelli, Maurizio Caperna, Joseph Connors, Riccardo Dalla
Negra, Alessandro Ippoliti, Cettina Lenza, Tommaso Manfredi, Fabio Mangone, Francesco Moschini, Javier Rivera Blanco,
Giorgio Rocco, Steven W. Semes, Piero Cimbolli Spagnesi, Maria Grazia Turco, Marcello Villani
Comitato di redazione: Fabrizio Di Marco (caporedattore), Iacopo Benincampi, Alberto Coppo, Marco Corsi, Luca Creti,
Emanuele Gambuti, Elisa Genovesi, Maria Clara Ghia, Marisa Tabarrini, Maria Grazia Turco
© ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.p.A. – SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA
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ISSN: 0031-0379
Registrazione Tribunale di Roma
n. 92 dell’8/06/2017*
Finito di stampare nel mese di dicembre 2020
a cura dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. - Roma
* Si precisa che il Poligrafico, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 6 della L. n. 47/48, ha richiesto al Tribunale di Roma l’annotazione del rapporto di coedizione con Sapienza Università di Roma e della
nomina del prof. Antonio Roca De Amicis quale nuovo Direttore Responsabile e che, alla data della stampa della Rivista, il relativo procedimento è ancora in corso
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NN. 61-62
GENNAIO
DICEMBRE
2018
RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO
Architetture universitarie italiane
7
Maria Antonietta Crippa: Dall’originaria articolazione tra sedi universitarie e città, in Milano,
ad oggi. Il caso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
15
Emilio Faroldi: L’architettura del Campus al Politecnico di Milano. Storia, sviluppo territoriale
e nuovi innesti urbani
25
Pierfranco Galliani: Milano: “campus non campus”
33
Fabio Mangone: Il campus napoletano di Monte Sant’Angelo
41
Antonietta Iolanda Lima: Le sedi universitarie nella progettazione dello studio Pica Ciamarra
Associati
53
Cinzia Gavello: Alberto Sartoris e il progetto della Città Universitaria di Torino
59 Michelangelo Savino: L’università costruisce la città. Padova dal “Campus diffuso” alla Rete
urbana
67
Gemma Belli: Il piano di Luigi Piccinato per il nuovo Centro universitario di Catania
75 Francesca Martorano: La Cittadella universitaria di Reggio Calabria. Progetto e realizzazione
83 Lorenzo Mingardi: Il Campus di Urbino e il progetto culturale di Carlo Bo e Giancarlo
De Carlo
89 Micaela Antonucci: Modelli italiani per la Nuova Città Universitaria di Roma: la Scuola per
gli Ingegneri di Bologna di Giuseppe Vaccaro
97 Ferdinando Zanzottera: Da cittadelle della salute mentale a campus universitari. Dismissioni
e trasformazioni degli ex ospedali psichiatrici nel nord-est italiano
105 Patrizia Montuori: Dalla salute all’istruzione della “meglio gioventù”, dalla colonia montana
IX maggio a Monteluco di Roio alla facoltà d’Ingegneria dell’Università dell’Aquila
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GENNAIO
DICEMBRE
2018
RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO
Architetture universitarie europee e americane
113
Harald Bodenschatz: Progettazione e costruzione di città universitarie sotto le dittature europee
nella prima metà del Novecento
119
Diane Yvonne Francis Ghirardo: Le università californiane del Novecento
125
Steven W. Semes: Dal chiostro al campus: progettazione delle università americane
133
Chiara Baglione: Eero Saarinen e la progettazione dei campus universitari nell’America
del secondo dopoguerra
141
Maria Argenti: Il Florida Southern College di Frank Lloyd Wright, progetto di un organismo
aperto.
153
Raffaele Marone: Un monumento alle culture ibride. Juan O’Gorman e la Biblioteca Centrale
della Universidad Nacional Autónoma de México a Città del Messico.
161
Javier Rivera Blanco: L’Università del cardinale Cisneros, modello dell’età moderna dichiarato Patrimonio Mondiale
173
Pilar Chías Navarro: La Città Universitaria di Madrid, 1927-2017: 90 anni di storia
181
Raffaella Russo Spena: La Città Universitaria di Madrid e la “Generazione del 1925”: un
laboratorio di sperimentazione moderna
187
Calogero Bellanca: Similitudini e differenze: Ciudad Universitaria de Madrid e la Nuova
Città Universitaria di Roma.
195
Minna Kulojärvi: After ‘Italia la Bella’ – Interaction between Italian and Finnish architecture
in the 1930s in the light of the journal «Arkkitehti»
203
Donatella Scatena: I campus universitari di Vilnius e Kaunas in Lituania: il modernismo baltico
del periodo sovietico
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GENNAIO
DICEMBRE
2018
RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO
209
Elena Manzo: Il campus Universitetsundervisningen di Århus in Danimarca. Disegno urbano,
architettura e design nella lezione di Kay Fisker, C.F. Møller e Povl Stegmann
217
Andrea Maglio: L’ETH di Zurigo: dal ‘collegio’ alla Città universitaria.
227
Aban Tahmasebi: Il periodo fra le due guerre: ideologie affini, le città universitarie di Roma
e Teheran (1932-1935).
DALL’ORIGINARIA ARTICOLAZIONE
TRA SEDI UNIVERSITARIE E CITTÀ, IN MILANO, AD OGGI.
IL CASO DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
Maria Antonietta Crippa
Due procedure fondamentali, non solo nella storia
dell’architettura e del restauro ma anche nella qualificazione di un intervento urbanistico – il recupero e adeguamento di un’architettura preesistente da una parte, la
messa a punto suo tramite di uno specifico ordinamento urbano dall’altra – consentono di ritenere il progetto
dell’architetto Giovanni Muzio (1893-1982) per l’Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano esemplificazione significativa del sistema universitario italiano (fig.
1). Esso è, in ogni caso, variante in chiave moderna della
reciproca congruenza o ‘contaminazione’, di matrice europea continentale, tra università e città. Identifica infatti, in modo emblematico, il moderno concorso degli
insediamenti universitari al consolidamento delle peculiarità urbane nazionali, con tratti di forte continuità con
gli studia urbis o Sapienze di origine medievale (1).
Fino ai primi decenni del Novecento non emerse in
Italia la necessità di una netta disarticolazione, tra città e
sedi di studi universitari, in un’area insediativa specifica,
il campus secondo la dizione anglosassone, che si diffuse
in America provenendo dai college inglesi di inizio Ottocento. Presso di noi, infatti, la vita dei luoghi di più alta
ricerca e insegnamento qualificava da tempo la socialità
e il tessuto residenziale di importanti settori urbani. In
questa tradizione la città universitaria “La Sapienza” in
Roma introdusse, del 1932, una certa innovazione, peraltro circolante anche in altre città italiane. Dalla conoscenza diretta dei campus in USA, il suo direttore generale e architetto capo, Marcello Piacentini (1881-1960),
trasse indicazioni organizzative, tipologiche e tecnologiche, che adattò alla propria visione romana nella generale
planimetria basilicale costituita dai diversi corpi edilizi.
In un solo complesso si concentrarono tutte le Facoltà e le
relative funzioni accademiche e amministrative. Ma già
sul finire degli anni Cinquanta ci si interrogò sull’opportunità di perseguire questo modello o sistema a ‘concentramento unico’, in ragione della proliferazione di edifici
universitari fuori dal suo perimetro. Il termine città o cittadella universitaria acquisì, nel frattempo, un significato
blando, scarsamente identificativo, come accade del resto
oggi per la parola campus utilizzato per molte università
italiane.
In Italia la congruenza tra università e città sopra delineata ha raggiunto negli ultimi decenni una complessità poco controllata, sia per il continuo aumento degli
iscritti sia per un disordine urbano generalizzato e tale
da rendere oggi urgente una riflessione a tutto campo
sul futuro degli insediamenti universitari. Consistenza
e accelerata espansione del patrimonio edilizio universitario italiano sono temi centrali in questo convegno;
sono anche problemi attuali e rilevanti in Milano, città
in radicale trasformazione dal 2000 a oggi, con notevole
implicazione anche dei poli culturali universitari e della
loro connessioni a rete tra le città a scala regionale.
Assetto, dimensione, posizione dei poli culturali e di
quelli universitari in particolare, per il loro specifico
carattere sociale incidono profondamente su vitalità,
economia e vita civica delle aree nelle quali vengono
inseriti; ne costituiscono un nodo architettonico e urbanistico rilevante. Si tratta di un dato di fatto e di un
problema tra i più stimolanti poiché, come ha affermato Bernardo Secchi (1934-2014) (2), la configurazione
urbana contemporanea è da ritenere intricato e confuso
fenomeno in attesa di un progetto nel quale la stratificazione storica degli insediamenti, non legittimando
una malleabilità all’infinito, esige al contrario la messa
a fuoco e la valorizzazione dei suoi fattori costitutivi
come conditio sine qua non.
I primi quattro poli universitari milanesi dalla fondazione a oggi
L’avvio di un sistema di formazione superiore con specifiche moderne sedi ebbe non poche difficoltà in Milano (3). Restò valido a lungo, dopo l’unificazione nazionale, l’esclusivo riconoscimento, all’antica università
di Pavia, dell’attività delle quattro facoltà tradizionali,
mentre venne concessa a Milano l’apertura di istituzioni
specializzate sul versante applicativo: nel 1859, l’Istituto Tecnico Superiore (premessa all’attuale Politecnico);
nel 1870, la Scuola Superiore di Agraria, poi confluita
nell’Università Statale degli Studi. Ricerche e formazione
mediche si erano avviate da tempo nell’Ospedale Maggiore, la celebre Ca’ Granda.
Da questa complessa situazione maturarono, dall’inizio del Novecento, spinte innovative che avrebbero
consentito di costituire nel periodo compreso tra le due
guerre mondiali e di ampliare nel successivo fino a oggi
il sistema universitario della città in quattro distinte istituzioni: Città Studi, per il Politecnico e altri nuclei e
7
Fig. 1 - Milano, veduta aerea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Archivio ISAL, Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda - fondo
BAMSphoto).
laboratori universitari; l’Università Statale degli Studi;
l’Università Commerciale Luigi Bocconi, l’Università
Cattolica del Sacro Cuore. A queste, ora tutte in forte
espansione, se ne sono aggiunte altre in anni recenti, dando luogo a un intreccio tra sedi e distaccamenti anche in
aree molto distanti tra loro, sia entro Milano che in altre
città lombarde.
Architetti di fama contribuirono al progetto dei primi
quattro nuclei e ai più significativi tra i loro ampliamenti, contrassegnandoli con un vasto campionario formale:
dalle espressioni beaux-arts alle più recenti formule architettoniche. Nelle due sedi in antichi edifici, le Università Statale e Cattolica, furono messe a punto anche
due varianti progettuali del rapporto tra antica e nuova architettura. Di non secondaria importanza fu l’area
d’insediamento di questi primi quattro nuclei, talvolta
più marcatamente segnata dall’orientamento a costituire
uno specifico comparto urbano, come fu per ‘Città studi’,
talaltra invece – nell’Università Bocconi – direttamente immessa in esso svolgendovi il ruolo di articolazione
essenziale ma non emergente. L’organismo universitario
8
inoltre divenne perno delle trasformazioni della vasta
porzione urbana circostante, in modi diversi per le Università Bocconi e Cattolica; oppure venne incapsulato tra
comparti in continua trasformazione come emergenza
monumentale: così fu per l’Università statale, alla quale
si collegarono però, al di là di via Francesco Sforza che
copriva dal 1929 il Naviglio, i vari Istituti ospedalieri
del Policlinico.
Legami fra città e architettura secondo Giovanni Muzio
Il progetto di Giovanni Muzio per la milanese Università Cattolica del Sacro Cuore incise una moderna qualificazione urbana nell’eccezionale contesto attorno alla
romanica basilica di S. Ambrogio, da poco liberata dai
molti piccoli edifici che l’avevano circondata. Di una generazione più giovane del romano Piacentini, Muzio collaborò con lui in più modi, come lui fu aperto a rapporti
internazionali e molto attivo come architetto e urbanista.
Ambedue oggetto di recenti recuperi storico critici e di
di G. Pinchetti e G. Caniani del 1801, nella conformazione neoclassica. Princìpi di arte urbana, rispetto della
tradizione, equilibrato utilizzo di tecnologie e materiali
moderni guidarono Muzio che, con i colleghi del “Club
degli urbanisti” (A. Alpago Novello, G. De Finetti, T.
Buzzi, O. Cabiati, G. Ferrazza, A. Gadola, E. Lancia, M.
Marelli, A. Minali, P. Palumbo, G. Ponti, F. Reggiori) li
espresse nella Forma Urbis Mediolani, presentata al concorso per il PRG del 1926-27, in un progetto al quale
venne preferito il devastante piano di P. Portaluppi e M.
Semenza, rimasto per fortuna inattuato.
Le sue numerose architetture intesero sempre comporre ‘brani di città’ tramite: dimensioni non eccedenti quelle circostanti, scomposizione dei corpi edilizi, aperture
di nuove strade, disegno di vaste corti interne, prospetti
dai ritmi sobri. Scompose in due volumi la Ca’ Brütta;
diede monumentalità e ritmica corrispondenza agli interni nei prospetti dell’Angelicum in cotto; volle il Palazzo
dell’Arte, sede della Triennale, in asse con la civica Arena
napoleonica. In cantieri seguiti con cura estrema, introdusse: strutture portanti in cemento armato mai lasciato in vista (Università Cattolica, Angelicum), coperture
industriali a shed (Triennale), campiture in mattoni appositamente studiati (Università Cattolica, Angelicum,
Triennale) e in klinker (Triennale) da lui portato in Italia
dall’Olanda e dalla Germania.
I progetti di Muzio per l’Università Cattolica del Sacro Cuore
Fig. 2 - Planimetria dell’ex-monastero cistercense con indicazione
delle diverse aree funzionali per la nuova università, individuate da
Giovanni Muzio (da REGGIORI 1935, p. 324).
confronti sull’interpretazione della tradizione classica di
ascendenza romana, essi si espressero però in poetiche decisamente divergenti. Sintomatico al riguardo è il riferimento di Muzio al Palladio come propria guida ideale, di
Piacentini alla tradizione romana.
Professore di Urbanistica al Politecnico di Torino
(1935-1963) e di Architettura edile nella Facoltà di ingegneria al Politecnico di Milano (1951-63), di vasto sapere
e amico di letterati e artisti (come Ungaretti, Malaparte,
Sironi e Funi), Muzio viene inscritto nell’orizzonte della
cultura europea della ‘rivoluzione conservatrice’, che ebbe
come protagonisti D’Ors e Valéry. Allievo al Politecnico
dell’ingegnere archeologo Ugo di Monneret de Villard
(1881-1954) – ricostruttore dell’impianto della Milano
romana e precoce traduttore de L’arte di costruire la città di
Camillo Sitte (1899) –, nel saggio L’architettura a Milano
intorno all’Ottocento, del 1921, egli scorse tracce di una
Milano grande capitale, come lo era stata nel lontano VI
secolo, negli interventi d’età napoleonica dei nuovi edifici antoliniani. La vide delineata, nella carta topografica
Dell’intervento di Muzio sul complesso cistercense a partire dal 1928, allora in grave stato di degrado,
interessa qui far emergere la definizione urbana e i dati
principali del nuovo utilizzo (4). Tralascio invece storia
e valutazioni critiche più strettamente connesse ai suoi
criteri compositivi e al suo linguaggio architettonico, di
grande forza intellettuale.
Sul monastero annesso alla basilica di S. Ambrogio, di
disegno attribuito a Donato Bramante ma non realizzato
sotto la sua direzione, Muzio intervenne aggiungendo un
nuovo corpo edilizio all’ingresso (fig. 2), agganciandolo
all’antica fabbrica per conferire aspetto urbano moderno
all’università affacciata su ampio slargo detto poi largo
Gemelli. Nell’area antistante all’ex-convento cistercense, nel 1924-28, l’architetto aveva già realizzato un raffinato e ‘duro’ Monumento ai caduti della prima guerra
mondiale (con Alpago Novello, Cabiati, Buzzi, Ponti),
racchiuso in un perimetro rettangolare. Sul suo fianco,
in testa a largo Gemelli, allineò il nuovo volume edilizio dell’università per ospitarvi ingresso, uffici amministrativi, cappella. Nell’organismo costruttivo articolato
in due ampi chiostri, egli intervenne invece nel rispetto
delle notevoli qualità del complesso cinquecentesco, con
criteri decisamente conservativi nelle componenti più
nobili, più liberi per altre parti.
9
Fig. 3 - Planimetria del piano terreno dei
nuovi Collegi universitari progettati da
Giovanni Muzio (da REGGIORI 1935,
p. 325).
Fig. 4 - Veduta dell’ingresso all’Università Cattolica da Largo
Gemelli (Archivio ISAL - fondo Simioli).
10
La sua procedura può rientrare nella logica di avvaloramento ‘caso per caso’ di A. Annoni, applicata però con
notevole libertà. In un cenno di confronto con il restauro
e l’adeguamento dell’ex Ospedale Maggiore milanese a
sede centrale dell’Università degli Studi di Milano – studiati dal 1939 e realizzati da A. Annoni, P. Portaluppi,
L. Grassi e altri, nell’immediato secondo dopoguerra e
fino il 1980 – si può affermare che risulti minore la sua
distanza critica dal progetto originale cinquecentesco rispetto a quella messa a punto nell’intervento sulla Ca’
Granda. Non per minore intelligenza dei problemi di
continuità storica dei tessuti edilizi e del valore in essi
delle emergenze monumentali ma per un suo diverso criterio di relazione con le preesistenze, evidente anche nelle
scelte linguistiche contrassegnate da continuità di forme
classiche semplificate e solidali con aggiornamento tecnico di notevole tenuta.
Muzio condusse i lavori dal 1928 fino al 1949, avendo
dovuto riprenderli dopo i bombardamenti della seconda
guerra mondiale che causarono qualche danno alla sede.
Concluso nel 1929 il progetto generale, le demolizioni
necessarie e il corpo d’ingresso, nel 1931-32 adeguò gli
Fig. 5 - Veduta del chiostro dorico dell’Università Cattolica (Archivio ISAL - fondo Simioli).
edifici dei chiostri ad aule (accorpando in media due celle
per ogni aula), sistemò i percorsi orizzontali e verticali,
intervenne con restauri nelle parti preziosamente affrescate (egli aveva importanti incisioni ottocentesche, di
Ferdinando Cassina, come guida).
Probabilmente su sua sollecitazione, il rettore padre Agostino Gemelli chiese al comune di Milano una
Variante di piano per definire un nuovo sistema viario
attorno al complesso monumentale; sulla via Ludovico
Necchi, l’architetto poté di conseguenza costruire, su
un lato della strada opposto a quello dell’ex-monastero
i collegi (fig. 3), pensionati maschili per studenti e religiosi, e pensionati femminili. Nel 1949 realizzò qui
anche la Mensa universitaria. Nei prospetti diede prevalenza alla finitura in mattoni i cui ritmi compositivi
non ribadivano la sottostante struttura portante in cemento armato
La planimetria complessiva dell’ex monastero consente di individuare con facilità il chiaro nuovo asset-
Fig. 6 - Veduta dell’Aula Magna dell’Università Cattolica (Archivio ISAL - fondo Zanzottera).
11
Fig. 7 - La Caserma Garibaldi, ex Veliti con affaccio
su Largo Gemelli (Archivio
ISAL - fondo Simioli).
to funzionale dato da Muzio al complesso. L’accesso ai
chiostri, come da suo progetto, avviene attraversando
tuttora il corpo dell’ingresso principale (fig. 4) che
sbocca nel chiostro dorico (fig. 5); un porticato continuo consente il passaggio a quello ionico. Nel volume
a spina tra i due chiostri, egli ricavò l’Aula Magna (fig.
6) dove un tempo era il refettorio, cui diede capienza
globale (aula e balconata) di 870 posti, e mantenne lo
scalone monumentale d’accesso. In questa stessa area
di spina, aveva realizzato anche una biblioteca su due
piani, eliminata nel 1960 per far posto ad aule. Sull’angolo verso vicolo S. Agostino, nei pressi di un ingresso
secondario, edificò un grosso volume per due grandi
aule circolari, in forma di uno scarno funzionalismo.
Nell’Aula Magna riportò il trittico delle Nozze di Cana,
dipinto dal pittore lodigiano Callisto Piazza nel 1545;
restaurò il soffitto con raffinati decori cinquecenteschi
a fasce, che compongono aree triangolari affrescate con
varie insegne, tra le quali lo staffile emblema di S. Ambrogio.
Dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi, la crescente
necessità di aule impose continue modifiche e ulteriori costruzioni nell’area del complesso universitario. Nel
1986, in occasione della costruzione di un nuovo edificio
per aule, nella zona un tempo parte del brolo dell’antico
monastero, venne alla luce la sua ghiacciaia della metà
del XVIII secolo alla profondità di tre metri, oggi visibile grazie al pavimento trasparente dell’aula soprastante.
Smontata, fu infatti ricollocata nella stessa posizione a
12
m 10 al di sotto del piano precedente, in lavori diretti dall’arch. G. Schiatti dell’Ufficio Tecnico dell’ateneo.
Sono stati inoltre condotti anche diversi interventi di restauro; il principale è stato quello di adeguamento tecnologico e restauro dell’Aula Magna, tra 1994 e 1997,
coordinato anch’esso da Schiatti.
Il sistema delle università cattoliche in Italia
Il sistema cattolico italiano delle università, con centro in Milano, ha assunto nel corso del XX secolo un’interessante articolazione territoriale. Alla fine dell’Ottocento fu promotore del suo avvio l’economista bresciano
Giuseppe Toniolo (1845-1918), fondatore delle Settimane sociali cattoliche. Se ne fece carico il medico
padre Agostino Gemelli (1878-1959) dell’Ordine dei
frati minori. Dall’Istituto Giuseppe Toniolo, fondato
nel 1920, venne promossa l’Università ufficialmente
sancita a dicembre dello stesso 1920, con approvazione
ecclesiastica. Dal 1921 essa fu attiva in sede provvisoria,
con 107 studenti. L’Istituto acquisì dal demanio statale,
nel 1927, l’area dell’ex monastero cistercense con edifici
annessi, utilizzato come ospedale militare dopo la soppressione dell’Ordine, a fianco della milanese basilica di
S. Ambrogio. Nel 1928 l’ente diede incarico a Muzio,
insieme all’ing. Pier Fausto Barelli come suo sostegno,
del progetto di adeguamento del complesso a università. Più tardi, nel 1961, sarebbe stata attivata in Roma,
dallo stesso Istituto Toniolo, la Facoltà di Medicina con
il Policlinico Gemelli, mentre già nel 1950 era stata
aperta a Piacenza la Facoltà di Agraria. In seguito si sarebbero aperte altre sedi staccate in Lombardia (Brescia,
Piacenza-Cremona) e istituzioni diverse in altre regioni.
L’Università cattolica milanese ha avuto in questi ultimi anni stringenti esigenze di spazi ulteriori a quelli
nell’ex monastero e dei corpi aggiunti da Muzio. Allo
scopo ha occupato provvisoriamente vari edifici intorno
alla sua sede principale: in via S. Vittore, via Morozzo
della Rocca, via S. Agnese, via Nirone, via Carducci;
più distanti ma sempre in Milano i distaccamenti in via
Buonarroti e via Pagliano. Un suo centro sportivo è in
viale Suzzani.
Per ovviare alla casuale disseminazione e conseguente
difficoltà di gestione della vita universitaria in tutti i suoi
aspetti, pertanto per potersi espandere con più agio come
polo culturale di una delle parti storicamente più rilevanti nel cuore della città, l’Istituzione ha acquistato nel
2015 la Caserma Garibaldi (fig. 7) occupata dalla Polizia
di Stato, che si affaccia su largo Gemelli. Ex Caserma dei
Veliti, corpo napoleonico di fanteria leggera, costruita in
due fasi nel corso del XIX secolo sul sedime della chiesa
di S. Francesco grande e del relativo convento, essa insiste
su una superficie di circa 20.000 m² e attende il prossimo
adeguamento alla nuova destinazione.
La doppia rilevanza dell’Università cattolica milanese
– perno culturale e religioso, con la basilica vicina, della
moderna qualificazione di un’area urbana di grande rilevanza storica, e fulcro del suo riordino, grazie al progetto
di Muzio – risponde a un assetto pensato circa novanta
anni fa, per un’università con numeri di allievi e obiettivi
di ricerca e formazione imparagonabili con gli attuali, in
relazione inoltre con una città che è ora vasto continuum
con la sua area metropolitana.
Come è noto si propongono oggi, da più parti, modelli
di crescita fondati sul principio denominato ‘economia
della conoscenza’ (5), segnalandone le molte connessioni
con territori e città. Numerosi sono gli interrogativi che
esso apre e da affrontare in un coordinamento nazionale
sul ruolo, in questo sviluppo, delle università italiane e
dei loro storici insediamenti, compreso il futuro per quelli di Milano. Essi devono essere affrontati a partire da un
dato di fatto di non secondaria importanza, conseguente alla pandemia che in questo inizio 2020 ha colpito
il mondo intero: le università italiane, nell’attrezzarsi a
corsi a distanza con strumenti informatici, hanno scorto possibilità, finora impensabili né valutabili negli esiti
territoriali, per lo svolgimento della didattica e in parte
della ricerca.
(1) Il saggio è sintesi di riflessioni a partire da: per il rapporto università-città: Secchi 2000, Azzaro 2008, Azzaro
2012, Cappellin 2010, Crippa 2015, Crippa 2016, Pertot,
Ramella 2016; per il complesso di ex-monastero e basilica di
S. Ambrogio: Gatti Perer 1991, Rossi, Rovetta 2009; per il
progetto di Muzio: Muzio 1931, Reggiori 1935, Airoldi 1980,
Gambirasio, Mainardi 1982, Burg 1991.
(2) Secchi 2000.
(3) Langè 2008, pp. 113-122.
(4) Per le esatte denominazioni dei vari corpi dell’università,
di annessioni o utilizzi di diversi edifici, in prossimità della sede
centrale: https://milano.unicatt.it/guida_al_campus_aule_e_servizi_2014.pdf.
(5) Il principio identifica, nel contesto delle conoscenze scientifiche e nelle relative risorse umane, i fattori strategici di sviluppo, non solo economico, e relativi processi di apprendimento, di
innovazione e di competitività economica. Poiché inoltre provoca
crescita della domanda di informazione, esso stimola la diffusione
di internet. Cfr. Cappellin 2010.
Bibliografia
Airoldi 1980
R. Airoldi, L’idea di architettura nelle opere di Giovanni Muzio.
1922-1940, in «Casabella», 1980, n. 454, pp. 56-60.
Azzaro 2008
B. Azzaro (a cura di), L’Università di Roma “La Sapienza” e le
Università italiane, Roma 2008.
Azzaro 2012
B. Azzaro, La Città Universitaria di Roma della Sapienza e le sedi
esterne 1907-1932, Roma 2012.
Burg 1991
A. Burg, Novecento Milanese: i novecentisti e il rinnovamento dell’architettura a Milano fra il 1920 e il 1940, Milano 1991.
Cappellin 2010
R. Cappellin, Reti di conoscenza e innovazione e Knowledge Management territoriale, in G. Pace (a cura di), Sviluppo, innovazione e conoscenza. Strumenti per un’economia mediterranea, Milano 2010, pp. 206-236.
Crippa 2015
M. A. Crippa, Abitare in Lombardia tra XIX e XX secolo, in M.
A. Crippa (a cura di), Milano e Lombardia dall’alto, Milano 2015,
pp. 225-319.
Crippa 2016
M. A. Crippa, Avvicinamento alla storia dell’architettura, Milano
2016.
Gambirasio, Mainardi 1982
G. Gambirasio, B. Mainardi (a cura di), Giovanni Muzio, opere
e scritti, Milano 1982.
Gatti Perer 1991
M.L. Gatti Perer (a cura di), Dal Monastero di S. Ambrogio
all’Università Cattolica, Milano 1991.
Langè 2008
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Muzio 1931
G. Muzio, Alcuni architetti d’oggi in Lombardia, in «Dedalo», agosto 1931, ora in Gambirasio, Mainardi 1982,
pp. 254-355.
13
Pertot, Ramella 2016
G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946. Alle origini
della ricostruzione, Cinisello Balsamo 2016.
Reggiori 1935
F. Reggiori, Arch. Giovanni Muzio. I Collegi dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore a Milano, in «Architettura», XIV, maggio
1935, pp. 321-331.
Rossi, Rovetta 2009
M. Rossi, A. Rovetta (a cura di), La fabbrica perfetta e grandiosissima. Il complesso monumentale dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore, Milano 2009.
Secchi 2000
B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Bari 2000.
FROM THE ORIGINAL ARTICULATION OF UNIVERSITY CAMPUSES
AND THEIR URBAN SETTING IN MILAN, TO THE PRESENT:
THE CASE OF THE CATHOLIC UNIVERSITY OF THE SACRED HEART
The universities activated in the first half of the 20th century in Milan are interesting modern cases of connecting their life and buildings with the city. This
principle was implemented in different ways in these first four poles: Città Studi; Università Statale; Università Bocconi; Università Cattolica del Sacro
Cuore. The case of the Università Cattolica is emblematic. In his change of destination project, the architect Muzio adapted the ancient Cistercian Monastery,
designed by Bramante and connected to the basilica of S. Ambrogio, according to personal urban criteria. He carefully restored important sectors, added new
volumes, modified the interior spaces. After obtaining from the municipal administration to modify the local road system, he also built a group of autonomous
colleges alongside the former monastery. Today, each of the four historical universities of Milan is the central pivot of a network system of buildings on a
regional scale, also on a national scale in the case of the Cattolica.
14
L’ARCHITETTURA DEL CAMPUS AL POLITECNICO DI MILANO.
STORIA, SVILUPPO TERRITORIALE E NUOVI INNESTI URBANI
Emilio Faroldi
Campus e città: l’università quale motore di innovazione e
rinnovamento del sistema urbano
“Considero la scuola come un ambiente spaziale dove
sia bello imparare” (1).
L’architettura universitaria trova la sua ragione negli
spazi modellati dalle esigenze di chi vive e cresce nei luoghi del sapere e della formazione. I fruitori di tali spazialità appartengono a un’ampia ed eterogenea collettività
che viene coinvolta a partecipare e a collaborare sinergicamente alle dinamiche attività dell’Ateneo. “L’attività
accademica non sopporta più l’isolamento in quanto ha
necessità di contatti immediati e continui con una rete
assai diffusa di operatori che costituiscono la sua sede reale di committenza” (2). Un luogo d’avanguardia e di
sperimentazione, che ha storicamente saputo tradurre tali
peculiarità nella fisicità dei suoi spazi, traducendo il contesto accademico in una realtà originale titolare di una
propria identità, puntualizzata da opere paradigmatiche
e rappresentative dell’epoca di loro concezione.
L’architettura universitaria rappresenta un attendibile
barometro in grado di intercettare, anche negli aspetti
di natura morfo-tipologica, le ragioni dell’innovazione,
la solidità della conoscenza e l’appartenenza alla nobile
categoria dei luoghi per la cultura. L’Università, perciò,
in quanto istituzione urbana, è in grado di configurarsi
quale “motore di innovazione e di sviluppo del sistema
urbano: la sua presenza contribuisce all’irrobustimento
delle ragioni della qualità, innescando una trasformazione dinamica capace di attivare processi di rinnovamento
urbano e di rilancio economico” (3).
Le strategie evolutive delle università europee, sin
dalla loro nascita, risultano connesse a quelle città nelle quali si insediano e sviluppano, in forma proattiva, le
istituzioni accademiche: Campus (4) diffusi e nodi cruciali
di una rete culturale e formativa, fortemente legata alle
logiche e ai cambiamenti sociali e culturali dei centri urbani, in contrasto con i modelli connessi all’indipendenza
e all’isolamento di matrice statunitense e anglosassone.
L’ideazione dei Collegi di Urbino (5) rappresenta un caso
emblematico nel quale si evince l’interazione condivisa
tra istituzione universitaria e territorio, valutata quale
un’opportunità di arricchimento per le relazioni sociali e
culturali della città.
Affermava De Carlo: “Il mio sforzo è stato quello di
costruire un insediamento universitario indubbiamente
contemporaneo, ma gestito dagli echi della storia di
Urbino: al punto che un cittadino potrebbe considerarli
parte della città che già conosce e sente familiare e volerli
frequentare abitualmente, come fa con i luoghi della città
stessa anche se qui vivono prevalentemente studenti. In altre parole, l’intenzione era quella di stabilire uno scambio
permanente tra la città storica e la città dei Collegi” (6).
Il legame biunivoco tra l’Ateneo e l’urbe vede il polo
accademico trasformarsi in volano culturale, sociale, economico per il centro urbano: specularmente, la città costituisce un terreno fecondo di possibilità e una fonte di
stimolo per l’adeguamento continuo nel campo della didattica e dell’innovazione mediante lo strumento della ricerca. “L’università diventa perno del sistema produttivo
per l’innovazione e trasferimento tecnologico nel territorio
incidendo sulla base economica quale agente di trasformazione urbana” (7) dalla dichiarata responsabilità sociale.
All’interno del dibattito inerente all’identità che “traguarda una natura multi-transcalare come spazio di flussi” (8), la città contemporanea può interpretare l’università quale occasione di definizione di un luogo pubblico.
L’obiettivo è rivolto alla qualità, apertura e sperimentazione di “una pratica riflessiva progettuale: un servizio
e uno spazio per la città in cui si genera la nuova conoscenza pratica, quella in cui la validità delle proposte
è governata e limitata alle situazioni di indagine nella
quale trova utilità” (9). In altre parole, il Campus universitario dovrebbe costituire quel contesto pubblico attivante
(10), sede di una nuova soglia tra utilità accademica e utilità sociale, intese quali chiavi di riconnessione e rafforzamento del rapporto esistete tra la città e le sue parti.
Le università europee e la città di Milano
“La città è il luogo deputato alla produzione e alla fruizione di conoscenza e cultura. L’università è il luogo dove
confluiscono risorse umane qualificate, idee ed innovazioni, dove è presente in genere, un’elevata apertura internazionale e questo favorisce il transito di informazioni,
conoscenza e sapere” (11).
La conoscenza e la cultura rappresentano gli strumenti
atti allo sviluppo del territorio: il contributo dei centri
universitari coopera allo sviluppo della sfera culturale
nella città contemporanea.
I campus, tuttavia, sono soggetti a numerosi cambiamenti dettati dal progresso tecnologico, dalle politiche
urbane, dagli effetti dei processi globali e dalle costanti
15
Fig. 1 - a) Politecnico di Milano, Città Studi. Edificio del Rettorato, 1927 (Archivio Storico,
Biblioteca Candiani, Milano
Bovisa); b) Città Studi. Vista
a volo d’uccello, 1927 (Archivio Storico di Ateneo, Fondo
Miscellanea disegni, dediche,
fotografie).
variazioni presenti nei programmi didattici e nel settore
della ricerca. Tali dinamiche si concretizzano nella realtà
europea, veri e propri teatri del millenario patrimonio
rappresentato dalle strutture universitarie.
Dal XX secolo tale insieme non è stato esclusivamente
coinvolto in un deciso processo di gemmazione e proliferazione del numero di sedi, bensì da un’evidente volontà
16
di adeguamento delle strutture a nuove logiche di insegnamento e di conseguente apprendimento (12). Una
ricchezza distributiva, morfologica, funzionale e architettonica custodita sia nelle grandi città, sia in quelle più
decentrate e satelliti delle prime.
Nelle loro differenti e ibride declinazioni dimensionali le città universitarie hanno sempre fornito risposte
Fig. 2 - Politecnico di Milano.
Edificio Trifoglio, 1956-1960
(Marco Introini photography).
innovative e aggiornate ai nuovi stili di vita, di apprendimento, di comprensione della conoscenza e del mondo.
Le università rappresentano un significativo laboratorio
in fieri, detentore di un costante monitoraggio dei nuovi
modi di abitare, nel quale si mettono in relazione momenti lavorativi, azioni ludiche e loro connessioni con le
forme contemporanee dell’abitare.
Alcuni Campus europei possono essere eletti a modelli
di sistemi integrati ed efficienti capaci di coordinare le
richieste di studenti e ricercatori mirate a soddisfare la
richiesta di soggiornare e operare in ambienti confortevoli e facilmente raggiungibili. Si pensi all’Universidad
Politécnica de Madrid, all’Universitat Politécnica de Catalunya, alla TU Delft University of Technology o al Wien New
University Campus.
Anche l’architettura di valore trova ricovero in questo
ambito di dibattito: la Facoltà di Architettura dell’Università di Oporto di Alvaro Siza, ad esempio, rappresenta
un “componimento che aspira ad essere un lavoro ben fatto e pensato, in grado di rispondere ai bisogni del vivere
dell’uomo, attraverso soluzioni funzionali e concrete” (13).
Nel contesto italiano, la città metropolitana di Milano
risulta essere la prima città del Paese in ambito di offerta
e organizzazione universitaria: un livello confrontabile a
quello delle più rinomate città europee nel settore delle
strutture per la formazione.
Il sistema di Università, nel territorio milanese, comprende 39 centri universitari, con 44 facoltà (14) (oggi scuole). Le statistiche indicano la presenza di 267.520 iscritti e
più di 27 mila dipendenti riconducibili agli ambiti della
didattica, ricerca e dell’apparato tecnico amministrativo:
una dinamica di percentuale in forte crescita riconducibile all’aumentato fattore di attrattività che la Lombardia
oggi possiede nei confronti del territorio nazionale e dei
contesti internazionali (15). Ciò, non esclusivamente per
ragioni di matrice quantitativa: i numerosi poli universitari del capoluogo lombardo, infatti, rappresentano oggi
metropoli nella metropoli.
Grandi sistemi urbani che mutano costantemente la
fisionomia di interi contesti, attraendo studenti e investimenti internazionali, stimolando una crescente competitività (16) a livello istituzionale e territoriale volta
a perseguire sempre in maggior misura, gradi di eccellenza nella formazione e nella ricerca. A ciò, si affianca
il particolare ed efficace riguardo riservato alle esigenze
del mercato del mondo lavorativo e del settore legato alla
terza missione (17), attraverso la creazione di un modello
relazionale e virtuoso tra Imprese, Istituzioni di Governo
e Università.
Il Politecnico di Milano
Le sedi del Politecnico di Milano risultano essere parte integrante del tessuto connettivo e sociale della città,
configurandosi quali veri e propri quartieri e reti.
Il caso della realtà di Città Studi, nella sua stratificata articolazione, rappresenta oggi, a distanza di oltre un
17
secolo dalla sua fondazione, una trama nevralgica del sistema urbano milanese, sia per il profilo di fulcro urbano
educativo, sia per il ruolo che ha assunto nello sviluppo
parallelo di crescita della città metropolitana.
Nel 1859 si posero le basi dell’Istituto Tecnico Superiore di Milano che dopo pochi anni mutò il suo statuto in Università. Sulla base delle proposte, nel PRG
Pavia-Masera del 1912, di realizzare una porzione di città
dedicata alla funzione universitaria, nacque Città Studi
(fig. 1), collocata nell’area periferica adiacente ai prati di
Lambrate, la cui nuova sede dell’Università Politecnica fu
inaugurata nel 1927, a seguito della sospensione dovuta
al periodo bellico.
Il complesso architettonico si configura quale sistema a
padiglioni, tra loro collegati da portici, immersi nel verde,
come mutazione di configurazioni urbane e tipologie storicamente dedicate ai luoghi della salute fisica e mentale.
Da elemento periurbano, a seguito dell’espansione verso le
periferie promossa dal Piano Albertini (1934), Città Studi
divenne un quartiere integrato alla città consolidata.
L’implementazione dell’organismo universitario si pose
in relazione e in continuità con la crescita della città: i
tracciamenti del sistema infrastrutturale urbano, e le sue
conseguenti modifiche, costituirono l’ossatura di base sulla
quale si articolarono le nuove integrazioni architettoniche.
Nel secondo dopoguerra la Facoltà di Architettura cercò nuove spazialità, che trovarono una convincente e permanente risposta nel Campus Bonardi, posto a nord del
quartiere universitario di ingegneria. Gio Ponti e Giordano Forti, sotto la supervisione di Piero Portaluppi, ne
progettarono l’ampliamento concretizzatosi attraverso la
realizzazione, in particolare, di due manufatti emblematici nella storia dell’architettura milanese degli anni Cinquanta e Sessanta: il Trifoglio (fig. 2) e la Nave.
L’anima dell’intervento dei due grandi edifici destinati ad
aule didattiche, fu costituito dallo scavo del lotto, che andò
a formare un nuovo livello urbano rispetto al piano stradale
e che diverrà, nei successivi sviluppi, l’elemento unificatore
degli interventi puntuali che caratterizzano l’attuale struttura dell’area posta tra via Bonardi, via Ampére e il centro
balneare Giulio Romano, più noto come piscina Ponzio.
Attualmente sono in corso lavori che prevedono la realizzazione della nuova Aula Magna dell’Ateneo, collocata
all’ultimo livello dell’edificio Trifoglio.
Fig. 3 - Politecnico di Milano. Vittoriano Viganò, Facoltà di Architettura, 1985 (Marco Introini photography).
18
Il successivo episodio architettonico, firmato da Vittoriano Viganò e completato nel 1985, si inserisce con forza
e carattere in tale sistema innestando e seguendo “una linea costante e antica” (18), dettando le regole di una nuova spazialità urbana fondata sulla cultura delle differenze
nella loro sovrapposizione storica e culturale a servizio di
docenti, studenti e dell’utenza cittadina (fig. 3).
Tali spazialità, aperte e pubbliche dell’Ateneo, vengono concepite come luoghi di incontro e di socializzazione,
rappresentando dei fondamentali generatori di opportunità diversificate (19): attrezzature sportive, sale espositive, auditorium, punti ristoro, piazze coperte, giardini
pubblici attrezzati, sono solo alcuni degli elementi che
costituiscono il complesso sistema dei dialoghi corali del
nuovo sistema, che offre nuove opportunità d’incontro e
di identificazione della comunità universitaria e di quartiere. Nella prospettiva strategica di Politecnico a rete
(20), a partire dal 1989 furono inaugurate le nuove sedi
localizzate nel quartiere milanese di Bovisa e nelle realtà
di Como, Lecco, Mantova, Cremona, Piacenza.
Come Muzio affermava nel suo intervento Forme nuove
di città moderne, «non gli enormi ampliamenti e le soluzioni tecniche perfezionate formano il decoro della città,
ma soltanto gli insiemi architettonici» (21), così i grandi
interventi nella Goccia, a nord della città, stanno sempre
più perseguendo una logica di unitarietà e coordinamento, in una visione globale di ricucitura e rigenerazione
urbana, all’interno della quale l’istituzione universitaria
svolge un ruolo da protagonista. Proprio dal 2017 il Politecnico ha intrapreso una nuova politica di dialogo con
l’Amministrazione Comunale che prevede l’ampliamento del proprio Campus verso gli spazi della Goccia medesima: il progettando Parco dei Gasometri rappresenterà il
tassello più importante di tale sviluppo.
Fig. 4 - ViVi.Polimi.lab, Masterplan 2017-2022, Campus Leonardo, Politecnico di Milano. La riqualificazione dello storico Campus Leonardo, in zona Città Studi, muove dall’obiettivo di nobilitare il luogo simbolo dell’Ateneo, aumentandone la vivibilità e la percezione, per mezzo di
azioni progettuali in grado di ripensare l’intero ambito in maniera integrata alla città, tramite progetti tesi ad innalzare la vivibilità dei luoghi,
la valorizzazione degli spazi aperti e di relazione, per mezzo di ibridazioni funzionali e spaziali che riguardano lo studio, la ricerca, i servizi.
19
Nuovi scenari per il Campus universitario
Progettare nella contemporaneità significa affermare
che le dimensioni del tempo risultano unite da una segreta parentela, di cui il presente è un anello tra il passato e il
divenire urbanistico e architettonico di una realtà.
Affinché un’architettura di oggi assuma tale ruolo, occorre che ci sia in essa la cosciente presenza del passato,
nella prospettiva del futuro (22). Il valore della progettazione contemporanea, contestualizzando le parole di
Ignazio Gardella, è fortemente legato non solo alla capa-
cità di un progetto di inserirsi in continuità con le trame
del passato, bensì nell’abilità concettuale di prospettare
nuovi scenari dinamici e fisici, che rispondano alle attuali
richieste di una società in continua evoluzione.
L’Università, incubatore sociale e fulcro del mutamento, rientra a pieno titolo in tale logica: un frammento di
città, non isolato, animato da una realtà e da uno spirito
che possiede propri ritmi, flussi e regole interne.
Il luogo relazionale del Campus politecnico milanese
diviene strumento didattico e di sperimentazione, ‘al
vero’, all’interno della sfera comportamentale dei suoi
Fig. 5 - ViVi.Polimi.lab, Agorà degli studenti, Campus Leonardo, Politecnico di Milano, 2017-2020 (Marco Introini_photography). Il nuovo
spazio attrezzato per gli studenti, collocato al primo piano della sede della Scuola di Architettura del Campus Leonardo di Milano, ha riguardato
la riqualificazione e valorizzazione degli spazi interni dell’edificio collocato all’incrocio tra via Bonardi e via Ampére, al fine di dotare la Scuola
di aggiornate aree e postazioni studio in linea con l’importanza storica e culturale del manufatto architettonico, valorizzando il suo posizionamento
baricentrico e strategico rispetto agli edifici limitrofi. L’area oggetto di rifunzionalizzazione si trova all’interno di un complesso di edifici progettati
da figure di notevole spessore culturale: realizzato tra il 1953 e il 1961 su progetto da Giordano Forti, Gio Ponti e Piero Portaluppi, l’edificio è
stato concepito come “edificio insegnante”, nel quale al proprio interno sono state allocate, costituendo un campionario materico dell’edilizia moderna,
numerose tipologie di materiali e sistemi costruttivi. In tali nuove spazialità è stata trasferita la Presidenza della Scuola AUIC, ristabilendo lo
storico assetto. Una nuova “piazza per gli studenti”, denominata “Agorà”, a simboleggiare un nuovo luogo di incontro, per lo studio personale e collettivo, per il lavoro al tavolo e per la realizzazione di modelli tridimensionali, dotata di nuove attrezzature per l’archiviazione di oggetti personali.
Una soluzione che consente l’esposizione di modelli tridimensionali ed elaborati grafici.
20
abitanti, e in quella di affinamento e formazione tesa a
promuovere cultura e sensibilità nei confronti dell’ambiente. Risulta fondamentale il dialogo sinergico tra le
qualità dello spazio di lavoro e di studio e quelle della
ricerca e della didattica.
L’adeguamento agli standard qualitativi internazionali
e la costante volontà di essere al passo con le rinnovate
istanze della società e della comunità politecnica, ha portato l’Ateneo a una sostanziale riflessione inerente ai propri spazi e la loro trasformazione, approfondendo, promuovendo, attuando strategie e progetti che collocano al
centro del sistema l’integrazione degli spazi universitari
con la città, i paradigmi della sostenibilità ambientale e i
nuovi modi di vivere ed erogare formazione (23).
Fig. 6 - ViVi.Polimi.lab, Il Giardino di Leonardo, Campus Leonardo, Politecnico di Milano, 2017-2022 (Marco Introini_photography). Il
Giardino riguarda la riqualificazione degli spazi retrostanti l’edificio storico del Rettorato: un nuovo spazio, limitrofo alla storica e recentemente
rinnovata Piazza Leonardo da Vinci, qualifica l’esistente attraverso l’efficace connubio del sapore contemporaneo affiancato a quello di inizio
Novecento. Obiettivo primario del progetto è quello di garantire la valorizzazione e la massima vivibilità pedonale dello spazio, rendendolo maggiormente fruibile tramite l’eliminazione di circa 130 posti per il parcheggio delle autovetture che nel corso degli anni si erano impadronite del
contesto. In un’ottica di sostenibilità e di rigenerazione, il progetto intende strutturare gli spazi aperti del Campus in modo da soddisfare le modalità d’uso adottate dalle persone che quotidianamente li frequentano. L’intervento è teso a recuperare e valorizzare le valenze storiche del Campus,
conferendo ordine formale e qualità architettonica e ambientale, con particolare riferimento allo spazio centrale verde prospicente il Rettorato, e ai
suoi viali alberati. La sostenibilità del progetto si esprime privilegiando lo spazio verde continuo, ampliandone la superficie e rendendola fruibile
sia in maniera informale, sia attraverso diverse isole attrezzate funzionalmente autonome. Il progetto propone una rilettura del sistema degli spazi
che non tradisce l’impostazione del progetto originario attualizzandola alle esigenze di un Campus fortemente vissuto dagli studenti, docenti, tecnici
amministrativi, cittadini.
21
L’unità disciplinare architettura-urbanistica da Alberto Samonà teorizzata (24) è la chiave per un progetto in
dialogo: i nuovi orizzonti progettuali del Politecnico di
Milano sono mossi dall’imperativo della rigenerazione,
riorganizzazione e riassetto degli spazi alla luce di nuovi
modelli formativi e innovativi supporti strumentali.
Dopo anni di interventi puntuali, il sistema infrastrutturale torna a rappresentare la struttura portante dei
Campus del Politecnico, elementi fondanti dei processi
d’integrazione verso l’esterno e di qualificazione del funzionamento interno. L’idea progettuale concepita dall’alumnus Renzo Piano individua nella qualità dello spazio
aperto la base essenziale di un sistema capace di riorganizzare il Campus di Architettura di Via Bonardi, per
mezzo di uno spazio esterno alberato (circa 9000 mq),
aperto alla collettività, che funge da luogo dello stare e
da tessuto connettivo tra gli elementi del Campus, valorizzandoli architettonicamente e integrandone l’offerta
funzionale (25).
L’importante ruolo della ricerca e dell’innovazione tecnologica per l’Università è altresì identificato dal progetto del nuovo complesso di Chimica: una struttura in
grado di rispondere alle esigenze di implementazione dei
luoghi per la ricerca avanzata e, al tempo stesso, di porsi
quale elemento ordinatore di relazione tra viabilità pubblica, verde e attrezzature sportive adiacenti (26).
Per il presidio di tali processi di trasformazione urbana,
il Politecnico di Milano ha avviato un’azione progettuale e di governance del processo denominata “Vivi.Polimi”:
programma operativo e progettuale, ideato e coordinato
da Emilio Faroldi, che ha portato alla elaborazione di due
masterplan strategici - uno relativo a Città Studi (fig. 4);
l’altro riguardante l’area di Milano Bovisa - preposto ad
aggiornare e potenziare la qualità di vita negli spazi indoor e outdoor del Campus Leonardo.
Le principali operazioni progettuali interessate dal
programma, riguardano un’articolata rete di attività progettuali e realizzative, per natura ed entità tra loro interconnesse: dalla costituzione di una nuova Agorà degli studenti, (fig. 5), limitrofa e collegata all’edificio progettato
da Vittoriano Viganò, alla riqualificazione del giardino
storico di Leonardo, tramite l’ambizioso obiettivo di rinobilitare il luogo simbolo dell’Ateneo, aumentandone la
vivibilità e la percezione, tramite la delocalizzazione delle
numerose automobili oggi presenti, il ridisegno dei principali assi di collegamento dei nodi di mobilità pedonale,
l’incremento delle superfici a verde, la ripavimentazione
con materiali lapidei dei viali storici e l’inserimento di
nuove strutture coperte e cablate per lo studio all’aperto.
Il Giardino di Leonardo: questo il suo nome (fig. 6), in onore del genio italiano per eccellenza più rappresentativo
dell’approccio politecnico, a cinquecento anni dalla sua
morte. In continuità con tale ottica, anche via Edoardo
Bonardi ricopre un ruolo fondamentale: la sua auspicabile e probabile pedonalizzazione permetterà di collegare
22
spazialmente e metaforicamente il Campus di Architettura
post-bellico allo storico Campus storico Leonardo, pur confermando la presenza della linea del tram, quale arteria
vitale di un trasporto pubblico urbano, dolce e storicamente sostenibile. L’Ingegneria e l’Architettura potranno
in tal modo darsi appuntamento in una pedonalizzata via
Bonardi, storicizzata linea di divisione fisica tra due discipline, oggi, indissolubilmente interrelate.
La valorizzazione e rigenerazione dell’ex area industriale di Bovisa - luogo nel quale l’Ateneo rappresenta
da quasi ormai trent’anni una presenza consolidata - si
prefigge la messa a sistema dei consistenti manufatti architettonici che oggi definiscono spazi disconnessi e destrutturati. La riorganizzazione di un’area ospitante un
sottoutilizzato eliporto, collocata nel cuore del Campus
La Masa, si concretizza nella realizzazione della Collina
degli studenti, complesso dedicato a spazi per lo studio e
funzioni accessorie, caratterizzato dalla forte integrazione tra spazi interni ed esterni, attraverso aree pubbliche
polifunzionali e aree verdi destinate a ospitare eventi culturali e ricreativi.
Nuovi luoghi di aggregazione per le comunità dei
quartieri e per la crescente collettività studentesca, nei
quali l’istituzione del Politecnico rappresenta l’autore e
il beneficiario del cambiamento e dell’innovazione. Un
dialogo nel solco di un sistema unico costituito dalla città e dagli ambiti della formazione, che sancisce il ruolo,
che da sempre l’Università incorpora, di faro dei rilevanti
mutamenti di matrice sociale e urbana che coinvolgono le
realtà urbane interessate da tale imprescindibile e sempre
più importante funzione pubblica sociale (27).
L’Università come luogo dove storia, sviluppo territoriale e nuovi innesti urbani ridefiniscono un’idea di città
quale entità unica, dove l’architettura della formazione
rappresenta, anch’essa, la struttura generatrice e portante
del futuro sviluppo del nostro vivere urbano.
(1) Kahn 1960, p. 70.
(2) De Carlo 1968.
(3) Perry, Wievel 2008, p.12.
(4) Nella tradizione occidentale, i campus trovano la loro
origine nella configurazione dell’agorà greca, traendo ispirazione dalla dinamica del dibattito socratico in un luogo aperto
e pubblico. Nel tempo, da una spazialità in continuità con il
paesaggio, l’agorà diventa un’area ordinata e precisa nella pianificazione dei campi militari romani, introducendo la duplicità
del campus come luogo nel quale convivono i concetti di libertà
e di controllo.
(5) Giancarlo De Carlo, Collegi universitari in Colle dei
Cappuccini, Urbino, 1960-1987.
(6) Buncuga 2000, p. 132.
(7) Bonfantini 2013.
(8) Urraya 2010.
(9) Schön 1983 (1993).
(10) Cognetti 2013.
(22) Gardella 2002.
(11) Dilorenzo, Stefani 2015, p. 5.
(23) Faroldi 2008.
(12) Bagnasco 2004.
(24) Marras, Pogacnik 2006.
(13) Siza, Dubois, Chiaramonte 1997.
(14) Balducci, Cognetti, Fedeli 2010.
(15) Come espresso nel Portale dei dati dell’istruzione superiore.
Censimento inerente agli Atenei della regione Lombardia, Miur,
Anno 2019.
(16) Nel QS World University Rankings 2019, sistema di valutazione internazionale delle università in cui l’employer reputation
(competenze d’impiego futuro) e la academic reputation (valutazioni
dello studio accademico) sono due indicatori che parametrizzano
l’università, il Politecnico di Milano si classifica al 156esimo posto
al mondo e primo in Italia.. In particolare, l’Ateneo si è posizionato nono nella Facoltà di Architettura, 17esimo nella Facoltà
Ingegneria, quinto nella Facoltà di Design.
(17) Lo studioso Henry Etzkowitz individua tre momenti nell’evoluzione delle università: quello della definizione della funzione
didattica, nel periodo medioevale-età industriale; quello della
attenzione alla ricerca, dalla prima rivoluzione accademica del
XIX secolo; quello della consapevolezza del ruolo della conoscenza
nello sviluppo sociale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questi tra
aspetti costituiscono la “triplice elica” della missione dell’università; cfr. Etzkowitz 2008.
(18) Mantero 1991.
(19) Torricelli 2009.
(20) Ci si riferisce alla politica del Politecnico (1990-2000) mirata ad espandere le proprie sedi nella regione lombarda, nella visione
di un sistema a rete.
(21) Muzio 1930.
(25) Tre nuove strutture, sorte da un’idea di Renzo Piano, due
delle quali caratterizzate da una copertura praticabile posta in continuità con il tracciato pedonalizzato di Via Bonardi, ospiteranno
laboratori di modellistica, di progettazione e di tecnologie digitali
oltre che spazi studio e aule destinate alla didattica.
(26) Il nuovo spazio del Dipartimento di Chimica, Materiali e
Ingegneria Chimica Giulio Natta, si collocherà di fronte Centro
Sportivo Mario Giuriati, anch’esso sottoposto a un intervento di
riqualificazione e implementazione delle strutture esistenti.
(27) I progetti riportati sono stati elaborati internamente
dalle strutture del Politecnico di Milano e con figure ad esso
afferenti. Alla loro redazione hanno contribuito, a vario titolo,
docenti, dottori di ricerca, assegnisti di ricerca, professionisti,
affiancati dai tecnici dell’Area Tecnica Edilizia del Politecnico
medesimo. In particolare, alle citate progettualità hanno contribuito, con ruoli e tempi differenti: il professore Emilio Faroldi,
Prorettore Delegato e coordinatore del progetto Vivi.Polimi, i
professori Stefano Capolongo, Francesco Infussi, Antonio Emilio
Alvise Longo, Lorenzo Jurina, Camillo Magni, Laura Elisabetta
Malighetti, Tomaso Monestiroli, Eugenio Morello, Filippo
Orsini, Alessandro Perego, Gianfranco Pertot, Matteo Umberto
Poli, Tiziana Poli, Maurizio Rossi, Michele Ugolini, Ilaria
Valente, Maria Pilar Vettori; Arch. Davide Allegri, Ing. Arch.
Andrea A. Bassoli, Ing. Fulvio Bernabei, Arch. Matteo Cervini,
Arch. Marta Cognigni, Per. Ind. Alessandro Corti, Arch. Andrea
Cremonesi, Arch. Andrea Gianni, Arch. Giuseppe Mondini,
Arch. Giacomo Penco, Dott. Virgilio Piatti, Ing. Edoardo Poletì,
Arch. Paolo Raffaglio, Ing. Bruno Sala, Arch. Alessia Sarno, Ing.
Gianluigi Sevini, Arch. Manuela Strada, Ing. Michele Terreni;
fotografo Marco Introini.
Bibliografia
Bagnasco 2004
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THE ARCHITECTURE OF MILAN’S POLYTECHNIC UNIVERSITY CAMPUS:
HISTORY, EXPANSION AND NEW URBAN SOLUTIONS
The University Campus is a driven force of innovation and urban development, although many interpretative changes regarding its relationship and socialcultural function with the city. In their different ways, university cities have always been able to provide an innovative response to new lifestyles and new kind
of learning, offering original and avant-garde spatiality. The new planning of the Politecnico di Milano are going to reorganize the campus structure, with
the aim of a sustainable and flexible regeneration of spaces. ViVi.Polimi.lab is the set of these projects aimed at restoring the domestic and familiar meaning
of the place of study.
24
MILANO: “CAMPUS NON CAMPUS”
Pierfranco Galliani
Nell’architettura universitaria, il termine inglese campus
ha assunto nel tempo un’estensione di significato. A quello
propriamente riferito a un ampio spazio libero sul quale si
affacciavano gli edifici per lo svolgimento delle attività legate all’insegnamento e alla vita collettiva dei suoi utenti,
docenti e studenti, si è aggiunto il significato inclusivo di
complesso educativo (1).
Entrambi propri delle università americane, il primo
evoca immediatamente l’immagine dell’Università della
Virginia a Charlottesville, attorno al cui prato centrale
si estendeva ciò che il suo fondatore, Thomas Jefferson,
chiamava “villaggio accademico”; il secondo, riferendosi alle esperienze successive, identifica l’insieme degli
edifici e degli spazi di relazione dedicati all’attività universitaria, nella loro autonomia morfologica e funzionale
rispetto al contesto.
Analoghi criteri di autosufficienza hanno ispirato
denominazioni come “città degli studi” e “città universitaria” che esprimono maggiori coincidenze tra l’insediamento universitario, articolato in più comparti, e lo
sviluppo della città (2).
Nella tradizione del campus, oltre agli spazi per la didattica, la ricerca, la gestione universitaria, sono compresi residenze, impianti sportivi e spazi aperti a verde. I casi
in sintonia con questa impostazione sono abbastanza isolati nel panorama delle strutture universitarie in Italia: le
Università della Calabria a Rende, di Salerno a Fisciano e,
parzialmente, le sedi universitarie di Pescara e di Parma
(3). Un caso atipico, vicino a realtà inglesi come Oxford o
Cambridge, può essere considerato quello dell’Università
di Urbino, dotata di estesi collegi residenziali nelle aree
collinari limitrofe al centro (4).
Le vicende di fondazione, decentramento, trasformazione della sede del Politecnico di Milano rappresentano
passaggi paradigmatici della cultura del progetto in questo settore. Le attuali azioni di integrazione con il contesto e di riqualificazione degli spazi aperti poggiano sul
superamento di posizioni ideologiche e sul pragmatismo
seguito da altre università milanesi.
Esordio – Fondazione di Città Studi e sviluppo del Politecnico
di Milano
Nei primi decenni del Novecento, in un contesto fortemente indirizzato alla soluzione della “città universitaria”, si faceva strada la creazione di Città Studi e della
sede del Politecnico di Milano.
Il nuovo insediamento veniva inaugurato nel 1927 in
base a un piano di urbanizzazione impostato nel 1913 su
una vasta area libera che, ceduta dal Comune di Milano,
non possedeva una precisa vocazione funzionale essendo
lontana da altri servizi e infrastrutture urbane.
“La lottizzazione avvenne secondo i criteri urbanistici
del Piano Beruto, continuando cioè il tracciato tardo ottocentesco e delimitando in ambiti definiti da uno o più
isolati gli spazi di ogni singola disciplina” (5). Il criterio dell’epoca di articolazione della città in parti distinte
funzionalmente poneva al centro il Politecnico, prospiciente una grande piazza disegnata da Piero Portaluppi;
nei due lotti laterali erano previste, verso sud, le sedi di
Agricoltura, Agraria, Veterinaria e gli Istituti clinici di
perfezionamento; a nord della piazza, l’Accademia di belle arti, l’Accademia scientifico-letteraria e l’Orto botanico, che però non sarebbero stati realizzati.
Il modello di urbanizzazione seguito per edificare il
Politecnico e le sedi delle facoltà dell’Università degli
Studi era a padiglioni isolati nel verde, “nato in Germania nell’Ottocento nell’intento di creare una nuova tipologia per l’università della scienza e di dare agli spazi
universitari un’immagine grandiosa e autocelebrativa”
(6). I riferimenti alla manualistica dell’epoca e alle forme classicheggianti assumevano declinazioni differenti:
maggiormente solenne per il Politecnico, dove per inquadrare l’edificio centrale del rettorato erano utilizzati
tipi a corte porticati; più aperta e meno densa l’immagine
ambientale degli altri comparti, dove non vi erano edifici
a corte e, in particolare, per Veterinaria l’edificazione era
affidata a una sequenza di edifici disposti parallelamente
(fig. 1).
Questi primi insediamenti di Città Studi si relazionavano all’impostazione delle coeve grandi strutture urbane, come ospedali, caserme, quartieri di edilizia economica, che basavano il loro apporto innovativo sul rapporto
fra sistema tipo-morfologico e razionale organizzazione
delle singole attività.
Un cambio di rotta significativo avveniva con la realizzazione del comparto della facoltà di Architettura che,
all’inizio degli anni Sessanta, ricercava con nuovo realismo un rapporto con il contesto urbano circostante.
Il nuovo organismo, studiato da Portaluppi nei primi anni Quaranta, veniva costruito tra il 1955 e il 1961
in un lotto separato dal tracciato di via Bonardi rispetto al complesso del primo Politecnico. L’idea di progetto prevedeva un organismo compatto rispetto ai fronti,
ma dotato di un patio centrale su cui si affacciavano le
25
Fig. 1 - Veduta aerea dei primi insediamenti di Città Studi: il Politecnico di Milano e le Facoltà di Agraria e Veterinaria, 1930 (Archivio
Generale del Politecnico di Milano).
aule maggiori, una galleria espositiva e gli spazi di distribuzione. La rigidità dell’impianto avrebbe messo ben
presto in evidenza la scarsa flessibilità d’uso degli spazi,
soprattutto quelli delle grandi aule che non risultavano
frazionabili.
Vent’anni dopo, Vittoriano Viganò veniva incaricato
di completare la sede di Architettura, i cui spazi erano
ormai da tempo insufficienti. Il linguaggio introdotto
si differenziava in modo evidente da quello dell’organismo preesistente, tramite l’uso di strutture portanti in
acciaio e parti impiantistiche lasciate a vista, che sottolineavano l’orientamento “brutalista” dell’autore. L’idea
del grande patio centrale, questa volta coperto e aperto
sullo spazio pubblico, veniva efficacemente rilanciato
come luogo di relazione tra spazi vecchi e nuovi e le
diverse attività compresenti, ma soprattutto, come elemento di integrazione tra l’università e la città, quale
riconoscimento al dibattito sul rapporto “architettura e
26
società” che aveva caratterizzato la facoltà di Milano nei
decenni precedenti.
Al momento di questa realizzazione, Gio Ponti aveva
nel frattempo contribuito con grande evidenza al completamento di quello che oggi è il comparto di Architettura. Tra il 1960 e il 1965 erano stati costruiti due
nuovi edifici per il biennio di Ingegneria: il “Trifoglio”
e la “Nave”, così tutt’oggi denominati per la loro configurazione, disposti isolati all’interno di una parte del
recinto universitario, che era stata ribassata per avere un
collegamento diretto con il nucleo del primo Politecnico.
“Nel progetto di Ponti prevalgono ... razionalità distributiva e ricerca formale sulla volontà di interpretazione e collegamento con il precedente impianto universitario dal quale si differenzia per scelte morfologiche, tipo
e linguaggio” (7). L’edificio “Nave”, pensato per ospitare
grandi aule da disegno e uffici degli istituti, sviluppava
su nove piani fuori terra una estesa pianta a L; il “Trifo-
Fig. 2 - Docenti del dipartimento di Progettazione dell’Architettura,
planivolumetria del progetto per la sede del Politecnico di Milano a
Bovisa, 1990 (da MONESTIROLI 1990, p. 25).
glio”, costituito dall’accorpamento di tre aule gradonate
da 400 posti ciascuna, proponeva una volumetria libera
che mostrava esternamente gli andamenti altimetrici interni.
Utopia – Progetti per il decentramento a Bovisa
Alle soglie degli anni Settanta le istanze dell’università di massa evidenziavano nuove esigenze in termini
di spazi e di servizi, che originavano soluzioni organizzate in macrostrutture a scala territoriale. L’esempio
italiano più noto è la sede dell’Università della Calabria
nell’area metropolitana di Cosenza (8), un campus segnato da una struttura architettonica a ponte lunga circa
due chilometri, su cui si attestano gli spazi universitari
e intorno alla quale sono ubicati servizi e residenze nel
verde.
L’avvento della dismissione industriale faceva evolvere
le sperimentazioni macrostrutturali in macro sistemi urbani che nell’elaborazione di nuove centralità consolidavano la carica utopica di quei decenni, dimostrata anche
da alcuni significativi ridimensionamenti di intervento a
fronte della complessità ambientale dei luoghi e dall’eccesso di astrazione che affidava al potere della sola architettura l’esito positivo degli obiettivi prefissati, come nel
caso del progetto non realizzato del nuovo Politecnico di
Milano nell’area dei gasometri a Bovisa.
Il decentramento di parte del Politecnico in un quartiere periferico della città veniva dichiarato come “un
passo improrogabile per ... innescare un processo inverso di recupero di standard per ripristinare progressivamente condizioni accettabili per la didattica e la ricerca”
(9). Consapevoli che il processo di lunga durata avrebbe
potuto ingenerare interventi provvisori in edifici e aree
immediatamente disponibili – come di fatto è accaduto
– i progettisti (10) indicavano la necessità di configurare
un progetto-programma a sostegno di una finalizzazione
coerente degli investimenti da attuare (11).
Il nuovo comparto urbano, progettato negli anni
1988-1990, prevedeva un parco longitudinale in cui
erano ubicati i grandi “oggetti” architettonici del centro
congressi e della biblioteca, e ai cui lati erano disposti gli
isolati universitari, all’interno dei quali era prevista la
compresenza delle funzioni fondamentali della didattica
e della ricerca (fig. 2).
L’insediamento era pensato per ospitare i dipartimenti
sia di Architettura sia di Ingegneria e proponeva una serie differenziata di blocchi funzionali (a griglia, a pettine,
a nuclei, aperti) destinati ad aule, uffici dipartimentali,
laboratori pesanti, uffici amministrativi, servizi collettivi, residenze. La partecipazione al progetto di più docenti
progettisti aveva reso necessaria la condivisione di uno
schema di base e di alcune regole per sviluppare gli spazi.
“La prima è stata una regola tipologica relativa agli isolati delle aule, laboratori, dipartimenti. La scelta del tipo a
crociera è apparsa la più idonea” (12).
Il concorso internazionale di progettazione “Bovisa
area gasometri” del 1998, bandito dopo un decennio rispetto agli studi e al progetto dei docenti del Politecnico, individuava due vincitori ex aequo (13), che traevano
indubbio spunto dalle precedenti proposte ma che non
avrebbero trovato attuazione.
Pragmatismo – Realizzazione dell’Università Bicocca, sviluppo dell’Università Bocconi
“Il problema delle ... periferie è un problema di
mancanza di identità urbana. Nelle periferie mancano
luoghi significativi in cui siano riconoscibili le istituzioni civili. La localizzazione dell’università deve
essere occasione per definire uno di questi luoghi strategici” (14).
Se si collega questa affermazione al layout morfo-funzionale del quartiere Bicocca si possono forse comprendere le difficoltà avute dal “progetto Bovisa”, che affidava
la realizzazione di una nuova urbanità a parti architettoniche concatenate in una spazialità ancora troppo metafisica rispetto all’idea di campus universitario, in cui la
componente residenziale non risultava fondamentale e la
27
Fig. 3 - Vittorio Gregotti, planivolumetria del progetto per il quartiere Bicocca a Milano con gli edifici universitari nella fascia centrale, 1994-1999 (rielaborazione dell’A.).
soluzione globale era vicina a quella di “città universitaria” di inizio Novecento.
In una direzione differente procedeva infatti il “progetto Bicocca” che, studiato da Vittorio Gregotti e realizzato negli anni 1994-1999, aveva come obiettivo la rifunzionalizzazione dell’area industriale dismessa degli ex
28
stabilimenti Pirelli a Milano, caratterizzata dalla presenza di spazi per attività di didattica e ricerca universitaria.
Il progetto, secondo il suo autore, tendeva a costituirsi
come un vero e proprio “centro storico della periferia”
(15). Il processo progettuale seguito metteva in primo
piano la connessione delle ex aree industriali con il contesto attraverso operazioni di miglioramento dell’accessibilità e della dotazione di servizi generali, in grado di orientare i caratteri morfologici e d’uso dell’intero comparto.
I quattro nuclei architettonici, inizialmente dedicati
alla costituenda Università di Milano-Bicocca, risultavano totalmente immersi nel nuovo contesto urbano. In
particolare, a nord erano accolte in due grandi edifici esistenti disposti a L quattro differenti facoltà (Giurisprudenza, Economia, Sociologia e Statistica); al centro, in un
lotto attraversato dalla linea tranviaria, in quattro nuovi
corpi a L simmetrici, uniti da una vasta piastra pedonale, erano ubicate le facoltà scientifiche (Biologia, Scienze
Ambientali, Fisica, Informatica) (fig. 3).
Un altro caso significativo, che rappresenta il pragmatismo milanese nel rapporto università-città, è delineato
dall’Università Commerciale Bocconi, la cui sede veniva
progressivamente ampliata a partire dall’organismo architettonico originario progettato da Giuseppe Pagano
(1936-1941), corrispondendo sempre più a un comparto
universitario incastonato all’interno di un tessuto urbano ad alta potenzialità residenziale, senza la presenza di
effettivi recinti.
Già all’inizio degli anni Cinquanta, il notevole incremento degli iscritti rendeva necessario introdurre alcune
strutture ricettive: un pensionato e una mensa progettati
da Giovanni Muzio. Lo stesso progettista veniva incaricato nel 1965 per i nuovi spazi dedicati alla facoltà di
Economia e Commercio, per le nuove biblioteca e aula
magna, stabilendo con rigore formale e distributivo una
sintonia con la preesistenza di Pagano con cui costituiva
il fronte principale (16).
Dopo ampliamenti maggiormente utilitaristici – la
Scuola di direzione aziendale (Vittore Ceretti, 1985) e
l’edificio per aule denominato “velodromo” (Ignazio e
Jacopo Gardella, 2001) – due nuovi importanti progetti
avrebbero posto l’Università Bocconi al centro del dibattito architettonico.
Il primo riguardava l’edificazione di un angolo urbano
per esigenze quantitative ad alta intensità, attuato negli
anni 2004-2008 a seguito di un concorso internazionale
vinto da Grafton Architects, che avevano proposto un organismo significativamente proporzionato alla scala della
città, con corti interne semipubbliche e fronti compatti e materici (17). Il secondo progetto, inaugurato nel
2019, rappresenta un considerevole ampliamento della
sede Bocconi sulla vicina area dell’ex Centrale del latte.
Il progetto di concorso, vinto dallo studio Sanaa nel 2012
(fig. 4), è pensato per completare le attrezzature esistenti, in particolare per nuove aule, residenze (300 posti) e
Fig. 4 - Sanaa (K. Sejima, R.
Nishizawa), inserimento morfologico dei nuovi edifici per il
progetto di ampliamento dell’Università Bocconi a Milano,
2012-2019 (rielaborazione
dell’A.).
spazi per il tempo libero immersi in oltre 17.000 metri
quadrati di spazi aperti a verde con l’intento di “creare un
campus universitario dove studenti, insegnanti e visitatori possano far parte di una comunità accademica attiva,
animata da un forte senso di relazione con la città” (18).
Integrazione – Nuovi progetti per il Politecnico di Milano e
Città Studi
Dopo numerosi interventi di trasformazione e integrazione architettonica nel quartiere Bovisa per le strutture destinate alla Scuola di Design e ai dipartimenti di
Energia, Ingegneria Gestionale, Meccanica, Scienze e
Tecnologie Aerospaziali, e ai corsi di laurea direttamente
collegati, il Politecnico di Milano ha negli ultimi anni individuato due principali ambiti di intervento per la sede
storica di Città Studi: la riconfigurazione del comparto di
Architettura, i cui lavori sono iniziati a metà del 2018,
e la riqualificazione degli spazi aperti del nucleo storico
dell’ateneo, per i quali la sistemazione di piazza Leonardo
da Vinci (fig. 5) ha rappresentato un passo decisivo (19).
A questi si sono aggiunti gli studi per il recupero di
due storici comparti dell’Università di Milano, contigui
al Politecnico: la rifunzionalizzazione delle aree di Agraria da parte del Politecnico per ottenere nuovi spazi; la
conversione degli edifici di Veterinaria, facoltà in fase di
trasferimento nella nuova sede di Lodi, per insediare il
dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dello stesso
ateneo.
29
Fig. 5 - Sara Protasoni, veduta del progetto per la sistemazione di Piazza Leonardo da Vinci antistante al Politecnico di Milano, 2013-2016.
Gli approfondimenti condotti sull’intero quadrante di
Città Studi dal 2017 (20) hanno verificato come la zona
sia caratterizzata dalla forte presenza di servizi per l’istruzione superiore e per la salute, comprendendo anche
l’Istituto dei Tumori e l’ospedale neurologico Besta, con
l’obiettivo di delineare indicazioni strategiche per il futuro a partire dagli interventi già decisi o in corso.
La previsione per il biennio 2018-2020 è che siano completati i lavori nel comparto di Architettura, sviluppati in
base al progetto ideato da Renzo Piano nel 2015: demolizione di edifici accessori, adeguamento e valorizzazione
degli edifici “storici” del secondo Novecento, costruzione
dei nuovi corpi di supporto lungo il margine di via Bonardi (aule, sale studio, laboratorio di modellistica, coperture
praticabili per 4.200 m2), sistemazione e piantumazione
degli spazi aperti di connettivo (8.000 m2) (fig. 6).
Nello stesso periodo potrebbe essere avviato il progetto di riqualificazione della Piscina Romano, confinante
con il comparto di Architettura, e completato il trasferimento della facoltà di Veterinaria (21).
Nel 2022, a conclusione del biennio successivo, dovrebbero risultare: insediate le nuove attività del Politecnico e dell’Università di Milano negli ex comparti di
30
Agraria e di Veterinaria; avviati gli studi o gli interventi
su altre aree da recuperare, coinvolgendo anche l’Università di Milano-Bicocca; trasferiti l’Istituto dei Tumori e
l’ospedale Besta (22).
Per quanto riguarda la nuova sede del dipartimento di
Beni Culturali e Ambientali nell’ex comparto di Veterinaria, si prevede l’inserimento di numerose aule (quattro da
200-300 posti) e laboratori per la didattica, uffici dipartimentali, sale studio, una biblioteca specializzata, spazi
di ristorazione, oltre alla presenza di due altre importanti
istituzioni: APICE (Archivi della parola, dell’immagine e
della comunicazione) e il “Museo delle ossa” (Museo scientifico medico antropologico per i diritti umani, la criminalistica e la storia dell’uomo, curato da Cristina Cattaneo).
Gli edifici del comparto, ispirati da un linguaggio
liberty eclettico, influenzati dall’architettura rurale del
nord Europa (23), sono tutelati e prevedono la possibilità
di interventi di adeguamento interni ed eventuali integrazioni architettoniche nell’ambito di un generale processo
di recupero dell’area e di valorizzazione degli spazi aperti.
Anche in questo caso, come in quello delle opere in
corso nel comparto di Architettura, si profila la compresenza di più modalità di intervento secondo una prassi,
Fig. 6 - Renzo Piano-Politecnico di Milano, planivolumetria e sezione trasversale del progetto per la riqualificazione del comparto di Architettura,
2016 (Politecnico di Milano, Consiglio di Amministrazione, 28 giugno 2016).
tanto realistica quanto innovativa, basata su tre operazioni fondamentali: riconoscimento dell’originalità dell’impianto morfologico che caratterizza il paesaggio urbano,
con il mantenimento dell’organizzazione dispositiva delle parti costruite; recupero architettonico degli spazi interni
al fine di adeguarli ai nuovi usi; ridisegno degli spazi aperti
per avvicinare il luogo alla sensibilità della figurazione
contemporanea e, soprattutto, alle nuove esigenze di una
fruizione osmotica tra università e città.
(1) Valente, Biraghi 2016, p. 12.
(2) Ivi, p. 13.
(3) Progetti coordinati da V. Gregotti (Rende), P.L. Spadolini
(Fisciano), G. Grassi e A. Monestiroli (Pescara).
(4) Progetto di G. De Carlo.
(5) Dagnino 1999, p. 138.
(6) Ibidem.
(7) Ivi, p. 147.
(8) Progetto coordinato da Vittorio Gregotti.
(9) Baffa, Molon, Pugliese 1990, p. 77.
(10) A. Acuto, M. Baffa, E. Battisti, G. Canella, S. Crotti, G.
Grassi, M. Grisotti, C. Macchi Cassia, E. Mantero, A. Monestiroli,
P.L. Nicolin, V. Viganò.
(11) Baffa, Molon, Pugliese 1990, p. 78.
(12) Monestiroli 1990, p. 13.
(13) I progetti primi classificati presentati da Ishimoto
Architectural & Engineering Firm e da Serete Italia spa.
(14) Monestiroli 1990, p. 11.
(15) Gregotti 1995, p. 27.
(16) Pilastro, Sabatino 2010, p. 29.
(17) Ivi, p. 37
(18) Marino 2016, p. 101.
(19) Progetto di S. Protasoni, 2013-2016.
(20) Consulenza per il Comune di Milano: Servizio di supporto
tecnico scientifico per la definizione di nuovi scenari urbani nell’ambito
Città Studi, coordinatore A. Balducci, Dastu, Politecnico di Milano.
(21) Balducci 2017, p. 28.
(22) Ivi, p. 78.
(23) Città Studi, Università Statale, Facoltà di Veterinaria. Opere di
restauro, ripristino e ristrutturazione con sopraelevazione, relazione a cura
di L. Corrieri, 2017.
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MILAN: A “NON-CAMPUS CAMPUS”
In the twentieth century, university settlements underlined a propulsive phase of urban development. Realizations and experimentations have traced different paths:
from the complexes composed by isolated buildings of the 1920s-1930s to the territorial megastructures of the 1970s, to the great urban interventions of the 1980s1990s resulting from the abandonment of industrial sites.
The idea of the campus, however, remained latent: present, due to the enclosure that delimits the relational spaces between the buildings; absent, as far as it concerns
the collective services and residences that are fundamental part of a campus.
Milan is a significant case. The establishment of the Politecnico and Città Studi, the unrealized project at Bovisa, the transformation programs of the historical
premises represent paradigmatic passages of the culture of the project in this sector. The current actions of integration in the context and of the redevelopment of
open spaces are based on the overcoming of ideological positions and on the pragmatism followed by other Milanese universities.
32
IL CAMPUS NAPOLETANO DI MONTE SANT’ANGELO
Fabio Mangone
In netto anticipo sulle altre sedi italiane, già negli ultimi tre lustri del XIX secolo, il grande Ateneo napoletano, che coniugava all’antichissima tradizione scientifica un esteso bacino di utenza, pensava con concretezza
a realizzare una vera e propria cittadella universitaria,
da realizzarsi sull’area collinare di Miradois a ridosso di
via Foria, a partire da due importanti preesistenze quali
l’Orto botanico, a valle, e l’Osservatorio astronomico in
alto (1). Ben oltre l’opportunità di concentrare in un’area
semicentrale tutte le facoltà universitarie, e le istituzioni
scientifiche e le scuole di formazione post-secondaria autonome (come rispettivamente l’Osservatorio, o la Scuola
di Ingegneria), si intendeva realizzare edifici moderni,
con tipologie adatte alle specifiche esigenze della didattica e della ricerca. Il progetto restava inattuato per una
serie di opposizioni, ed a lungo l’Università resterà all’interno della città storica, allocata prevalentemente in due
nuclei distinti di ex conventi adattati alla nuova funzione, ed eventualmente ampliati. La situazione doveva poi
diventare ancor più frammentaria dopo il 1935, quando
le Scuole superiori indipendenti (Economia e Commercio, Ingegneria ed Architettura) vengono annesse all’Università. Il Piano Regolatore del 1937 ipotizzava di nuovo la possibilità di realizzare nell’area collinare ad est, e
questa volta sulla collina dello Scudillo, una complessiva
e completa cittadella universitaria, pure rimasta lettera
morta, mentre d’altronde qualche anno più tardi vengono
elaborate ipotesi per realizzare a Fuorigrotta, una moderna adeguata sede per Ingegneria (2).
Quando si torna a parlare, nel secondo dopoguerra, di
decentramento i presupposti sono differenti: se risulta
difficile pensare concretamente a un piano complessivo
per un vasto campus atto a concentrare tutte le facoltà,
il sovraffollamento delle vecchie sedi dovuto alla crescita
della numerosità degli studenti, e il congestionamento
del vecchio centro storico impongono di trovare soluzioni
anche circoscritte a questa o quella facoltà per estendersi
su nuove sedi, auspicabilmente di nuova concezione. Alla
necessità di reperire risorse, non di rado, si coniugano una
serie di non trascurabili difficoltà di tipo amministrativo
e urbanistico. Le prime facoltà che richiedono nuove sedi
sono quelle in cui le esigenze di ricerca e/o assistenziali,
rendono più urgente la necessità di abbandonare ovvero
integrare le vecchie strutture conventuali, come accade
dapprima con Ingegneria, dislocata a Fuorigrotta (3), e
in seguito con il nuovo Policlinico (4), situato al Vomero
Alto, presso il già esistente Ospedale Cardarelli.
Questi due ben distinti nuclei, in qualche misura anticipano un partecipato e faticoso dibattito sul deconge-
stionamento universitario, avviato a fine anni Sessanta,
del quale infine il campus di Monte Sant’Angelo rappresenta l’esito principale (5). A livello di Ateneo, la determinazione dell’allora rettore Giuseppe Cuomo e di un
folto gruppo di docenti riesce alla fine a piegare le non
labili resistenze interne rispetto all’ipotesi di un nuovo
polo collocato al di fuori del centro storico, che riecheggiano nei toni il dibattito di fine Ottocento, mentre non
meno complessa delle precedenti risulta la vicenda urbanistica e amministrativa. Per l’area, allora quasi completamente agricola, di Monte Sant’Angelo venne stabilita
una destinazione universitaria nel Piano Regolatore generale presentato nel 1969 e adottato nel marzo 1970,
ma l’ipotesi fu poi stralciata prima della finale approvazione nel 1972. Solamente con una successiva variante,
del 1975, la zona fu restituita alla destinazione universitaria ipotizzata: nell’ambito della vasta area collinare,
poi, la Soprintendenza ai Monumenti individuava un più
ristretto perimetro irregolare all’interno del quale si poteva costruire, e dunque concentrare gli edifici universitari. La zona circostante, comprendente anche la sommità
della collina, più ricca di valori paesistici, avrebbe dovuto
rappresentare un vasto parco a servizio del complesso: ma
proprio qui, immediatamente al di fuori del perimetro
individuato, si andranno a sviluppare una serie di costruzioni abusive, che renderanno – per opportunità ed economia della procedura – impossibile espropriare anche
l’area da destinare a parco.
A formare, assieme alla Facoltà di Ingegneria già dislocata a Fuorigrotta, un ideale polo delle facoltà scientifiche, l’erigendo complesso è inizialmente concepito per
ospitare il biennio di Ingegneria, la Facoltà di Scienze
strettamente collegata ad esso, nonché la Facoltà di Economia e Commercio, che particolarmente soffre della modesta capienza della pur prestigiosa sede di via Partenope. Per realizzare il programma in tempi ragionevoli, si
adotta per motivi di rapidità l’istituto della concessione.
Il concessionario viene individuato, nel 1980, nella Infrasud, società di progettazione del gruppo Iri, alla quale
viene suggerito di avvalersi delle qualificatissime competenze dell’Ateneo, nella fattispecie individuate in Arrigo
Croce, consulente geotecnico, in Elio Giangreco e Renato
Sparacio, consulenti per le strutture, in Raffaele Vanoli e
Vittorio Betta, consulenti per l’impiantistica, e soprattutto in Michele Capobianco e Massimo Pica Ciamarra,
progettisti.
In termini cronologici, la progettazione di Monte
Sant’Angelo si colloca al termine di una stagione architettonica particolarmente densa e vivace, a livello inter-
33
Fig. 1 - Napoli. Campus di
Monte Sant’Angelo. Planimetria generale (Archivio Capobianco, Napoli).
nazionale, durante la quale si era potuto proficuamente
sperimentare un approccio tutt’affatto nuovo all’edilizia
universitaria. Ai cospicui e innovativi modelli europei
degli anni Cinquanta e Sessanta – in particolare nordici
(non soltanto il Politecnico di Otaniemi, in Finlandia, in
larga parte progettato da Alvar Aalto, ma anche i tanti
esempi svedesi, tra cui il Centro di formazione per docenti a Malmö, di Carl Nyrén) e inglesi (la Facoltà di
Ingegneria a Leicester e quella di Storia a Cambridge,
entrambe di James Stirling, nonché la East Anglia University di Denys Lasdun) – aveva fatto seguito negli anni
Settanta un articolato dibattito italiano, nel quale veniva
esaltata la dimensione sociale associata al nuovo modo
di comporre, specchio di un nuovo modo di intendere
la didattica universitaria, e un nuovo modo di concepire
il ruolo dello studente. A tale dibattito erano tutt’altro
che estranei i due architetti dell’Ateneo napoletano: e taluni temi di precedenti lavori individuali ritorneranno
in forma più matura a Monte Sant’Angelo, come tra gli
altri la promenade architettonica sotto forma di galleria
vetrata che strutturava già il progetto di Capobianco (6)
per la Facoltà di Scienze dell’Università di Salerno, o anche il sistema di percorsi in quota che caratterizzava già
il complesso dell’Università della Calabria, costruito da
Pica Ciamarra (7).
Sin dall’impostazione di massima del complesso napoletano, firmata da entrambi i progettisti, viene però
operata una sorta di ‘sintesi critica’ rispetto a tutti i pre-
34
cedenti. Risulta esplicito il desiderio di conseguire un
carattere dinamico più che statico, e per ottenerlo ci si
avvale di un articolato sistema di percorsi – coperti e scoperti, a più livelli, arricchiti di elementi ‘in quota’ e ‘a
ponte’ – tutto teso ad affermare il significato sociale della
strada e degli spazi di percorrenza, sviluppando in termini aggiornati l’approccio proposto da Lasdun nella East
Anglia University.
Per altro verso, tuttavia, vengono rilevati i limiti di
certe disposizioni planimetriche troppo ‘aperte’ e dispersive: limiti tanto più evidenti in un sistema quale
quello italiano ben diverso dalla tradizione anglosassone
del campus, e a maggior ragione in un ambito ormai in
parte compromesso perché aggredito lungo i bordi dagli
esiti riprovevoli della speculazione. D’altra parte, il nuovo complesso è inteso più che come fedele trascrizione
spaziale del modo corrente di ‘utilizzare’ gli spazi universitari, come anticipazione e come suggerimento (soltanto in parte recepito dal ‘sistema’) di una nuova maniera
di intendere la vita universitaria. Il piano complessivo
(fig. 1) prevede la suddivisione del complesso in varie
parti funzionalmente specializzate: un blocco dei servizi
comuni, con le presidenze delle due facoltà, una grande
biblioteca, un centro congressi; un primo comprensorio
di aule, posto come cerniera tra gli spazi delle due facoltà; un secondo insieme di grandi aule, le cui capienze
possono all’occorrenza essere sommate; un edificio per la
Facoltà di Economia, ed i suoi dipartimenti; un grande
Fig. 2 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Assonometria dei corpi di fabbrica orientali (Archivio Capobianco, Napoli).
edificio tripartito che riflette in qualche misura l’articolazione plurima della Facoltà di Scienze matematiche,
fisiche e naturali.
Essendo intervenute alcune modifiche, e soprattutto
non essendo stato del tutto ultimato il complesso, non
è possibile attualmente cogliere appieno il meccanismo
articolato dei sistemi di circolazione, pedonale e automobilistica, originariamente previsto. Si intendeva privilegiare come accesso pedonale il versante più urbanizzato,
verso via Claudio, creando un diretto collegamento con
le già esistenti sedi di Ingegneria: un cavalcavia su via
Terracina e una serie di altri elementi di attraversamento
all’interno dell’area miravano a creare un continuum pedonale prevalentemente destinato agli studenti; rivolto
soprattutto ai docenti, invece, sarebbe stato l’accesso da
via Cintia ben raccordato alla viabilità di scorrimento.
Nella generale disposizione dei corpi di fabbrica, si
legge infatti la volontà di ‘chiudere’ verso l’esterno la
struttura universitaria, proteggendola dal caos edilizio
circostante. Si percepisce poi l’intento di assecondare
l’andamento scosceso del sito, in un’intelligente dialettica tra un sistema ‘aperto’ e uno compatto. La successiva,
più precisa definizione architettonica comporta una netta
suddivisione dei compiti tra i due progettisti (8): a Capobianco spetteranno i centri comuni, l’insieme delle aule
consolidate, la sede della Facoltà di Economia e Commercio; a Pica Ciamarra la sede della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, il blocco delle grandi aule,
gli spazi per lo sport.
La trilogia affidata a Capobianco, in collaborazione
con Daniele Zagaria, è composta dai centri comuni,
dalle aule consolidate e dalla sede di Economia e Commercio, tutti collocati nella zona inferiore, in prossimità di via Cintia, con tre corpi distinti in termini tanto
volumetrici quanto linguistici. I blocchi, ad andamento
lineare, sono disposti lungo assi paralleli, avvantaggiandosi dei dislivelli per creare un sistema di intersezioni
dal valore tanto semantico quanto funzionale. Di questo intento di creare un contrappunto architettonico del
paesaggio testimonia fra l’altro il riuscito e multiforme
35
Fig. 3 - Michele Capobianco. Studio per la facciata dell’edificio dei
servizi comuni del Campus di Monte Sant’Angelo (Archivio Capobianco, Napoli).
motivo dei piani obliqui, che mentre in forme differenti
contrassegna gli ingressi rispettivamente dei centri comuni e della Facoltà di Economia, risulta assolutamente
dominante nel corpo delle aule.
Progettato insieme agli altri due nel 1980, ma rielaborato nel 1988 in funzione delle nuove norme di sicurezza, il blocco dei centri comuni (fig. 2) viene ultimato
soltanto nel 1998. Posto in prossimità dell’entrata da
via Cintia, questo corpo assume una conformazione più
ricca e complessa, dovendo sintetizzare simbolicamente
l’immagine del complesso. La pluralità degli ambienti e
degli organismi ospitati si riflette all’esterno – pur senza
svelare del tutto il funzionamento spaziale del complesso – nella molteplicità formale, nella libera alternanza
di superfici e volumi estroflessi o introflessi, nel ritmo
sincopato scandito dal succedersi dei ‘tagli’ in motivi
particolarmente riusciti come nel profilo inferiore a gradini dell’auditorium minore, o nei cunei sporgenti della
biblioteca.
La configurazione attuale è frutto di una realizzazione
parziale, ottenuta rinunciando ad una prevista pareteschermo traforata (fig. 3), in forma di telaio regolare
abitato da rampicanti intesa come elemento di sottile mediazione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, tra artificio e
natura. Contrassegnata, non senza un briciolo di compiaciuta ironia, da auliche colonne classiche laddove la
superficie diventa permeabile in corrispondenza degli
ingressi, la parete-schermo doveva fungere anche da
ufficiale ‘facciata’ del complesso universitario. Segno
36
questo della straordinaria capacità di leggere la lezione
del Razionalismo italiano degli anni Trenta, e dell’opera
di Terragni in particolare, filtrata attraverso le più recenti suggestioni interpretative offerte dagli americani
Five architects, per andare oltre, verso la dissacrazione
postmodernista. Per la verità, all’interno della ‘trilogia’
Capobianco illustra qua e là con raffinate citazioni la
sua formazione europea, la sua deliberata filiazione dai
grandi maestri del Moderno che lo hanno preceduto:
Asplund, Aalto, Le Corbusier, Stirling, e direi anche gli
Smithson. Se realizzato, il grande parcheggio sotterraneo dei centri comuni con il grande ascensore vetrato
con passerella avrebbe rappresentato una sorta di omaggio all’autore del famoso ascensore urbano Katarina
Hissen di Stoccolma, Olof Thunström, presso il quale
il giovane architetto napoletano aveva compiuto alcune
delle esperienze giovanili.
Al di là del gioco colto e raffinato delle citazioni, Michele Capobianco mostra di saper originalmente trasfigurare,
in termini di linguaggio rigorosamente moderno, temi
spaziali e compositivi a-temporali se non antichi, quali ad
esempio la facciata, la piazza, quale è quella che si configura tra il blocco delle aule e quello dei servizi comuni, la
galleria. Nel risolvere formalmente l’insieme strutturante
dei percorsi, Capobianco associa alla formalità regolare e
alla ariosa grandeur spaziale delle grandi gallerie europee
dell’Ottocento l’imprevedibilità di una strada mediterranea, intesa come uno “spazio interno teso e stretto” (9),
attraversato da una molteplicità di passaggi e scale.
L’impianto assiale suggerisce una prospettiva centrale,
di impronta classica, ma i disassamenti, i tagli, le lacerazioni, le aperture e le chiusure inattese, le dilatazioni e
le compressioni di ascendenza vagamente barocca arricchiscono la visione di molteplici scorci pittoreschi e tagli luminosi. Ai vari livelli, l’arioso e unitario percorsogalleria (fig. 4) si frantuma in tanti ambiti più raccolti,
la cui individualità è sottolineata sia dal variare delle
condizioni di luce, sia dal complesso gioco dei colori
accesi. Assai differente nell’organizzazione spaziale rispetto ai due adiacenti corpi con galleria, il blocco della
Facoltà di Economia e Commercio, destinato prevalentemente agli studi dei docenti, si struttura attraverso
delle interessanti corti chiuse. All’esterno, una ben calibrata serie di ‘rotazioni’ dei piani verticali che divengono obliqui o sghembi libera la volumetria dai vincoli
di un’ortogonalità troppo rigorosa e banale, e addolcisce
l’impatto paesistico.
Nelle aree più distanti dal limite verso via Cintia, e
alle spalle del blocco delle aule consolidate che funge
da cerniera tra i vari corpi, si situa la Facoltà di Scienze, definita in termini progettuali più precisi da Pica
Ciamarra unitamente al blocco delle aule ‘a quadrifoglio’. Rispetto agli edifici posti più a valle, la Facoltà di
Scienze assume una fisionomia piuttosto differente, pur
condividendone alcuni elementi e taluni principi. An-
Fig. 4 - Napoli. Campus di
Monte Sant’Angelo. Promenade interna all’edificio dei servizi
comuni.
che qui il rapporto con la peculiare orografia naturale si
configura come fattore condizionante e caratterizzante:
ma nel reiterare a monte il sistema degli assi paralleli, il
blocco ‘a pettine’ della Facoltà di Scienze dispone i suoi
elementi lineari di taglio rispetto alle curve di livello,
proponendo un’opposta giacitura rispetto all’andamento del pendio. Infatti, mantenendo costante la quota
delle coperture il blocco assume altezze differenti, via
via descrescenti da valle verso monte. Quali prolungamenti ‘artificiali’ dell’area a verde e della strada sinuo-
37
Fig. 5 - Napoli. Campus di
Monte Sant’Angelo. Percorsi
interni nella Facoltà di Scienze.
sa, le grandi superfici delle coperture costituiscono una
suggestiva promenade, accessibile anche ai mezzi meccanici; i nitidi solidi che le popolano – tra cui semicilindri
e parallelepipedi appoggiati su uno spigolo – si stagliano sul panorama sui lontani profili dei tetti napoletani.
Tra questi parterre si insinuano ripidi pendii, che mentre
lasciano leggere la peculiare orografia del sito, vanno a
raggiungere le corti porticate poste a valle. Se i blocchi
dei centri comuni e delle aule consolidate risultano tutti strutturati su un percorso interno orizzontale (fig. 5)
coincidente con i grandi tagli che generano le luminose
gallerie, qui nella Facoltà di Scienze il sistema portante
dei percorsi privilegia le promenade all’aperto, orizzontali e oblique, e i collegamenti verticali.
Il tema delle coperture percorribili, abitabili, e persino
dotate di specifiche funzioni (come quelle delle aule a
quadrifoglio che ospitano gli impianti sportivi) rappresenta una matura rielaborazione critica del tema del ‘tetto giardino’ di Le Corbusier, filtrata anche dalla cultura
anglosassone e da Lasdun in particolare, e si coniuga con
l’evoluzione del concetto di città su più livelli secondo
le prospettive aperte dal Team X. Un approccio che si
riflette non soltanto nella rinuncia a un cromatismo vivace, lasciando al cemento il suo colore naturale, e adottando un’unica tinta per gli infissi, ma anche nell’enfasi
tettonica (fig. 6) nel ruolo fortemente espressivo affidato ad alcuni elementi strutturali, agli alti pilastri degli
spazi porticati, al grande reticolo metallico che propone
una incisiva sottolineatura della disposizione a gradoni
dei vari fabbricati. Tuttavia, una serie di fenditure e di
tagli vanno a intaccare la continuità dello schema, così
38
come alcuni elementi giustapposti, taluni corpi curvilinei e certe linee sinuose, vanno a intaccare il generale
ordinamento ortogonale della costruzione e dei camminamenti, per generare l’immagine di un meccanismo
dinamico piuttosto che di un corpo statico, creando un
gioco complesso di ambiguità: così il grande blocco della
Facoltà di Scienze che in certi scorci da lontano si mostra quasi come una compatta megastruttura, da vicino
diventa improvvisamente permeabile e attraversabile; la
sua dimensione sembra variare man mano che si sposta
il punto di osservazione dal cammino pedonale a valle ai
grandi parterre delle coperture, passando per i porticati e
le varie corti.
Permeabile come estensione dello spazio aperto si mostra anche l’insieme delle aule ‘a quadrifoglio’, pure accessibile a vari livelli grazie a camminamenti tanto in
piano quanto in discesa, dall’immagine nitida e rigorosa
determinata dagli spalti delle attrezzature sportive sovrastanti.
Ad una scala più ravvicinata, il peculiare trattamento
delle superfici e delle finiture rappresenta un elemento
importante di caratterizzazione dell’intero complesso.
Segnata dall’eredità del New Brutalism, si manifesta qui
un’incisiva poetica dei materiali, atta ad esprimere una
sorta di ‘moralità’ degli edifici pubblici. Rifiutando con
decisione l’antica prassi del ‘rivestimento’, si punta qui
su plurimi contrasti cromatico-materici, in modo da originare plurime sensazioni visive e tattili. La grana del
cemento a vista, colorato a tinte vivaci nei corpi studiati da Capobianco e lasciato invece nel suo tono naturale
in quelli definiti da Pica Ciamarra, ma sempre segnato
Fig. 6 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Esterno della Facoltà di Scienze biologiche.
dall’impronta fibrosa della cassaforma lignea fornisce lo
sfondo scabro e opaco su cui si stagliano tanto le lisce
pareti in mattoni o in vetrocemento, quanto i brillanti
smalti dei coloratissimi infissi e delle vistose tubature
degli impianti, che dichiarando la propria funzione producono un interessante arricchimento semantico, all’interno come all’esterno. In questo ambito, il rivestimento
ligneo della sala Congressi – difforme rispetto al progetto
originario – pone una improvvida dissonanza.
Pensata come insieme concluso, l’enclave universitaria
di Monte Sant’Angelo si presenta oggi – a circa un quarto
di secolo dalla sua progettazione, ma in presenza di
cantieri ancora aperti e di elementi ancora da realizzare –
come una sorta di ‘opera aperta’, e impone una riflessione
sul suo completamento, ad una migliore utilizzazione
degli spazi aperti, ad una necessaria integrazione con
eventuali residenze e ‘spazi sociali’.
(1) Mangone, Savorra 2018.
(2) Viola 2018.
(3) Ibidem.
(4) Villari 2004.
(5) Mangone 2004.
(6) D’Auria 1993.
(7) Lima 2017.
(8) Mangone 2004.
(9) Dardi 1982.
Bibliografia
Dardi 1982
C. Dardi, L’azzurro del cielo, in «Domus», 625, febbraio 1982,
pp. 12-15.
D’Auria 1993
A. D’Auria, Michele Capobianco, Napoli 1993.
Lima 2017
A. J. Lima, Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici. Architettura
dei Pica Ciamarra Associati, Milano 2017.
Mangone 2004
F. Mangone, Il complesso di Monte Sant’Angelo, in Il patri-
39
monio architettonico dell’Ateneo fridericiano, Napoli 2004, vol. II,
pp. 491-505.
Mangone, Savorra 2018
F. Mangone, M. Savorra, Prima della Città degli Studi di Roma.
Le strategie per l’edilizia universitaria nell’Italia liberale e un progetto
esemplare, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura»,
numero speciale in occasione delle celebrazioni per la realizzazione
della Nuova Città Universitaria di Roma, 2018, pp. 5-38.
Villari 2004
S. Villari, Il complesso di Cappella dei Cangiani. Le Facoltà di Medicina e Chirurgia e di Farmacia, in Il patrimonio
architettonico dell’Ateneo Fridericiano, Napoli 2004, vol. II,
pp. 461-490.
Viola 2018
F. Viola, L’architettura insegnante. Il Politecnico di Luigi Cosenza,
Napoli 2018.
THE MONTE SANT’ANGELO CAMPUS, NAPLES
An important result of the difficult program of decentralization of the great and ancient Neapolitan University, the Monte Sant’Angelo campus, at the end of
a long decision-making process, has been realized since 1980, as a special interpretation of the University Campus issue. Planned to host the Faculty of Science
and the Faculty of Economics, the complex was designed by two important professors of the Neapolitan Faculty of Architecture, such as Michele Capobianco
and Massimo Pica Ciamarra. After drawing up a common general plan, only partially realized, the two designers share the tasks: Capobianco was charged
to plot the layout of the Faculty of Economics and Pica Ciamarra of the Faculty of Sciences.
Despite the partial realization of the project, which leaves out some significant elements, the Monte Sant’Angelo campus remains an example of utmost importance, consciously participating in the debate of the late twentieth century on new university buildings.
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LE SEDI UNIVERSITARIE NELLA PROGETTAZIONE DELLO STUDIO
PICA CIAMARRA ASSOCIATI*
Antonietta Iolanda Lima
Le sperimentazioni dei Pica Ciamarra Associati (PCA)
iniziano ancor prima del passaggio dello Studio in una
forma associata nei secondi anni Sessanta, il cui concludersi mette a nudo inadeguatezza e inefficenza di modelli
consolidati a fronte delle problematiche in atto.
Si chiede un punto e accapo radicale. Una rivoluzione
istituzionale, sociale, culturale. Ne sono a fondo partecipi i PCA, sia quelli di prima generazione come Massimo Pica Ciamarra e Luciana De Rosa, sia quelli delle
successive, la cui competenza nel rendere la diversità di
ciascuno un valore contribuirà ad arricchire e fare evol-
vere l’iniziale visione dei due iniziali componenti dello
Studio; una visione, in nuce, già sistemica la cui genesi
è anche inalata durante la formazione universitaria. In
breve, definirei un crogiolo di complessità lo Studio dei
PCA perché tiene insieme plurime diversità e li fa interagire; un crogiolo in cui ciascuno, nel condividere gli
ideali che danno dignità a se stessi e alla vita, materializza
nel progetto la consapevolezza di quanto sia responsabile l’architettura nei confronti dell’ambiente e della sua
cultura. Dieci gli architetti che danno vita a questa comunità connotata da una dinamica decisionale integrata.
Fig. 1 - Messina, Facoltà di Scienze e Farmacia, 1968.
41
Con essa mi sono direttamente confrontata vivendoci per
oltre un mese circondata dall’intreccio di costruito e non
costruito di Posillipo e del suo aprirsi alla stupenda dimensione paesaggistica della città e del suo mare. E mi è
parso di cogliere nelle molteplici specificità di ciascuno
quella che, nell’interagire simultaneamente con le altre,
sostanzia la forma che traduce il senso del progetto: in
Massimo Pica Ciamarra la coesistenza di accentuata razionalità e immaginazione; il vedere oltre di Luciana de
Rosa; la sensibilità di Antimo Rocereto e il suo saper trarre valori dalla cultura contadina; la padronanza tecnologica di Claudio De Martino e la capacità di controllo dei
processi progettuali; il dare qualità al costruito attraverso
la materia da parte di Alex De Siena; la meditata visione
spaziale che dell’urbanistica ha Patrizia Bottaro; la cura
di Paola Gargiulo nel disegno degli spazi interni; l’attenzione di Emanuele Pica Ciamarra ai contenuti tecnici; la
cultura ambientale di Angelo Verderosa; la competenza
dei sistemi informatici di Guido De Martino; la particoFig. 2 - Bruxelles, progetto per l’Università libera, 1969.
42
lare attitudine di Carolina Poidomani nell’affrontare le
questioni sollevate dal restauro degli edifici.
Genesi e alimento è per i PCA la cultura del Team X,
condivisa, alimentata e diffusa in Italia da Giancarlo De
Carlo in scritti e opere di grande ricchezza contenutistica. Si confrontano, con il libero e stimolante dibattitto
che la innerva il cui ragionamento teorico porta avanti
principi generati da un’attenta revisione critica del Movimento Moderno, finalizzata a dare senso all’architettura la cui configurazione richiede una nuova strutturazione capace di corrispondere alla necessità di vedere in
termini di continuità ed interrelazione gli aspetti diversi
delle attività umane. Conseguentemente il progetto è
da intendersi non come episodio spaziale in sé concluso,
ma come frammento informato di un sistema più ampio
connesso a territori e città, preesistenti e in divenire. E’
dunque una visione innovativa e integrata dell’architettura quella del Team X, che i PCA studiano, scavano a
fondo, sperimentano. Vi si riconoscono vedendo in essa
Fig. 3 - Cosenza, Università della Calabria, progetto per il Polifunzionale di Arcavacata, 1971.
una strada da percorrere perché pregna di semi inespressi. Coerenti con tale obbiettivo, la loro riflessione si concentra su parole come luogo, contesto, morfologia, topologia, relazione, connessione, inclusione, integrazione,
forma aperta, densità, capacità dell’organismo architettonico di rispondere ad una pluralità di esigenze variabili nel tempo e quindi flessibilità. Si dirà: alcune di queste parole come luogo, contesto, morfologia, fanno parte
dell’universo mentale di non pochi architetti, soprattutto dopo Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti
e L’architettura della città di Aldo Rossi; ma ciò che fa la
differenza nel fare dei PCA è il come si concretizzano
relazionandosi con le altre; modo che nasce dal ritenere
non autonoma ma eteronoma l’architettura. Attraverso
un confronto serrato con diversi e sin dall’esordio complessi temi progettuali si avvia un processo che trasforma queste parole, sempre più meditate, in un sistema
integrato di principi in cui ciascuno di essi è in rapporto
di interdipendenza con gli altri e come tale frammento
indissolubile dell’insieme. Dalla fine degli anni Settanta
diventa ossatura portante del loro pensare e agire architettonico, e pur arricchendosi ed evolvendo sotto la spinta dei mutamenti sempre più destabilizzanti del tempo,
manterrà inalterata la sua iniziale sostanza sino ad oggi.
A-storico per questo? Se lo si considera tale ritengo sia
una a-storicità particolare in quanto anticipatrice nel suo
lontano generarsi di un insieme di valori imprescindibili
per la fioritura della vita e delle città e che per questo
deve abitare dentro l’architettura. Antepongono infatti
i PCA a forma e linguaggio ciò che rende responsabile
l’architettura nei confronti dell’ambiente nella sua più
ampia e profonda accezione: esseri umani, città territori
paesaggi. La forma viene dunque dopo e non è mai banale l’esito di tale processo, in quanto sostanziato dal dare
e, direi anche, restituire senso all’architettura; un’architettura che favorisca l’effetto urbano in quanto portatrice
43
Fig. 4 - Lattakia (Siria), progetto per la sede dell’Università , 1973.
di relazioni, integrazioni, di una tridimensionalità che
è insieme spaziale collettiva, sociale. Ecco perché sono
imprescindibili principi come la densità e il percorso e
quando questo, per motivi connessi di volta in volta alle
specificità degli incarichi, alle richieste e ai luoghi, non
può costituirsi come segno strutturante insieme il dentro e il fuori, negli interni non viene mai meno. Evolvendosi, nel suo possedere implicitamente il valore del porre
in relazione, stimolerà la presenza di quello che questi
progettisti chiamano l’entrare al centro, il cui effetto è
determinare, attraverso la simultaneità della visione, una
spazialità dove, pur respirando il valore del vuoto, la sua
intrinseca relazionalità si traduce nel cuore tridimensionale dell’intero organismo.
Questa dunque la visione dei PCA, qui al massimo
sintetizzata. Nell’essere struttura profonda di tutti i loro
progetti, la ritroviamo anche in quelli per le sedi universitarie, siano essi un intero complesso o parti di esso.
44
Ma cosa è quindi l’università per Pica Ciamarra Associati?
Intrecciata con la ricerca sulla morfologia urbana, connessa alla assimilazione di una semantica intesa come rapporto tra forma globale ed interrelazioni di attività più
che di funzioni, la loro energia speculativa si orienta sin
dalla fase iniziale del loro operare verso una intensa sperimentazione su questa tematica, prevalentemente attraverso la partecipazione a concorsi spesse volte internazionali.
Segnato dal prorompente attacco della contestazione giovanile all’idea di autorità e alla svolta radicale che si richiede
a tutti i livelli, il clima che apre agli anni Settanta coinvolge in toto l’università. Per essa occorre conseguentemente
una nuova idea che per i PCA non può essere il campus,
organismo di matrice anglosassone dal carattere chiuso ed
elitario, la cui autonomia funzionale e ambientale lo distacca
dal mondo reale della città e della vita che in essa si svolge
e dalla sua evoluzione. Necessita quindi un decisivo rove-
Fig. 5 - Fisciano, progetto per l’Università nella Valle dell’Irno, 1975.
sciamento di prospettiva che sia sostenuto da un sistema
che, pur preservando le invarianti ritenute strutturali nella
formazione - didattica e ricerca - dia voce a principi quali
l’apertura, la relazione, l’integrazione, la capacità di adeguarsi a trasformazioni non prevedibili. Vertebrata da densità concettuale e continuità fisica, l’Università per i PCA è
quindi una configurazione aperta, che trae molte delle sue
qualità spaziali dalla geomorfologia del sito, dal disegno del
paesaggio e dai caratteri dell’intero ambiente nel quale si
inserisce, con il quale si connette e con il quale va attuato il
massimo del coinvolgimento. Suo obbiettivo è incentivare
formazione e socialità a tutti i livelli, in stretta relazione con
il territorio e la città, di cui è dimensione rilevante e il cui
principale elemento di connessione è il sistema dei percorsi.
Per chi conosce la produzione degli architetti del Team
X, riferimenti immediati sono due progetti degli anni
Sessanta a firma l’uno di George Candilis, Alexis Josic
e Shadrach Woods; l’altro di Giancarlo De Carlo. Il pri-
mo è il progetto per l’Università di Berlino, il secondo
di Dublino, nato da un concorso internazionale. Con un
impianto lineare su uno schema a griglia che trae origine
dal lungo asse della spina centrale, in entrambi l’università
è intesa come luogo e non come strumento, esplicitata da
una struttura continua. Aperta alla trasformazione, affida
il collegamento con la città al sistema delle comunicazioni
e dei percorsi, prevalentemente pedonali lungo i quali gravitano le attività di natura collettiva che stimolano scambi
e contatti reciproci. Questo ciò che accomuna i due piani,
ma nella proposta di De Carlo si manifesta con maggiore compiutezza quello che ritengo possa definirsi il DNA
della progettazione dei PCA: il principio di una totale integrazione di tutte le parti in unico organismo interrelato
e flessibile, e per questo capace di indirizzare e controllare
anche il processo architettonico in modo da garantire, senza
tradire l’essenza del progetto, le inevitabili trasformazioni
richieste nel succedersi del tempo da nuove esigenze. Con
45
Fig. 6 - Fisciano, Università nella Valle dell’Irno, veduta dall’alto, 1975.
tempi di percorrenza ridotti al minimo da una meditata
maglia di percorsi, teso all’integrazione con il paesaggio e
la specificità dei suoi segni, un sistema che deve costituirsi
come polo di attrazione per la popolazione urbana concretizzando in tal modo quella funzione formativa, culturale e
sociale che deve caratterizzare l’Università nel suo “essere”.
Nel credere nella coincidenza di architettura e urbanistica,
l’università è dunque una organizzazione sociale complessa, relazionata, inclusiva, flessibile, aperta ai più ampi rapporti con la città e al sistema delle sue attrezzature.
Vediamo quindi come si declina questa loro visione nel
fare progettuale in un arco temporale che giungendo sino
ad oggi inizia nei tardi anni Sessanta.
Consistente per numero e qualità il loro contributo, in
progetti tutti accomunati dall’obbiettivo di favorire una
tridimensionalità spaziale collettiva. Coerenza quindi tra
visione teorizzata e sua materializzazione che esplicito
in un racconto iconografico, per limiti di tempo ridotto, commentato da brevissime notazioni, tranne qualche
caso sul quale mi soffermerò ritenendolo più compiutamente emblematico del loro modo di intendere l’architettura delle sedi universitarie.
46
Nel 1968, la Facoltà di Scienze e Farmacia al margine nord di Messina, nel negare l’edificio concluso in una
forma, propone un organismo relazionato in cui le diverse
attività, integrate in spazi modificabili ed accrescibili nel
tempo, si intrecciano con il sistema dei percorsi (fig. 1).
L’anno successivo il progetto per l’Università libera di
Bruxelles si confronta con un’area in pieno centro urbano
(fig. 2). Si chiede di far coesistere, ma in modo indipendente l’una dall’altra, le due Università di lingua francese
e fiamminga, 19.000 + 5.000 studenti. Adeguato al contesto sociale e storico e ai caratteri geomorfologici fisici e
organizzativi della città, quanto si propone è un organismo ad elevata densità, strutturato da due percorsi: uno
pedonale fra le stazioni della metropolitana attraversante
i due sistemi; l’altro trasversale di separazione e di supporto ad attività a scala urbana. Nella loro intersezione
si determina un nodo a più livelli sul quale convergono
le unità residenziali e da cui si diramano i plurimi bracci
delle attività secondo multiple direttrici.
Nel 1971 l’Università della Calabria, istituita con una
legge del 1969, apre all’innovazione. Per quattro motivi:
è la prima in Italia, sperimenta il numero programmato, è
Fig. 7 - Yarmouk (Giordania), progetto per la sede dell’Università , 1976.
residenziale e la sua organizzazione per dipartimenti cambia l’impianto concettuale e funzionale della struttura accademica. L’area è a Rende, in prossimità dello svincolo
autostradale Cosenza nord. Vince la competizione il progetto di Vittorio Gregotti, una struttura lineare che nello
scavalcare le colline interpreta la dimensione paesaggistica
ma nel distinguere tra la tipologia degli edifici e percorso, non prefigura il sistema urbano finalizzato a collegare
luoghi diversi stimolando l’integrazione richiesta dal bando di concorso. Elaborato e firmato dai PCA, prossimi a
costituirsi in forma associata, compiutamente esplicita la
concezione organica che essi hanno dell’architettura la cui
concretizzazione fisica è nel Polifunzionale di Arcavacata
(fig. 3). Primo nucleo del sistema universitario in itinere, dà
voce all’istanza di una mutazione culturale che rivendica
nuovi assetti spaziali e simbolici. Sorge in quella parte di
territorio che consente di utilizzare la rete infrastrutturale
esistente. La collina si lega ai percorsi e alle coperture attrezzate. Le diverse unità/attività sono dentro un reticolo di
porticati che continuano all’interno le strade pedonali, che
attraversano e sovrapassano lo spazio costruito. Nodo del
sistema è la piazza centrale, principale luogo di incontro e
di soste, coperto da una struttura tridimensionale in ferro
e vetro. Montaggio elastico, disponibile alle trasformazioni
di elementi industrializzati che però escludono l’uniformità intrecciandosi con sistemi tecnologici della tradizione.
Nel paesaggio della valle del Crati, si genera, come evidenzierà Aldo Van Eyck, un edificio ricco di colti e sapienti
rimandi, di stratificazioni teoriche, che rende il senso del
luogo parte integrante del significato di architettura.
Il pressoché contemporaneo progetto dell’Università
di Firenze, anch’esso di concorso, in un’area in prossimità dell’aeroporto e degli svincoli autostradali, si configura come proposta di riammaglio e di forte concentrazione
formale per i molteplici fenomeni urbani del sistema Firenze-Prato-Pistoia, lungo il quale, all’interno di un ‘area
triangolare, si concentra il sistema universitario. Attraverso operazioni di ricucitura, riconnessione e introduzione di
47
Fig. 8 - Potenza, progetto
dell’Università della Basilicata a Macchia Romana, 1984.
nuovo senso a quanto già esiste e a quanto è prospettiva già
acquisita, si vuole quindi la creazione di un nuovo stato di
continuità urbana, evocativo del concetto di città-territorio
zeviano, di cui il nuovo organismo culturale è frammento
qualificante. Strutturato in edifici-percorso e in sequenze
di luoghi di riferimento e di incontro, suo obbiettivo è il
costituirsi polo propulsore di crescita umana e culturale.
In un susseguirsi di sperimentazioni, il giovane studio
affronta nel 1973 il progetto per la sede dell’Università di
Lattakia in Siria (fig. 4), con il quale si apre la partecipazione a concorsi internazionali ad inviti. Ne esplicito, più
compiutamente i contenuti perché in questo caso la visione dei PCA si vertebra, e a me pare per la prima volta, su
una concezione di economia globale ed ecologica che man
mano affinandosi diverrà cifra del loro ideare architettonico successivo. Una concezione che investe, gli spazi, l’uso,
le tecnologie, rapportandosi simultaneamente ai venti,
agli alberi, alla morfologia e alla topologia, alla valore e
disvalore delle preesistenze; investe i tempi non solo di
percorrenza, riducendoli, ma anche di costruzione e di gestione dell’intero sistema. E’ la contromisura meditata e
già matura alla crisi energetica che investe il mondo, anticipata un anno prima dall’architetto e grande intellettuale
Manfredi Nicoletti con l’istituzione del corso di Morfologia ed Ecologia Urbana. Realizzandosi, l’università di
Lattakia avrebbe configurato una microcittà della cultura
interagente con l’esistente e capace inoltre di contribuire
allo sviluppo sociale e industriale della regione. Un’azione
che connette anche l’architettura alla politica, o quantomeno a quello che essa dovrebbe stimolare.
48
Cinque le facoltà richieste, con un rapporto professorestudente di 1 a 50: scienze, medicina, scienze dell’ingegneria, agricoltura, lettere; ad esse si aggiungono tre scuole tecniche per 5.000 studenti del genio, degli studi mineralogici
e petroliferi, di agricoltura e circa 300 ambienti costituiti da
luoghi di studio, aule per la didattica, laboratori. Molteplici
gli spazi a carattere collettivo. L’area è al margine della città.
Si esclude la parte a est, estesa lungo un’ampia fascia da nord
a sud, inadatta alla edificazione. La comprensione dei luoghi
suggerisce i contenuti della proposta: mantenimento di alcune preesistenze per il loro valore paesaggistico: gli insiemi
di alberi di ulivo in parti diverse dell’area e gli anfiteatri
naturali; abolizione di una parte degli impianti industriali
lungo la rue de Hossaine al fine di garantire la continuità
spaziale e visiva del verde tra l’università e il mare; nel rapporto con i venti dominanti, fare in modo che l’asse degli
edifici formi un angolo di 45° per arrestare le correnti principali; prevedere un’area di riserva per le esigenze imprevedibili a lungo termine e per facilitare la connessione con le
linee di servizi previsti; inserire una stazione secondaria ad
est, ai bordi della strada ferrata in costruzione da soprapassare con un ponte pedonale; creare un lago artificiale atto a
raffreddare l’acqua dei servizi per le esperienze dei laboratori
idraulici, per irrorare i giardini e gli spazi del tempo libero,
per le piscine, per l’atterraggio degli elicotteri, per l’antincendio; legare l’università con la viabilità urbana verso il
centro della città attuale e futura mediante una strada di collegamento tra il boulevard principale e la rue de Hossaine.
Sul piano della organizzazione strutturale e formale l’università si esprime attraverso la sinergia di elementi consolidati:
Fig. 9 - Caserta, Facoltà di Medicina e Chirurgia, 1996-2016.
nodi di riferimento ed ambiti di relazione, integrazione delle
funzioni, flessibilità dell’organizzazione, gioco dei percorsi
pedonali, coperture come promenade aperte al paesaggio.
Si genera un sistema di luoghi permeati da una continuità
di spazi diversi in un reticolo quadridimensionale capace di
modificare la sua essenza nelle diverse fasi evolutive: autonomia, integrazione, coincidenza con la città. Suo obbiettivo
imprescindibile è dunque la capacità di attuare connessioni,
ambiti intercomunicanti di condensazione sociale. Gli spazi
della didattica per 28.000 studenti coincidono pertanto con
gli assi dei percorsi pedonali, e con essi i portici, gli anfiteatri
aperti, le scale giocano un ruolo importante per gli incontri,
le discussioni, le informazioni, i confronti. Il grande asse delle attività comuni attraversa la griglia sottesa dell’impianto
a 45° e in ciascun punto della intersezione c’è un elemento
che attua la coincidenza tra le funzioni di attività, che appartengono nello stesso tempo al sistema universitario e a
quello urbano. Un sistema profondamente meditato; relazionato, aperto e privo di barriere.
Del 1974 è il progetto dei Dipartimenti di Farmacia a
Messina, che nel risolvere al suo interno un dislivello di venti
metri documenta una duplice innovazione: la tripartizione
slittata del suo notevole spessore e il tema dell’edificio-percorso qui per la prima volta realizzato. Si determinano inoltre immagini unificate alla grande scala, ma ricche di fatti
diversi e molteplici in una visione ravvicinata che però evoca
in modo sin troppo palese il Le Corbusier della Tourrette.
Nel 1975 il progetto per Università nella Valle dell’Irno
pone ai PCA il confronto diretto con il comune di Fisciano,
le frazioni di Lancusi e Bolano, a nord di Salerno ed il verde territorio di una parte della valle dell’Irno attraversato
dall’autostrada Caserta-Salerno (figg. 5-6). Con l’obiettivo
di realizzare un sistema capace di configurarsi come dimensione organizzativa e culturale del territorio, elaborano un
modello concentrato, multipolare, relazionato. Nel puntare
all’integrazione, da nord-est a sud-est i piccoli urbani sono
infatti connessi da una viabilità lungo la quale si articola la
raggera degli edifici percorso-universitari convergenti nelle
49
Fig. 10 - Benevento, progetto dell’Università del Sannio, complesso di via dei Mulini, 2008.
piazze di ciascun insediamento. Intrecciato con un sistema pedonale pensato in funzione del percorso più breve,
un nodo di scambio tra la stazione ferroviaria e il raccordo
autostradale risolve i trasporti alle diverse scale regionale
o comprensoriale. Vogliono che il progetto contribuisca a
rendere la città e il territorio aperti alla partecipazione, inclusivi quindi e capaci di riconoscere e valorizzare anche ciò
che in essi è più nascosto: il senso del loro passato.
Nel 1976 il luogo dove insediare l’Università di Yarmouk è il pre-deserto, in un’area estesa, per km 8 di
lunghezza e 1,5 di profondità (fig. 7). Il bando richiede
un campus, ma i PCA disattendono. Nella strada principale collegante le due città principali, Amman e Damasco, individuano una predisposizione all’integrazione. Nella parte di area morfologicamente più idonea al
fine dell’impianto e del mantenimento della vegetazione, propongono un nucleo costituito da edifici ad alta
densità convergenti in una piazza pedonale con il livello
sottostante raggiungibile dal percorso veicolare. Da essa
si diramano percorsi rettilinei diversamente orientati, e
una duna alta circa sette metri riutilizza tutti i terreni di
50
scavo e disegna il paesaggio concludendosi nello stadio.
Economia di costi, di tempi, di sostenibilità e di gestione
caratterizzano per intero il sistema.
L’Università di Salerno (dal 1983 per fasi sino al 2009)
nasce come un unicum a livello concettuale, formale e
spaziale rispetto a quanto pressoché contemporaneamente si va realizzando nel campus di Fisciano, antitetico al
relazionato sistema territoriale proposto dai PCA circa
un decennio prima nel progetto di concorso per la valle
dell’Irno. Nel negare, come in tutte le precedenti esperienze, l’unità del volume, creano tre diversi edifici - Rettorato, Aula Magna, Biblioteca - attorno ad una piazza
pedonale elevata. Connette e consente l’“entrare al centro”, tema, che sarà dai PCA successivamente sperimentato, evolvendolo, in più casi.
L’anno successivo il progetto dell’Università della Basilicata a Macchia Romana (fig.8), innerva un’area adiacente al centro storico di Potenza attraverso la prosecuzione della cosiddetta passeggiata di via Pretoria sulle
coperture attrezzate del complesso connettendola a ponte
alla collina antistante, con l’orto botanico e le serre. Ul-
teriori caratterizzanti: il principio del forte spessore, una
densità elevata, la coincidenza fra elementi strutturali e
percorrenze impiantistiche.
Nel 1988, quando viene istituita, l’Università del Molise sorge al margine di Campobasso. Due sole facoltà
la costituiscono: Economia e Scienze Sociali ed Agraria.
Con una configurazione a conca, circonda l’area una edilizia intensiva, lambita a nord est dalla grande viabilità
urbana. Facendo leva sulla sua accentuata accidentalità
morfologica, l’accessibilità si prevede dall’alto per la pedonale e in prevalenza da valle per la carrabile. Compatto,
relazionato, con veicoli e parcheggi al margine, il nuovo
organismo gravita su due piazze: una a nord, ad oggi non
ancora realizzata, in cui converge l’impianto ad esedra
delle aule; l’altra, dalla parte opposta del centro storico, prevista come futura piazza urbana, in cui convergono facoltà e percorsi. La realizzabilità del progetto per
segmenti funzionali compiuti e per entità accrescibili,
non ne compromette l’unitarietà. Adagiato sul pendio,
permeato da una rilevante attenzione alle caratteristiche
morfologiche e paesaggistiche del luogo, e dall’istanza
di determinare l’integrazione con l’urbano, lo articola il
duplice sistema delle percorrenze pedonali continue e coperte e delle attrezzature per il tempo libero a nord ovest,
a servizio dell’università e della città, delle quali si vuole
la coincidenza, con possibilità di introdurre gli ampi spazi coperti ad uso plurimo (spettacolo, musica, congressi).
Distinti gli edifici che materializzano le funzioni richieste dalla natura dell’Istituzione e ciascuno con una sua
palese specificità. Più a monte, a cento metri dal tessuto
consolidato, la Biblioteca e l’Aula Magna si impongono
per singolarità formale e spaziale. Notevole l’espressività
generata dall’intreccio di materiali profondamente diversi come mattoni e acciaio, ciascuno evocativo di fasi e
culture diverse. La delimitazione attuata dal palazzetto
dello Sport configura una piazza che si pone come punto
di confluenza dei percorsi fra i diversi dipartimenti e la
cui direzionalità crea idealmente il raccordo con il centro
storico. Obiettivi bioclimatici e limitata incidenza sul
suolo delle opere di sbancamento e sostegno aggiungono
ulteriore qualità all’intero sistema.
Nel 1996 è la notevole realizzazione, ancora in corso,
della Facoltà di Medicina e Chirurgia a Caserta, in un’area
di 25 ettari alla periferia della città (fig. 9). Ubicata tra la
bretella di raccordo autostradale ad est e la strada a nord,
la sede è concepita per ospitare 3.000 studenti, con annesso
Policlinico per 500 letti. In tre fasce lineari fiancheggiate
da parcheggi e con aree per attività complementari non
universitarie, include didattica, ricerca, assistenza. Ha accentuata attenzione alla sostenibilità, con una complessa,
densa ma flessibile organizzazione ortogonale cui contrasta
il volume dell’Aula Magna. Asse focale è la galleria degli
studenti a più livelli su cui si innestano i collegamenti con
i Dipartimenti e l’Assistenza a ovest e quelli verso le aule
ad est. I percorsi pedonali fecondano un tessuto continuo
articolato attorno ai patii, e di esso, il sistema primario, che
segue il tracciato della antica centuriatio, è portato a quota
intermedia al fine di minimizzare le distanze e scavalca la
viabilità a nord per facilitare di raggiungere, mediante la
navetta, il collegamento alla Stazione ferroviaria. Un ‘muro
d’acqua’ protegge dalle polveri (27 antenne in acciaio su un
rilevato di terreno a forma di duna ricoperta di verde). Patii
alberati con giardini verticali di altezza variabile sulle facciate delle zone della ricerca; aule con coperture gradonate
che definiscono corti concluse; sistema di illuminazione e
aerazione naturale; utilizzo dell’acqua piovana.
Nel 2008, il progetto del Complesso di via dei Mulini
dell’Università del Sannio a Benevento invera architettura, urbanistica, paesaggio e ambiente, determinando un
intervento di alto livello qualitativo (fig. 10). Collega il
pieno centro e la vasta zona periferica verso valle. Il concetto di continuità dei percorsi pedonali urbani, sempre
sostenuto dai PCA, ne è struttura connettiva e spaziale;
interamente vertebra l’articolazione topologica e morfologica d’insieme e degli spazi universitari in esso inseriti.
Infine data all’oggi il progetto dell’Università di Marrakesh, al margine del tessuto urbano di Tamanseurt, nuova
città del Marocco. Si richiede un campus di oltre 200 ettari
per 60.000 studenti. I PCA creano un eco-campus con il
parco e il canale che entrano sin dentro il cuore del progetto,
un sistema compatto e al pari, mediante un insieme di edifici che per specificità tematica e funzionale hanno maggiore
disponibilità alla connessione, capace di stimolare relazioni
sia al suo interno, sia con la città di cui fa parte e anche con
il centro storico della vicina Marrakesh. Una grande strada
alberata collega l’accesso occidentale all’università ed è facilmente accessibile dal complesso residenziale e sportivo.
*Il testo si basa sui documenti dell’archivio Pica Ciamarra Associati
Bibliografia
De Carlo 1968
G. De Carlo, Pianificazione e disegno delle Università, Roma 1968.
Lima 2011
A. I. Lima, L’architetto nell’era della globalizzazione, in Ricerca didattica e prassi urbanistica nelle città del Mediterraneo, Roma 2011, pp.
149-157, in particolare le pp. 154-155, sulla costituzione dello Studio PCA e del suo processo aggregativo nel tempo il cui prodotto è un
sistema strutturato in intrecci, interazioni e confronti di competenze.
Lima 2014
A. I. Lima, Senso prima che forma, l’architettura dei P.C.A.,
in Mostra Percorso. “Il fiume parla di Architettura”, Pisa 2014,
pp. 14-15.
Lima 2017
A. I. Lima, Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici. Architettura
dei Pica Ciamarra Associati, Milano 2017 (english edition StuttgardLondon 2019).
51
UNIVERSITY CAMPUSES DESIGNED BY THE FIRM PICA CIAMARRA ASSOCIATI
The meaning of this paper is to have tried to highlight, through some of the multiple projects developed by Pica Ciamarra Associates, some characters that
make their action singular especially in comparison to the historical time in which they operate, from the onset already in the seventies of the Twentieth century
to today. Aware and responsible for the totality of the environment and the long-lasting effects that their action can cause, PCA constantly dialogue with the
specificities of the urban places on which they intervene and with the landscape dimension that they emphasize to the maximum degree, introducing, where the
identify weaknesses and expulsions, from parks to trees. Working simultaneously on complexity, congruence, correspondence, and polidirectionality, they have
promoted, especially since the 1990s, the spread of ecological awareness in the practice of thinking and acting, stimulating governments and institutions to
those radical changes that it itself claims. Reformulate, they argue: so as to invest deeply in the structure and culture of society.
52
ALBERTO SARTORIS E IL PROGETTO DELLA CITTÀ UNIVERSITARIA
DI TORINO
Cinzia Gavello
Lo studio dei temi legati allo sviluppo progettuale di
imponenti agglomerati urbani avviati da Alberto Sartoris tra il 1922 e il 1927 è reso possibile grazie all’analisi
dei rapporti che egli ha saputo instaurare con i principali
protagonisti dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica
del primo Novecento, come ad esempio, Raimondo D’Aronco, Felice Casorati e Annibale Rigotti. A partire dalle
prime cosiddette “composizioni urbanistiche”(1) ad opera di Sartoris, dal primo progetto del Piazzale dello Stadium a Torino del 1922, giungendo ai più recenti piani
urbanistici di Punta Aspera a Varazze (fig. 1) e di MontFleuri a Montreux del 1963 (2) (fig. 2), il progetto della
Città Universitaria di Torino rappresenta una preziosa
testimonianza di quanto la sua ricerca relativa alla cosiddetta “lottizzazione razionale” (3) sia indirizzata verso
una rigorosa applicazione di quei principi progettuali che
mirano a concentrare la popolazione in determinati punti
della città (ad esempio in grandi edifici o in quartieri
debitamente dimensionati), rivolti alla normalizzazione
degli spazi e alla disciplina della circolazione.
Le trentasei assonometrie di progetti non realizzati, elaborate da Alberto Sartoris e pubblicate all’interno della
sezione italiana del suo celebre volume Gli elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna edito da Ulrico Hoepli nel 1932 (4), possono essere
considerate come una vera e propria espressione di quella
logica puramente auto-promozionale elaborata dallo stesso
Sartoris al fine di accostare il suo nome e i suoi progetti alle
più importanti icone dell’architettura razionale dell’epoca.
Attraverso la pubblicazione del volume che lo ha reso
celebre in tutto il mondo, per l’architetto italo-svizzero
si presenta infatti l’occasione di mostrare le assonometrie
dei principali progetti delle sue opere rimaste sulla carta,
come il progetto del Piazzale dello Stadium di Torino
(figg. 3-4), la celebre cattedrale di Notre Dame du Phare
o la villa per il pittore Jean Saladin van Berchem entrambe del 1931. Le assonometrie dei suoi progetti, divenute
celebri in tutto il mondo, diventano quindi l’unica chiave
di lettura di quella “sfera pratica” del suo volume e come
tali vengono riprodotte anche sulle pagine delle principali riviste di architettura del periodo. Su circa ottocento
progetti solo una cinquantina sono stati effettivamente
realizzati: ciò nonostante, i progetti di Sartoris rimasti
sulla carta assumono nel corso della sua lunga carriera il
ruolo di vere “icone della modernità” (5).
Il primo progetto assonometrico della Città Universitaria per Torino del 1922 può essere considerato come una
sorta di evoluzione del progetto del Piazzale dello Stadium,
area per cui Sartoris disegnerà, pochi mesi dopo, le due soluzioni progettuali della Città Universitaria. Secondo Sartoris lo Stadio, infatti, emblema della moderna società di
massa, potrebbe rapidamente trasformarsi in una borgata,
in un quartiere o in un centro di studi universitario.
L’opera di divulgazione avviata da Sartoris attraverso le
sue numerose pubblicazioni si concentra principalmente
intorno alla questione della cosiddetta “urbanistica moderna” (6). In relazione all’intenso scambio di immagini e
di fotografie che Sartoris intraprende a partire dal 1926,
lo spazio riservato al progetto delle sistemazioni architettoniche dello Stadio e della successiva Città Universitaria
all’interno delle principali riviste specializzate e dei quotidiani del periodo si rivela uno strumento fondamentale per ripercorrere le principali tappe che testimoniano
i rapporti instaurati con i più importanti protagonisti
dell’architettura dell’epoca. Ad esempio, nel volume Internationale neue Baukunst di Ludwig Hilberseimer del 1926
viene pubblicata, accanto al progetto della Città Nuova
di Antonio Sant’Elia, l’immagine dell’assonometria ad
opera dello stesso Sartoris del progetto della sistemazione
del quartiere dello Stadium a Torino del 1925 (7). Le immagini fornite all’architetto tedesco rappresentano quelle canoniche immagini, già precedentemente diffuse da
Sartoris sulle principali riviste del settore dell’epoca, che
meglio identificano l’iconicità della sua architettura.
Nonostante la forte adesione di Sartoris al Movimento
Futurista italiano promosso da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, i disegni da lui realizzati nell’arco della sua
lunga attività di teorico e progettista mostrano un netto
distacco dalle rappresentazioni delle architetture utopistiche di Sant’Elia o di Mario Chiattone e da quelle prodotte
dalle avanguardie artistiche nei primi anni Venti del Novecento. L’essenzialità dei progetti urbanistici di Sartoris è
da ricercare, non tanto nelle opere futuriste di Sant’Elia o
di Chiattone, bensì nei rapporti che l’architetto italo-svizzero ha saputo sapientemente instaurare con Felice Casorati, pittore ma soprattutto scultore e artigiano. I progetti
delle due soluzioni urbanistiche della Città Universitaria
rappresentano le prime tavole in cui Sartoris utilizza per
la prima volta l’assonometria isometrica ortogonale (8).
Le uniche due soluzioni assonometriche del progetto citato, così come il progetto per il quartiere di Orbassano e
dei successivi progetti urbanistici rappresentano, secondo
Bruno Reichlin, un autentico “enunciato figurativo” (9)
sui concetti e metodi sartorisiani relativi alla progettazio-
53
Fig. 1 - Sistemazione urbanistica di Punta Aspera Varazze, planimetria generale del
complesso (da ABRIANI 1972,
p. 97).
ne architettonica. Tale progetto può essere quindi definito
come un “diagramma costruttivo”, definito da Christopher
Alexander come una sorta di “ponte” fra i requisiti e la
forma dell’edificio (10).
Il tentativo operato da Sartoris di coniugare insieme l’originalità del Movimento Futurista italiano e le tematiche
del razionalismo europeo è ben evidente se si osservano le
sue celebri assonometrie. Fin dai suoi primi progetti illustrati con questa tecnica di rappresentazione è rintracciabile
una forte ricerca propositiva di quella cosiddetta “nuova architettura” (11), resa attraverso un attento studio del colore
e delle proporzioni relative alla composizione architettonica. Sartoris usa quasi esclusivamente l’assonometria isometrica ortogonale come principale strumento di rappresentazione per mettere in evidenza, allo stesso tempo, pianta
e prospetto; tuttavia, i documenti d’archivio legati alla sua
vasta produzione professionale e di ricerca formale mettono
in evidenza come egli non si serva unicamente dell’assonometria per rappresentare il progetto, ma faccia riferimento anche ad elaborati grafici bidimensionali, quali piante,
prospetti e sezioni realizzati con la stessa impronta grafica.
Ciò nonostante, i suoi disegni più noti rimangono le
utopiche assonometrie di edifici sospesi nello spazio in
cui gli elementi che costituiscono il contesto esterno non
vengono mai rappresentati: Sartoris infatti tralascia di inserire gli alberi, l’uomo e tutti quegli elementi della sfe-
54
ra urbana che caratterizzano fortemente anche la pittura
d’avanguardia. Solo in alcune assonometrie il contesto è
rappresentato attraverso una semplice linea di terra, un
tratto illusorio che identifica un piano immaginario ideale, quasi come se egli volesse lasciare immaginare allo
spettatore un’utopica contestualizzazione.
Sartoris sfrutta le potenzialità grafiche offerte dall’assonometria in una duplice valenza: la prima per mettere in
evidenza l’opera architettonica come oggetto a sé stante,
la seconda per trasmettere i disegni da consegnare in cantiere con le indicazioni per la costruzione, diventando così
un vero e proprio strumento operativo. In questo contesto,
la rappresentazione utilizzata mette in luce il montaggio
di un manufatto come un oggetto scomponibile e assemblabile attraverso un semplice sistema di aggregazione di
volumi. L’analisi delle numerose assonometrie realizzate
da Sartoris a partire dalla fine degli anni Venti del Novecento mette in evidenza un costante rigore geometrico in
cui l’architetto tralascia, fino ad eliminare completamente, l’elemento decorativo. I due studi assonometrici della
Città Universitaria di Torino (figg. 5-6) rappresentano la
prima testimonianza della completa assenza di decorazione in cui, raggiungendo l’estrema sintesi, la forma degli
edifici diventa l’unico ornamento (12).
Il rigoroso impiego dell’assonometria viene inteso da
Sartoris non tanto come riferimento ad una corrisponden-
Fig. 2 - Piano regolatore del quartiere di Mont-Fleuri a Montreux,
assonometria (da ABRIANI 1972, p. 99).
te realtà costruita ma, per la coerente astrattezza, come
indicatore di regole dello spazio architettonico (13). L’assonometria utilizzata da Sartoris a partire dalle composizioni urbanistiche del 1922 ridotta a tratti essenziali e a
ben definiti volumi di immediata percezione figurativa,
può essere considerata come la variante purificata e geometrizzata di quella già utilizzata durante il Futurismo,
ovvero utopica e fantasiosa. Il tema del disegno assonometrico assolve quindi per Sartoris la funzione di vero
e proprio Manifesto dell’Architettura Razionale e viene
messo in evidenza attraverso le numerose pubblicazioni
dello stesso autore e con la sua continuativa presenza e
partecipazione a conferenze ed esposizioni internazionali.
Secondo la critica dell’epoca con il progetto della Città
universitaria, Sartoris ha saputo utilizzare i mezzi della
sua arte adeguandoli al gusto e alle necessità pratiche del
suo tempo. Sartoris sceglie di ignorare le tradizionali procedure edilizie e amministrative e sceglie la strada della
cosiddetta “utopia per ottimalizzazione” (14). In entrambe le soluzioni il progetto sembra ridurre al minimo gli
spazi, pur garantendo un’elevata qualità resa possibile at-
traverso un corretto orientamento dei volumi e attraverso
una adeguata distribuzione dei locali. Ogni locale però
sembra essere polivalente e il risultato è un interessante
gioco compositivo nonostante l’apparente semplicità dei
volumi. La prima e la seconda versione del progetto si
compone di un insieme di volumi disposti in modo tale
da sfruttare al massimo il lotto a disposizione.
Sartoris presenta con questo progetto uno scenario
quasi surreale, in cui non sono definiti con precisione né
la tipologia, né il sistema costruttivo. Soltanto il titolo
attribuito da Sartoris alle sue tavole progettuali fornisce
una descrizione tipologica del progetto. Il risultato di
tale strategia progettuale è tale da annullare ogni riferimento o contenuto architettonico. Il rifiuto di qualificare
lo spazio in cui si inserisce il progetto della Città Universitaria caratterizzerà anche le successive rappresentazioni
assonometriche ad opera di Sartoris.
Le assonometrie del progetto citato si innestano infatti in
un territorio fantastico e non riconoscibile. Questo tipo di
rappresentazione è probabilmente frutto della convinzione
della priorità teorica del disegno, inteso come strumento essenziale e non casuale della rappresentazione architettonica.
La necessità di presentare il funzionalismo architettonico
come necessità culturale ed educativa traspare non sono attraverso le sue celebri pubblicazioni, ma in tutta la produzione sartorisiana, tant’è che i suoi progetti urbanistici assumono i caratteri di un vero e proprio Manifesto. Secondo le
parole dello stesso Sartoris: “solo gli elementi architettonici
ridotti alla loro più semplice espressione consentono una
forma attuale, quindi sempre variabile. L’architettura non
è quindi più una composizione definitiva, perenne; non è
più un insieme chiuso dato che le sue dimensioni e i suoi
elementi plastici e utilitari subiscono dinamicamente trasformazioni essenziali radicali” (15).
Sartoris, già nel 1929, dedica un articolo pubblicato su
«La casa bella» (16) di Milano all’architettura standardizzaFig. 3 - Sistemazione del piazzale dello Stadium per Torino, 1926,
modello in cartone (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 149).
55
Fig. 4 - Sistemazione del piazzale dello Stadium per Torino, 1926,
assonometria della variante con due torri centrali (da ABRIANI,
GUBLER 1992, p. 149).
ta, strettamente legata ai nuovi sistemi costruttivi e ai nuovi
materiali, illustrando alcune opere di Walter Gropius e Le
Corbusier. Facendo riferimento soprattutto all’abitazione,
Sartoris descrive architettura e standard come risposta alle
nuove esigenze abitative, ma anche come possibile indirizzo
estetico: “l’architettura standardizzata si manifesterà logicamente in belle forme se chi l’ha disposta ha tenuto conto
delle infinite possibilità della tecnica moderna e della nuova
sensibilità plastica che regola il nostro tempo” (17). Viene
quindi messo in evidenza come l’uso di nuovi sistemi costruttivi e di nuovi materiali che consentono una produzione di elementi architettonici in serie, possa rappresentare la
soluzione per rinnovare l’architettura in modo tale da poter
rispondere alle nuove esigenze della società.
L’attività editoriale di Sartoris incomincia ad avere una
risonanza e una diffusione a livello internazionale a partire dai primi anni Trenta del Novecento, dal momento in
cui numerose riviste italiane e straniere si interessano ai
suoi progetti e alle sue pubblicazioni per lo più relative
ai temi d’arte e di attualità. Attraverso le prime pubblicazioni d’arte, italiane e straniere, si incomincia a definire
infatti una specifica iconografia legata all’architetto italosvizzero che lo accompagnerà nel corso della sua lunga attività editoriale, accademica e professionale e che lo asso-
56
cerà indiscutibilmente alle grandi icone dell’architettura
razionalista del Novecento.
I cataloghi delle numerose esposizioni curate e allestite
da Sartoris nel corso della sua lunga carriera costituiscono
il mezzo più idoneo, da lui utilizzato, per prendere dimestichezza con l’attività pubblicistica di settore e per diffondere le immagini delle più note architetture del periodo. Infatti, le molteplici mostre che raccolgono i disegni e
le assonometrie prodotte dallo stesso Sartoris a partire dal
1922 e le fotografie collezionate nel corso della sua lunga
carriera rappresentano una preziosa occasione per riflettere sul significato dell’uso del disegno assonometrico, non
solo come strumento di rappresentazione ma anche come
vero e proprio mezzo di trasmissione di una determinata
immagine architettonica. Le esposizioni nazionali ed internazionali si prestano in maniera efficace all’elaborazione di quelle cosiddette scenografie architettoniche. Sartoris segue questa tendenza, facendo della rappresentazione
assonometrica lo strumento di comunicazione più appropriato per descrivere e trasmettere al pubblico una determinata immagine dell’architettura europea del periodo.
Tra i molti episodi ricostruibili attraverso l’analisi della
corrispondenza privata di Sartoris, degno di essere menzionato è quello legato al primo scambio di immagini fra
Sartoris e Victor Bourgeois che avviene nel febbraio del
1928: tale interesse dimostrato in primo luogo dall’architetto olandese verso il lavoro svolto da Sartoris è dovuto,
specialmente, alla preparazione del materiale da pubblicare
all’interno della nascente rubrica “Figures de l’Architecture
Moderne” della rivista «7 Arts». Presentando tale nuova rubrica, che prevede la pubblicazione di una serie di brevi ma
aggiornate biografie dedicate ai principali “architetti contemporanei” (18) Bourgeois coglie l’occasione per proporre
Fig. 5 - Composizione urbanistica per la Città Universitaria di Torino,
1926-1927, prima soluzione (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 150).
Fig. 6 - Composizione urbanistica per la Città Universitaria di
Torino, 1926-1927, seconda soluzione (da ABRIANI, GUBLER 1992,
p. 150).
inizialmente a Sartoris la pubblicazione di un elenco ragionato di saggi, già pubblicati o in corso di pubblicazione,
che “confermano il ruolo sociale e teorico riconosciuto sempre più unanimemente alla nuova architettura”(19). Nel
febbraio del 1928 Bourgeois, in vista della prossima pubblicazione di un articolo relativo all’architettura razionale
italiana, ricorda a Sartoris di inviargli al più presto il testo
del saggio promessogli con alcune foto di accompagnamento alla redazione di «7 Arts» (20). Una breve biografia relativa all’attività svolta dall’architetto italo-svizzero compare
sulle pagine della nuova rubrica della rivista nel maggio
dello stesso anno, con il titolo “L’Architecture Rationnelle
Italienne”, a firma di Enrico Paulucci, ed è accompagnata
da due immagini dell’assonometria del progetto del Padiglione delle Comunità Artigiane di Torino del 1928 e una
immagine dell’“Ensemble plastique d’un centre d’études
modernes” del 1923 (21). A seguito della pubblicazione di
tale articolo, Bourgeois sembra inoltre mostrare particolare
interesse ad un primo tentativo editoriale, “sur l’urbanisme”
(22), annunciato da Sartoris per l’autunno dello stesso anno
e per il quale l’architetto italo-svizzero sembra aver richiesto alla redazione della rivista olandese alcune immagini da
pubblicare (23). In realtà gli esiti dei primi studi svolti in
ambito urbanistico da Sartoris non verranno mai raccolti in
un vero e proprio volume, ma confluiranno semplicemente
in un lungo articolo apparso sulle pagine del settimanale
milanese «La Fiera Letteraria» nel novembre del 1928 e
sulle pagine di «L’Equerre» nel dicembre del 1934 (24).
I principi di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e
molteplicità, sintetizzati da Italo Calvino nelle sue Lezioni
americane, sono gli stessi riscontrabili in ogni disegno di
Sartoris: i suoi elaborati infatti illustrano una cura quasi
ossessiva per il tratto nitido, chiaro e senza incertezze, ma
allo stesso tempo inconsistente che conferisce maggiormente il senso di spiritualità e impalpabilità alle sue opere.
I suoi disegni possono essere associati quasi a dei modelli
di architettura virtuale, sospesi all’interno della cornice del
foglio ed estranei al loro contesto (25). Le rappresentazioni assonometriche del progetto della Città Universitaria
torinese delineano infatti uno dei primi tentativi operati
da Sartoris di dare luce ad una nuova forma di sperimentazione urbanistica, dove i principi della cosiddetta “nuova
architettura” del primo Novecento vengono messi in luce
attraverso un attento studio del colore e delle proporzioni
relative alla composizione architettonica ed urbana.
Ancora oggi le numerose mostre delle sue assonometrie allestite a seguito della sua morte, avvenuta l’8 marzo
del 1998, rappresentano delle ulteriori occasioni per celebrare l’attività del Sartoris-urbanista attraverso un’esaltazione dei suoi numerosi progetti, in gran parte rimasti
sulla carta, elaborati con l’obiettivo di definire “un’arte
abitabile” (26). A ventidue anni dalla scomparsa del cosiddetto “testimone di un secolo” (27), tali celebrazioni
lasciano intravedere, ancor oggi, nuovi orizzonti di ricerca all’interno della sua vastissima produzione.
(1) Si vedano Sartoris 1934a, p. 4 e Fillìa 1934, p. 2.
(2) Abriani 1972, pp. 97-99.
(3) Sartoris 1930, pp. 9-13.
(4) Sartoris 1932a.
(5) Jaunin 1998, p. 47.
(6) Sartoris 1932b, pp. 341-345.
(7) Si veda Hilberseimer 1927, p. 27.
(8) Gubler, Abriani 1990, p. 60.
(9) Reichlin 1979, pp. 82-93.
(10) Graziano 2016, p. 835.
(11) Sartoris 1929a, pp. 9-13.
(12) Abriani, Gubler 1992, p. 21.
(13) Cattaneo 1993, p. 41.
(14) Sartoris, Angeletti, Carloni 1979, p. 29.
(15) Sartoris 1932a, p. 16.
(16) Sartoris 1929b, pp. 9-11.
(17) Ivi, p. 10.
(18) Matteoni 1992, p. 67.
(19) Matteoni 1988, p. 26.
(20) Archives de la construction moderne-École Polytechnique Fédérale
de Lausanne (Acm-EPFL), cart. AS.03.045, Cartolina di Victor
Bourgeois a Sartoris del 7 febbraio 1928.
(21) Paulucci 1928.
(22) “Alberto Sartoris … collabore à de nombreuse revues italiennes et étrangères. Il a organisé plusieurs expositions d’art moderne
suisse et italien. Son volume sur l’Urbanisme va paraître prochaine-
57
ment. Il est un des premiers représentant de l’architecture italienne
d’avant garde: sa croisade en faveur de la de la construction rationnelle date de 1920” (Paulucci 1928).
(23) Acm-EPFL, cart. AS.03.045, Lettera di Victor Bourgeois a
Sartoris dell’11 maggio 1928.
(24) Sartoris 1928, e Sartoris 1934b, p. 17.
(25) Calvino 1988.
(26) Sartoris 1982, p. 11.
(27) Dell’Oro 1995, p. 372.
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Abriani 1972
A. Abriani (a cura di), Alberto Sartoris: mezzo secolo di attività,
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Abriani, Gubler 1992
A. Abriani, J. Gubler (a cura di), Alberto Sartoris. Novanta gioielli, Milano 1992.
Calvino 1988
I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
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Cattaneo 1993
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Dell’Oro 1995
L. Dell’Oro, Alberto Sartoris. Testimone del secolo, in «Modulo»,
1995, 211, pp. 372-379.
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Graziano 2016
G. Graziano, Futurismo e razionalismo in alcuni disegni relativi
a edifici progettati a Torino a cavallo fra le due guerre del ‘900. Alberto Sartoris e la rappresentazione futurista dell’architettura, in M.
Bini, S. Bertocci (a cura di), Le ragioni del Disegno/The reasons of
Drawing, Atti del 38° Convegno internazionale dei docenti della
rappresentazione (Firenze, 15-17 settembre 2016), Roma 2016,
pp. 829-836.
Gubler, Abriani 1990
J. Gubler, A. Abriani, Alberto Sartoris: dall’autobiografia alla
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Hilberseimer 1927
L. Hilberseimer, Internationale neue Baukunst, Stoccarda 1927.
Jaunin 1998
F. Jaunin, Alberto Sartoris a traversé ce siècle sous le signe de la splendeur géométrique, in «24 Heures», 11 marzo 1998, p. 47.
Matteoni 1988
D. Matteoni, Il Belgio di fronte al Movimento Moderno, in «Rassegna di architettura», 1988, 34, pp. 25-34.
Matteoni 1992
D. Matteoni, Da “7 Arts” al “Gruppo 7” via Sartoris, in Abriani, Gubler 1992, pp. 67-73.
Paulucci 1928
E. Paulucci, L’Architecture Rationnelle Italienne, in «7 Arts»,
1928, 23.
Reichlin 1979
B. Reichlin, L’assonometria come progetto. Uno studio su Alberto
Sartoris, in «Lotus International», 1979, 22, pp. 82-93.
Sartoris 1928
A. Sartoris, Urbanesimo, in «La Fiera Letteraria», 18 novembre
1928.
Sartoris 1929a
A. Sartoris, Gli elementi della nuova architettura, in «La casa
bella», 1929a, 8, pp. 9-13.
Sartoris 1929b
A. Sartoris, Architettura standard, in «La casa bella», 1929b,
11, pp. 9-11.
Sartoris 1930
A. Sartoris, Sistema dell’urbanismo, in «La casa bella», 1930,
28, pp. 9-13.
Sartoris 1932a
A. Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna, Milano 1932a.
Sartoris 1932b
A. Sartoris, De l’urbanisme, in «Bulletin technique de la Suisse
romande», 24 dicembre 1932, pp. 341-345.
Sartoris 1934a
A. Sartoris, Sistemi architettonici, in «La Città Nuova», 1934,
3, p. 4.
Sartoris 1934b
A. Sartoris, De l’urbanisme international, in «L’Equerre», 1934,
p. 17.
Sartoris, Angeletti, Carloni 1979
A. Sartoris, P. Angeletti, L. Carloni, Alberto Sartoris, un
architetto razionalista, Roma 1979.
Sartoris 1982
A. Sartoris, L’art dans la cité, in «Bulletin technique de la Suisse romande», 1982, 55, p. 11.
ALBERTO SARTORIS AND THE DESIGN FOR THE UNIVERSITY OF TURIN’S MAIN CAMPUS
In the last twenty years the figure of Alberto Sartoris has been the subject of numerous celebrative publications: despite this critical fortune, catalogues of exhibitions and essays dedicated to him are mostly referred to specific episodes of his career and the aspect of his relationship with the urban planning has always
remained in the background, in spite of this very rich bibliographic production.
The aim of this research is to add a further piece to the complex artistic-theoretical activity of such a multifaceted person. His eclectic personality allowed him
to successfully apply in many disciplines, from painting to advertising art to furnishing architecture to urbanism, so as to be recognized as one of the most
important precursors of rational architecture. The famous axonometric representation of the project of the University City of Turin represents in fact one of the
first attempts made by Sartoris to give light to a new form of urban experimentation, where the principles of the so-called “new architecture” are brought to
light through a careful study of colour and proportions related to the architectural and urban composition.
58
L’UNIVERSITÀ COSTRUISCE LA CITTÀ.
PADOVA DAL “CAMPUS DIFFUSO” ALLA RETE URBANA
Michelangelo Savino
Città universitaria?
Padova incarna uno degli esempi più emblematici di
quell’organizzazione urbana in cui la presenza dell’università risulta determinante, come Bologna, ma anche
Trieste, Parma, Pisa, Pavia, Perugia, Messina, Lecce,
Siena e Pisa: ossia città medie in cui l’esistenza di uno
o più atenei acquista un ruolo decisivo nella creazione
di un’immagine identitaria – quasi un logo in cui la
città si rispecchia, seppure non sempre in modo armonico – e nell’influenza esercitata sulla struttura urbana, e
soprattutto nel condizionamento dell’economia e dello
sviluppo, della mobilità e del funzionamento.
Per quanto la realtà sociale ed economica padovana
possa dirsi in parte bilanciata dalla presenza di altre attività economiche e da altre istituzioni oltre quelle accademiche – diversamente da quanto accade a città in cui la
struttura universitaria monopolizza la vita urbana, come
a Urbino o Camerino – le forti inferenze che si registrano tra un sistema apparentemente chiuso e circoscritto
(l’università) e il contesto che lo circonda (la città) danno
al termine di ‘città universitaria’ un senso del tutto particolare, almeno come questa si declina nel nostro paese.
In Italia la ‘città universitaria’ ha assunto – per motivi
di carattere politico e istituzionale (e non ultimo anche
di ordine pubblico) – un ruolo specifico: non di rado la
specializzazione era un modo per allontanare il sapere
dalle capitali (nella Pavia degli Sforza come nella Pisa
dei Medici e non diversamente a Padova nella Serenissima Repubblica, per esempio) e i privilegi che questa
‘segregazione’ comportava solo in parte compensavano
le forme di controllo a cui erano soggette le attività accademiche (dalla Chiesa o dallo Stato, come la vicenda
galileiana riassume in modo efficace).
La specializzazione universitaria diventava pervasiva
della vita urbana, per quanto non totalizzante, anche perché sino all’avvento dell’università di massa la presenza
fisica dell’università è stata meno pregnante di quanto si
ritenga: occupando sedi temporanee in diverse aree o edifici delle città italiane: in nessuna di esse l’università ha
avuto – almeno fino al XVIII secolo – un luogo designato
allo studium. Successivamente la crescita dell’istituzione
ha spinto alla moltiplicazione di sedi nel tessuto urbano, prevalentemente in quello che con il tempo assumerà
configurazione e ruolo di ‘centro storico’: l’università è
esplosa nella realtà urbana lanciando frammenti e schegge in ogni direzione.
La polverizzazione nella struttura urbana delle attrezzature universitarie (le cui tipologie sono divenute sempre
più eterogenee) ha spinto a parlare di ‘campus diffuso’, per
quanto l’estrema introspezione dei recinti universitari e al
contempo, paradossalmente, la straordinaria intensità delle
interazioni tra città e università non permettono, nel caso
italiano, di poter utilizzare in modo pertinente questo termine (1). In Italia, ancor più dopo questi ultimi trent’anni di
crescita tumultuosa delle università, si rende necessario trovare una diversa ed alternativa definizione per descrivere una
realtà di intensi scambi, di reciproche opportunità ma anche
di conflitti, quando non di esistenze parallele non inferenti.
Padova è un buon esempio di questo rapporto controverso.
Padova, il campus diffuso
A Padova, fino al XIX secolo, l’Università ha rappresentato ‘una’ delle attività economiche culturali e sociali della città, non la preminente, nonostante l’indubbio
prestigio che questa le ha sempre assicurato. Compresa
solo all’interno di alcuni edifici specializzati (il Bo, l’Orto
dei Semplici, l’ex Ospedale di San Francesco Grande) (fig.
1), nel corso del secolo si espande nel tessuto urbano, con
l’acquisizione di nuovi edifici (per donazioni, con l’acquisto di diversi immobili) e attraverso la realizzazione di
edifici in aree non edificate, come l’area del Portello, dove
l’università urbanizza e rimodella una zona sostanzialmente sottoutilizzata della città murata (2). Il processo
prosegue per tutto il XX secolo, con una moltiplicazione
di sedi monumentali; con la progressiva dilatazione del
polo ospedaliero (che dal nucleo dell’Ospedale Giustinianeo scavalca la cinta muraria con la proliferazione di
padiglioni); con la specializzazione dell’area del Portello
(fig. 2) lungo il Piovego (3), per poi superare anche il corso d’acqua ed espandersi nell’area nord-orientale. In tal
modo, da punti specifici e circoscritti, il sistema universitario si diffonde nella città, che ‘passivamente’ viene investita dalla dispersione delle attività accademiche sempre
più articolate, non più solo amministrative, didattiche e
di ricerca, ma sempre più diversificate e complesse, per
assicurare servizi e funzioni (mense, studentati, biblioteche, sale studio e lettura, attrezzature sportive), progressivamente considerate complementari ed indispensabili
alla vita degli studenti (e non solo) (fig. 3).
59
Fig. 1 - Il Bo. Sede storica dell’Ateneo di Padova (foto
dell’A.).
Questa progressiva infiltrazione dell’università nel
tessuto urbano dà vita ad un ‘campus’ disarticolato e
composto in realtà da più recinti “inframmezzati” dalla
città e, originando un sistema che non ha alcuna coerenza interna o razionale organizzazione, cresce in assenza
di un progetto unitario (nei piani urbanistici come nei
piani di sviluppo edilizio dell’Ateneo, così come anche
i diversi progetti architettonici non sembrano cercare
una forma coerente e tipologie compatibili con le strut-
60
ture interne al recinto, né tantomeno con la città circostante), con relazioni intra-moenia spesso complicate
se non difficili, non di rado ai limiti dell’efficienza di
funzionamento. L’espansione segue prevalentemente
due linee di intervento:
la prima, gradualmente abbandonata per i suoi costi,
con la costruzione di nuove sedi (generalmente ipotizzate
come complete e autosufficienti, quasi sempre in contesti
periferici della città);
Fig. 2 - Il quartiere del Portello ai tempi del Covid19 (foto
dell’A.).
Fig. 3 - Spazi aperti all’interno
del Polo scientifico del Piovego
(foto dell’A.).
la seconda – erroneamente considerata meno dispendiosa e più strategica – attraverso il recupero di manufatti
dismessi, di differente tipologia, destinazione funzionale
originaria diversificata (impianti produttivi, manifatture
tabacchi, caserme, ecc.), ed epoca di costruzione e qualità
edilizia e architettonica differenti, in diversi punti della
città, dentro o fuori dal centro storico.
E non sempre queste sedi possono vantare architetture
di pregio, non solo quando sopraelevazioni, ampliamenti,
superfetazioni alterano significativamente le strutture edilizie originarie. ‘Campus diffuso’ sembra dunque un termine che tenta timidamente di nobilitare una situazione
di ordinario disordine che poco ha a che fare con la creazione
strategica di un organico sistema universitario e dove le
61
Fig. 4 - L’intervento di Gino
Valle nell’area del Piovego.
Casa dello studente e piazza pedonale del Dipartimento di Psicologia Generale (foto
dell’A.).
Fig. 5 - Il “Fiore” di Mario
Botta, sede del Dipartimento di
Biologia (foto dell’A.).
problematiche si acuiscono sia ‘dentro il recinto’ sia ‘fuori
dal recinto’: se dentro si continua a patire una generale
insufficienza e inadeguatezza degli spazi, la città attorno
manifesta sempre più il disagio prodotto dalla congestione di attività, dai contrasti determinati dalle destinazioni
funzionali non sempre compatibili, da un’accessibilità divenuta più faticosa, dai conflitti tra residenti e city users
(che siano studenti o quanti usano – se non vivono – la
città) la cui presenza è determinata dall’università.
62
Dentro il recinto
In una città di 235.000 abitanti, dunque, pesa un’istituzione di 2.100 componenti del personale docente
e ricercatore, 2.300 unità di tecnici ed amministrativi,
57.272 studenti iscritti (dei quali 5.664 immatricolati
nel 2016) che si distribuiscono in più poli prevalentemente nel centro storico e nelle aree immediatamente
adiacenti (4).
Un sistema che è andato crescendo nel corso del tempo
con logiche a volte unitarie, in molti casi per episodi e
frammenti spesso casuali, sia per l’acquisizione di sedi
sparse nel centro storico, sia con la creazione di poli ancora nella ‘città murata’ subito a ridosso (come gli istituti universitari oltre il Piovego che dagli anni ’70 ad
oggi hanno esaurito tutte le aree disponibili (da ultimo
con la realizzazione dei dipartimenti di Psicologia e della nuova Casa dello Studente su progetto di Gino Valle,
1995-2013) (fig. 4) o spingendosi oltre, con la creazione
del nuovo “Fiore di Botta” (dal nome dell’architetto a cui
si deve la sede del ‘campus’ biomedico, 2007-2014) (fig.
5) in questo modo indicando future possibili direttrici di
espansione.
Dopo un timido tentativo di uscire dalla città, con
la creazione durante gli anni ’70 del centro ricerche di
Voltabarozzo (1969-1980), il campus di Agripolis per la
Scuola di Agraria e Veterinaria (1970-1996) e i Laboratori Nazionali dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
(1968-2010) nel comune di Legnaro, a 10 km da Padova,
di recente, però, l’Università è “tornata” all’interno della
cinta muraria con l’acquisizione dell’ex Ospedale Geriatrico (2007), ristrutturato per accogliere il Polo umanistico del Beato Pellegrino (settore nord-ovest del centro
storico) e poi dell’ex caserma Piave (2017) che diverrà il
nuovo Polo di Scienze Sociali.
Si tratta di localizzazioni decise in base a convenienze
immobiliari e non sempre pianificate con ampio respiro
e visioni di medio-lungo periodo, come accade in quasi
tutti gli atenei italiani, dove mancano piani di sviluppo
organici o piuttosto una strategia di organizzazione e logistica dell’intero sistema coerente e meno estemporanea.
Un patrimonio edilizio eterogeneo, a cui si aggiungono musei, collezioni storiche, sedi di centri e fondazioni, che fanno dell’università anche uno dei principali
proprietari immobiliari della città, uno stake-holder e interlocutore politico di indubbio rilievo non solo per il
prestigio culturale, ma anche per il suo peso economico.
Ma questo patrimonio da risorsa si traduce anche in un
gravoso problema.
La varietà delle sedi – edifici di carattere storico-architettonico e monumentale di rilevante pregio, edifici
spesso di dubbia qualità edilizia degli anni ’50-’70, più
di recente caserme, ex edifici industriali, ex ospedali,
e altre costruzioni un tempo ad altro uso destinate, ristrutturate e recuperate ad ‘usi universitari’ – produce
oggi gravi difficoltà di adeguatezza alle funzioni a cui
vengono destinate (aule, laboratori e centri di ricerca,
biblioteche, uffici amministrativi, studioli per le diverse forme di personale che opera all’interno dell’università), soprattutto mancano dei requisiti di comfort e
di accessibilità anche alle persone con limitata capacità
motoria o sensoriale.
Prescrizioni vincolanti, prevalentemente dettate da
normative nazionali e regionali, quando non da nuove
indicazioni ministeriali (che più che essere utile guida
alla riorganizzazione delle sedi vengono utilizzati come
indicatori di qualità degli atenei e quindi come criterio dirimente i finanziamenti) rendono difficile e costoso
l’adeguamento delle sedi anche alle nuove disposizioni
in materia di sicurezza (antincendi, antisismica, ecc.) che
si sovrappongono agli ordinari interventi necessari di
manutenzione ordinaria e straordinaria. Non ultime le
indicazioni per la conversione dell’ateneo in ‘università
sostenibile’ (risparmio energetico, smaltimento dei rifiuti, mobilità, in cui l’Ateneo patavino si è impegnato con
l’adesione alla Rete delle Università Sostenibili – RUS
nel 2016).
Non solo le sedi monumentali (spesso vincolate), ma
anche il patrimonio realizzato negli anni ’40-’70 presentano oggi difficoltà tecnico-edilizie ed anche tecnologiche di adeguamento, che in molti casi, per gli elevati costi
che comportano, suggeriscono la conversione degli edifici
ad altre funzioni se non la loro dismissione, quando non
può sembrare strategica, piuttosto la loro alienazione, se
solo ci fosse un mercato immobiliare interessato a questo
patrimonio. Nella maggior parte dei casi, l’Ateneo – davanti alle difficoltà di intervento – tende a moltiplicare
le sedi e realizzare ex novo o individuare altri ‘contenitori’
in cui collocare le funzioni. L’emergenza spinge spesso ad
acquisire temporaneamente, in locazione sedi, che poi,
nonostante le spese ed i lavori sostenuti per il loro adeguamento (come la normativa impone), verranno lasciate.
Tutto accade nelle maglie di un bilancio che appaiono
sempre più strette.
La natura diffusa degli interventi, e le politiche immobiliari dettate dall’emergenza acuiscono, quindi, la condizione di disseminazione delle sedi, a cui si aggiungono
nuove esigenze legate all’‘università di massa’ o alla seconda e/o ‘terza missione’. Nel primo caso diventa necessario assicurare non solo aule ampie, ma anche spazi per
altre attività, che siano sale di studio o lettura o luoghi ricreativi e per altre attività culturali (anche a fronte di un
calo relativo degli iscritti); nel secondo, invece, diventa
strategico favorire nuove attività come spin-off o start-up,
attività di collaborazione pubblico-private e/o conto terzi
che chiedono altri e diversi spazi.
La risposta conseguente è l’individuazione e la realizzazione di strutture sempre più autonome e distinte,
aumentando la frammentazione, imponendo un maggior
numero di spostamenti tra sedi una o più volte nell’arco
della giornata nel ‘corpo vivo’ della città – e non all’interno del recinto –, che si intrecciano e si confondono
con i flussi urbani, condividendone congestione, limiti di
offerta del trasporto pubblico (numero di corse, frequenza, linee), difficoltà del ricorso al mezzo privato (condizionato dai limiti di accesso e di circolazione nel centro
storico, dalle difficoltà di parcheggio, ecc.), ritardi nella
realizzazione di reti per la mobilità alternativa e scarsità
dei nodi intermodali spesso non attrezzati.
63
Fig. 6 - Studenti nei pressi della Stazione ferroviaria di Padova (foto dell’A.).
La pianificazione urbanistica non aiuta e non contribuisce ad un’ottimizzazione del sistema. Se a Padova si
osservano i piani urbanistici dagli anni ’80 ad oggi (Variante per i Servizi e alle Norme, 1983 e successiva del
2007; Variante per il Centro Storico, 1992; PAT, 2014;
PI, 2017) quello che si rileva, più che una programmazione concertata e condivisa, è sostanzialmente un avvallo
a posteriori delle scelte dell’Ateneo. Lo dimostra il recente
Documento preliminare dell’ottobre 2017 predisposto dal
Comune di Padova per una variante al Piano degli Interventi con il quale si legittimano le operazioni urbanistiche di recupero e conversione dell’ex Caserma Piave
(a valle del protocollo di intesa tra Università di Padova
ed il Ministero delle Difesa siglato a giugno 2017) e si
riclassifica l’area del ‘Fiore di Botta’ come “zona universitaria” (a due anni dall’inaugurazione dell’edificio). La variante urbanistica, però, è ancora in corso di elaborazione.
Oltre il recinto
Anche oltre il recinto non sembrano mancare problematiche e in alcuni casi anche delle conflittualità.
Abbiamo già accennato ad un problema di flussi e di
mobilità nella città, non solo tra le varie sedi universitarie per l’efficienza del sistema, ma anche tra le sedi e
64
le altre zone della città e i principali nodi intermodali
(stazione ferroviaria, stazione delle autolinee, ecc.) (fig.
6): l’università con i suoi differenti utenti concorre al
progressivo sovraccarico del sistema del trasporto pubblico e della mobilità veicolare privata, solo in parte
compensata da un’elevata propensione all’uso della bicicletta. Colpiscono le dimensioni di questi flussi, polarizzati sulle sedi universitarie, ma capaci di generare
effetti su tutto il sistema urbano, rispetto ai quali il
mobility manager di Ateneo ha provato a stringere diversi accordi con l’Amministrazione comunale e con le
società di gestione del trasporto per individuare strategie in grado di risolvere il problema (agevolazione sui
prezzi dei titoli di viaggio, integrazioni tariffarie, sostegno all’intermodalità, ecc.). Si attende però che sia
il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile in corso di
elaborazione a definire nuove strategie di mobilità che
tengano in debito conto le relazioni ‘pericolose’ tra città
e università.
Non c’è modo di elencare le tante forme di connessioni
e interferenze tra città e università che si determinano a
Padova (ma frequenti in tutte le città universitarie di dimensione media del paese): al di là di numerose ricerche
che hanno tentato di metterle in luce, sono state evidenziate in alcuni dibattiti politici in corso a Padova, collegati soprattutto all’acquisizione dell’ex Caserma Piave da
parte dell’Università, in merito al quale sono state denunciate (sulla stampa locale e attraverso la costituzione
di comitati di cittadini) alcune forme di incompatibilità,
generalmente trascurate dalle strategie dell’Ateneo. Per
brevità bisogna annotare solo alcune di queste, come ad
esempio:
la profonda trasformazione della rete commerciale nelle ‘zone universitarie’, ossia la rete di attività commerciali che si crea attorno alle sedi accademiche, fenomeno
evidente e macroscopico che spesso comporta anche specializzazioni commerciali in alcune aree, con depauperamento della rete di dettaglio originaria ed una penalizzazione per le necessità quotidiane della popolazione
residente;
la competizione tra residenti, altri utenti o city users
e gli studenti per l’accesso al patrimonio residenziale in
affitto (già profondamente eroso dagli andamenti del
mercato immobiliare e dall’insorgente – anche a Padova
– fenomeno del turismo residenziale, gestito da grandi
operatori multinazionali e dalle platform economies). Un
problema di difficile rilevazione (pochi dati, pochi studi
mentre sono sicuramente più evidenti gli annunci esposti nelle bacheche universitarie o sui muri delle diverse
sedi a denunciare le dimensioni del fenomeno e il livello
della domanda) che davanti alle difficoltà di intervento
del settore pubblico, come dell’Ateneo (attraverso i soli
strumenti e le risorse per il diritto allo studio in progressivo calo), tende a creare gravi situazioni di disagio,
concorrenza ed incremento dei costi per gli studenti fuori
sede. A Padova, il posto letto costa in media al mese dai
300 ai 500 euro (in camera singola);
l’innalzamento dei valori immobiliari nelle ‘zone universitarie’, perché l’Università sembra promuovere processi di rigenerazione nelle aree in cui approda, ma anche
perché dirige l’attenzione di potenziali operatori immobiliari e acquirenti verso aree che spesso risultano se non
neglette certamente non appetibili per il mercato. È un
mondo ‘opaco’, di cui si percepisce – ma con difficoltà
si rileva – il fenomeno, evidente solo quando diventa alquanto complicato poter intervenire;
non ultimo, l’intolleranza (ai limiti del conflitto)
della popolazione residente nei confronti della presenza studentesca, per quanto molte volte risulti esito di
pregiudizi o di una sensibilità esasperata nei confronti dei processi di trasformazione in atto. Gli studenti
sono molto spesso temuti per il rumore, la sicurezza,
una diffusa illegalità e via discorrendo; non di rado la
popolazione studentesca è stata contestata per la competizione emersa negli usi e pratiche dello spazio pubblico e di qualche specifico ambito urbano. È difficile
cogliere quanto questi conflitti siano frutto di concrete
difficoltà quotidiane dei residenti e quanto di un immaginario collettivo che ha una visione non sempre positiva dello studente universitario o che non comprende
né il disagio né le forme di denuncia del disagio che
spesso si manifestano nello spazio urbano (la cittadinanza di Padova ricorda ancora traumi e paure delle
prime forme di contestazione studentesca e di rivolta armata negli anni ’70 in Italia), ma indubbiamente
queste ‘interferenze’ hanno un peso nella formulazione
delle politiche pubbliche urbane e soprattutto nella
formazione del consenso, per le quali gli studenti universitari non residenti (e quindi non elettori) assumono
scarsa rilevanza.
Prospettive
È evidente che questo sistema necessiti, almeno per
il futuro, di una svolta, che sappia in qualche modo
rimediare alle carenze del sistema universitario, ma
soprattutto sia in grado di valorizzare le relazioni con
la città, risolvendo alcuni conflitti (attraverso azioni
condivise con l’Amministrazione comunale e con gli altri
attori istituzionali che agiscono in città) e moltiplicare
i benefici che la presenza dell’università nella struttura
urbana produce. Un’università che riesca a moltiplicare le connessioni con il territorio e con il sistema economico locale può favorire una maggiore competitività
della città e uno sviluppo che a sua volta polarizzi flussi,
investimenti e risorse umane. Un’università funzionale
ed efficiente in una città attrattiva ed accogliente può
indurre gli studenti a trattenersi, divenendo non solo
nuovi residenti ma anche fattori determinanti di crescita
sociale ed economica della città. Un’università che riesca
ad integrarsi e ad integrare nella città le sue componenti,
contribuisce anche ad un maggior dinamismo sociale, ad
una vivacità culturale rendendo la città un cantiere creativo ed innovativo.
È per questo che in una fertile integrazione tra città
e università si può intravedere un fattore strategico per
il futuro, ed è forse in questo senso che va inteso oggi
il termine di “città universitaria” riferendolo a forme e
strutture di organizzazione e localizzazione delle funzioni
universitarie.
Per ottenere questo, si elencano qui solo alcune indicazioni dei possibili passi da compiere:
l’acquisizione da parte delle istituzioni di una consapevolezza del valore delle sinergie e quindi la convinzione
che per una (più o meno) armonica convivenza e compresenza, tra città ed università si debbano realmente perseguire forme di integrazione e di condivisione;
la necessità di formulare programmi di lungo termine che partendo da un’attenta analisi dei bisogni delle
sue diverse componenti (non solo durante il loro percorso
accademico, ma anche nel quotidiano ed al di fuori del
recinto universitario) possano fornire tutti i dati necessari ad una progettazione integrata delle soluzioni urbane
delle problematiche rilevate. Questo processo di programmazione può raggiungere un alto livello di efficacia
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solo attraverso la ricerca interdisciplinare, la cooperazione interna ed esterna;
la redazione di programmi (e piani, e progetti) di sviluppo a differente scala, multisettoriali ma coerenti tra
di loro e soprattutto coerenti ad un quadro di obiettivi
univoci condivisi che devono ispirare politiche ed azioni.
Questo complesso di progetti e piani deve risultare coerente con le scelte urbanistiche del Comune e deve potersi integrare con le politiche che cercano di indirizzare lo
sviluppo del territorio;
il maggior coinvolgimento possibile di tutte le componenti accademiche e cittadine in un processo di dibattito pubblico, destinato non solo ad informare ma anche
per definire un quadro quanto più esaustivo delle doman-
de sociali e dei bisogni per la formulazione condivisa di
soluzioni percorribili.
Un’agenda che tenga conto di queste priorità per tentare una nuova e diversa strategia di sviluppo rispetto al
passato (5) deve poter favorire lo sviluppo di “città universitarie” efficienti, funzionali, attrattive, ma soprattutto accoglienti, creative e quindi competitive.
(1) Martinelli 2012.
(2) Dal Piaz 1990; Alberton 2018.
(3) Savorra 2006; Giordano, Zaggia 2011.
(4) Savino 2018.
(5) Savino 2015.
Bibliografia
Alberton 2018
A.M. Alberton, L’università di Padova dal 1866 al 1922, Padova 2018.
Dal Piaz 1990
V. Dal Piaz, Il Cantiere Università, durante il rettorato di Carlo
Anti, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Padova 1990, pp. 241-285.
Giordano, Zaggia 2011
A. Giordano, S. Zaggia (a cura di), Il complesso d’Ingegneria di
Daniele Donghi, Padova 2011.
Martinelli 2012
N. Martinelli, Spazi della conoscenza. Università, città territori,
Bari 2012.
Savino 2015
M. Savino, Il ruolo dell’università nel processo di trasformazione sociale
dopo la crisi, in N. Martinelli, M. Savino (a cura di), Università/
Città. Condizioni in evoluzione, in «Territorio», 2015, 73, pp. 60-66.
Savino 2018
M. Savino, Centro storico e Università. Questioni e dinamiche inesplorate a Padova, in P. Pedrocco (a cura di), I centri storici del Veneto. Considerazioni sul passato, sul presente e sul futuro, Roma 2018, pp. 95-109.
Savorra 2006
M. Savorra, Scuole Politecniche e città degli studi: Daniele Donghi
e il caso di Padova, in G. Mazzi (a cura di), L’Università e la città. Il
ruolo di Padova e degli altri atenei nello sviluppo urbano, Bologna 2006,
pp. 175-189.
THE UNIVERSITY BUILDS THE CITY: PADUA’S CITY-WIDE CAMPUS AND URBAN NETWORK
On June 2017, the University of Padua and the Ministry of Defense signed the agreement for the assignation to the University of the former Piave Barracks
for converting it into a new “campus”.
It was the last act of the University of Padua reorganization strategy over the last few years, which through purchasing of existing (disused or abandoned)
areas or acquisition of new free surfaces will lead to a complete arrangement of the university localizations in the city. Furthermore, according to recent studies
held by the author, University determines changes of commuters and customers flows within the city, new activities and functions, economic and social revitalization, also triggering transformation of the real estate market (sensitive to the students demand).
66
IL PIANO DI LUIGI PICCINATO
PER IL NUOVO CENTRO UNIVERSITARIO DI CATANIA
Gemma Belli
Nel 1959 Luigi Piccinato (1899-1983) – uno degli
indiscussi padri dell’urbanistica italiana del Novecento
– riceve l’incarico per il piano del nuovo Centro universitario di Catania, da destinare a sede delle Facoltà scientifiche e del Policlinico (1).
Non è la prima volta che l’architetto di origini venete e
di formazione romana lavora nella città etnea (2). Infatti,
già nel 1926, giovanissimo laureato, era stato incaricato
del rifacimento del teatro-arena Pacini (3), e nel 1931
aveva partecipato, assieme ad Ignazio Guidi e a Giuseppe
Marletta, al concorso per il piano regolatore urbano, classificandosi secondo (4). Ma l’occasione del programma
per il nuovo Centro universitario segna per lui l’avvio di
un rapporto ultradecennale con Catania, durante il quale interviene anche nel disegno del quartiere Rotolo nel
1962, nel progetto di risanamento del rione San Berillo
nel 1969, e soprattutto nella redazione del piano regolatore generale a partire dal 1961 (5), oltre che nell’elaborazione del piano territoriale tra il 1963 e il 1971,
quest’ultimo con un team che annovera, tra gli altri, Leonardo Urbani ed Ernesto Dario Sanfilippo.
Analogamente a Napoli, a Padova e ovviamente a
Roma, Catania rappresenta dunque un luogo con cui
l’urbanista di Legnago instaura un legame privilegiato –
pur non alieno da conflitti – e nel rapporto con il quale è
possibile rileggere momenti culturali differenti e l’evoluzione del suo pensiero urbanistico.
Quando riceve l’incarico per il nuovo Centro universitario, Piccinato è un professionista affermato in Italia e
all’estero, e si è già occupato del problema della localizzazione delle cliniche universitarie nell’ambito del piano
di Padova; ha, inoltre, collaborato al progetto della Città
degli studi a Istanbul, come egli stesso rammenta a Cesare Sanfilippo (6); e – circostanza recentemente evidenziata da Sergio Zevi (7) – ha pure offerto il suo contributo
scientifico e culturale al piano della Città universitaria di
Tucumán, avviato nel 1947 sotto la guida di Jorge Vivanco, all’interno di un complessivo e ambizioso programma
di riorganizzazione e di ristrutturazione degli studi voluto dal rettore Horacio Descole.
La documentazione conservata presso l’Archivio Luigi Piccinato (8) mette in luce che i rapporti tra Cesare
Sanfilippo, Ordinario di Istituzioni di Diritto Romano
di origini palermitane, Rettore dell’ateneo catanese dal
1950 al 1974, e l’urbanista veneto iniziano a cavallo tra
il 1958 e il 1959, quando l’amministrazione universitaria chiede a Piccinato di intraprendere un’analisi del
contesto etneo, individuando le aree per le quali redigere
un piano urbanistico particolareggiato, capace di conferire un assetto nuovo e razionale agli istituti delle facoltà
scientifiche, e fornire una sede adeguata al costituendo
centro universitario clinico. In questa, come in numerose
altre occasioni, lo studio romano si avvale della collaborazione dell’insostituibile Vera Consoli.
Il 23 gennaio 1959 Piccinato, appena rientrato a
Roma dall’estero – probabilmente da Israele, dove si sta
occupando del piano urbanistico comunale di Eilat (9)
– ringrazia Sanfilippo per l’incarico “così delicato, impegnativo e colmo di interesse” (10), piena espressione
di fiducia nelle sue capacità. Nei fatti, a tale data il Consiglio di amministrazione dell’Università non ha ancora
autorizzato il Rettore a conferire l’incarico professionale
per l’“esecuzione di uno studio generale del piano edilizio” (11), cosa che però avviene di lì a poco (fig. 1). Il 2
febbraio del 1959, infatti, Sanfilippo informa Piccinato
di essere finalmente autorizzato ad attribuirgli il mandato per la sistemazione dell’area destinata all’attuazione
del programma, il quale deve necessariamente prevedere
futuri sviluppi per il complesso universitario. Il compito
comprende anche la supervisione sui progetti dei singoli
edifici, affidati a gruppi di professionisti locali.
Il 14 gennaio 1960 il Rettore comunica finalmente
all’architetto che l’Assessorato ai Lavori pubblici della
Regione Sicilia ha espresso parere favorevole in ordine
al piano urbanistico del nuovo complesso clinico-scientifico, e il 13 maggio 1960 convoca la riunione per illustrarne i criteri, e passare al conferimento degli incarichi
ai singoli progettisti.
Di fatto le attività per la realizzazione del plesso universitario sulla collina Santa Sofia, nell’area settentrionale
di Catania, erano già state avviate in precedenza. Come
testimonia, infatti, il carteggio presente negli archivi
della Sapienza (12), già al principio del 1958 Cesare Sanfilippo ha individuato nella città universitaria romana un
valido esempio di riferimento, soprattutto per quel che
concerne la concezione, giudicata organica e funzionale.
Di conseguenza, l’11 gennaio 1958 la Società Generale
Immobiliare, che all’epoca finanzia l’ISTICA (Istituto
immobiliare di Catania), e promuove pure l’Istituto di
edilizia economica e popolare di Catania-San Berillo (13),
contatta l’allora Rettore dell’ateneo romano Ugo Papi,
richiedendo le planimetrie di alcuni edifici della Sapienza
(e precisamente: Chimica, Farmacia, Anatomia, Medicina legale, Igiene, Patologia generale, Fisiologia e antro-
67
Fig. 1 - Luigi Piccinato, “Catania, nuova sede dell’Università”, planimetria, 1959 (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.00).
pologia, Anatomia patologica e chirurgica, Farmacologia
e chimica biologica, Chimica industriale e Impianti industriali chimici), con i relativi dati funzionali, dovendo
procedere su incarico di Sanfilippo alla redazione di un
programma di massima per la sistemazione degli istituti
universitari catanesi in un unico complesso. Il 15 marzo
1958, poi, è lo stesso giurista palermitano a comunicare
a Papi la sua volontà di predisporre un piano generale
di assetto edilizio “moderno” e “funzionale”, per la realizzazione di un unico centro in cui collocare gli istituti
scientifici dell’Ateneo siciliano, e a rendere noto di avere
conferito alla Società Generale Immobiliare tale incarico.
Quando Piccinato interviene, accoglie appieno le direttive di Sanfilippo, tanto riguardo all’impostazione
organica, rispettosa dei valori d’ambiente e paesistici,
quanto alla condotta dell’intero lavoro, da svolgere in
stretta collaborazione con il corpo accademico, al fine di
68
ottenere una completa rispondenza dell’opera alle reali
necessità dei singoli istituti universitari (14). E fonde tali
linee con alcuni princìpi cardine della sua immagine di
città specializzata funzionalmente (15).
Così, su un’area ampia 25 ettari, acquisita a prezzo agricolo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ubicata a
monte della costruenda circumvallazione nord, delimitata
a ovest dall’intersezione con il terminale settentrionale della via Etnea, e comprendente la collina di Santa Sofia, Piccinato concepisce una serie di padiglioni isolati disposti su
più file parallele, collegati da un doppio sistema di strade
a sedi distinte, nelle quali i flussi veicolari possano essere
separati da quelli pedonali. Nella parte più alta è collocato
il Policlinico; a monte della circumvallazione viene individuato l’ampio piazzale circondato dagli edifici di rappresentanza e dalle attrezzature comuni; alle spalle di questo
sono posti i corpi di fabbrica delle Facoltà scientifiche. Il
tutto, prevedendo la possibilità di ampliamento nel tempo. Definito l’assetto urbanistico, sono immediatamente
intraprese le opere di urbanizzazione, e predisposte le reti
idriche, elettriche, del gas e dei servizi tecnologici.
Il disegno iniziale è di lì a poco modificato: difatti, nel
1961 gli edifici destinati alle attrezzature comuni vengono collocati nell’area centrale, e nella parte alta dell’insediamento è anche ipotizzato l’Osservatorio astrofisico
(fig. 2). I diciotto padiglioni programmati vengono, così,
raggruppati in tre grosse aree: a valle, nella parte più meridionale, a ridosso di via Andrea Doria, trovano posto gli
Istituti scientifici; nella fascia mediana, la più larga, accessibile anche da via Passo Gravina, sono ubicati gli spazi
sociali e collettivi (mensa, casa dello studente, biblioteche
centralizzate, Aula Magna, impianti sportivi, teatro all’aperto); nella parte più settentrionale, infine, vengono col-
locati i padiglioni del Policlinico, con il Pronto Soccorso
e la Cappella (fig. 3). Inoltre, l’asse viario sud-nord, originariamente perimetrale, assume il ruolo di arteria dorsale.
Nel 1966 il progetto è sottoposto a un’ulteriore revisione, e stavolta Piccinato redige il nuovo piano in collaborazione con Francesco Vinciguerra. Il progetto esecutivo definitivo, composto da 25 tavole – ma non corredato
da computo metrico estimativo, essendo assunta l’incombenza dall’Ufficio tecnico dell’Ateneo – è pronto il
1° febbraio. Il comprensorio è esteso verso nord e verso
ovest, raggiungendo la dimensione di circa 70 ettari, e
l’ampliamento segue le direttive del piano regolatore generale, al quale Piccinato lavora negli stessi anni.
Nel mese di maggio la sistemazione degli Istituti di
Fisica, di Matematica, del Biennio di Ingegneria, può
considerarsi definitiva. E lo studio Piccinato controlla
Fig. 2 - Luigi Piccinato,
“Catania, nuova Città universitaria”, planimetria, 1961
(Archivio Luigi Piccinato,
ALP_01.02_208.01).
69
Fig. 3 - Luigi Piccinato,
nuovo Centro universitario
di Catania, foto del plastico (Archivio Luigi Piccinato,
ALP_01.02_208.01).
pure le prime realizzazioni quali le Cliniche, gli Istituti
di Patologia, Igiene, Microbiologia, Zoologia, l’Istituto
di Botanica, l’Aula magna dell’Istituto di Chimica, l’Istituto di Biologia-Fisiologia e Farmaceutica, l’Istituto
di Matematica, quello di Disegno, il blocco del Biennio
di Ingegneria, l’Istituto di Fisica, la Facoltà di Agraria, il
campo sportivo, oltre ad elementi come il corpo dell’ingresso principale con portineria, e la recinzione (figg. 4-6).
Inizialmente, nell’individuazione delle principali
linee-guida e nel coordinamento dei gruppi incaricati,
Piccinato viene anche affiancato da Ignazio Gardella. La
collaborazione, però, è di breve durata, molto probabilmente per l’indisponibilità di alcuni dei soggetti coinvolti ad assoggettarsi alle direttive del progettista mila-
70
nese, il quale, tuttavia, segna alcune tracce evidenti per
l’unificazione degli elementi architettonici da utilizzare
nella progettazione dei differenti edifici (16).
Nel dicembre 1969, poi, matura un’ulteriore novità: si
profila, infatti, la possibilità di ottenere la concessione dei
benefici previsti dalla legge di finanziamento delle opere
ospedaliere per la costruzione della fabbrica destinata alle
Cliniche, a patto di avere un progetto già redatto (17).
Dopo avere discusso dell’alternativa di avvalersi dell’Ufficio tecnico dell’Università, oppure di un professionista
designato dagli ordini professionali catanesi, o ancora di
un progettista di chiara fama, le autorità accademiche optano per la terza soluzione, coinvolgendo Pier Luigi Nervi. Così, alla vigilia dell’ultimo dell’anno 1969, Piccinato
scrive a Sanfilippo, rammaricandosi di non essere stato interpellato. Sottolinea che la soluzione più logica avrebbe
dovuto essere quella di “un concorso nazionale tra architetti: [cosa] che avrebbe risvegliato una eco di simpatia e
di interesse per l’Università” (18), ma soprattutto, in maniera tutt’altro che velata, critica l’ingegnere di Sondrio:
“Nervi è un mio amico e collaboratore: non è affatto
un architetto ma, piuttosto uno strutturalista, esperto e
creatore di strutture in c.a. Insieme (io come architetto e
Nervi come specialista in strutture) abbiamo collaborato
per l’attuale stazione di Napoli, progetto definitivo, per
la quale abbiamo vinto il concorso nazionale, ‘pari merito’. Vi sono oggi altri strutturalisti, forse più agguerriti:
Morandi, Cestelli, etc. Nervi non è certo uno specialista
di progettazioni ospedaliere: si varrà di un architetto del
suo studio e di qualche specialista del ramo, ma penso che
sarebbe bene che gli si desse dei limiti ‘urbanistici’ per
l’inserimento nel quadro generale” (19).
E in effetti è proprio il controllo del quadro generale,
ciò che preoccupa maggiormente Piccinato. Lo si evince
anche dalla corrispondenza con i differenti progettisti incaricati (20), con le imprese, con gli uffici tecnici; lo si
deduce dalle continue richieste di modifiche da lui avanzate anche per ricondurre il progetto nell’alveo delle linee
del piano regolatore. E nella direzione di una controllata
regia urbanistica, volgono pure le direttive architettoniche, impartite inizialmente in maniera unitaria, in una
visione complessiva riconducibile a una sorta di razio-
nalismo organico: il ricorso a volumetrie articolate ma
regolari, l’uso di materiali locali, o comunque armonizzati con essi, il modellamento delle fabbriche in funzione
della morfologia dei luoghi.
Concepito prima della legge n. 910 del 1969, che liberalizza gli accessi all’università, e della legge n. 766 del
1973, primo provvedimento organico italiano per l’edilizia universitaria, il progetto catanese vuole chiaramente
rispondere alle nuove esigenze logistiche legate all’incremento della popolazione studentesca, e alla pressante
richiesta di nuovi spazi da destinare a laboratori per la
ricerca, in un momento di consistente progresso tecnologico; e vuole ovviare alla perdita di identità legata alla
dispersione delle strutture deputate all’istruzione superiore nel tessuto urbano. Esso è pertanto ipotizzato sin dal
principio in un’area esterna alla città e, pur costituendo
un magnete di grande rilevanza, non aspira ad acquisire
intenzionalmente dimensioni territoriali per un ambito
regionale o sub-regionale: nasce nella città e continua a
essere attratto da essa, perché in essa trova le radici della
sua cultura, stabilendo contatti con la rete degli operatori
che costituiscono la sua effettiva committenza. E, per di
più, rappresenta uno di quei casi in cui la città promuove
gli interventi di edilizia universitaria ai margini del suo
stesso tessuto per estendere la rete dei servizi primari di
urbanizzazione e per valorizzare le aree periferiche.
Inoltre sembra riflettere appieno l’impostazione culturale del periodo, secondo la quale il problema degli edifici
Fig. 4 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania: istituti di zoologia e anatomia comparata, vista prospettica (Archivio Luigi
Piccinato, ALP_01.02_208.03.007).
71
Fig. 5 - Luigi Piccinato, nuovo
Centro universitario di Catania:
collegio maschile, planivolumetrico (Archivio Luigi Piccinato,
ALP_01.02_208.06.009).
universitari può essere risolto nel quadro cittadino solo se
affrontato come un tutto, come un settore distinto della città, un “quartiere autosufficiente”, connotato da una chiara
distinzione dei traffici di servizio interno (meccanizzati e
pedonali) da quelli esterni al complesso, dotato di un elevato grado di flessibilità nello schema planimetrico, nella
forma e nella disposizione degli impianti, tale da consentirne futuri ampliamenti. Tuttavia, la grande facilità con cui
Piccinato trasferisce elementi costitutivi del piano da un
contesto all’altro, fa sì che questo quartiere autosufficiente
appaia simile ad altri da lui progettati altrove, oltre che formalmente vicino alle immagini idilliache dell’urbanistica
scandinava e inglese, diffuse sulle pagine delle riviste coeve.
72
Rispetto a realizzazioni più o meno contemporanee,
come quelle di Bari o di Urbino, il progetto di Piccinato assume probabilmente una valenza intermedia: non è
un luogo della città, fisicamente separato da essa, come
nel caso pugliese, e non raggiunge l’osmosi pienamente
attuata nel capoluogo marchigiano, dove la città si identifica con l’università, grazie all’assunzione della topografia nell’ordine urbano degli interventi, e in virtù dello
speciale legame instauratosi tra il progettista e i luoghi.
Ciononostante, e malgrado le notevoli modificazioni di
indirizzo intervenute nel tempo, il piano di sistemazione
del nuovo Centro universitario clinico-scientifico resta la
più importante previsione attuata da Piccinato a Catania.
Fig. 6 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania: clinica neuropsichiatrica, vista prospettica (Archivio Luigi Piccinato,
ALP_01.02_208.03).
(1) Circa il progetto e la realizzazione della città universitaria di
Catania si veda in particolare Barbera 1992.
(2) La bibliografia su Luigi Piccinato è ricca di titoli; in questa
sede si citano solo: De Sessa 1985; Merlini 1992; Malusardi
1993; Belli, Maglio 2015.
(3) In merito ai progetti di Luigi Piccinato per architetture teatrali, e al rifacimento del teatro-arena Pacini, si rimanda a Savorra
2015.
(4) Il concorso è bandito nel 1931, ma i disegni conservati
nell’Archivio Luigi Piccinato (ALP) sono datati 1932.
(5) Il piano sarà adottato nel 1964 e approvato nel 1969, ma alla
fine non recherà la firma di Piccinato, non condividendo egli alcune
delle modifiche apportate dall’amministrazione comunale.
(6) Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 23 gennaio 1959 (ALP_01.091.02).
(7) Zevi 2015, pp. 38-43.
(8) I disegni dei progetti relativi al nuovo Centro Universitario di
Catania sono conservati presso l’Archivio Luigi Piccinato, depositato nel Dipartimento di Pianificazione Design Tecnologia dell’Architettura, Sapienza Università di Roma, e sono individuati dalle
seguenti segnature: ALP_01.02_208.00, ALP_01.02_208.01,
ALP_01.02_208.02, ALP_01.02_208.03, ALP_01.02_208.04,
ALP_01.02_208.05, ALP_01.02_208.06, ALP_01.02_208.07,
ALP_01.02_208.08, ALP_01.02_208.09, ALP_01.02_208.10,
ALP_01.02_208.11, ALP_01.02_208.12, ALP_01.02_208.13,
ALP_01.02_208.14, ALP_01.02_208.15, ALP_01.02_208.16.
La documentazione custodita è invece individuata dalla seguente
segnatura: ALP_01.091.02. La consultazione dei disegni e dei
documenti è stata resa possibile dalla rara disponibilità del suo
direttore, il professore Sergio Zevi.
(9) Piano urbanistico comunale di Eilat (Israele), 1959
(ALP_01.02_202).
(11) Lettera di Cesare Sanfilippo a Luigi Piccinato, Catania 26
gennaio 1959 (ALP_01.091.02).
(12) Il carteggio, non ancora inventariato nel novembre 2017, mi
è stato cortesemente segnalato e messo a disposizione dal professore
Bartolomeo Azzaro della Sapienza Università di Roma, in occasione
del convegno Le Città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma.
(13) Nel 1946 l’Immobiliare aveva impostato una concreta attività edilizia nelle città di Milano, Genova, Pisa, Napoli, Frascati,
oltre che a Roma, giungendo, alla metà degli anni Settanta, ad
operare in tutta Italia attraverso i suoi uffici distaccati di Milano,
Torino, Genova, Trieste, Padova, Bologna, Modena, Ravenna,
Firenze, Perugia, Napoli, Bari, Palermo e Catania. Qui, nel 1952,
erano già attivi quindici istituti Ieep (Istituti edilizia economica e
popolare), di cui uno a Catania-San Berillo, promossi dalla società
per realizzare alloggi per i dipendenti degli enti soci. Per l’attività
della SGI si veda in particolare Bonomo 2006.
(14) Cfr. Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 23
gennaio 1959 (ALP_01.091.02).
(15) Sino alla fine degli anni Cinquanta, tranne sporadiche eccezioni, la manualistica tecnica urbanistica riserva scarsa attenzione al
disegno dei luoghi deputati all’istruzione pubblica. Pertanto, quando Piccinato si accinge al progetto del nuovo Centro universitario
catanese le indicazioni più approfondite sono fornite da Pasquale
Carbonara nel tomo II del volume III di Architettura pratica, pubblicato nel 1958, nel quale tra gli esempi emblematici è citata anche
la città universitaria di Tucumán, ben nota all’architetto-urbanista.
(16) Degli studi condotti da Gardella per uniformare il linguaggio architettonico resta una traccia nei materiali impiegati
73
nelle prime realizzazioni, come i rivestimenti esterni in tesserine
maiolicate rosso mattone, o i paramenti dei basamenti in conci
squadrati di pietrame lavico, nonché in taluni elementi strutturali in calcestruzzo faccia a vista. A Gardella subentrerà Daniele
Calabi, il quale definirà in maniera più precisa i fabbisogni del
Policlinico, preoccupandosi di organizzare le varie Cliniche in un
sistema omogeneo.
(17) Cfr. lettera di Cesare Sanfilippo a Luigi Piccinato, Catania
22 dicembre 1969 (ALP_01.091.02).
(18) Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 30
dicembre 1969 (ALP_01.091.02).
(20) Si tratta di quattro gruppi di professionisti, tra i più
affermati a livello locale a quel tempo: Fiducia, Platania e
Spampinato (affiancati da Vera Consoli) per gli Istituti chimici;
Marletta, Amantia e D’Agata per gli Istituti farmacologici;
Adelasio, Ficara e Gibiino per la Clinica pediatrica; Leone e
Fichera per la Clinica neuropsichiatrica; cfr. la corrispondenza
in ALP_01.091.02.
Bibliografia
Barbera 1992
S. Barbera, Edilizia universitaria a Catania: la cittadella di
S. Sofia, Catania 1992.
Belli, Maglio 2015
G. Belli, A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (1899-1983).
Architetto e urbanista, Roma 2015.
Bonomo 2006
B. Bonomo, Grande impresa e sviluppo urbano: l’attività della
Società generale immobiliare a Roma nel secondo dopoguerra, «Storia
urbana», XXXI, 2006, 112, pp. 167-195.
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C. De Sessa, Luigi Piccinato architetto, Bari 1985.
Malusardi 1993
F. Malusardi (a cura di), Luigi Piccinato e l’urbanistica moderna,
Roma 1993.
Merlini 1992
C. Merlini, Luigi Piccinato. Una professione per la città e la società,
in P. Di Biagi e P. Gabellini (a cura di), Urbanisti italiani: Piccinato, Marconi, Samonà, Quaroni, De Carlo, Astengo, Campos Venuti,
Roma-Bari 1992, pp. 25-95.
Savorra 2015
M. Savorra, Luigi Piccinato e “la nuova architettura teatrale in
Italia”, in G. Belli e A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (18991983). Architetto e urbanista, Roma 2015, pp. 107-119.
Zevi 2015
S. Zevi, L’esperienza urbanistica di Luigi Piccinato in Argentina,
in G. Belli, A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (1899-1983).
Architetto e urbanista, Roma 2015, pp. 37-52.
LUIGI PICCINATO’S DESIGN FOR THE UNIVERSITY OF CATANIA’S NEW MAIN CAMPUS
In 1959 Luigi Piccinato (1899-1983) received the project assignment for the plan of Catania’s new University Centre. It isn’t the first time that the
architect-urbanist, from Venetian origins and Roman training, works in the city of Etna. In fact, in 1926, as very young graduate, he got the task of rebuilding the Pacini theater-arena, and in 1932 he participated in the competition for the city’s urban planning. But the circumstance of the New University
Centre marks for Piccinato the start of a more than ten-year relationship with the City, which also includes the complicated drafting of the Municipal town
planning (1961-69).
Consistently with the local dynamics of urban growth and looking at the model of Anglo-Saxon campuses and self-sufficient Scandinavian neighborhoods,
with the New University Centre Piccinato intends to define a territorial magnet of great importance.
This article describes some fundamental stages of this project, examining the documents contained in the Luigi Piccinato’s Archive, which has recently been
ordered and made completely usable in its great wealth.
74
LA CITTADELLA UNIVERSITARIA DI REGGIO CALABRIA.
PROGETTO E REALIZZAZIONE.
Francesca Martorano
Il libero Istituto Universitario di Architettura di
Reggio Calabria, con ottantatré studenti, avviava i corsi
il 5 dicembre del 1967 (1). Non fu una procedura scontata né improvvisa: anni erano intercorsi tra dibattiti,
anche infuocati, e disegni di legge presentati da varie
forze politiche, per colmare un vuoto, l’assenza di una
Università in Calabria, e tentare di porre un freno alla
continua emigrazione intellettuale (2). La dislocazione
delle sedi, il numero e il tipo di Facoltà costituivano
il centro della discussione e se, con più rapidità, nello stesso 1968 fu fondata a Cosenza l’Università “della
Calabria”, per Reggio il riconoscimento richiese ancora
qualche anno.
La scelta di Architettura, quale facoltà fondante, non
fu immediata: si parlò dapprima di Agraria, di un Centro universitario linguistico, di un Istituto superiore
di tecnologia, ma prevalse Architettura. L’incremento
progressivo degli studenti, la crescita del corpo docente
e il convinto supporto delle forze politiche condusse a
breve, nel 1970, alla statizzazione dello I.U.S.A.RC (3).
Nel 1974 poi, il 31 ottobre, con decreto presidenziale
ad Architettura fu affiancato anche il corso di Laurea in
Urbanistica (4). Occorsero ancora otto anni affinché nel
1982, con legge del Parlamento italiano, lo I.U.S.A.RC
si trasformasse in Ateneo, con quattro nuove facoltà che
si aggiunsero all’originaria ma dislocate su due sedi. Si
trattava di Agraria e Ingegneria, anch’esse site a Reggio, mentre per Giurisprudenza e Medicina e Chirurgia
si scelse Catanzaro (5).
Ho accennato brevemente alla storia fondante del
piccolo Ateneo reggino perché ciò, come è facile intuire,
ha riflessi sul progetto e sulla sua realizzazione, e anzitutto sulla scelta delle aree su cui dovevano insediarsi i
complessi universitari, perché si desiderava abbandonare la diffusa e puntuale presenza nei centri urbani che
riutilizzava edifici preesistenti, ancorché ristrutturati
per adeguarli alle esigenze didattiche, amministrative e
della ricerca (6). L’ambizione era di realizzare interventi
di rilevante impatto urbano, ridisegnando ampi settori
territoriali ai margini degli abitati preesistenti.
Mi soffermerò sulla sola cittadella di Reggio Calabria,
tracciandone l’iter progettuale e realizzativo, perché dal
1998 Catanzaro fu trasformata in Università autonoma
assumendo il nome “Magna Grecia” (7). Ritorniamo
pertanto indietro negli anni e alla scelta insediativa del
campus. Le prime proposte erano indirizzate verso aree
extraurbane: i piani di Arghillà, i piani di Sambatello
e quelli di S. Giovanni (8) ed anche il PRG della città,
approvato nel 1970, prevedeva la destinazione del campus ad Arghillà, vasto pianoro panoramico a 12 Km dal
centro urbano (9). Tale designazione non trovò consenso
e nel 1980 l’Amministrazione comunale propose per
la “cittadella universitaria” Feo di Vito (10), un’area
periferica a nord della città storica relativamente prossima ad una infrastruttura cittadina primaria, il porto, che garantisce specialmente gli spostamenti veloci
(aliscafi) con Messina ed il suo territorio. La variante al
Piano fu approvata e 273.000 m² da destinare ad “aree
per attrezzature scolastiche di grado superiore” furono
perimetrati sui pendii collinari lungo il torrente Annunziata.
L’area è non facile per una orografia accidentata - vi
sono presenti diverse collinette che segnano il territorio
– e per di più è suddivisa in due settori da una strada a
scorrimento veloce, la circonvallazione della città, che
collega l’autostrada tirrenica con la Statale 106 jonica.
A fronte di questi ostacoli, che richiedevano un complesso rimodellamento del terreno, l’area gode di una
grande potenzialità paesaggistica, per la possibilità di
apprezzare ampie visuali sullo Stretto, tanto che nel
lontano passato, a fine Cinquecento, fu proposta dall’ingegnere militare Gabrio Serbelloni come sito ottimale
per ricostruire una città più facilmente difendibile dagli
attacchi turchi (11).
Il primo schizzo di progetto (1982) di Antonio Quistelli, direttore dello I.U.S.A., è importante soprattutto perché contiene la scelta della collocazione topografica delle tre nuove facoltà, scelta che sarà mantenuta
immutata in tutte le successive varianti (fig. 1) (12).
Nell’area contigua al centro storico, alla fine del tracciato del piano De Nava del 1908, venne collocata la
facoltà di Architettura, al di là della circonvallazione
Ingegneria ed infine, a sinistra e in posizione dominante, Agraria. I tre edifici sono in realtà delle icone,
presenze puntuali che segnano il territorio in modo indifferenziato, che richiamano l’esperienza del Corviale
(13). Anche in disegni successivi, del 1982-83, permane la stessa indifferenziazione iconica, ma con un
incremento numerico degli edifici annessi ai tre corpi
principali. Maggiore riflessione è tuttavia rivolta alla
viabilità di accesso e di collegamento tra i plessi, ai percorsi interni e tra le strutture, e l’insieme del campus è
75
Fig. 1 - Primo studio urbanistico per la facoltà di Architettura, 1982 (da QUISTELLI
1994, p. 12).
proiettato sulla base cartografica reale (fig. 2). Occorre
attendere altri quatto anni, e giungere al 1987-88, con
il piano particolareggiato per l’insediamento della CitFig. 2 - Progetto della sede dell’Istituto a Feo di Vito, 1982-1983.
76
tadella, per avvicinarci a un’impostazione di insieme
che delinei i tre complessi principali in modo non più
indifferenziato e aderenti alla reale situazione orogra-
Fig. 3 - Studio preliminare per l’insediamento della Cittadella a Feo di Vito, 1988 (da BUSCA, BALBO, VENDITTELLI 1989, p. 30).
fica (14) (fig. 3). Ognuno di essi appare articolato in
più corpi con planimetrie dissimili tra loro, destinati
alla didattica, ai dipartimenti e ai laboratori. I singoli
progetti esecutivi non rispecchiano totalmente quanto
qui previsto, né in relazione alle forme né alle volumetrie, anche se per ciascuna facoltà persiste un elemento
Fig. 4 - La Cittadella, gli edifici realizzati e i percorsi di collegamento (elab. dell’A.)
77
Fig. 5 - Veduta aerea della struttura per la didattica di Architettura, con in primo piano gli edifici dei dipartimenti e le torri/uffici. A destra
la costruzione plurifunzionale, che ospita Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane (foto 2016).
chiave: per Architettura l’edificio a pianta quadrata con
volume cilindrico, per Ingegneria l’edificio “ponte” o
“diga” che chiude la valletta del Borrace, per Agraria la
struttura a tenaglia sulla collina più emergente, architetture tutte destinate alla didattica e forse per questo
più rapidamente risolte.
Per la prima volta nel progetto del campus è inserito il “Crescent”, amplissima esedra di appoggio alla
viabilità di collegamento e aperta sul torrente Annunziata, di cui si prevedeva il proseguimento della copertura per prolungare il tracciato viario verso la collina. Il
“Crescent” a gradoni avrebbe potuto accogliere attività
comuni e per gli studenti, e di relazione con l’ambiente cittadino, ricucendo la frammentarietà dei tre nuclei imposta dall’orografia. Questa architettura non fu
costruita neanche parzialmente e ritengo sia stato un
grave danno, perché la cittadella realizzata soffre della
mancanza di percezione unitaria (fig. 4).
I progetti esecutivi, assegnati a gruppi di docenti delle facoltà di Architettura e Ingegneria, furono realizzati
con stralci funzionali interconnessi ma eseguibili indipendentemente. Il complesso di edifici che costituisce
la facoltà di architettura fu il primo ad essere avviato e
si compone di diverse parti, edificate in differenti fasi
78
(15). Il corpo principale, realizzato per primo, si basa
su un’idea di Antonio Quistelli, sviluppata poi in fase
esecutiva dall’ing. Cadermatori, progettista per l’impresa Italposte vincitrice dell’appalto (16). Un volume cilindrico per le attività comuni, biblioteca, aula magna,
atelier, emergente e visibile dall’esterno nella sola parte
sommitale, è contenuto in un parallelepipedo a quattro
ali, da cui lo separa un cortile interno a due livelli connessi da una scalinata. Il volume esterno contiene gli ambienti destinati alla didattica disposti lungo il perimetro
di ogni livello. I corpi scala per l’accesso ai tre livelli
sono concepiti come snodi verticali, con un particolare rilievo posto a quello accanto l’ingresso principale,
contenuto in un cilindro. L’illuminazione naturale della
parte perimetrale del complesso è garantita da pannelli
vetrati sui prospetti esterni e da una serie di finestre a
nastro, che affacciano sul cortile centrale a due livelli. La
realizzazione dell’edificio si concluse nel 1993 e l’anno
successivo era in uso per l’attività didattica e amministrativa (fig. 5).
La costruzione dei dipartimenti, avviata nel 1994, si
discosta dai primi schizzi di progetto di Antonio Quistelli (17). Questi, alla fine degli anni Ottanta (198788), aveva previsto blocchi quadrati che poggiavano su
Fig. 6 - La Cittadella in rapporto al tessuto urbano. In primo piano Architettura e Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane, a seguire, verso
l’alto, l’edificio “ponte” di Ingegneria, infine Agraria (foto 2016).
una piastra comune, collegati tra loro da passerelle sospese e connesse ad un edificio di testata a forma di U,
posto in direzione dello Stretto (18). L’elemento importante, e di cui non si tenne conto in fase di progettazione
finale, era il mantenimento di una quota di elevazione
sommitale più bassa rispetto all’edificio della didattica,
in modo da non ostacolare la visibilità dello Stretto dalle sue terrazze. Purtroppo non si progettò neppure una
soluzione paesaggisticamente più consona e integrata,
come poteva rivelarsi uno schema a gradoni, che adattandosi al pendio collinare avrebbe consentito di godere sia
dello straordinario paesaggio che di migliori condizioni
termiche per la ventilazione naturale. Fu invece progettato un modello a pettine, realizzando quattro corpi di
fabbrica allungati (chiamati colloquialmente “stecche”),
che terminano con altrettante torri più elevate a pianta
quadrangolare (19). Nel 2006 si concluse poi, dopo un
decennio, la costruzione del grande edificio parallelepipedo posto a chiusura verso meridione dell’area dipartimentale, che oggi ospita il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane. Già previsto negli
schizzi di progetto di Antonio Quistelli venne confermato nel progetto esecutivo (20).
Il complesso della Facoltà di Ingegneria si articola
oggi su una superficie di 23.000 m², con tre corpi di
fabbrica che si collocano fra le “pieghe” orografiche del
sito. Il corpo principale è posto trasversalmente alla
direttrice del torrente Borrace, quasi alludendo ad una
“struttura-ponte” o “diga” di matrice lineare, scandito da bucature seriali lungo i prospetti e da un grande
portale d’ingresso (21). Questo primo corpo, in cui sono
allocati i laboratori, alcune aule, gli uffici amministrativi, si pone in contro-asse rispetto al percorso di accesso
e di distribuzione principale: la struttura “lineare” ha
le estremità innestate direttamente sulle pareti scoscese
delle colline, mostrando così due soli prospetti longitudinali. Subito dietro, e a quota leggermente più elevata,
è dislocato il volume semicilindrico destinato ad Aula
Magna e Biblioteca, che si distingue per la sua compattezza esaltata dal rivestimento in blocchi di pietra.
Due serie di finestrelle quadrate in alto e una finestra a
nastro sotto il solaio di copertura segnano la “chiusura”
del volume, mentre il grande portale d’accesso arcuato è
a tutt’altezza. Nella parete posteriore, rivolta a sud, alla
grande finestra sagomata si accompagna un singolare
elemento piramidale/cuspidato in vetro che è in sostanza un lucernario per il piano sottostante seminterrato.
Un terzo edificio, posto sul declivio della collina, secondo un andamento ortogonale al primo, è composto
da sei corpi cubici (aule e laboratori) legati da un sottile
79
corpo arretrato (corridoio) (22). La forte pendenza del
sito è mediata da terrazzamenti collegati da rampe e
scale.
Della Facoltà di Agraria, il cui progetto originario
prevedeva la costruzione di tre corpi di fabbrica funzionali ad altrettante attività: didattica e servizi generali,
dipartimenti e laboratori di ricerca, ad oggi risulta realizzato solo l’edificio principale che, posto sul punto
più alto della contrada Feo di Vito, domina lo Stretto
(23). Questo organismo, la cui pianta richiama la forma di un granchio, si sviluppa intorno ad una piazza
interna in leggera pendenza, tale da superare un dislivello di circa 4 m e sotto la quale doveva sorgere
l’aula magna ipogea, oggi non realizzata. Ha un aspetto
compatto e massiccio, con un impianto assiale rigido,
evidenziato nel fronte principale dal grande vano d’ingresso affiancato da torri semicircolari. I prospetti laterali si mostrano più articolati per la voluta proiezione
verso l’esterno dei corpi aula. La scelta formale delle
bucature, che richiamano le finestre “termali”, l’uso di
marcapiani sagomati, di cornicioni mistilinei e fortemente aggettanti, e di timpani alludono alla tradizione
classica romana. Si articola su quattro livelli, di cui il
primo, interrato, accoglie i laboratori. Sui restanti tre
livelli, lungo le ali orientate verso la collina, si snodano
le aule e gli ambienti funzionali alla didattica, mentre
nel corpo centrale trovano posto le sale di rappresentanza e di servizio (direzione del dipartimento e segreteria), e infine, nelle testate delle ali, i servizi igienici.
Un’elaborata struttura di copertura in acciaio dà agli
spazi interni un forte effetto verticale, accentuato dai
lucernari laterali. Grande attenzione è stata posta poi
nell’uso dei materiali di rivestimento, non solo per ottenere particolari effetti estetici ma anche per contribuire ad un buon microclima interno (24).
In conclusione la Cittadella universitaria di Reggio,
un cantiere progressivo dalla realizzazione ancora non
interamente terminata (25), costituisce una forte presenza architettonica che si impone sul tessuto urbano
circostante (fig. 6). Si tratta di edifici a diversa connotazione architettonica e spaziale: la candida essenzialità
del plesso Architettura si discosta dalle scelte formali
di Ingegneria, ma soprattutto è in evidente contrasto
con i volumi e le superfici di Agraria, che adottano un
linguaggio maggiormente legato alla tradizione. Certamente ciò dipende dalle scelte dei gruppi di progettazione, che hanno lavorato in autonomia pur nel rispetto
del piano insediativo generale.
È stata accantonata purtroppo, come già detto, l’idea
del “Crescent” plurifunzionale, che avrebbe costituito
un forte elemento di connessione, poi sostituito da volumi singoli (quattro parallelepipedi e un cilindro, peraltro ancora in fase di costruzione) tanto che la spiccata
individualità dei tre nuclei, quasi blocchi autonomi, ha
tuttora elementi irrisolti.
80
Il naturale dislivello del terreno su cui insiste ha imposto differenti livelli di quota per i fabbricati che ospita e che si trovano ad essere più o meno evidenti nella
percezione visiva dalla città. L’emergenza di Architettura e Agraria al colmo delle collinette, contrasta con
la soluzione “ponte/diga” di Ingegneria, che nasconde
totalmente le architetture retrostanti. Questa “cittadella”, fortemente dilatata negli spazi e frammentaria nelle
componenti, potrà essere ricompattata - ritengo - con
un adeguato sistema di percorsi, sia carrabili che pedonali, elementi connettivi per tutta l’area alle diverse
quote e con diverse gerarchie. Un adeguato progetto
botanico con il recupero delle specie esistenti e nuove
piantumazioni, in parte già avviato, potrà trasformare le
estese aree non edificate in un parco urbano di notevole
valenza paesaggistica, fruibile a diverse scale e da diversi utenti. La serie di terrazzi, in posizione soprelevata
rispetto alla parte settentrionale della città, lo dotano
infatti di una eccezionale panoramicità sullo Stretto. È
con l’auspicio del completamento a verde del campus,
fruibile con percorsi pedonali anche da parte dei cittadini, che la cittadella potrà maggiormente integrarsi con
il tessuto urbano, costituendone un polo di riferimento
pienamente vissuto in tutte le sue componenti e non
solo culturali.
(1) Già nell’anno accademico successivo 1968/69 le matricole
erano cresciute, per un totale di 223 iscritti ai primi due anni; cfr.
Laganà 2018, pp. 76, 83-84.
(2) Per un’ampia disanima degli avvenimenti, corredata da apparati documentali, cfr. ivi, pp. 13-72.
(3) La statizzazione avvenne con D.P.R., on. Giuseppe Saragat,
n. 750 del 14 febbraio 1970, pubblicato in G.U. n. 274 del
28 ottobre 1970.
(4) D.P.R. n. 861 del 31 ottobre 1974, pubblicato in G.U. n. 58
del 1 marzo 1975.
(5) L. 14 agosto 1982, n. 590, pubblicata in G.U. n. 231 del 23
agosto 1982.
(6) Il progetto del Centro Audiovisivo per Architettura risale
agli anni 1981-83, mentre quello della nuova Biblioteca è degli
anni 1986-88. Contemporaneamente si ristrutturava la sede di
Facoltà (1987-89), in attesa della realizzazione delle nuove strutture a Feo di Vito; cfr. Valeriani 1989, pp. 6-11; Valeriani
1999, p. 206.
(7) D.M. 29 dicembre 1997, n. 1523 - Istituzione di nuove università, in G.U. 29 dicembre 1997.
(8) Laganà 2018, pp. 148-150.
(9) Il Piano regolatore, alla cui stesura si lavorava negli anni
1968-70, era stato elaborato dallo studio Quaroni – Quistelli.
Ludovico Quaroni fu parte attiva nella strutturazione dello
I.U.S.A. come presidente del Comitato Tecnico, così come lo
stesso Antonio Quistelli, che a partire dal 1976 rivestì la carica di
Direttore, poi Rettore sino al 1989. Il Piano regolatore demandava ai piani particolareggiati, strumenti urbanistici intermedi,
tutte le scelte architettoniche pertinenti i singoli comparti e
identiche procedure furono applicate per l’Università.
(10) Cervellini 1989, p. 27-28.
(11) Martorano 2002, pp. 394-398.
(12) Quistelli 1994, p. 12.
(13) Con particolare riferimento al centro servizi. Per il progetto
del Corviale si rimanda a Roma: le periferie 1978, pp. 36-39; Tafuri
1981 pp. 22-26.
(14) Il piano particolareggiato fu redatto da Pier Paolo Balbo,
Alessandro Busca (coord.), Manlio Vendittelli e Francesco Cervellini:
Busca, Balbo, Vendittelli 1989, pp. 30-34.
(15) Furono edificati 11.000 m² e 5.000 m² di pertinenze esterne;
cfr. Taverriti 1999, p. 212.
(16) Fu applicato l’istituto della concessione, come avvenne anche
in altri atenei, ad esempio nel complesso di Monte Sant’Angelo
dell’Università federiciana di Napoli. Sul progetto di Architettura:
Quistelli 1994, pp. 13-14; Cademartori 1994, pp. 22-23;
Cervellini 1994, pp. pp. 42-44.
(17) Per gli schizzi e i disegni di progetto si veda Ferrari et alii
1989, pp. 40-42.
(18) Ivi, pp. 35, 38.
(19) Le quattro stecche hanno disposizione planimetrica semplice: un lungo corridoio segue il lato di ciascun livello, fungendo da
percorso distributivo e aprendosi sui singoli locali interni. In testata
e a metà della lunghezza sono presenti corpi scala a loro servizio.
Gli edifici si sviluppano su quattro piani, due livelli in elevazione e
altrettanti sotto il livello del suolo. Anche le torri, che concludono
i corpi di fabbrica dei dipartimenti, sono fornite di propri vani scale
e ascensori. Il primo lotto di lavori, avviato nel 1994, si concluse
nel 1996. Il secondo, con la realizzazione delle torri, è terminato
nel 2006.
(20) L’edificio, estremamente differenziato negli ambienti e ai
differenti livelli, accoglie anche laboratori, aule didattiche, l’Aula
Magna di Ateneo e molteplici uffici.
(21) La scansione delle bucature dei due prospetti segue un ritmo
diverso e asimmetrico nella zona inferiore, mentre gli ultimi due
livelli in alto presentano una maggiore uniformità. Il progetto del
1986, avviato il 7 marzo del 1991, fu concluso nel 1996, capogruppo Vincenzo Torrieri. Concessionario l’Istituto Promozionale per
l’Edilizia (ISPREDIL).
(22) Esso consta di quattro piani fuori terra, dei quali il primo si
presenta molto più allargato, quasi fosse un piano-base.
(23) Il progetto è anch’esso degli anni 1987-88: l’esecuzione del
primo lotto (rimasto unico) iniziò il 15 marzo 1991 e si concluse nel 1996, progettisti Claudio D’Amato (capogruppo), Sergio
Bollati, Mario Giovinazzo, Vincenzo Squillace, concessionario
l’ISPREDIL; cfr. D’Amato et alii 1989, pp. 51-58; Strappa 1998,
pp. 44-47.
(24) Furono usate per rivestire la struttura in cemento armato, sia all’interno che all’esterno, laterizi e carparo (calcarenite).
Marcapiani in travertino e fasce in cemento armato segnano gli
orizzontamenti; cfr. D’Amato 2008.
(25) Restano da completare le opere infrastrutturali, che a differenza delle strutture edilizie finanziate con fondi nazionali e FESR,
rientrano nei finanziamenti previsti dalla L. 246/89; cfr. Taverriti
1999, p. 213.
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81
THE MAIN CAMPUS OF THE UNIVERSITY OF REGGIO CALABRIA, FROM DESIGN TO CONSTRUCTION
The University of Reggio Calabria was founded as the State University Institute of Architecture in 1967 and became a full-fledged university in 1982,
including four additional faculties. However, the university was territorially split between two cities, with Reggio Calabria hosting the faculties of Architecture, Engineering and Agricultural Studies, while Catanzaro was assigned Law and Medicine. A few years later, in 1988, the two faculties in Catanzaro
became an autonomous university – the ‘Magna Grecia’ University of Catanzaro – while the University of Reggio Calabria acquired its current name –
‘Mediterranea’ University of Reggio Calabria – with the addition of a Law School. This complex evolution has significantly affected the location, design
and implementation of the buildings that were to host the teaching and research activities of the new Mediterranea University of Reggio Calabria, starting
in 1987. The paper retraces the architectural decisions and design processes that have led to the current form of the university campus, highlighting its general
layout and its constituent elements.
82
IL CAMPUS DI URBINO
E IL PROGETTO CULTURALE DI CARLO BO E GIANCARLO DE CARLO
Lorenzo Mingardi
Chi si reca oggi a Urbino lo fa per visitare il Palazzo
Ducale, per ammirare un ben conservato tessuto medioevale con alcuni edifici significativi del XV e del XVI
secolo, ma soprattutto, se ha tra i 18 e i 30 anni, lo fa per
studiarci: Urbino è sede di una delle più quotate università italiane per gli studi umanistici e sociali. Questo è
stato possibile grazie a un lungimirante progetto di Carlo Bo, rettore dell’università dal 1947 al 2001, messo
in pratica da Giancarlo De Carlo con la collaborazione
dell’amministrazione comunale. Gli interventi a scala urbana e architettonica, che, a partire dal 1951, hanno trasformato la città, sono ancora oggi al centro di continui
studi e ricerche per la loro validità e attualità.
La storia dell’Università di Urbino è secolare. Fondata
nel 1506, fino alla fine del XVIII secolo ha vissuto stagioni prestigiose grazie allo stretto rapporto con curia papale, interrotto soltanto dalle sollevazioni popolari di inizio
1800. Nel 1862, dopo una parziale chiusura, l’Ateneo di
Urbino si era rinnovato dichiarandosi “Libera Università”
− uno status che conserverà sino al 2012, quando verrà
statalizzato − e aveva vissuto nuovamente anni proficui
dal punto di vista degli iscritti e della produzione scientifica fino alla seconda guerra mondiale, quando tutto si era
fermato (1). Dopo la Liberazione l’Ateneo non aveva quasi più nulla che attestasse la sua millenaria tradizione. La
decadenza dell’Università andava di pari passo con quella
della città. Come in tante altre realtà italiane, Urbino
viveva anni difficili: crisi dell’agricoltura con il conseguente spopolamento della campagna, mercati e attività
commerciali ormai ridotte all’osso. Non si era insediata
nel territorio alcuna forma di attività industriale perché
la città era, com’è ancora oggi, tagliata fuori dalle grandi arterie stradali. Inoltre, date le piccole dimensioni, la
città non aveva peso sul piano elettorale e quindi non
attirava l’attenzione dei partiti politici.
La prima pietra di ricostruzione dell’Università, e, come
vedremo, anche della città, viene posta nel 1947 con la
chiamata di Carlo Bo al rettorato. Carlo Bo è, oltre che un
importante critico letterario e intellettuale, un professore
di lingua e letteratura francese dell’università urbinate dal
1939. Al momento della sua elezione conosce dunque già
bene la realtà urbinate. In poco tempo concepisce un progetto politico e culturale chiaro quanto ambizioso: trasformare il piccolo ateneo in una grande università, beneficiando della storia e delle strutture secolari della città. Bo non è
solo un letterato: ha buoni uffici presso la politica romana
grazie alla sua militanza nella Democrazia Cristiana; ciò lo
rende una personalità dalle infinite relazioni. Per questo
il suo progetto non appare velleitario, ma realisticamente
pianificato dall’inizio del suo mandato. Con notevole rapidità, la nuova università di Bo riesce a dotarsi di un corpo
docente di levatura scientifica nazionale, ma per far sì che
possa diventare un luogo culturalmente vivace e attrezzato
per la ricerca e il confronto scientifico bisogna dotarla di
sedi consone e di strutture adeguate. Innanzitutto occorre
trasformare la sede dell’Ateneo a due passi da Palazzo Ducale, Palazzo Bonaventura, che alla fine degli anni Quaranta è in stato di evidente degrado e non è più adatta ad
ospitare un numero di studenti di diverse facoltà − Farmacia, Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Magistero − che
sta crescendo di anno in anno.
Nel 1951 il Rettore decide quindi di iniziare i lavori.
Chi può occuparsi della risistemazione della sede? Carlo
Bo pensa a un architetto dotato di una visione libera dai
vincoli provinciali, lungimirante quanto lui: non si tratta
solo di restaurare un edificio, ma di progettare un più
ampio sviluppo dell’Ateneo che identifichi la città con
l’università e l’università con la città. La scelta cade su
Giancarlo De Carlo (fig. 1), che Bo aveva conosciuto a
Milano grazie agli amici comuni Vittorio Sereni ed Elio
Vittorini. In quel momento De Carlo è un giovane architetto trentenne che ha costruito ben poco (2), ma è già
un intellettuale di rilievo nell’ambito della cultura architettonica italiana del secondo dopoguerra: nel 1945 si era
occupato di un’antologia di scritti di Le Corbusier (3),
nel 1946-47 aveva curato un volume su William Morris
e scritto alcuni articoli per la nuova «Domus» diretta da
Ernesto Nathan Rogers (4). Inoltre insegnava allo IUAV,
che, per le prestigiose figure al suo interno, era una sorta
di “Scuola di Atene” dell’Università italiana (5).
In uno degli articoli pubblicati su «Domus» nel 1947,
La scuola e l’urbanistica, De Carlo aveva già mostrato di
intravedere, prima che si concretizzasse la possibilità di
Urbino, l’importanza che la scuola, e quindi, l’università,
potevano avere come centri propulsivi nella crescita di un
organismo urbano: “Il problema urbanistico della scuola
[è] divenuto ormai il problema urbanistico della città [...]
La scuola intesa come nucleo della vita sociale, strettamente legata alla vita della collettività, non limitata nel tempo
e nello spazio, estesa all’intera esistenza del cittadino e a
tutto l’ambiente della città, diventa un elemento essenziale nel processo evolutivo della società contemporanea [...]
83
Fig. 1 - Giancarlo De Carlo al Collegio del Colle, workshop fotografico degli studenti della Kunstgewerbeshule di Zurigo, 1965 (su
gentile concessione di Anna De Carlo).
L’interesse primo dell’educazione pubblica è di realizzare,
attraverso mezzi e sistemi collettivi, una migliore società
politica. La città, sede di questa società politica, è lo strumento educativo più importante” (6).
De Carlo appare dunque il candidato ideale per il progetto che Bo vuole realizzare a Urbino. Dal 1951 l’architetto
inizia così a lavorare al Palazzo Bonaventura, sapendo probabilmente che quello sarà solamente il primo di una lunga
serie di progetti per l’Università, tanto è già forte l’intesa
intellettuale con Carlo Bo. De Carlo riconfigura interamente l’interno dell’edificio: gli ambienti vengono sventrati e
interamente ripensati, eliminando numerose superfetazioni
d’intralcio alla nuova organizzazione spaziale (7).
Ma il progetto di Bo va molto oltre interventi puntuali di restauro; per dargli veramente avvio serve uno
strumento che indirizzi lo sviluppo della città. Questo
strumento è indubbiamente il Piano Regolatore: a quel
tempo la città n’è sprovvista, ma, a norma di legge, è
obbligata a dotarsene al più presto (8). Per mettere a
punto un PRG che abbia nella crescita dell’Università il
suo elemento più importante, occorre necessariamente la
collaborazione dell’amministrazione comunale, che arriva prontamente: il Comune, guidato dal sindaco Egidio
Mascioli, comunista, ex-minatore e partigiano, sceglie di
affidare interamente il rilancio economico di Urbino al
potenziale culturale dell’Università, anche perché non
vi sono valide alternative: l’industria a Urbino è inesistente e l’agricoltura in crisi irreversibile. Così i due poli
del potere cittadino si legano e divengono due strumenti complementari di una stessa vita economica e sociale. A testimoniare questo connubio, Mascioli è inserito
nel consiglio di amministrazione dell’Ateneo, ed entrano
progressivamente a far parte dell’amministrazione comunale alcuni autorevoli docenti, come lo storico Pasquale
Salvucci o il filosofo Livio Sichirollo, che sarà assessore
alla Pubblica Istruzione e, in seguito, all’Urbanistica.
84
Fig. 2 - Urbino nel 1951. Archivio Fotomero, Urbino (su gentile
concessione di Ester Arceci).
Il piano regolatore deve essere pensato e predisposto
in funzione dell’Università, della sua espansione e del suo
insediamento nel centro storico: la ristrutturazione del sistema universitario urbinate deve diventare la riorganizzazione del sistema portante del telaio urbano e viceversa.
Deve quindi occuparsene colui che Bo ha scelto come “architetto della città”: Giancarlo De Carlo. Egli comprende
che si tratta di un’occasione straordinaria: ha la possibilità
di plasmare un’intera città storica il cui assetto urbanistico
e architettonico è rimasto cristallizzato nel tempo (fig. 2).
De Carlo si occupa del piano regolatore per più di dieci
anni, tra il 1953 e il 1964 (9), anno in cui viene adottato
dal Comune. I tempi assai lunghi sono dovuti alle numerose opposizioni della minoranza guidata dai democristiani
in seno al consiglio comunale, che non vuole lasciare nelle
mani della sinistra uno strumento che promette di assumere un ruolo determinante nel riassetto non solo urbanistico, ma anche politico ed economico del territorio. L’idea
cardine del Piano per la costruzione della città campus, è
infatti “occupare” con l’università il centro di Urbino per
poter sfruttare il suo prestigio e frenare la crescita incontrollata delle costruzioni oltre le mura. De Carlo e Bo vo-
Fig. 3 - Cantiere della Facoltà
di Magistero, 1975 (foto di
Augusto Rossari).
gliono inserire all’interno dei grandi complessi architettonici abbandonati del centro storico le nuove sedi delle
facoltà dell’Ateneo, e ricavare, per combattere il rincaro
degli affitti, alcune residenze pubbliche per gli studenti
all’interno degli stabili delle aree residenziali più degradate, come ad esempio nel rione Lavagine, per il quale viene
messo a punto un piano particolareggiato (10). Si intende
realizzare dunque “una specie di collegio diffuso dentro le
strutture antiche” (11), perché in una piccola realtà come
Urbino l’Ateneo non deve isolarsi, ma compenetrarsi con
la vita cittadina. Nel centro storico l’università ha infatti
la possibilità di interagire con le attività a essa correlate:
partiti politici, organizzazioni sindacali, attività artigianali, ecc. Il modello che De Carlo, di concerto con Bo,
vuole introdurre a Urbino è quindi opposto a quello del
campus esterno, che sarebbe invece in un rapporto di giustapposizione con la città.
Non sarà possibile realizzare residenze in centro perché l’Università non ha i mezzi economici sufficienti per
comprare gli immobili e perché il Comune non ha il
necessario potere decisionale per procedere agli espropri
(12). Poco dopo l’adozione del PRG, beneficiando di un
finanziamento statale (13), lo studentato dell’Università
viene sì realizzato, ma fuori dalle mura della città storica,
in un’area scelta da De Carlo: il colle dei Cappuccini. In
una prima ipotesi del progetto, di cui da poco si sono ritrovati i disegni (14), De Carlo progetta l’intervento sulla
sommità del colle, ma i vincoli paesaggistici lo costringono in seguito a rivedere l’edificio e a collocarlo lungo il
declivio dell’altura (15).
Il primo collegio di Urbino − noto come Collegio del
Colle, inaugurato nel 1965 − è l’architettura che dà una
svolta alla carriera e alla vita di De Carlo. L’edificio infatti ha un’immediata considerazione internazionale che fa
acquisire all’architetto una dimensione non più solo nazionale: consolida la sua posizione all’interno del Team X
(16), dal 1966 viene chiamato come visiting professor nelle
più importanti università statunitensi (17), nel 1970 è
tra i protagonisti dell’Expo di Osaka.
Diversamente da quanto accade per le residenze universitarie, le sedi delle facoltà vengono costruite all’interno
del centro storico. Durante la redazione del Piano Regolatore, tra i complessi abbandonati di proprietà comunale,
quindi facilmente acquistabili dall’Università, De Carlo
indica a Carlo Bo due ex conventi di origine trecentesca e
in cattivo stato di conservazione − Sant’Agostino e Santa
Maria della Bella − come i più adatti per essere trasformati
rispettivamente in Facoltà di Giurisprudenza e di Magistero, gli indirizzi con il maggior numero di studenti iscritti.
Siamo agli inizi degli anni Sessanta e in Italia il tema
riguardante l’inserimento dell’architettura contemporanea
all’interno dei centri storici è il fulcro di numerose discussioni tra architetti, urbanisti e intellettuali (18). Ci si pongono domande che in passato erano già state elaborate, ma
85
Fig. 4 - Interno della Facoltà
di Magistero, 1980 (foto di
Augusto Rossari).
mai con una tale forza: in che modo si tutela il tessuto
storico? Come può la modernità aiutare la conservazione?
De Carlo è convinto che i complessi urbinati nei quali ha
scelto di inserire le Facoltà non abbiano un valore tale da
giustificare la loro integra conservazione; interviene quindi
con progetti che prevedono delle parziali demolizioni nel
caso di Sant’Agostino e, addirittura, un completo abbattimento per Santa Maria della Bella. Se, a partire dal 1966,
nella Facoltà di Giurisprudenza i nuovi ambienti sono
progettati mantenendo l’involucro esterno dell’edificio e
alcuni spazi interni originali, per il successivo progetto di
Magistero, sviluppato a partire dal 1968, De Carlo attua
una scelta ben più radicale: per avere maggiore libertà di
plasmare gli spazi interni senza attenersi ad alcuna preesistenza, decide di demolire l’intero complesso (fig. 3). Si
tratta di uno dei progetti urbinati più brillanti e celebrati
dell’architetto, ma per lungo tempo esso ha rischiato di
rimanere solamente sulla carta perché, in regime di legge
Ponte, si stava abbattendo una fabbrica storica. L’articolo 17 della legge n. 765 del 1967 recita infatti: “Qualora
l’agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o
di particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi”. La scelta della demolizione, inizialmente
non avallata neanche da Carlo Bo (19), causa numerose
proteste in consiglio comunale − sia dei democristiani sia
della maggioranza − che contribuirono non poco a rallentare i tempi di realizzazione dell’edificio, inaugurato solo
nel 1976. È possibile costruire il nuovo edificio, che mantiene una parvenza d’antico grazie alla ricostruita cortina
esterna in mattoni, solo grazie a una grande assunzione di
responsabilità da parte della Soprintendenza, che approva
86
il progetto di demolizione come “restauro conservativo”.
Così scrive nel 1969 Maria Grazia Polichetti della Soprintendenza a Giancarlo De Carlo: “Il tuo progetto di Urbino
è stato finalmente varato [...] È stata necessaria una lunga
e paziente opera di convinzione, ad ogni modo alla fine ha
prevalso il buon senso e non la norma!”(20). È evidente
che gli organi di tutela del territorio tenevano in grande
considerazione le idee progettuali di De Carlo, altrimenti
difficilmente lui e il rettore avrebbero potuto anche solo
concepire una così ardita politica edilizia all’interno del
centro storico (fig. 4).
Uno degli elementi che rende unico il progetto di Urbino città campus è la stretta corrispondenza tra il dettaglio
e il generale che non risente di separazioni di scala: le scelte
urbanistiche del piano regolatore ricompaiono nei singoli
progetti architettonici perché il piano è redatto da un architetto che progetta sin dall’inizio l’idea urbanistica nel particolare. L’obiettivo di portare l’università a compenetrarsi
con la città − uno dei punti cardine del Piano − è infatti ben
espressa nel progetto di Magistero: alcuni suoi spazi collettivi, come il cinema e il bar, sono pensati per essere utilizzati nelle ore diurne dagli studenti e dagli urbinati nelle
ore serali. Lo stesso anelito di immedesimazione tra città
e università, è presente anche quando, all’inizio degli anni
Settanta, De Carlo deve progettare l’ampliamento del Collegio del Colle che non è più in grado di sostenere l’enorme
richiesta di stanze da parte degli studenti. De Carlo insiste
nel dare seguito all’idea di inserire le abitazioni degli studenti vicino alle abitazioni civili, perciò immagina di adibire a studentato uno degli edifici del quartiere residenziale
“Pineta” (1963-1969) che sta completando proprio nello
stesso periodo (21) (fig 5). Nonostante l’architetto insista in
Fig. 5 - Quartiere Pineta, 2016 (foto dell’A.).
più occasioni con il Rettore circa la validità dell’operazione,
questa ipotesi non trova però seguito e i nuovi collegi vengono costruiti in un lungo arco di tempo, dal 1973 al 1983,
sul colle dei cappuccini (22). Alla ricerca di una continua
relazione con la città, molti degli spazi pubblici dei nuovi collegi sono progettati per essere vissuti non solo dagli
studenti, ma anche dai cittadini urbinati. Tuttavia, come
accade negli spazi comuni del Magistero, utilizzati dai soli
studenti, questo non si è verificato: gli sforzi di De Carlo si
sono rivelati vani.
Il rapporto di convivenza tra Università e città è al
centro di continui studi (23): il saggio pubblicato nel
2013 da Luigi Ceccarini e Ilvo Diamanti, Urbino e l’Università: le due Città ha un titolo quanto mai azzeccato (24).
I cittadini, probabilmente anche a causa delle mancate
politiche inclusive delle amministrazioni comunali che
nel corso degli anni si sono avvicendate, non hanno mai
recepito la “presenza” universitaria come un fattore positivo. Anzi. Sono all’ordine del giorno i reclami e lamentele dei cittadini nei confronti dei comportamenti degli
studenti che abitano nelle case del centro a loro affittate a
caro prezzo. E i collegi sono divenuti proprio ciò che De
Carlo non avrebbe mai voluto divenissero: una cittadella studentesca isolata dalla città ‘vera’, quasi un confino
dove alloggiare studenti “chiassosi” e “sfaticati”.
A fronte di questa parziale sconfitta del progetto di
città campus, l’esperienza di Urbino rappresenta però una
vicenda nel complesso decisamente positiva, perché grazie all’Università è stato possibile trasformare il centro
storico senza snaturarlo, rivitalizzando così una città agonizzante. Il piano avrebbe potuto essere preso a modello
per interventi simili anche in altre città italiane. Ma a
tal proposito c’è da dire che molti degli intenti del piano
sono andati a buon fine solo grazie alle condizioni del
tutto uniche della Urbino degli anni Cinquanta e Sessanta rispetto al panorama italiano: mai si è verificato un
legame e un’unità d’intenti così stretta tra committenza
e progettista. Carlo Bo e l’amministrazione comunale,
per lo meno durante il periodo in cui Egidio Mascioli
è sindaco (1953-1971), si attengono in toto all’autorità
dell’architetto, che è come se traducesse in segni e volumi
i loro desideri. E lo fa molto spesso andando anche oltre
l’input iniziale del committente: il progetto di città campus è inizialmente del Rettore, ma è De Carlo, di fatto, a
guidarne lo sviluppo scegliendo quali edifici riadattare a
sedi di Facoltà e in quale area costruire i collegi. Le particolari condizioni di autonomia in cui De Carlo si trova
molto spesso ad operare costituiscono di fatto un unicum
nell’Italia democratica del XX secolo.
Anche se nel corso del tempo si avvicenderanno numerose giunte comunali e verranno apportate varianti al
PRG adottato nel 1964, il progetto di Urbino città campus, concepito negli anni Cinquanta, proseguirà il suo
corso fino alle soglie del nuovo millennio. Ancora oggi,
per la validità e l’attualità dei suoi principi, continua a
“volteggiare nel cielo” di Urbino come un aquilone (25).
(1) Per la storia dell’Ateneo urbinate si veda Pivato 2006.
(2) La prima realizzazione dell’architetto sono gli appartamenti
per i reduci di guerra nel quartiere sperimentale QT8 a Milano
(1947). Con la partenza del Piano INA-Casa ha diverse occasioni
di lavoro. Tra il 1950 e il 1951 De Carlo aveva progettato piccoli
interventi residenziali in Lombardia a Sesto San Giovanni, Clusone,
San Giovanni Bianco, Cologno al Serio, e in Piemonte a Baveno,
Cannobio e Stresa. Per approfondimenti si veda Samassa 2001.
(3) De Carlo 1945.
(4) De Carlo 1946a, pp. 21-24; De Carlo 1946b, pp. 18-21;
De Carlo 1947a; De Carlo 1947b, pp. 13-17.
(5) Per approfondimenti si veda Zucconi 2012.
(6) De Carlo 1947b, p. 14.
(7) Per il lavoro di De Carlo per la sede principale della Libera
Università di Urbino si veda Bo 1960, pp. 8-15; Rossi 1988,
pp. 44-47.
(8) Legge n. 1150 del 17 agosto 1942.
(9) Il PRG viene adottato dal Comune nel gennaio del 1964.
Archivio di Stato di Pesaro e Urbino (d’ora in poi ASU), regg.
Delibere Consiliari, n. 2456, Consiglio Comunale del 16 gennaio 1964.
(10) De Carlo 1966.
(11) Archivio Antonio Cederna, fasc. 1351, Parco
Archeologico dell’Appia Antica (MiBACT). Lettera di Giancarlo
De Carlo a Antonio Cederna, Milano 1° agosto 1967.
(12) Ibidem.
(13) Archivio Università Carlo Bo di Urbino (AU), Verbale
del Consiglio di amministrazione dal 24/11/1959 al 14/12/1960,
Relazione di Carlo Bo al Consiglio di Amministrazione dell’Università del 10 settembre 1960.
(14) Mingardi 2018.
(15) AU, Delibere consiliari, n. 2452, Consiglio Comunale del
9 aprile 1960.
(16) Risselada, Van den Heuvel 2006, pp. 18-41; Casciato
2008, pp. 31-37.
87
(17) Lyndon 2004, pp. 47-58.
(18) Giuliani 1966; Albrecht, Magrin 2015.
(19) AU, Verbali del Consiglio di Amministrazione dal 27/11/1967
al 5/12/1968, Consiglio di Amministrazione dell’Università del
1° marzo 1969.
(20) Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti (AP),
De Carlo-atti/034, lettera di Maria Luisa Polichetti a Giancarlo De
Carlo, Ancona, 3 aprile 1969.
(21) “Acquisto dell’area della Pineta dove già è stata prevista e
approvata la costruzione di un edificio residenziale analogo a quello
attuato. Con alcune modifiche di carattere tipologico e senza variare la
volumetria approvata (il che implica che non si dovrebbe ripercorrere
l’iter delle approvazioni paesistiche e urbanistiche) si potrebbe costruire subito un complesso capace di ospitare all’incirca 250 studenti,
dotato dei necessari servizi collettivi”; AP, De Carlo-atti/033, lettera
di Giancarlo De Carlo al Prof. Mario Petrucciani (Istituto di Filosofia,
Libera Università degli Studi) , Milano, 14 settembre 1970.
(22) Rossi 1988, pp. 166-187.
(23) Maggioni 2017.
(24) Diamanti, Ceccarini 2013.
(25) Cfr. Bunčuga 2000, p. 169. Tra il 1989 e il 2000 De Carlo
trasformerà Palazzo Battiferri in Facoltà di Economia e sul finire degli
anni Novanta progetterà la Data - ciò che rimaneva delle stalle di
Palazzo Ducale - in uno spazio polifunzionale per gli studenti dell’Università. Per un quadro completo delle realizzazioni di De Carlo tra
gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila, si veda Fuligna 2001.
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THE UNIVERSITY OF URBINO CAMPUS
AND THE CULTURAL PROJECT BY CARLO BO AND GIANCARLO DE CARLO
This paper will focus on a number of city-wide interventions on an urban and architectural scale that make the University of Urbino one of the most significant examples of an urban campus designed in the 20th century. Beginning in the mid-fifties, members of the city council, led by Mayor Egidio Mascioli,
along with rector Carlo Bo, joined forces on an economic revitalization project for the city that hinged entirely on the university’s cultural potential. Giancarlo
De Carlo was assigned the task of translating this program into architectural and urban forms, expanding the university facilities. To this end, the PRG
(1954-1964) reconfigured the city: the development of the university coincided, therefore, with the growth of the city itself. The University of Urbino became
an open system, a spread-out campus interwoven with the life of the city. The residential halls on the Cappuccini hill (1960) and the Faculty of Education
(1968) inside the historic city center are the two architectural examples that best express this osmosis: neither complex was designed by De Carlo for students
only, but also for the residents of Urbino, who to this day still use the services and community spaces.
88
MODELLI ITALIANI PER LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI ROMA:
LA SCUOLA PER GLI INGEGNERI DI BOLOGNA DI GIUSEPPE VACCARO
Micaela Antonucci
Quando, alla metà del 1932, Marcello Piacentini, nel
suo ruolo di Direttore Generale e Architetto Capo, si predispose ad avviare il grande progetto per la costruzione
della nuova Città Universitaria di Roma, una delle sue
prime iniziative fu quella di promuovere un sistematico
lavoro di ricognizione e studio dei principali complessi universitari nazionali e internazionali di più recente
costruzione. Questa esplorazione era diretta non solo
alle tipologie progettuali e funzionali, ma anche alle soluzioni costruttive e tecnologiche adottate, in modo da
avere a disposizione una casistica più ampia e aggiornata
possibile delle diverse soluzioni architettoniche, tecniche
e tecnologiche adottate. L’attenzione era rivolta in particolare a due aspetti: l’analisi dell’impianto generale e
del suo rapporto con la struttura urbana; lo studio dei
caratteri degli spazi per la didattica e le attività di ricerca
in relazione all’adeguamento tecnologico e tipologico nei
diversi ambiti disciplinari.
A tale scopo, Piacentini non solo incoraggiò e finanziò le missioni all’estero dei vari progettisti dei singoli
edifici della Città Universitaria da lui coordinati (1), ma
promosse un più articolato piano di viaggi dei professionisti dell’Ufficio Tecnico del “Consorzio autonomo per il
completamento dell’assetto edilizio e l’arredamento della
Regia università di Roma”, istituito con la legge 607 del
5 giugno precedente (2). Dell’impegnativo compito si
fecero carico, in particolare, i giovani ingegneri Gaetano
Minnucci e Francesco Guidi, che affiancavano Piacentini
nel coordinamento dell’Ufficio Tecnico e che, oltre a essere capaci professionisti, avevano già entrambi una buona
conoscenza del contesto architettonico internazionale.
Minnucci aveva infatti trascorso una significativa parte della sua formazione in costante contatto con la scena
architettonica olandese, recandosi per lunghi periodi,
tra il 1924 e il 1926, in Olanda, e stringendo rapporti
di amicizia con figure di primo piano come Willem Marinus Dudok e Jacobus Johannes Pieter Oud (3). Forte
anche di queste esperienze, nel settembre 1932 egli intraprese su impulso di Piacentini un articolato viaggio
di studio in diverse città dell’Europa settentrionale – tra
le quali Zurigo, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Hannover, Amburgo, Berlino, Magdeburgo, Dresda, Lipsia,
Monaco di Baviera – sugli esiti del quale pubblicò nel
dicembre dello stesso anno una dettagliata relazione
(4). Guidi – che era uno dei collaboratori più stretti
di Piacentini, nel cui studio lavorò dal 1927 al 1950
– aveva invece studiato approfonditamente la Ciudad
Universitaria di Madrid, che all’epoca era, insieme alla
“Cité universitarie” di Parigi, un significativo esempio
di “città universitaria” europea come definito e organico
comparto urbano (5). Oltre alla visita di studio all’università di Madrid nell’ottobre 1934, dettagliatamente
illustrata in una relazione presentata al Comitato esecutivo del Consorzio (6), il mese precedente Guidi aveva
anche intrapreso un breve tour nell’Italia settentrionale,
recandosi a Pistoia per verificare la disponibilità e la
tipologia delle essenze per l’impianto del verde della
città universitaria, ed a Bologna, per visitare la nuova
sede della Scuola di Applicazione per Ingegneri, che era
in fase di completamento (7).
L’interesse del Consorzio e dei suoi tecnici per l’attività
edilizia dell’ateneo bolognese è in questa fase di studio e
ricognizione molto attento, non solo dal punto di vista
architettonico-edilizio ma anche da quello organizzativo e amministrativo, come testimoniato da diversi documenti presenti nell’archivio del CERUR. Tra questi,
è una “Relazione sull’impiego dei fondi della costruzione della città universitaria di Roma” datata al febbraio
1935, nella quale si additano a modelli le università di
Pisa, Padova e Bologna, sottolineando come stessero “ricostruendo e rinnovando i propri locali con grande larghezza di mezzi e signorilità” (8). Sin dalla fine degli anni
Venti, infatti, l’ateneo bolognese aveva avviato un grande
piano di rinnovamento edilizio, grazie alla convenzione
stipulata il 19 ottobre 1929 tra Comune, Provincia, Stato ed enti locali e ratificata dalla Camera dei Deputati il
19 dicembre successivo per ”l’assetto edilizio della Regia
Università”, in particolare per le scuole di Ingegneria e
Chimica e il Policlinico di Sant’Orsola (9). Questa convenzione, promossa per diretto interessamento del Duce,
era ben presente anche ai responsabili del Consorzio romano, come dimostrato dalla presenza tra i documenti di
archivio di una relazione dell’Ufficio Centrale presentata
il 12 marzo 1930, in cui veniva giudicato “uno strumento operativo di grande efficacia” (10).
La convenzione del 1929, successivamente integrata
nel 1934, delineava un programma per l’aggiornamento e l’implementazione dell’edilizia universitaria per una
spesa di 58.150.000 lire, da effettuare nel periodo tra il
1931-32 e il 1935-36; un programma ambizioso e imponente che si andava a inserire nell’ambito di una lungimirante politica dell’ateneo bolognese avviata sin dal 1899,
quando si era deciso di formare a tale scopo un Consorzio
con il Comune e la Provincia (fig. 1).
89
Fig. 1 - R. Università di
Bologna. Planimetria generale
degli stabili universitari, 1935
(Archivio Storico della Regione
Emilia-Romagna, da PRISCO
2014-2015, p. 41).
Grazie a queste risorse, si poté procedere alla costruzione di una nuova sede per la Scuola di Applicazione
per gli Ingegneri, che da tempo rappresentava un caso
esemplare della necessità di rinnovamento e adeguamento degli edifici universitari bolognesi (11).
La Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna era stata istituita nel 1875, in seguito alle disposizioni
della legge del 13 novembre 1859 che prendeva il nome
da Gabrio Casati, all’epoca ministro della Pubblica Istruzione – la quale disponeva l’istituzione di una Regia Scuola di Applicazione in ogni città capoluogo, con la finalità
di formare le figure competenti necessarie alla pubblica
amministrazione del nuovo Stato unitario (12) – e iniziò
90
a funzionare a pieno regime a partire dall’anno scolastico
1877-78, sotto la direzione di Cesare Razzaboni, ingegnere, fisico, matematico e architetto; la sede venne stabilita
in via D’Azeglio, nell’ex convento dei Celestini (13). A
partire dal quel momento, la Scuola conobbe un rapido
sviluppo fino a divenire, nella Bologna a cavallo tra XIX e
XX secolo, uno dei centri nevralgici del fermento culturale
che animava la città ed epicentro della diffusione di quella
“cultura politecnica” che univa teoria e sperimentazione,
incanalando “in tempo reale” nella didattica le innovazioni
nell’architettura e nelle tecnologie costruttive (14).
Nella didattica grande spazio era destinato all’attività
pratica, organizzando esercitazioni in aula e in labora-
torio; in particolare, grazie all’intensa attività del Laboratorio sperimentale, la Scuola divenne un centro di eccellenza per la taratura di strumenti, prove di materiali
da costruzione, controllo della potenza dei macchinari e
rilievi topografici (15). Proprio in ragione di ciò, ben presto nacque un problema di spazi, essendo ormai l’ex convento dei Celestini divenuto inadeguato sia al crescente
numero degli studenti, sia alla necessità del costante aggiornamento tecnologico delle strumentazioni usate nelle attività didattiche e laboratoriali.
È in particolare uno dei più attivi docenti della Scuola
– della quale è anche direttore negli anni 1923-1927 –
l’ingegnere Attilio Muggia a prendere a cuore il problema:
professionista di grande successo e tra i pionieri dell’uso
del cemento armato in Italia, egli dedicò un’inesauribile
energia anche allo sviluppo della Scuola nell’attività
didattica (16). Non a caso, molti dei suoi allievi diventeranno personaggi di rilievo nel panorama architettonico
italiano del Novecento: tra gli altri si ricordano Pier Luigi Nervi, Angiolo Mazzoni, Eugenio Miozzi, Enrico De
Angeli e Giuseppe Vaccaro – quest’ultimo, come vedremo più avanti, sarà proprio il protagonista della costruzione della nuova sede della Scuola (17).
Risale al 1920 la prima proposta di Muggia per trasferire la Scuola nell’area appena fuori il perimetro dell’antica cerchia muraria ai piedi della collina di San Michele in
Bosco, vicino all’ex Convento dell’Annunziata, dedicata
sin dall’epoca postunitaria a una destinazione militare.
L’ipotesi, a lungo studiata dall’ingegnere in numerose
varianti progettuali (18), tramontò definitivamente nel
1926 dopo la conferma dell’inamovibilità delle strutture
militari, ma Muggia non si perse d’animo e continuò a
sfornare proposte alternative negli anni successivi. Nonostante il suo grande e appassionato impegno, alla fine
egli non ebbe l’incarico, che invece andò proprio a uno
dei suoi brillanti allievi, Giuseppe Vaccaro.
Con la stipula della già menzionata convenzione del
1929 tra Stato ed enti locali per il riassetto edilizio delle
scuole universitarie bolognesi, venne scelta per la nuova sede di Ingegneria un’area fuori Porta Castiglione,
affidando l’incarico di progetto all’Ufficio Tecnico del
Consorzio per gli edifici universitari. In questi anni, un
grande sostegno ai piani di rinnovamento era venuto da
Umberto Puppini, professore di Idraulica, Direttore della
Scuola dal 1927 al 1932, oltre che sindaco di Bologna
negli anni 1923-1926, deputato della Camera del Regno
nella XXVIII e nella XXIX legislatura e Ministro delle
Comunicazioni dal 1934 al 1935 (19). Proprio attraverso
Puppini, nel 1930 entrò in scena in questa tormentata vicenda progettuale Giuseppe Vaccaro, suo nipote per parte
materna: l’allora Direttore della Scuola fu ben lieto di accettare la proposta del suo famigliare di “studiare la parte
architettonica” del progetto del Consorzio nel 1930 (20).
Vaccaro aveva già raggiunto una certa notorietà nel panorama architettonico italiano, in particolare grazie alla
vittoria ex-aequo con il gruppo guidato da Marcello Piacentini (nel cui studio lavorò per circa due anni a partire
dal 1922) del concorso per il palazzo del Ministero delle
Corporazioni a Roma (1928) e ai progetti per il Palazzo
delle Poste a Napoli (con Gino Franzi, dal 1929) (21). Lo
stesso Piacentini, nel presentarne nel 1932 l’opera sulla
rivista «Architettura» da lui diretta, non lesinava lodi al
suo allievo e sottolineava come Vaccaro avesse raggiunto “una modernità soda, ragionata, serena, italiana, nella
quale l’idea non è mai dominata dalla tecnica e nei cui
elementi esiste sempre un equilibrio tra la funzione pratica e la funzione espressiva” (22).
Tra l’autunno del 1930 e il febbraio 1931 Vaccaro
inviò dunque allo zio Puppini la sua proposta progettuale per la nuova Scuola di Applicazione per Ingegneri,
accompagnata da una sintetica relazione e articolata in
una serie di tavole oggi conservate presso l’Archivio Storico dell’Università di Bologna (23). Nell’agosto 1931,
il Consiglio di Amministrazione del Consorzio decise di
individuare per la costruzione della nuova sede un’area ai
piedi del colle dell’Osservanza, sui terreni della ex villa
Cassarini, confermando a Vaccaro l’incarico per la “collaborazione artistica” alla redazione del progetto. Finalmente, anche sulla spinta dell’impulso che arrivava da
Roma grazie a Puppini e all’interessamento dello stesso
Mussolini, l’opera procedette rapidamente: nel luglio
1932 vennero redatti i progetti di massima; in agosto
venne presentato in Comune il progetto architettonico,
approvato definitivamente nel febbraio successivo; iniziati i lavori, la costruzione venne terminata nel 1935 e
inaugurata il 28 ottobre di quell’anno.
Se l’organizzazione planimetrica generale e l’inserimento nel contesto urbano sono da ricondurre all’Ufficio
Tecnico del Consorzio, a Vaccaro – forse con il contributo
del collega Enrico De Angeli, come ipotizzato da alcuni studiosi (24) – è senz’altro da ascrivere la concezione
architettonica, oltre alla definizione dei caratteri tecnologici e delle soluzioni funzionali. Questo progetto rappresenta una tappa importante nella carriera di Vaccaro
tanto che, come scrive Gio Ponti, insieme a quello per le
Poste napoletane segna l’arrivo a una piena maturità: “i
primi due edifici … che Vaccaro ci porge a identificare
il suo stile” (25).
La Scuola bolognese era una efficiente macchina edilizia
organizzata in modo tale che ogni attività didattica fosse
autonoma e indipendente, e ospitava nei vari laboratori le
più aggiornate attrezzature tecniche: caratteri che, come
vedremo, ne facevano un modello tra i più interessanti per
la Città Universitaria romana. La pianta aveva una forma
“a pettine” – tipologia già ipotizzata da Muggia nei suoi
precedenti progetti – in cui ogni braccio ospitava differenti funzioni distribuite sui quattro livelli (aule e studi
nei bracci minori, aule da disegno e aula magna nel corpo
allungato di collegamento, laboratori al piano terreno),
consentendo una razionale e ordinata organizzazione del-
91
lo spazio a seconda delle varie attività (fig. 2) (26). I prospetti erano improntati, come sottolinea lo stesso Vaccaro
nella relazione di progetto, a “forme di semplice e severa
modernità, che si ricollegassero tuttavia sia per l’uso dei
materiali che per il carattere delle proporzioni allo spirito
della tradizione architettonica bolognese” (27), richiamata
in particolare nell’uso del mattone e nella imponente torre
che sovrastava l’ingresso principale.
Quest’ultima, alta 45 metri e utilizzata nel suo terrazzo anche come osservatorio geodetico, era – ed è
tutt’oggi – destinata a ospitare la biblioteca, capace di
contenere oltre 60.000 volumi organizzati su scaffalature metalliche a ripiani spostabili, in cui i vari livelli
sono collegati da una scala metallica e da un ascensore.
Se all’interno adottava elementi moderni e funzionali,
all’esterno la torre era rivestita interamente in matto-
ni sabbiati, che si distaccavano dalle pareti del corpo di
fabbrica principale in intonaco terranova, acquistando –
come scriveva Piacentini – “pur nella schietta modernità
di concezione artistica e tecnica … un intimo carattere bolognese” (28). Il latente riferimento all’architettura storica bolognese era uno degli elementi sui quali
insisteva la pubblicistica su quest’opera, finanche nelle
campagne pubblicitarie delle ditte che lavorarono alla
costruzione: come il manifesto che illustra le strutture
metalliche della torre, affiancata alle celebri due torri felsinee e al Nettuno; o l’inserzione pubblicitaria dei produttori di elementi in vetromattone su «Architettura»,
in cui la torre di Vaccaro è definita “nuova Garisenda”
(fig. 3) (29).
Tradizione e modernità convivono dunque qui a stretto
contatto: accanto ai richiami alla storia, un’altra delle chiavi
Fig. 2 - G. Vaccaro, progetto
per la Scuola di Applicazione
per gli Ingegneri di Bologna,
assonometria, 1932 (Archivio
Storico dell’Università di Bologna, da CASCIATO, GRESLERI
2006, p. 69).
92
Fig. 3 - Immagine pubblicitaria per l’impianto di scaffalatura metallica realizzato nella torre della Facoltà di Ingegneria di Bologna,
accostata all’immagine delle Due Torri e del Nettuno (Archivio Storico
della Regione Emilia-Romagna, da PRISCO 2014-2015, p. 51).
Fig. 4 - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di
Bologna, prospetto del lato nord-est con le aule di disegno e l’aula
magna, con le lunghe vetrate continue ai piani superiori (da MULAZZANI 2002, p. 118).
principali del progetto è l’impiego di soluzioni costruttive
e tecnologiche innovative. I laboratori erano dotati di moderni macchinari e impianti; l’energia arrivava da un impianto idroelettrico sperimentale a condotta forzata, creato
sfruttando la pendenza della collina retrostante; l’impianto
di riscaldamento era a termosifone con circolazione accelerata, ottenuta con tre elettropompe centrifughe.
L’uso delle nuove tecnologie diventò per Vaccaro anche
strumento progettuale: un caso esemplare è l’adozione,
nelle aule da disegno, di lunghe vetrate continue (fino a
35 metri), grazie all’arretramento dei pilastri della struttura rispetto al filo di facciata (figg. 4-5a) – come nella
Scuola del Bauhaus a Dessau di Gropius – con la possibilità di completa scomparsa mediante uno speciale sistema,
costruito dalla ditta Curti di Bologna, che permetteva di
aprire il serramento ripiegandolo a libretto con un unico
movimento a comando elettrico (fig. 5b). L’importanza che
Vaccaro assegnava a questo elemento è evidente sia nella
relazione di progetto, sia nell’ampio spazio riservatogli nel
lungo articolo, accompagnato da un ricco apparato illustrativo, pubblicato nel marzo 1936 sulla piacentiniana
«Architettura» (30). Alla stessa ditta Curti sarà appaltata
la fornitura degli infissi per gli edifici della Città Universitaria di Roma (31): possiamo ipotizzare che proprio l’interesse per l’edificio di Vaccaro, culminato con la visita di
Francesco Guidi nel 1934, sia stata l’occasione per conoscere e adottare tale innovativa soluzione.
Il progetto di Vaccaro rappresentava una proposta moderna e originale nell’edilizia universitaria bolognese, nell’ambito della quale, a cavallo tra Otto e Novecento, si andavano
sperimentando nuove soluzioni che coniugavano tradizione
e innovazione. La nuova sede della Scuola per gli Ingegneri,
in particolare, doveva essere il simbolo di una realtà rinnovata nella formazione e nella pratica professionale, e la proposta di Vaccaro interpretava in modo esemplare tale esigenza.
L’uso di un linguaggio moderno e razionale, associato all’im-
93
piego delle più avanzate conoscenze tecniche e alle più aggiornate tecnologie, studiando con accuratezza il progetto in
ogni sua parte – dallo schema strutturale all’organizzazione
degli spazi, dagli impianti tecnici agli elementi rappresentativi, dagli arredi agli infissi – fanno di questa architettura
una perfetta sintesi tra monumentalità, tecnica e funzionalità. Grazie all’esame dei documenti presenti nell’archivio del
CERUR, sappiamo che proprio questi caratteri innovativi,
che i recenti restauri dell’edificio hanno cercato di conservare
(32), ne hanno fatto uno dei modelli italiani più interessanti
per la Città Universitaria di Roma.
Fig. 5a - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di
Bologna: una delle aule di disegno con la vetrata continua a tutta
altezza (da MULAZZANI 2002, p. 28).
(1) Nell’agosto 1932 Piacentini chiede al Consorzio di finanziare
i viaggi all’estero di Giuseppe Pagano (Istituto di Fisica), Giuseppe
Aschieri (Istituto di Chimica), e Giuseppe Capponi (Istituto di
Botanica e Chimica Farmaceutica). Alla fine del 1933 vengono
rimborsate le spese di viaggio a Gaetano Rapisardi (Facoltà di
Lettere e Filosofia) e, ancora, a Pagano, così come anche allo stesso
Piacentini per viaggi effettuati tra la fine del 1933 e l’inizio del
1934 (AS Sapienza, CERUR, fasc. 368, 6 ottobre 1932 e fasc.
360, 23 gennaio 1934). Sui documenti conservati in AS Sapienza
si veda Azzaro 2012.
(2) Mitrano 2008; Onesti 2013.
Fig. 5b - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna: una delle aule di disegno con la vetrata continua aperta a libretto con
un unico movimento a comando elettrico (da MULAZZANI 2002, p. 29).
94
(3) Sulla figura e l’opera di Minnucci, si vedano Zacheo 1984;
Capanna 2010.
(4) La relazione è in Archivio Centrale dello Stato, Fondo
Gaetano Minnucci, sc. 110, fasc. 142.
(5) Guidi 1934; Di Marco 2016.
(6) AS Sapienza, CERUR, fasc. 5, ottobre 1935.
(7) Ivi, fasc. 365, fatture varie e rimborsi spese 1932-1938, 10
settembre 1934, “nota di spese dell’Ing. Francesco Guidi per viaggio a Bologna e Pistoia, visita della nuova scuola di applicazione per
gli ingegneri a Bologna e visita ai vivai per scelta di piante (3-4-5
settembre 1934)”.
(8) AS Sapienza, CERUR, fasc. 376, febbraio 1935.
(9) Convenzione Bologna 1929.
(10) AS Sapienza, CERUR, fasc. 2, busta 1 (Preventivo di massima e relazione della Commissione, 1930-1931; “Cartella convenzione dell’Università di Bologna e Pisa”).
(11) Sul problema di costruire spazi adeguati e specifici per la
didattica universitaria delle discipline scientifiche nell’Italia postunitaria, si veda come riferimento il recente saggio di Mangone,
Savorra 2018.
(12) Sulle complesse vicende delle scuole di ingegneria pre e
post-unitarie, qui solo accennate, si vedano come utili riferimenti:
Lacaita 1993; Calcagno 1996; Silvestri 2006.
(13) Sulla nascita e sulle successive vicende della Regia Scuola di
Applicazione per Ingegneri di Bologna, si vedano Cocchi 1988;
Calcagno 1995; Benassi Capuano 2000; Giumanini 2000;
Diotallevi 2012.
(14) Si vedano come riferimento a tale proposito, oltre ai
testi alla nota precedente: Trombetti 2014; Antonucci
2010 e 2017.
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(15) L’elenco Gabinetti e Laboratori e la loro dotazione di attrezzature sono accuratamente descritti nei Commentarii 1909, Allegati
XLIX-L; sul loro contributo all’attività produttiva e imprenditoriale
bolognese e italiana, il testo si diffonde anche alle pp. 26-31, 224-237.
(16) Sulla figura di Attilio Muggia, si veda Bettazzi, Lipparini 2010.
(17) Sugli allievi formati da Muggia e dalla Scuola per gli
Ingegneri si vedano Bettazzi, Lipparini 2010, pp. 161-222;
Antonucci 2010.
(18) Muggia 1921; Muggia 1927-28, p. 6; Bettazzi 2016.
(19) Salustri 2006.
(20) Casciato 2006, p. 73.
(21) Sulla figura e l’opera di Vaccaro, si vedano come riferimenti
Cassarà 2001; Mulazzani 2002.
(22) Piacentini 1932, p. 513.
(23) Archivio Storico dell’Università di Bologna, Fondo
Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, b. 17/71b.
(24) Cassarà 2001, p. 248; Bettazzi 2006, p. 54.
(25) Ponti 1943.
(26) Sul progetto di Vaccaro, si veda la dettagliata descrizione in
Relazione riassuntiva 1938, pp. 27-29.
(27) Archivio Storico dell’Università di Bologna, Fondo
Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, b. 17/71b.
(28) Piacentini 1932, p. 524.
(29) Mulazzani 2002, p. 10.
(30) Vaccaro 1936.
(31) AS Sapienza, CERUR, fasc. 91, b. 9.
(32) Gulli, Predari 2018.
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ITALIAN MODELS FOR THE “NEW CAMPUS” OF THE UNIVERSITY OF ROME:
THE ENGINEERING SCHOOL OF BOLOGNA, DESIGNED BY GIUSEPPE VACCARO
In 1932 Marcello Piacentini, General Manager and Head Architect of the plan for the new campus of the University of Rome, called the “Città Universitaria”, launched a project to promote a methodical analysis of major national and international university complexes recently built.
He entrusted engineers Gaetano Minnucci and Francesco Guidi, two of his collaborators at the Engineering Department of the CERUR (Consorzio autonomo
per il completamento dell’assetto edilizio e l’arredamento della Regia università di Roma).
Travelling extensively across Europe in the years 1932-1935, Minnucci and Guidi, visited many branches of* U.S. colleges as well as the main European campuses;
in Italy, they visited Padua, Pisa and Bologna. Guidi went to Bologna at the end 1934 to visit the School of Engineering (Scuola di Applicazione per Ingegneri) designed
by Giuseppe Vaccaro. The blend of innovation and tradition made this building one of the major Italian models for the “Città Universitaria” in Rome.
96
DA CITTADELLE DELLA SALUTE MENTALE A CAMPUS UNIVERSITARI.
DISMISSIONI E TRASFORMAZIONI DEGLI EX OSPEDALI PSICHIATRICI
NEL NORD-EST ITALIANO
Ferdinando Zanzottera
Tradizionalmente considerata tra le aree produttive
maggiori d’Italia, la regione del nord-est costituisce un
variegato mondo culturale particolarmente significativo
anche per la storia della psichiatria e dell’architettura manicomiale. In essa si sono incontrati saperi e formazioni
intellettuali molto differenti tra loro, divenendo privilegiato luogo di dialogo tra le diverse istanze psichiatriche
nazionali e quelle di matrice austroungarica e slava, oltre
che francesi, svizzere e tedesche. Già a partire dagli anni
settanta del XIX secolo la cura della malattia mentale
friulana si fondava sulla coesistenza e l’integrazione di
ampie architetture nosocomiali poste in prossimità dei
principali centri urbani e piccole realtà periferiche, poco
compatibili con un reimpiego in compiuti campus universitari nella contemporaneità. Modelli a scala differenziata si applicarono anche nella provincia milanese, nella
quale coesistevano grandi centri di accoglienza freniatrica (lo storico Ospedale di Mombello e la nuova Grande
Astanteria Manicomiale in Affori) posti in rete con
istituti privati (es. Ospedale Psichiatrico di Brugherio
Villa Fiorita di Brugherio), strutture minori (es. le cosiddette Case di Cantello, Cesano Boscone e San Colombano
al Lambro) e dispensari psichiatrici delle aree rurali. Negli anni sessanta e settanta, invece, il territorio goriziano
e triestino fu il luogo di partenza del rinnovamento della
cura psichiatrica che culminò con l’emanazione della legge sugli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori (Legge 180 del 13 maggio 1978) e della legge all’Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (Legge 833 del 23
dicembre 1978) note come Legge Basaglia e Legge di riforma
sanitaria. Queste introdussero nuovi indirizzi di gestione
medica e sancirono il principio di universalità delle cure e
dell’eguaglianza di trattamento per i pazienti, introducendo i cardini per il ripensamento generale delle architetture
della cura. Ad entrambe le leggi, inoltre, sono da ascrivere
i principi che condussero al superamento del vetusto concetto di “manicomio” e alla trasformazione e dismissione
delle relative strutture manicomiali, consentendo l’avvio
di un lungo processo di deistituzionalizzazione. La chiusura dei nosocomi, infatti, ebbe tempistiche eterogenee e
seguì fasi differenti nelle diverse regioni, provincie e singoli complessi di cura.
Sebbene il nord-est italiano fu tra le aree più solerti
nel recepire le disposizioni legislative e nell’intraprendere nuovi modelli clinici di cura, in essa non si riuscì a dar
corso immediato al ricollocamento dei pazienti dimessi,
rallentando, nei fatti, anche il processo di riconversione
delle strutture manicomiali. La chiusura definitiva delle
originarie cittadelle della cura psichiatrica si ebbe, dunque, solo con la Legge finanziaria n. 449 del 1997, che
impose inderogabilmente la dismissione degli ospedali
psichiatrici entro tre mesi dalla sua pubblicazione, pena
eccezionali sanzioni economiche per le regioni inadempienti. L’effetto fu la chiusura rapida, e talvolta confusa,
delle originarie strutture, con strascichi operativi sino al
2010. Le tempistiche e i vincoli della legge, inoltre, indussero alcune regioni a dismettere gli ospedali psichiatrici senza predisporre adeguati progetti di riutilizzo e
riqualificazione del patrimonio immobiliare, già parzialmente degradato, spingendo negli anni successivi talune
amministrazioni a vendere i terreni delle annesse aziende
agricole o a concedere autorizzazioni edilizie per edificare
nuove strutture entro gli originari perimetri manicomiali. Questo comportò un depauperamento del patrimonio
agricolo e dei parchi, talvolta secolari e spesso di notevole pregio, complicando ulteriormente le possibilità di
recupero dei complessi architettonici. Queste aree, già
percepite dalla società civile come marginali, in molti
casi divennero luoghi di abbandono e ricetto di nuove
marginalità, compromettendo anche possibili processi di
trasformazione. Solo in alcuni casi eccezionali la riconversione iniziò poco dopo la promulgazione della Legge Basaglia che, in Lombardia, in gran parte ebbe luogo a partire
dal 1995-1996, benché un interesse specifico fosse maturato compiutamente già da alcuni anni.
Con il D.Lgs. V/1329 Regione Lombardia promosse
il progetto-obiettivo denominato Tutela socio-sanitaria dei
malati di mente che aveva la finalità di avviare il processo di
trasformazione edilizia e di rifunzionalizzazione sanitaria
dei differenti ospedali psichiatrici regionali, coinvolgendo
numerosi enti socio-assistenziali, con ricadute inevitabili
sui successivi scenari di reimpiego e trasformazione delle
originarie strutture manicomiali. Questo progetto, tuttavia, non prevedeva integrazioni significative con il mondo della ricerca universitaria, se non limitatamente alle
discipline sanitarie, recuperando parzialmente una tradizione di decennale sperimentazione. La prima cattedra
universitaria creata all’interno di un manicomio fu infatti
realizzata nell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano
nel 1958, dando avvio ad un processo culturale tutt’altro
97
Fig. 1 - Ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, particolare della CTR di Trieste con evidenziata, in grigio chiaro, l’area del complesso nosocomiale
e, in grigio scuro, le strutture occupate o di proprietà dell’Università (elaborazione dell’autore in base alle indicazioni fornite dalla ASL Trieste).
che marginale, ripreso anche dalla letteratura scientifica
dell’epoca (1). L’impegno per la ricerca, inoltre, si espresse in questo ospedale psichiatrico mediante la creazione
di un vasto impianto di diagnostica terapeutica dotato
delle più moderne attrezzature, che condusse alla creazione di un “reparto pilota” rivolto all’analisi dei casi clinici
più complessi e allo studio di nuove terapie sperimentali.
Dopo circa cinquant’anni da quella prima esperienza, il
mondo universitario ha potuto cominciare ad interessarsi al patrimonio architettonico manicomiale in maniera
completamente differente rispetto ai decenni precedenti,
progettando anche il proprio inserimento in queste originarie cittadelle della salute mentale, trasformandole in
campus o poli universitari.
Tra i casi di recupero più significativi è meritevole di
attenzione quanto operato nell’ex Ospedale Psichiatrico
di Trieste (2) (fig. 1), fautore di un intervento di integrazione tra ex manicomio e tessuto urbano cittadino, otte-
98
nuto attraverso specifici accordi di programma, grazie ai
quali si sono attuate: la trasformazione della spina viaria
centrale in asse stradale pubblico che pone in collegamento la parte superiore di Trieste con il “Borgo Teresiano”; la permeabilità dell’ex complesso manicomiale alla
rete di trasporto pubblico, sottolineata dalla creazione di
un capolinea di autobus utile anche agli studenti delle
scuole superiori e del campus universitario ivi realizzati; la gestione compartecipata del verde pertinenziale da
parte di Regione, Provincia, Comune, Azienda Sanitaria
Locale e Università.
Negli anni novanta l’Università degli Studi di Trieste
decise di acquistare dalla Provincia cinque padiglioni per
sedi dipartimentali e, in particolare, per realizzare parte
del polo afferente al Dipartimento di Scienze della Vita
istituitosi nel 2008 aggregando i precedenti Dipartimenti di Biochimica, di Biofisica e Chimica Macromolecolare, di Biologia, di Fisiologia e Patologia, di Scienze
Fig. 2 - Ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, Padiglione “Tranquilli uomini” oggi Facoltà
di Psicologia – Padiglione F
(Archivio ISAL, fotografia di
Ferdinando Zanzottera).
Biomediche e di Psicologia. Dove un tempo insistevano
i padiglioni ‘osservazione e cure donne’, ‘semiagitati
donne’, ‘agitati donne’, ‘semi agitati uomini’ e ‘sucidi’ e
‘paralitici donne’, oggi sono presenti i laboratori di Psicologia e parte delle strutture universitarie che si occupano delle tematiche e delle discipline proprie delle scienze della vita, della psicologia e delle scienze cognitive
(fig. 2). A questa prima acquisizione seguirono reiterate fasi di ampliamento degli spazi universitari, ottenuti mediante l’acquisizione dei volumi del ‘padiglione
tranquilli uomini’ e della ‘lavanderia vecchia e nuova’
(2002), oggi sede del Museo dell’Antartide. Sei anni
dopo l’Università acquisì anche l’ampio fabbricato che
un tempo ospitava le ‘cucine’, implementando ulteriormente la sua presenza all’interno dell’originario complesso manicomiale.
Collocata non molto distante dalla sede storica dell’Università degli Studi di Trieste, il nuovo polo accademico
ha contribuito alla riqualificazione dell’intera area attivando tempestivamente anche un piccolo bar, finalizzato
a soddisfare le esigenze di un’utenza diurna non esclusiva,
che ha costituto un ulteriore tassello di un lungo processo di vivace recupero sociale ed urbano dell’area. La costante presenza di docenti, studenti e personale amministrativo dell’università ha infatti aiutato a far superare il
pregiudizio sul luogo, che veniva ancora percepito come
località di dolore e di emarginazione. La riqualificazione
del verde pertinenziale, oggi divenuto parco pubblico attrezzato, l’inserimento al suo interno di specifici arredi
urbani, oggetto di particolari studi e di attenzione per le
peculiarità del luogo e del bello, e le numerose attività
ricreative qui attivate da una pluralità di soggetti, hanno
consentito di dar vita a processi psicologici di riappropriazione del luogo, rivalutandone la storia e avviando
processi identitari largamente condivisi. La realizzazione
dello stesso Museo Nazionale dell’Antartide, inaugurato
nel 2004, e la sua qualificazione come struttura espositiva modernamente intesa dotata di postazioni interattive
e di percorsi multimediali, hanno cooperato per definire
l’area dell’ex manicomio provinciale come luogo di conoscenza pluridirezionale e come Centro Interuniversitario
degli Atenei di Genova, Siena e Trieste (3).
L’importanza e il successo della presenza di questi luoghi di alta formazione e di cultura universitaria nel tessuto edilizio dell’ex manicomio triestino, sono stati amplificati anche dalla coesistenza e dalla condivisione dei
relativi spazi comuni con altre realtà legate alla formazione liceale, all’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata
di Trieste e ad altre realtà creative e artistico-espressive,
quali, ad esempio, il Teatrino “Franco e Franca Basaglia”
e il Parco dei Bambini “San Giovanni Mini Mu”. La definizione di ulteriori luoghi di ritrovo (bar e piccole botteghe), l’inserimento di un pregiato roseto di oltre 8.000
piante realizzato e curato in collaborazione con l’Istituto
di botanica dell’Università di Trieste e l’attivazione di
periodiche manifestazioni hanno ulteriormente contribuito alla reale integrazione urbana dell’originaria struttura
manicomiale.
99
Fig. 3 - Ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese, particolare della CTR di
Varese con evidenziata, in grigio chiaro, l’area del complesso
nosocomiale, in grigio scuro, le
strutture occupate dall’Università dell’Insubria e, evidenziati
dalla lettera “S”, gli insediamenti della zona destinati ad
attività di formazione (elaborazione dell’A.).
Unico progetto di compiuto polo accademico in territorio lombardo realizzato in una struttura ex manicomiale è quello di Varese, che ha saputo creare una cittadella
della cultura occupando anche parte di questa significativa architettura degli anni trenta e acquisendo sempre più
spazi ed edifici in località Bizzozero. Esso è stato fondato
solo in epoca recente e si è fuso con il progetto di riqualificazione dell’intero complesso nosocomiale promosso
dall’Ufficio Tecnico della Azienda Sanitaria Locale che,
sebbene non si fosse prefissato di realizzare un intervento di “restauro del moderno”, ha perseguito un progetto
particolarmente sensibile nel rispettare la struttura architettonica originaria (4).
La storia della deistituzionalizzazione dell’ex manicomio riflette quel lento processo di adesione alle prescrizioni normative che seguirono la riforma basagliana. Così
come avvenne per numerose realtà nosocomiali italiane,
infatti, anche l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese (fig. 3) non attivò una reale operatività di chiusura sino
alla metà degli anni novanta, quando venne decretata la
cartolarizzazione della struttura manicomiale, in parte
acquistata dall’Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo
- Fondazione Macchi. Questa, dopo la creazione dell’Università dell’Insubria avvenuta il 14 febbraio 1998, cedette a quest’ultima in comodato d’uso alcuni padiglioni
affinché vi realizzasse un piccolo polo accademico (fig.
4). Oltre ad animare il luogo, l’intervento ha consentito
100
di recuperare anche le significative componenti esteticovisuali dell’intero complesso, poiché il processo virtuoso
di riqualificazione della struttura ha inteso armonizzare le istanze di rifunzionalizzazione degli spazi affidati
all’Università e agli Enti Sanitari presenti sul territorio
con il rispetto delle preesistenze.
Una discreta rete dei servizi dei trasporti e la vicinanza
al polo ospedaliero hanno contribuito a rendere vivace e
conosciuto alla popolazione locale l’impianto architettonico ricco di storia e fascino.
Benché periferico rispetto al centro storico cittadino,
tale complesso risulta oggi pienamente relazionato al
contesto urbano, mentre la nuova funzionalità e la qualità dei servizi offerti hanno reso possibile l’abbattimento
dei pregiudizi culturali che affliggevano questo luogo.
La trasformazione in Polo universitario, esteso anche alle
aree limitrofe, ha contribuito a generare una diffusa attenzione alla struttura architettonica da parte degli Enti
Sanitari che si dividono la proprietà degli stabili ex manicomiali, che si sono così implicati attivamente in processi
di valorizzazione storica e culturale dei manufatti edilizi.
Risale invece al 13 aprile del 2007 la formalizzazione a Regione Lombardia del desiderio di trasformare l’ex
Ospedale Psichiatrico San Martino di Como (fig. 5) in
cittadella universitaria. Il progetto è nato da convergenti
istanze condivise dal Comune, dalla Provincia, dalla Camera di Commercio, dall’Azienda Sanitaria Locale coma-
sca, dall’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e dalle Università che gravitavano sul territorio (Politecnico di Milano
e Università dell’Insubria). Tale sinergia spinse la regione
a sostenere l’iniziativa emanando il Dgr. n. 8/6632 del
20 febbraio 2008 relativo alla Promozione di un accordo di
Programma per la valutazione di fattibilità dell’ipotesi di realizzazione di un Campus Universitario nell’area dell’ex ospedale psichiatrico San Martino a Como (5). L’accordo rivelava
anche l’interesse del Politecnico di Milano a realizzare
una grande cittadella politecnica, capace di ospitare aule
studio, uffici, strutture sportive, una residenza universitaria, una foresteria, una mensa, un museo, un parco
urbano e un parcheggio di circa 1.200 posti auto.
Per dar seguito all’idea venne affidato il compito di redigere un compiuto progetto architettonico di riconversione
dell’ex ospedale ad un pool di professionisti e docenti del
Politecnico milanese con a capo l’architetto Riccardo Licari
(responsabile dell’Area Tecnico Edilizia), che si avvalse della
collaborazione e consulenza dei professori Stefano Della Torre, Antonio Capsoni e Nicolò Aste, rispettivamente per le
architetture, le opere strutturali e gli impianti meccanici (6).
Il progetto di riconversione dell’ex-ospedale psichiatrico
aveva il dichiarato obiettivo di adeguare funzionalmente le
strutture alle nuove destinazioni e di recuperare, quando
possibile, la struttura architettonica esistente. Esso fu redatto a seguito di un attento studio di fattibilità (7) stilato
l’anno precedente, che confermava il desiderio di realizzare
un luogo particolarmente significativo e di rappresenta-
tività, capace di migliorare la qualità degli spazi e delle
dotazioni impiegate nell’erogazione dei servizi universitari
comaschi (fig. 6). Parimenti il progetto intendeva soddisfare il fabbisogno di spazi, prevedendo una riserva in termini
di superficie per le possibili successive espansioni del polo,
offrendo in termini quantitativi una diversificazione dei
volumi e degli ambienti, e fornendo agli studenti nuovi
servizi, strategicamente da aprire alla collettività cittadina.
Il progetto, che giunse a realizzare dettagliati layout
delle aule e degli alloggi universitari, prevedeva un impegno economico complessivo di oltre 35 milioni di euro
e un costo annuo di gestione e manutenzione di circa
1.700.000 euro, ai quali dovevano sommarsi i costi di
gestione delle “strutture eccedenti” e della residenza.
L’interessante piano progettuale, che aveva calcolato
anche la ricaduta sul patrimonio immobiliare pubblico
e privato della città di Como e l’impatto attrattivo del
polo universitario ben oltre i meri confini nazionali nella
certezza di poter rappresentare una valida alternativa agli
istituti elvetici, non venne realizzato, con il conseguente accantonamento del progetto. Solo nella seconda metà
del 2019 è ritornata in auge l’idea di recuperare quest’area per realizzare un polo culturale per la formazione di
alto livello dotato di una moderna biblioteca e di laboratori, che trovano in Enrico Lironi, membro del consiglio
di amministrazione della Commissione centrale di beneficenza di Fondazione Cariplo e presidente di Sviluppo
Como, uno dei suoi massimi sostenitori.
Fig. 4 - Ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese,
Padiglione Morselli oggi sede
di aule didattiche e laboratori dell’Università Insubria
(Archivio ISAL, fotografia di
Ferdinando Zanzottera).
101
Fig. 5 - Ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como,
particolare della planimetria
del manicomio del 1987 con
evidenziate le aree interessate
dal progetto di trasformazione
in sede universitaria del Politecnico di Milano (2012): in
grigio chiaro l’area del complesso
nosocomiale; in grigio scuro le
strutture interessate direttamente
dal progetto. All’interno della
planimetria sono contrassegnati dalla lettera “P” i volumi
architettonici che dovevano essere
occupati per attività didattiche e
gestionali dal Politecnico milanese; dalla lettera “R”, quelli
destinati ad accogliere la residenza universitaria; dalla lettera “T”, quelli da cedere a terzi
(elaborazione dell’A.).
Più in generale, le aree un tempo occupate dalle strutture manicomiali sono oggi al centro di un rinnovato interesse e in questi ultimi anni le istituzioni locali hanno cercato
di promuoverne il recupero coinvolgendo anche i privati.
Legate da un’unica finalità curativa, le strutture manicomiali sono state spesso costruite ai margini dei grandi
centri urbani e si sono velocemente trasformate in “cittadelle per la reclusione dei folli” contrapposte alle “città
dei sani”, che spesso volevano cancellare dalla propria vista chi era affetto da malattie psichiatriche. Queste strutture costituiscono oggi un inestimabile patrimonio della
memoria e pregevoli testimonianze dell’arte del costruire
che, in ragione dell’espansione urbana, in molti casi sono
divenute parte viva del tessuto cittadino, occupando aree
strategiche e di particolare qualità paesaggistica. Anche per questa ragione, già da qualche anno, si è acceso
su di esse un dibattito che oscilla tra chi vorrebbe una
trasformazione radicale delle architetture esistenti e chi
preferirebbe la musealizzazione integrale di tutti i padiglioni. Tra questi due estremi si concentrano altre proposte di intervento, che talvolta sembrano non accorgersi
che insieme ad un provvedimento architettonico-edilizio
occorre ricucire quella ferita ancora esistente nella società, generata dal differente modo di concepire la malattia
mentale. Per questa ragione le soluzioni già adottate per
la riconversione delle aree manicomiali in poli universitari, costituiscono interessanti modelli di recupero che in
certune occasioni si sono distinti per lungimiranti tenta-
102
tivi di superare, anche solo idealmente, i muri perimetrali degli ex nosocomi (8).
Le generalizzate ampie dimensioni di questi complessi
e la loro collocazione, quasi sempre periferica rispetto ai
centri storici, offrono inoltre una concreta possibilità di
sviluppo per le città ai cui bordi essi si trovano. Le loro
aree libere generalmente sono parchi verdi di indiscusso
interesse, che spesso necessitano di un recupero funzionale anche secondo logiche di ridisegno del paesaggio, e, in
qualche caso, di veri e propri restauri botanici.
Infine, il recupero delle strutture architettoniche degli ex Ospedali Psichiatrici, che generalmente impone
logiche sovracomunali, può offrire l’occasione anche per
ripensare a scala regionale la gestione di alcuni servizi
collettivi e formativi.
La trasformazione di queste aree e la definizione di nuove funzioni compatibili, impongono, dunque, un serio
confronto tra i differenti soggetti coinvolti, che non può
prescindere da un giudizio di valore sui singoli manufatti
edilizi, dalla verifica di sostenibili scenari a scala regionale
capaci di confrontarsi con soluzioni innovative anche a livello europeo, dal riconoscere che occorre salvaguardare la
storia che appartiene all’intera comunità nazionale e dalla
necessità di attivare un dibattito comparativo sui risultati
già ottenuti, secondo un atteggiamento realistico proiettato verso il prossimo futuro. Un imperativo educativo e
formativo, dunque, al quale il mondo universitario (9) non
può sottrarsi, indipendentemente dalle possibilità concre-
Fig. 6 - Ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como, veduta dei volumi architettonici centrali della struttura ex manicomiale (Archivio
ISAL, fotografia di Adele Simioli).
te di insediarvisi realizzando poli di eccellenza didattica o
articolati campus modernamente intesi.
(1) Bozzi 1959, p. 21.
(2) Cfr. Barillari 2008; Zanzottera 2013b.
(3) Cfr. Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 282, 2 dicembre
1991.
(4) Cfr. Zanzottera 2013c; Crippa, Zanzottera 2013.
(5) Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, Serie Ordinaria, n.
10, 3 marzo 2008, pp. 532-533.
(6) Cfr. Recupero architettonico 2013.
(7) Cfr. Nuovo Polo di Como 2012.
(8) Cfr. Zanzottera 2013a.
(9) L’interessamento del mondo universitario per le strutture ex manicomiali è testimoniato dalle ricerche e dall’attività
scientifiche promosse in questi ultimi anni da numerosi docenti,
tra le quali particolare attenzione merita il Progetto PRIN 2008
coordinato dalla professoressa Cettina Lenza intitolato I complessi
manicomiali in Italia tra Otto e Novecento. Atlante del patrimonio
storico-architettonico ai fini della conoscenza e della valorizzazione,
sviluppato congiuntamente da unità di ricerca del Politecnico
di Torino, Politecnico di Milano, Università di Camerino,
Università di Palermo, Seconda Università di Napoli e componenti delle Università di Pisa e di Reggio Calabria.
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Nuovo Polo di Como 2012
Nuovo Polo di Como presso l’ex-ospedale psichiatrico San Martino di
via Castelnuovo, Como. Studio di prefattibilità, Area Tecnico Edilizia
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Recupero architettonico 2013
Recupero architettonico e riconversione dell’ex-ospedale psichiatrico San
Martino in sede universitaria del Politecnico di Milano. Progetto Lotto
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Zanzottera 2013c
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et alii (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2013, pp. 177-179.
FROM MENTAL HEALTH FACILITIES TO UNIVERSITY CAMPUSES:
THE RECONVERSION OF FORMER PSYCHIATRIC HOSPITALS IN ITALY’S NORTHEAST
The implementation of Law 180 of 1978, known as the Basaglia Law, has resulted in large abandonment phenomena and partial transformation of the vast
building and landscape heritage of the former Italian asylums. In many cases the varied universe of the “mental health citadels” has been largely under-used
or almost entirely abandoned, giving rise to a prolonged phenomenon, still partially underway, of disintegration of buildings and disregard of value of these
large scale-areas.
In the Lombard and north-eastern areas of Italy, these complexe are still largely abandoned or underused today, although there are significant recovery projects
or examples of virtuous redevelopment. Among these, the interventions that have transformed former psychiatric hospitals into “citadels of university culture”
or aspire to become modern university campuses, intended as preferential subjects of development, also generating phenomena of debasement of the outstanding
memory.
104
DALLA SALUTE ALL’ISTRUZIONE DELLA “MEGLIO GIOVENTÙ”,
DALLA COLONIA MONTANA IX MAGGIO A MONTELUCO DI ROIO
ALLA FACOLTÀ D’INGEGNERIA DELL’UNIVERSITÀ DELL’AQUILA
Patrizia Montuori
Nel Novecento la presenza del Movimento Moderno a
L’Aquila e, in generale, in Abruzzo, è sporadica e scarsamente incisiva nel contesto architettonico locale, ancora
prevalentemente legato a dettami storicisti. Nel capoluogo abruzzese, infatti, l’introduzione del linguaggio
razionalista è affidata a un numero relativamente esiguo
di architetture, in buona parte opera di professionisti gravitanti nell’area romana, realizzate su committenza pubblica e, più raramente, privata.
Il regime fascista svolge un ruolo strategico nella diffusione dell’architettura moderna anche in contesti locali non favorevoli, come quello abruzzese, creando nell’arco di un ventennio un sistema di strutture di servizio
(assistenziali, educative, culturali e politiche), capace di
servire capillarmente tutta la popolazione, sia nelle città, sia nei piccoli centri dell’entroterra e di confine. L’obiettivo principale è ‘plasmare’ un uomo nuovo forgiato,
fisicamente e mentalmente, sin dall’infanzia, attraverso
l’educazione fisica e il rafforzamento dei giovani italiani,
in particolare, di quelli più deboli e indigenti. A tale
scopo il regime crea o affina nuove tipologie di edifici
come le sedi della Gioventù Italiana del Littorio (GIL),
dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) e,
soprattutto, le colonie permanenti, diurne e climatiche
(marine, montane, lacustri o fluviali). Queste ultime,
nate con finalità elioterapiche e sanitarie mutuate dall’igienismo ottocentesco, che aveva prodotto gli ospizi
marini e i sanatori con cui si era tentato di combattere
il ‘mal sottile’ (1), erano progettate per essere funzionali al benessere fisico dei piccoli ospiti, all’interno e
all’esterno, con spazi circondati dal verde, ben aerati e
illuminati. Al contempo gli edifici erano concepiti per
trasportare i bimbi in un contesto ‘altro’ dalla famiglia
e dai luoghi di provenienza, impressionandoli con linee
moderne ed essenziali, che evocano immagini futuristiche (aerei, idrovolanti, navi, sommergibili) e i giochi
meccanici agognati dai bambini, o trasfigurazioni a scala architettonica di simboli cari al regime, come la ‘M’
mussoliniana, i fasci littori ecc.
Finalità architettoniche e propagandistiche con cui
sono concepite le tre colonie climatiche che, nel corso
degli anni Trenta del Novecento, sono realizzate anche
in Abruzzo, sulla scia del massiccio programma per il
rinvigorimento della gioventù avviato dal regime (2):
due marine, ubicate sulla costa Adriatica, la Rosa Maltoni Mussolini a Giulianova, in provincia di Teramo
(1936) e la Stella Maris a Montesilvano, vicino a Pescara (1939) (fig. 1); una montana, nei pressi di L’Aquila,
la Colonia IX Maggio a Molteluco di Roio, realizzata
dall’Ente Nazionale Fascista per L’Assistenza alla Gente di Mare (3) su progetto dell’architetto Ettore Rossi:
convertita alla fine degli anni Sessanta nella Facoltà di
Ingegneria della giovane università aquilana, essa proseguirà idealmente la sua “missione educativa” fino al
sisma del 2009.
La colonia IX Maggio è situata su un altopiano quasi
sulla cresta della collina di Roio, a circa dieci chilometri
da L’Aquila, su cui affaccia dal versante settentrionale,
fronteggiando, invece, sul lato opposto il massiccio della
Maiella e quello del Sirente. L’edificio segna con l’elegante profilo il limite tra la parte meridionale del colle, ancora oggi quasi totalmente priva di vegetazione, e il lato
nord, con la densa pineta di conifere, che il Regio Corpo
Forestale dello Stato per prevenire le frane sulla strada e
la linea ferroviaria sottostanti.
Le qualità climatiche e il contesto ambientale sono
fondamentali per l’ubicazione della colonia che ospiterà
500 ‘figli del mare’ provenienti da tutto il territorio nazionale: un fabbricato di 31.000 metri cubi per costruire
il quale “sono stati portati sul Monte Rojo, a 970 metri
sul livello del mare, tutti i materiali di ferro, di muratura
e di legno … (4)”.
Se già dall’Ottocento, infatti, erano noti i salutari
effetti dell’altitudine per la cura delle patologie polmonari tubercolari e il potenziamento delle capacità
respiratorie, nel 1884 il medico e igienista abruzzese
Gennaro Finamore aveva evidenziato come l’Abruzzo,
in particolare, fosse un’eccellente stazione estiva per
il trattamento climatico di diversi stati morbosi (anemie, scrofola, infezione cronica da malaria, tubercolosi
polmonare) più rari nei climi temperati e ad un’altezza oltre i 600 metri, dato che “gran parte della nostra
Regione è al di sopra di siffatto limite (quattro quinti
dei Comuni dell’aquilano sono ad un’altezza superiore
a 600 metri)” (5).
Dei benefici effetti della colonia da costruire a Roio,
anche sull’economia locale, d’altra parte, è persuaso il
podestà dell’Aquila Centi-Colella, che nel luglio del
1934 (6) approva la cessione gratuita all’ente dell’area
dove sorgerà l’edificio e di parte della pineta per lo
svago dei bambini, oltre alla realizzazione a spese del
Comune del collegamento di circa 150 metri tra la
105
Fig. 1- Le due colonie marine abruzzesi: la Rosa Maltoni Mussolini a Giulianova, Teramo, Alberto Ricci, 1936; la Stella Maris a Montesilvano, Pescara, Francesco Leoni, 1939 (tesi Di Massimo-Iachini; Archivio Centrale dello Stato, PNF, Servizi vari, Serie II, b. 1368).
Colonia e l’esistente strada della pineta e l’estensione
fino ai fabbricati dell’illuminazione elettrica. L’edificio, poi, è costruito in poco più di due anni dall’impresa vincitrice nella licitazione privata dell’agosto del
1934, la romana Bonomi & Federici, tra le più attive
nella Capitale, ove nel 1932 aveva lavorato alla realizzazione del grandioso progetto della Via dell’Impero. Anche il progettista e direttore dei lavori, Ettore
Rossi, nella relazione del giugno del 1935 a Davide
Lembo, presidente della Federazione Fascista Gente del Mare, testimonia la solidità dell’impresa, che
106
ha assunto numerosi operai per garantire due turni
giornalieri e allestito il cantiere con tutti i macchinari necessari (7). Nonostante il ritardo nell’inizio dei
lavori, consegnati il 7 settembre 1934, per la decisione di aumentare di un piano l’edificio che, trovandosi
in zona sismica, impone “lo studio di speciali robuste
strutture in armonia alle nuove disposizioni ed alle richieste fatte dalle Superiori Autorità tecniche” (8), il
27 luglio 1937 il Ministro delle Comunicazioni Antonio Stefano Benni e il Ministro delle corporazioni
Ferruccio Lantini inaugurano “nel nome del Duce” la
Fig.2 - La colonia IX Maggio a Monteluco di Roio, L’Aquila, Ettore Rossi (1937). Vista dell’edificio allegata al progetto di ripristino
del 1955 e foto tratta dal fascicolo pubblicitario dell’Ente Nazionale
Fascista per l’Assistenza alla Gente di Mare (Archivio Enti Soppressi presso l’Ispettorato Generale di Finanza, ENAGM, b. Colonia
Montana di Rojo, 1937-61).
colonia IX Maggio (fig. 2) che, durante la visita del
18 giugno 1939, anche Costanzo Ciano apprezzerà
come “semplicemente bella” (9).
Quando progetta la colonia aquilana, d’altra parte,
Ettore Rossi (1894-1968), architetto originario di Fano,
ma che vive e lavora a Roma fino al 1945, anno in cui si
trasferisce a Milano ‘naufrago’ del regime, è già partecipe
della breve ma intensa stagione del MIAR, il Movimento
Italiano Architettura Razionale, probabilmente, anche
grazie all’influenza dell’amico e collega di studio Mario
Ridolfi (10).
Se, infatti, sul finire degli anni Venti del Novecento, Rossi aveva realizzato nella Capitale importanti edifici ancora con un gusto storicista (11), certamente gli
anni Trenta sono per lui quelli più fecondi, anche per la
maturazione di uno stile razionalista, con progetti e realizzazioni legati al regime (12) e la crescente esperienza
nella progettazione di moderni ospedali monoblocco, tra
cui quello vincitore a Bolzano (1934), con planimetria a
doppio T a braccia disuguali incurvate. Un’architettura
in cui evidenti sono le analogie con l’impianto di Roio,
progettato nello stesso anno, in particolare nella distribuzione per zone e nel corpo frontale sud dedicato alla
degenza.
Rossi, il primo in Italia a progettare ospedali a blocco
unico, già da tempo adottati negli Stati Uniti per ridurre
i tempi di percorrenza tra reparti e i costi di costruzione
rispetto al tipo ‘a padiglioni’, infatti, progetta la colonia
aquilana secondo un canonico schema ‘monoblocco’, realizzando un corpo di fabbrica unico “per quanto il terreno
piano non gli mancasse; essendo anzi invidiabile questa
colonia per i grandi prati cintati che può offrire ai suoi
ospiti” (13).
Pur non essendo previste la degenza e la cura dei malati, egli applica anche nella colonia di Roio i criteri
progettuali di serialità su più piani e disposizione degli
ambienti in base alla destinazione e all’ottimale orientamento per la loro aerazione e soleggiamento, desunti
dall’esperienza nella progettazione edilizia ospedaliera. I
servizi posti in asse nella porzione centrale del fabbricato,
infatti, suddividono l’edificio in due ali, maschile e femminile, inclinate esattamente di quindici gradi verso est
in modo da godere di un’insolazione ottimale durante la
giornata e in inverno, giacché la colonia era attiva anche
da novembre a giugno, oltre che nel periodo estivo. Le ali
contengono le palestre a piano rialzato e le camerate ai
piani superiori, con i corridoi e i servizi disposti sul fronte
opposto, in modo da usufruire anch’essi di un’aerazione e
illuminazione dirette (fig. 3). Anche in questo caso Rossi
applica quanto indicato in riviste e convegni per la realizzazione degli ospedali monoblocco in Italia. A differenza
di quelli americani, si raccomandava che gli edifici non
avessero camere di degenza su entrambi i lati dei corridoi,
affinché non fossero bui e poco aerati, e non ci fossero
servizi igienici privi di finestre, in cui non sempre era
possibile utilizzare la costosa ventilazione artificiale, già
ampiamente diffusa oltre oceano.
L’elegante planimetria a doppia curvatura della colonia, certamente risultato del razionale orientamento degli
ambienti interni secondo l’asse eliotermico e la loro destinazione, ma anche di una sapiente ricerca architettonica,
evoca una ‘M’ stilizzata in onore del duce e rimanda alla
proposta presentata proprio tra il 1933 e il 1934 da Ettore Rossi, Mario Ridolfi, Vittorio Cafiero e Bruno Ernesto
La Padula nel concorso del Palazzo del Littorio a Roma.
L’edificio, infatti, si staglia sullo sfondo boscoso della Pineta di Roio aprendosi verso il fronte sud della collina, in
origine completamente privo di alberature (fig. 4), creando un bilanciato insieme architettonico e paesaggisti-
107
Fig. 3 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio: planimetrie originarie dell’edificio (LABÒ, PODESTÀ 1941) .
co, già apprezzato dai contemporanei. Giuseppe Pagano
osserva, infatti, che “questa sana e semplice costruzione
di Ettore Rossi, ottimo architetto e tecnico ospedaliero,
è una realizzazione che si inserisce ottimamente nella letteratura internazionale delle Colonie di montagna e fa
figurare bene il nostro paese” e che “il paesaggio ampio
e solenne, col digradante ondeggiamento dei boschi di
pini, ne è valorizzato e non soffre alcuna offensiva contaminazione” (14).
Nella colonia aquilana, tra l’altro, l’istituzione dei turni invernali portava il periodo di permanenza dei piccoli
ospiti da quaranta giorni a otto mesi, passando dai più
semplici criteri organizzativi propri delle colonie temporanee a quelli più complessi degli istituti permanenti,
rivolti non soltanto al miglioramento delle condizioni
fisiche e spirituali, ma anche alla formazione culturale e
scolastica dei bambini. Tale maggiore complessità funzionale renderà la struttura tipologicamente adatta ad accogliere la funzione universitaria, che assumerà alla fine
degli anni Sessanta, dopo il periodo di trasformazioni e
abbandono iniziato con lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale (15).
Anche il rettore Vincenzo Rivera, infatti, nell’inaugurazione dell’anno accademico 1966/67 osserva che “lo
stabile, che appartiene all’ente assistenza gente di mare,
che risulta di circa 40.000 metri cubi di capienza, con
circa 250 finestre, … così com’è, in parte già corrispon-
108
de largamente alle necessità di una Facoltà di notevole
impegno, quale quella d’Ingegneria, essendo dotato di
16 grandi aule e circa 10 altri diversi ambienti” (16).
L’obiettivo è creare per la Facoltà d’Ingegneria, nata nel
1966 in seno alla Libera Università degli Studi dell’Aquila istituita nell’agosto 1964, “un centro universitario
moderno, completo, autonomo, indipendente dal centro
urbano, tipo College, verso cui vanno orientandosi le università dell’avvenire” (17) con spazi per la didattica, nuove strutture sperimentali, di ricerca e ricettive; obiettivo
parzialmente realizzato solo con l’ampliamento costruito
negli anni Novanta.
In realtà, di là da quanto ritenuto, l’adattamento
dell’ex colonia montana alla funzione universitaria richiese non poche, infelici, modifiche all’equilibrato
impianto originario, operate su progetto dell’allora direttore dell’Istituto di Architettura e Urbanistica, Leonardo Del Bufalo. Le più visibili riguardarono sia la
parte sommitale, con la chiusura del solarium, che sottolineava con la sua leggerezza l’elegante disegno originario, con vetrate continue e struttura in acciaio; sia quella
basamentale in cui, in particolare, furono tamponati gli
spazi per l’attività fisica all’aperto, posti nelle testate e
coperti dalla pensilina a sbalzo che percorreva tutto l’edificio, il cui sottile disegno fu alterato con un pesante
cornicione di bordo in acciaio corten, analogo a quello
inserito nell’ultimo piano.
Fig. 4 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio: vista originaria del fronte principale dell’edificio (LABÒ, PODESTÀ 1941).
Se tali manomissioni furono operate all’interno delle
linee geometriche dell’impianto esistente, il ‘brutale’ accostamento sul fronte nord del doppio corpo cilindrico
di aule in cemento a vista, fu solo la prima delle superfetazioni (capannoni, volumi tecnici e laboratori), più o
meno casuali, realizzate nel tempo, compromettendo non
solo l’integrità del manufatto, ma anche il suo equilibrato rapporto con lo spazio circostante. Negli anni Settanta la piantumazione di sempreverdi realizzata davanti
al fronte meridionale, l’ha progressivamente schermato
alla vista, alterando la percezione dell’edificio, in origine
enfatizzato dal parterre libero antistante e dal lungo viale
assiale, che dai due piccoli padiglioni di accesso conduceva all’ingresso. Ulteriori modifiche sono intervenute, poi,
dalla metà degli anni Ottanta: all’esterno, la sostituzione
dei serramenti delle finestre, originariamente in ferro con
maglie rettangolari orizzontali, con più banali e pesanti infissi in alluminio a doppia specchiatura e serrande
in PVC; all’interno, l’alterazione di alcuni significativi
spazi, come le due plastiche trombe-scala laterali (fig. 5),
occluse con l’inserimento delle colonne degli ascensori,
per le necessità di adeguamento alle normative di accessibilità e sicurezza (18).
Più o meno nello stesso periodo, però, l’incremento
della popolazione universitaria delle facoltà aquilane e la
riorganizzazione e specializzazione nazionale dei corsi di
laurea d’ingegneria, ha reso pressante l’esigenza di spazi
adeguati, non presenti nella vecchia sede, e la necessità
di realizzare un nuovo complesso, costruito negli anni
Novanta accanto all’ex colonia (fig. 6).
Opera di Giulio Fioravanti e Gian Ludovico Rolli,
all’epoca entrambi docenti della facoltà, la nuova sede
d’Ingegneria, oggi (2020) campus del Dipartimento
d’Ingegneria Civile, Edile-Architettura, Ambientale
(DICEAA) e del Dipartimento d’Ingegneria Industriale
e dell’Informazione e di Economia (DIIIE), è strutturata
in tre parti, collegate da una ‘strada interna’ e un percorso sotterraneo, che conduce dai due corpi destinati alla
109
Fig. 5 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio, una delle due
plastiche scale laterali, occluse
negli anni Ottanta con l’inserimento delle colonne degli ascensori (Archivio Enti Soppressi
presso l’Ispettorato Generale di
Finanza, ENAGM, b. Colonia
Montana di Rojo, 1937-61).
didattica al terzo, con l’aula magna e la biblioteca (19).
Nonostante la notevole dimensione e l’inevitabile impatto, la disposizione dei blocchi è stata studiata sfruttando
il declivio del terreno, per non alterare il delicato contesto ambientale e architettonico preesistente e consentire
a chi giunge sull’altopiano di proiettare lo sguardo oltre
gli edifici stessi, evitando di soffocare con i nuovi corpi di
fabbrica l’affaccio a valle dell’ex colonia e lo spazio libero
del campus.
Completato negli anni Novanta, il complesso è stato
destinato esclusivamente alla didattica e i servizi connessi, mentre l’ex colonia ha continuato a ospitare le strutture dipartimentali fino al sisma dell’aprile 2009, che
ha danneggiato l’edificio preesistente in modo mediograve, non avendo arrecato danni evidenti alla struttura
portante, e in modo più significativo le strutture recenti.
Mentre, però, i tre nuovi blocchi sono stati riparati e progressivamente riattivati a partire dal 2012, attualmente
il progetto di consolidamento e restauro dell’ex colonia
è ancora in fase di verifica e in attesa di essere avviato. Si
auspica che esso sia occasione per un’opportuna rilettura critica dell’edificio e del suo contesto ambientale che,
oltre all’intervento a scala edilizia e di dettaglio, volto a
restituire al manufatto storico l’integrità espressiva alterata negli anni, contempli anche un restauro ambientale,
che consenta di ‘ricucire’ l’intimo legame tra architettura
e luogo, nonostante le irreversibili modifiche intervenute
con la realizzazione della nuova cittadella universitaria.
(1) Ciranna, Montuori 2018.
(2) Montuori 2019.
(3) L’Ente Nazionale Fascista per l’Assistenza alla Gente di Mare,
riconosciuto con il Regio Decreto del 14 luglio 1937 quale istituto
assistenziale, aveva il compito di provvedere a forme integrative
110
di assistenza per i marittimi disoccupati o in attesa d’imbarco e le
famiglie, e di concedere cure climatiche ai figli dei marinai. Vedi:
Statuto Ente Nazionale Assistenza alla Gente di Mare approvato
con Decreto del Presidente della Repubblica del 10 maggio 1955,
in Archivio Enti Soppressi presso l’ispettorato generale di
finanza (AES-IGF), ENAGM, b. Colonia Roio, 1966-68.
(4) Fascicolo pubblicitario dell’ENAGM, La Colonia IX Maggio
per i figli dei Marittimi (s.d.), in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia
Montana di Rojo, 1937-61.
(5) Finamore 1884, p. 4.
(6) Deliberazione del podestà del 19 luglio 1934, in AES-IGF,
ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1936-38.
(7) Relazione di Ettore Rossi del 15 giugno 1935, in ivi, 1934-43.
(8) La struttura portante della colonia è in cemento armato
sismo-resistente, con campate tra i pilastri di 4,5 x 5 metri.
(9) Fascicolo pubblicitario dell’ENAGM, La Colonia IX Maggio…,
in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1937-61.
(10) Pandolfi 2013.
(11) Rossi realizza a Roma vari importanti interventi, tra cui il
Pontificio Collegio Nord Americano sul Gianicolo (1926) e il complesso residenziale in viale delle Belle Arti (1929).
(12) Nel 1935 Rossi progetta e realizza i padiglioni dell’Ottica,
della Chimica e del Turismo all’Esposizione Universale di Bruxelles
e, nel 1937, quello introduttivo e quello dell’ONMI all’Esposizione
Nazionale delle Colonie Estive e della Cura dei Bambini, allestita
a Roma al Circo Massimo da Adalberto Libera, Mario De Renzi e
Giovanni Guerrini, dove si contano ben 492 edifici per le colonie
climatiche. Vedi: Lavagnino 1937.
(13) Labò, Podestà 1941.
(14) Pagano 1937, pp. 24-25.
(15) Dal 1940 la colonia IX Maggio accoglie 600 bambini libici
ospiti del Ministero dell’Africa Italiana, poi è occupata dall’esercito italiano e da quello tedesco e, in seguito, ospita fino al 1949
profughi e sfollati dalla guerra. Negli anni successivi l’edificio è
utilizzato solo sporadicamente fino al 1968, quando è acquistato
dall’Università degli Studi dell’Aquila.
Fig. 6 - Vista dall’alto dell’ex colonia, ristrutturata dopo gli anni Sessanta per accogliere la Facoltà d’Ingegneria dell’Università degli Studi
dell’Aquila, e del nuovo complesso costruito negli anni Novanta (LIAP, fonte: https://it.wikipedia.org).
(16) Relazione del rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila degli Abruzzi alla inaugurazione dell’anno accademico
1966/67, in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia montana di Rojo,
1946-62.
(17) Relazione del rettore…, ibidem.
(18) Benedetti 2009.
(19) Contini, Guerrucci 2003.
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THE SHIFT IN FOCUS FROM HEALTH TO THE EDUCATION OF THE “BEST AND THE BRIGHTEST”:
HOW THE HIGH-ALTITUDE HOLIDAY CAMP “IX MAGGIO” IN MONTELUCO DI ROIO
BECAME THE ENGINEERING DEPARTMENT OF THE UNIVERSITY OF L’AQUILA
The “Colonia IX maggio”, built in 1937 as part of the Fascist regime’s systematic strategy of the care and training of young people, is situated on Monte
Luco di Roio, a hill about ten kilometers away from the city of L’Aquila. A relationship with the environment and the rationalist principles guided the architect Ettore Rossi in the design of the building, which displays an elegant, double-inflected architecture, but is also a “health machine”, the result of Rossi’s
experience in the construction of modern monoblock hospitals. Used briefly at the outbreak of the Second World War, in the late Sixties the former holiday camp
was converted for use by the University of L’Aquila’s Faculty of Engineering and subjected to significant alterations to adapt it to university education. In
the Nineties it the faculty? or the former holiday camp? was transferred to a new complex nearby. Today (2020), the original building, with all its visible
alterations, functional adaptions and the scars of the 2009 earthquake, faces the faculty’s three buildings. Strengthened and reactivated, it awaits solutions
for restoration and reuse, as well as ways to re-stitch the small campus together.
112
PROGETTAZIONE E COSTRUZIONE DI CITTÀ UNIVERSITARIE
SOTTO LE DITTATURE EUROPEE NELLA PRIMA METÀ DEL NOVECENTO
Harald Bodenschatz
Nel Novecento le nuove città universitarie rappresentarono un tema di grande rilievo sia in Europa che nelle Americhe. Le dittature europee della prima metà del
Novecento hanno rivolto una particolare attenzione alla
costruzione di nuove città universitarie: la Città Universitaria di Roma è indubbiamente l’esempio più noto. Ma
nonostante il loro importante ruolo, le città universitarie vengono spesso trascurate nella storiografia dell’urbanistica, soprattutto quelle realizzate sotto le dittature.
Sembra quasi che la progettazione di città universitarie
non possa essere accostata all’immagine più diffusa delle dittature, che oggi appaiono retrograde, antimoderne, immobiliste, vere e proprie tombe della produzione
scientifica. Un approccio, questo, che ignora il loro carattere complesso. Per imporre i loro programmi e realizzare i loro processi di modernizzazione, le dittature hanno
avuto bisogno di esperti, soprattutto – e preferibilmente
– di quelli che si erano formati nelle loro istituzioni.
In seguito vorrei presentare tre città universitarie, che
vengono spesso dimenticate perché si trovano in un paese
piccolo e ai margini dell’Europa, il Portogallo. Non tratterò la Ciudad Universitaria di Madrid, che verrà analizzata in altri contributi all’interno di questo volume. Dopo
aver parlato del Portogallo, affronterò la più importante
città universitaria tedesca, progettata ma non realizzata:
la città universitaria di Berlino.
Il contributo è basato sui risultati di ricerche sull’urbanistica delle dittature, specialmente nell’Unione Sovietica (1), in Italia (2) e, naturalmente, in Germania (3).
Recentemente ho diretto, insieme al mio collega professore Max Welch Guerra, un progetto di ricerca sull’urbanistica sotto le dittature di Salazar, in Portogallo, e di
Franco, in Spagna. La nostra ricerca è oramai terminata e
i risultati sono stati pubblicati in due libri. (4).
Instituto Superior Técnico, Lisbona (5)
In Portogallo, il primo politecnico venne fondato relativamente tardi, nel 1911. Si trattava dell’Instituto Superior
Técnico, a Lisbona. Tuttavia, fu solo un anno dopo il colpo
di stato militare del 1926 che cominciarono i preparativi
per la costruzione di una città universitaria vera e propria. La realizzazione della nuova città universitaria venne
imposta dal nuovo direttore dell’Instituto Superior Técnico,
l’ingegnere José Duarte Pacheco, designato nel 1927. Lo
strumento utilizzato fu una politica del suolo mirata: l’u-
niversità acquistò terreni alla periferia di Lisbona, utilizzando un’area molto più estesa di quella necessaria per la
nuova città universitaria. Dopo la sua urbanizzazione, i
terreni non necessari vennero rivenduti a prezzo moltiplicato, operazione che permise il finanziamento per la costruzione della città universitaria: una strategia rischiosa,
ma vincente. Questo successo contribuì in maniera significativa all’ascesa al potere del direttore dell’Instituto Superior Técnico: nel 1932, Duarte Pacheco divenne ministro
dei Lavori Pubblici, carica che mantenne, eccezion fatta
per una breve interruzione, fino alla sua morte improvvisa
nel 1943, in un incidente automobilistico. Duarte Pacheco fu anche sindaco di Lisbona dal 1938 al 1943, ma soprattutto fu la personalità più influente nella produzione
urbanistica della dittatura di Salazar.
Pacheco incaricò nel 1928 un suo collega, l’architetto Porfírio Pardal Monteiro, di progettare la nuova città
universitaria. Questa venne realizzata su una collina, con
una struttura estremamente compatta e un carattere fortemente urbano. L’edificio principale (fig. 1), che ospita
il rettorato, la biblioteca e l’auditorio, si trova lungo un
imponente asse centrale, che porta ad una strada radiale
di grande importanza. Si tratta dell’Avenida Almirante
Reis, che andrà a collegare il centro della città, sulla riva
del fiume, al nuovo aeroporto, che verrà realizzato negli
anni successivi. Gli edifici laterali ospitavano soprattutto
laboratori. La progettazione restò nelle mani di un solo
architetto, che adottò un linguaggio formale per nulla imponente, bensì funzionale, semplice, certamente sobrio.
La costruzione della città universitaria terminò nel
1937. L’università fu concepita come una sorta di corona
urbana e venne realizzata in gran parte coerentemente al
progetto originale. Un’altra caratteristica peculiare del
progetto è quella legata alla strategia per il suo finanziamento, basata su una politica del suolo che speculava
sull’aumento del valore dei terreni attraverso la loro urbanizzazione. L’Istituto Superior Técnico non fu solo la prima
città universitaria costruita a Lisbona, o in Portogallo, ma
anche una delle prime in Europa dopo la prima guerra
mondiale.
Cidade Universitária, Lisbona (6)
La seconda città universitaria costruita a Lisbona sarà
molto diversa dalla prima. I preparativi per la pianificazione iniziarono già nel 1930, ma solo nel 1935 si tro-
113
vò un’efficace struttura organizzativa. Nello stesso anno
Porfírio Pardal Monteiro, progettista dell’Istituto Superior
Técnico, ricevette l’incarico di progettare anche la nuova
città universitaria.
Nel 1937, Pardal Monteiro visitò, insieme al Ministro
dei Lavori Pubblici e dei Trasporti Duarte Pacheco, alcune
strutture universitarie in Algeria, Italia e Francia. A Roma
visitarono la Città Universitaria e a Parigi la Cité Universitaire. Nel 1939 venne presentato pubblicamente il progetto di
una nuova città universitaria a Lisbona. Basandosi sul modello di quella romana, Pardal Monteiro progettò un complesso di edifici compatto, in cui il rettorato e l’auditorio
avrebbero costituito il centro della nuova città universitaria.
Dopo alcuni cambiamenti, alla fine del 1941 Pardal Monteiro iniziò ad elaborare il progetto definitivo. Tuttavia, la
morte precoce del potente ministro Pacheco, nel 1943, portò a un’interruzione del progetto. Anche se più avanti, nel
1952, lo stesso Pardal Monteiro poté riprendere i suoi piani,
nel 1956 altri architetti, João Simões e Norberto Corrêa, furono incaricati di proseguire la realizzazione della città universitaria. Questi cambiarono radicalmente il carattere del
primo progetto: si passò da un complesso di edifici compatto a un parco, in cui gli edifici universitari vennero collocati
a grande distanza l’uno dall’altro. Oggi, il campus appare
sconfinato: la struttura risulta poco comprensibile, data la
dispersione e la distanza tra i vari edifici (fig. 2).
L’Ospedale Universitario, nonostante sia poco integrato, costituiva e costituisce parte integrante della Cidade
Universitária. Fu progettato dall’architetto tedesco Hermann Distel, che disegnò anche l’Ospedale Universitario di Porto. Entrambi gli ospedali ricordano fortemente
l’architettura rappresentativa nazionalsocialista.
Universidade de Coimbra (7)
L’Università di Coimbra era la più importante e antica università portoghese. Già nel 1308 Coimbra divenne
sede dell’università. Nel 1928, due anni dopo il colpo di
stato militare, si iniziò a discutere della costruzione di una
nuova città universitaria. Vennero esaminate le strutture di
Parigi e Milano, ma anche la nuova città universitaria di
Madrid. Dopo un lungo dibattito, si decise di non realizzare una struttura separata dal resto del contesto urbano, ma
ubicata in città, sulla collina del centro storico, decisione
che implicò importanti demolizioni nel tessuto antico. Il
dittatore Salazar, che era professore a Coimbra, seguì con
particolare interesse la costruzione della città universitaria. Inoltre, il potente ministro dei Lavori Pubblici, Duarte Pacheco, fu coinvolto direttamente nel progetto. Dopo
una lunga discussione, l’architetto José Angelo Cottinelli
Telmo, in quel momento uno dei più importanti architetti
Fig. 1 - Lisbona, Instituto Superior Técnico, edificio del Rettorato, 2012 (foto dell’A.).
114
Fig. 2 - Lisbona, Ciudade Universitária, edificio del Rettorato,
2014 (foto dell’A.).
della dittatura, venne incaricato di tradurre i desideri di
tutti i partecipanti in un progetto generale.
Nel febbraio 1942, nel mezzo della seconda guerra
mondiale, la commissione per il progetto dell’Università
di Coimbra chiese agli ambasciatori di Germania, Italia, Spagna e del regime di Vichy di inviarle informazioni sulla costruzione o ampliamento delle Università di
Roma, Pavia, Firenze, Milano, Parigi, Heidelberg, Monaco di Baviera, Madrid, Salamanca e Valencia. Anche
questa richiesta venne sorprendentemente soddisfatta e
nello stesso anno Cottinelli Telmo presentó il suo progetto. Su questa base, vennero avviate le espropriazioni e
iniziate le demolizioni di edifici storici.
La nuova città universitaria venne progettata attorno
ad un asse centrale, dallo spiccato carattere monumentale. All’inizio si trova una grande scalinata che conduce ad
uno spiazzo con un’enorme statua del fondatore dell’università, il re Dom Dinis. L’arco di trionfo dietro alla
statua avrebbe dovuto segnare poi l’ingresso nella zona
universitaria vera e propria. Qui inizia un percorso pedonale, affiancato dagli edifici delle diverse facoltà (fig.
3), che termina davanti al portale del palazzo universitario storico, dove era stata progettata un’ulteriore piazza,
con la nuova biblioteca centrale. Dietro il portale si apre
l’antico patio dell’università. Per garantire dal patio una
vista suggestiva sulla valle del fiume, venne demolito
l’edificio storico dell’osservatorio astronomico. La nuova città universitaria venne costruita durante un periodo
Fig. 3 - Universidade de Coimbra, Facoltà di Lettere, 2012 (foto dell’A.).
115
Hochschulstadt di Berlino
Fig. 4 - Berlino, riorganizzazione del Grunewald. A nord la città
universitaria e la Scuola di Guerra del Politecnico di Berlino (da
«Architettura», agosto 1939, p. 492).
molto lungo, di circa quarant’anni. L’ultimo edificio fu
inaugurato soltanto nel 1975, dopo la caduta della dittatura, mentre l’arco di trionfo non fu mai costruito.
La costruzione della città universitaria di Coimbra è
stata resa possibile grazie alla mancanza di scrupoli delle
istituzioni che si fecero carico del progetto e della realizzazione. La brutalità dei loro metodi era particolarmente
evidente in tre aspetti: nei confronti degli edifici storici,
che vennero demoliti in gran quantità, dei loro abitanti,
obbligati con la forza a trasferirsi, e dei loro proprietari, che vennero espropriati. A causa della sua posizione,
all’interno del centro storico, la città universitaria poteva
essere ampliata solo in maniera molto limitata e attraverso processi di densificazione. Oggi, la città universitaria
troneggia sulla città, dalla quale è però separata. Città
e Università formano mondi paralleli, sia dal punto di
vista urbano che sociale. Dal punto di vista architettonico, gli edifici della città universitaria sono, stranamente,
decifrabili con difficoltà: né neoclassici né moderni, né
imponenti né eleganti, senza dubbio austeri e alquanto
goffi. Gli spazi tra gli edifici sono estesi e desolati, per
nulla simili a quelli del centro storico. Nonostante tutto,
nel 2014 la città universitaria è stata inclusa nella lista
del Patrimonio UNESCO.
116
Ottanta anni fa, nel dicembre 1937, venne organizzato
il concorso per uno dei più grandi progetti della dittatura
nazionalsocialista a Berlino: la nuova città universitaria.
Con questo gigantesco progetto, tutte le città universitarie esistenti nel resto d’Europa dovevano essere superate. Il concorso venne indetto dal Generalbauinspektor
der Reichshauptstadt, Albert Speer. Il Generalbauinspektor
era una potente istituzione, subordinata esclusivamente
al cancelliere del Reich, Adolf Hitler. Venne fondata il
30 gennaio 1937, per poter pianificare velocemente e in
maniera coerente la regione urbana di Berlino, evitando
tutti gli ostacoli esistenti a livello comunale.
L’obiettivo del concorso era, secondo l’annuncio del
1937, “la concentrazione di tutte le università di Berlino,
ad eccezione dell’Accademia delle Belle Arti, in una grande
città universitaria del Reich” (8). Il concorso non era rivolto
solo agli architetti, ma a “tutti i tedeschi, che si sentissero
chiamati a contribuire a questo importante progetto” (9),
compresi quelli che vivevano al di fuori del Reich. Si sottolineò esplicitamente che il concorso mirava a coinvolgere
“nuovi” partecipanti, anche giovani (10). Come a Roma.
Al grande concorso “pubblico” doveva seguirne un secondo, “ristretto” (11), al quale dovevano partecipare i 15
migliori progetti del concorso aperto. Oltre a questi, il
Generalbauinspektor doveva invitare 20 architetti di fama.
I progetti per la fase a partecipazione ristretta del concorso dovevano essere consegnati entro il 1° agosto del 1938.
I premi per il concorso erano molto cospicui: 50.000
marchi al primo progetto classificato, 20.000 al secondo
e 10.000 al terzo. Nell’annuncio del concorso si sottolineava inoltre che il Führer in persona avrebbe selezionato
i progetti vincitori. L’idea era di consultare i singoli concorrenti per l’attuazione del progetto, ovviamente sotto
la guida del Generalbauinspektor. L’obiettivo era quello di
costruire una sorta di città complessa, con il contributo di
diversi architetti che dovevano lavorare sotto la direzione
di un urbanista, responsabile dell’intero progetto, come
avvenne per la città universitaria di Roma, per un periodo
di realizzazione stimato in sei anni.
L’obiettivo legato al progetto della nuova città universitaria era estremamente ambizioso: la nuova struttura doveva
rappresentare la grandezza e l’importanza delle università di
Berlino come “sede del più grande centro culturale tedesco”
(12). Avrebbe costituito la “porta d’ingresso occidentale alla
capitale del Reich” (13). Infatti l’area scelta per la nuova
città universitaria si trovava al margine occidentale di Berlino, direttamente sull’asse Ovest, che, assieme all’asse Est
e a quello Nord-Sud, avrebbe dovuto dare un nuovo ordine
all’intera area metropolitana . Non lontano, sorgeva un altro importante impianto costruito nel periodo nazionalsocialista: il Reichssportfeld, il complesso sportivo che ospitò i
Giochi Olimpici del 1936. Inoltre, sempre nelle vicinanze
della futura città universitaria, si estendeva anche il Gru-
newald, il più importante parco urbano di Berlino (fig. 4).
Era evidente che “la vicinanza immediata del Reichssportfeld,
del Grunewald, delle acque del fiume Havel avrebbe dato
inoltre agli studenti l’opportunità di riposarsi fisicamente,
fare esercizio motorio e rilassarsi intellettualmente” (14).
La nuova città universitaria doveva essere organizzata
attorno ad una piazza centrale, lo Scholzplatz. Essa formava una cerniera lungo l’asse ovest, perché a questo punto
l’asse si piegava verso nord-ovest. Era stato progettato
anche un ospedale universitario, enorme edificio disegnato da Hermann Distel, che in quel periodo si stava occupando anche della costruzione degli ospedali di Lisbona e
Porto. Anche il progetto dell’ospedale berlinese era poco
integrato nella città universitaria. Infine, più a est, sulla
Heerstraße, era stata progettata la Stazione Mussolini.
Tra i 700 progetti di architetti provenienti da tutto
il mondo che parteciparono al concorso, ne vennero selezionati 20. Tuttavia il concorso non venne mai portato
a termine e i vincitori non vennero proclamati. Ad oggi
non esiste ancora nessuna ricerca approfondita su questo
importante progetto.
Poco prima dell’annuncio del concorso per la città universitaria, ebbe luogo un primo atto formale a sostegno
della strategia di realizzazione di una struttura universitaria ancora più estesa, nella parte occidentale di Berlino: la
posa della prima pietra dell’edificio della Scuola di Guerra
del Politecnico di Berlino (fig. 5). Questa facoltà nacque
come estensione dei dipartimenti del Politecnico di Charlottenburg che si occupavano di aspetti tecnici per conto
della Wehrmacht tedesca. La posa della prima pietra avvenne 80 anni fa, il 27 novembre 1937. In occasione di
questo atto, Hitler rese noto che la Scuola di Guerra si doveva inserire nel quadro di un nuovo complesso universitario. Così, nello stesso 27 novembre, venne pubblicamente
annunciato il progetto di una città universitaria.
La posa della prima pietra dell’edificio della Scuola di
Guerra fu un atto importante anche da un altro punto di
Fig. 5 - Plastico della Scuola di Guerra del Politecnico di Berlino
(da «Architettura», agosto 1939, p. 499).
vista. Può, anzi deve essere intesa come l’inizio di una profonda riorganizzazione della capitale del Reich, pianificata
da Hitler e Speer. Il discorso del Führer in questa occasione
sottolineava questo aspetto simbolico: “per questo sono
fermamente risoluto a far costruire a Berlino quelle strade,
edifici e piazze, che la renderanno per sempre degna di
essere la capitale del Reich tedesco … Con questa sacra
convinzione poso ora la prima pietra della Scuola di Guerra, la prima costruzione che verrà eretta per assecondare
questi piani. Dovrà diventare un monumento alla cultura
tedesca, alla conoscenza tedesca e alla forza tedesca” (15).
I lavori per la costruzione della Scuola di Guerra del
Politecnico de Berlino andarono avanti fino al 1944, poi
vennero sospesi. Dopo la guerra, le macerie di edifici
distrutti furono accatastate sul cantiere della Scuola di
Guerra e lì rimasero per più di 20 anni. Il risultato fu la
collina più alta di Berlino, il Teufelsberg (collina del Diavolo), alta 114 metri. Sotto questa collina sono seppelliti
i resti della Scuola di Guerra.
Berlino contro Roma e viceversa
Le città universitarie rappresentarono progetti di
prestigio, a livello nazionale, per le dittature europee.
La loro progettazione aveva però, sempre, un carattere
fortemente internazionale. Gli architetti incaricati rielaboravano le esperienze organizzative e di progettazioni
di altre città europee. Il modello più importante, cui si
faceva riferimento e che si mirava a superare, era la città
universitaria di Roma. Roma e Berlino erano in grande concorrenza, questo si esprimeva anche nel difficile
rapporto tra Marcello Piacentini e Albert Speer. Quello
che Piacentini pensava dell’architettura del Terzo Reich,
fortemente influenzata da Speer, lo ha consegnato, con
toni diplomatici, ai posteri. Nel numero speciale della
rivista “Architettura” (agosto 1939), sul tema “L’Architettura nel Terzo Reich”, curato da lui stesso, scriveva: “Il
metro d’oggi in Germania è fatto di mille centimetri…
L’architettura è volutamente ufficiale…In quei pilastroni
scanalati, non rozzi, ma forti, maschi, ci vedi un temperamento militare, e ti sembra di doverli passare in rivista,
così tutti allineati, come in divisa. Il giudizio su questo
movimento non può ancora darlo nessuno; dobbiamo attenderne il regolare sviluppo” (16).
(1) Bodenschatz, Post 2003 (2015).
(2) Bodenschatz 2011; sulle celebrazioni per gli 80 anni della
Città Universitaria di Roma cfr. anche Bodenschatz 2018a.
(3) Cfr. ad esempio Bodenschatz 2018b; su questo argomento
cfr. anche Bodenschatz, Welch Guerra, Sassi 2015.
(4) Bodenschatz, Welch Guerra 2019; Welch Guerra,
Bodenschatz 2019. Al progetto hanno lavorato i nostri assistenti
Christian von Oppen e Piero Sassi. Questo contributo è in parte
117
basato sui risultati della loro attività scientifica. Vorrei ringraziare anche Fabiana Ferro, studentessa dell’Università Bauhaus di
Weimar, che ha tradotto il testo del mio intervento.
(5) Cfr. Oppen 2019.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937, p. 1095.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Wettbewerb Hochschulstadt 1937, p. 6.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937, p. 1095.
(15) Hitler 1937, p. 4.
(16) Piacentini 1938, p. 468.
Bibliografia
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Stadt in der Sowjetunion 1929-1935, Berlin 2003; ed.
russa: Харальд Боденшатц/Кристиане Пост (сост.),
Градостроительство в тени Сталина. Мир в поисках
социалистического города в СССР 1929-1935, СанктПетербург 2015.
Bodenschatz, Welch Guerra, Sassi 2015
H. Bodenschatz, M. Welch Guerra, P. Sassi (a cura di),
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Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937
Der Wettbewerb für die neue Berliner Hochschulstadt, in «Bauwelt»,
1937, 48, p. 1095.
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Suche nach der neuen Stadt im faschistischen Italien, Berlin 2011.
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A. Hitler, Rede anlässlich der Grundsteinlegung zum Neubau der
Wehrtechnischen Fakultät der Technischen Hochschule Berlin am 27.
November 1937, in Wettbewerb Hochschulstadt Berlin, Berlin 1937,
pp. 3-4.
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H. Bodenschatz, 80 Jahre La Sapienza oder: Weisheit auf
Italienisch, in «Bauwelt», 2018, 2, pp. 6-7.
Oppen 2019
C. von Oppen, Technische Hochschule, Universitätsstadt, Coimbra:
Portugiesisches Heidelberg, in Bodenschatz, Welch Guerra 2019
Bodenschatz 2018b
H. Bodenschatz, Berlin Mitte: The product of two dictatorships,
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M. Piacentini, Premesse e caratteri dell’architettura attuale tedesca,
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H. Bodenschatz, M. Welch Guerra (a cura di), Städtebau
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Welch Guerra, Bodenschatz 2020
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Kreuzzug Francos. Wiederaufbau und Erneuerung unter der Diktatur in
Spanien 1938-1959. Berlin 2021.
Wettbewerb Hochschulstadt 1937
Wettbewerb Hochschulstadt Berlin, Berlin 1937.
THE DESIGN AND CONSTRUCTION OF UNIVERSITY CAMPUSES
UNDER EUROPEAN DICTATORSHIPS DURING THE FIRST HALF OF THE 20TH CENTURY
University cities were a national prestige project for European dictatorships during the first half of the 20th century. Their preparation was, however, internationally oriented. The architects processed the experiences of other European cities. The “Città Universitaria” in Rome is the most famous example. Also well
known is the “Ciudad Universitaria” in Madrid. Less attention has been paid to the three new university cities in Salazar’s Portugal: the “Instituto Superior
Técnico” of Lisbon, then the “Universidade de Coimbra”, the first domain of Salazar, and finally the “Universidade de Lisboa”. The planned “Hochschulstadt” of the Nazi dictatorship in Berlin is also largely unknown outside of specialist circles. Rome and Berlin were in a tough urban design competition. The
project of the university city in Berlin should be considered in response to the “Città Universitaria” in Rome.
118
LE UNIVERSITÀ CALIFORNIANE DEL NOVECENTO
Diane Yvonne Francis Ghirardo
Le prime università in America seguirono quelle europee, in quanto servivano principalmente all’educazione di
ecclesiastici, notai, avvocati e altri funzionari dello stato (1).
La prima università delle colonie britanniche nelle Americhe, Harvard, nacque nel 1636 in una modesta casa familiare al confine della regione selvaggia dell’ovest. All’inizio del
Settecento un insieme di edifici con muri esterni timpanati
furono ambientati in un grande giardino e disposti attorno ad uno spazio aperto, il Quad, in memoria degli edifici
ecclesiastici di Oxford e Cambridge (2), dove gli studenti
parlavano solamente latino. L’architettura d’ispirazione vagamente medioevale del primo Settecento sparì nei decenni
seguenti, quando l’università abbracciò lo stile Georgiano
per Massachusetts Hall, mentre nei nuovi edifici si iniziò ad
adottare lo stile del Rinascimento italiano (3).
Non lontano da Harvard, nel 1701 fu stabilita l’università di Yale, con un campus in stile gotico austero seguito
dal neo-gotico (4). Con gli edifici principali disposti attorno ad uno Quad, Yale assomigliava a Harvard e ad altre università fondate prima della rivoluzione industriale, sempre
legandosi al modello ‘Oxbridge’ delle università inglesi di
Oxford e Cambridge (5). Nell’adoperare questa tipologia,
le università americane confermavano una concezione dello
studio universitario indirizzato ad educare gli ecclesiastici
e i servitori dei governi, o i gentiluomini dotati di mezzi
sufficienti per evitare la necessità di lavorare (6).
Il concetto di produzione di novità nelle università
americane nacque nel Settecento, nell’epoca dell’Illuminismo, diventando sempre più importante negli anni
della Rivoluzione Industriale con la crescita di università pubbliche e private, che proseguì nella seconda metà
dell’Ottocento. Non era più possibile contenere tutto il
mondo della sapienza nel corpus degli studi umanistici
e la preparazione del corpo ecclesiastico tenuto a svolgere il ruolo di pastore per la nuova società ideale in un
mondo nuovo. Nel corso del mezzo-secolo successivo, le
università private aggiungevano le facoltà di medicina,
di ingegneria, di scienza, di biologia ed altre materie che
rispondevano ai cambiamenti introdotti dalla Rivoluzione Industriale. Questa trasformazione si legò alle discipline accademiche e ad una nuova visione dell’unità della
sapienza, non più espressa dalla centralità della filosofia
morale bensì dalla separazione della scienza dalla religione, con conseguente marginalizzazione della religione e
dell’importanza dell’etica negli studi universitari (7). Lo
sviluppo dell’architettura e la pianificazione delle università americane del Novecento con la nuova enfasi sulle
scienze esprime questa cesura tra le scienze, le professioni
e gli studi umanistici, da una parte, e gli studi religiosi
dall’altra, resi sempre più marginali nel corso del secolo.
In questa relazione verranno prese in considerazione
alcune delle università della California che risalgono agli
ultimi anni del XIX secolo e ai primi anni del Novecento. Due sono università pubbliche: l’University of California a Berkeley e a Los Angeles, mentre altre tre sono
private: l’University of Southern California, la Stanford
University, e la Golden Gate University.
In origine le aule di Berkeley furono ambientate nella
vicina città di Oakland (8). A partire dal 1870, vennero eretti nuovi edifici su grandi appezzamenti terrieri, al
tempo acquistati per edificare un college privato che doveva
fondersi come scuola di agraria. Il sito era caratterizzato da
colline, gole, alberi di querce e i primi edifici erano piuttosto modesti. Costruiti senza un piano regolatore preciso, si
mescolavano costruzioni in legno in stile Gotico-Vittoriano
con altre in stile secondo impero o in un modesto stile neoclassico (fig. 1). Phoebe Hearst sosteneva la costruzione di
un ginnasio per le donne. Esso venne progettato da Bernard
Maybeck, mentre gli interni vennero ideati dalla sua exstudentessa Julia Morgan, riprendendo lo stile grazioso in
legno già visto nel tipico ‘bungalow californiano’ (9). Dopo
la sua distruzione in un incendio nel 1922, il figlio William
R. Hearst commissionò in memoria della madre una nuova struttura, l’Hearst Memorial Gymnasium (1923-1927),
chiamando a progettarlo ancora Maybeck e Julia Morgan.
Gli architetti decisero di cambiare l’indirizzo stilistico della
prima versione e di sceglierne uno più attuale, basato su un
classicismo moderno “stripped”. Il progetto privilegiava il
grande volume del ginnasio con grandi muri e ampi spazi
nudi, grandi colonne raddoppiate, finestre a doppia altezza
marcate da lesene, grandi fregi e colonnette di bronzo.
Nel 1898 la Hearst organizzò un concorso internazionale
ad Anversa per scegliere undici architetti per partecipare in
seguito a un secondo concorso finale con proposte personali. Queste proposte seguivano i principi di pianificazione
assiale e la disposizione delle masse secondo i paradigmi
dell’architettura classicizzanti dell’Ecole des Beaux Arts
(10), ma l’unico a non recarsi in California fu proprio il
vincitore, Emile Benard di Parigi. Vinto il concorso, si recò
subito in California, ma quando venne a sapere che sarebbe
passato almeno un decennio per costruire solo i primi edifici, il suo comportamento, arrogante e presuntuoso, si rivelò
un affronto per tutti, ad iniziare dalla Hearst. Fu così che
venne revocata la scelta che fu poi assegnata a John Galen
Howard, il quale seguì l’indirizzo stabilito da Benard per
una pianta ‘Beaux Arts’, introducendo alcuni cambiamenti.
119
Fig. 1 - University of Berkeley. Panorama, ca 1900.
Fig. 2 - Fredrick Law Olmsted. Progetto per la Stanford University, 1888.
La sua visione comprendeva la formazione di un ambiente in
stile italiano, che aveva l’obiettivo di ricreare in California
il sogno di un nuovo Mediterraneo sulla costa del Pacifico,
ispirato al clima, al paesaggio e alle grandi aspirazioni della
nuova Università. Il primo edificio costruito da Howard
fu the Hearst Memorial Mining Building, che richiamava chiaramente alcuni ambienti della Bank of England di
Sir John Soane. Il Benard, invece, vinse un concorso per la
biblioteca Doe nel 1901, un progetto neo-classico portato
120
a termine nel 1911 che rimane il suo capolavoro. Benard
si era lasciato ispirare da alcuni elementi caratteristici di
biblioteche famose, come ad esempio quella realizzata da
Christopher Wren a Cambridge (11).
La University aprì nel 1919 un campus più a sud, nell’allora zona residenziale a sud del downtown di Los Angeles,
inizialmente come scuola per futuri insegnanti, il cui programma prevedeva solo due anni di studio. Dieci anni dopo,
i direttori dell’Università decisero di svilupparla in un’area
Fig. 3 - University of Southern California. Ralph C. Flewelling,
Mudd Memorial Hall, cortile, 1938.
Fig. 4 - University of Southern California. Ralph C. Flewelling,
Harris Hall, 1940.
di Westwood. L’architetto capo, George Kelham, progettò i
primi quattro edifici, tra cui il più importante era la Royce
Hall (1929). Il secondo edificio rimarchevole era la Powell
Library, sempre di Kelham, che, come la Royce, era costruita secondo lo stile Romanico. Gli architetti si erano liberamente ispirati ad alcuni edifici del nord Italia, in particolare
alla chiesa di S. Ambrogio a Milano. La Kerckoff Hall di
Allison e Allison (1928), invece, era ispirata ad uno stile
gotico più nordico. Man mano che il campus cresceva, specialmente durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale,
lo stile Romanico era considerato troppo costoso, per cui
per la costruzione della successiva ondata di edifici furono
proposte versioni più moderate, anche se spesso ci si riferiva
in maniera astratta agli stili dei primi edifici.
Notevole fu la differenza tra il campus di Berkeley rispetto a quello della nuova università di Leland Stanford, la
Stanford University, la prima grande università privata fondata nel 1887 a sud di San Francisco sul sito dell’allora Palo
Alto Stock Farm (12). Nonostante il fatto che i fondatori
avessero una certa predilezione per l’architetto Henry Hobson Richardson, la loro scelta per il piano regolatore ricadde
sul famoso architetto-paesaggista Frederick Law Olmsted,
che però morì proprio nel 1888 (13). Passato dunque in
gestione allo studio Shepley Rutan e Coolidge, il progetto
prevedeva tre grandi cortili con portici ad archi ribassati,
colonne massicce, tetti di tegole rosse, impiego di una lucida pietra arenaria locale (fig. 2). Molto legati all’Italia dove
morì l’unico figlio, Leland Stanford junior, i genitori scelsero
uno stile architettonico simile al tipico monastero medioevale italiano, ovvero la sua versione trapiantata in California.
Tra gli edifici più importanti del cortile centrale è da
segnalare la Memorial Church, completata nel 1905. Sebbene la chiesa fosse stata disegnata da Shepley Rutan e
Coolidge, il progetto finale si deve all’architetto Clinton
Day di San Francisco. Gli ampi mosaici sulla facciata e gli
interni furono ideati e prodotti da Maurizio Camerino a
Venezia e poi spediti negli Stati Uniti. La cupola è posta su
pennacchi; in origine comprendeva una torre, gravemente
danneggiata nel terremoto e mai ricostruita. I committenti
insistevano per avere un grande arco all’entrata del cortile,
che gli architetti furono costretti a costruire nonostante la
loro avversione inziale. Nel 1906 il terremoto di San Francisco fece crollare una parte dell’arco della porta che non è
mai stato ricostruito. Va notato che Leland Stanford prese
in considerazione di costruire il cortile interno su larghe
fondamenta, disposizioni poi ignorate per le successive costruzioni dopo la sua morte, che invece subirono i danni
minori a seguito dei terremoti di San Francisco nel 1906 e
di Loma Prieta nel 1989. Le costruzioni successive aggiunte
all’Università, in particolare sul lato ovest del campus, dove
si trovano i dipartimenti di Scienze, Ingegneria e Medicina,
si sono allontanate dallo stile romanico per allinearsi a gusti
più moderni, anche se spesso si è cercato di richiamare le
allusioni medioevali del primo Quad. Viceversa, gli edifici costruiti più recentemente ritornano allo stile romanico
delle origini, anche se nessuna costruzione tra le altre opere
di architettura si è al momento particolarmente distinta.
A parte un inizio simile a quelli di Harvard, Berkeley
e tante altre nuove università americane, la University of
Southern California, fondata nel 1880 in collaborazione
con la chiesa metodista (14), ebbe uno sviluppo nei primi
ottant’anni che seguì uno stile medioevale. L’università immaginata dai fondatori consisteva in una serie di programmi di arti liberali, ingegneria, salute e scienze. La sua missione venne dichiarata nel 1880 e comprendeva l’insolita
disposizione secondo cui a nessuno studente sarebbe stato
negata l’ammissione a causa della razza, così come le donne
erano ammesse. Inizialmente costruiti su terreni agricoli a
sud del centro della città, i primi edifici della USC erano strutture in legno relativamente semplici o strutture in
mattoni, come Widney Hall, inaugurata nel 1880. Come
si nota dalla mappa e dalle fotografie, nei primi anni della
sua esistenza l’università fu attraversata da strade cittadine
e divenne centro di un traffico automobilistico abbondante.
121
Nel 1919 John Parkinson sviluppò un nuovo piano regolatore per l’Università, proponendo dodici nuovi edifici.
A quel tempo, l’Università decise di allinearsi in architettura allo stile romanico italiano, emblematicamente
evidente in numerosi edifici, quali ad esempio il Rettorato Bovard (1921), la biblioteca Doheny di Ralph Adams
Cram (1928) e la Mudd Memorial (1929) (fig. 3). Questa
scelta stilistica aveva lo scopo di ricreare un ‘tipico’ monastero toscano, completo di campanile, di cortile colonnato,
di biblioteca con un’abside e vetrate, come se fosse una
chiesa monastica. Il progetto dell’architetto Ralph Flewelling per Harris Hall nella facoltà di Architettura adottò
invece uno stile dal sapore moderno semplificato, razionalizzando molte delle caratteristiche tradizionali come le
cornici delle porte, il cortile, le bande alternate di mattoni
e pietra e, sulla trabeazione, un affresco socialista-realista
che celebrava la storia della civiltà (fig. 4).
La Seconda Guerra Mondiale segnò un cambiamento
nelle università, sia negli indirizzi accademici sia semplicemente di dimensioni. L’arrivo degli ex-combattenti
con finanziamenti statali (GI Bill) e la necessità di affrontare la guerra fredda e le nuove ricerche scientifiche
per il complesso militare-industriale portò ad un ampio
ingrandimento di quattro delle cinque università. La
sorpresa dell’iniziativa spaziale russa con lo Sputnik, nel
1957, diede un impulso alla ricerca scientifica a beneficio
delle università, mentre l’arrivo dei baby boomers dopo il
1965 richiese una spinta ancora più forte e tempestiva
per tutte le facoltà universitarie (15). All’inizio si tentò
di adottare motivi tradizionali in lingue moderne, come
nel caso della UCLA, dove anche in tempi recenti si è
continuato ad utilizzare i mattoncini rossi, una pietra
chiamata ‘buff stone’ e terracotta, già utilizzate nei primi edifici, come il Genetics Building di Venturi, Scott,
Brown e nella Herb Alpert Music School di Kevin Daly,
che ha mantenuto il tradizionale utilizzo di mattoni, buff
stone e terracotta, anche se orchestrati in un linguaggio
molto più contemporaneo.
Comunque, la mediazione tra la tradizione e il gusto
moderno non durò a lungo. Presso la USC il nuovo piano
regolatore di William Pereira seguiva i principi standard
della pianificazione modernista, chiudendo le strade e tenendo separati pedoni e automobili, spostando il parcheggio sul perimetro e inserendo ampi spazi verdi. Il progetto aveva l’obiettivo, infatti, di riqualificare il campus con
una serie di cortili, o piazze quadrate, dando così inizio ad
un’epoca in cui la tradizione neo-romanica si spostava a
favore di edifici progettati in stili architettonici moderni,
come nella Gould School of Law di A.C. Martin (1970).
La Gould segnò il passaggio alla costruzione di nuovi
edifici brutalisti per il campus, ad esempio la Watt Hall
(1974) di Edward Killingsworth e Samuel Hurst.
Se questa scelta di sviluppare lo stile brutalista fosse
legata alla Ribellione di Watts di 1965 rimane una domanda aperta. Negli ultimi anni, il presidente dell’università Nikias ha orientato lo stile architettonico verso
il modello medievale-romanico ampliato con ‘steroidi’,
come il Tutor Campus Center e il nuovo “villaggio” Universitario. Tra le più importanti delle strutture recenti c’è
la Facoltà dell’Arte del Cinema, finanziata da George Lucas il quale odiava la noiosa scatola modernista della precedente scuola di cinema. Il capocantiere personale per i
suoi film, Tom Brady, si impegnò a realizzare gli schizzi
di edifici medievali preparati da Lucas. Seguendo le orme
delle altre università, anche la Stanford vacillò tra il tentativo di mediare tra stili tradizionali e altri moderni e la
ricerca di stili architettonici alla moda, come nella nuova
facoltà di Storia dell’Arte di Diller e Scofidio (fig. 5).
Fig. 5 - Oshman Diller Scofidio + Renfro. McMurtry Hall,
Stanford University, 2015
(foto dell’A.).
122
Fig. 6 - Golden Gate University, Golden Gate Avenue, San
Francisco.
Di tutte le università analizzate sinora qui, soltanto la
Golden Gate è rimasta coerente con la sua missione iniziale. La Golden Gate University iniziò la sua vita istituzionale con lezioni serali tenute presso la YMCA (Young Men’s
Christian Association) a San Francisco durante la Gold
Rush, formalmente fondata nel 1901. Si è poi occupata di
organizzare corsi serali per studenti che volevano studiare
giurisprudenza ma i cui lavori diurni impedivano loro di
frequentare un’università in modo regolare o di studiare
presso uno studio legale senza essere pagati per diversi
anni; le sue lezioni si tenevano di notte. Essa ha offerto fin
dall’inizio una formazione professionale, prima in giurisprudenza e poi in business, contabilità, tassazione ed altre
professioni. Fin da subito ha ammesso donne e persone di
colore. Va notato che questo era in netto contrasto con le
università private della costa orientale americana, dove le
donne non furono ammesse ai programmi universitari di
Harvard alla pari con gli uomini fino al 1977.
Il primo edificio della Golden Gate era posto all’interno della YMCA di San Francisco, dove si trovavano le
scuole di giurisprudenza e di contabilità. La scuola rimase fino al terremoto del 1906, quando l’incendio distrusse
gran parte dell’edificio della YMCA, la quale nel 1910
si trasferì nell’edificio sulla Golden Gate in una struttura in muratura. Questo edificio venne sempre condiviso
con la YMCA. L’università si trasferì alla sua posizione
attuale sul viale Mission nel 1968, nell’edificio l’Allyne
Building, seguito dal progetto di William Podesto & Associates per una nuova struttura distaccata dalla YMCA
nel 1977, in stile neo-brutalista ma sempre inglobato dai
grattacieli della vivace downtown di San Francesco (fig.
6). Tra le sue caratteristiche più singolari, la Golden Gate
ha sempre mantenuto (e continua a farlo) programmi serali per chi lavora.
Come abbiamo visto, con la singolare eccezione della
Golden Gate, l’architettura di tutte le università era ispirata interamente a modelli europei e a quelli appartenenti
alla costa orientale, con una breve parentesi negli anni ’60 e
’70. Infatti, proprio quando il nuovo campus universitario
di Roma fu costruito in uno stile moderno da Piacentini,
Pagano e altri, in California tutte le scuole, eccetto la Golden Gate, stavano perfezionando entusiasticamente le loro
versioni del romanico italiano ovvero, medievale toscano.
Tutte le università pubbliche e private spesero considerevoli energie nella raccolta di fondi per erigere nuovi edifici
universitari per soddisfare le nuove esigenze in campi come
la bioingegneria ancora una volta, ad eccezione della Golden Gate, la cui energia rimase coerente in alcuni campi
professionali. Tutte le altre scuole hanno residenze per permettere agli studenti di vivere nel campus, e quindi forniscono anche molte altre strutture, come sempre lo stadio.
Golden Gate è una scuola professionale, quindi non è munita di sport, dormitori e neppure di tutte le altre strutture
tipiche delle altre università; gli studenti possono invece
usufruire delle possibilità offerte dalla città stessa. Tuttavia, è l’unica delle scuole situate direttamente nel centro
di una città, anche se ci sono altre università private più
lontane dal downtown di San Francisco.
È forse questa la caratteristica più notevole di queste
università della California. Con abbondanti aree urbane
e rurali, in tutti i casi tranne quello della Golden Gate
amministratori e fondatori hanno scelto di portare gli
studenti lontani dalla corruzione e dalle delizie della città,
seguendo una lunga tradizione di sentimenti anti-urbani
già sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti. Persino la
USC, pur sostenendo di essere un’università urbana, si
trova in realtà nel mezzo di un’area suburbana di case e
appartamenti costruiti nel primo Novecento, occupati pre-
123
valentemente da neri e messicani. In ogni caso, negli anni
successivi alla ribellione di Watts, la USC iniziò la costruzione di barriere e porte per controllare l’accesso veicolare
all’università e per rendere possibile la chiusura totale nel
caso di una ribellione. Molto più recente invece è la chiusura anche al traffico pedonale dalle 21 alle 6 di mattina
- quando, per altro, tutti gli edifici e le strutture del campus sono accessibili solo a chi ha la carte d’identità dell’università. La stessa paura della città che ha spinto le altre
tre università ad essere fondata lontano dalla città spinge
la USC a chiudersi contro la città. Un cinema e una sala
da bowling facevano parte della vecchia University Village, quando però si propose di rifarli nel nuovo quartiere,
il presidente negò con intransigenza l’idea, perché a suo
giudizio avrebbe portato “gente sbagliata” nel quartiere.
Soltanto la Golden Gate ha prosperato nella sua posizione centrale, in quanto non solo è facilmente accessibile ai
residenti della città, ma attrae studenti provenienti dalla
penisola e dalle città limitrofe. Le altre quattro università,
come molte altre nello stato della California, rimangono
affascinanti perché il campus universitario è simile per certi versi a un monastero, incontaminato da forze esterne e
di aspetto altero grazie al recupero di modelli medievali di
università celebri in Italia, Inghilterra e Francia, così in progetto come in architettura. Tuttavia l’immagine non quadra
con la realtà, perché oramai lo studente viene considerato un
consumatore e l’università la tavola grande dove si può scegliere secondo il proprio gusto: in questo modo l’università
è tenuta a provvedere e a soddisfare tutti gli appetiti.
(1) Rudolph 1990; Geiger 2014.
(2) Bunting 1998.
(3) Ivi, pp. 15-26.
(4) Boris 1988; Clark, Crook 1995.
(5) ‘Oxbridge’ (Oxford + Cambridge) esprime l’organizzazione
dell’università in collegi con edifici storici prevalentemente di
gusto gotico, disposti in piccole comunità dove gli studenti vivono
e studiano.
(6) Geiger 2014, pp. 25-31.
(7) Reuben 1996.
(8) Pelfrey 2004.
(9) Boutelle 1995.
(10) Drexler 1977.
(11) Helfand 2002.
(12) Turner 1984.
(13) Fein 1973.
(14) In sintesi la Universsity of Southern California fu gestita con
presidenti ministri metodisti fino al 1952, quando l’affiliazione con
la chiesa fu abbandonata definitivamente.
(15) Muthesius 2001, pp. 13-15; Kerr 1963.
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Boris 1988
E. Boris, Art and Labor: Ruskin, Morris, and the Craftsman Ideal
in America, Ann Arbor MI 1988.
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Mass.-London 1998
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History of Taste, 2nd ed., London 1995.
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Tradition, New York 1973.
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and Culture from the Founding to World War II, Princeton 2014.
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Athens 1990.
Turner 1984
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CALIFORNIA’S 20TH-CENTURY UNIVERSITIES
The first major universities founded in California initially followed the Oxbridge (Oxford + Cambridge) model of neo-gothic or medieval buildings clustered
around a central courtyard, or Quad, deliberately remote from urban centers. Over the course of the twentieth century, this model shifted as the curriculum veered
away from traditional liberal arts, ethics and religion toward the sciences and the professions, with a lesser emphasis on the liberal arts. Two major private
universities and three private ones serve as models for the range of approaches taken to address the demands of a new curriculum. Only one private university,
Golden Gate University and, to a lesser extent, the University of Southern California, remained integrated within an urban setting,
124
DAL CHIOSTRO AL CAMPUS:
PROGETTAZIONE DELLE UNIVERSITÀ AMERICANE
Steven W. Semes
La Città Universitaria, un complesso di edifici specificamente progettato e realizzato nel 1932-35 per ospitare la sede dell’Università di Roma “La Sapienza”, è una
novità nello sviluppo storico delle università italiane le
quali, come altre nel continente europeo, erano collocate
in edifici destinati ad altri scopi e disperse tra i quartieri
della città, quindi comunità inserite nel tessuto urbano,
come a Bologna o Parigi. La nuova sede della Sapienza richiama le istituzioni anglosassoni, dove studenti
e docenti lavorano in relativa indipendenza dalla città.
Essendo state fondate in associazione con comunità religiose, le università britanniche hanno mediato le forme
dai monasteri medievali, con le diverse attività collocate
intorno un chiostro o quadrangle. Le sedi delle facoltà di
Oxford e Cambridge conservano ancora questo carattere
di chiostro, anche se i tipi e gli stili degli edifici hanno
subìto cambiamenti nel corso dei secoli (1).
Un simile modello fu adottato nelle colonie inglesi in
America, dove furono costruiti complessi di edifici dentro le città ma distinti dai loro centri. Tali edifici venivano collocati intorno ad uno spazio aperto che richiamava
il chiostro o quadrangle degli esempi inglesi, come ad
Harvard, la prima università fondata nelle colonie (2) e
come anche a Yale, William and Mary, Princeton ed altre
università contemporanee (3) (fig. 1).
Una seconda differenza tra le istituzioni del mondo anglosassone e quelle europee va rilevata nel fatto che nelle
prime gli studenti erano prevalentemente alloggiati negli edifici dell’università, assumendo così gli edifici stessi
un carattere residenziale oltre che istituzionale.
Il “villaggio accademico” di Thomas Jefferson nell’Università della Virginia, realizzato tra il 1819 e il 1826, ci
offre un diverso modello, una comunità quasi utopistica
situata in un idilliaco paesaggio rurale: studenti e professori vivono e lavorano insieme dietro il lungo colonnato
che si affaccia sui due lati del prato centrale, uno spazio
aperto e alberato, per un’immagine perfetta di una comunità di uguali. Il prato sale leggermente lungo una
collina in cima alla quale domina la Rotunda, monumento
ispirato al Pantheon di Roma e che contiene la biblioteca.
Il prato, The Lawn in inglese, è più una sorta di percorso
che un quadrangle, con un carattere che somiglia ad un
villaggio piuttosto che ad un chiostro. Come alcune delle
intentional communities nel Nuovo Mondo, ossia comunità
fondate dal nulla da leader di società o gruppi religiosi,
l’idea di Jefferson era essenzialmente urbana, nel senso
che si voleva un insediamento denso su un piano rego-
larmente geometrico, ma anche posto in relazione con
un circostante paesaggio civile e coltivato. Dobbiamo
ricordare che Jefferson era un illuminista, non un romantico: la vista importante per lui non era quella dalla Rotunda verso il paesaggio, ma quella dal paesaggio verso
la Rotunda, a simboleggiare il tempio della sapienza (4)
(fig. 2). Purtroppo, alla fine dell’Ottocento, la lettura del
sito è stata cambiata: la Rotunda fu ricostruita dopo un
incendio e l’ingresso del campus spostato alle sue spalle.
In questo modo la vista del paesaggio venne chiusa con
l’aggiunta di tre edifici accademici all’estremo opposto.
Il carattere aperto del ‘villaggio accademico’ fu alterato
divenendo una composizione chiusa e tutte le espansioni
nel ventesimo secolo continuarono ad allontanarsi dall’originario modello urbano (5).
Nel Novecento, il campus americano si è ispirato ad
entrambe queste tradizioni, a volte combinandole, a volte aggiungendo elementi nuovi. Gli architetti McKim,
Mead & White, gli stessi che hanno trasformato l’Università della Virginia, nel 1893 hanno redatto un piano
regolatore per la Columbia University di New York nello
stile neo-romano classico, con uno spazio centrale ispirato
ai Fori Imperiali e dominato dalla biblioteca (nella posizione del tempio principale e sormontata da una cupola),
intorno alla quale sono collocate le altre strutture per le
lezioni e gli alloggi, inframmezzati da cortili. Il piano ha
creato un superblock con gli edifici posti su una piattaforma che rende ancora più isolato il campus dalle vie della
città che lo circondano (6) (fig. 3). Un asse principale organizza formalmente gli edifici e gli spazi aperti, mentre
un asse secondario perpendicolare al primo, continuazione pedonale di una via cittadina, costituisce l’entrata
principale al campus. L’intero complesso diventa una sorta
di acropoli accademica e il suo nobile isolamento ci restituisce un’immagine opposta al ‘villaggio accademico’
di Jefferson, con il suo confine più sfumato tra università
e paesaggio circostante. Virginia e Columbia, rispettivamente, rappresentano due poli della pianificazione del
campus americano: l’idilliaco, quasi utopistico villaggio e
la cittadella urbana.
Questi due modelli ebbero la possibilità di essere combinati, come avviene nel progetto di Emile Bénard per
l’Università di California a Berkeley, risultato di un concorso vinto nel 1897 dall’architetto francese, alunno della
Ecole des Beaux-Arts di Parigi, ma realizzato dall’architetto americano John Galen Howard. Qui la disposizione
classica degli edifici lungo un asse centrale si combina con
125
Fig. 1 - Harvard College,
1720, stampa storica (New
York Public Library Digital
Collections, The Miriam and
Ira D. Wallach Division of
Art, Prints and Photographs:
Print Collection, NYPG97F564).
un paesaggio romantico, scendendo lo stesso asse centrale
verso una vista stupenda della baia di San Francisco. Il
ricordo dei templi classici nel pittoresco paesaggio preso
in prestito dai quadri di Claude Lorrain o Nicolas Poussin dà un carattere poetico all’ambiente in cui sono stati
inseriti gli eleganti edifici di Howard, Bernard Maybeck,
Julia Morgan ed altri architetti (7).
Nel primo Novecento altre università ricercarono
modelli alternativi, come la cosiddetta Cathedral of Learning dell’Università di Pittsburgh progettata da Charles
Klauder nel 1925, un grattacielo di 42 piani che contiene
aule ed uffici basato sulle torri medievali francesi. Nella stessa città si costruirono gli edifici per la CarnegieMellon University, un complesso a carattere industriale,
progettati nel 1904 da Henry Hornbostel appositamente
con l’intenzione di riconvertirli in industrie qualora l’università non fosse risultata sostenibile (8).
Allo stesso tempo altre università hanno utilizzato
l’approccio opposto, con nuovi edifici progettati in uno
stile storico al fine di ricreare l’immagine dell’università
126
inglese. Alla Yale University, l’architetto James Gamble
Rogers ha progettato negli anni Venti edifici accademici e residenziali nello stile Collegiate Gothic, basato sugli esempi di Oxford e Cambridge, un modello seguito
anche da Ralph Adams Cram a Princeton e Henry Ives
Cobb all’Università di Chicago (fig. 4). In altri casi, gli
architetti hanno utilizzato un linguaggio architettonico più familiare agli americani, applicando lo stile delle colonie del Settecento, come alla Graduate School of
Business di Harvard, di McKim Mead & White. Questa
architettura eclettica fu motivata dal desiderio di collegare l’università contemporanea alle sue radici storiche,
un esempio dell’uso di uno stile architettonico per creare
un’identità istituzionale (9).
In contrasto con queste reminiscenze storiche, negli
anni Trenta si iniziò una serie di esperimenti formali
per alcuni campus americani con architetti modernisti
europei, in particolare quelli fuggiti dalla Germania
nazista: Walter Gropius, il nuovo preside della Graduate School of Design a Harvard, progettò il Graduate
Fig. 2 - Peter Maverick, Pianta dell’ Università della Virginia,
1825 (University of Virginia, Albert and Shirley Small Special
Collections, MSS 6552 -a N-385 RG-30/1/8.381).
Center; in seguito architetti come Le Corbusier, Jose
Lluis Sert, John Andrews e più di recente Renzo Piano,
ne hanno realizzati altri. L’insieme di modesti edifici intorno a Harvard Yard è cresciuto come una città
dentro la città, caratterizzata da una architettura molto varia (10). A Chicago, Ludwig Mies van der Rohe
fu eletto nel 1938 preside della facoltà di architettura
dell’Illinois Institute of Technology e gli fu commissionato il progetto dell’intero nuovo campus. Ne risultarono edifici situati in uno spazio aperto lungo una griglia sottostante, impianto che divenne il modello per
molti altri campus e sviluppi nelle periferie americane
(fig. 5) (11).
Il processo di modernizzazione del campus americano è continuato più rapidamente dopo la seconda guerra
mondiale con conseguenti contaminazioni dei tipi precedenti. Il periodo fu dominato da una forte crescita della
popolazione studentesca e da rapidi cambiamenti delle
idee architettoniche ed urbanistiche, con conseguenti
radicali trasformazioni dei campus. Durante i decenni
seguenti l’architettura universitaria mostra una successione di mode, con il funzionalismo seguìto da brutalismo, neo-modernismo, post-modernismo, deconstruction
e, infine, un nuovo tradizionalismo (12). Il risultato è
un campus concepito non più come un coerente tessuto
architettonico ma come una raccolta di manufatti, ciascuno dei quali pubblicizza l’anno di costruzione. Alla
Yale University, per esempio, l’espansione della galleria
d’arte di Louis Kahn, la facoltà di arte e architettura di
Paul Rudolph e i Morse and Stiles Colleges di Eero Saarinen hanno stabilito un carattere in contrasto con lo stile
Collegiate Gothic degli edifici progettati soltanto un paio
di decenni prima (13).
Altre università hanno cercato di limitare l’effetto negativo delle mode effimere, come in Virginia, dove gli
edifici nuovi hanno continuato lo stile Palladiano fino
agli anni Settanta e Ottanta. La nuova facoltà di architettura di Pietro Belluschi, realizzata nel 1970, ha rappresentato una prima rottura con lo stile Jeffersoniano o
Palladiano pur facendo riferimento agli edifici più vecchi
con l’impiego di materiali coerenti con essi, i mattoni
rossi, la pietra o l’intonaco bianco (14). Le costruzioni
successive hanno continuato questa rottura tra fedeltà
agli stili storici e opere nettamente moderniste, anche
se alcuni esempi come la Bryan Hall di Michael Graves,
realizzata nel 1995, cercano di sintetizzare il classico ed
il moderno (15).
Negli anni Novanta le università ebbero sempre più
bisogno del sostegno di fondi privati. Di conseguenza gli
atenei americani hanno usato l’architettura come strumento di branding per creare un’immagine dell’istituzione e distinguerla dalle concorrenti. Seguendo l’esempio
delle grandi società di affari, hanno cercato di stabilirsi
come brands - come marchi nel mercato - allo scopo di
attrarre studenti e donazioni. In alcuni casi agli architetti
fu chiesto non di innovare e creare stili nuovi, ma di progettare in uno stile già associato con l’istituzione. Questo
stile può non essere quello delle fasi iniziali, ma quello
ormai stabilito nella percezione pubblica. Un buon esempio è la Harvard Business School, dove è stato costruito
un complesso di nuovi edifici progettato da Robert A. M.
Stern Architects in continuità con lo stile neo-georgiano
del primo Novecento (16).
Un ulteriore esempio può essere il Whitman College
a Princeton di Demetri Porphyrios, il quale ha ripreso lo
stile Collegiate Gothic. Gli attuali studenti, cresciuti con
i film di Harry Potter, si sentono subito a casa nell’ambiente neomedievale dei nuovi edifici, come verificato in
una mia intervista con uno studente residente nel 2008,
l’anno dopo la realizzazione del progetto (17).
Anche la mia Università di Notre Dame vicino a
Chicago mostra questa tendenza: fondata da monaci
francesi negli anni Quaranta dell’Ottocento, gli edifici
originari furono progettati in una versione provinciale
dello stile Napoleone III, tranne la basilica in stile neogotico. Collocati su un piano assiale e prospiciente due
laghi, gli edifici sono organizzati intorno ad una serie
di quadrangle. Nel primo Novecento vennero aggiunte
nuove costruzioni nello stile classico e negli anni Venti
e Trenta una serie di complessi residenziali nel Collegiate Gothic. Dopo la seconda guerra mondiale strutture moderniste hanno in parte cambiato il carattere
del campus, ma negli anni Novanta questa tendenza è
stata rovesciata dall’aggiunta della facoltà di architet-
127
Fig. 3 - McKim Mead & White, Columbia University, pianta
generale, 1893 (da A Monograph of the Works of McKim
1915, vol. 1, tav. 47).
tura e della vicina Sandner Hall, progettate da Thomas
Gordon Smith, che riprendono il carattere degli edifici
adiacenti (18). L’attuale piano regolatore per il campus
ha previsto per le nuove costruzioni lo stile del Collegiate Gothic, come si vede nella appena realizzata Nanovic-
128
Jenkins Hall degli architetti HBRA. Nel frattempo
una nuova sede per la facoltà di architettura, appena
realizzata su progetto di John Simpson, riprende il carattere classico in maniera coerente con il programma
didattico della scuola (19).
Fig. 4 – James Gamble Rogers, Branford Court, Harkness Memorial Quadrangle, Yale University, 1921 (foto di Michael Mesko).
Ma il più ambizioso ritorno agli stili architettonici
antecedenti riguarda le nuove residenze di Yale, sempre
di Stern, due grandi complessi di alloggi con volumi e
dettagli che richiamano quelli del Collegiate Gothic di
Rogers. Il progetto è tanto grande e l’immagine tanto
coerente che può forse ristabilire il carattere dell’intero
campus. Secondo i suoi sostenitori, il campus adesso somiglia al ‘marchio Yale’ (20) (fig. 6).
Mentre è stato lo stesso Stern a celebrare l’uso dello stile architettonico come una forma di branding per
villaggi vacanze, luoghi d’intrattenimento e sedi di società di affari, il suo successo nel determinare caratteri
distintivi per i diversi campus è forse ancor più interessante (21). Anche se alcuni critici rifiutano questo
approccio e lo considerano una sorta di Disneyland di
moderni edifici in vesti storiche, potremmo dire che
non ci sia niente di nuovo. La decisione di introdurre il
Collegiate Gothic nel primo Novecento è stata una scelta
di rappresentare l’istituzione nel “vestito” che comunicasse meglio le sue aspirazioni accademiche. Rinforzare l’associazione visiva con Oxford e Cambridge, o
gli ideali palladiani di Jefferson, era un modo di dare
alle istituzioni americane una genealogia storica radicandole nella cultura europea che le aveva generate,
ma che il nuovo mondo anche cercava di trascendere.
E non sono anche le opere di Gropius, Mies, Le Corbusier, ed altri simili tentativi a promuovere un’immagine di funzionalità e tecnologia che vuole esprimere la
modernità?
Spesso, il design modernista viene utilizzato dalle università quando vogliono mostrarsi innovative
quanto le scienze e le nuove tecnologie. A Princeton,
non lontano dal neo-gotico Whitman College, la biblioteca di scienze progettata da Frank Gehry ci mostra un’immagine di attualità in contrasto con il neogotico; l’eventuale contraddizione tra l’uso di questi
129
Fig. 5 – Ludwig Mies van
der Rohe, Crown Hall, Illinois
Institute of Technology, 1956
(foto di Steven W. Semes).
due approcci in uno stesso luogo allo stesso tempo
illustra come l’architettura adesso dia un messaggio a
sostegno del brand (22). Simili progetti sono in corso
di realizzazione alla Columbia e alla Cornell, entrambe
a New York (23).
E per quanto riguarda il caso dell’Università “La Sapienza” di Roma? Non è per caso che Marcello Piacentini
e prima di lui Gustavo Giovannoni hanno introdotto il
concetto del campus all’americana nel contesto romano.
Entrambi gli architetti erano ben informati sui contem-
Fig. 6 - Robert A. M. Stern
Architects, Pauli Murray e
Benjamin Franklin Colleges,
Yale University, veduta generale, 2017 (Peter Aaron/Otto for
Robert A.M. Stern Architects).
130
poranei sviluppi americani ed entrambi avevano pubblicato articoli o libri sulle architetture americane negli anni
Venti e Trenta (24). Piacentini, per rappresentare un’immagine, un brand se possiamo dire, ha utilizzato lo stile
razionalista, che non era affatto unico in Italia durante
quegli anni ma fu un tentativo consapevole di sintetizzare lo stile classico con quello moderno, un motivo che
era quasi universale nel periodo. Anche il progetto, a confronto con quello della Columbia University, rivela una
genealogia che si estende oltre la Roma degli anni Trenta.
La Roma dei Cesari ha ispirato gli architetti che hanno
progettato la Columbia a New York, e a quel progetto si
è ispirato Piacentini, specialmente nel modello urbano
in cui gli edifici determinano e chiudono lo spazio, in
contrasto con quello di Mies Van der Rohe, in cui lo spazio è concepito come contenitore neutrale degli edifici.
Questo dà al piano di Piacentini il suo aspetto classico.
Così possiamo vedere che i collegamenti che uniscono i
progettisti delle università italiane ed americane nel Novecento sono stati più complessi di quanto si pensasse.
(1) Coulson, Roberts, Taylor 2015, pp. 1-13; Turner 1984,
pp. 9-15.
(2) Shand-Tucci 2001, pp. 1-25; Coulson 2015, pp. 59-65.
(3) Turner 1984, pp. 17-46.
(4) O’Neill 1968, pp. 9-42; Wilson 2012, pp. 3-53; Turner
1984, pp. 76-87; Coulson 2015, pp. 200-207.
(5) Wilson 2012, pp. 55-58.
(6) A Monograph of the Works of McKim 1915, vol. 1, tav. 47;
vol. 3, tavv. 300-303; vol. 4, tavv. 313-319; Coulson 2015, pp.
46-52.
(7) Helfand 2001, pp. 10-20; Turner 1984, pp. 180-188;
Coulson 2015, pp. 126-133.
(8) Turner 1984, pp. 235-238; Kidney 2002, pp. 70-98.
(9) Betsky 1994, pp. 103-162.
(10) Turner 1984, pp 267-271; Shand-Tucci 2001, pp. 232233.
(11) Johnson 1978, pp. 131-153.
(12) Coulson 2015, pp. 25-35.
(13) Pinnell 2012, pp. 46-52, 101-103; Turner 1984,
pp. 294-300.
(14) Wilson 2012, pp. 124-126.
(15) Ivi, pp. 76-77.
(16) Stern 2011, pp. 104-116.
(17) Sammons 2014
(18) John 2001.
(19) Walsh Family Hall 2018.
(20) Hewitt 2018.
(21) Stern 2011.
(22) Lemonier 2015, pp. 164-165.
(23) Lange 2017; Russel 2019.
(24) Piacentini 1935.
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FROM COURTYARD TO CAMPUS: DESIGNING AMERICAN UNIVERSITIES
Unlike continental European universities that occupy buildings in the center of their cities, often buildings designed for other purposes, the University of Rome
“La Sapienza” is housed in a complex of buildings specifically designed for it on the model of the American university campus. The American pattern is in
part descended from the British models of Oxford and Cambridge, but with important innovations, such as the Lawn at the University of Virginia and the
superblock of Columbia University. More recently, architectural style has become a means of branding the institutions, either recalling cultural roots in European universities or presenting an image of modernity and scientific innovation. This paper reviews some typical examples of American campus planning and
architecture, suggesting links with Italian developments are closer than often acknowledged.
132
EERO SAARINEN E LA PROGETTAZIONE DEI CAMPUS UNIVERSITARI
NELL’AMERICA DEL SECONDO DOPOGUERRA
Chiara Baglione
In un articolo apparso nel novembre 1960 sulla rivista
«Architectural Record», Eero Saarinen affrontava il tema
dei campus universitari, sintetizzando riflessioni elaborate nel corso di una lunga esperienza nel campo dell’architettura universitaria (1), avviata nella seconda metà
degli anni Trenta in collaborazione con il padre Eliel. In
quel periodo era impegnato nella realizzazione dei Morse
and Stiles Colleges di Yale, una delle opere completate
dopo la sua morte prematura, avvenuta nel settembre del
1961, a 51 anni.
Dopo dieci anni in cui si era registrato un boom nella
costruzione di strutture universitarie negli Stati Uniti,
passando da 1.100.000 studenti nel 1930 a 3.800.000
nel 1960, per Saarinen era tempo di riconsiderare quanto
era stato fatto in un campo della progettazione che considerava di estrema importanza. “Universities – scriveva
– are oases in our desert-like civilization. And, as the monasteries of the Middle Ages, they are the only beautiful,
respectable pedestrian places left” (2).
Notando come troppo spesso il masterplan dei campus
universitari fosse stato disatteso dagli amministratori e
dagli architetti, Saarinen indicava come questione di primaria importanza la creazione di un ambiente unitario,
e sottolineava, a questo proposito, i valori positivi degli
edifici neoclassici del MIT o di campus neogotici, come
quelli della Chicago University e della Yale University,
casi che conosceva bene, avendo ricevuto incarichi per la
progettazione di nuove costruzioni da inserire in quei
contesti urbani consolidati. Pur avendo in passato criticato tali esempi, in quanto basati sulla riproposizione
di stili storici, nell’articolo affermava di apprezzali per la
capacità di creare un ambiente unitario e di ‘sopportare’
ampliamenti anche a distanza di molti anni.
Per Saarinen si poneva la questione chiave di come
assicurare totale unità di ambiente, quando non era più
possibile contare su uno stile unificante, come il neogotico utilizzato a Chicago e a Yale. L’importanza attribuita alla creazione di un insieme unitario era una risposta
al modello diffuso di progettazione dei campus basato
sull’aggregazione di ‘oggetti’ isolati, che non tenevano
conto del contesto. Ciò era dovuto a ragioni pratiche e
contingenti, ma era anche conseguenza di un’attitudine espressamente teorizzata, in particolare da Joseph
Hudnut, dean della Graduate School of Design di Harvard, in un articolo apparso nel 1947 su un numero di
«Architectural Record» dedicato alle nuove prospettive
del ‘college planning’ (3). Del resto, la denuncia da parte
di Saarinen della superficialità con cui veniva trattato il
masterplan da amministratori e progettisti rifletteva anche l’amarezza per le numerose occasioni in cui i piani
complessivi da lui elaborati per istituzioni universitarie
erano rimasti sulla carta.
Laureatosi in architettura a Yale nel 1934, Saarinen aveva compiuto in seguito un viaggio di studio in Europa. Al
suo rientro, nel 1936 aveva iniziato a collaborare con il padre, partecipando anche a concorsi per campus universitari
– come ad esempio quello del 1938 per il Goucher College
a Towson, vicino a Baltimora, nel quale avevano ottenuto il
secondo premio (4) – che segnarono un momento di svolta
nel processo di introduzione di un nuovo linguaggio nella
progettazione di strutture per l’istruzione.
Va ricordato che nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti conobbero un vero e proprio boom nello sviluppo dei
campus universitari, legato alla legge in favore dell’istruzione dei veterani di guerra, il cosiddetto G.I. Bill del
1944 (5).
I valori tradizionali, che avevano caratterizzato fino a
quel momento la progettazione dei campus, dovettero così
essere sostituiti da rapidità di realizzazione, sostenibilità
dei costi ed efficienza funzionale, criteri che le istituzioni
universitarie e alcuni liberal arts colleges avevano cominciano a seguire già negli anni della guerra. È il caso, ad
esempio, dell’Antioch College a Yellow Springs, in Ohio,
per il quale Eliel e Eero Saarinen studiarono dal 1944 un
piano generale, che prevedeva al centro una mensa, una
biblioteca e l’Union building, e alla periferia strutture residenziali. Solo una di queste venne realizzata su disegno
di Eero, la Birch Hall, un dormitorio dalle linee molto
semplici per 110 studentesse (6).
Eero era convinto che la creazione di campus ordinati
che si presentassero come un ‘total environment’, controllato e coordinato, e che potessero indicare prospettive anche per la progettazione delle città, non dipendesse tanto
dall’architettura dei singoli edifici, quanto dalle relazioni tra le costruzioni e dal disegno degli spazi aperti. Un
esempio interessante di applicazione delle sue idee in
proposito è rappresentato dal piano per la Drake University a Des Moines, in Iowa, presentato nel 1947 (fig. 1):
un incarico ottenuto nel 1945 dai due Saarinen – che in
quegli anni collaboravano con Robert Swanson – anche
grazie al successo del campus della Cranbrook Academy of
Art disegnato da Eliel dalla metà degli anni Venti.
Il confronto con il masterplan elaborato per la Drake
University nel 1943 dallo studio di architetti paesaggi-
133
Fig. 1 - Saarinen, Swanson and
Saarinen Architects, piano (non realizzato) per la Drake University,
Des Moines, Iowa, 1945-1947 (Yale
University Library, Eero Saarinen
Collection).
sti Morell & Nichols, sulla base dei principi della City
Beautiful, mette in evidenza il carattere innovativo della
proposta dello studio Saarinen (7). Vi possiamo leggere
un’evoluzione delle idee proposte da Eliel a Cranbrook:
corti aperte di dimensioni diverse, connesse tra loro, circondate però in questo caso da edifici in cui il vocabolario
architettonico è decisamente aggiornato anche grazie al
contributo di Eero (8). In particolare, nel piano è riconoscibile, ripetuta in forme diverse, la configurazione a
trapezio tipica del piano per Cranbrook. In quel piano,
poi realizzato in forma diversa, sono evidenti le analogie, ripetute in più punti, con piazza San Marco: oltre
alla riproposizione della forma trapezoidale, per quanto
134
regolarizzata, si nota la combinazione di più piazze, la
presenza di una torre, anche se in posizione diversa rispetto al campanile di San Marco, e di un portico di ingresso
alla piazza principale che richiama il modello veneziano.
D’altra parte, va ricordato che, seguendo la predilezione del padre, Eero fece riferimento in più occasioni
alla lezione veneziana, indicando piazza San Marco anche
come esempio di relazione armoniosa tra edifici risalenti
a periodi storici diversi, un tema centrale nella progettazione dei campus universitari (9).
Anche nel caso della Drake University, i Saarinen realizzano solo alcuni edifici, tra cui le sedi dei dipartimenti
di scienze e di farmacia, due semplici stecche collegate da
Fig. 2 - Eero Saarinen and Associates, Hubbell Dining Hall, Drake University, Des Moines, Iowa, 1953-1954 (Yale University Library,
Eero Saarinen Collection).
una passerella aerea, forse ispirata alla Bauhaus di Dessau,
con un corpo stondato e privo di aperture occupato da
due grandi aule (10).
Per i due edifici i progettisti disegnarono pareti laterali in mattoni e curtain wall con grandi vetrate e pannelli
smaltati, una soluzione in seguito sviluppata e perfezionata da Eero per il Technical Center della General Motors a Warren, vicino a Detroit. Funzionale all’aumento
dell’efficienza e della velocità di realizzazione, e al controllo dei costi, l’adozione di un linguaggio moderno, che
accomunava un centro di ricerca industriale a un campus
universitario, si spiega anche tenendo conto dell’impressione esercitata su Eero dalle strutture dell’Illinois Institute of Technology di Mies van der Rohe, oltre che
dell’influsso delle costruzioni industriali di Albert Kahn.
Per i dormitori e la mensa della Drake University
(fig. 2), collegati da passerelle pedonali, Saarinen utilizzò
pannelli prefabbricati in cemento, rivestiti in mattoni,
mentre la conformazione del terreno fu sfruttata per la
realizzazione di uno specchio d’acqua artificiale, che contribuiva a creare un interessante e ‘pittoresco’ insieme,
basato sull’integrazione tra architettura e spazio naturale
(11). Va sottolineata anche la cura nella definizione degli
‘spazi sociali’ a doppia altezza nei dormitori interpretati
come ambienti domestici.
Ultimo intervento nel campus della Drake University, la
Divinity School è collegata da una pensilina a una piccola
cappella in mattoni, la Oreon E. Scott Memorial Chapel
(fig. 3), che ricorda per molti aspetti la più celebre cappella
del MIT, studiata quasi contemporaneamente da Saarinen.
All’epoca della sua fondazione la Drake University era
legata ai Disciples of Christ Church, ma la cappella venne
concepita, in analogia con quella del MIT, come un luogo di meditazione multi-confessionale, per trasmettere il
senso dell’unità e dell’eguaglianza di tutti i credenti di
fronte a Dio.
135
Fig. 3 - Eero Saarinen and Associates, Oreon E. Scott Memorial Chapel e Medbury Hall (Divinity School), Drake University, Des Moines,
Iowa, 1952-1955 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection).
Dal punto di vista della forma architettonica l’edificio
si può considerare una sorta di variazione sul tema della
cappella del MIT: le forme sono semplificate e l’interno
appare più raccolto, sia per le dimensioni e per il numero
di posti a sedere, sia per il rivestimento interno interamente in legno.
Nel frattempo, nel 1949 Saarinen aveva ottenuto l’incarico per lo sviluppo, in un’area paesaggisticamente
suggestiva a Waltham, alla periferia di Boston, del campus della Brandeis University, un’istituzione privata nata
l’anno precedente, la prima in Nord America sponsorizzata da un gruppo ebraico, che si considerava però “non
settaria” (12).
Il masterplan elaborato da Saarinen prevedeva edifici
a pianta rettangolare per l’insegnamento delle materie
scientifiche e umanistiche. Il cuore del piano era costituito da una piazza aperta con la biblioteca, lo Student Center e il Creative Arts Center, con un teatro e un auditorium
ospitato sotto una calotta a pianta circolare supportata da
pilastri lungo il perimetro. Tre gruppi di dormitori erano
collocati alla periferia. Una cappella multi-confessionale
era prevista in un posizione defilata accanto a uno specchio d’acqua (13).
136
In uno studio prospettico della piazza principale della
Brandeis University (fig. 4) compariva una torre in posizione decentrata che potrebbe essere letta nuovamente
come una rielaborazione dei principi compositivi appresi
da piazza San Marco tanto cari ai due Saarinen.
A Eero era stato chiesto di produrre in tempi rapidi disegni del piano per la Brandeis University da inserire in
una pubblicazione destinata alla raccolta di fondi. Al progetto collaborò un giovane architetto di talento di origini
polacche, Matthew Nowicki, che morì prematuramente di
lì a poco, nel 1950, in un incidente aereo. Molti schizzi
elaborati per presentare il piano del campus e numerosi edifici sono di Nowicki, come gli studi della cappella a pianta
circolare o con il perimetro ondulato, che non fu realizzata.
Poiché il primo progetto di una cappella interconfessionale venne rifiutato dalla committenza, Saarinen ne
presentò un secondo nel 1951 con altari e spazi separati
per cattolici, protestanti ed ebrei, che ugualmente non
fu accettato.
Nel 1956, l’incarico fu infine affidato a Max Abramovitz che progettò tre cappelle distinte e ottenne altri numerosi incarichi essendo nominato architetto dell’università nel 1955 (14). Nel campus della Brandeis University
Fig. 4 - Eero Saarinen and Associates, progetto (non realizzato) della piazza centrale della Brandeis University, Waltham, Massachusetts,
1949-1952 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection).
Saarinen ebbe modo di realizzare solo alcuni dormitori,
mentre il suo piano, rielaborato nel 1952, venne abbandonato. Anni dopo, ricordando quell’esperienza, Saarinen
affermò che il suo masterplan era stato usato solo come
‘strumento promozionale’ e che la Brandeis University
era un chiaro esempio della mancanza di saggezza da parte delle istituzioni universitarie (15).
Saarinen ebbe però occasione di sviluppare alcune
idee elaborate per la Brandeis University nel campus del
MIT: la copertura a calotta, indipendente dalla gradonata, dell’auditorium portò alla definizione del guscio di
calcestruzzo a forma di ottavo di sfera poggiante su tre
punti dell’auditorium del MIT, mentre la cappella adiacente riprendeva alcune idee elaborate da Saarinen con
Novicki per quella della Brandeis University (16). Senza
soffermarci su questi celebri edifici del MIT, in questa
sede è soprattutto interessante notare come essi apparissero, appena completati, come oggetti isolati in uno spazio aperto a verde, ma in realtà, stando ai primi studi di
Eero, avrebbero dovuto sorgere in una piazza dominata da
una torre situata in posizione asimmetrica.
La torre ritornava, in una posizione diversa, anche nel
progetto elaborato in un secondo tempo, tra il 1959 e
il 1961, dopo il completamento dell’auditorium e della
cappella, per una piazza circondata da edifici, che rimase sulla carta. Nell’idea di Saarinen i due volumi isolati
avrebbero dovuto stagliarsi sullo sfondo neutro costituito
dagli edifici del Graduate Center e della Student Union,
una soluzione che possiamo leggere come una ulteriore
reinterpretazione del modello di piazza San Marco.
Ma il senso di delusione e amarezza che traspare dal
testo di Saarinen citato all’inizio è probabilmente legato
soprattutto all’insuccesso del piano per il nuovo campus satellite della University of Michigan, sviluppato tra il 1951
e il 1956, destinato a sorgere in un vasto terreno agricolo
a nord del campus storico di Ann Arbor. Eero concepì una
‘collana’ di piazze di differenti dimensioni, poste a quote
diverse, connesse tra di loro, che costituiva, a suo avviso,
una valida alternativa ai tradizionali piani per i college concepiti secondo grandi schemi assiali, che non funzionavano
bene “when you add the dimension of time” (17), quando,
cioè – cosa che accadeva molto spesso – gli edifici universitari venivano realizzati in un lungo arco temporale.
Anche in questo caso il disegno del campus si articolava
intorno a un forum centrale (fig. 5), illustrato in una prospettiva a volo d’uccello (18), in cui si notano due colonne
137
Fig. 5 - Eero Saarinen and Associates, progetto (non realizzato) del
forum centrale, North Campus della University of Michigan, Ann
Arbor, Michigan, 1951-1953 (da At the University of Michigan 1953).
libere al limite della piazza centrale che sembrano quasi
voler evocare, ancora una volta, piazza San Marco.
Non potendo esercitare pienamente il suo ruolo come
consulente dell’università responsabile del coordinamento
dei progetti e della scelta dei progettisti, Saarinen rassegnò
le dimissioni. Solo il progetto della School of Music venne
messo in opera secondo il suo disegno, ma in forma diversa
rispetto alla prima soluzione che prevedeva un auditorium
simile a quello già citato per la Brandeis University (fig. 6).
L’edificio della School of Music, che nell’idea iniziale
di Saarinen avrebbe dovuto essere parte di un insieme
‘urbano’, concepito per la circolazione pedonale, sorse invece isolato nel paesaggio naturale, una caratteristica che
costituisce al contempo la forza, ma anche la debolezza di
un’opera che non possiamo annoverare tra le più riuscite
dell’architetto di origini finlandesi.
In altri casi Saarinen fu chiamato a inserire edifici in
campus esistenti, come l’Emma Hartman Noyes House,
un dormitorio femminile nel Vassar college di Poughkeepsie. La scelta della forma semicircolare per l’edificio, di
cui venne completata solo una metà nel 1958, venne suggerita all’architetto dalla presenza nel parco di un viale alberato circolare, noto appunto come the Circle. I mattoni
scuri e i bay windows triangolari si possono leggere come
una reinterpretazione dello stile di alcuni edifici del campus, motivata da una ricerca di sintonia con l’architettura
neogotica, senza ricorrere all’imitazione dei linguaggi del
passato. Ritroviamo tale ricerca anche nell’edificio per la
facoltà di legge della University of Chicago, realizzata da
Saarinen negli stessi anni, e soprattutto nei Morse e Stiles
Colleges della Yale University (fig. 7), progettati a partire
dal 1958 e completati nel 1962, dopo la sua morte.
Forte dell’appoggio e della stima di A. Whitney
Griswold, presidente dell’università dal 1951 al 1963,
che riuscì a fare di Yale un “laboratorio di architettura”
(19), Saarinen, oltre a elaborare, in qualità di consulente, proposte per la sistemazione di varie parti del campus,
138
rimaste però sulla carta (20), realizzò il celeberrimo David Ingalls Hockey Rink, tra il 1956 e il 1958, basato su
un’originale soluzione strutturale e sull’adozione di ardite
forme biomorfe, consentite dalla localizzazione periferica,
al di fuori del tessuto compatto del campus storico (21).
Nel progetto dei nuovi colleges Saarinen dovette invece
affrontare la sfida del rapporto con gli edifici adiacenti
neogotici di John Russel Pope e di James Gamble Rogers, di cui, come abbiamo visto all’inizio, apprezzava la
capacità di creare un ‘total environment’.
A questa esigenza e alla richiesta di un carattere di individualità delle stanze da parte degli studenti, che evitasse
ripetizione, uniformità e standardizzazione, non si poteva
rispondere secondo l’architetto “within the general current vocabulary of modern architecture” (22). Le soluzioni
messe in campo per ottenere questi risultati furono molte:
dall’eco di piazza del campo a Siena (23), al ricordo di San
Gimignano (24), dal disegno di corti su più livelli capaci
di assicurare interessanti esperienze spaziali (fig. 8), allo
studio di ambienti interni articolati e quanto più possibile
vari, all’invenzione di “masonry walls made without masons”, un metodo costruttivo nuovo, ma ispirato al passato, apprezzato da Henry Russell Hitchcock (25).
Come è noto, l’intervento fu invece ingiustamente criticato in modo aspro da Reyner Banham che lo considerava “a fairly advanced case of that mania for the picturesque … that has affected recent academic architecture
on both sides of the Atlantic”, tale da far dire a molti
europei di ritorno dagli Stati Uniti “Yale is a very sick
place” (26). Impegnato in una battaglia contro i “tradimenti del movimento moderno”, Banham temeva che le
“Morse and Stiles-type aberrations” potessero diventare
lo stile preferito anche nei campus inglesi.
L’articolo del critico inglese, apparso sulla rivista settimanale «New Statesman», venne ripubblicato in «ArchiFig. 6 - Eero Saarinen and Associates, progetto preliminare della School of Music, North Campus della University of Michigan, Ann Arbor,
1952-1954 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection).
Fig. 7 - Eero Saarinen con il modello dei Samuel F.B. Morse and
Ezra Stiles Colleges, Yale University, New Haven, Connecticut,
1958-1962 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection).
Fig. 8 - Eero Saarinen and Associates, Samuel F.B. Morse and Ezra Stiles
Colleges, Yale University, New Haven, Connecticut, 1958-1962. Veduta
aerea di una delle corti (Yale University Library, Eero Saarinen Collection).
tectural Forum», con una breve nota di dissenso dell’autore del testo che accompagnava le immagini dei colleges,
Walter McQuade, il quale apprezzava il progettista per
aver saputo creare “a firm piece of comfortable, even interesting, design that could differ with the old without
breaking off the conversation”(27).
Per questo risultato, ma non solo, il complesso può essere considerato un punto di arrivo della ricerca da parte
di Saarinen di un ‘total environment’, che incarnasse i valori
comunitari al centro della vita dei campus. D’altra parte,
l’opera consente di cogliere anche un aspetto essenziale
della sua idea di architettura in generale. In un’intervista
apparsa nel 1961 su «Perspecta», il progettista affermava,
infatti: “I have come to the conviction that once one embarks on a concept for a building, this concept has to be
exaggerated and overstated and repeated in every part of
its interior, so that wherever you are, inside or outside, the
buildings sings with the same message…that is why the
interior of the new Yale Colleges have to be just so” (28).
MIT Libraries a Cambridge, Mass. e della Avery Architectural and
Fine Arts Library presso la Columbia University di New York.
Ringrazio il personale della sezione Manuscripts and Archives
della Yale University Library a New Haven, dove è conservata la Eero
Saarinen Collection, degli Institute Archives and Special Collections,
(1) Saarinen 1960, pp. 123-154.
(2) Ivi, p. 124.
(3) Hudnut 1947. Cfr. Turner 1984, p. 260.
(4) Ivi, pp. 252-253.
(5) Ivi, pp. 249-250.
(6) Merkel 2005, pp. 104-105.
(7) Lyons 2008, pp. 19-21.
(8) A University Campus 1947.
(9) Plattus 2006, pp. 312-313; Baglione 2016.
(10) Science and Pharmacy Buildings 1950.
(11) Drake University Dormitories 1955. Cfr. Whitehead 2009.
(12) Merkel 2005, pp. 106-111.
(13) Bernstein 1999.
(14) Harwood, Parks 2004, pp. 119-120.
(15) Yale University Library, Eero Saarinen Collection, s. IV, b.
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(16) Baglione 2010.
(17) At the University of Michigan 1953, p. 122.
(18) Ivi, p. 120.
139
(19) Barnett 1962, p. 125.
(24) Barnett 1962, p. 129.
(20) Plattus 2006, p. 317-318.
(25) Hitchcok 1962, pp. 14-15.
(21) Saarinen 1960, p. 129.
(26) Banham 1962, p. 110.
(22) Saarinen 1968, p. 88.
(27) McQuade 1962, p. 105.
(23) Plattus 2006, p. 318.
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EERO SAARINEN AND THE DESIGN OF COLLEGE CAMPUSES IN POST-WAR AMERICA
A central figure in the panorama of American architecture after the Second World War, Eero Saarinen dedicated a reflection to the theme of university campuses in an article of November 1960 in the magazine «Architectural Record». Saarinen had a long experience in the design of university complexes: among
the projects developed in collaboration with his father Eliel there are numerous plans for campuses based on the development of the ideas proposed by Eliel in
the design of the Cranbrook Academy of Art. Some of these plans remained on paper, others, such as the one for Drake University, were partially implemented.
During the fifties Saarinen designed new campuses (such as the University of Michigan) and individual buildings in existing campuses, obtaining significant
results, in particular in the definition of university chapels, such as those of MIT in Boston and of Drake University. The text traces the evolution of the
design solutions developed by Saarinen in the creation of a “total beautiful environment” in response to the different needs of the client, with references to the
architectural tradition of the North American campuses, but also to Italian examples of historical public spaces.
140
IL FLORIDA SOUTHERN COLLEGE DI FRANK LLOYD WRIGHT,
PROGETTO DI UN ORGANISMO APERTO
Maria Argenti
Fra le architetture di Frank Lloyd Wright, il Florida
Southern College (FSC) non è certo la più nota. E nemmeno la più ardita. Concepito più di 80 anni fa, questo
complesso mantiene tuttavia intatta – nelle sue architetture, nel suo impianto urbano, nella pianificazione paesaggistica – la sua straordinaria carica innovativa.
Era il 1938 quando Ludd M. Spivey, allora presidente
del FSC, chiamò Frank Lloyd Wright – in quegli anni
impegnato a mettere a punto (con Broadacre City) una
riflessione organica sul rapporto fra città e natura – per
proporgli la progettazione del campus di Lakeland, nella
Contea di Polk in Florida.
Realizzato in un lungo arco di tempo, tra il 1938 e il 1957
(1), questo complesso rappresenta oggi la più grande concentrazione di opere di Wright, e consta di una serie di
edifici disposti armonicamente tra gli alberi di agrumi
su un pendio che domina il lago di Hollingsworth. In
un certo senso si può dire che a Lakeland Wright abbia
cercato di dimostrare sul campo la possibilità concreta di
un’alternativa paesaggistica alla deriva centripeta delle
megalopoli attraverso un diverso dinamismo nel rapporto fra architettura e luogo. Nasce così l’idea semplice di
mettere in relazione tra loro le singole costruzioni e di
creare una studiata connessione – un dialogo sommesso – tra il complesso e la natura che gli preesisteva. Ciò
avviene attraverso un sistema di pensiline, sostenute da
interessanti quanto insoliti pilastri, che si snodano irregolarmente nel campus.
Wright sviluppa qui una concezione totalmente alternativa di college, opposta alla consolidata solennità e
all’enfasi dei tradizionali edifici universitari statunitensi.
Laddove la regola era la replica di stilemi storici, sempre
uguali a se stessi, il campus della Florida diviene un luogo
che sperimenta e testimonia la possibilità di un’identità
dinamica e aperta a successive trasformazioni coerenti con
l’impianto originario. Laddove il linguaggio comune era
naturalmente accademico, il FSC offre una risposta antiretorica, funzionale ma allo stesso tempo simbolica, alla
crescente domanda di architettura del proprio tempo. Il
complesso è dunque un’opera diseguale e coerente, unitaria
ma non semplificata: pensata come un organismo vivente,
per sua natura mai finito e sempre soggetto a evoluzione.
La planimetria è stata paragonata da Vincent Scully Jr.
(2) – e altri critici – a quella di Villa Adriana a Tivoli,
come se la molteplicità di giaciture degli edifici del campus alluda alla disposizione della collezione delle memorie di viaggio dell’imperatore (fig. 1).
Ciò che rende particolarmente interessante il FSC
è, in questo quadro, la creazione di un vero e proprio
codice linguistico-tecnologico, urbanistico e architettonico. Wright qui progetta anche i componenti base
con cui costruire le architetture degli edifici e dei percorsi. Tenta – come afferma Luca Zevi (3) – “l’elaborazione degli ‘ordini’ di una moderna architettura del
territorio”. E innova radicalmente rispetto ai codici del
classico o del gotico che erano allora lo standard dei
college americani.
Nel campus l’incontro di volumi e percorsi, come in
un gioco di punti e linee, fa sì che la dimensione statica
intersechi quella dinamica e l’entità spaziale quella temporale. L’elaborazione della teoria della città-territorio e
il rifiuto nei confronti degli eccessi della metropoli industriale appaiono qui per quel che sono nella mente
dell’architetto: non un rifiuto della dimensione collettiva
e quindi urbana della vita, ma al contrario la ricerca di
una diversa dimensione comunitaria e un diverso modo
di essere della città (in questo caso universitaria).
“Wright – scriveva Argan – detesta la città come forma storico-politica di concentrazione del potere [...].
Ciononostante, la matrice di tutta la sua lunga, prodigiosa attività di architetto è urbanistica, anzi addirittura
pan-urbanistica: l’ideale che si prefigge è infatti una architettura così forte, nella propria realtà formale, da urbanizzare anche i boschi, le cascate, i deserti. Non progetta
più a scala di città, ma di territorio” (4).
Non è senza significato il fatto che proprio negli stessi anni in cui Broadacre City, il modello per una nuova
città democratica, prendeva forma (ma solo nei disegni),
Wright costruiva a Lakeland il College della Florida del
sud. In Broadacre, c’è tutto il gusto della trasgressione di
Wright, c’è il rifiuto della dimensione urbana tradizionale, l’arroccarsi orgoglioso dell’intellettuale in un mondo
che è agli antipodi della realtà quotidiana. Nel FSC c’è
invece la ricerca pragmatica di un compromesso con la
realtà. Qui la “città ideale” diventa “reale”, si contamina
forse, perché questa è l’unica condizione per esistere senza che Wright rinunci per questo alla sua architettura.
Prende forma così l’idea di una serie di assi e di fuochi
nel verde che disegnano una “campagna che va alla città”,
dove la molla ideale è la strada, il percorso.
Siamo in Florida. Il clima invita a stare all’aria aperta,
nel sole o (durante i periodi più caldi) all’ombra dei rami
profumati dei limoni. In armonia con questa atmosfera,
una passeggiata coperta (l’esplanade) unisce tra loro i di-
141
Fig. 1 - Florida Southern College, prospettiva del masterplan disegnata da Frank Lloyd Wright, 1938 (da ZEVI 1979, p. 242).
versi edifici e suggerisce un comportamento – il camminarvi sotto – ma non lo impone: lo induce naturalmente.
Le piastre della copertura della pensilina sono a sbalzo,
si spingono oltre i singolari blocchi di calcestruzzo che
asimmetricamente le supportano. La dimensione di vita
comune integra qui – o almeno cerca di ricondurre a unità – individualismo ed esigenze collettive; accetta il travaglio e l’indeterminatezza della storia; e racconta la centralità dinamica del rapporto fra architettura e paesaggio,
fra urbanistica e composizione, fra progetto e materiali,
fra dettaglio e visione complessiva, tra concezione e immagine, tra struttura e costruzione, fra piccola e grande
scala.
Se partiamo dalla premessa che la città è il centro fisico di una comunità (cioè allo stesso tempo il luogo dove
essa si esprime come soggetto collettivo radicandovi la
propria memoria, e il luogo che ne costituisce la sua vitale
e dinamica espressione costruita, ponendo le basi del proprio futuro) il campus di Lakeland è insomma una piccola
città ideale calata nel concreto di una realtà locale. Uno
spazio dedicato all’educazione, il cui valore simbolico ne
trascende tutt’oggi il valore d’uso.
Per spiegarne il carattere fondante, riprendiamo le
parole di Wright indirizzate agli studenti riuniti nella
Cappella Annie Pfeiffer, cuore del campus:
“Ora voi volete da me il segreto dell’architettura. Ma
l’architettura ha un linguaggio che non può essere tradotto in parole. Anche se adesso le persone parlano molto,
perché si sono accorte che possono fare molto di più con
le parole che con qualsiasi altra cosa. E dopo che hanno
scoperto che possono parlare, parlano e parlano, fino alla
morte. Non smetterebbero mai.
142
Se dovessi tradurre questi edifici in un discorso, [...]
dovrei parlare molto e passerei davvero dei momenti difficili. Perché non sono l’unico a saper parlare. Altra gente
parla” (5).
In un tempo di troppe parole, costruendo un artificio retorico intorno al non detto, Wright lascia che sia
l’architettura stessa a parlare. E a raccontare l’ambizione
tutt’altro che nascosta che lo aveva mosso nel progetto:
sarebbero stati gli edifici stessi – proprio perché radicalmente diversi da quelli di Harvard o di Yale disegnati in
stile – a educare nel tempo gli studenti; a insegnare in
un’atmosfera di verità; a testimoniare un modo diverso di
abitare nel paesaggio e nella storia; a dimostrare la possibilità di un’alternativa sia alla massima densità urbana,
sia alla impersonale subordinazione alla storia fondata
sulle false ricostruzioni del passato.
Ma per capire sino in fondo il FSC occorre fare ancora
un passo indietro. Occorre ripartire da quel che cercava l’uomo che pensò di chiamare Wright a progettarlo:
Ludd M. Spivey, il presidente della scuola, voleva un
tempio. Siamo nel 1938. Spivey è un pastore protestante.
Dirige una piccola istituzione educativa, fondata dalla
Chiesa metodista, che è allo stesso tempo anche il college
più antico della Florida, nato nel 1885. Non ha fondi,
ma è un grande fundraiser e sa come raccogliere donazioni
intorno a un’idea. Sa che il progetto deve essere affascinante e che deve per questo guardare oltre l’orizzonte del
banale. Pensa a Wright, e va a Taliesin ad incontrarlo.
Spivey parte da un dato di fatto: la qualità architettonica di un campus è uno dei fattori decisivi nella scelta da
parte dei giovani liceali (alla pari con la disponibilità di
aiuti finanziari e borse di studio). Il suo sogno è quello di
Fig. 2 - Lakeland, Florida, il Florida Southern College sulla riva del Lago di Hollingsworth. Vista da sud, si notano presso l’ingresso a nordovest: i due edifici dell’Administration Buildings, la Water Dome al tempo prevalentemente pavimentata, i Seminars Buildings già uniti in un
unico volume e l’Ordway Industrial Arts Building; più a sud la prima Roux Library con la sala circolare, la Annie Pfeiffer Chapel, e la piccola
cappella William H. Danforth; a seguire, verso est il Polk County Science Building. Tra questi, i percorsi coperti “esplanades” si diramano nel
campus a congiungere tra loro i diversi edifici realizzati da Frank Lloyd Wright (foto della metà degli anni ’60. Courtesy FSC)
creare un tempio dell’educazione e allo stesso tempo un
luogo simbolo della Florida, una scuola dove la bellezza
non sia più legata alla ripetizione di canoni del passato,
pedissequamente ripetuti, ma a un futuro aperto e da costruire. Chiede quindi un’architettura contemporanea al
proprio tempo, e insieme esige che le nuove costruzioni
non violino un’altra bellezza, quella della natura. Il 20
settembre 1938, Wright risponde così: “Mio caro Dr.
Spivey, le piante per il FSC stanno prendendo rapidamente forma e posso assicurarti che avremo un college senza
eguali da nessuna altra parte del mondo nella bellezza
dell’uso e nell’uso della bellezza” (6). La sfida è dunque
raccolta in pieno, sia sul piano architettonico sia su quello urbanistico. “La planimetria generale – spiega infatti
Wright – prevede un modello di terrazze e pergole che
collegano i vari edifici secondo un disegno libero. Questo
schema rappresenta in se stesso, secondo me, la cosa più
importante dell’intero progetto (fig. 2). È ciò che fa sì che
ogni edificio trovi qui più che in qualsiasi altro posto il
modo migliore per essere ciò che deve essere” (7). La finalità è chiara, l’ambizione è dichiarata: il progetto avrebbe
espresso contemporaneamente una “catarsi spirituale” è
un “esempio strutturale di libertà”.
La cosa che più inorgoglisce Wright è l’essere riuscito nell’impresa di ricondurre a unità sia la dimensione
astratto-concettuale che quella pratico-funzionale dell’architettura.
Racconterà infatti nel 1952:
“Quando il dott. Spivey, il buon genio del Florida Southern College, volò a nord e venne a Taliesin, venne con lo
scopo esplicito e dichiarato di dare agli Stati Uniti almeno un esempio di college in cui la vita moderna potesse
usufruire dei vantaggi dell’arte e della scienza moderna
nella costruzione degli edifici. Mi disse che mi voleva
tanto per la mia filosofia che per la mia architettura. Gli
assicurai che le cose erano inseparabili.
143
Fig. 3 - Florida Southern College, Wright al cantiere nel campus.
Si nota sulla destra un pilastro dell’esplanade in costruzione (foto
databile al 1950 circa. Courtesy “News Bureau, Fla. So. College”)
E da allora, a causa degli incessanti sforzi del Dr. Spivey, questa collezione di edifici universitari è stata in
continua crescita. Il loro carattere da giardino esterno è
destinato a essere un’espressione della Florida nella sua
migliore flora.
Studia questi edifici dall’interno se vuoi comprendere
qualcosa su ciò che chiamiamo architettura organica” (8).
Fu così che prese corpo via via l’idea di rovesciare il
modello architettonico dei college statunitensi. “Nessuno
– spiega Wright – può parlare degli edifici dei college
oggi e definirli architettura. Nessuno. Essi sono il frutto
di una sbronza. Non sono indicativi dei nostri tempi. […]
Ecco perché dobbiamo avere una grande sensibilità” (9).
Nell’arco di 20 anni, il FSC divenne conseguentemente
una concretizzazione (certo, una delle innumerevoli possibili) a grande scala del pensiero di Wright sul rapporto
fra natura e architettura, sulla possibilità di pianificare
insieme la città e il territorio. La planimetria del college
impegnò Wright nella seconda metà degli anni Trenta.
144
Il piano generale, comprendeva varie unità: cappella,
biblioteca, il blocco amministrativo, aule per seminari,
spazi per arti industriali, un edificio di musica e uno di
scienza e cosmografia, un galleria d’arte e atelier di artisti, un museo, un teatro, un teatro all’aperto e una vasca
di giochi d’acqua. Il primo problema fu come inserire le
nuove costruzioni in uno scenario naturale di particolare
bellezza, come urbanizzare il paesaggio.
Noterà Hitchcock: “La pianta appare quanto mai disciplinata, pur essendo decisamente asimmetrica. […]
Wright ha ripreso i temi del suo progetto per Chandler,
Arizona, del 1927, […] dove affiora il suo interesse per
gli angoli di 60 e 30 gradi” (10). Nell’insieme gli edifici sono di modeste dimensioni, ciascuno però con una
diversa concezione spaziale, sulla base delle sue funzioni,
con un carattere, deciso ma non solenne, identitario ma
non aulico; ciascuno capace di trasmettere il proprio “valore culturale” rimanendo ancorato e adatto “al tempo,
allo scopo e al luogo” (11). L’intero sistema, legato dalle
esplanade, caratterizza il giardino dove la natura è chiamata a integrarsi con l’opera dell’uomo anche attraverso
aiuole in continuità con i basamenti o tralicci per rampicanti nelle coperture a sbalzo.
È interessante notare anche lo sforzo di Wright per
trascendere la povertà del blocco costruttivo in cemento.
I textile-block, utilizzati per tutti gli edifici del College –
non a caso oggetto di importanti studi (12) e interventi
di conservazione e restauro – sono molto più che semplici
“mattoni”, sono un carattere unificante del design del campus, di cui raccontano anche la particolarità costruttiva,
e insieme conferiscono la solennità rigorosa e austera di
un palazzo bugnato a edifici universitari dalle tutto sommato modeste dimensioni. Progettati in oltre quaranta
tipi diversi realizzati nell’impasto con sabbia locale fatta
di coquina (una roccia sedimentaria che è composta tra
l’altro di frammenti di conchiglie) sono gettati in stampi di legno che permettono disegni geometrici a rilievo
nei prospetti. Alcuni sono ritmati da fori con incastonati
piccoli cubi di vetri colorati che accendono e contrastano
i toni caldi delle pareti.
Un originalissimo pilastro (fig. 3) ritma, contraddistingue e qualifica la composizione architettonica e paesaggistica della esplanade porticata. Costituito da una combinazione di solidi che genera superfici differentemente
orientate, esso appare sbozzato, massivo: un prisma a base
quadrilatera che innalzandosi interseca una piramide obliqua capovolta, e poi ancora un’altra più grande e di diversa inclinazione configurando così una sorta di capitello
sfaccettato in triangoli dalle superfici con trame tessili a
rilievo, dall’aspetto un po’ Maya, un po’ indigeno. Disposti
lateralmente al percorso, questi pilastri portano la piastra
di copertura rifinita in rame ed “accompagnano” tutte le
connessioni tra gli edifici, articolandosi in modo da impedire ogni stancante senso di ripetizione. Il sostegno gioca
in maniera libera con i salti di quota, talora raddoppia per
Fig. 4 - Florida Southern College, vista del cantiere dall’area della cappella William H.
Danforth. Sul fondo il prospetto
laterale della Annie Pfeiffer
Chapel dove si nota la loggia
del secondo livello e sotto l’involucro del basamento in textilebolck (foto databile ai primi
anni ’50. Courtesy FSC)
Fig. 5 - Florida Southern College, una cerimonia all’interno
della Cappella Annie Pfeiffer
che mette in mostra la complessa
e raccolta spazialità dell’aula.
La foto è successiva all’ottobre 1944, quando un uragano
causò notevoli danni alla chiesa
tra cui il crollo della torre
centrale. Nella ricostruzione
delle parti danneggiate è stato
realizzato un diverso pulpito
rispetto al precedente disegnato
da Wright. (foto Brad Beck.
Courtesy FSC)
costeggiare percorsi più ampi e porta pensiline forate che
proiettano disegni di luce sulle aiuole incastonate nel viale.
L’esplanade a volte si integra con gli edifici che interseca,
con soluzioni ancora variabili a seconda delle altezze, delle aperture, degli aggetti. Tutto – il textile-block (fig. 4),
la gronda, il pilastro, le esplanade, le aiuole – concorre a
formare un design che è parte integrante di un progetto
unitario che si dilata nel tempo e nella natura.
La Cappella Annie Pfeiffer (1938-41) è la prima costruzione di Wright a Lakeland (figg. 5-6) ed è decisamente
145
Fig. 6 - Florida Southern College.
Cappella Annie Pfeiffer, la prima
realizzazione di Wright nel campus, vista dell’ingresso principale
(foto dell’A.)
la più rilevante. Pionieristica la definisce il maestro in
una lettera al dottor Spivey del 5 marzo 1941, nella quale gli scrive per scusarsi, dispiaciuto, di non poter essere
presente “quando la nostra piccola pionieristica cappella entrerà in servizio” (13). Se Spivey leggeva in questa
il simbolo di una teologia modernista, Wright cercava
piuttosto nell’innovazione spaziale, nell’ardita struttura,
nella decorazione geometrica, un legame con la terra e la
natura della Florida, un’identità regionale, un traguardo
che marcava e consolidava la distanza da quello che era
allora l’ormai omologato stile internazionale (14).
Posta al centro del campus, nel verde di un leggero pendio, la cappella è l’unico edificio ad avere una forte enfasi verticale. Esternamente essa si presenta caratterizzata
dall’intersezione volumetrica tra una massa in textil-block
(dal colore caldo e dall’aspetto materico decorato) ed elementi a sbalzo lisci, intonacati in bianco (15). Al centro
due pareti si innalzano parallele dal solaio di copertura
configurando un campanile che mentre si protende verso
il cielo squarcia l’interno irrompendovi con giochi di luce.
Il progetto rappresenta in un certo qual modo anche lo
sviluppo delle idee realizzate circa 35 anni prima nell’Unity Temple a Oak Park, Illinois. Ed è interessante notare come a dare “fascino e distinzione” all’edificio sia
proprio la combinazione di questa radice con le influenze
derivanti dal luogo. Come prosegue Wright nella stessa
lettera al committente:
“Dopotutto se la cappella si trova proprio lì è a causa della tua visione, coraggio e perseveranza fedele. [...] Quando
146
le piante saranno nelle fioriere e si arrampicheranno sui
tralicci metallici e le campane rotonde di bronzo suoneranno sopra di loro, la Florida avrà trovato nella costruzione
l’espressione del suo vero nome. Spero e credo che la cappella indichi, con una nuova chiarezza, quella sintonia tra
carattere e bellezza della Florida e la vita di molti ragazzi e
ragazze, che essi sperimentano lì con te oggi” (16).
Costruita intorno a quattro grandi pilastri cavi impostati per generare un impianto geometrico esagonale, la
chiesa si basa su un’aula centrale a doppia altezza dove si
affaccia il livello superiore. È una cappella-auditorium
che conta 940 posti a sedere. Al piano terra l’involucro –
chiuso dai textile-block – è attraversato da tanti piccoli inserti di vetri colorati che lasciano passare una luce soffusa.
In questo modo essi da una parte esaltano la solennità
volumetrica dell’insieme e dell’altra ne filtrano la massa
trasfigurandola.
Wright cerca così la perfetta coincidenza fra la luce e la
densità spaziale, in un rapporto di mutua qualificazione:
“Mi hanno detto che c’è chi ha pianto nella cappella. Non
vi sembra che in questo edificio vi sia qualcosa che canta,
che dà un’indefinibile nota di spiritualità?” (17).
Tutto concorre, in quest’architettura, a esaltare la percezione individuale e a porla in relazione con il contesto. Al livello superiore la galleria gira attorno al vuoto
centrale fino ad interrompersi incontrando una balconata
forata che scherma lo spazio del coro posto a fondale sopra il leggio. A conferma del concetto unitario che lega
la composizione, è interessante notare come lo schermo
sia decorato da una serie di aperture, piccoli fori e rilievi,
impostati su trama esagonale basata sugli stessi angoli da
30 e 60 gradi che hanno generato il disegno della pianta
e l’alzato della torre.
Di giorno il sole entra dall’alto nell’aula, di notte,
quando l’interno della cappella è illuminato, la torre proietta verso l’esterno un bagliore che segnala il “cuore” del
college.
In questo modo Wright intende assegnare alla luce il
duplice ruolo di fonte di meditazione laica (oltre che di
preghiera religiosa) e di elemento architettonico. Consapevole della secolarizzazione dell’era moderna, e allo
stesso tempo del bisogno di simboli che trasfigurassero il
presente offrendo una visione di futuro, scrisse egli stesso a Spivey: “Ci saranno ancora molti che non credono e
altri che hanno nostalgia delle forme religiose abituali.
Ma entrambi almeno avranno un assaggio del mondo che
verrà in questa piccola finestra che abbiamo messo lì nel
campus [...] per guardare quel mondo” (18).
In realtà nessuna vista si estende all’esterno, tranne dai balconi che si aprono al secondo livello, ma è
la luce, grande protagonista dell’interno, a “dissolvere”
le pareti. Lo sguardo viene attirato dalla straordinaria
e luminosissima torre lucernario (19), impostata su un
varco nella copertura e portata da elementi protesi a
sbalzo sopra il vuoto centrale. La luce entra attraverso
una complessa intelaiatura in acciaio e cemento armato,
passando tra le piante e i fiori posti nelle ciotole sospese
all’interno della torre. Tutto lo spazio si slancia verso il
cielo.
Qui Wright – a 10 anni di distanza dall’inaugurazione
– pronuncia una sua lectio, è il discorso di un uomo già
ultraottantenne. Disincantato. Eppure ancora profetico.
Sono le 10 del mattino, Wright si rivolge verso il coro
della chiesa, dove si trovano i ragazzi:
“Questa cappella è ora piena di fiori. E piena di persone. Persone che vivono negli edifici che abbiamo costruito. E questa immagine mi fa pensare. È come se gli
edifici venissero fuori dalle persone e le persone dagli
edifici. Edifici costruiti per la gente, semplici, che danno gioia ai loro occupanti. Ed è una cosa nuova, questa,
nell’architettura. Per cinquecento anni gli edifici sono
stati finalizzati a far sentire gli uomini inferiori, quasi
a cambiare la loro natura. Non erano edifici costruiti a
misura d’uomo” (20).
Accanto alla Annie Pfeiffer troviamo la E.T. Roux.
Library (1941-45, successivamente, nota come Thad
Buckner Building, prima di diventare, nel 1992, sede
del Child’s Sun Visitor Center), presentata da Wright al
tempo come “un ottimo compagno per la cappella che
porterà un’altra gioia nell’uso dei libri” (21).
La biblioteca (fig. 7) è un interessante accostamento di
geometrie diverse, separate internamente da un camino.
La sala di lettura è circolare, organizzata con “studi” concentrici leggermente terrazzati. Un’intrigante struttura
a pilastri inclinati verso il centro, permette una sottile
Fig. 7 - Florida Southern College. La prima E.T. Roux Library
(successivamente, nota come Thad
Buckner Building). Nel prospetto
si notano i diversi trattamenti del
textile-block (foto dell’A.)
147
Fig. 8 - Florida Southern College. Una diversa declinazione
dell’esplanade tra i due edifici
dell’Administration Buildings:
Emile E. Watson e Benjamin
Fine (foto dell’A.)
finestra a nastro sotto la copertura della sala lungo tutto
il perimetro.
In continuità con la sala si trova un volume più alto,
esagonale, che conteneva originariamente le scaffalature
dei libri. Cinque pozzi di comunicazione (successivamente ridotti a due) si aprivano nei solai conducendo la luce
tra i livelli fino al piano interrato.
Quando la biblioteca non è stata più sufficiente a ospitare il corpo studentesco in aumento, nel 1968 fu realizzata nel campus una nuova Biblioteca Roux e l’edificio,
pur mantenendo la sala circolare, ha subito trasformazioni (22) per essere adeguato a ospitare uffici.
Esternamente il prospetto alterna, sopra una base intonacata, le fasce orizzontali dei blocchi in cemento, con
altre in texture a rilievo o perforate con vetri colorati.
Altre opere progettate da Wright nel Campus meritano almeno un cenno. I Seminar Buildings (1941),
allineati lungo un tratto dell’esplanade accanto alla Water Dome, sono realizzati interamente in textil-block con
poche aperture. Originariamente erano costituiti da tre
unità a un piano, separate da patî aperti. Alla fine degli
anni ’50 i tre corpi sono stati uniti tra loro inglobando e
chiudendo i cortili. Nel tempo sono poi state fatte anche
altre addizioni.
La costruzione del campus rallentò drammaticamente
durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941
al 1945 quando ad alcuni cantieri lavorarono anche gli
studenti in cambio della loro istruzione.
148
Dopo la guerra, il ritmo dell’espansione riprese di nuovo dando vita ad un successivo gruppo di strutture. L’Administration Building (1946-48), posto vicino all’ingresso, è composto da due unità incorporate nell’esplanade
che qui raddoppia la sua ampiezza (figg. 8-9). La Water
Dome (1947-48) è rimasta in realtà un’incompiuta sino a
pochi anni fa. Nei disegni iniziali si nota infatti che quel
che era originariamente previsto in progetto e illustrato nelle prospettive era una fontana: una grande cupola
“costruita” solo da getti d’acqua posti lungo la circonferenza e inclinati verso il centro, una architettura liquida
e dinamica, fiancheggiata sul lato nord da un boschetto e
da una serie di filari d’alberi ad alto fusto disposti a semicerchio. Fu invece realizzata, nel 1948, solo un’ampia vasca circolare perimetrata da scalini che in seguito – negli
anni ’60 – fu sostituita da tre piccoli specchi d’acqua di
forma irregolare inseriti in una pavimentazione interrotta
da aiuole. Solo recentemente, nel 2007, i getti convergenti della Water Dome circolare sono stati riprogettati
realizzando così, quasi sessanta anni dopo, l’iniziale visione wrightiana di una cupola d’acqua (fig. 10).
L’Industrial Arts Building (1950-52) progettato per
ospitare i programmi di arti industriali e belle arti,
contiene un teatro circolare (il Fletcher Theater) e spazi
liberi per gli studenti. È un edificio a un livello che si
sviluppa attorno a due corti longitudinali, una delle
quali aperta, definita dal solo porticato costituito dagli
stessi elementi dell’esplanade, che rendono così evidente
Fig. 9 - Florida Southern College. Vista dell’esplanade, i percorsi protetti da pensiline che legano in un progetto unitario gli edifici realizzati nel
tempo da Wright (foto dell’A.)
l’integrazione architettonica e la continuità spaziale nel
campus. Lo Science & Cosmography Building (195358), un complesso a più livelli, segue la pendenza naturale della collina e termina con il planetario verso il
lago di Hollingsworth. La piccola Cappella Danforth,
dalle vetrate colorate, destinata alla meditazione e a
ospitare piccoli servizi di culto, è infine l’ultimo degli
edifici di Wright iniziati quando egli era in vita (23).
Fu costruita infatti nel 1954, accanto alla grande Cappella Pfeiffer.
Recentemente, su progetto originario di Wright del
1939, è stata realizzata, nel 2013, con la supervisione
dell’architetto Jeff Baker (MCWB), la Faculty House
(24), commissionata al tempo da Spivey come la prima
di una serie di residenze per i membri della facoltà, a est
dell’attuale campus. Questa casa unifamiliare in textilblock (2000 elementi a incastro con inserti in vetro), legno
di cipresso (soffitti, infissi, pergolati), ora centro di accoglienza per i visitatori, non è sorta sul terreno originariamente previsto, ma a nord del campus, anche se rispetta lo
stesso orientamento pensato da Wright. L’abitazione di
circa 160 mq è su un unico livello che si apre con più porte sul giardino attorno. L’ingresso principale, nell’angolo
sud-ovest, introduce direttamente nel soggiorno pranzo.
All’interno gli ambienti sono dominati da allestimenti e
arredi in legno. Due le stanze da letto, poste a nord e a
ovest, isolate su tre lati, mentre ad est si trova lo spazio
per parcheggiare l’auto sotto un’ardita copertura a sbalzo.
L’insieme del college, al di là delle singole costruzioni,
rimane un’opera di grande interesse (25); non solo come
“macchina educativa” ma per il suo essere quasi un testamento, incerto e profetico come sono i discorsi di addio e
come fu emblematicamente il saluto di Wright a studenti e insegnanti riuniti nella sua cappella Annie Pfeiffer.
Un discorso duro e visionario, sul quale vale la pena di
tornare, chiudendo queste note:
“Immagino che voi vogliate conoscere da me come si
costruisce un edificio. Volete una ricetta per la casa? La
volete per il prezzo che avete pagato per iscrivervi al college? Raramente la avrete. Non è questo il modo. Le cose
149
Fig. 10 - Florida Southern College. L’Administration Buildings e in primo piano l’Edgar Wall Water Dome, riprogettata nel 2007 con i getti
convergenti a formare una cupola d’acqua come fissato nell’iniziale visione di Wright (foto dell’A.)
comuni, quelle che raccogliete per strada, sono facili da
ottenere. È per questo che sono comuni. Le cose superiori sono difficili da ottenere. E ce ne stiamo accorgendo
qui, nella nostra nazione, quando proviamo a costruire
un edificio di qualità superiore. È difficile. Ogni cosa può
scoraggiarci” (26).
Wright vuole trasmettere agli studenti del college il
mistero della conoscenza, della ricerca e della bellezza;
e di come le idee nascono e si modificano nella mente.
Tra i suoi edifici, davanti a un piccolo uditorio rinuncia a
qualsiasi descrizione astratta dei volumi, dei percorsi, del
luogo. E parla invece di quel che fra quelle mura avverrà
nei giorni a venire, della vita che ospiteranno e che li farà
vivere. Così consegna il suo lavoro direttamente ai ragazzi che lì studieranno. Li invita, per progettare il futuro, a
farsi emozionare dalle architetture.
“Tutto quello che voi dovete fare è immaginare qualcosa nella vostra mente. Voi dovete imparare solo questo,
e allora potrete fare qualcosa. È un problema del cuore,
del sentimento, una sensazione, un’idea che nasce come
un problema di conoscenza [...] Io ho sempre pensato che
andare a scuola servisse a trovare dentro di noi quel qualcosa, quella architettura dello spirito, che noi chiamiamo
anima; e imparare una tecnica che permetta a questo nostro essere profondo di costruire qualcosa di bello” (27).
Quando pronuncia questo discorso, Wright si è appena complimentato con gli allievi del coro per la loro
esecuzione. Prova allora ad accennare al rapporto fra la
150
dimensione fisica e quella emozionale nella percezione
della qualità delle cose.
“C’è in questi edifici qualcosa che vi canta dentro come
una nota di qualità spirituale che non può essere definita?
Qualcosa di profondo dentro di voi che chiede una risposta? Questo è quel che noi chiamiamo apprezzamento. [...]
L’apprezzamento in architettura è qualcosa di simile a un
risveglio. Quelli che non ne sono capaci sono come addormentati. [...] Guardi e non vedi. In altre parole ti manca
quella che si chiama visione. Come sviluppare la capacità
di visione? Un profeta disse laddove non c’è visione un
popolo muore. Io dico che laddove non c’è visione non c’è
nemmeno un popolo. Non c’è vita, non c’è qualità” (28).
Il college diventa così un simbolo in divenire della ricerca di una qualità totale capace di permeare il progetto
a qualsiasi scala. Una qualità sinonimo di cultura in divenire e non di standard comuni, un luogo da riscoprire
come fosse una prima volta. Come successe a Wright, che
ammise:
“Lakeland è stata per me una prima volta. La prima
volta di un interesse assolutamente idealistico in un college. E poi è quasi diventato il coronamento della mia
carriera. Un santuario dell’idealismo e della religione.
Tutti gli edifici, nonostante le loro dimensioni modeste,
sono unici nel progetto […]. Nella loro vita enfatizzeranno molto il rapporto con il territorio, ognuno con l’altro
e ognuno con tutti. Io a Lakeland mi sento come una
prugna nel suo succo” (29).
Per concludere, tornando al discorso di Wright agli
studenti, ci piace ricordare – usando le sue stesse parole – quali fossero il suo obiettivo e la radice del suo
progettare: “penso che gli studenti da qui usciranno con
miglior senso estetico di quelli di Yale o di Harvard o di
altri college progettati in stile gotico. L’atmosfera in cui
vi muovete e siete farà la qualità.
La qualità è una questione di cultura” (30).
(1) L’ultima costruzione, su progetto di Wright a Lakeland, è
in realtà recentissima. Si tratta della Faculty House realizzata nel
2013 rispettando fedelmente i disegni originali, sotto la supervisione dell’architetto M. Jeff Baker della Mesick, Cohen, Wilson, Baker
Architects (MCWB) di Albany, NY.
(2) Scully Jr. 1961.
(3) Zevi 1991.
(4) Argan 1970, p. 243.
(5) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer
Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178.
(6) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 20 settembre 1938, in
Brooks Pfeiffer 1986, p. 168.
(7) Ibidem.
(8) Wright 1952, p. 120.
(9) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer
Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178.
(10) Hitchcock 1958, p. 447. Il FSC era stato precedentemente trattato dall’autore nel 1942, nel volume monografico (da
lui presentato come “a sort of ex post facto catalogue”) della mostra
su Wright al MoMA del 1940: Henry-Russell Hitchcock, In
the Nature of Materials. 1887-1941 The Buildings of Frank Lloyd
Wright.
(11) Brooks Pfeiffer 1986, p. 104.
(12) Nell’aprile 2009, il World Monuments Fund ha convocato
un simposio di storici, architetti, conservatori, artigiani sulla conservazione dei textile-block nell’architettura di Wright; cfr. Chusid
2011.
(13) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in
Brooks Pfeiffer 1986, p. 179.
(14) Su questo argomento cfr. Siry 2004.
(15) Qualche anno dopo l’inaugurazione, il 19 ottobre 1944,
il forte vento di un uragano causò notevoli danni alla chiesa tra
cui il crollo della torre centrale, la distruzione del grande lucernario e danneggiamenti alle sedute nell’auditorium sottostante.
La successiva ricostruzione ha portato alcune piccole “correzioni”
del progetto. Tra queste delle modifiche per rinforzare la struttura
centrale e la torre lucernario, una finitura intonacata che ha coperto
le superfici in textile-blocks a vista del 2° piano, non protette da
sbalzi superiori, e la realizzazione di un diverso pulpito rimovibile
completamente in legno. Cfr. Mac Donald, Galbraith, Rogers
Jr. 2007.
(16) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in
Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, p. 179.
(17) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer
Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178.
(18) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in
Brooks Pfeiffer 1986, p. 179.
(19) In una precedente prospettiva, del 1938 la torre centrale era
raffigurata più alta rispetto a come sia stata poi realmente costruita.
È stato poi ridotto da 5 a 3 il numero dei cosiddetti “bow ties”, gli
elementi in cemento armato dalla forma di doppie piramidi che si
accostano con i vertici (una sorta di papillon tridimensionali) che
ritmano il campanile. I materiali e la costruzione della chiesa sono
descritti in Frank Lloyd Wright’s newest creation. A College Chapel
Designed to Express the Significance of a Name - Florida, un testo redazionale in «Architect and Engineer», n. 146, July 1941, pp. 34-36.
Nel 1976 la rivista «GA» dedica un volume monografico, il n. 40,
alla Cappella Pfeiffer e alla Sinagoga Beth Sholom.
(20) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie
Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 177.
(21) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in
Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, p. 179.
(22) Ad esempio è stato chiuso da pareti il parapetto del balcone
che dal secondo piano si affacciava sulla sala di lettura principale e
sostituiti numerosi arredi.
(23) I disegni di Wright per gli edifici realizzati o progettati nel
Florida Southern College sono documentati in alcuni volumi di Brooks
Pfeiffer, Frank Lloyd Wright. Monograph. Esattamente gli anni 19241936 sono raccolti nel volume 5, edito nel 1985; gli anni 1937-1941
nel volume 6 del 1986 e gli anni 1942-1950 nel volume 7 del 1989.
(24) Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, pp. 118-119.
(25) Grazie all’intelligente e tenace lavoro della presidente del
FSC, Anne B. Kerr, il campus è stato inserito nel World Monuments
Watch 2008. E nel 2006 ha ottenuto il un Campus Heritage Grant
dalla J. Paul Getty Foundation per sviluppare un master plan di
conservazione che stabilisse le linee guida per la gestione a lungo
termine delle 12 strutture di Frank Lloyd Wright, e il premio Save
America’s Treasures per il restauro della Annie Pfeiffer Chapel. Nel
2008 gli edifici di Wright al FSC sono stati inclusi nella World
Monument Fund’s World Watch List.
(26) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie
Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 178.
(27) Ivi, p. 177.
(28) Ivi, p. 178.
(29) F.L. Wright, cit. in Rogers 2001, p. 5.
(30) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie
Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 183.
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Zevi 1979
B. Zevi, Frank Lloyd Wright, Bologna 1979.
Zevi 1991
L. Zevi, Florida Southern College. Una miniatura della città-territorio wrightiana, in «L’Architettura. Cronache e Storia», 37, 1991,
pp. 648-667.
FRANK LLOYD WRIGHT’S FLORIDA SOUTHERN COLLEGE: A LIVING ORGANISM DESIGN
Conceived more than 80 years ago, the innovative character of the architecture, urban planning and landscape design of Florida Southern College in Lakeland
remains intact.
Built over the course of many years, between 1937 and 1957, the campus is the largest concentration of Wright’s work with its 12 buildings lining the shores
of Lake Hollingsworth.
A system of canopies – supported by columns as interesting as they are unique – creates an esplanade that snakes irregularly across the campus, integrating it
within its natural setting.
The site plan, which has been compared to Hadrian’s Villa at Tivoli, explored the theme of the city and its territory decades in advance.
At Lakeland Wright offers an anti-rhetorical, functional and yet symbolic response to the growing demand for an architecture of its era. The Annie Pfeiffer
Chapel is emblematic in this regard. The originality of the concrete block is also interesting: a textile-block designed in over forty different types that contributes
to the unity and character of the campus design.
As part of the analysis of the College, the essay also presents passages from the tough and visionary speech given by Wright here in 1951.
152
UN MONUMENTO ALLE CULTURE IBRIDE.
JUAN O’GORMAN E LA BIBLIOTECA CENTRALE DELLA
UNIVERSIDAD NACIONAL AUTÓNOMA DE MÉXICO A CITTÀ DEL MESSICO
Raffaele Marone
«Tres Culturas»
Due lapidi in uno stesso luogo. Sulle ultime tre righe
incise sulla prima lapide si legge:
“No fue triunfo ni derrota fue el doloroso nacimiento
del pueblo mestizo que es el Mexico de hoy” (1).
Quelle parole ricordano l’eccidio di nativi del 1521 ad
opera delle truppe di Cortèz. La seconda lapide ricorda la
matanza di oltre trecento studenti dell’UNAM, la Universidad Nacional Autónoma de México, nel 1968, nello stesso
luogo, Plaza de las Tres Culturas, Città del Messico (2). Le
tre culture da cui il sito prende il nome sono: l’antica dei
nativi, la coloniale e la modernità, le tre culture del pueblo
mestizo, «il popolo meticcio che è il Messico di oggi».
Plaza de las tres Culturas è uno spazio che lega i destini del
pueblo mestizo agli studenti dell’UNAM.
La Ciudad Universitaria UNAM
Le tre culture del pueblo mestizo, e gli studenti UNAM,
di nuovo si trovano legati nella Ciudad Universitaria e, in
particolare, nella sua Biblioteca Central (3).
Il Campus della UNAM, nel 2007 dichiarato dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità, è un progetto
affidato a Mario Pani, dopo un concorso al quale avevano
partecipato i principali esponenti del dibattito architettonico nazionale, alcuni dei quali avranno poi incarico di
disegnare i diversi edifici (4).
Pani, architetto modernista, per l’impostazione
dell’impianto generale del complesso decide di richiamare in modo chiaro la potenza insediativa espressa dai grandi complessi cerimoniali della tradizione precolombiana
dei popoli nativi (5). In quegli insiemi l’ampio respiro
degli spazi aperti è dovuto alla sapiente disposizione dei
volumi costruiti. L’intenzione di Pani è di rileggere nella
Città Universitaria quel monumentalismo, perentorio ma
privo di retorica, che caratterizza gli insiemi architettonici precolombiani: lo scopo è evocare lo spirito di Monte
Alban, spettacolare sito dello stato di Oaxaca (fig. 1).
Il contrasto tra il rigore International Style degli elementi edilizi e la vivacità degli apparati simbolico-decorativi dei mural, realizzati da alcuni tra i principali
muralisti del Paese, determina lo speciale carattere del
Campus UNAM e, allo stesso tempo, sancisce concreta-
mente il legame tra l’architettura modernista e il muralismo. La Biblioteca Central incarnerà pienamente quel
legame.
La Biblioteca Central
Due anni dopo l’inaugurazione della Città Universitaria, nel 1956, apre la Biblioteca Central del Campus, disegnata da Juan O’Gorman, architetto, pittore e scultore
di origini irlandesi, insieme agli architetti Gustavo María
Saavedra e Juan Martínez de Velasco. La costruzione era
iniziata sei anni prima (6).
L’edificio è fondato su una concezione simbolica che
vede il Messico contemporaneo indissolubilmente legato
al suo passato precolombiano, quindi alle culture dei nativi. L’idea è che il progresso, quale prodotto della modernità, sia inscindibile dal passato, dalle culture delle origini.
L’edificio, dimensionato per contenere un milione di
volumi, e inizialmente pensato per ospitare la Biblioteca
Nazionale del Messico, diviene poi la Biblioteca Centrale
dell’UNAM (7).
Fin dall’inizio, fu concepito come un segnale architettonico dall’alto valore simbolico, vero e proprio landmark.
La composizione è un’unità non scindibile di arte plastica
e architettura, un manufatto di limite sotto l’aspetto tipologico, al confine tra architettura e arte pubblica.
Gli edifici principali della Città Universitaria si affacciano sul grande vuoto centrale, come nei grandi complessi religiosi mesoamericani. Il volume della Biblioteca, alto 50 metri, è disposto in un punto visivamente
determinante dell’impianto del Campus, e apre sullo spazio di incontro della comunità accademica (fig. 2).
La composizione del volume della Biblioteca è
estremamente semplice: un parallelepipedo orizzontale,
su cui si erge in verticale un altro parallelepipedo. L’elemento verticale della torre dei libri, decorato su tutte le
facciate da un mural a mosaico, rende la Biblioteca subito
distinguibile da tutti gli altri edifici del Campus. Nella
parte più bassa del volume verticale, nei livelli corrispondenti alle aree amministrative e di servizio, ci sono tre
strisce di mural che si alternano a vetrate colorate.
Il parallelepipedo orizzontale, che fa da basamento, si
distende sulle asperità del suolo del Pedregal, estesa area
vulcanica dall’alto valore paesaggistico, e su di esso poggia
153
Fig. 1 - Il grande spazio aperto su cui prospetta la Biblioteca Central de la UNAM (foto di Adlai Pulido).
Fig. 2 - L’edificio della Rectoria in relazione al volume della Biblioteca Central (foto di Adlai Pulido).
incastrandosi nella articolata orografia del sito: contiene le
sale di lettura e i tutti i servizi al pubblico (8). Le ampie
fasce vetrate orizzontali, che inondano di luce le sale di lettura, contraddicono la funzione di appoggio al suolo del
basamento. L’ingresso nord dell’edificio è adornato da una
154
fontana in forma di Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità, un motivo che si ripete in diverse parti dell’edificio.
Nella Biblioteca Central il rapporto tra contenente e contenuto,
tra involucro e spazio interno, è portato all’estremo: è un
edificio tutto pelle, nel quale lo spazio interno sembra com-
pletamente asservito alla funzione di landmark che il segno
architettonico deve giocare.
Data la configurazione del manufatto, e il suo ruolo nel complesso della Ciudad Universitaria, è piuttosto
evidente che O’Gorman abbia disegnato l’edificio con
l’obiettivo primario di creare le condizioni per rivestire
completamente la torre dei libri con il mural.
Il mural
Il mural, che riveste la torre dei libri, su disegno dello
stesso O’Gorman, è realizzato con un mosaico di pietre,
provenienti da tutte le regioni della nazione. Le figure
riprendono lo stile grafico delle culture preispaniche, e il
realismo elementare dei muralisti (9).
Il tema è l’evoluzione della cultura. Il mural funziona
come un codice, rappresenta una narrazione della storia
del paese in varie fasi, è infatti intitolato «Rappresentazione storica della cultura». Sulle quattro pareti le immagini raccontano, nella migliore tradizione del muralismo,
come si è andato determinando il vitale crogiuolo nel
quale si è sviluppata la cultura messicana contemporanea: gli ancestri mejica precolombiani, la colonizzazione
spagnola, la modernità e l’istituzione universitaria, che è
deputata a rappresentare il più pienamente possibile, nel
presente, le tre culture del popolo meticcio.
La parete nord dell’edificio rappresenta immagini delle
culture preispaniche mesoamericane e le loro divinità, il
tema ruota intorno alla dualità vita-morte. La parete sud
racconta la visione del mondo europeo contrapposta a quella degli indigeni e illustra il profilo del mondo coloniale
della Nuova Spagna, presentando il pensiero alla base della cultura spagnola in quel tempo, segnato dalla contrapposizione tra Dio e Demone, tra religiosità e mondanità.
La parete orientale raffigura la modernità, al centro c’è la
forma di un atomo (fig. 3). L’atomo al centro della nuova
visione del mondo appare come il principio che genera l’energia necessaria alla vita di piante, uccelli, pesci, rettili e
del genere umano, e l’energia potenziale dei minerali. La
parete occidentale ‘parla’ dell’Università Nazionale e della
sua importanza nel Messico contemporaneo.
Prima della realizzazione O’Gorman si impegna nella ricerca delle pietre naturali colorate necessarie per il
mural. Quella ricerca diviene epica. L’architetto viaggerà
per cave e miniere, valli e montagne, attraverso le regioni più remote del Paese, spingendosi fino al deserto di
Zacatecas.
Anche la realizzazione del mural assume aspetti epici,
certamente a causa delle dimensioni dell’opera. O’Gorman si reca ogni giorno della settimana, dalla mattina
fino a sera tarda, per due anni, a supervisionare la realizzazione. Per comprendere la scala delle operazioni basti
pensare al tavolo di montaggio verticale lungo 48 metri
per sei di altezza, preparato all’interno dell’edificio in costruzione, per posare i pezzi singoli di un metro quadro
ciascuno da montare sulle facciate. La superficie complessiva dei mosaici è di circa 4.000 mq (fig. 4).
Il muralismo originariamente è una forma d’arte intesa come strumento di comunicazione culturale di massa,
rivolta essenzialmente alle masse contadine urbanizzate
costituite da el pueblo mestizo, il popolo meticcio. Le immagini dipinte venivano distese sulle pareti di costruzioni esistenti. L’edificio della Biblioteca può considerarsi
Fig. 3 - La parete orientale
della Biblioteca con l’atomo,
simbolo della modernità (foto di
Adlai Pulido).
155
Fig. 4 - La torre dei libri, rivestita su tutte le pareti da mural,
poggia sul volume orizzontale
che contiene le sale di lettura,
vetrato nella parte bassa di
attacco al suolo (foto di Adlai
Pulido).
Fig. 5 - La Biblioteca Central punto di riferimento nel Campus
UNAM, qui vista dalla Facultad de Filosofia y Letras (foto di
Adlai Pulido).
un’interpretazione estrema del muralismo come modo di
fare arte, nel senso che mural e volume costruito coincidono, in quanto sono concepiti insieme, come un’unica
idea.
O’Gorman
La Central Biblioteca si può leggere come l’esito di una
contaminazione del razionalismo in architettura con il
muralismo. L’edificio, in un certo senso originale, se non
poco ortodosso nell’ambito della figurazione architettonica del suo tempo, trova le sue ragioni nella complessa
biografia umana e artistica del suo autore, Juan O’Gorman (10).
Nato in una famiglia culturalmente mista, da madre
messicana e padre irlandese, architetto pittore, intellettuale, si forma come persona di cultura ibrida e diverrà ideatore di linguaggi ibridi. L’ambiente culturale nel quale si
forma il giovane Juan è quanto mai vivo e cosmopolita.
Le ricerche delle correnti artistiche nate nel vecchio continente si incrociano con quelle autoctone, sviluppatesi soprattutto a seguito della rivoluzione zapatista. Lo scrittore
Pino Cacucci, nella biografia della fotografa italiana Tina
Modotti, compone un affresco del fertile clima culturale
che si viveva in quegli anni nel Paese mesoamericano (11).
O’Gorman, al centro di relazioni umane di grande intensità, fu amico fraterno di Frida Kahlo e Diego Rivera,
per il quale costruì la casa studio, e fu il traduttore di Lev
156
Trotsky nelle sua permanenza, conclusasi tragicamente,
in Messico.
Nel 1929 l’architetto costruisce una piccola casa studio
per sé, in puro stile razionalista. È l’esordio di O’Gorman,
che guarda a Josè Villagran Garcia e agli altri razionalisti
messicani, di qualche anno più anziani di lui (12).
Appena due anni dopo Diego Rivera, colpito dall’architettura del manufatto, commissiona al giovane amico
una nuova casa studio per sé e Frida Kahlo. O’Gorman
propone una originale tipologia a volume doppio; le due
parti sono collegate da una passerella aerea tra le coperture (13).
L’esplorazione del razionalismo da parte dell’architetto
prosegue, principalmente attraverso il grande impegno
richiesto dal disegno e la realizzazione, dal 1932 in pochi
anni, di oltre trenta complessi scolastici in diverse aree
del Paese (14).
Intanto il rapporto con la coppia di amici Diego Rivera e Frida Kahlo è sempre vivo e fertile, tanto che
l’architetto affiancherà il muralista nella realizzazione
di un nuovo edificio, un personale studio-museo, dove
lavorare e anche conservare l’enorme collezione di oggetti d’arte precolombiana che Diego andava componendo da anni.
Rivera volle chiamare l’edificio Anahuacalli (ovvero
casa dell’energia). Anahuacalli, che aprirà solo nel 1964,
è costruito interamente con la scura pietra vulcanica del
sito, e rilegge, in forme piuttosto mimetiche, i monumenti precolombiani (15). Lo spazio interno, che sembra
scavato nella massa lapidea, proprio come negli antichi
monumenti, è decorato con grandi superfici a mosaico in
pietra. Quest’opera costituirà una sorta di laboratorio per
sperimentare quelle soluzioni artistiche e tecniche che
O’Gorman attuerà nel mural della Biblioteca.
In quegli stessi anni, dal 1942 al 1948, O’Gorman dipinge molto, si dedica quasi esclusivamente alla pittura,
ricercando un linguaggio proprio, di cui l’autoritratto del
1950 è una sorta di punto d’arrivo (16).
L’accelerazione del linguaggio architettonico di
O’Gorman nella direzione presa con l’Anahuacalli, unito alla libertà immaginativa sperimentata con la pittura, può dare indizi per spiegare la casa dell’architetto
sulla Avenida San Jeronimo, iniziata sul finire degli
anni Cinquanta (17). La casa, detta la Cueva, la grotta,
è un’immaginifica costruzione che prolunga una cavità
naturale del suolo vulcanico. L’edificio potrebbe sembrare un’originale trasposizione mesoamericana dell’opera di Antoni Gaudì.
Cultura come confluenza di culture
L’edificio della Biblioteca Central è un’opera che raduna
significati. L’opera si può interpretare come potente sintesi del percorso artistico di O’Gorman (18).
Fig. 6 - La parete occidentale della Biblioteca Central con lo scudo,
simbolo della UNAM (foto di Adlai Pulido).
Nel progetto della Biblioteca, le passate esperienze
razionaliste permetteranno all’architetto di superare sia
l’estremismo figurativo della casa di San Jeronimo che il
mimetismo insito nell’Anahuacalli, ispirato da Rivera.
Anche se di Rivera certamente è evidente l’influenza
sulla scelta di costruire un edificio coincidente con un
mural.
La Biblioteca, in un certo senso, si pone come una sorta
di quintessenza del progetto culturale che la UNAM proponeva al Messico, ma pure agli altri Paesi dell’America
Latina e, in definitiva, al mondo intero: vedere, sentire
la cultura di un Paese come prodotto del suo passato e
delle culture diverse che lo hanno attraversato, e ancora
lo attraversano nel presente.
Nella primavera del 2006 gli zapatisti del Chiapas ritornano a Città del Messico cinque anni dopo la storica
entrata nella capitale del 2001.
I rappresentanti degli indijenas, della parte più fragile
del pueblo mestizo, per continuare a rivendicare la presenza
nella cultura e nella società del Messico attuale, scelgono
(19) Plaza de las Tres Culturas e lo spazio antistante la Biblioteca della Ciudad Universitaria per far parlare il loro
portavoce Marcos a studenti e docenti (20). L’edificio farà
da sfondo anche simbolico all’incontro. Ancora una volta,
si riannoda il filo che unisce gli studenti della UNAM
alle «tre culture» del pueblo mestizo.
157
Le vicende della Biblioteca Central, e della stessa Ciudad Universitaria, offrono la possibilità di comprendere il
ruolo centrale che l’università pubblica ha avuto in quel
Paese, quanto quel ruolo fosse sentito dagli studenti, dai
docenti, dagli intellettuali e dagli artisti (figg. 5-6). L’architettura, nella fisicità concreta di un edificio, la Biblioteca Central, è stata chiamata a testimoniare, a interpretare le ragioni culturali profonde di un’intera società, il suo
necessario fondarsi sul metissage.
Il riconoscimento del valore, e quindi dell’importanza,
delle «culture ibride» è stato tema rilevante nella riflessione novecentesca in America Latina (21). Studiare, attraverso l’architettura e le arti, quel ricchissimo bagaglio
di pensieri ed esperienze concrete sembra utile oggi, tempo di confronti, giustapposizioni, scontri, tra le culture
diverse che abitano il pianeta.
Umberto Eco ha scritto: “Quando entra in scena l’altro
nasce l’etica” (22). Nelle Americhe «l’altro» è stato paradossalmente il nativo, l’originario. Con il racconto scritto
dalle immagini sulle pareti della Biblioteca Central della
UNAM l’altro «entra in scena».
Quel racconto dice che non c’è vera evoluzione di una
cultura, e quindi di una società, senza ibridazione con
l’«altro», se non c’è integrazione possibile tra uomini, per
natura tra loro diversi, quindi reciprocamente «altri».
Allora forse, il monumento alle culture ibride di Juan
O’Gorman, è da interpretarsi come Monumento alle Culture, a tutte le culture.
(1) [Non fu trionfo né sconfitta fu la nascita dolorosa del popolo
meticcio che è il Messico di oggi].
(2) Sui tragici fatti dell’ottobre 1968, si veda il resoconto di
Oriana Fallaci, al tempo giornalista inviata in Messico, Fallaci
1968. Per un inquadramento generale di quegli eventi, in relazione
a movimenti politici in altre parti del mondo: Kurlansky 2005.
La memoria di quell’eccidio è ancora molto viva anche nelle nuove
generazioni di studenti della UNAM, che in occasione del 50°
anniversario hanno partecipato a una grande manifestazione nella
piazza, come per ribadire il grande valore simbolico di quello spazio; al riguardo si veda UNAM conmemora 2018.
(3) Lizárraga Sánchez 2014.
(4) Sul progetto, la costruzione e gli aspetti linguistici delle
architetture del Campus: Pani, del Moral 1979, Rojas 1979,
Lazo 1983.
(5) Mario Pani è stato figura centrale dell’architettura moderna
messicana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, cfr. Adriá 2005.
(6) La Biblioteca è certamente l’edificio più studiato del Campus
UNAM e, in assoluto, tra quelli più pubblicati dell’architettura messicana del Novecento, spesso in testi interessanti anche se a diffusione
piuttosto limitata, come Haupt 2001, pp. 44-46, e Prior 2005.
(7) In Solís Ávila 2001, pp. 35-43, un ampio e documentato articolo ricostruisce le varie fasi della vita dell’edificio, dalla sua costruzione
alle varie trasformazioni e adattamenti avvenuti nel corso del tempo.
(8) Per una documentazione visiva dell’area del Pedregal si veda
il libro fotografico Portugal 2006.
158
(9) La parte più interessante dell’articolo Morales Quezada
2008 riguarda la realizzazione del mural, dove si sottolinea il grande contributo dato dal lavoro artigiano al compimento dell’opera.
Il mural è espressione artistica tipica della cultura messicana del
Novecento. I più influenti artisti del Paese hanno prodotto importanti opere in questo campo. Al riguardo si veda: Pellicer 1960,
Linares 1967, Torres Escalona 2004 e Comisarenco Mirkin,
Neruda, Trueba Lara,Villaurrutia 2013.
(10) Cfr. O’Gorman, Rodríguez Prampolini, Sáenz,
Fuentes Rojas 1983; Rodríguez Prampolini 1983;
Rodríguez Prampolini, Jiménez, Poniatowska 1999;
O´Gorman 2007. Tra le diverse risorse in rete su O’Gorman
risultano particolarmente interessanti il video Con los Ojos de Juan
O’Gorman, in https://www.youtube.com/watch?v=K1IWiQLfHt0
e l’articolo di Victor Jimenez, O’Gorman dibujante, in http://www.
difusioncultural.uam.mx/revista/abr2005/victorjimenez.html),
ma soprattutto il documentario Como una pintura nos iremos borrando (https://www.youtube.com/watch?v=tYT44e3gAfE )realizzato
sulla base di una lunga intervista, l’ultima, a Juan O’Gorman,
oramai in età avanzata.
Per una visione storico-critica complessiva delle arti nel Messico
moderno, cfr. Fernández 1994.
(11) Cacucci 1991.
(12) Max Cetto, architetto militante e protagonista egli stesso
dell’architettura moderna messicana, è stato tra i più efficaci divulgatori delle vicende del razionalismo messicano, soprattutto con il
suo volume Cetto 1961.
(13) Oltre alle pagine sulla casa nei volumi già citati che riguardano l’opera di O’Gorman, in rete, tra le molte risorse disponibili
sull’edificio, risultano particolarmente utili il sito web del Museo
Casa Estudio Rivera Kahlo: https://estudiodiegorivera.bellasartes.
gob.mx/, ospitato in quella che fu la residenza dei due artisti e, per
l’efficacia delle presentazioni da parte di studiosi e delle immagini
contenute, i video Artes - Museo Casa Estudio Diego Rivera y Frida
Kahlo (https://www.youtube.com/watch?v=zcyz-0nq-k4) e Firma
de Juan O´Gorman. Museo Casa Estudio Diego Rivera y Frida Kahlo
(https://www.youtube.com/watch?v=vXnvHCWphLU).
Una lettura della casa è in Giardiello 2010, pp. 170-172.
(14) Si veda lo studio Busqued Navarro 2015.
(15) Su Anahuacalli Novo 1970.
(16) O’Gorman pittore è stato studiato per lo più negli
anni Sessanta e Settanta del Novecento, si vedano ad esempio
Rodríguez Prampolini 1969, pp. 81-84 e Luna Arroyo 1973.
Per un più ampio sguardo sull’arte messicana del Novecento si veda
Borghese, Corzo 1997, catalogo della grande mostra tenuta in
Castel dell’Ovo a Napoli, nel 1997. Lo scrittore Pino Cacucci, in
un volume che raccoglie scritti sul Messico contemporaneo, descrive le vicende della realizzazione del mural intitolato La Historia de
Michoacán realizzato all’interno della Biblioteca Pública Gertrudis
Bocanegra di Pátzcuaro; cfr. Cacucci 1992, p. 75.
(17) I due studi post-lauream Pérez García 2011 e Arellano
2016 sono significativi del recente accresciuto interesse in ambiti
accademici per la casa in Avenida San Jeronimo, che O’Gorman
aveva costruito per sé.
(18) Catherine Nixon Cooke nel suo libro sul mural a mosaico
intitolato Confluence of Civilizations in the Americas, realizzato a San
Antonio in Texas, coglie aspetti fondamentali del pensiero sull’arte
di O’Gorman, v. Nixon Cooke 2016.
(19) Sullo storico evento del 2001 si veda: Red. 2001 e, per
le immagini dell’incontro del 2006 sul piazzale antistante la
Biblioteca, Red., Con los Estudiantes en el D.F., 2 de mayo (http://
enlacezapatista.ezln.org.mx/2006/05/03/con-los-estudiantes-en-eldf-2-de-mayo/#uam).
(20) I testi dei discorsi contenuti in Subcomandante Marcos
1996, interessano qui in quanto costituiscono un notevole esempio
di feconda, riuscita contaminazione di forme scritte di espressione
moderna e forme del pensiero indigeno, fondato su concatenazioni
di immagini.
(21) Garcia Canclini 1990.
(22) Eco 2014, p. 69.
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A TRIBUTE TO HYBRID CULTURES: JUAN O’GORMAN
AND THE CENTRAL LIBRARY OF MEXICO CITY’S NATIONAL AUTONOMOUS UNIVERSITY OF MEXICO
In 1956 the UNAM Campus Biblioteca Central in Mexico City opened. It was designed by Juan O’Gorman, a Mexican architect, painter and sculptor of
Irish extraction, and a very good friend of Frida Kahlo and Diego Rivera. O’Gorman was influenced by the various cultural currents crossing the country
in the twentieth century.
From the very beginning, the building was conceived as a highly symbolic landmark. The book tower, a huge blind parallelepiped, is completely covered with a mural made with a mosaic of stones from all regions of the nation. Considered a masterpiece of modern American architecture, it shows a unity of architecture and art.
The recognition of the value, and therefore the importance, of “hybrid cultures” is a relevant theme in Latin American twentieth-century thought. Studying
that wealth of thoughts and concrete experiences through architecture and the arts is useful today, at this time of comparisons, juxtapositions and clashes between
the different cultures of the planet.
160
L’UNIVERSITÀ DEL CARDINALE CISNEROS,
MODELLO DELL’ETÀ MODERNA DICHIARATO PATRIMONIO MONDIALE
Javier Rivera Blanco
La città di Alcalá, per la sua origine preromana e –
soprattutto – per la sua struttura medioevale, per la sua
università e per la sua evoluzione fino al presente, ha generato un importante patrimonio (1). Nacque nel territorio romano di Complutum, da cui si trasferì in epoca musulmana verso la collina e acquisì il suo nome attuale. Più
tardi fu ricollocata nel luogo dove, secondo la tradizione,
furono martirizzati i santi Giusto e Pastore, venendosi a
formare intorno alla loro cappella un quartiere cristiano
e intorno alla via maggiore altri due, uno ebreo e uno
islamico, con un grande spazio al di fuori delle mura per
svolgere i mercati, dove in seguito sarebbe sorta la piazza
maggiore. La popolazione ha potuto confidare sugli Studi
Generali (l’università originaria) dal 1293, poi rinnovati nel secolo XV dall’arcivescovo Carrillo e rifondati dal
cardinale Cisneros.
Quest’università fu dichiarata “Patrimonio Mondiale” nel 1998, facendo così parte delle cinque che vantano questo titolo nel mondo: l’Università della Virginia
(USA), l’Università Centrale del Venezuela (Caracas),
l’Università Autonoma del Messico (UNAM) e l’Università di Coimbra (Portogallo) (fig. 1).
Il cardinale Cisneros (2)
Tra i numerosi meriti di Francisco Jiménez, cardinale
Cisneros (fig. 2) spicca la creazione dello stato moderno
spagnolo; difatti, egli pianificò con insistenza e ottenne
l’unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona sotto
il casato della dinastia austriaca degli Asburgo.
Nonostante fosse nato a Torrelaguna (Madrid, 1436),
in diversi documenti posteriori viene descritto come nativo della villa di Cisneros (Palencia) (3), dalla quale prese
il suo cognome da francescano, momento nel quale inoltre cambiò il suo nome, da Gonzalo a Francesco. Morì a
Roa, Burgos (l’8 novembre del 1517, a 81 anni d’età),
mentre andava a formalizzare il passaggio all’imperatore
Carlo V dei poteri che aveva detenuto come Reggente
dalla morte di Fernando II d’Aragona (dal 23 gennaio del
1506 all’8 novembre 1517). In precedenza, era già stato
Reggente di Spagna, dopo la morte di Felipe I – re di
Castiglia – dal 25 settembre del 1506 fino al 17 agosto
del 1507. In virtù di un suo esplicito desiderio fu sepolto
nella cappella dell’Università di Alcalá (figg. 3-4), nella
quale si conserva il suo stupendo sepolcro in marmo di
Carrara, realizzato dai migliori scultori italiani e spagnoli
del Rinascimento. Tuttavia, dal secolo XIX i suoi resti
riposano nella cattedrale Magistrale di Alcalá.
Trascorse la sua infanzia a Cisneros studiando latino
con suo zio don Alvaro (seppellito in un importante sepolcro nella chiesa locale di San Pedro), che fu un chierico
in questo borgo della Tierra de Campos palentina. Studiò
grammatica ad Alcalá e diritto civile ed ecclesiastico nella scuola di San Bartolomé di Salamanca. In seguito, prese gli ordini sacerdotali a Roma.
L’arcivescovo di Toledo Don Alonso Carrillo e il nostro
personaggio si scontrarono per l’arcipretura di Uceda. A
tal proposito il prelato lo incarcerò per diversi anni, nella
torre di Uceda e nel castello di Santocraz. A partire dal
1477 ottenne in permuta la Cappellania Maggiore del
Capitolo della cattedrale di Sigüenza, dove strinse una
proficua relazione con il vescovo don Pedro González di
Mendoza, il quale arrivò a contare su di lui in qualità di
Vicario Generale della diocesi.
Nel 1480 entrò nell’Ordine dei PP. Francescani, con
il nome di frà Francesco (in onore del santo di Assisi)
e si ritirò per un periodo nel convento di La Salceda, in
seguito presso quello di San Juan de los Reyes e nel El Castañar. Sarebbe inoltre divenuto Provinciale dell’ordine
dei Francescani in Castiglia promuovendo la sua riforma.
Il suo mentore, il cardinale González di Mendoza, riuscì a farlo nominare confessore della Regina Isabella la
Cattolica nel 1492, e alla sua morte nel 1495 gli successe nell’Arcivescovato di Toledo, prendendo possesso
del convento francescano di Tarazona di fronte agli stessi
Re Cattolici. A questo punto era uno degli uomini più
potenti del regno e detenne l’incarico di cardinale della
Santa Chiesa Romana e Primate di Spagna.
Dedicò molti sforzi alla ristrutturazione prima dell’Ordine Francescano e poi del clero spagnolo, che viveva momenti di grande miseria e declino, così come di grande
decadenza intellettuale.
Di vitale importanza per la Spagna dell’Età Moderna
fu la fondazione dell’Università di Alcalá con Bolla Pontificia del 1499: un’istituzione che già esisteva dal secolo
XIII ma che si trovava in una situazione di piena decadenza. La nuova organizzazione serviva a migliorare la
formazione del clero, anch’esso in grave degrado, e anche
ad importare nel paese tutte le innovazioni che stavano
nascendo in quel momento nel resto d’Europa sotto l’egida dell’Umanesimo e del Rinascimento. Fu d’esempio
alla creazione di altre università nell’America spagnola e
nelle sue aule si formarono – oltre a sacerdoti, frati e mo-
161
Fig. 1 – Facciata dell’università di Alcalá de Harenares, XVI secolo (Archivio UAH).
naci – anche numerose personalità dell’amministrazione
che si riversarono in Spagna e verso le nuove istituzioni
americane, rendendo possibile l’esportazione del modello
di stato moderno nel Nuovo Mondo.
Cisneros istituì un’università che vantava i migliori
architetti e artisti dell’epoca, come Pedro Gumiel ed Enrique de Egas, i quali disegnarono un piano classico in
quadrettatura per il collegio maggiore (di San Ildefonso), 12 collegi minori e poi altri sei ancora (1 Cristo+12
Apostoli+6 discepoli preferiti), costituendo una Città del
Sapere, unica al mondo, la Città di Dio e la Città biblica
per eccellenza. Divenne il centro più importante della
Spagna rinascimentale e barocca, insieme all’Università
di Salamanca, del cui collegio fecero parte professori e
alunni del calibro del principe Carlo, il ministro Antonio Pérez, l’archeologo, cronista e geografo Ambosio de
Morales, il medico Valles il Divino, gli scrittori Mateo
Alemán, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de
Molina, santi come San Giovanni della Croce, San Giuseppe Calasanzio, Sant’Ignazio di Loyola, San Tommaso
di Villanueva, San Giovanni d’Ávila, il Beato Palafóx, il
matematico e geometra Juan Caramuel, il grammatico
Elio Antonio de Nebrija: il fiore all’occhiello del Secolo d’Oro spagnolo. In seguito, anche ministri e scrittori
diedero lustro a questo centro universitario, come Gaspar
Melchor de Jovellanos o la seconda Dottoressa al mondo
donna María Isidra Quintila de Guzmán, all’inizio del
secolo XIX.
Tra i progetti che Cisneros finanziò e sponsorizzò è
bene menzionare la pubblicazione ad Alcalá della Bibbia
Poliglotta Complutense. Fu una delle imprese di maggior valore della sua epoca, “un’opera come per miracolo”
così definita dal biografo del cardinale Albar Gómez di
Castro, davvero rivoluzionaria poiché favorì la diffusione
162
della stampa e del testo sacro in tutta Europa e America.
Fece da base alle famose bibbie di Anversa (1568-1572),
Heidelberg (1586), Parigi (1624-1645) e Londra (16541669). Fu approvata parimenti da Papa Leone X.
Fig. 2 – Francisco Jiménez de Cisneros ritratto come cardinale,
generale e reggente di Spagna (Archivio UAH).
Fig. 3 – Cappella de Cisneros, XVI secolo, stato attuale
(Archivio UAH).
Allo stesso modo va menzionata la costruzione della
sua università dal punto di vista urbanistico e architettonico. Per quanto riguarda il primo punto essa influì
pesantemente sulle nuove piante delle città spagnole in
America attraverso la pianta a scacchiera o a reticolo,
mentre dal punto di vista architettonico istituì la Città del Sapere di maggior compiutezza fino ad allora mai
stata realizzata, nella quale nel corso dei secoli lavorarono i più grandi architetti e artisti spagnoli, come Pedro
Gumiel, Rodrigo Gil de Hontañón, Sopeña, Juan Gómez
de Mora, Francisco Moradillo, Ventura Rodríguez, Bartolomé Ordóñez, Domenico Fancelli, Juan de Flandes,
Francisco Moradillo.
Grazie a grandi artisti rinnovò completamente la cattedrale Magistrale di Alcalá de Henares, che condivide
questo titolo con la Magistrale di Lovanio, essendo i canonici del suo capitolo dei magister, ossia, contemporaneamente professori dell’università. Ebbe anche l’onore
politico e militare di dirigere le truppe del regno alla
conquista di Orano. Peraltro, aveva già partecipato in
modo ragguardevole alla conquista di Granada con la
Regina Isabella.
Proprio della regina fu valido consigliere fino alla sua
morte e quando venne a mancare Fernando I il Cattolico
si occupò di governare la Spagna con destrezza e mantenendo in riga i nobili che si scontravano per mettere al
potere Fernando, fratello del Re defunto, o per istigare
la nobiltà a recuperare i propri antichi privilegi dinanzi
alla monarchia appoggiando la regina Giovanna. Reggente per desiderio del proprio Re, mantenne il potere
fino all’arrivo del giovane Imperatore Re Carlo V e I di
Spagna, nonostante per questione di ore non poté ricon-
segnarglielo di persona a causa della morte che sopraggiunse proprio allora.
L’epitaffio sul suo sepolcro originale conteneva questo
testo: “Io, Francesco, che ho fatto edificare alle Muse un
Collegio Maggiore,/ Giaccio ora in questo piccolo sarcofago./ Ho unito la porpora al saio,/ l’elmo al cappello,/
Frate, Comandante, Ministro, Cardinale,/ Ho congiunto
senza meritarlo la corona alla tonaca/ Quando la Spagna
mi obbediva come a un re”.
Un’università storica con un importante patrimonio
La sua origine storica (4) colloca l’Università di Alcalá
al quarto posto tra quelle create in Spagna, dopo quella
di Palencia (1212), sparita molto presto, quella di Salamanca (1218) e quella di Valladolid (1241). Gli Studi Generali superiori di Alcalá de Henares furono creati
il 20 maggio del 1293 dall’arcivescovo di Toledo Pedro
Pérez Gudiel e dal re don Sancho IV il Coraggioso e, secondo quanto risulta dal documento del privilegio reale,
con “tutte quelle schiettezze che possiede lo studio di
Valladolid”. Il suo prototipo fu modello per gli istituti
di Parigi e di Salamanca, suggerendo spunti per quelli di
Bologna e Lovanio (5).
Nel 1459 l’arcivescovo di Toledo e Signore di Alcalá
Alonso Carrillo de Acuña creò le cattedre di Grammatica,
Filosofia e Logica grazie alle quali fu notevolmente modernizzata e migliorata, e nel 1473 passò sotto la gestione
del guardiano del convento francescano di Santa Maria di
Gesù (poi chiamato di San Diego). Una nuova cattedra
fu promossa dal cardinale Pedro González di Mendoza
163
Fig. 4 – Cappella de Cisneros secondo l’incisione di Jenaro Pérez
Villaamil, 1842 (Archivio UAH).
il 27 marzo del 1497. Tuttavia, un momento cruciale
per la struttura fisica dell’università attuale ebbe luogo
a partire dal 13 aprile del 1499, data in cui il cardinale
Cisneros ottenne da papa Alessandro VI la bolla con la
quale si rielaborava l’università secondo la nuova visione riformista, rinascimentale ed umanista. I suoi statuti
furono approvati nel 1513. Era composta dalle facoltà di
Teologia, Arte, Diritto Canonico e Medicina.
In questi anni in Europa stava nascendo il modello di
collegio maggiore universitario con la creazione del Collegio degli Spagnoli di Bologna, fondato nel 1367 da don
Gil di Albornoz; seguendo lo stesso modello fu creato il
Collegio di San Bartolomé di Salamanca, da Don Diego
di Anaya. Intorno alla fine del secolo XV e durante tutto
il secolo XVI furono fondati i più rilevanti istituti della Spagna; quello di Santa Cruz di Valladolid, quello di
Cuenca a Salamanca, San Ildefonso di Alcalá e poi San Salvador di Oviedo e quello di Fonseca di Salamanca, oltre
a quello dell’Università di Sigüenza, antenata diretta di
quella complutense. Infatti il 14 marzo 1499 venne posta
la prima pietra del Collegio Maggiore di San Ildefonso,
iniziando le opere che si sarebbero concluse nel 1508, anno
di inaugurazione e vennero create le facoltà di Arte e quella di Canoni e Teologia (quella di medicina sarebbe stata
164
creata nel 1514). A questo punto il cardinale aveva già
totalmente configurato la sua idea di città universitaria a
partire dal lato orientale della città medievale, fondando
così ex professo ed ex novo, probabilmente con il suo architetto Pedro Guimel, la prima città universitaria progettata
d’occidente, la cui planimetria generale del 1564 è conosciuta attraverso quella realizzata dal visitatore don Juan
de Ovando nella sua ricostruzione del secolo XVIII.
Con Cisneros viene progettato un collegio universitario maggiore (San Ildefonso) e altri dodici di istruzione
inferiore (in memoria dei dodici apostoli, e più tardi altri
in ricordo dei discepoli) che occuparono tutto il nuovo
spazio dell’espansione risalente al Cinquecento e alcuni
appezzamenti e terreni della città antica.
Durante i secoli XVI, XVII e XVIII vennero edificati tutti quanti, alcuni cambiando ubicazione, altri rielaborando i propri edifici e modernizzandosi. Tuttavia,
nell’ultimo secolo menzionato l’università spagnola sperimentò un’evidente declino e con essa la città universitaria di Alcalá. La struttura architettonica si era però
consolidata e di lì in poi ebbero luogo diversi avvenimenti che portarono a cambi sostanziali che condussero
fino alla configurazione attuale. Nel 1770 venne emanato
l’ordine di dismettere i collegi di istruzione minore: ciò
presuppose l’abbandono del patrimonio edificato, in altri
casi la rovina o il cambio d’uso; molti furono convertiti in
abitazioni o destinati ad ulteriori scopi d’uso diversi (6).
Per l’università di Alcalá de Henares il secolo XIX si
rivelò catastrofico; difatti la corte desiderava avere un’università a Madrid, di cui era priva, pertanto nel 1821 fu
istituita l’Università Centrale. L’edificio cisneriano venne
così mantenuto fino all’anno 1836, quando fu applicato
il decreto di alienazione di Mendizábal (1835), che soppresse i conventi, i collegi e le istituzioni religiose degli
uomini in tutta la Spagna e abolì altresì l’Università di
Alcalá. Amministrativamente e organicamente si spostò
a Madrid, e si vendettero tutti i suoi possedimenti per
pagare i debiti dello Stato. Alcuni dei suoi beni mobili
vennero trasportati alla nuova istituzione, ma la maggior
parte furono venduti, così come gli edifici che sorsero
dopo la riforma di Cisneros.
Quello che conosciamo come l’isolato cisneriano o
nucleo originale rinascimentale (fig. 5) venne messo
all’asta nel 1846 e comprato da privati, come l’aristocratico Javier de Quinto, ma prima dell’abbandono
del posto e della confisca dei suoi oggetti, soprattutto
quelli della cappella, nel 1850 accadde un caso insolito
nella storia della Spagna: un folto gruppo di residenti
di Alcalá de Henares si unirono e crearono la “ Società
di Comproprietari degli Edifici che costituirono l’Università”, i quali acquistarono il complesso nell’attesa
del ritorno dell’istituzione. Da quel momento partirono
cessioni o affitti, a seconda dei casi, da parte degli stessi
a beneficio di varie istituzioni e privati a condizione di
preservarli per poterne ricavare nel futuro un riutilizzo
Fig. 5 – Isolato fondazionale de Cisneros (Archivio UAH).
Fig. 6 – La città universitaria de Cisneros secondo il progetto redatto nel XVI secolo e copiato nel 1768 (Archivio UAH).
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per l’Università. Così, questi immobili dei collegi furono trasformati in caserme e sedi militari, collegi religiosi e pubblici, abitazioni, sedi di gruppi culturali e
sportivi, strutture alberghiere, ecc. Per questo motivo
conobbero importanti trasformazioni e rinnovamenti al
fine di adattarli ai nuovi usi e, soprattutto, riuscire ad
evitare il loro deterioramento.
Nel corso de secolo XX avrà luogo un’epoca di rivalorizzazione come patrimonio collettivo della nazione. Infatti, nel 1914 il Collegio di San Ildefonso e la sua facciata
vennero dichiarati Monumento Storico Nazionale. Tutto
l’isolato Cisneriano attraversò momenti molto delicati
durante la Guerra Civile, giacché per diversi mesi fra il
1937 e il 1938 venne bombardato dall’aviazione tedesca
e italiana, fatto che istigò parole di collera di Antonio
Machado (7). Molti edifici furono direttamente danneggiati, come il patio di San Ildefonso e il patio del Trilingue. Dopo il conflitto fu destinato a diverse occupazioni:
ad esempio, fu sede dell’Istituto Nazionale dell’Amministrazione Pubblica, Istituto di Scuola Media, Collegio
degli Escolapios, ecc.
Durante gli anni Settanta e Ottanta, la Spagna sperimentò un’importante espansione universitaria, assistendo all’apertura di facoltà e collegi universitari oltre alle
università tradizionali. Così, la neo denominata Università Complutense di Madrid inaugurò in alcune succursali
della città di Alcalá degli studi subordinati alle facoltà
di Medicina, Scienza, Farmacia ed Economia durante gli
anni 1975 e 1976.
Nell’anno 1968 il centro storico di Alcalá venne dichiarato complesso storico, cosa che lo salvò dalla speculazione e dai disordini urbanistici che, ad ogni modo,
ebbero luogo per molti anni al suo interno. Fu nel 1977
che venne fondata la “Università Alcalá de Henares”, già
completamente indipendente nel 1978. In questi primi anni gli insegnamenti si impartirono sia nel campus
“esterno”, che era stato realizzato negli spazi dell’antico
aerodromo “Barberán e Collar” nella periferia della città
(sulla strada in direzione Meco), sia negli edifici storici
acquistati e affittati alla Società dei Comproprietari come
il Collegio di San Ildefonso. Nel 1979 venne inglobata
la Scuola di Magistero di Guadalajara, nascendo così un
terzo campus, quello di questa città, che si sommava a
quello esterno e a quello della città storica, il quale si
sarebbe ampliato con gli stabili comprati dall’Università
a Pastrana (Palazzo di Eboli) e a Sigüenza (Porta Coeli e
Casa del Doncel).
Un complesso costruito secondo le raccomandazioni di Alfonso
X: la creazione della struttura urbana della città universitaria
nell’età moderna
Mentre in Europa le università si organizzavano all’interno dei centri storici con i loro edifici sparsi attorno agli
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storici conventi religiosi, ad Alcalá successe lo stesso, con
l’ufficio generale ubicato nei pressi de los Santos Niños.
Tuttavia, Carrillo e Cisneros si ispirarono al modello di campus esterno raccomandato dal re Alfonso X il Sapiente – che
fu adottato nei paesi anglosassoni in Europa e in America
– presso le uscite della città e lontano dal centro urbano.
Questo monarca nelle sue Sette Parti, nel Titolo XXXI della
Terza Parte, dedicato “á los estudios en que se aprenden los
saberes y de los maestros y los escolares”, definisce “qué
cosa es estudio y cuantas maneras son del”, distinguendo
tra “Studio Genrale” (l’università) e “particolare” (la scuola), segnalando che nel primo “ay maestros de las artes assí
como de gramatica y de la logica y de rretorica y de aritmetica y de geometria y de musica y de astrologia. E otrosi
en que ay maestros de decretos e señores de leyes. Es este
estudio deue ser establecido del papa o del emperador o del
rey”. Mentre le Scuole particolari sarebbero state fondate da
prelati o consiglieri e avrebbero avuto pochi scolari.
La seconda Legge indicava “en que logar deue ser establecido el estudio e como deuen ser seguros”. Perciò saranno ubicati in luoghi con “buen ayre e de foermosas
salidas deue ser la villa do quisiere establecer el estudio
porque los maestros que muestran los saberes e los escolares que los aprenden biuan sanos en el e puedan folgar
e reçebir plazer en la tarde quando se leuantaren cansados
del estudio. Otrosi deue ser abondada de pan e de vino e
de buenas posadas en que pueda morar e pasar su tiempo
sin grand cosa”. Specificava inoltre che i diversi collegi
(scuole) “deuen ser en un logar apartado de la villa las
vnas çercas de las otras por que los escolares que ouieren
sabor de aprender ayna puedan tomar dos liçiones o más
e si en las cosas que dubdaren pudieren en diuersas maneras e otras que puedan preguntar los vnos a los otros en
las cosas que dubdaren. Pero deuen ser los escolares tan
apartados de los amestros que los maestros no se enbarguen oyendo los vnos lo que leen los otros”. Allo stesso
modo il re segnalava la funzione del “Bedel” (messaggero)
e la necessità dell’esistenza della Via dei “Libreros” (con
librerie adibite alla vendita di libri) (Legge XI). Nella
stessa bolla papale approvata da Alessandro VI (1499)
si insisteva del resto su un luogo sano da scegliere per la
fondazione del Collegio Maggiore di San Ildefonso: “et
victualium abundantia, ac aeris salubritas vigent”. Sebbene non fosse del tutto certo, il docente universitario
Nebrija si lamentava che molti alunni facessero “assenze”
per la cattiva salute del posto, cosa che obbligò a costruire
un ospedale nel 1540 affinché “cesare o se olvidare el mal
renombre que esta universidad ha cobrado a causa de los
muchos estudiantes que se murieron” (8).
Cisneros sviluppò la nuova istituzione universitaria a
partire dalla piazza del Mercato (attuale Piazza Mayor o
di Cervantes) fino ad est, occupando gli spazi vuoti che
c’erano all’interno del recinto allargato del vescovo Carrillo. Il progetto congiungeva la via Mayor con quella dei
Libreros e la via Escritorios con via Roma, ampliando-
le in larghezza e chiudendole a ridosso degli ingressi di
Guadalajara e Aguadores. Da questa fondazione edificò
un collegio maggiore e dodici collegi minori, religiosi e
secolari, senza che ci fosse grande differenza circa la loro
natura (fino al secolo XVI inoltrato non si fece distinzione tra maggiori e minori). Come evidenzia Carabias
Torres, i collegi maggiori erano: “Un centro educativo, in
regime di internato, che si caratterizza per l’importanza
dei privilegi di cui si gode, per essere accolti a protezione
reale e per richiedere specifiche condizioni fisiche (età,
salute), intellettuali (essere preparato al meno in una delle facoltà maggiori), economiche (povertà), morali (vita
ineccepibile e purezza di sangue) e una determinata provenienza regionale dei propri iscritti” (9).
La Universitatis Complutensis nella mente di Cisneros
consisteva nell’apprestare i centri a riformare alcuni usi
e costumi religiosi, migliorare la formazione del clero e
a fare in modo che le persone più umili avessero accesso
all’educazione. Si trattava di costruire una specie di Città
di Dio nella quale, insieme al collegio maggiore del santo
protettore della diocesi di Toledo, San Ildefonso, sarebbero
sorti dodici collegi minori, in onore dei dodici apostoli e
altri sei, in totale diciotto, in onore dei discepoli del Signore (10) e il resto sarebbero poi sorti durante il secolo
XVII. Questi primi collegi minori fondati nel 1510 furono
quelli: di San Pietro e Paolo, della Madre di Dio, di Santa
Balbina, di Sant’ Eugenio e Sant’Isidoro e di Santa Catalina. Più tardi, fecero comparsa nello stesso secolo XVI: il
Collegio Trilingue (1528), il Collegio di San Leandro per
grammatici (1538), l’Ospedale di San Luca (1540-1547).
A ognuno dei collegi corrispondeva una dedica a un
apostolo o a un santo: San Pietro e Paolo, Giacomo il
Maggiore, Sant’Andrea, San Giovanni Evangelista, San
Filippo, San Bartolomeo, San Matteo, San Tommaso,
Giacomo il Minore, San Taddeo, San Simone il Cananeo
e San Mattia. Tutti questi furono collegi in virtù dello
Statuto firmato da Cisneros il 23 marzo del 1510. Una
volta che egli morì, negli Statuti del 1517 venne ordinata
la creazione di altri sei collegi minori più adatti agli studenti di grammatica: San Luca, San Marco, Santo Stefano
Protomartire, San Barnaba, Sant’Eugenio e Santi Giusto
e Pastore, tutti dipendenti da San Ildefonso. In questo
modo, nonostante ci fosse un po’ di confusione per via
dell’uso di nomi simili o una modifica degli stessi, furono
presenti: 1. collegio maggiore e collegi minori cisneriani
2. collegi minori secolari 3. collegi ordinari e conventi
(11). Per quanto riguarda i primi si riuscì a crearne undici, per i secondi sedici e per gli ultimi altri quindici, per
un totale di quarantadue collegi.
A questi edifici si sarebbero sommati dall’inizio una
fornace e un carcere universitario, così come per gli studenti il già citato Collegio Ospedale di San Luca e San
Nicola e una stamperia.
Si conserva un progetto del recinto universitario che,
seppur datato all’anno 1768, si basa sulle dichiarazioni
del visitatore reale Juan di Ovando del 1564, dalle quali
si percepisce tutta l’organizzazione urbanistica della città universitaria, nel settore est della città di Alcalá, con
una grande diagonale disegnata nella piazza del Mercato
e le 18 yslas (isole) universitarie all’interno dello spazio di
ampliamento della città rinascimentale (fig. 6). Ovando
ordina una configurazione migliore delle opere, portandole gradualmente alla loro esecuzione. In questo disegno, realizzato nel secolo XVIII (12), si può apprezzare la
conformazione quasi reticolare, molto regolare, uniforme
e ortogonale della città universitaria, con il collegio di
San Ildefonso che occupa il cuore e l’isolato cisneriano
e con tutti gli altri collegi che si articolano intorno ad
esso. Col tempo altri collegi sarebbero stati ubicati in
altri luoghi lontani da quelli segnati in questo progetto,
nei pressi della parte medievale della città, non essendoci
spazi sufficienti nella città rinascimentale e barocca (13).
I collegi furono edificati con una tipologia di architettura
simile: uno o più porticati a seconda dell’importanza (con
ricevimento, aule e stanze), su un lato la chiesa o la cappella, sempre con la facciata verso la strada per permettere l’accesso anche al vicinato. Il collegio maggiore era
dotato di infrastrutture superiori e più complesse, come
il teatro o l’aula magna (fig. 7), il reclusorio, la biblioteca.
Probabilmente in tale pianificazione giocò un ruolo
determinante l’architetto di Alcalá de Henares Pedro
Gumiel; difatti in diversi documenti, come le lettere
del 1511, 1513 e 1514 indirizzate al cardinale, si parla
di aprire delle strade tra San Ildefonso e il Collegio di
San Pietro e San Paolo (Strada nuova, poi inglobata nello
stesso collegio), tra il monastero di Santa Maria di Gesù
e via Libreros e piazza Mayor. Contemporaneamente si
realizzavano fognature e pavimentazioni nella maggior
parte delle vie. La zona fu dotata di abitazioni semplici
per studenti e professori e nella zona sud fu inaugurata la
Porta Nuova nelle mura. Fu importante la trasformazione intrapresa sulla facciata e sul corridoio anteriore del
Collegio Maggiore di San Ildefonso nel 1537 con la quale
Rodrigo Gil de Hontañón progettò e costruì quella che
oggi si conserva in prossimità dell’antica fabbrica di terra
e mattoni, materiali che sono stati scovati nella struttura di tutto il complesso durante i restauri più recenti,
confermando la tradizione che il primo edificio fu molto
misero e in muratura d’argilla.
Nel 1602 si realizzò il rinnovamento urbano successivo della facciata di San Ildefonso migliorando le sue
condizioni visive e spaziali, e demolendo diverse abitazioni private e il Collegio Trilingue, creando la piazza oggi
chiamata di San Diego nei pressi del convento di Santa
Maria. Fu programmata dal capo costruttore del collegio,
Juan Montero, sebbene non come desiderava all’inizio:
infatti progettò dei portici che rimasero incompiuti.
Tutta questa organizzazione e questo scenario sono a
tutti gli effetti rinascimentali, benché i prospetti non
rispondano a una città classicista spagnola tipicamente
167
Fig. 7 – Paraninfo de Cisneros, XVI secolo (Archivio UAH)
controriformista nella quale predominano gli elementi
postclassici della scuola “escurialense”. Inoltre, ad Alcalá, con mura a base di concio sollevate nella maggior
parte dei casi con i mattoncini e un solaio in pietra, con
gli intonaci sopra, come corrisponde a tutta questa zona
geografica, in misura minore si usò la pietra sabbiosa o il
granito per alcune facciate.
Il complesso dell’isolato cisneriano si sarebbe trasformato notevolmente, così come la piazza del Mercado, se
nel secolo XVIII si fosse costruita la chiesa barocca progettata da Francisco Moradillo (1745) o quella decisamente
barocco-classicista progettata dall’architetto cortigiano
Ventura Rodríguez (1762), la cui facciata principale si
sarebbe orientata verso quella che oggi è piazza di Cervantes (14). Nel secolo XIX il conte di Quinto demolì il
balcone da cui il rettore seguiva le vicende della piazza
Mayor. Le immagini dell’università prima dei danni causati dalla messa in vendita dei beni si possono apprezzare
attraverso i magnifici disegni della facciata e di San Diego che realizzò Valentín Carderera e che vengono conservati nel Museo Lázaro Galdeano di Madrid.
Nella seconda metà del secolo XIX tutta Alcalá passò da città universitaria a città militare,con caserme e
prigioni che occuparono gli antichi spazi accademici. Il
168
Collegio di San Ildefonso fece i conti con diverse vicissitudini, come quella del 1844 quando si progettò di adattare il complesso a “Collegio Generale di tutte le Armi,
con la capienza di 700 cadetti”, secondo quanto si evince
dal progetto firmato da Antonio de la Iglesias il 24 agosto, nel quale era prevista la demolizione della cappella
e la modifica e regolarizzazione dei vari cortili. Tuttavia
il piano fu modificato, al fine di convertire il Collegio
della compagnia di Gesù in caserma ed edificare ex novo
le caserme del Principe e di Lepanto (dal 1864) sulle aree
del Convento di Santa Maria e altri collegi minori (15).
Nel secolo XX vi fu la conversione in Scuole Pie, poi
nell’ente dell’Istituto Nazionale delle Amministrazioni
Pubbliche e – definitivamente – nel Rettorato dell’Università di Alcalá.
Significato simbolico della nuova città universitaria di Alcalá:
la città biblica
Il simbolismo della città universitaria di Alcalá è stato
legato nella stessa dichiarazione dell’UNESCO alla Città
di Dio per via del fatto che accoglie collegi e conventi di
numerosi ordini religiosi. Allo stesso modo e per gli stessi
motivi è stato considerata una Nuova Roma. Nonostante
Cisneros rappresentasse il grande tempio della sapienza,
la Casa del Sapere, attraverso l’immagine di Gesù (San Ildefonso) nel collegio maggiore, con i dodici apostoli nei
primi dodici collegi minori e negli altri collegi e conventi
con i discepoli di Cristo, la rappresentazione più adeguata
sta nel Collegio Apostolico con il Salvatore, ossia, la “città
biblica del Nuovo Testamento”. Dunque, tutta l’ideologia di Cisneros con la sua università ricerca il riformismo
e le nuove idee europee della spiritualità, rompendo con
una Scolastica arretrata per fare ritorno alla sorgente, alla
Bibbia, allo scritto, agli atti degli apostoli, dove risiedeva
la Verità. Per questo motivo stampò le bibbie (non solo
la Poliglotta). I nuovi insegnamenti che saranno erogati, i
professori specializzati e i collegi, tutto sarà ricondotto alla
conoscenza, verso questa Città del Sapere che ritorna costantemente a fare riferimento al Libro Sacro (il Levitico).
D’altro canto lo sviluppo funzionale della pianificazione urbana, la coincidenza nelle date con la celebrazione
del Concilio di Trento, la presenza di professori di Alcalá
de Henares nelle sedute della città italiana, insieme allo
sviluppo dell’architettura e all’urbanistica pianificata e
che si adattava ai cambi e alle influenze del Escorial e la
scuola classicista herreriana e dei suoi discepoli, fecero
della città universitaria non solo una città rinascimentale
e barocca, ma anche il miglior prototipo spagnolo di città
controriformista. Inoltre, come succedeva nella maggior
parte delle città di rilievo spagnole durante i secoli XVI
e XVII come Toledo, Valladolid, Siviglia, ecc., Alcalá si
trasformò anch’essa in un’autentica città conventuale, con
il tipo usuale di facciata del tempo con ordini classici e
segmenti più monumentali, la casa convento o collegio e
i muretti dei terreni, in un’immagine caratteristica delle
città spagnole del Secolo d’Oro che durerà per vari secoli.
Per capire il significato simbolico è necessario ricordare che con l’Università e i suoi insegnamenti teologici,
fondamentalmente, si unì il valore della stampa a due
opere di enorme valore come i quattro volumi della Vita
Christi Cartuxano romançado di frate Ambrosio (Alcalá de
Henares, 1502-1503) e la Bibbia Poliglotta (1514-1517):
la prima sulla vita di Cristo e la seconda sui fondamenti
del cristianesimo, attività che secondo gli impiegati della
tesoreria dell’Università era “opera del cardinale”.
Come ultimo aspetto della figura del cardinale è interessante notare il suo interesse nel manifestare la sua militanza francescana: l’umiltà e la povertà appaiono riflessi
nel primo impianto di blocchi in muratura, pareti e gessi,
e nella sua sepoltura, che seppur all’interno di un sepolcro
sontuoso, scelto dai suoi successori, fu elevata intesa come
un cenotafio al centro della cappella che, circondato dalla
sepoltura di tutti i docenti e professori, lo rappresentava
come un principe del sapere e dei significati, della conoscenza, emulando la sepoltura degli stessi Re Cattolici
nella Cappella Reale di Granada, rappresentati con i loro
poteri come monarchi del nuovo impero.
Da un punto di vista ideologico la riforma cisneriana
favorì la partecipazione attiva nella creazione della tappa
più considerevole delle scienze e della scrittura in Spagna, il Secolo d’Oro, che impostò in parte la riforma della
chiesa, l’incontestabile miglioramento delle arti e delle
scienze e il miglioramento delle amministrazioni e della
burocrazia, con una competenza straordinaria nello scegliere i territori, la giurisprudenza, ecc., della Monarchia
ispanica.
Nelle sue aule i più illustri spagnoli di questo secolo
furono professori e alunni come Juan Valdés, il dottor
Carranza, san Tommaso di Villanueva, san Giuseppe d
Calasanz, san Giovanni de la Cruz, san Giovanni de Ávila,
Benito Arias Montano, il padre Juan de Mariana, Juan
de Austria, il principe Carlos, Antonio Pérez, Francisco
Suárez, Mateo Alemán, Lope de Vega, Quevedo, Calderón de la Barca, Francisco Valles de Covarrubias, Ginés
de Sepúlveda, Ambrosio de Morales, Nebrija, San Ignazio
de Loyola, Alejandro Farnesio, Juan Caramuel, Palafox,
Gaspar de Jovellanos. Altresì qui affiorò la prima dottoressa spagnola in Filosofia, María Isidra de Guzmán y de
la Cerda.
Inoltre si rileva che numerose università dell’America spagnola furono fondate a immagine e somiglianza di
quella di Alcalá, seguendo le sue Costituzioni e il modello educativo, come le università di Santo Domingo,
quella Javeriana della Colombia, quella di Caracas, L’Havana, Bogotá e Quito. Allo stesso modo bisogna far notare che gli esperti giuristi di Alcalá produssero nel 1542 le
Nuove Leggi delle Indie di cui Filippo II fornì il Nuovo
Mondo; in esse è inclusa tutta la nuova pianificazione urbana delle città da erigere, con il predominio assoluto dei
disegni del reticolato e dell’ortogonale, qualcosa che in
parte era stato analizzato nel progetto di Cisneros.
Insieme alla simbologia del complesso sarebbe corretto
aggiungere anche il valore simbolico della facciata di Rodrigo Gil de Hontañón, del Tempio del Sapere, omaggio
all’Imperatore e alla Chiesa, e agli insegnamenti che si
sarebbero impartiti nella Universitas Complutensis (16).
Le trasformazioni della fine del secolo XX e l’inizio del secolo XXI: Alcalá restaurata e dichiarata Patrimonio mondiale
dell’UNESCO (1998)
Negli anni Settanta in Spagna ebbero luogo importanti trasformazioni sociali, economiche e politiche. Per
alleggerire la mole di studenti all’Università Complutense di Madrid furono creati alcuni indirizzi di studio ad
Alcalá nell’anno 1975. Nel 1977 viene creata l’Università di Alcalá negli stessi edifici che sorsero con la pianificazione del cardinale Cisneros. A partire da questo
momento, con l’aiuto del comune, del governo centrale
e di quello regionale si è incominciato a recuperare e restaurare gli antichi edifici universitari (caserme, prigioni,
169
ecc.) così da ricreare il campus storico nel centro della città, mentre alcuni campus a carattere scientifico tecnologico si sono sviluppati parallelamente verso l’esterno nei
terreni che furono dell’antico aerodromo militare (17). In
questo modo, l’università esemplare costruita nella periferia della città come da raccomandazioni di Alfonso X,
secondo un modello che i campus anglosassoni avrebbero
copiato, adesso avrebbe avuto il suo campus umanistico
nel centro storico, come le università latine, con gli edifici sparpagliati, mentre nel campus esterno si sarebbero
riuniti in edifici comunicanti le specializzazioni scientifiche e tecnologiche.
Un gruppo di studiosi e discreti conoscitori della città, formato fondamentalmente da membri del comune
e dell’università redassero la documentazione necessaria,
con l’aiuto del International Council of Monuments and Sites (ICOMOS), che venne presentata all’UNESCO come
candidatura dell’Università e della Città di Alcalá a essere
dichiarata Patrimonio Mondiale, o Patrimonio dell’Umanità come si preferisce definirlo in Spagna, per via del suo
effetto enfatico sulla popolazione. Nell’incontro tenutosi
a Tokyo, il 2 dicembre del 1998 il Comitato del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO prese la sua decisione
dichiarando “l’Università e la zona storica della Città di
Alcalá” Patrimonio dell’Umanità. I fattori che sono stati
espressamente riconosciuti furono il fatto che l’Università di Alcalá fosse stata la prima università organizzata
dell’Età Moderna. In merito a questo punto si considerò
il secondo, che si riferiva al fatto che, grazie a questo Alcalá fu una città del sapere con grandi vantaggi culturali, ai quali si aggiungono opere molto importanti, come
la Bibbia Poliglotta o le opere di Nebrija. Affermarono
inoltre che Alcalá rappresentò la grande città del Secolo
d’Oro e aveva dato i natali allo scrittore universale castigliano Miguel de Cervantes Saavedra, che fu battezzato
nella parrocchia di Santa Maria nel 1547. Di conseguenza, l’università è diventata il prototipo della “Città della
Cultura, delle Arti e della Scrittura”, centro di influenza
sul sapere e sulla lingua.
L’incorporazione nella lista fu giustificata da tre dei
criteri UNESCO:
“Criterio II. Alcalá de Henares è la prima città progettata e costruita specificatamente come sede di un’università, e questo progetto avrebbe fatto da modello ad altri
centri d’istruzione in Europa e America.
Criterio IV. Il concetto di città ideale, la Città di Dio
(Civitas Dei), comparve per la prima volta ad Alcalá de
Henares, da dove si allargò al mondo intero.
Criterio VI. Il contributo di Alcalá de Henares alla
crescita intellettuale dell’umanità si osserva nella materializzazione della Civitas Dei, nei progressi linguistici
che ebbero luogo nella città, in particolare per quanto
concerne la lingua spagnola, e attraverso il lavoro del suo
figlio più illustre, Miguel de Cervantes Saavedra, e la sua
opera maestra il don Quijote”.
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Oggi l’Università di Alcalá continua a rafforzare i suoi
valori immobili ed artistici, nonché i suoi valori patrimoniali che la rappresentano nella sua unicità a livello
universale. A proposito dei suoi preziosi significati, nel
Secolo d’Oro ha creato oggi grandi esperti di letteratura
in spagnolo e nella sua aula magna ogni anno vengono
consegnati dai re di Spagna o dai principi delle Asturie
i Premi Cervantes, i più importanti in lingua spagnola.
Allo stesso modo i suoi rettori da Manuel Gala, passando
per Virgilio Zapatero fino all’attuale, Fernando Galván,
continuano a recuperare e ad ampliare il patrimonio. In
questo modo sono stati restaurati per l’Università ventitré dei suoi collegi ed edifici e tale lavoro prosegue con la
riabilitazione del Collegio Trinitario (antico San Bernardino) o con la conversione di parte delle Caserme del Principe e di Lepanto in Biblioteca delle Scienze Umane e in
Museo, mentre vengono fatti sforzi notevoli per adattare
l’università allo Spazio Europeo Superiore e a un nuovo
assetto dovuto al necessario adattamento dell’istituzione
universitaria alle caratteristiche sociali ed economiche dei
nuovi tempi. Più di 185.000 m² sono stati recuperati per
l’Università: un’operazione per la quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali come
i premi Europa Nostra (1987, 1993), del Consiglio d’Europa, Hispania Nostra, Accademia Reale delle Belle Arti
di San Fernando, e altri internazionali, nazionali e locali.
L’Università di Alcalá, che perse tutto il suo patrimonio
nel secolo XIX, poco a poco sta sviluppando o comprando, attraverso cessione o donazione o compravendita, diverse collezioni importanti di libri antichi, arte africana,
mobili, utensili scientifici, disegni e rappresentazioni di
vignette umoristiche, arte asiatica, sculture e dipinti, arte
moderna come quella della Collezione González Robles,
ecc., che costituiscono già un importante patrimonio materiale, al quale si va aggiungendo grazie alla laboriosità
dei vari rettori il recupero del patrimonio immateriale,
come la liturgia (18), gli atti e i costumi (Annua Conmemoratio, inaugurazione del corso), le pubblicazioni e così
via, che insieme al suo patrimonio immobile la rendono
un’università unica nel mondo.
(1) Le pubblicazioni più recenti sono: Alvar 2010; Rivera
Blanco 2012; Casado Arbonés, Díez Torre, Rodríguez 2013.
Per gli oggetti mobili e i documenti che furono dell’Università
Complutense: Martín González 1994; González Ramos 2007;
Rivera Blanco 2013.
(2) Bibliografia di base: Fernández Marcos 2012; García
Oro 2005; Pérez 1995; Rivera Blanco 2013; Contreras et
alii 1999; Carretero Zamora et alii 2013.
(3) A. García Castro, Un documento afirma que el Cardenal Cisneros
nación en la villa palentina (visitabile alla pagina internet: http://
www.diariopalentino.es/noticia.cfm/Provincia/20100914/documento/afirma/cardenal/cisneros/ncio/villa/palentina/0C37EA65B8D8-57AO-FBC860634F801CB9). Questo storico venezuelano,
mentre preparava il suo libro riguardo de “La villa de Cisneros de
Campos”, ritrovò un documento risalente al 1595 nel quale si afferma la provenienza del Cardinale da Cisneros. Il documento appartiene alle risorse conservate nello stesso luogo proprietà privata di
Fidalgo Velasco, proprietario dell’archivio e della casa che era della
famiglia Bravo Acuña, antenati del cardinale. Si tratta di una copia
del secolo XVII nella quale si celebrano dei patti con il convento
di Santa Catalina, e specifica che la “villa di Cisneros, dove nacque
il Reverentissimo Cardinale”. Più perentorio su questi argomenti
García-Castro 2017.
(4) Rivera Blanco 2012.
(5) Per lo studio sul complesso edificato della città universitaria
di Alcalá: Alonso Marañón et alii 1997.
(6) Casa et alii 2013.
(7) Machado 2012.
(8) Historia de la Universidad 1971, p. 97; Bonet Correa 1990,
p. 111; Castillo Oreja 1980, p. 38; Rivera Blanco 1992, p. 77.
(9) Carabias Torres 1982, p. 369.
(10) Alonso Maraňon 2012, p. 240. Si consulti un’altra classificazione dei collegi nelle loro tipologie in Gil Garcia 2012,
p. 341.
(11) Ivi, p. 240.
(12) É composto dal seguente testo esplicativo: “Spiegazione
dell’accuratezza della maggior parte della pianta allegata, che è
conforme alla pianta concepita dal Sig. Ldo. Don Juan de Ovando,
Visitatore e Riformatore, che si trovò in questa università nell’anno
1564, regolarizzò la pianta che conteneva parte dei collegi e dell’università. 1. Torre della Parrocchia di Sta. Maria, la quale si protrae
verso il Nord, e Mezzogiorno la linea retta, che divide la proprietà
del Collegio e dell’Università dal resto della sopracitata. Città di
Alcalá; 2. Linea retta, che divide tale proprietà; 3. Territorio di tale
proprietà, che si divide in 18 isole, isolati o quartieri: e ognuno in
vari raggruppamenti di case; 4. Collegio Maggiore di San Ildefonso,
nel cui perimetro si trovano quello dei Santi Pietro e Paolo, quello
Teologo e quello Trilingue, il gran Patio delle Scuole, quello dei
Continuos, e quello del Teatro: e tutti sono accerchiati da Aule delle
Facoltà; 5. Porta principale del Collegio e del Patio delle Scuole; 6.
Porta della chiesa di tale Collegio; 7. Arco e Balcone, che si trovano
sulla strada, che va dal Mercato, passando per la porta di tale chiesa e
dalla facciata principale del Collegio, alla Piazzetta e al Convento di
San Francesco; 8. Angolo dove si trova la Fonte, e da dove comincia
la Piazza del Mercato; 9. Case della Settima isola davanti alla Piazza
e tutte pagano un’imposta al Collegio; 10. Vicolo nuovo, che aprì al
collegio nell’anno 1514; il suo territorio era occupato da case proprie
del Collegio. Si chiama oggi Callejuela del Toril: e tutte le case, a
seconda di come sono fatte, pagano l’imposta al Collegio; 11. Case
dell’ottava isola davanti a tale Piazza del Mercato, e tutte pagano
l’imposta al Collegio; 12. Casale de Collegio, Carcere e Ostello, tutto
davanti a tale piazza; 13. Strade, le quali aprirono il Collegio per
facilitare l’entrata al patio e alle Scuole; 14. Incrocio, che formavano
queste Quattro Strade; 15. Convento di San Francesco; 16. Piazzetta
del summenzionato Convento, che finì per essere rovinato, e demoliti
gli edifici dentro di esso; 17. Porta di Guadalajara, o dei Martiri,
si tratta di una delle principali di questa città; 18. Via Mayor, di
Guadalajara oppure de los Libreros; 19. Porta di Santiago; 20. Porta
delle concerie, oggi degli Acquari; 21. Via de las Tenerías, o dei
Monasterios, oggi di Roma. Nella parte del Mezzogiorno è tutta
composta da Collegi, tanto Secolari, quanto Regolari, e tutti pagano
l’imposta al Collegio. Per la parte Nord tutte sono case del vicinato, che pagano l’imposta al Collegio; eccezione per il collegio degli
Ordinari della Compagnia, quello dei Verdi, quello del Re, e quello
di Sant’Ambrosio degli Artisti. Alcalá 14 giugno 1768”.
(13) A proposito dei riferimenti urbanistici si rimanda a Peňa y
Montes de Oca 2012.
(14) Castillo Oreja 1980, pp. 113-118 e Tovar Martin
1982.
(15) Cantera Montenegro 2008, p. 145.
(16) Castillo Oreja 1982.
(17) Morilla Critz 1999.
(18) Marchamalo Sanchez 2009; Cabaňas Gonzalez 2010.
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CARDINAL CISNEROS’ UNIVERSITY OF ALCALÁ: A MODEL OF MODERN ARCHITECTURE AND A WORLD HERITAGE SITE
The remarkable history and cultural heritage of the city of Alcalá, which dates back to the pre-Roman era and flowered in the Middle Ages, includes its
university. Founded in the Roman city of Complutum, it was moved to a nearby hill, where it acquired its current name, in the Islamic period. Subsequently,
it was moved again, to the spot where, tradition holds, the saints Juste and Pastor were martyred; a chapel would be built and a Christian quarter sprang up
around it. As early as 1293, when the Studi Generali were founded, the city could boast its first university complex, later restyled by Carrillo in the 15th
century and then refounded by Cardinal Cisneros. The University of Alcalà became a World Heritage site in 1998, one of just five seats of higher learning
to be honored with this designation: the University of Virginia (USA), the Central University of Venezuela (Caracas), the National Autonomous University
of Mexico (UNAM), and the University of Coimbra (Portugal).
172
LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI MADRID, 1927-2017:
90 ANNI DI STORIA
Pilar Chías Navarro
Il regno di Alfonso XIII (1902-1931) si trovò oppresso
da secoli di decadenza della Spagna. L’industrializzazione tardiva, alcune erronee comunicazioni interne secolari,
i servizi disorganizzati e mal assistiti, le costanti guerre – alcune di esse di carattere interno – e la somma di
errori politici e tattici, avevano condotto il Paese in una
situazione di arretratezza e povertà rispetto all’Europa.
D’altra parte, la consapevolezza della perdita degli ultimi
residui dell’Impero aveva lasciato la Nazione scossa. Lo
stesso Re avrebbe ammesso nel 1902 nel suo diario: “ io
mi ritrovo il Paese falcidiato dalle nostre guerre passate,
che spera in qualcuno che lo tolga da questa situazione”
(1). Dunque sebbene la Nazione fosse capace di produrre
scienziati, professionisti, pensatori, letterati e artisti di altissimo livello, come Santiago Ramón y Cajal, Leonardo
Torres Quevedo, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, o Joaquín Sorolla, per citarne solo alcuni, le carenze
e i difetti strutturali erano evidenti in molti aspetti, e a
questi si aggiungevano gli ambiti assistenziale ed educativo. Le città universitarie storiche, come Salamanca,
Santiago, Siviglia o Alcalá, avevano plasmato un modello
di università frammentata, i cui edifici, in molti casi di
grande valore patrimoniale, si trovavano disseminati nel
centro storico occupando una parte importante della sua
superficie (2). Al fine di rimediare a questa carenza, furono
costruiti vari edifici ecclesiastici a ridosso del perimetro
edificato della città, tra i quali i padiglioni prefabbricati
tipo Docker, ubicati al confine con la proprietà reale de La
Moncloa al nordest di Madrid, sulla collina che anni dopo
avrebbe occupato l’Ospedale Clinico (3). La scelta del luogo non fu casuale, difatti si approfittò della vicinanza di
un piccolo nucleo di costruzioni benefico-assistenzialiste
che prefigurò una “zona universitaria” nella contemporanea progettazione urbana di Madrid. Nonostante non ci
sia dubbio che il prestigio e l’immagine della monarchia
abbiano giocato un ruolo importante nel rinnovamento
dell’istituzione universitaria, i diversi incentivi reali furono precoci, come spiegò lo stesso Alfonso XIII nel 1924
a un gruppo di assistenti riuniti a Santander in occasione
del ‘Congresso Nazionale degli Architetti’, descrivendo
quella che pensava sarebbe stata “l’opera del suo regno”.
Il Re spiega che: “Gli edifici universitari sono vecchi e
inadeguati se paragonati a quelli che ho visto i altri paesi … Io ho pensato alla necessità di intraprendere la costruzione degli edifici di una grande università che non
sia solamente nazionale ma ispano-americana, offrendo a
quelli studenti che oggi se ne vanno a Parigi e in Nord
America la possibilità di una formazione scientifica e culturale nitidamente spagnola, e per la quale si dovrà, naturalmente, migliorare i metodi e incrementare le dotazioni di materiale e cattedre” (4). La realizzazione di questo
‘Piano’ sembrava essere imminente tra il 1919 e il 1929,
con segnali positivi come la creazione di due commissioni
per esaminarne l’ubicazione, definire un programma con
la redazione di una serie di ordini reali, piani e rapporti,
e nel 1923 la presentazione di un progetto di legge alla
Giunta (5). Il progetto non decadde e fu approvato da diversi settori dell’opinione pubblica, ansiosi di prenderne
parte con proposte legate alla riforma degli insegnamenti,
alle possibilità di finanziamento e gestione, o alla scelta
dell’ubicazione e alla tipologia di edificio (6). L’occasione
di mettere in atto il Piano si presentò il 17 maggio del
1927 in concomitanza con il XXV anniversario del giuramento del Re sulla Costituzione. Fu allora che si creò
la Commissione della Città Universitaria, che, a carattere autonomo e autosufficiente, avrebbe dovuto agevolare
il rapido sviluppo del progetto (7). La Commissione fu
organizzata in diverse ‘Delegazioni Speciali’, il cui compito consisteva nel gestire celermente le singole e diverse
componenti del progetto. D’altra parte, i contatti stabiliti
dai suoi membri negli Stati Uniti, contemporaneamente
all’arrivo in Spagna delle prime multinazionali, erano riusciti a suscitare l’interesse di istituzioni come la Fondazione Rockefeller, che aveva emesso un bando per la realizzazione dell’Istituto di Fisica e Chimica nella via Serrano di
Madrid, o Carnegie (8). La Città Universitaria beneficiò
del loro supporto, ma in cambio della firma di accordi a
compensazione di tale aiuto.
L’ambito spaziale: caratteristiche della proprietà de La Moncloa
La proprietà de La Moncloa fu l’area scelta per costruire
la Città Universitaria approfittando di quel primo nucleo
educativo-assistenziale che si era andato a formare ai suoi
confini dalla seconda metà del secolo XIX. La proprietà si trovava al nordovest della periferia madrilena, sulla
sponda sinistra del fiume Manzanares. I suoi terreni erano
arrivati a essere proprietà della Corona in due fasi consecutive: nel 1722, quando la Principessa Pio le aveva venduto il palazzo, i giardini e i frutteti della Florida, e nel
1795, quando il Duca di Alcudia aveva ceduto il frutteto
della Moncloa, prima conosciuto come Sorgente del Sole
(9). In seguito alla successiva cessione della proprietà allo
173
Fig. 1- Commissione dei Lavori della Città Universitaria di Madrid, dicembre 1928: prospettiva ideale della Città Universitaria. La nuova
università-giardino doveva alleggerire la densità della capitale e fungere da filtro tra essa e il Campo (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 78).
Stato nel 1886, il suo usufrutto fu reso popolare, in particolar modo nelle zone di confine, dove incominciarono
a proliferare stabilimenti per l’ozio e per l’assistenza. Tuttavia, la superficie dei terreni, presto risultò insufficiente
a sviluppare un progetto di sempre maggior ampiezza,
cosicché dai quindici ettari della prima proprietà si passò, per mezzo di successive acquisizioni, ai trentacinque
definitivi, nei quali nel tempo si andavano aggiungendo
altri usi, estranei all’Università come l’Istituto di Igiene
Alfonso XIII, la Casa di Velázquez, la Scuola degli Ingegneri Agronomi e l’Istituto Principe delle Asturie.
Il primo progetto della Città Universitaria di Madrid (10)
Un’adeguata proposta della Fondazione Rockefeller
per l’organizzazione di una visita ai principali centri uni-
174
versitari di Europa e Nord America, cambiò all’improvviso il ritmo e le direttrici del progetto. Al ritorno, nel
novembre del 1927, López Otero pubblicò in «Diario
ABC» interessanti riflessioni sul suo diario di viaggio
come questa: “La maggiore perfezione la trovammo in
Nord America, nel costruire vere città, non solo università
o residenze isolate” (11). Di conseguenza, nei primi giorni di dicembre la Commissione decise di dare una svolta
radicale alle questioni ancora non definite e di ampliare il
modesto programma iniziale di costruzioni assistenziali
ed educative.
I criteri (12) di riferimento per il modello principale di
urbanizzazione del complesso furono la creazione di una
‘Università giardino’ che rivisitava il concetto di campus
nordamericano (13). In un primo gruppo di costruzioni ‘essenziali’ furono incluse le facoltà di Medicina, Farmacia, Scienze, l’Ospedale Clinico con una capacità di
Fig. 2 - Ufficio dei Lavori,
1929: bozza del primo progetto
della Città Universitaria di
Madrid (da CHÍAS NAVARRO
1986, p. 110).
Fig. 3 - Movimento dei terreni nella Città Universitaria di Madrid, 1929-1936
(da CHÍAS NAVARRO 1986,
p. 114).
175
millecinquecento letti, le facoltà di Lettere e Filosofia e
quella di Diritto, la grande Biblioteca universitaria, le
residenze degli studenti e dei professori, la zona Sport,
gli edifici di rappresentanza del Governo, una Scuola
Militare Universitaria e i servizi dell’università. In una
seconda fase si sarebbero costruite le Scuole di Belle Arti,
di Architettura e quella Straordinaria di Pittura, Scultura
e Incisione; nello stesso tempo si sarebbe ampliata la già
esistente scuola di Ingegneri Agronomi. In una terza ed
ultima fase si sarebbe intrapresa la costruzione delle scuole di Ingegneri Industriali e Ingegneri Stradali, così come
quelle Superiori di Commercio e Magistero. Nemmeno
questo programma fu quello definitivo. Difatti, durante
la prima fase vennero già integrate la Scuola di Architettura e quella di Odontoiatria, che vantavano illustri
rappresentanti nel Consiglio (fig. 1).
Gli architetti e gli ingegneri della prima Città Universitaria
Nonostante la sua inclinazione eclettica come architetto, López Otero seppe circondarsi di molti dei migliori architetti spagnoli della cosiddetta “Generazione del
‘25”. Seguendo questo criterio, nella sua squadra furono
inseriti Luis Lacasa e Miguel Sánchez Arcas, recenti vincitori del concorso della Fondazione Rockefeller a Madrid
(14). Alcuni di essi, in seguito, sarebbero divenuti membri attivi del Gruppo degli Artisti e Tecnici Spagnoli per
il Progresso dell’Architettura Contemporanea (GATEPAC). Altri brillanti architetti come Rafael Bergamín e
Luis Blanco Soler istaurarono delle efficaci collaborazioni
con l’Ufficio Tecnico, in veste di tecnici designati dalle differenti istituzioni che andavano popolando la Città
Universitaria. Tra gli ingegneri che furono chiamati a
collaborare al progetto si distinguevano Eduardo Torroja
Miret e Carlos Fernández Casado, due degli ingegneri civili spagnoli più brillanti del XX secolo. Il primo dei due
fu raccomandato a López Otero dal direttore della Scuola di Ingegneri Stradali, mentre il secondo fu proposto
come tecnico al servizio dell’Impresa costruttrice Huarte
e Cia; ad essi si devono le principali innovazioni strutturali degli edifici della Città Universitaria (15). Sebbene
il successivo avvento della Seconda Repubblica nel 1931,
abbia comportato un certo cambio di linguaggio architettonico in favore di posizioni più progressiste (16), le
ripercussioni sulla Città Universitaria furono molto limitate, visto che la maggior parte dei progetti erano stati
già definiti nella fase precedente.
Lo sviluppo urbanistico tra il 1928 e il 1936
Nonostante la dichiarazione d’intenti della Commissione per l’Università giardino, che doveva costruire il
nuovo campus, ci furono diversi errori importanti che ne
176
compromisero l’elaborazione. Per esempio, ci fu un’interpretazione sbagliata di quelli che dovevano essere i
rapporti tra i futuri utenti e la città di Madrid. Infatti fu affidata al settore dell’edilizia la realizzazione dei
necessari collegamenti con la città, anziché demandare
questo compito a un vero studio urbanistico. Quindi la
proposta progettuale in vari aspetti peccò d’ingenuità.
Per esempio, la sottovalutazione delle distanze che si sarebbero dovute percorrere a piedi, che nei casi peggiori
superavano i 2 km (17). Un’altra delle principali questioni che furono trattate, fu quella dell’opportunità di
isolarsi da Madrid e dei suoi possibili vantaggi (18). Le
conseguenze determinate dall’idea di alienare qualsiasi
impresa o esercizio commerciale dal campus, si sono protratte fino ad anni molto recenti. Un altro aspetto interessante fu l’applicazione dei criteri di suddivisione in
zone in accordo con le discipline scientifiche, avanzando un’organizzazione multicentrica secondo uno schema funzionale-razionale composto dai seguenti gruppi
(fig. 2):
I. I. Gruppo principale, formato da Rettorato, l’Aula
Magna e la grande Biblioteca Universitaria, è fiancheggiato dagli edifici di Filosofia e Scienze.
II. Gruppo medico, integrato dalle facoltà di Medicina (preclinica), Farmacia e la Scuola di Odontoiatria,
posto direttamente in contatto con l’Ospedale Clinico,
con l’accesso pubblico indipendente dalla zona universitaria, e ben disposto rispetto alle vie più importanti
della città.
III. Gruppo delle Belle Arti, nel quale saranno comprese la Scuola di Architettura e quella di Pittura, Scultura e Incisione, oltre che il progetto del Conservatorio di
Musica e Recitazione.
IV. Gruppo di residenze e attività sportive, le prime
previste per 1.500 studenti, nei pressi dei campi di gioco
[…] completi e organizzati nel rispetto dei regolamenti
internazionali.
V. Altri edifici “ubicati in punti rilevanti” sarebbero
stati costruiti in aggiunta, essendo “collegati al complesso dalla strada.” (19)
Come si può constatare dalle bozze allegate, durante
la sua realizzazione fu assolutamente ignorata l’importanza della topografia, che avrebbe obbligato a costruire delle grandi fondazioni. Ciò richiese l’effettuazione
di un importante movimentazione di terreno con la
costruzione di un gran numero di infrastrutture come
muri di sostegno, cementazioni particolari e viadotti
per proteggere i fondivalle (fig. 3). Questa previsione
si avvicinava al modello delle Esposizioni Universali
contemporanee, (20) ed effettivamente, ibrido risultò il progetto del complesso, nel quale convivevano
la tradizione compositiva delle Beaux-Arts e il monumentalismo scenografico, portando al limite l’enfasi
sui bilanciamenti dei volumi nelle ampie prospettive, molto frequenti nei grandi centri amministrativi
Fig. 4 - Madrid, vista a volo
d’uccello a ridosso del gruppo
così composto: campus medico,
l’Ospedale Clinico e il vecchio
Santuario di Santa Cristina,
ca. 1936 (da CHÍAS NAVARRO
1986, p. 150).
nordamericani (21), e l’organizzazione gerarchica delle
strade (22). Tuttavia il campus nordamericano vantava
la grande qualità di raggruppare in un perimetro più
o meno regolare la totalità delle attività studentesche,
favorendo gli scambi tra discipline e arricchendo l’ambiente educativo. Aumentando in maniera rilevante la
portata del progetto, l’interpretazione spagnola perse
di vista le reali dimensioni del progetto con le relative
potenzialità. Così i quattro grandi gruppi o campus
assunsero l’aspetto di grandi piazze simmetriche con
edifici dall’aspetto amministrativo, rinunciando a de-
terminare ampi spazi di relazione considerando anche
la carenza delle necessarie attrezzature, con l’eccezione
della principale arteria stradale. Nemmeno gli spazi
esterni sfuggirono all’imposizione dei criteri di monumentalità (23) (fig. 4).
Gli effetti della Guerra Civile: 1936-1939
Nonostante la capitale avesse perso gran parte del
suo interesse strategico, tra il novembre del 1936 e la
177
Fig. 5 - Il nuovo progetto del complesso del 1943 (da CHÍAS NAVARRO
1986, p. 176).
Fig. 6 - Progetto del complesso universitario nel 1975 (da CHÍAS
NAVARRO 1986, p. 246).
fine della Guerra Civile (1° aprile 1939), il fronte si
mantenne più o meno attivo nella Città Universitaria,
causando ingenti danni ai nuovi edifici – la cui struttura era di cemento armato – e la rovina totale di quelli
antichi (24).
Alla fine della Guerra Civile il bilancio fu disastroso. Edifici distrutti, altri gravemente danneggiati. La
sorte peggiore toccò a quegli edifici che erano già stati inaugurati, come la Facoltà di Filosofia, o a quelli
che, prima del luglio del 1936 erano prossimi a esserlo, come la Scuola di Architettura. Considerato che
molti materiali provenienti dalle biblioteche storiche,
i materiali da laboratorio, i mobili ed altro erano già
stati immagazzinati in quegli edifici, ci furono perdite
irreparabili (25).
sua ricostruzione. Il 10 febbraio del 1940 fu creata la
nuova Commissione incaricata della “costruzione della
Città Universitaria”, questa volta presieduta da Franco,
sebbene con diverse facce note come quella di Modesto López Otero, che si trovava di nuovo alla testa del
riorganizzato Ufficio Tecnico. Dunque si optò per la
redazione di un progetto di ricostruzione urgente al
fine di mettere in funzione le facoltà e le residenze “con
criteri di austera efficacia” e, allo stesso tempo, una
volta rivisti i progetti precedenti, la formulazione di un
nuovo progetto che fosse concorde con le circostanze e
l’ideologia politica (fig. 5).
Il nuovo concetto di università, definito dalla legge del Riordinamento Universitario del 29 giugno del
1943 fu innestato sul tracciato del campus ricostruito
(27). Lo Stato riconosceva in ambito universitario i diritti educativi della Chiesa cattolica, la cui presenza attiva
fu evidente attraverso i simboli e le proposte di costruzione di templi e di cappelle in tutti i centri. Tuttavia,
secondo la legislazione, la nuova Università era tenuta
ad adattare “i suoi insegnamenti e i compiti educativi
ai punti del programma del Movimento Nazionale, e in
accordo con essi disporre l’educazione fisica e politica
della gioventù.”
Una delle conseguenze fu che le residenze abbracciarono il concetto tradizionale di Collegio Maggiore, la cui natura educatrice integrale garantiva “alla
Patria l’unità spirituale degli spagnoli del futuro”.
Inoltre, all’interno del campus si introdussero simboli
della dittatura, realizzando strategicamente un itinerario didattico definito dalla realizzazione di elementi
simbolici in luoghi rilevanti, come l’Arco della Vittoria alla Moncloa, posto all’inizio della strada de La
Coruña, e il Collegio Maggiore José Antonio dedicato
alla memoria del fondatore della Falange. Alla fine, il
Ricostruzione nel Dopoguerra
Dinanzi al desolante panorama postbellico, coloro
che istaurarono il ‘nuovo ordine’ ebbero la tentazione
di conservare le rovine “come emblema della memoria
eterna di un regime che nasceva e si costituiva come
una crociata”. Come disse Bonet Correa: “Il morbo archeologico di queste rovine aveva molto a che vedere
con l’obiettivo della determinazione di una temporalità
bellica che negava il futuro come realtà, e si compiaceva nella rappresentazione del passato a scapito del
presente. Le rovine arrivavano a rappresentare, in tal
modo, un inesauribile poema di violenza.” (26). Fortunatamente, il regime franchista non cedette al ‘fascino’ delle rovine, neppure di fronte alla proposta di
un ritorno all’Università di Alcalá con lo scopo di allontanare la sempre ostile massa studentesca dalla capitale; cosicché, trascorsi alcuni mesi, fu accordata la
178
nuovo regime recuperò anche il vecchio pallino dello
spirito panispanico dei governi precedenti alla Guerra
(28).
Le prime inaugurazioni si susseguirono nel 1943 e nel
1945 (29), con un mix di “arte cerimoniale e liturgia di
massa”, con lo sfondo di monumentali ed effimere architetture (30).
Il Campus di Agramante: dalla perdita dell’unità concettuale
alla necessità di protezione patrimoniale
L’ultimo progetto del complesso che precedette la
recente redazione del Progetto Speciale di Riforma
Interna (PERI) tra il 1980 e il 1990, fu disposto nel
1948. Fu un progetto esposto a imprevisti, con cui
si perse l’ultima possibilità di una composizione del
complesso secondo criteri unitari, visto che si susseguirono anni durante i quali la Città Universitaria diventò un luogo periferico di Madrid nel quale erano
disponibili lotti da destinare ad una grande varietà
di funzioni extra-universitarie. La Commissione dei
Lavori non poteva più agire in maniera totalmente
indipendente. Per esempio, nel proporre il tracciato
della strada di collegamento, la Direzione dei Lavori
Pubblici di Madrid aveva giurisdizione su gran parte
di esso. Allo stesso modo, la Direzione dell’Urbanistica del Comune iniziò a intervenire sul design degli
spazi pubblici e del profilo delle strade, mentre il Progetto della Risistemazione di Madrid del 1946, dava
una priorità all’accesso alla capitale da Viale Puerta
de Hierro. Per questo motivo, questo fu l’inizio di un
processo irreversibile; un’ultima proposta progettuale
formulata da una squadra che era già consapevole di
non avere più il controllo della situazione, scettica sulla coerenza compositiva del complesso universitario,
di cui era possibile constatarne la perdita a vista d’occhio. Emerse quindi un nuovo criterio di orientamento
della pianificazione urbana della Città Universitaria:
quello dell’individualismo di ogni entità presente e
quello delle azioni tanto transitorie quanto i politici
che le incoraggiavano (31). A ogni modo, quello che
per l’urbanistica risultò essere un campus di Agramante (32), per l’architettura universitaria comportò un
beneficio, visto che molti dei nuovi edifici o progetti
erano di grande interesse (fig. 6). Architetti molto importanti come López de Asiaín, Asís Cabrero, Vázquez
Molezún, de la Mata, Blanco Soler, Fisac, Higueras
o Miró, proposero edifici che ancora oggi continuano a essere un riferimento dell’architettura spagnola
dell’ultimo trentennio del secolo XX.
Oggi rimangono lontani questi tempi di disordine,
quando il veicolo privato invadeva tutto e le aule erano
straripanti. Quando né il complesso né gli edifici erano
protetti contro alcuna riforma o ampliamento realizzati
senza criterio. Fortunatamente il campus dal 1999 gode
della dovuta protezione giacché è considerato ‘Bene
di Interesse Culturale’ sotto l’etichetta di ‘Complesso Storico’. La metropolitana è arrivata nel cuore della
Città Universitaria e con essa la regolamentazione del
traffico e dei parcheggi. Nel campus sono state inserite
succursali bancarie e altre attività, grazie alle quali la
città universitaria resta attiva anche di notte. In fin
dei conti, la Città Universitaria è integrata nella città
di Madrid, e la pianificazione prevede proprio questo.
Ricordando Fernando Ramón, “una città non ammette
enclave, né cities, né vaticani, né città universitarie”
(33).
(1) Diario di Alfonso XIII, 1° gennaio 1902, citato in Tusell,
Queipo de Llano 2001, p. 129.
(2) Castillo 1982, pp. 727-748.
(3) Chías Navarro 1986, pp. 29, 67-68.
(4) Ivi, p. 29.
(5) Luque 1931.
(6) Chías Navarro 1986, pp. 34-35.
(7) López Otero 1959.
(8) El Concurso del Instituto 1932, pp. 15-38.
(9) Winthuysen 1930, 82-103.
(10) López Otero 1959.
(11) López Otero 1927, p. 15.
(12) Chías Navarro 1986, pp. 51-53.
(13) Ibidem.
(14) Chías Navarro 2017, pp. 9-24.
(15) Chías Navarro, Abad Balboa 2005, pp. 64-69.
(16) Bohigas 1973, p. 71.
(17) López Otero in Chías Navarro 1986, p. 79.
(18) Chías Navarro 1986, pp. 34-35.
(19) López Otero 1941, pp. 38-56.
(20) Solá-Morales 1980, pp. 90-95.
(21) Hegemann 1925, p. 219.
(22) Castro 1972, pp. 52-67.
(23) López Otero c. 1950, in Chías Navarro 1986, p. 95.
(24) Martínez Bande 1982, p. 115.
(25) López Otero 1943, in Chías Navarro 1986, pp. 167 e 169.
(26) Bonet Correa 1981, p. 36.
(27) Franco 1943.
(28) Ibáñez Martín 1950, p. 346.
(29) Bonet Correa 1981, pp. 11-46.
(30) Ivi, p. 17.
(31) Moya 1972, pp. 58-67.
(32) Chías Navarro 1981, pp. 42-47.
(33) Ramón 1980, p. 29.
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THE UNIVERSITY CITY OF MADRID CAMPUS, 1927-2017: A HISTORY SPANNING 90 YEARS
Ideology exerts considerable influence on architecture, as it is clearly evidenced in the university cities of all times. The Ciudad Universitaria in Madrid forms
a unique complex among the campuses built along the 20th century, because it should face an ‘ancien régime’ monarchy, a republic,
Franco’s dictatorship and a constitutional monarchy. Each one left its mark on the buildings and monuments, on its uses, on its gardens
and open-air sport areas. Traces that can still be tracked as essential components of the education provided almost without interruption since 1935.
180
LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI MADRID E LA “GENERAZIONE DEL 1925”: UN
LABORATORIO DI SPERIMENTAZIONE MODERNA
Raffaella Russo Spena
Campus vs Studium Urbis
Agli albori del XX secolo le principali tipologie dell’edilizia universitaria presenti in Europa erano rappresentati dal modello di College britannico che comprendeva
edifici didattici e residenze per professori ed allievi, dal
modello di università francese ad elevata qualità didattica
e dall’università tedesca che privilegiava la ricerca rispetto alla didattica. A queste tipologie tradizionali si era
aggiunto il modello caratteristico delle università statunitensi: la cosiddetta “città universitaria” basata sul campus, microstruttura urbanistica separata tanto dalla città
quanto dalla campagna, dotata di tutte le infrastrutture e
le strutture necessarie per ospitare le residenze di docenti
ed allievi. Il “modello americano” era stato introdotto al
termine del XIX secolo proprio nell’epoca in cui nei paesi
europei si faceva strada una nuova concezione della città
e dell’architettura. A valle della Grande Guerra, allorché durante gli anni Venti i diversi paesi, in un’Europa
profondamente trasformata sotto il profilo geopolitico,
iniziarono a confrontarsi con la necessità di riformare e
riorganizzare le proprie università, il più opportuno modello tipologico da adottare sembrava essere quello della
“città del sapere”: di una City of Learning organizzata in
dipartimenti, facoltà, centri di ricerca, uffici amministrativi e residenze. Si riteneva anche che il “sistema architettonico” di impostazione Beaux-Arts, organizzando ed
agevolando la pianificazione su ampia scala dimensionale, e integrando i diversi edifici all’interno di una composizione unitaria, fosse il più idoneo per dar corpo a quella
concezione astratta.
D’altra parte, sotto il profilo accademico si riteneva
di poter attingere a diversi modelli di percorsi formativi: dal College britannico impostato sull’educazione civile
e sulla formazione personale dell’allievo; dall’università
tedesca basata sul rigore scientifico, sulla ricerca e sulla combinazione armonica tra seminari teorici e laboratori sperimentali; dall’università napoleonica fondata
sull’unitarietà dei saperi, sulla gerarchia amministrativa
e sull’uniformità del metodo di insegnamento, integrati
dalla diffusione della cultura, dalla formazione professionale e dalla ricerca. Peraltro giova segnalare che in quegli
anni a Parigi si progettava e realizzava la Cité Intérnationale Universitaire come affermazione dei valori associati
alla convivenza civile e pacifica dei popoli gravemente
compromessa dal primo conflitto mondiale. Indipendentemente dalle opzioni teoriche adottate, in tutte le prin-
cipali capitali europee si cercavano nuovi modelli urbanistici che avrebbero dato luogo a grandi complessi o città
universitarie nel corso degli anni Trenta.
Di fatto allorché si progettano le città universitarie di
Madrid – alla fine del regno di Alfonso XIII di Borbone
– e di Roma – durante la dittatura di Benito Mussolini –
era in pieno corso di svolgimento il dibattito tra quanti
ritenevano che una città universitaria dovesse essere costituita da un insieme compatto di edifici racchiusi all’interno di un recinto localizzato in un quartiere periferico
della città e coloro che optavano per un modello “campus” di un insieme di blocchi di edifici dispersi su un’area
non urbanizzata non lontana dal perimetro urbano, ma
nettamente separata da esso. A Roma Marcello Piacentini
decideva di orientarsi verso lo Studium Urbis, il modello
della tradizione del Rinascimento italiano sottoposto ad
una rilettura d’impronta razionalista, mentre a Madrid
Modesto López Otero optava per il modello “campus”
nordamericano non rinunciando, tuttavia, a citazioni del
monumentalismo herreriano.
Peraltro non si può non rilevare che in quegli stessi
anni, l’architetto tedesco Leopold Rother progettava a
Bogotà la nuova Ciudad Universitaria della capitale colombiana, configurandola come involucro ovale, al cui
interno erano racchiusi edifici, campi sportivi e tutta
una varietà di servizi culturali e residenze per docenti
e studenti: la città universitaria di Rother era di fatto
una “città separata”, la cui architettura rivelava la chiara derivazione dall’impostazione del Bauhaus di Weimar
e Dessau. Ancora in quegli stessi anni Le Corbusier e i
suoi colleghi brasiliani, dopo l’intervento di Piacentini,
progettavano la Cidade Universitária de Rio de Janeiro. Per
la sua localizzazione fu scelta un’isola al largo della costa
distante dal centro urbano di Rio. Con le sue architetture
di volumi prismatici, questa città universitaria d’avanguardia, modificata nel corso degli anni, ha rappresentato il punto più alto della realizzazione della vocazione
dell’utopia universitaria.
La Ciudad Universitaria di Madrid e la “Generación del ’25”
Il progetto del complesso universitario madrileno fu
definito nei mesi conclusivi del 1928, in esecuzione del
“Real Decreto” del 17 maggio 1927 che aveva istituito
una “Junta Constructora de la Ciudad Universitaria” (1),
con l’obiettivo di modernizzare e raggruppare le diver-
181
Fig. 1 - Città Universitaria di Madrid in costruzione, 1931.
Fig. 2 - Manuel Sánchez Arcas,
Centrale Termica, 1932.
se Scuole, Facoltà, Cliniche e Sedi amministrative in un
complesso urbanistico unitario e autonomo rispetto al
sistema infrastrutturale della capitale. La “Junta” – presieduta da Alfonso XIII e composta da due vicepresidenti
182
e dodici membri di nomina reale – disponeva di una notevole autonomia di gestione non soltanto sotto il profilo
strettamente accademico, ma anche dell’organizzazione
amministrativa, della localizzazione, della progettazione
Fig. 3 - Agustín Aguirre López,
Facoltà di Lettere e Filosofia,
1933.
e della costruzione del nuovo complesso universitario (2).
Un ruolo importante fu svolto da Florestán Aguilar
y Rodríguez, uno dei componenti della “Junta”, famoso
odontoiatra e molto vicino agli ambienti della corte borbonica, che si rivelò un sostenitore entusiasta della nuova
Ciudad Universitaria. Professore di Stomatologia presso
la Facoltà madrilena, il dottor Aguilar si recava spesso
all’estero anche per ragioni professionali: frequentatore
assiduo degli Stati Uniti, aveva stabilito contatti con istituzioni quali la Rockefeller e la Carnegie Foundations,
sperando di coinvolgerle nella realizzazione dell’università di Madrid. La Fondazione Rockefeller aveva già bandito un concorso per la progettazione di un Istituto di Fisica e Chimica a Madrid (3) ed era ovvio che il suo interesse
per la Spagna fosse dettato da esigenze economiche. Le
opere di costruzione dell’Università madrilena ottennero
infatti il sostegno finanziario degli Stati Uniti, a fronte
di accordi di vario genere come, ad esempio, la condizione che i mobili dei laboratori fossero costruiti in Spagna
utilizzando modelli e brevetti americani. La proposta di
compiere un viaggio di studi avanzata e finanziata dalla
Fondazione Rockefeller fu accolta prontamente.
Il 25 aprile 1928, in sessione straordinaria e alla presenza di S.M. il re, Modesto López Otero fu nominato
architetto-direttore della città universitaria. La designazione dell’architetto madrileno suscitò non poche polemiche all’interno dell’associazione professionale che
avrebbe preferito che la nomina fosse avvenuta a seguito di un concorso di progettazione. Il passo successivo
fu la selezione del gruppo dei progettisti. López Otero,
in qualità di architetto direttore, scelse personalmente
il gruppo dei giovani architetti che si erano già distinti
per la loro brillantezza accademica e avevano una certa
esperienza in materie simili, sebbene fossero ancora poco
conosciuti al di fuori del campo professionale. Tali erano
Miguel de Los Santos, Agustín Aguirre, Luis Lacasa, e
Manuel Sánchez Arcas, questi ultimi rispettivamente secondo e primo premio del concorso Rokefeller Istituzione
di Madrid e titolari di un brillante curriculum. Partecipavano al gruppo di progettisti anche l’architetto Pascual
Bravo e l’ingegnere Eduardo Torroja, quest’ultimo segnalato dal direttore della Scuola de Caminos come allievo
eccellente di quella Facoltà.
Nel mese di settembre del 1928 si istituiva una Commissione composta da José Casares, Antonio Simonena,
Julio Palacios, Florestán Aguilar e Modesto López Otero.
Per circa due mesi i commissari visitarono le università
europee e nordamericane e, al termine del viaggio negli
ultimi giorni di novembre, López Otero commentava:
“la realizzazione più perfetta si trova in Nord America
perché li sono vere città, non solo università o residenze isolate”. Il diario di viaggio di López Otero prendeva
nota delle caratteristiche delle università riferite principalmente alla “localizzazione, urbanizzazione, servizi generali, raggruppamento degli edifici e altri dettagli che
influenzano la loro caratteristica costruttiva” (4).
Dopo avere chiesto l’opinione del direttore della
“Escuela de Ingenieros de Caminos”, López Otero assegnava l’incarico del progetto degli elementi strutturali
ed infrastrutturali, all’ingegnere Eduardo Torroja Miret,
laureato a Madrid nel 1923. La sua collaborazione con
gli architetti della “Ciudad Universitaria” contribuì ad
un ulteriore avanzamento delle tecniche costruttive in
cemento armato, adottando sperimentazioni strutturali
caratterizzate dalla ripetibilità: “Vivian [los arquitectos
de 1875 a 1910] un ambiente densamente histórico;
reñían el alma plena de tradición, a lo que debe añadirse
su formación académica y el peso de la opinión local, tan
arraigada en nuestros viejos escenarios urbanos, lo que
explica su cautela ante cualquier novedad. Tales arquitec-
183
Fig. 4 - Miguel de Los Santos, Facoltà di Medicina, 1932.
tos, que pueden clasificarse como eclécticos en cuanto al
estilo, poseedores de las novedades técnicas, diestros en la
práctica profesional, buenos dibujantes, y con un especial
equilibrio entre sus acopios científicos y su sensibilidad
artística, dominada por una entrañable adhesión a su arquitectura original y a sus características monumentos, a
los que amaban apasionadamente” (5).
Un altro dei passi importanti compiuti da Aguilar è
rappresentato dalla ricerca del supporto finanziario necessario per consentire l’avvio del progetto. Nel corso del
viaggio conoscitivo si recò da solo a Washington per incontrare Gregorio del Amo, un facoltoso spagnolo nativo
di Santander residente nella capitale degli Stati Uniti, che
si era dichiarato disponibile a sostenere l’ambizioso progetto. In quella occasione Aguilar aveva invitato del Amo
a recarsi a Madrid per prendere visione del progetto in
situ, ottenendo un cospicuo contributo finanziario. Il tour
americano del Comitato impegnò i mesi di settembre, ottobre e novembre 1928. In quel lungo viaggio all’estero i
commissari visitarono le università di Boston, Chicago e
New York maturando l’opinione che fosse necessario apportare modifiche al progetto preliminare proposto dalla
Junta Constructora. Si rinunciò pertanto all’idea di aprire
184
un concorso di progettazione e si decise di estendere il
progetto iniziale includendo altre facoltà che sarebbero
state costruite in tre fasi consecutive.
Le risorse finanziarie necessarie furono ottenute mediante sottoscrizioni pubbliche e fu istituita, con il R.
D. del 25 luglio 1928, una “Lotería Universitaria”, da
celebrarsi il 27 maggio con cadenza annuale, che avrebbe
assicurato un incasso di circa 8 milioni di pesetas all’anno.
Con la fine della “Dictadura” di Primo de Rivera, della
successiva “Dictablanda” di Dámaso Berenguer, e con la
proclamazione della “Segunda República” (6), il 22 ottobre 1931, fu promulgata la “Ley de la Ciudad Universitaria” che riconfermava il decreto istitutivo della Giunta
del 1927 e tutto il gruppo di dirigenti tecnici, sollevando
da ogni incarico i soli componenti di nomina politica. I
lavori continuarono senza subire grandi cambiamenti dal
punto di vista tecnico, e la data di inaugurazione delle
facoltà di Lettere e Filosofia, di Farmacia, della Scuola di
Architettura, di alcune attrezzature sportive e residenze
studentesche fu fissata nel mese di ottobre del fatidico
(7) 1936, centenario del trasferimento della sede storica
della “Universidad Complutense” da Alcalá de Henares
a Madrid (8).
Il progetto si articolava in base ad una distribuzione
tripolare. Il primo polo era costituito dalle singole scuole
e facoltà accademiche raggruppate in accordo alle specifiche specializzazioni; il secondo comprendeva gli edifici
di gestione amministrativa e di rappresentanza quali il
rettorato, le segreterie amministrative, le biblioteche.
Il terzo polo accoglieva gli edifici residenziali destinati
al corpo docente, i collegi studenteschi e le attrezzature
sportive (fig. 1).
Il cronoprogramma dei lavori presentava un’importante novità giacché prevedeva che la prima costruzione da
realizzare fosse la centrale termica (fig. 2) del cui progetto
furono incaricati nel 1932 l’architetto Manuel Sánchez
Arcas e l’ingegnere Eduardo Torroja Miret, gli stessi tecnici che avevano realizzato l’edificio sede della “Junta
Constructora” nel 1930, nonché la Facoltà di Lettere e
Filosofia (fig. 3) e la Clinica Universitaria (fig. 4). Sánchez
Arcas apparteneva a quel gruppo di architetti “moderni” cui Carlos Flores López (9) ha attribuito la denominazione di “Generación del 25” (10). Di questo gruppo
facevano parte gli architetti Miguel de los Santos (11),
Agustín Aguirre López (12), Luis Blanco-Soler Pérez,
Rafael Bergamín Gutiérrez (13) e Luis Lacasa Navarro
(14). Questi architetti si caratterizzavano per un intenso
filo-europeismo in netta opposizione al provincialismo
spagnolo. Compagni di studio e sostenitori del lavoro
di gruppo, cercavano di assimilare le nuove correnti architettoniche, ancorché il loro interesse per la “Neue Sachlichkeit” si fermasse ad un livello intuitivo e formale,
ispirato da un funzionalismo superficiale ovvero da una
malintesa istanza igienista (15). Erano tuttavia esponenti
di una rottura formale, tanto con la tradizione classica
quanto con il revivalismo regionalista utilizzato dalla generazione precedente – quella di López Otero del 1910 –
per assecondare il gusto e gli stili di vita dell’aristocrazia
e della borghesia agiata. La svolta repubblicana del 1931
avrebbe considerato questo cambiamento di linguaggio
architettonico come elemento di rottura con il regime
monarchico – come era avvenuto un decennio addietro in
Germania con la Repubblica di Weimar fondata sulle ceneri del II Reich – e avrebbe altresì cercato di conseguire
l’integrazione dell’architettura spagnola nel “Movimento
Moderno” attraverso la creazione del GATEPAC (16).
Ancorché l’orgoglio repubblicano avrebbe indotto
alcuni storici e critici dell’architettura spagnola ad affermare che la Ciudad Universitaria “fué un ejemplo de
oficialización por parte de la República de las actividades
progresivas y de relativa vanguardia” (17), non si può tuttavia non prendere atto che molti degli edifici della città
universitaria furono ultimati dagli esponenti del regime
monarchico e che anche personalità eminenti della Repubblica condividessero l’avversione dei loro omologhi
predecessori nei confronti delle nuove tendenze europee.
La convivenza tra le generazioni di architetti del 1910 e
del 1925 fu occasionalmente poco conflittuale, come te-
stimonia la composizione del comitato di redazione della
rivista Arquitectura che associava López Otero con Luis
Lacasa e Sánchez Arcas. Era tuttavia evidente la diversità di opinioni tra i due gruppi: “[en Europa] Se había
declarado la oposición, intolerante hasta lo negativo, a
esas formas históricas y a toda clase de ornamentación.
Comenzaba a predicarse el racionalismo, es decir, la expresión pura y claramente geométrica de la estructura y
de la función, como fundamentos de la arquitectura, con
el peligro en sus inicios del predominio de la razón sobre
la sensibilidad y la libertad imaginativa [...] En España
casi nada de esto tenía estado de realidad interesante. Las
formas tradicionales o los híbridos y estériles modernismos de importación francesa o alemana y aún italiana,
seguían preferidos, y lo poco que de las nuevas corrientes
se conocía, por otro lado mezquinas y mal interpretadas,
sólo lograba una fuerte y airada oposición pública, con
más virulencia en las capas sociales elevadas, incluso entre
los intelectuales” (18).
Tuttavia il laboratorio di sperimentazione della Città
Universitaria di Madrid avrebbe indiscutibilmente trasfromato l’architettura spagnola come sarebbe risultato
evidente nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso che videro all’opera personalità del GATEPAC quali Jose Lluís Sert, Fernando García Mercadal e
Antoni Bonet Castellana.
(1) La data coincideva con il venticinquesimo anniversario della
incoronazione de iure di Alfonso XII a re di Spagna, in seguito alla
reggenza di sua madre Maria Cristina di Asburgo-Lorena.
(2) Dieguez Patao 1997.
(3) Notizie del concorso aperto dalla Fondazione Rockefeller e
sulla realizzazione sono variamente pubblicate, ad es. in “Revista
Obras”, n. 7, aprile 1932.
(4) Chías Navarro 1986, p. 208.
(5) Brano tratto dalla conferenza di López Otero nella sessione inaugurale della “Cátedra Ricardo Magdalena”, tenuta a Saragozza nel 1960.
(6) Si veda Bohigas 1970.
(7) Anno iniziale della Guerra Civile spagnola (1936-1939).
(8) Si veda Flores López 1988.
(9) Flores López 1967, p. 32.
(10) Santiago 1962, pp. 187-189.
(11) Progettista della Scuola di Stomatologia, della Facoltà di
Medicina e della Facoltà di Scienze.
(12) Progettista della Facoltà di Lettere e Facoltà di Scienze negli
anni 1932-1935.
(13) Responsabili del progetto e della direzione dei lavori del
Collegio “Jaime del Amo” (1928-1930).
(14) Progettista della Casa dello Studente.
(15) Cortés 1992.
(16) Acronimo di “Grupo de Artistas y Técnicos Españoles para el
Progreso de la Arquitectura Contemporánea”, istituito il 30 ottobre
1930 a Saragozza come sezione spagnola del CIAM. I principali promotori dell’iniziativa furono José Manuel Aizpurúa, Antoni Bonet i
185
Castellana, Fernando García Mercadal, Josep Lluís Sert e Josep Torres
Clavé. Il GATEPAC pubblicò la rivista “A. C. Documentos de Actividad
Contemporánea”, che rappresentò un punto di riferimento importante
per il movimento moderno spagnolo. L’associazione fu sciolta alla conclusione della Guerra Civile. Si veda Donato 1971, pp. 45-59.
(17) Chías Navarro 1986, p. 198.
(18) Citazione in “Alfonso XIII, Santander y la Ciudad
Universitaria deMadrid”, conferenza tenuta da Modesto López
Otero il 22 aprile 1959 presso la “Delegación de Santander del
Colegio Oficial de Arquitectos”.
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THE UNIVERSITY CITY OF MADRID CAMPUS AND THE “GENERATION OF 1925”:
A HOTHOUSE OF MODERN EXPERIMENTATION
The design and construction of the “Ciudad Universitaria”, or university campus, of Madrid represents the final stage of an intense political, social and
cultural debate that started at the end of the first decade of the twentieth century and centered on the need to upgrade the University of Madrid to the level of
the most prestigious academic institutions in European and North American countries.
The plan for the university complex was firmed up in the final months of 1928, with the implementation of the “Royal Act” of May 17, 1927, which
established a “Junta Constructora de la Ciudad Universitaria” with the aim of modernizing and grouping the different schools, faculties, clinics and administrative offices together in a unitary and autonomous urban complex with respect to the infrastructure system of Madrid. The realization of the project and
its construction was entrusted to the group of “modern” architects whom Carlos Flores had dubbed the “Generación del 1925”. These architects shared an
intense pro-Europeanism diametrically opposed to the provincialism of Spain at the time. They were exponents of a formal break with the classical and academic
tradition, as well as the regionalist “revivals” embraced by the previous generation.
186
SIMILITUDINI E DIFFERENZE: CIUDAD UNIVERSITARIA DE MADRID
E LA NUOVA CITTÀ UNIVERSITARIA DI ROMA
Calogero Bellanca
Questa riflessione trae origine e stimolo dall’accordo quadro siglato tra la nostra Università e il Politecnico di Madrid
nel 2016 e da alcune successive tesi di laurea effettuate sulla
realtà architettonica della Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Madrid. I riferimenti architettonici tra la città
Universitaria di Madrid e la nostra Sapienza sono molteplici.
Questi si colgono dalla lettura degli organismi architettonici e si può affermare che molte motivazioni iniziali dipendono dallo stesso Marcello Piacentini. Infatti appena egli riceve
l’incarico per la progettazione della nuova città universitaria
romana chiama alcuni giovani architetti italiani scelti tra i
migliori del tempo e insieme a loro costituisce un ufficio
tecnico appositamente istituito per iniziare una serie di ricerche inerenti ai singoli temi architettonici. Così, sin dall’aprile del 1932, esorta a visitare e studiare i principali centri
universitari dell’Europa. Egli scrive: “Perché i più perfetti
sistemi costruttivi e i più moderni servizi potessero corrispondere alle esigenze particolari dell’insegnamento … sono
stati oggetto di particolare ricerca l’acustica architettonica, i
sistemi di riscaldamento, di ventilazione, di isolamento, gli
impianti per i gabinetti scientifici, l’arredamento delle aule
e degli Istituti Superiori […]”(1). Quindi i componenti del
gruppo visitano le nuove università di Madrid, Zurigo, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, L’Aia, Monaco, Lipsia e ancora
specifici studi sono condotti sui grandi centri universitari
nord americani. Ancora Piacentini scrive: “… ho voluto
riprendere e sviluppare il tema antichissimo e tipicamente
italiano di comporre, con le varie costruzioni, una piazza definita architettonicamente e volumetricamente. Ho voluto,
così, riprendere in un tema modernissimo il concetto della
migliore tradizione urbanistica a noi derivata dall’antichità
greco-romana e dal nostro Rinascimento. […] Così questa
Città Universitaria di Roma, nata su uno schema di pianta
basilicale a transetto trae tutta la sua grandiosità dall’ordine
e dalla simmetria basamentale: i vari edifici però che si prospettano sono formati da masse che si bilanciano, ma non
sono affatto uguali tra loro”(2). A Madrid invece la Città
Universitaria si trova sparsa su un territorio molto vasto nel
distretto di Moncloa, con raggruppamenti per ciascuna delle
varie facoltà a differenza della disposizione lineare seguita in
altri casi. Nonostante la differenza tra l’università spagnola e
quella romana, si può parlare di una vera e propria città universitaria organica con 42 ettari per Madrid e solo 220.000
m2 per Roma.
Ma prima di avviare questo progressivo avvicinamento
alle realtà architettoniche o ai diversi organismi, occorre
ripercorrere alcune affinità che si sono manifestate.
Si ritiene ribadire i comuni riferimenti architettonici, i
protagonisti delle realizzazioni, ovvero i gruppi di architetti, i cantieri e infine i simili problemi per le vicende
belliche anche se in anni leggermente diversi.
Il cantiere in costruzione a Madrid
Dal 1928 al 1932 si realizza la pianificazione urbana
in tutta l’area con i primi edifici. L’asse principale è costituito dalle architetture di Medicina, Farmacia, Odontoiatria, Botanica, quindi Chimica, Fisica, Scienze Naturali e
Matematica mentre perpendicolarmente si realizza un asse
con Lettere-Filosofia, Diritto e alcuni musei. Gli edifici di
Architettura e Agraria, sono ubicati sulla destra, con una
diffusa presenza del verde in tutto il campus (3). Alcuni
degli edifici di Madrid, in particolare quelli di Medicina, echeggiano l’impianto volumetrico della Biblioteca
dell’Università di Vienna di Otto Wagner, ma dal 1932 i
progettisti lasciano i riferimenti eclettici e avviano un Racionalismo templado o Racionalismo al margen. Infatti l’architettura dei blocchi aperti integrati in un tutto che definisce
uno spazio in connessione con altri e risulta uno dei caratteri fondanti della Città Universitaria di Madrid deriva in
parte dai campus americani. Le planimetrie risentono di una
impostazione classica, mentre il linguaggio dei dettagli è
moderno con assenze di ornamentazioni, nelle proporzioni delle finestre, l’impiego di materiali come la pietra e
il laterizio. L’idea architettonica risulta funzionalista con
influenze dell’espressionismo tedesco e del razionalismo.
I protagonisti
Il capogruppo della compagine spagnola è Modesto
López Otero, architetto laureato nel 1910. Nel 1927 è
nominato capo della Junta Constructora della Città Universitaria di Madrid e con alcuni giovani colleghi effettua
un viaggio di studio negli Stati Uniti, visitando Yale,
Harvard, Princeton e l’Istituto Tecnologico del Massachusetts (4). Tra il 1927 e il 1928 i membri della Junta viaggiano in Olanda e colgono le nuove espressioni
costruttive e figurative del laterizio. La Escuela Tecnica
Superior de Arquitectura sarà disegnata da Pascual Bravo
Sanfeliù (5) con la struttura di Eduardo Torroja Miret
(6) (fig. 1). Nella Città Universitaria di Madrid, la prima facoltà costruita e inaugurata sarà quella di Lettere
187
Fig. 1 - Foto aerea del Bauhaus di Dessau del 1926 (da Campos Calvo-Sotelo 2004) e modello tridimensionale della ETSAM, UPM (dalla
Tesi di Laurea di F. Paparo 2016).
e Filosofia il 20 luglio del 1932 su progetto di Agustin
Aguirre (7). Questo progetto influenzerà Robert Atkinson per il nuovo campus di Cambridge del 1932. Questo
edificio assume un significato rilevante, un avvio ad una
nuova epoca, un luogo tranquillo, grandi spazi pieni di
luce, la biblioteca, il bar, e la sala da pranzo con il primo
self-service in un edificio di questo genere in Spagna. A
questi vorrei aggiungere altri architetti, forse poco noti
tra di noi, autori della Facoltà di Medicina, dell’Ospedale Clinico, della Centrale Termica e della Residenza
degli studenti: Manuel Sánchez Arcas, Miguel de los
Santos (8), e due esponenti del razionalismo spagnolo,
Luis Blanco Soler e Rafael Bergamín. Questo gruppo di
lavoro entra nella storia dell’architettura, ed è noto come
la “generazione del 1920-1925”, perché laureati in quel
periodo (9). Tra i diretti riferimenti architettonici appare
naturale la filiazione comune con la Bauhaus di Dessau
del 1926, un po’ meno con il palazzo delle Nazioni di Le
Corbusier. Ma non è questa la sede per approfondire sulle
partecipazioni ai CIAM e al Congresso di Atene (10).
Dagli studi effettuati in situ per le due realtà, si coglie
l’analogia tra le due Scuole di Architettura di Madrid
e di Roma. Ma soprattutto dai documenti rintracciati
nell’Archivio del Consorzio Edilizio della Regia Università di Roma (CERUR) si possono ritrovare i primi diretti contatti (11).
I documenti romani
Nell’ambito dello studio dei rapporti tra le due città universitarie emerge la figura di Francesco Guidi che
collabora con Piacentini dal 1927 al 1950, più in particolare per gli aspetti tecnici ed esecutivi dei progetti. Da una prima relazione si ritrova la descrizione del
188
sito. Si nota come Guidi riceve l’incarico di coordinare
l’attività di rilevazione, catalogo, ricerca dei più perfetti
sistemi costruttivi e i servizi più moderni. Dalla relazione
dell’ottobre del 1934, presentata al comitato esecutivo
del Consorzio, sulla visita di studio a Madrid, egli aveva
scritto che si era recato in Spagna a studiare anche i vari
impianti e i particolari costruttivi. Infatti nonostante la
dimensione diversa, a Madrid la consistenza urbanistica
evidenzia un viale di 3 km e largo 40 m, mentre nella
costruenda Città Universitaria della Sapienza questo è
quindici volte inferiore, ma è possibile cogliere la stessa
struttura organizzativa.
L’ufficio tecnico auspica l’adozione di nuovi materiali
da costruzione o di particolari metodi e tipologie. Piacentini afferma che nessuna concessione è stata fatta alle
tendenze ultrarazionaliste. Si è cercato di costruire edifici
non di moda ma che abbiano le qualità della essenzialità.
L’aspetto architettonico è semplice e appropriato con una
sincera applicazione dei materiali di rivestimento anche
di colore intonato “al tipico rosso-bruno di Roma” con le
variazioni alle varie qualità dei mattoni e travertino (12).
Diverse sono state le finalità delle missioni organizzate
dai due uffici tecnici, quello di Madrid, prima dell’avvio
della realizzazione, mentre il gruppo di Roma effettua
numerosi viaggi di aggiornamento durante la progettazione e la realizzazione. A tal fine si rammenta che Giuseppe Capponi si reca in Germania per lo studio dei più
recenti istituti affini a quello di Botanica. E ancora per il
tema delle vetrate si impone uno studio particolare per
le serre e per il sistema bioclimatico. Guidi viene inviato
ancora nel 1935 a Zurigo, Monaco e Berlino per alcuni
particolari istituti di Fisica e Chimica. Ma in riferimento
alla descrizione che riporta Francesco Guidi della Città
Universitaria di Madrid è importante sottolineare che:
“la posizione del terreno è felice, non troppo lontano dal
Fig. 2 - Facciata della ETSAM
di Madrid e l’Istituto di Odontoiatria Eastman di Roma (foto
di S. Mora e C. Bellanca).
centro, la natura collinosa del sito si presta a diverse sistemazioni […] in generale ogni facoltà è costituita dall’aggruppamento simmetrico di vari corpi di fabbrica intorno a spazi. L’architettura è in generale moderna, semplice
senza enfasi, il carattere di modernità è più accentuato
nell’Ospedale meno nelle Facoltà di Medicina e Farmacia. I fabbricati sono rivestiti con cortina di mattoni di
un rosso vivo, interrotta da piccole cornici di granito.
Per l’isolamento dei rumori fra i diversi piani è usato il
sughero” (13). A tal fine sembra opportuno evidenziare i
confronti con alcune singole realtà.
I caratteri costruttivi
La facciata della Scuola di Architettura di Madrid è
impostata su una ampia scalinata, un ordine gigante la
delimita centralmente, e al piano terra le tre aperture immettono all’interno. L’edificio superiormente è delimitato da una lineare cornice di coronamento. Il rivestimento
esterno è in lastre di pietra locale. A Roma, l’organismo
architettonico che più si accosta è quello di Odontoiatria.
Qui il prospetto è più articolato ma si ritrova una composizione architettonica simile con un basamento, un ordine gigante e una cornice che delimita infine un lineare
attico terminale (fig. 2).
Così avvicinandoci alla lettura di alcuni particolari, ad
esempio nel capitello inserito nel portale centrale della
facciata della nostra Facoltà di Architettura, sede Valle
Giulia, prevale una forma semplificata di capitello ionico incassato rispetto a quello di Madrid con un ornato.
Gli edifici dei rettorati invece sono profondamente diversi. A Roma prevale una nitida stesura dell’impagina-
to prospettico, ritmata dalle finestre e dalla trasparenza
dei propilei, con una lineare cornice, mentre il progettato Rettorato di Madrid il cosiddetto “Paraninfo”, non
realizzato, esprimeva un linguaggio classico. Questo
era inteso come l’edificio più rappresentativo dell’Università, ubicato alla fine del viale principale con sullo
sfondo la Sierra e presenta un frontone neoclassico. Era
prevista anche la realizzazione di una cappella dedicata a
S. Tommaso (14). Altre analogie si ritrovano tra l’edificio
di Pagano costruito per la Facoltà di Fisica e la Centrale
Termica di Madrid, e ancora con la Facoltà di Filosofia,
in particolare nell’inserzione della pensilina circolare
(fig. 3). A tal fine si nota come siano recepiti i progetti
di Tony Garnier ad esempio quello per la stazione ferroviaria del 1903. In sintesi si nota come si sia trovato un
dialogo tra la forma plastica dei volumi schietti e puliti
con alcune superfici curve.
Sempre sul tema delle superfici curve con esili pensiline e finestre a nastro si ritrovano similitudini tra la Facoltà di Filosofia di Madrid e il prospetto posteriore della
Scuola di Matematica di Roma. Un altro tema ricorrente
è quello delle stesure limpide con vetrate centrali ancora
tra la Facoltà di Filosofia di Madrid, quasi un involucro
vetrato emergente, con la nostra Scuola di Matematica
che mostra una vetrata incassata. Indubbiamente in queste architetture si sente uno spirito e/o un linguaggio della Bauhaus che giunge attraverso l’adozione di blocchi
che si compenetrano, con volumi di muratura nel quale
si ritagliano le diverse aperture (15). Mentre tra le realizzazioni architettoniche di Medicina di Madrid e Antropologia e Psicologia di Roma si colgono i temi dell’alternanza mattone e travertino con corpo aggettante centrale.
E ancora tra il corpo di fabbrica di Medicina di Madrid
189
Fig. 3 - La Facoltà di Filosofia
di Madrid (da Campos CalvoSotelo 2004) e quella di Fisica
di Roma (foto di C. Bellanca).
Si noti la somiglianza nella
soluzione utilizzata per le pensiline.
Fig. 4 - Prospetto laterale della
Facoltà di Medicina di Madrid
e vista laterale dell’Istituto di
Odontoiatria Eastman di Roma
(foto di S. Mora e C. Bellanca).
e quello di Odontoiatria di Roma (fig. 4), nella lettura
dell’impaginato prospettico si leggono le differenze nel
numero di piani e nel trattamento della soluzione angolare. Per gli interni si ritrovano numerose altre analogie e
differenze. Sembra opportuno affrontare il tema degli accessi e in particolare quello degli atri e delle scale (fig. 5).
190
Ad esempio l’atrio del Rettorato della Città Universitaria di Roma evidenzia uno zoccolo in marmo verde,
con balaustra in bronzo, porte in legno di noce e lapide
in giallo di Siena. Mentre per gli infissi si passa dall’impiego del legno e vetro al metallo e vetro con diverse
varianti. Si possono distinguere le scale della Scuola di
Fig. 5 - Foto di dettaglio dei
mancorrenti nella ETSAM
a Madrid e nella Facoltà di
Antropologia e Psicologia di
Roma (foto di S. Mora e C.
Bellanca).
Architettura di Madrid e quelle di Odontoiatria e Antropologia a Roma. In questa ultima si ritrova una similitudine, con qualche materiale diverso ma la forma è identica. Ad esempio alcune porte nella Scuola di Architettura
di Madrid sono incassate con cornice, mentre a Roma in
Matematica sono emergenti con un balcone superiore.
Fra gli altri elementi costitutivi emergono le vetrate.
La più significativa rimane quella per la Facoltà di Filosofia di Madrid che aveva un programma iconografico relativo ad una allegoria umanistica di 10.27 m di altezza per
8.70 di larghezza. Questa è stata realizzata nel 1935 e da
un documento del 4 giugno del 1935 si legge: “con vidrios
impresos, vidrios antiguos, para doblar y obtener efectos de
color, … emplomada con plomo grueso especial para acusar
formay dibujar con ellos”. L’autore Alberto Martorell realizza
anche quella della Escuela Tecnica Superior de Arquitectura
con una allegoria delle diverse fasi costruttive dalla preistoria
all’architettura greca e romana, islamica e iberica (16) (fig. 6).
A Roma la vetrata di Gio Ponti realizzata tra il 1935 e il
1937, ampiamente pubblicata su «Domus», nel febbraio
del 1936, evidenziava un angelo che occupa una posizione
strategica, in basso una figura femminile ieratica, identificabile con la Geometria, la Razionalità o la Scienza e un
gruppo di discepoli. Nella composizione dominano il silenzio e la contemplazione. La dimensione era di 10.58 m
di altezza e 4.56 di larghezza. Questa vetrata, purtroppo è
andata distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale nei
giorni del bombardamento di Roma del 19 luglio 1943.
Essa aveva una intelaiatura di profilati in allumino che
assemblava 30 pannelli istoriati con vetri policromi (17).
Tra le numerose analogie delle due sedi universitarie
emergono altri particolari e si ritiene di ricordare dalle
diverse insegne indicative delle sedi, composte da singole
lettere, ad alcuni episodi di arredo urbano con panche in
travertino e fontanelle per l’acqua, così le stesse luci e
arredi degli ambienti interni.
Infine sembra doveroso accennare ai problemi comuni
degli ultimi anni relativi alle aggiunte architettoniche e
alle diverse tematiche della conservazione, sia dell’insieme che delle finiture esterne.
Considerazioni conclusive
In una dimensione europea, si possono vedere questi
continui studi, ricerche, approfondimenti, oggi resi più
semplici rispetto ad alcuni anni addietro. Tuttavia, sembra opportuno rammentare che in entrambe le sedi si
affrontano continuamente i problemi della conservazione e del restauro. Giovanni Carbonara nel 1997 scriveva
che “in un lungo processo di affinamento concettuale si
è presa progressivamente coscienza che solo tramite la
conservazione materiale si potevano tutelare e trasmettere, nella loro autenticità significati e valori spirituali, ivi compresi quelli artistici” (18). Sul restauro del
Moderno, pur considerando le differenze tecnologiche
e prestazionali dei sistemi costruttivi e del calcestruzzo armato come materiale innovativo, l’attuale dibattito
sul restauro non scandisce una differenza dottrinaria di
comportamenti tra antico e moderno. La metodologia ri-
191
Fig. 6 - Dettaglio della vetrata di Alberto Martorell Portas nel Salón de Actos nella ETSAM, UPM (foto S. Mora) e della vetrata di Gio
Ponti nella Scuola di Matematica di Roma, distrutta durante i bombardamenti (da «Domus», febbraio 1936).
mane unitaria. Il restauro muove dal riconoscimento del
valore artistico e/o storico del bene. Infine deve prevalere il concetto della reintegrazione dell’immagine non
in termini imitativi ma di riaccostamento alla struttura
formale.
(1) Piacentini 1935, p. 2.
(2) Ivi, pp. 4-6.
(3) Per l’insieme della Città Universitaria di Madrid si vedano: de
Legue 1931, López Otero 1943, Flores 1967, Bohigas 1970,
Jiménez 1971. Riferimenti generali restano sempre: Chueca
Goitia 1974, Campo Baeza 1982, Chias Navarro 1986,
Chueca Goitia 2001, Bonet et alii 1988; sino al più recente
volume di P. Campos Calvo-Sotelo dedicato ai primi 75 anni della
Città universitaria madrilena (Campos Calvo-Sotelo 2004). Si
veda anche Azzaro 2012, pp. 9-31.
192
(4) Su Modesto López Otero esiste un’ampia rassegna bibliografica; tuttavia sembra opportuno rammentare che è stato professore
di progettazione architettonica e direttore della Scuola Tecnica
Superiore di Architettura di Madrid (ETSAM). Nato a Valladolid
il 24 febbraio del 1885, scompare a Madrid il 23 dicembre del
1962. Da giovane aveva partecipato al Terzo Congresso Nazionale
di Architettura nel 1903, ed era stato borsista a Vienna studiando
da Otto Wagner quindi con Hans Peschl ed era entrato in contatto
con Berlage, e Behrens. In questo studio si è avuto modo di verificare
la sua presenza ad Atene nella Conferenza sulla Conservazione dei
Monumenti, nel ruolo di componente della delegazione spagnola.
Egli aveva continuato il restauro alla cattedrale di Cuenca iniziato
da Vicente Lampérez y Romea. Nel 1928 effettua un viaggio negli
Stati Uniti e Canada per studiare i campus americani, in particolare
Harvard e Princeton con Sánchez Arcas, Bergamín e De los Santos.
E ancora nel 1932 presenta una conferenza su “La Tecnica Moderna
en la Conservacion de Monumentos”. È anche progettista del
Viaducto del Aire e del Viaducto de Quince Ojos. Dirige il piano
urbanistico e architettonico della Città Universitaria di Madrid che
si inizia nel 1927. Dal 1923 al 1943 è direttore dell’ETSAM. Tra
i suoi scritti si ricordano tra l’altro: Pasado y porvenir de la ensenanza
de la Arquitectura, R.N.A., 38, 1945; La nueva Arquitectura, R.N.A.,
169, 1957; El Hormigon Armado en la creacion arquitectonica, Instituto
Tecnico de la Construccion, Madrid 1952. Su Otero si rinvia a Mora
Alonso Muñoyerro 2002 e Sánchez de Lerín García 2000.
(5) Su Pascual Bravo Sanfeliù, l’architetto progettista della
Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Madrid (ETSAM),
sembra opportuno rammentare che negli anni giovanili aveva
collaborato con Antonio Palacios alla realizzazione del Padiglione
della Spagna all’Exposición de Artes Decorativas e Industriales a
Parigi nel 1925, architetto dell’ETSAM (1926-32), quindi viene
nominato membro della Real Academia di San Fernando nel 1954
e architetto diocesano di Zaragoza. Un profilo si trova in Martinez
Verón 1993.
(6) Sulla figura e l’opera di Eduardo Torroja e la sua poliedrica
attività dedicata alla ricerca, alla didattica e alla realizzazione di
fondamentali strutture in cemento armato e in particolare le strutture a guscio, nella prima metà del XX secolo la bibliografia è
sconfinata. Fondamentale Torroja 1957, tuttavia si veda anche il
recente Cassinello 2016. Si rammenta altresì che Torroja ha regolamentato la normativa tecnica per gli ascensori continui, il cosiddetto Paternoster realizzato dalla ditta Schneider per due persone.
(7) Agustin Aguirre López (1896-1985) si laurea a Madrid nel
1920 e inizia a collaborare con Miguel de los Santos al concorso per
la sede della Telefonica di Barcellona. Egli viene chiamato da López
Otero come componente del gruppo di progettazione della Città
Universitaria e progetta la Facoltà di Lettere e Filosofia e quella
di Diritto nel periodo precedente la Guerra Civile. Nel periodo
successivo avvia la ricostruzione della Facoltà di Filosofia e con la
collaborazione di Miguel de los Santos dell’Ospedale Clinico.
(8) M. Sánchez Arcas progetta l’Ospedale Clinico tra il 1934 e il
1936 e soprattutto la Centrale Termica del 1933. Pubblica un breve
saggio: Notas de un viaje por Holanda, in «Arquitectura», marzo
1926, p. 107. Marcelo de los Santos si forma come un collaboratore
di Otero nei progetti dell’Hotel sulla Gran Via e Hotel Nacional e
progetta tra il 1934 e il 1936 gli edifici delle Facoltà di Medicina
e Scienze.
(9) Luis Blanco Soler inizia la sua attività con Antonio Palacios,
a Parigi collabora con Perret, al rientro a Madrid nel 1929 insieme
a Rafael Bergamín realizza il quartiere del Movimento Moderno
a Madrid, la cosiddetta Colonia El Viso. Tra le altre realizzazioni
si ritiene di segnalare la sede dell’ambasciata Britannica e Hotel
Wellington, sempre a Madrid, oltre ad aggiunte su interessanti preesistenze residenziali nel centro di Madrid, in particolare
nel Barrio di Salamanca. Egli è anche autore di un saggio su
Erich Mendelsohn, in «Arquitectura», novembre 1924, pp. 318319. Su Rafael Bergamín basta ricordare che studia Dudok ad
Hilversum mentre pubblica tra l’altro Los trabajos de extension del
Municipio de Hilversum, in «Arquitectura», 1925, p.18, e ancora
Exposicion de Artes Decorativas de Paris: impressiones de un turista, in
«Arquitectura», 1925, p. 236.
(10) È interessante notare la presenza di Walter Gropius a Madrid
che nel 1931 tiene una conferenza nella Residencia de Estudiantes e
pubblica nella rivista «Arquitectura funcional», 1931, pp. 51-62.
(11) Per il fondo CERUR in AS Sapienza, si veda in particolare
b. 45, fasc. 375, febbraio 1935.
(12) Piacentini 1935, p. 6.
(13) Guidi 1934, pp. 584-591.
(14) Sul “Paraninfo” si veda Barreiro 1983.
(15) Sul neoplasticismo la bibliografia è sconfinata; si rinvia ad
alcuni testi italiani: Benevolo 1971; De Fusco 1974.
(16) Di Alberto Martorell Portas, artista delle vetrate, è nota la
data di nascita, il 1890; nel 1915 vince un concorso del Ministero
di Istruzione Pubblica come professore. Pubblica alcuni dei suoi
disegni nella rivista «Campana Catalana» e «Esfera». Si conosce
la realizzazione di molte vetrate per la ditta Maumejean di Parigi,
per la Scuola di Architettura di Madrid e, si crede, per la sede del
Banco di Spagna. Infine dopo la Guerra Civile si trasferisce in Sud
America e realizza le vetrate della cattedrale di Manizales.
(17) Per la vetrata di Gio Ponti, si veda il recente Catucci,
Garroni, Salvo 2017, con ampia bibliografia e citazioni delle
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(18) Carbonara 1997, pp. 581-606.
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SIMILARITIES AND DIFFERENCES: THE UNIVERSITY CITY OF MADRID
AND THE NEW UNIVERSITY CITY OF ROME
In this contribute I will like to do some reflections about similitudes and differences between Ciudad Universitaria de Madrid and Sapienza Università di Roma.
Although the extension is quite different, 42 ha in Madrid and 220.000 mq in Rome, the urban planning shows some analogies that I will like to explain.
There are also so many similitudes in the architecture of the buildings and the importance given to the construction and technologic problems. For the planning
of both of them, there were formed two groups of young modern architects. The Italian group was directed by Marcello Piacentini and the Spanish group by
Modesto Lopez Otero. And also the problems caused by the war were similar in the construction of both of these complexes.
194
AFTER “ITALIA LA BELLA”. INTERACTION BETWEEN ITALIAN
AND FINNISH ARCHITECTURE IN THE 1930S
IN THE LIGHT OF THE JOURNAL «ARKKITEHTI»
Minna Kulojärvi (1)
Introduction
This article focuses on a few Finnish architects, each of
whom was an important proponent of Functionalism, and
whose works were presented in the journal «Arkkitehti» (published by the Finnish Association of Architects,
SAFA): Erik Bryggman (1891-1955), Hilding Ekelund
(1893-1984), Martti Välikangas (1893-1973), Väinö
Vähäkallio (1886-1959), Otto Flodin (1903-1969), and
Erkki Huttunen (1901-1956) (2). Most of them had graduated in the 1910s or 1920s. Another thing they had
in common is that they all made one or more journeys to
Italy in the 1920s and 1930s.
Many diverse factors together stimulated Finnish
architects to travel to Italy. Not only early Italian Renaissance but also both Finnish and Italian vernacular
architecture were emphasized in the teaching of architecture history in Helsinki in the early 20th century (3).
In fact, the lectures of Professor Armas Lindgren (18741929) were said to arouse an “Italy-fever” (4). Part of the
influence came via Sweden, as many Swedish architects,
such as Gunnar Asplund, had already been travelling in
Italy earlier. Hence, the journeys of the 1920s and 1930s
did not lead to a new orientation for Finnish architects
but confirmed their already established direction (5).
In 1923, following his first journey to Italy, Hilding
Ekelund published a report along with some of his and
Erik Bryggman’s sketches in «Arkkitehti» with the title
“Italia la Bella”. A quotation from the section about Vicenza implies that vernacular architecture was one of his
main interests: “Palladio, Palladio in dress uniform on
every street corner, with columns, architraves, cornices
and the whole arsenal of forms. Impressive, but boring. –
Between them plain, simple houses, just walls and apertures, but with distinct, harmonious proportions” (6).
It has been suggested that the greatest contribution
of the Finnish architects to Modern architecture was the
development of Functionalism in a freer and more experimental direction (7). It has also been claimed that, from
the perspective of Modernism, the interest the architects
showed in anonymous architettura minore proved to be
more important than the objects of Roman Antiquity
or the Renaissance (8). Later in the 1930s, some traits of
vernacular architecture seem to have reappeared in the
works of Finnish architects, but in a transformed way.
The Grand Tours of Nordic architects to the south of
Europe and especially Alvar Aalto’s (1898-1976) relationship with Italy have been researched widely. Thus,
instead, I have a look at what happened when Finland
welcomed Functionalism.
The change to Functionalism
The years between 1928 and 1932 in Finland have
been called a period of reduced classicism (9) during
which the characteristics of buildings gradually became
plainer. In roofs, a more low-rise style was favoured emphasizing the cubic form, walls became smooth and light
coloured, decorations were gradually reduced, and exceptions from symmetry were taken. Thus, the breakthrough of Functionalism was not a revolution, but a step on
a path already started (10). This gradual change can be
perceived in many architectural projects.
The small funerary chapel of Parainen, architect Erik
Bryggman’s first sacral building, was constructed between 1929 and 1930 (fig. 1). In addition to the features that
it shares with the Chapel of Resurrection by Sigurd Lewerentz in the Skogskyrkogården cemetery in Stockholm
(1925), it bears many similarities to Bryggman’s sketches
from Italy in the 1920s. Before this project, Bryggman
travelled in Italy twice: in 1920 and in 1927. There he
was interested in the different roof structures of churches
– beam, coffered and vaulted roofs – and he produced
various studies, also observing the colours. He also had
a great enthusiasm for analysing Italian piazzas in depth
by measuring them with footsteps (11).
Obviously, several features of the Parainen chapel reflect his studies on architettura minore and Italian churches. Resemblances can be seen in the proportions of the
façade, the low-pitched roof with the projecting thin
eaves and the wooden beam structure, as well as in the
details of the window and door openings and the colours
(12). The chapel has plastered white walls, a marble frame around the entrance, and a long, narrow-bodied hall
which is typical of Bryggman’s church architecture.
The chapel is today reviewed as one of the best examples of Nordic Modernism and it has been included in
the register of the Finnish organization of the international committee for Documentation and Conservation
195
Fig. 1 - On the left: Erik
Bryggman, sketch of a church
in Orvieto, 1920s. (Carin
Bryggman’s collection. From
SCHILDT 1991b, p. 91). On
the right: Erik Bryggman, chapel of Parainen («Arkkitehti»,
11, 1931, p. 9).
of Buildings, Sites and Neighbourhoods of the Modern
Movement (Do.Co.Mo.Mo.).
Italian journals in Finland and contacts with Italian colleagues
Martti Välikangas had been the editor-in-chief of
«Arkkitehti» between 1928 and 1930 and Functionalism had gained more exposure in the journal during
this period. Välikangas passed the editorship to Hilding
Ekelund, who held it from 1931 until 1934 (13). Thus,
the journal was under Ekelund’s leadership during the
upswing of Functionalism (14). Ekelund had been one of
the first architects to move to Functionalism, and he now
became known as an active polemist whose writings were
often also published in international journals.
During the directorship of Välikangas, «Arkkitehti»
had started to publish a list of the international journals
received by SAFA. They were accessible to architects in
the library of SAFA in Helsinki. These journals give us
an opportunity to speculate on where new thoughts came
from, what architects were interested in and when certain
phenomena were introduced in Finland (15). Between the
year 1920 and 1935 SAFA received magazines from 22
countries, most of them from Germany, Britain, Netherlands, and Italy. In 1934, Italy was represented by six different journals: «Architettura», «L’architettura Italiana»,
196
«Casabella», «Case d’oggi», «Edilizia Moderna», and
«Rassegna di Architettura» (16). The projects presented
in these journals broadly represented the competing architectural tendencies of the 1930s in Italy, among the
most prominent works being, the Sapienza University
campus (1932-1935), the new city of Sabaudia (1934),
and the railway station of Florence (1935). Likewise,
some projects of Finnish architects were noted in Italian
journals, which suggests that the interest between Finland and Italy was reciprocal.
Among the contacts of Finnish architects with Italian
colleagues, those of Alvar Aalto were probably the most
significant, among them being the rationalist architects
Ignazio Gardella (1905-1999) and Ernesto Rogers (19091969). Giovanni “Gio” Ponti (1891-1979), the founder
of the journal «Domus» and the architect of the School of
Mathematics of Sapienza (1935), was in correspondence
with Aalto. In addition, some Italian architects, such as
Leonardo Mosso, later worked in Aalto’s office (17). Aalto
also kept in touch with Giuseppe Pagano (1896-1945),
the director of the journal «Casabella» and the architect
of the Institute of Physics of Sapienza (1935). Like Pagano in the late 1930s, Aalto also had some reputation as a
left-wing radical, which probably made him closer to the
thinking of Pagano (18). In 1939, Pagano was invited
to Scandinavia by the Nordic Associations of Architects,
and during the visit he gave a lecture with the title “Moderne Architektur in Italien” to an audience of about 60
members of SAFA in Helsinki, presenting contemporary
architectural projects in Italy. In his lecture, Pagano also
mentioned the difficult political situation of rationalist
architecture in Italy. Also present was the architect Gardella (19).
Concurrent architectural projects
The architectural idioms were in fact not that far apart
in Italy and in Finland, also in consequence of the inspiration of the International Style and the migration of architectural ideas in Europe. To illustrate this, two concurrent
projects in both countries in the 1930s are presented.
In 1932, the competition for the Santa Maria Novella
railway station in Florence was announced. The suggested
entries for the competition were presented in April 1933 in
«Architettura» (20) and «Rassegna di Architettura» (21),
which were two of the journals SAFA received (fig. 2). Gruppo Toscano: architects Giovanni Michelucci, Pier Niccolò
Berardi, Nello Baroni, Italo Gamberini, Sarre Guarnieri,
and Leonardo Lusanna won first prize. The station was completed in 1935 and received immediate appreciation (22).
Shortly after the Florentine competition, in autumn
1933, a competition for the façade of the railway sta-
tion in Tampere, central Finland, was announced. Sixtyseven entries were received by 10 January 1934 (fig. 3).
Both Hilding Ekelund and Alvar Aalto took part in the
competition but were not successful. The railway station
was finally constructed (mainly between 1935 and 1936)
according to the plans of architects Otto Flodin (19031969) and Eero Seppälä (1902-1941) whose competition
entry was esteemed by the jury (23).
Comparing the entries for these two competitions,
similar themes can be noted, especially in the long horizontal form, in the rows of windows, and in the large
windows of the entrance. Neither of the projects on which
the completed stations were based originally included a
tower. It was added in a later phase to the drawings of
the railway station of Tampere, despite the opposition of
the architects.
In April 1935, the rationalist buildings of the new
town of Sabaudia, designed by the architects Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato and Alfredo Scalpelli, were presented in the journal «Architettura». Among them was also the church of Sabaudia
(fig. 4).
Meanwhile, in Finland the debates about Traditionalism and Functionalism continued in church architecture.
Following those discussions, one of the first truly moder-
Fig. 2 - The competition entries for the railway station of Florence. From top: Gruppo Toscano, first prize; arch. Ettore Sotsas, second prize; arch.
G.B. Ceas («Architettura», fasc. IV, 1933, pp. 203, 207, 226).
197
Fig. 3 - The competition entries for the railway station of Tampere, Finland. From top: arch. K.N. Borg, shared second prize; architects A.
Hytönen and R.V. Luukkonen, third prize; arch. O. Flodin and E. Seppälä, redemption («Arkkitehti», 2, 1934, pp. 26-28).
nist churches was the Nakkila church in western Finland,
designed by architect Erkki Huttunen (1901-1956). He
won the invitational competition announced in February
1935 (24). The church was constructed between 1936
and 1937.
These two churches share idioms of the same kind,
such as the semi-circular apse with encircling windows
and a tall window to light the altar, the low-pitched roof
with thin and short eaves, and a slender campanile attached to the church by a short corridor. Both the churches
still feature something reminiscent of traditional buttresses on the sides, with tall and narrow windows between them. The reception of the Nakkila church among
the local populace was divided, and its appearance was
compared to an industrial building. Among colleagues,
it was received with appreciation. The church is now included in the register of Do.Co.Mo.Mo.
198
The many variations of Modernism
White and pure Functionalism received the leading
role in the historiography of Modernism, and there has
long existed a common image of the uniformity of the
Finnish architecture of the 1930s. However, as in Italy,
there were a variety of different competing stylistic features. After Finland had started recovering from the recession of the early 1930s, there also emerged a more
moderate form of Modernism, adopted from Italy and
Germany – one that still contained something of classicism. The typical features included a more traditional
manner in the disposition of façades by setting windows
individually in the smooth and even walls instead of continuous windows. In Finland, this tendency was visible
particularly in commercial buildings, especially those by
architects J.S. Siren and Bertel and Valter Jung (25). A
Fig. 4 - On the left: Church of Sabaudia («Architettura», fasc. IV, 1935, p. 516). On the right: Erkki Huttunen, Church of Nakkila, Finland
(«Arkkitehti», 5, 1938, p. 76).
Fig. 5 - On the left: Väinö Vähäkallio, Kansallisosakepankki at Hyvinkää, Finland (Hyvinkää City Museum). On the right: Väinö Vähäkallio, the factory and head office of Alko, Helsinki («Arkkitehti», 3, 1941, p. 34).
somewhat similar spirit can be distinguished in some of
the new buildings of La Sapienza University.
The same has been argued about the Functionalistic
architecture of Väinö Vähäkallio (1886-1959). His career can be regarded as an excellent example of the many
parallel manifestations of Modernism, enhanced by his
responsiveness to the changing tastes of different clients.
Certain features in Vähäkallio’s bank buildings have been
claimed to resemble some examples of Italian architecture of the 1930s, such as the rows of vertical separate
windows, the stone frames for windows and doors, and
the decorative sculptures in the façades (26).
199
Fig. 6 - On the left: Hilding Ekelund, a sketch of stairs to Monte Caprino, Rome, 1921 (MFA). This sketch seems to have been important to
Ekelund as he also showed it in his inaugural lecture as professor at the University of Technology in Helsinki in 1950. (EKELUND 1997, p. 253).
On the right: H. Ekelund and M. Välikangas, the Olympic Village, Helsinki, 1939-1941 («Arkkitehti», 6, 1948, p. 63).
One of these bank buildings is Kansallisosakepankki
that was constructed at Hyvinkää in southern Finland in
1936 (fig. 5). It has a row of narrow windows set deep
in the white plastered wall. The entrance is framed with
light-coloured granite and local gabro stone also called
“black granite” (27). The same features can also be seen
in the factory and head office complex of Alko, the Finnish alcohol monopoly company in Helsinki, designed by
Vähäkallio and completed in 1940. The façade is red brick,
and it contains narrative relief decorations and granite frames around the head office entrance and the windows.
The styles differing from pure Functionalism that was
declared as the Modernist ideal were usually forgotten
and neglected in the later histories of Finnish architecture. This also happened to Vähäkallio’s architecture (28).
Accordingly, his buildings cannot be found in the Do.Co.
Mo.Mo. register although they were appreciated and widely presented in «Arkkitehti» and Vähäkallio held a
central position in community (29).
Modernism transforms
The first symptoms of Functionalism becoming softer, more humane, and closer to nature as a response
to strict rationality can be seen already before the Second World War. Changes happened gradually: forms
became freer, continuous windows and flat roofs were
given up, and organic materials such as wood and natural stone were used. The Olympic Village housing
area in Helsinki by architects Välikangas and Ekelund
has been called a central example of these changes (30)
(fig. 6). The construction of this first uniform residen-
200
tial area designed in an urban environment in Finland
was started in 1939.
It has been argued that with the light plastered walls,
simple window openings free of symmetry, and the light
and thin eaves, the Olympic Village refers as well to the
ideals of the architettura minore as to international Modernism (31). The same themes that Ekelund studied in his
sketches in Italy reappeared now in his works in a different
form. This can be seen, for example, in his skill in fitting
the buildings to the contours of the hillside and in utilizing small differences in altitude (32). Some of the things
that Ekelund studied on his Italian trips in the 1920s were
streets formed of stairs and stepped houses, as well as the
relation of a plastered wall and a simple window opening
and the broad and delicate eaves of Tuscany houses. Indeed, Ekelund has been called, probably rightly, the one
with the most enthusiasm for Italian vernacular architecture among Finnish architects of the 1920s (33).
Conclusion
The aim of this article has been to show that the influence
and interaction between Italian and Finnish architecture did
not break off after Nordic Classicism but continued through
the 1930s and beyond. After the Second World War, many
of the Finnish architects’ connections with their Italian colleagues were resumed and they lasted over the reconstruction period. The CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture
Moderne) 1947 assembly was an occasion of reunion for them
(34). Subsequently, in the 1940s and 1950s, European architects actively followed the achievements of one another in
reconstruction architecture. A similar spirit has been noted,
for instance, in the post-war architecture of Ekelund and
contemporary Italian neo-realistic residential projects, such
as those of Mario Ridolfi for INA-Casa (Istituto Nazionale
delle Assicurazioni) (35).
(1) I am grateful to the Museum of Finnish Architecture for the
access to the archives. My research for this article has generously
been funded by the Jenny and Antti Wihuri Foundation.
(2) Many of them were the chief editors of the journal
«Arkkitehti» or the directors of SAFA or held another important
position in the Finnish society in the 1930s.
(3) Interest in vernacular architecture was also shared with architects such as Le Corbusier and Frank Lloyd Wright.
(4) Schildt 1985, p. 106.
(5) Schildt 1984, p. 168.
(6) Ekelund 1923, p. 18 (translation Paavilainen 1979, p. 103).
(7) Helander 2008, p. 107.
(8) Heinonen 1986, p. 32. It has been typical in the Finnish
discourse to emphasize the importance of architettura minore in the
formation of the reduced idiom of Functionalism. Riitta Nikula,
however, remarked that the history of Modernism in Finland had
been written quite selectively (Nikula 1981, p. 14). Later, the
research has become more polyphonic.
(9) Nikula 1981, p. 72.
(10) Mikkola 1985, p. 71.
(11) Schildt 1991b, pp. 83-91.
(12) Ivi, pp. 93-95.
(13) In 1936, Välikangas became the director of SAFA.
(14) Ekelund also called this new style “ratsionalismi” in Finnish
(Niskanen 2005, p. 303).
(15) Shortly before World War II, private individual travel to
southern Europe became rarer and most of the information from
abroad was received through journals and correspondence with
colleagues. Despite this, quite a number of Finnish architects and
students travelled to Italy as late as 1939 (Jetsonen 2008, p. 186).
(16) Heinonen 1976, p. 28. Some Finnish architects also followed news about Italian architecture in newspapers. Architect
Välikangas’s personal archive shows that he had saved a newspaper
clipping, for instance, about “Mostra della Rivoluzione Fascista”
organized in Rome («Hufvudstadsbladet» 1933, p. 11). The marty-
rium designed by architects Libera and Valente especially received
praise in the newspaper article (The archive of the Museum of Finnish
Architecture (henceforth MFA), Martti Välikangas, Folder 4).
(17) Schildt 1991a, pp. 216-217. Aalto had made his first
journey to Italy in 1924.
(18) Mikkola 1979, p. 144
(19) «Arkkitehti» 1939, pp. 2-3. The lecture was given on 30
January 1939. Arkkitehti published a summary of this lecture and a
picture of Pagano’s residential project “Milano Verde”. In February
1939 Pagano also wrote about his journey in his own journal
«Casabella-Costruzioni» (Pagano 1939, pp. 2-3).
(20) Il concorso 1933, pp. 201-230.
(21) Il concorso nazionale 1933, pp. 277-285.
(22) The completed station, together with La Sapienza University
and Sabaudia, was presented in Pagano 1935, pp. 2-7, and in Pica
1936, pp. 133-140.
(23) The completed station was presented in «Arkkitehti» 1937, pp.
97-103. Flodin belonged to a younger generation of architects and had
graduated in 1927. He had just been travelling in Italy in 1932. After
that, in 1933 he became an architect in the National Board of Public
Construction (MFA, http://www.mfa.fi, 10 November 2017).
(24) Huttunen had also graduated in 1927 and had been travelling in Italy (MFA, http://www.mfa.fi, 10 November 2017).
(25) Nikula 2000, pp. 324-325
(26) Niskanen 2008, pp. 199-205. Vähäkallio had made a
journey to southern Europe, including Italy, already in 1910 after
graduating in 1909.
(27) Niskanen 2005, p. 131. Vähäkallio also used gabro stone
in the adjacent Rural Savings Bank that was completed in 1934
and was presented in «Arkkitehti» 1935, pp. 56-57.
(28) Ivi, p. 207.
(29) In 1936 he became the director of the National Board of
Public Construction of Finland.
(30) Helander 1997, p. 20. Both of the architects had made
two trips in Italy: Ekelund in 1921-1922 and in 1926-1927, and
Välikangas in 1921 and in 1925.
(31) Ivi, p. 20.
(32) Ivi, p. 30.
(33) Ivi, pp. 30-31.
(34) Schildt 1991a, p. 215.
(35) Helander 1997, p. 31.
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G. Schildt, Alvar Aalto and the classical tradition, in Classical
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H. Schildt, Erik Bryggman in Italy, in Erik Bryggman 18911955 Architect, Helsinki 1991, pp. 81-108.
AFTER ‘ITALIA LA BELLA’ – INTERACTION BETWEEN ITALIAN
AND FINNISH ARCHITECTURE IN THE 1930S IN THE LIGHT OF THE JOURNAL ARKKITEHTI
Scandinavian architects’ travels to Italy in the first decades of the 20th century are known to have greatly influenced Nordic Classicism. In the 1930s, the interest in
Italian architecture continued. In Finland, several Italian architectural journals were followed, and contacts with Italian colleagues were maintained. Among them
were Gio Ponti and Giuseppe Pagano, who contributed, for instance, to the execution of La Sapienza University campus in Rome. This article uses selected projects
presented in the Finnish journal «Arkkitehti» to illuminate how similar features appeared in the Finnish and Italian architecture of the 1930s. In addition, the
article shows how the architectural interaction between the two countries continued through the interwar period and beyond.
202
I CAMPUS UNIVERSITARI DI VILNIUS E KAUNAS IN LITUANIA:
IL MODERNISMO BALTICO DEL PERIODO SOVIETICO
Donatella Scatena
I due Campus Universitari di Vilnius e Kaunas rappresentano oggi un tipico servizio pubblico dell’architettura
del Baltico Sovietico. Costruiti a partire dagli anni ’60
dello scorso secolo, essi si inquadrano nell’estetica modernista e testimoniano, insieme a molti altri complessi
edilizi costruiti in quegli anni, del cambiamento avvenuto a partire dalla fine degli anni ’50 del ’900 nella società
sovietica, dello sviluppo del welfare e del maggior interesse, dell’attenzione e degli sforzi profusi nella edificazione
di strutture per la salute, l’istruzione, lo svago e il tempo
libero per il lavoratore sovietico. Per quanto riguarda le
repubbliche baltiche e la Lituania in particolare, stanno
anche a dimostrare una particolare propensione verso la
cultura occidentale che ha sempre distinto queste zone.
Con il loro desiderio antelitteram di adesione all’Europa,
esse rappresentano, oggi, un baluardo alla forte crisi identitaria europea, e veicolano forse verso una diversa idea
di unità trans-nazionale non basata solo sulle politiche
monetarie ed economiche, ma sulle scelte culturali e su
una weltanschauung fortemente voluta e condivisa.
Il paesaggio urbano del periodo sovietico nelle repubbliche
baltiche
Prima di entrare nel merito dei campus universitari
lituani bisogna ricordare come le politiche edilizie e
costruttive sovietiche determinarono una grande trasformazione dei paesaggi urbani. La Lituania, la Lettonia e l’Estonia entrarono nell’Unione Sovietica nel
1940. Dal 1940 al 1990, gli anni della dominazione
sovietica, anche l’architettura subì grandi cambiamenti di pari passo con la politica, l’economia e le politiche
sociali. Il paesaggio urbano, a sua volta, si trasformò
radicalmente a causa dell’intensificarsi della progettazione a grande scala e dello sviluppo della prefabbricazione.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la storica lituana Marja Drėmaitė scrive che per la ricostruzione di
Vilnius e Kaunas, fu ricondotto in patria uno sparuto
gruppo di architetti lituani dalla Polonia, deportati
negli anni precedenti, ma per la maggior parte dei lavori la Russia inviò i suoi professionisti, in particolare
da Leningrad e da Mosca; furono proprio questi a forgiare nello stile Neoclassico sontuoso e monumentale, simbolo del regime totalitario stalinista, la nuova
Lituania.
Il disgelo di Khrushchev e l’inizio del Modernismo Sovietico
Bisogna aspettare Nikita Khrushchev e il conseguente “disgelo” per vedere il primo attacco all’estetica Neoclassica di maniera. Il decreto sull’industrializzazione
incentivò l’apertura di fabbriche di cemento armato nei
sobborghi delle grandi città baltiche, incoraggiando la
prefabbricazione edilizia e l’uso massiccio di materiali
come calcestruzzo, vetro e metallo. Questo segnò l’inizio
di quel Modernismo Internazionale come lo conosciamo
oggi, che va dal 1950 al 1990 circa, che attualmente sta
incontrando una fase di interesse e di revisione, non solo
in ambito accademico. Fu la stessa Unione Sovietica a
veicolare all’epoca la sua immagine nel resto del mondo
(1), grazie alla rivista francese L’Architecture d’Aujourd’hui
(2), che nel 1969, dopo un lungo lavoro di ricerca sui materiali disponibili, dedicò un’edizione speciale all’architettura Sovietica, mostrando quel “socialismo dal volto
umano”, risultato di una immagine abilmente costruita
a tavolino, ma frutto anche del disgelo attuato da più
di un decennio nelle relazioni internazionali. Che cosa
conteneva, in sintesi, questa monografia? La presentazione era affidata alla Prospettiva Kalinin a Mosca. Nelle
pagine a seguire, trovavano posto mega-musei ed enormi
stadi, come il campo ricreativo Skalny per la gioventù in
Crimea di 1200 posti e poi strutture per le vacanze, case
del cinema, planetari, acquari. Nel suo complesso, tutte
le architetture e i luoghi rappresentati su L’Architecture
d’Aujourd’hui, caratterizzati dall’estetica architettonica
modernista, sottolineavano in modo trionfalistico il nuovo stile di vita del popolo sovietico. Eccezione fatta per
le architetture delle tre regioni baltiche. Qui si scelse di
mostrare un’architettura di piccole dimensioni, “intima
e accogliente e caratterizzata da espressioni regionali” (3):
per l’ Estonia un campeggio di legno a Tallin, una piccola
edicola per i fiori o l’ufficio amministrativo di un allevamento sperimentale di pollame e un quartiere disposto
intorno ad uno stagno dal quale prende la sua forma ovale
compatta, il Väike-Õismäe di Tallin. Per la Lituania, in
particolare Vilnius, il quartiere Žirmūnai, dove le abitazioni a torri appaiono garbatamente sistemate in mezzo a
boschi e zone verdi. Ma questa differenza di scala sottolineata dalla rivista francese corrispondeva davvero ad una
diversa realtà? La Drėmaitė, che porta avanti studi sul
tema scrive: “Ad un più attento esame di una copia della
suddetta edizione speciale de L’Architecture d’Aujourd’hui,
trovata nella biblioteca personale dell’architetto moder-
203
Fig. 1 - Pensilina monumentale dell’Istituto di Ingegneria e
Costruzione del campus universitario di Vilnius (foto dell’A.).
Fig. 2 - Edifici delle facoltà di
legge, economia e altre discipline
del campus universitario di Vilnius (foto dell’A.).
nista lituano Vytautas Edmundas Čekanauskas, abbiamo
notato che sulla copertina (che mostra le bandiere delle 16 federazioni che formavano l’USSR N.d.A.) le tre
bandiere delle repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e
Lituania) erano state cancellate con una croce, come a sottolineare: ‘Noi non siamo sovietici’ ” (4). Un gesto che la
storica definisce sintomatico di un’intera generazione di
architetti, riconosciuti in seguito come scuola lituana di
architettura; e che ella avrà potuto sicuramente verificare
direttamente da suo padre, l’architetto Zvaigdras Drema
(1943-2009). In effetti la regione baltica fu denominata
204
“occidente sovietico” e la vicinanza ad un modello più
europeo fece dire allo storico e critico Yuri Gerchuk che
esse avevano “attivamente contribuito alla trasformazione del milieu estetico della vita quotidiana sovietica e alla
formazione di un nuovo stile. Annesse all’Unione Sovietica solo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, (le
repubbliche baltiche) hanno avuto poco tempo per sottomettersi alle politiche di perequazione della cultura ufficiale e, durante l’era Khrushchev, hanno recuperato più
velocemente rispetto a quelle regioni dell’est che sono
state sotto l’Unione Sovietica sin dall’inizio. Per noi, i
prodotti provenienti dal Baltico portavano l’inconfondibile marchio della cultura europea che noi desideravamo
così tanto” (5).
Welfare e stato sociale a servizio della società sovietica
Il cambiamento dal realismo sociale stalinista verso la
“modernità”, è avvenuto, comunque sia, meno in termini
estetici e molto più in termini ideologici con riflessi sulle risoluzioni organizzative e abitative. Ciò si è verificato
nel decennio conosciuto come il disgelo Khrushchev (19541964) che, sebbene sia stato inteso come un attacco diretto
all’architettura, in realtà, aveva lo scopo di dare impulso al
progresso tecnologico al fine più grande di creare un vero e
proprio programma di welfare. Il discorso che Khrushchev
tenne il 7 dicembre 1954 alla Conferenza dell’Unione dei
Costruttori, degli Architetti e dei Lavoratori Sovietici (6)
divenne famoso, appunto, per il decreto Sulla eliminazione
degli eccessi in Architetture ed Edilizia. Ma il vero messaggio
era contenuto nell’altro decreto, Sullo sviluppo di migliorare,
industrializzare e ridurre i costi delle Costruzioni, che mirava
a velocizzare e rendere più economico il processo edilizio
favorendo la prefabbricazione e l’aumento di case nuove,
salubri, moderne, per tutti i lavoratori.
Grande attenzione fu prestata ai nuovi stili di vita e
al benessere che ne conseguiva per i cittadini, con la pianificazione dei servizi sociali verso gli anni ’60, quando
sorgono anche i campus di Kaunas e Vilnius. Dopo la costruzione dei centri abitati ed industriali e dopo l’incremento delle fabbriche fu la volta delle strutture educative
e sanitarie ritenute di importanza capitale.
Nel programma del partito comunista (1961) si legge
che “il tempo libero degli uomini sarà prevalentemente
dedicato alle attività sociali, all’interazione culturale, allo
sviluppo mentale e fisico e alle ricerche creative, scientifiche, tecniche ed artistiche” (7) e nel 1967 il numero dei
giorni lavorativi passerà da sei a cinque.
La pianificazione urbanistica fu suddivisa in quattro
livelli gerarchici: nel primo livello i servizi educativi e
culturali con piccoli locali molto vicini alle abitazioni
e comunque raggiungibili a piedi. Nel secondo livello
i servizi per interi quartieri o regioni con possibilità di
600, 800, 1000 e 1200 posti. Poiché spesso tutte le attività venivano poste insieme in uno stesso manufatto
edilizio molto capiente, si optava per lo più per edifici a
grande scala, standardizzati e inespressivi.
Mentre i manufatti del primo e secondo livello sono
descritti solo in termini di organizzazione e funzionalità
in quelli del terzo livello compaiono i termini “architettura”, “facciata”, “immagine”, “forma”. Nel terzo livello
troviamo istituzioni culturali molto grandi che servivano
interi distretti. Tra loro strutture riservate alla Lega giovanile del Partito Comunista, i Pioneers e mega-sale di
6000 posti per grandi riunioni pubbliche. Infine il quarto
livello comprendeva servizi che potevano estendersi per
intere zone o aree extraurbane o suburbane, come centri
turistici, grandi campeggi per la lega giovanile, sanatori
e cittadelle universitarie.
I frutti di uno stile di vita migliore e di una minore pressione lavorativa portarono anche nell’USSR una domanda
di istruzione e così, agli inizi degli anni ’60, si verificò
una richiesta forte di aule universitarie, di laboratori e di
centri per la ricerca. Inoltre la fiducia nel futuro suggeriva
di scegliere aree per eventuali espansioni; le strutture sanitarie, gli ospedali e i campus universitari furono dislocati
fuori del centro urbano, in zone aperte e verdi. L’istituto di
pianificazione statale consigliava di optare per terreni che
potessero contare almeno su 10-15 ettari liberi.
Il Campus universitario sovietico a Kaunas
L’Istituto Politecnico di Kaunas (oggi Università Tecnica di Kaunas), progettato da Vytautas Jurgis Dičius tra
il 1960 e il 1970, fu il primo ad introdurre in Lituania i
criteri di una università moderna.
Una volta individuato un terreno lontano dal flusso intensivo del traffico cittadino di Kaunas, nel 1961 cominciò la costruzione del complesso universitario composta
da quattro dipartimenti, una mensa, dormitori per gli
studenti, uno stadio con area sportiva. Il primo edificio
innalzato fu il Dipartimento di Costruzioni, basato sulle indicazioni standard ordinate dal Giprovuz, l’istituto
di pianificazione sovietica. Il procedimento compositivo
adottato si basava sul principio del piano libero, con assemblaggio di vari elementi. Inoltre una tarda adesione
all’estetica del Bauhaus determinò l’uso di forme rettangolari pure e l’utilizzo di grandi vetrate e dei colori
bianco e nero. Sebbene questo sia poi diventato il gusto
preminente di tutto il Modernismo Sovietico per l’immagine degli edifici pubblici, quello di Kaunas è uno dei
primi tentativi di superare lo stile stalinista, aderendo ai
canoni dell’International Style.
Il Campus universitario sovietico a Vilnius
Vilnius aveva una antica università nel centro storico
costruita dai Gesuiti ma la richiesta di maggiori spazi per
l’educazione superiore determinò lo spostamento del nuovo centro universitario all’esterno della città. Fu individuata un’area enorme a Saulėtikis, a nord del centro abitato, e
nel 1963 la lega degli architetti lituani bandì un concorso
vinto da Rimantas Dičius, Zigmas Jonas Daunora e Julius
Jurgelionis, che curarono tutto il vasto impianto planimetrico del campus. L’area fu divisa in tre parti: un distretto
didattico con i vari dipartimenti dell’Università, una zona
con centro sportivo e caffetteria di 600 posti e, un po’ più
distaccati, i dormitori per studenti e docenti.
205
Fig. 3 - Entrata della Facoltà di Giurisprudenza nel
campus universitario di Vilnius (foto dell’A.).
L’Istituto di Ingegneria e Costruzione di Vilnius, del
1966 fu il primo edificio del Campus, costruito secondo i
principi del Funzionalismo. Oggi l’edificio è diventato parte
della GVTU, Vilnius Gediminas Technical University: la
sua facciata è caratterizzata da una scala sporgente, verticale, ai lati della quale le due ali del prisma puro presentano
l’alternarsi di fasce orizzontali di muro pieno grigio e fasce
di finestre a nastro e vetrate. Il ritmo regolare è rotto da
una pensilina plastica e monumentale (fig. 1). All’interno il
grande foyer è in connessione con l’esterno attraverso la vetrata. L’ala dell’auditorium, in mattoni rossi, è stata aggiunta
nel 1970, su progetto dell’architetto J. Jurgelionis.
Nel 1970 furono costruiti i nuovi edifici per le facoltà di legge, economia e altre discipline, a opera di R.
Dičius. Il complesso è formato da edifici scatolari di otto
piani, paralleli tra loro, utilizzati per la didattica e caratterizzati da facciate piatte (fig. 2), collegati, sul retro, a
una costruzione bassa e inespressiva in mattoni rossi a due
piani con locali per il trattamento dati e sale di lettura.
Ogni edificio presenta degli elementi decorativi all’esterno tipici del Funzionalismo mentre gli interni si differenziano e sono più originali (fig. 5). Sul fronte principale gli
attacchi a terra dei tre parallelepipedi sono svuotati, con
entrate rialzate su scalini e alleggerite attraverso lo scavo
e il fronte vetrato. I grandi pilastri strutturali (fig. 3) che
creano il varco sono massivi, in cemento armato e creano
il vero mood dell’estetica del brutalismo molto presente in
tutto il campus (fig. 4).
A ovest del lungo viale Saulėtikio nel 1974 sono sorti
gli ostelli per gli studenti, opera di B. Krūminis. I sei
206
dormitori di sedici piani ognuno presentano uno scheletro a telaio di cemento armato e tamponature, piani e
corpi-scala prefabbricati. L’immagine plastica dei fronti
è ottenuta grazie a un ritmo molto cadenzato dei balconi
e il particolare skyline delle torri così vicine ha fatto ribattezzare la zona “New York” e ha creato un modello per
i successivi blocchi multipiano dei quartieri residenziali
che sorgeranno di lì a poco in tutta l’area perimetrale di
Vilnius.
Fig. 4 - Interno del piano terra della Facoltà di Economia nel campus
universitario di Vilnius (foto dell’A.).
Fig. 5 - Interno del piano terra
della Facoltà di Economia del
campus universitario di Vilnius
(foto dell’A.).
I grandi complessi ospedalieri collegati al campus di Vilnius.
Dal 1960 al 1966, nello storico suburbio di Antakalnis
di Vilnius, sulla strada che porta al campus universitario,
Eduardas Chlomauskas e Zigmantas Liandzbergis progettarono due ospedali universitari basandosi sui principi razionali e funzionali. Vere e proprie fabbriche della salute,
sia ideologicamente sia esteticamente, esse dovevano evocare
anche nella pianta libera, nella facciata libera e nell’uso del
cemento armato il benessere e l’igiene del popolo sovietico.
Trattandosi di ospedali di livello nazionale, gli architetti, come da regolamento, dovevano riferirsi all’Istituto
di Costruzione e Progetto Urbano ed avevano una limitata possibilità di elaborare una progettazione sperimentale
e personale.
Il Quarto Ospedale Statale per il Direttorio, come fu denominato, costruito il 1960, il 1966 e il 1973, era riservato
alla nomenklatura sovietica. Posato su una vasta area verde, un
tempo giardino botanico, si compone di volumi di quattro
livelli ordinatamente disposti su un piano libero, seguendo
lo stesso principio compositivo che gli architetti avevano
usato nel campus universitario. I reparti si affacciano a sud
lontani dalla strada, la clinica collegata è più in baso e la connessione tra i corpi è fatta da ali a un piano. Per ingentilire
un po’ la composizione i balconi della parte del sanatorio
hanno delle mattonelle in legno. La parte a sud che affacciata
sulla collina aveva una serie di terrazze fiorite digradanti e
anche il cortile interno per le visite era configurato come un
giardino. Ma ciò che all’epoca della sua costruzione caratte-
rizzò questo ospedale fu il livello della privacy: “quasi tutti
gli ospedali sovietici aderivano alla norma di avere stanze
con quattro fino ad otto letti ognuna, ma il Quarto Ospedale
per il Direttorio poté avere stanze di soli due letti” (8).
Nell’Ospedale Universitario su viale Antakalnio, 57 del
1966 il rapporto con il luogo ha un ruolo fondamentale
e anche qui la collina di Antakalnis è servita da fondale
naturale. L’ospedale, secondo i temi della progettazione
moderna, non si mimetizza però con il paesaggio e si pone
con i suoi volumi definiti e stereometrici in antitesi. Due
blocchi di nove piani con 1000 posti letto, una clinica di
sette piani, una clinica oncologica con 450 posti letto e un
collegamento attraverso una serie di tunnel con i servizi.
Poco più avanti sulla strada principale, la Clinica pediatrica di Antakalnis di 300 posti letto, progetto dall’architetta Regina Masilionytė, del 1984; all’edificio semplice, rettangolare in mattoni gialli è giustapposto un
volume con muro circolare che contiene una piscina (oggi
in restauro) e un colonnato sempre semicircolare che indirizza verso l’entrata.
Il complesso di servizi ospedalieri del periodo sovietico
si conclude con il Policlinico anche questo del 1984, una
delle ultime opere di Liandzbergis che probabilmente è
stato uno dei più importanti architetti per ciò che riguarda le istituzioni pubbliche lituane. Il policlinico, posto ad
angolo sul viale Antakalnio, si impone per la mole dei suoi
due volumi, uno orizzontale e più basso, sempre in mattoni
gialli, sollevato su pilastri massicci e un rettangolo alto e
vetrato per i laboratori di esami. Nei due corpi di fabbrica
207
Fig. 6 - Interno della Biblioteca Universitaria di Vilnius (foto dell’A.).
che presentano un linguaggio architettonico appartenente
alla stessa ideologia moderna, ma differenti fra loro, Liandzbergis sembra aver voluto riassumere le istanze espressioniste e funzionaliste della cultura sovietico-baltica.
I centri direzionali nel Campus Universitario di Vilnius del
ventunesimo secolo
Il piano aperto fu interpretato dagli architetti e urbanisti lituani come progetto dinamico nel quale i servizi e
le residenze avrebbero potuto espandersi liberamente. Ma
questa utopia non si è avverata, come il resto della speranza
socialista ed entrambe le costose università di Kaunas e Vilnius sono state completate solo in parte. Il terzo millennio
vede una ripresa dei lavori a Vilnius con la Sede centrale
della Valle della Scienza Sunrise e del Parco Tecnologico e la
Sede centrale della VGTU nella vasta area di Saulėtikio. La
prima (9) del 2008, segna oggi l’entrata a nord del campus
aperto. La seconda (10), con la sua forma ad arco trionfale
rettangolare e l’uso di metallo, vetro e acciaio, marca volontariamente il distacco dal resto dell’architettura sovietica.
Infine la Biblioteca Universitaria di Vilnius con il
Centro di informazione e comunicazione del 2011 è un
progetto di uno dei più noti architetti lituani contemporanei Rolandas Palekas (11).
La biblioteca contiene la ricca e antica raccolta di testi
accademici dell’Europa centrale e dell’Est ed è stata costruita nell’area boscosa lungo il viale pedonale principale
del campus universitario, che la collega anche visivamente ai grandi palazzi sovietici. Organica ed espressionista si
rivolge verso il bosco (fig. 6) a confermare quel rapporto
privilegiato che la modernità e, in particolare l’architettura lituana, ha sempre avuto con la natura.
(1) Per uno studio più approfondito dell’architettura modernista
baltica rimandiamo a Drėmaitė 2017. Per un primo approccio all’architettura e alla città sovietica si rimanda agli studi di Vieri Quilici.
(2) Drėmaitė 2017, pp. 13-16 (trad. dell’Autrice).
(3) Ivi, p. 14.
(4) Ivi, p. 16.
(5) Ivi, p. 10.
(6) Ivi, p. 17.
(7) Ivi, p. 217.
(8) Ivi 2017, p. 241.
(9) Progetto di A. Pliučas, E. Petkevičius, D. Pauliukonienė, E.
Kirdulienė, E. Valevičiūtė; strutturisti L. Stikleris, T. Rumbutis.
(10) Progetto di S. Kuncevičiaus.
(11) ARCH Studio di R. Palekas.
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Sovietique, n. 47 (Dicembre 1969/Gennaio 1970).
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THE UNIVERSITY CAMPUSES IN VILNIUS AND KAUNAS, LITHUANIA:
THE BALTIC MODERNISM OF THE SOVIET ERA
The two University Campuses of Vilnius and Kaunas are the theme of the essay. Arose in the second half of nineteenth century they represent the result of the
welfare’s program during the Khrushchevian Thaw (1954-1964). The Soviet government decree “Regarding the Relinquishment of Excess in Construction
and Architecture” decried Neoclassical excesses but above all it promoved a new form of industrialisation. There was a development of housing, factories, schools
and a greater demand of public buildings for a high level education. The University Campus of Vilnius (and Kaunas) was built in a beautiful suburban area
of 175 ha. It was divided into three zones: an educational district; a sports area; a residential part with dormitory buildings. The open plan of the university
was surronding by a urban forest and its academic and educational buildings develop a constant dialogue with the nature and the landscape.
208
IL CAMPUS UNIVERSITETSUNDERVISNINGEN DI ÅRHUS IN DANIMARCA.
DISEGNO URBANO, ARCHITETTURA E DESIGN NELLA LEZIONE
DI KAY FISKER, C.F. MØLLERE POVL STEGMANN.
Elena Manzo
L’Università di Århus, fondata l’11 settembre 1928
come Universitetsundervisningen, cioè “Università Tecnica” dello Jutland, ha assunto l’attuale denominazione
nel 1933 ed è, oggi, un vasto e modernissimo campus in
continuo ampliamento, reputato il secondo Ateneo della
Danimarca dopo quello di Copenaghen e tra i primi 100
nel Mondo (1) (fig. 1).
Nel 2007, quando il Ministero della Cultura della Danimarca pubblicò il Canon of Danish Art and Culture, la
struttura generale, comprensiva dei suoi numerosissimi
edifici e del vasto parco circostante, è stata inclusa tra le
12 opere più importanti e rappresentative della Nazione. L’attuale sede, infatti, è stata considerata una delle
architetture più significative del Funzionalismo danese
e dell’architettura contemporanea scandinava, poiché
esprime appieno le istanze del Movimento Moderno in
una declinazione chiaramente regionale, dove trovano
posto i principali temi della tradizione costruttiva autoctona: i materiali, la luce e il paesaggio (2).
Protagonista è il vasto parco, in cui sono immersi i
differenti corpi di fabbrica, dislocati liberamente soprattutto lungo il perimetro esterno del campus e in modo da
accompagnare il naturale andamento orografico del terreno: un lotto dalla irregolare forma trapezoidale, delimitato da quattro arterie stradali e attraversato dal lungo asse
di Vestre Ringgade fino a Norde Ringgade, su cui prospettano gli uffici amministrativi, il Centro conferenze e,
frontalmente, il cosiddetto Main Building, l’imponente
edificio principale, icona dell’intero complesso universitario. Questo, caratterizzato dall’omogeneo paramento in
muratura dal tipico colore giallo del mattone locale − comune denominatore dell’intero campus, sotto cui si uniformano con organicità e coerenza i numerosi e successivi
interventi ancora in atto − si distingue dall’austera stereometria della restante struttura, emergendo con la sua
altezza e l’ampia vetrata aperta sul parco.
L’Università di Århus, per l’appunto, è il risultato di
un lungo iter concorsuale, intrapreso agli inizi degli anni
Trenta, le cui vicende sono sintomatiche del vivace clima culturale che il Paese stava vivendo in quel periodo,
quando, prima, l’Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali di Parigi nel 1925, poi, la Fiera
Campionaria di Turku nel 1929 e, soprattutto, nel 1930,
l’Esposizione di Stoccolma avevano portato alla ribalta
della scena internazionale la produzione delle regioni bal-
tiche, ormai affrancate dalle ultime trecce di un linguaggio nazional-romantico e dal Classicismo nordico (3).
Tuttavia, erano state soprattutto le opere di Erik Gunnar Asplund, Sven Markelius, Arne Korsmo a conquistare la scena mondiale con una produzione ricca di vitalità, innovazione, varietà, rigore stilistico e alto livello
tecnologico; mentre minore attenzione era stata rivolta
alla produzione danese. Anche la Danimarca, però, stava
conducendo il suo percorso di adesione alle nuove istanze grazie a una costante ricerca formale, da cui trapelava
un’innata inclinazione a usare la storia in modo disinvolto, con un coerente processo di elaborazione dei temi
della tradizione e un raffinato gusto per il landscape, pur
legandosi indiscutibilmente al rigore razionalista e a un
Funzionalismo di matrice sociale (4).
Scrive infatti Stefano Ray: “qualora si identifichi l’architettura moderna con quella sua particolare accezione che si
è convenuto chiamare razionalismo, … è indiscutibile che
il lessico … venga adottato nei paesi scandinavi … intorno
al ’30, e che prima di allora non si diano fenomeni la cui
portata possa suggerire il paragone con quanto contemporaneamente accade in altre nazioni, in Germania, soprattutto, e in Francia, in Inghilterra, in Olanda. Se dicendo
‘movimento moderno’, tuttavia, si intende non solo il razionalismo … ma l’intero complesso di operazioni attraverso le quali, in un periodo di circa centocinquanta anni, la
cultura architettonica ha elaborato una nuova metodologia,
per aderire ai nuovi contenuti posti in evidenza dalla società
industriale, anche i paesi scandinavi, nei limiti di tempo e
secondo i modi delle rispettive evoluzioni tecnologiche, sociali e culturali, appariranno inseriti nel medesimo processo
di modificazione dell’ambiente umano” (5).
Protagonista di questa stagione di trapasso e caposcuola del modernismo danese fu appunto Kay Fisker, il quale
si era già imposto all’attenzione della cultura architettonica e del design proprio con il padiglione presentato
all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1925 (6).
Fu questo il singolare clima culturale che, ad Århus,
quando si intraprese la costruzione del nuovo e più ampio
edificio per gli studi universitari, portò al superamento
del progetto redatto da una commissione interna di accademici e, successivamente, sei anni più tardi, all’approvazione di quella soluzione avanzata dagli architetti Kay
Fisker, C.F. Møller, Povl Stegmann (che lavorò fino al
1937) e dal paesaggista Carl Theodor Sørensen (7).
209
Fig. 1 - Århus, campus
dell’Università. Vista generale
dall’alto.
L’occasione, in realtà, si era presentata proprio nel 1925,
allorché, l’Universitets-Samvirket, cioè l’Associazione Universitaria di Århus, fondata nel 1921 da un ampio numero
di cittadini e dal Consiglio Comunale, era riuscita a diventare sede universitaria dello Jutland. Ottenuta una vasta
area pubblica dalle autorità locali, conseguentemente, erano state avanzate diverse proposte, tutte orientate verso una
struttura predisposta a future prospettive di sviluppo. Tra
queste, nel 1926, rispondendo alle richieste del Ministero
dell’Educazione, l’architetto Martin Borch aveva elaborato un progetto, che, sebbene rispondesse pienamente alle
esigenze funzionali richieste e fosse aderente al linguaggio
ufficiale del Classicismo nordico, non fu accettato perché
ritenuto formalmente troppo rigido per il carattere del sito
in dolce declivio (8). Basato su un impianto planimetrico
dal consueto schema simmetrico rispetto ad un asse, infatti,
si componeva di un edificio principale, il quale, generato
da rigorose costruzioni geometriche estranee alle linee orografiche del luogo, se realizzato, avrebbe dominato il contesto paesaggistico al punto che Borch aveva previsto anche
un intervento di alterazione della conformazione naturale,
colmando l’avvallamento e sbancando un piccolo colle, per
adattarne la pendenza all’impianto (fig. 2).
Benché scartata, la proposta fu l’occasione perché il
Ministero si orientasse verso un impianto più complesso,
210
dove non solo fossero contemplate strutture amministrative e didattiche, residenze studentesche e aree ricreative,
ma si favorisse la stretta collaborazione e frequentazione
quotidiana tra docenti e discenti. Fu quindi indetto un
primo concorso al seguito del quale, nel 1927, Fritz Schlegels ebbe la medaglia d’oro per una soluzione non dissimile da quella di Borch. Finché, nel 1928, con la fondazione
dell’Università Tecnica dello Jutland, si decise di spostare
la sede altrove e, individuata una area più vasta dove realizzarla, si bandì una nuova gara nel 1931. Si richiese
il disegno del master plan generale e di un edificio in cui
fossero previsti l’Istituto di Chimica, Fisica e Anatomia,
il Gabinetto di Anatomia e sale per lo studio delle lingue.
Tra i progetti presentati, emersero due proposte indubbiamente rivoluzionarie per quei tempi di trapasso espressivo. Entrambe redatte da Fisker, C.F. Møller e
Stegmann, a dispetto della reazionaria cultura accademica
danese, guardavano alle coeve innovative interpretazioni
del campus universitario. Inoltre, fondate sul decentramento e sulla diversificazione dei corpi di fabbrica, grazie
anche all’apporto dell’architetto paesaggista C.Th. Sørensen, rispondevano, con una sorprendente integrazione di
modernità e di tradizione, alle sollecitazioni dell’ambiente circostante in cui si sarebbero dovute inserire, fino a
enfatizzare le peculiarità naturali del luogo. Tali caratte-
Fig. 2 - Progetti per il campus dell’Università di Århus: a) Martin Borch, 1926; b) Fritz Schlegels, 1927 (da MØLLER 1978,
pp. 13-14).
ristiche furono acutamente percepite da parte della critica
architettonica italiana del tempo, così come testimoniano
alcuni articoli pubblicati in quegli anni da «Casabella» e,
in particolare, quello di Riccardo Rothschild, il quale, nel
1934, affiancando l’originale concezione del master plan di
Århus alla più nota Cité degli studi pianificata a Parigi da
Dudok e Le Corbusier, osservò quanto, nel progetto danese, “l’architettura non sembra più imposta al paesaggio
ma cresciuta in esso” (9) (fig. 3).
Per quanto attiene al modello formale, come dichiarò
lo stesso C.F. Møller, un esplicito riferimento culturale
fu la pressoché coeva Bundesschule ADGB di Barnau bei
Berlin, realizzata tra il 1928 e il 1930 da Hannes Meyer
con il suo partner Hans Wittwer, ma introducendo quegli elementi della tradizione ricordati in precedenza, quali il tetto a falda e il ricorso al mattone giallo, peculiare
della cultura rurale danese.
Il progetto finale, quello approvato e reso esecutivo tra
il 1932 e il 1933, per rispondere a richieste esplicitamente
avanzate dalla committenza, però, prese maggiori distanze dalla radicale espressività del maestro della Bauhaus.
D’altra parte, Kay Fisker, laureatosi alla Royal Danish
Academy of Fine Art, aveva studiato presso alcuni dei
più noti architetti del Movimento Moderno scandinavo
e, in particolare, con Anthon Rosen, Sigurd Lewerentz,
Hack Kampmann e Erik Gunnar Asplund, cui pagava un
indiscutibile debito formativo. Indicato dalla storiografia
come il caposcuola del Funzionalismo sociale della Danimarca, Fisker ad Århus nel 1928 aveva costituito uno
studio professionale con C.F. Møller, con cui lavorò fino al
1942, contribuendo in modo decisivo a imprimere la svolta culturale e figurativa del paese, grazie a un’operazione
intellettuale di rivisitazione dei consueti schemi abitativi,
piuttosto che introducendo nuove tipologie (10).
Tra il 1922 e il 1923, infatti, a Copenaghen, nel quartiere popolare di Nørrebro, aveva proposto un interessante complesso edilizio a blocco, da cui erano proseguite le
sue ricerche al riguardo, fino a quello di Voldparken e al
più noto Dronningegård, realizzati nel dopoguerra (11).
La premessa di queste architetture erano stati gli studi
di Povl Baumann sulla reinterpretazione in chiave contemporanea degli impianti residenziali regionali. Il suo
apporto, però, era stato determinante nell’introduzione
di elementi costruttivi in uso dalla cultura architettonica del Moderno, fino ad allora assolutamente estranei in
Danimarca, come l’uso della scala all’interno degli edifici
e il ricorso al balcone per caratterizzare cromaticamente e formalmente la scansione delle facciate. Elemento,
quest’ultimo, ricorrente anche nelle residenze studentesche dell’Università di Århus.
Il sodalizio con C.F. Møller, poi, era stato particolarmente
fecondo in tal senso e aveva prodotto opere quali le raffinate
e colte residenze funzionaliste nel quartiere di Vestersøhus
a Copenaghen (1935-39) oppure l’imponente edificio sul-
211
Fig. 3 - Århus, campus dell’Università. K. Fisker, P. Stegman, C.F.
Møller con C.Th. Sørensen, la Facoltà di Chimica, Fisica e Anatomia in una foto degli anni ’50 (da MØLLER 1978, p. 24).
la Vodroffsevj, nella municipalità di Frederiksberg, in cui
si individuano espliciti riferimenti linguistici legati agli
insegnamenti di Walter Gropius; mentre, ad Århus, è da
ricordare l’ospedale comunale (1933-35) (12).
Il Campus universitario, tuttavia, resta la sua opera
più nota, anche se, sciolto il sodalizio con C.F. Møller,
quest’ultimo ne diventò l’unico progettista dal 1942 e,
fondato un nuovo studio professionale, ne seguì il lavoro
fino alla sua morte. In seguito, i numerosi soci – tra i quali ricordiamo Henning Jensen, David Birnbaum, Jørn Bisgaard, Poul Zacho Rath, il figlio Mads, Lars Kirkegaard,
Anna Maria Indrio, Klaus Toustrup – hanno continuato
fino ad oggi a realizzarvi nuovi dipartimenti, ulteriori
strutture, abitazioni e alloggi. Del progetto originario,
quello che risultò vincitore al concorso bandito nel 1931,
essi ne stanno preservando l’uniformità e l’omogeneità
formale delle sue architetture, l’integrità del disegno del
parco e le qualità relazionali tra natura e artefatto.
All’interno del perimetro trapezoidale, tracciato su un
terreno morenico dalle differenti pendenze, trovano posto differenti edifici, distinti nelle scale volumetriche, ma
dalle medesime caratteristiche prismatiche esplicitamente
mutuate dalle tradizionali antiche case rurali danesi, con
tetto a falde in tegole gialle e murature in filari di mattoni anch’essi gialli. É però nel trattamento delle facciate,
prive di aggetti e con regolari aperture a nastro o ampie
vetrate, che Fisker, C.F. Møller e Stegmann introdussero
alcuni dei principali elementi innovativi, così da connettersi alle esperienze del Movimento Moderno. Dislocati
soprattutto lungo il perimetro del campus per lasciare
ampie aree verdi al suo interno, gli edifici furono affiancati tra loro in una composizione a “L” – oppure ad “ala” – e
furono disposti liberamente nel parco per accompagnarne
i morbidi declivi, fino a enfatizzarne le peculiarità naturali
in una completa osmosi con il paesaggio circostante e in
un gioco di curve e piani traslati, che trova rimandi negli
Fig. 4 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale
con l’Aula Magna e il teatro
all’aperto. Pianta del primo
livello (da MØLLER 1978,
p. 62).
212
Fig. 5 - Århus, campus dell’Università. Planimetria generale nel 1978 (a sinistra) e schema con la cronologia delle maggiori fasi di ampliamento avvenute tra il 1929 e il 1978 (a destra) (da MØLLER 1978, pp. 183; 181).
arredi interni, segnatamente, in quelli dell’Aula Magna.
Con la precisione, sia nelle indicazioni delle linee guida
redatte nel 1988, sia nel del master plan del 2001, C.F.
Møller associò il segno planimetrico di questi edifici nel
contesto del verde all’immagine di gabbiani che si preparavano a spiccare il volo direttamente dal suolo.
Per quanto attiene l’organizzazione gerarchica delle
parti che compongono il campus, il blocco compatto delle residenze degli studenti e del Main Building, l’Aula
Magna, l’Auditorium e la biblioteca furono concentrati
lungo la strada anulare di Nordre Ringgade, mentre i
dipartimenti e le facoltà si sarebbero dovuti sviluppare
verso i limiti meridionali del perimetro.
I lavori iniziarono già nel 1932 nella parte nord, dove,
in posizione dominante, fu realizzata la Facoltà di Chimica, Fisica e Anatomia; nel 1935 fu completato il primo
blocco delle residenze studentesche e, due anni dopo, gli
istituti di Biochimica e Fisiologia. Nel 1938 fu avviata la
costruzione del Museo di Storia Naturale, inaugurato nel
1941, quando fu terminato anche l’Edificio Principale,
su progetto di C.F. Møller, per ospitare l’Aula Magna, le
facoltà di Arte, di Economia e di Legge e la biblioteca;
mentre, all’esterno, fu realizzato frontalmente il teatro
all’aperto con la gradonata degli spalti disposti ad arena.
Considerato dall’architetto e critico Nils-Ole-Lund il
più significativo esempio della monumentalità modernista danese insieme all’auditorium, durante la sua costruzione, nel 1944, fu distrutto da una bomba e inaugurò
solo due anni più tardi (13). Impostato su una pianta esagonale, il compatto e tettonico volume dell’Aula Magna,
conclusa da una copertura a falde, si erge in posizione
dominante rispetto al parco prospiciente (fig. 4). Tuttavia, alla grevità del suo involucro si contrappone l’ampia
vetrata della facciata principale. Aperta sulla costruzione del paesaggio circostante sapientemente disegnato da
Sørensen e sul teatro, essa instaura quel serrato dialogo tra
architettura e natura, tra interno ed esterno, che ancora
una volta richiama ai temi vernacolari danesi dell’abitare.
213
Fig. 6 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale e teatro all’aperto. Vista dal retro (da MANZO 2004, p. 137).
La sua vasta sala a doppia altezza, che raggiunge 19
metri, richiese speciali studi di acustica, come, per esempio, i cosiddetti “silenziatori”, cioè piccoli fori che possono essere chiusi e aperti per regolare l’acustica e altri più
grandi dalla forma ovale, costruiti a mano, pensati per
favorire la ventilazione della stanza. Dal fondo, le pareti
in tessitura di mattoni definiscono in modo netto il cannocchiale prospettico verso il parco e, ancor più, sull’arena del teatro all’aperto, ponendosi come uno squarcio
nella massa muraria, così da connotarla di una leggerezza
inaspettata e suggestiva.
Anche all’interno, dunque, il risultato è sintesi di modernità e tradizione, enfatizzata e sottolineata dalle slanciate nervature in cemento armato, che introducono una
chiara nota innovativa sulla consueta cromia del laterizio
giallo, traccia marcata di un passato costruttivo autoctono. Tutto è poi ricondotto a quella calda intima atmosfera degli ambienti scandinavi, accompagnata dagli imponenti lampadari a spirale disegnati da Poul Henningsen
e, qui, riproposta grazie all’uso del legno per gli arredi
e i rivestimenti, così come avviene anche nelle altre sale
comuni e negli alloggi.
La pregnante valenza simbolica di questa architettura,
parimenti a quel suo tono sommessamente domestico e
identitario, con cui dialoga con il contesto naturale e con
cui esplicita quei temi della rogeriani “misura umana”,
ritrovata dai nostri professionisti nell’opera dei Maestri
del Nord Europa, ha costituito un modello per molti del
secondo dopoguerra; basti pensare all’Aula Magna realizzata tra il 1950 e il 1957 da Giuseppe Nicolosi a Perugia
per l’Ateneo umbro (14).
Il resto del campus di Århus si è sviluppato gradualmente, sebbene un forte incremento si ebbe soprattutto
negli anni ’60, periodo particolarmente florido per l’economia danese, durante il quale furono acquistati lot-
214
ti limitrofi per l’espansione verso ovest. Tra il 1961 e
il 1966, infatti, furono terminati, prima, la Scuola di
Odontoiatria e, poi, il Museo delle Arti; nel 1963 fu costruita la Biblioteca e, nel 1964, l’edificio per gli uffici
amministrativi, nell’area periferica a nord del parco. Recentemente, tra il 1979 e il 2001, l’Università è cresciuta
del 75%, espandendosi anche oltre il perimetro incluso
nel master plan del 2001 (fig. 5).
Dal 1999, i dipartimenti di scienze umane sono stati
collocati in un campus satellite, detto Nobel Park, situato
proprio frontalmente, caratterizzato dall’addensamento di
edifici per così dire “cuboidi” in mattonelle rosse e scale in
vetro. Ciò, purtroppo, determina uno stridente contrasto
con l’uniformità cromatica e con la quiete atmosfera, volute da C.F. Møller. Sono stati inoltre previsti uno spazio
per eventi, un’area di apprendimento interdisciplinare e
sale per riunioni sociali. Nel 2001 è stato terminato l’Auditorium e nel 2009, su progetto di Frank O. Gehry, poco
distante, esternamente alla propaggine meridionale del
recinto trapezoidale, è stato inaugurato il Cancer Society Counseling Center, noto come Hejmdal o Cancer Patients House. Ispirato ai Centri Maggi del Regno Unito,
nasce dalla trasformazione di un preesistente edificio del
1908, progettato dall’architetto danese Rudolf Clausen,
che fungeva da gateway all’ospedale di Århus. Di questo,
è stato conservato l’involucro e le bucature originarie, ma,
all’interno, sono stati inseriti due nuovi livelli a partire da
quello della casa. Questi, supportati indipendentemente
dalle pareti esterne, creano uno spazio ininterrotto, permettendo alla luce naturale del nuovo tetto di vetro di
raggiungere tutti i livelli della casa (15).
Sebbene, dunque, si possa pensare che il notevole incremento edilizio, oggi, abbia fatto parzialmente perdere
all’Università quell’idea di vasto parco impressa da Sørensen, essa non è mai stata compromessa all’interno dell’ori-
Fig. 7 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale con l’Aula Magna, il teatro all’aperto e il parco. Vista dall’alto (da MANZO
2004, p. 135).
ginario recinto del Campus, così che il suo verde è diventato un importante polmone per la città di Århus. Sono state
preservate anche l’omogeneità formale e la qualità degli
standard del progetto architettonico di C.F. Møller, il cui
studio associato, come si è detto all’inizio, continua a sovrintendere allo sviluppo del suo master plan.
In conclusione, al di là degli indiscutibili valori ambientali e degli altissimi standard di vivibilità del campus, l’Università di Århus non può non essere considerata
una delle icone più rappresentative dell’architettura danese contemporanea, restando ancora oggi unica nel suo
genere.
Comune denominatore di questi ottant’anni di sviluppo architettonico è la tessitura in mattoni gialli, con
cui ci si continua ad esprimere sempre nell’attualità di
un linguaggio coevo, pur conservando un forte legame con la tradizione. Qualità, queste, tali da rendere
il campus un’opera atemporale e con una forte carica
identitaria (figg. 6-7).
(1) https://www.topuniversities.com/university-rankings/worlduniversity-rankings/2018.
(2) Henningsen 1927; Jørgensen 1982; Manzo 2004.
(3) Manzo 2004.
(4) Sui temi del Funzionalismo, si legga quanto scrive lo stesso
Kay Fisker: Fisker 1947, poi pubblicato anche in Fisker 1950.
(5) Ray 1965, pp. 19-20.
(6) Per approfondimenti su Kay Fisker si vedano Tintori
1960; Faber 1995. Sul ruolo da lui esercitato nella svolta della
Danimarca dal Classicismo nordico al Funzionalismo si rimanda a
Jørgensen 1982.
(7) Faber 1946; Aleck, Kreb, Illum 1978.
215
(8) Møller 1978.
(9) Rothschild 1934, p.13; si veda anche Skriver 1991.
(10) Modern Architecture 1925; Faber 1963; Asgaard Andersen
2008.
(11) Manzo 2012.
(12) Ibidem.
(13) Lund 1991.
(14) Manzo 2010.
(15) Coulson, Roberts, Taylor 2015, pp. 189-194.
Bibliografia
Aleck, Kreb, Illum 1978
G. Aleck, C. Kreb, K. Illum, Århus Universitet 1928-1978,
Århus 1978
Asgaard Andersen 2008
M. Asgaard Andersen (a cura di), Nordic Architects Write.
A documentary anthology, New York 2008
Coulson, Roberts, Taylor 2015
J. Coulson, P. Roberts, I. Taylor, University Planning and
Architecture: The Search for Perfection, London-New York 2015.
Faber 1946
K. Faber, Opbygningen af Århus Universitet, Copenhagen 1946
Faber 1963
T. Faber, Dansk Arkitektur, Copenhagen 1963
Faber 1995
T. Faber, Architect Kay Fisker, Copenhagen 1995
Fisker 1947
K. Fisker, Funktionaliismens Moral, in «A5», 1947, 4, pp. 7-14
Fisker 1950
K. Fisker, The Moral of Functionalism, in «Magazine of Art»,
1950, 2, pp. 62-67
Henningsen 1927
P. Henningsen, Tradition og Modernisme, in «Kritisk Revy»,
1927, 3, pp. 30-46
Jørgensen 1982
L.B. Jørgensen, Tradizione e classicismo in Danimarca, in Classicismo nordico. Architettura nei paesi scandinavi 1919-1930, Milano
1982, pp. 25-52
Lund 1991
N.-O. Lund, Nordisk arkitecktur, Copenhagen 1991
Manzo 2004
E. Manzo, Architettura danese contemporanea, Napoli 2004
Manzo 2010
E. Manzo, I “chierici” del Moderno. L’Italia della continuità in provincia: l’Umbria e Perugia, in A. Giannetti, L. Molinari (a cura
di), Continuità e crisi. Ernesto Nathan Rogers e la cultura architettonica
italiana del secondo dopoguerra, Firenze 2010, pp. 153-168
Manzo 2012
E. Manzo, L’housing a Copenhagen tra tradizione e modernismo, in
«Palladio», luglio-dicembre 2012, 50, pp. 81-86.
Modern Architecture 1925
Modern Architecture in Denmark, Copenhagen 1925
Møller 1978
C.F. Møller, Århus Universitets bygninger, Århus 1978
Ray 1965
S. Ray, L’architettura moderna dei paesi scandinavi, Bologna 1965
Rothschild 1934
R. Rothschild, Istituto di Chimica Fisica e Anatomia all’Università di Århus, in «Casabella», maggio 1934, 77, pp. 12-19
Skriver 1991
P.E. Skriver, L’Università di Århus: un progetto di lunga durata, in
«Casabella», 1991, nn. 584-585, pp. 46-63
Tintori 1960
S. Tintori, Kay Fisker, architetto danese, in «Casabella-Continuità», maggio 1960, 239, pp.4-21
THE ÅRHUS UNIVERSITETSUNDERVISNINGEN CAMPUS IN DENMARK: URBAN PLANNING,
ARCHITECTURE AND DESIGN AS EXPLAINED BY KAY FISKER, C.F. MØLLER AND POVL STEGMANN
The campus Universitetsundervisningen in Århus was designed by K. Fisker, C.F. Møller and P. Stegmann, winners of the 1931 architecture competition,
and by landscape architect C. Th. Sørensen. Since then, it has been preserving the consistency of the architectural language and the homogeneity of shapes. It
lies mostly on a trapezoidal area and it is characterized by yellow-brick buildings spread out in a 580,000 m2 park. The plan was very innovative both
because of such dispersed layout, based on the different functions of each building, and for its design pattern, which is a fluid integration of architecture and
landscape, tradition and modernism. For this reasons Aarhus University is the most representative example of Danish Functionalism and in 2007 it was
included in the Canon of Danish Art and Culture as one of the 12 most important architectural works. The essay investigates from a new critical point of
view the Aarhus University’s long architectural evolution up to the present day.
216
L’ETH DI ZURIGO: DAL ‘COLLEGIO’ ALLA CITTÀ UNIVERSITARIA
Andrea Maglio
La storia del Politecnico di Zurigo comincia nel 1854,
quando con apposita legge il parlamento svizzero istituisce una ‘scuola politecnica federale’ per lo studio delle
scienze esatte, politiche e umanistiche. Nell’ottobre del
1855, ancora in assenza di una sua sede, la nuova struttura inizia la propria attività occupando alcuni spazi in
edifici zurighesi preesistenti. Tale vicenda si lega a quella del nuovo ordinamento della nazione, poiché solo nel
1848 era stata fondata la Confederazione Elvetica in sostituzione della precedente confederazione di cantoni.
Nel 1850 era quindi stato bandito il concorso per la costruzione della sede del parlamento a Berna, primo atto
di una storia lunga e tormentata che si concluderà con
l’inaugurazione ufficiale solo nel 1902. Si tratta quindi
di anni decisivi per la costruzione di edifici di alto valore
simbolico e rappresentativo, capaci di riflettere aspirazioni e visioni del nuovo stato. In questo contesto culturale e
politico si situa anche la fondazione del Politecnico, la cui
sede riveste un carattere decisivo, dovendo rappresentare
il progresso culturale della nazione e in qualche modo
giocare un ruolo nel processo di costruzione dell’identità
nazionale.
La nascita di tale sede è legata alla figura di Gottfried
Semper che, grazie all’intervento di Richard Wagner, diviene docente presso il Politecnico di Zurigo nel 1855,
proprio nell’anno della sua inaugurazione. Per fondare
una scuola di architettura, quella che è destinata a divenire la struttura universitaria più importante della
Confederazione Elvetica e una delle più importanti al
mondo ricorre a un assoluto protagonista del dibattito
disciplinare degli ultimi decenni. Negli anni precedenti,
anche in relazione al suo ‘passaggio’ a Londra, Semper ha
pubblicato prima, nel 1851, Die vier Elemente der Baukunst, e poi, l’anno successivo, il celebre Wissenschaft, Industrie und Kunst, con tutti i rimandi alla Greater London
Exhibition tenutasi nell’estate del 1851 nella capitale
britannica. Sebbene non abbia quindi ancora pubblicato
il suo lavoro teorico di maggiore notorietà, ossia Der Stil,
la sua produzione gli assicura una visibilità amplissima.
L’amburghese è però anche l’autore di edifici in grado di
assicurargli una fama internazionale, come soprattutto lo
Hoftheater di Dresda (1838-41) (1). A Zurigo è quindi
invitata una sorta di archistar dell’epoca, a cui è affidata
non solo una cattedra, con l’idea di fondare una ‘scuola’
di architettura ma, dopo alterne vicende, anche il delicato incarico di realizzare la sede della nuova struttura
universitaria. A conferma del prestigio di cui già gode
all’arrivo nella città svizzera, sempre nel 1855 Semper è
nominato ‘professore a vita’ per volontà del Bundesrat.
D’altro canto, impossibilitato a costruire edifici rilevanti
per diversi anni nel corso dei suoi soggiorni parigino e
londinese, l’architetto amburghese ha adesso la possibilità di riversare nella pratica il suo complesso impianto teorico cimentandosi in particolare, ma non solo, nel campo
dell’architettura universitaria.
L’edificio principale del Politecnico
Quello che oggi è chiamato Hauptgebäude, o ‘sede
centrale’, per distinguerlo dai numerosi edifici successivi, è realizzato tra il 1858 e il 1864 da Semper insieme a
Caspar Wolff, ispettore edilizio cantonale, responsabile
in particolare della direzione dei lavori. Inizialmente il
ruolo di Semper è più marginale, poiché è solamente
membro della giuria in un concorso bandito nel dicembre del 1857, con scadenza nella primavera dell’anno
successivo (2). Il concorso si conclude senza vincitori e
tale esito non è probabilmente casuale se dopo solo due
mesi, a seguito di un esame dell’ordine degli ingegneri
e di quello degli architetti e dopo il giudizio di Wolff, il
governo cantonale affida l’incarico direttamente a Semper e a Wolff stesso.
Semper si discosta dal programma iniziale del bando,
riunendo in un unico edificio gli spazi per le aule e i laboratori con quelli espositivi, lasciando separato solo lo
Chemiegebäude, ossia l’Istituto di Chimica (3). Lungo
125 metri e largo 75, l’edificio si articola su due corti
interne, separate da un braccio contenente l’Antikensaal
(4), da Semper chiamata anche Vestibulum, una vasta
sala espositiva per calchi in gesso concepita come perno
del sistema dei percorsi (5). La suddivisione delle funzioni avviene accorpandole per ogni tratto, in verticale,
con corpi scala separati: il braccio meridionale è occupato dagli spazi per l’università – distinta dal Politecnico –, quello settentrionale dalle aule da disegno, quello
orientale dalle sale espositive e quello occidentale dagli
uffici e dalle sale conferenza. I quattro prospetti sono
tutti caratterizzati da un avancorpo centrale, ma i due
principali, ossia quello occidentale e quello orientale,
presentano anche avancorpi angolari e un linguaggio più
aulico nel blocco centrale (figg. 1-2). In realtà, seppur
unificati da un livello basamentale uniforme, i quattro
prospetti sono differenti uno dall’altro e quello settentrionale, corrispondente agli spazi per il disegno, ai due
livelli superiori è rivestito di intonaco con la tecnica del-
217
Fig. 1 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude, 1858-64: pianta del piano terra (da OECHSLIN 2005).
lo ‘sgraffito’, realizzato nel 1863 dagli artisti di Dresda
Adolf Wilhelm Walther e Karl Gottlob Schönherr
(fig. 3). Tipica del tardo medioevo e del rinascimento
italiano – soprattutto toscano –, bavarese e svizzero, e
già descritta anche da Vasari, questa tecnica trova nuova
diffusione anche nel secondo Ottocento e non è un caso
se sia recuperata da Semper, appassionato cultore del rinascimento (6).
Già in una conferenza a Dresda di oltre quindici prima
Semper aveva sostenuto che la forma migliore per gli edifici per l’istruzione dovesse rimandare al tipo conventuale
(7). Al centro dell’impianto, in posizione dominante, invece della chiesa, egli inserisce l’Antikensaal, mentre nel
corpo centrale della facciata principale, al secondo piano
e non al ‘piano nobile’, l’Aula Magna, pensata per lo svolgimento di feste e cerimonie (8). Tale posizione è abbastanza anomala, ma al piano terra Semper non intende
interrompere l’asse corrispondente all’ingresso principale
che prosegue nell’area museale, tanto da disporre anche
le scale in posizione laterale.
218
Alcune scelte nei riferimenti adottati, come ad esempio
l’assenza del motivo dell’arco trionfale, rispecchiano un
contenuto politico, con l’obiettivo di rappresentare un ideale repubblicano e non assolutistico (9). In realtà, sebbene
quello del ‘tipo’ sia uno dei temi privilegiati della cultura
ottocentesca, a cominciare dal trattato di Durand (10), quello dell’edificio universitario non è ancora codificato e pochi
sono i possibili esempi di riferimento. Nel 1836 erano stati
completati due celebri edifici, quali la Bauakademie berlinese di Karl Friedrich Schinkel e il Politecnico di Karlsruhe
di Heinrich Hübsch (11): soprattutto sul piano tipologico,
quello zurighese differisce sensibilmente dai due esempi
tedeschi, laddove il primo assume la forma di un blocco
cubico compatto con una stretta corte, mentre il secondo
presenta uno sviluppo longitudinale senza corte. Inoltre,
nel 1840 era stato completato da Friedrich von Gärtner l’edificio per l’università di Monaco su Ludwigstrasse, dove
l’Aula Magna, a differenza degli altri casi, è in posizione
decentrata. Invece, il progetto semperiano si relaziona ad
un altro edificio ben noto, terminato nel 1849, ossia il
Fig. 2 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude, 1858-64: veduta, ca. 1900 (da HASSLER, KAINZ 2016).
Museo di Basilea di Melchior Berri, l’attuale Museum für
Natur- und Völkerkunde. L’edificio sorge sul posto di un
precedente convento agostiniano e deve inizialmente avere
una funzione mista di museo e università, fondendo così
i due poli relativi ad ‘arte’ e ‘scienza’. Formatosi presso
Weinbrenner a Karlsruhe e poi a Parigi, autore di un interessante soggiorno italiano condotto per lo più insieme
a Karl Joseph Berckmüller (12), Berri si richiama a sua
volta proprio al prototipo schinkeliano della Bauakademie.
Semper va chiaramente oltre il riferimento conventuale,
nella consapevolezza che un edificio universitario, per di
più di strategica importanza, non può essere posto sullo
stesso piano di un qualunque edificio scolastico. È stato
osservato come possibili riferimenti del progetto semperiano siano la tradizione del ‘collegio’, specialmente esempi
italiani, come quelli di Roma e Bologna, nonché quella del
college inglese (13). Ci sembra di poter aggiungere che altro
possibile modello possa essere costituito dal Museo Borbonico di Napoli, peraltro già sede dell’università dal 1616
al 1777, articolato su due corti con un braccio intermedio
di altezza maggiore e da Semper visitato già nel corso del
suo primo soggiorno a Napoli nel 1831 (14).
Le trasformazioni dello Hauptgebäude
Sebbene rivesta un ruolo simbolico decisivo per la città
e per l’intera Confederazione, e nonostante il prestigio del
suo autore, l’edificio principale del Politecnico, nella configurazione semperiana, ha una vita relativamente breve e
meno di cinquanta anni dopo la sua inaugurazione viene
radicalmente modificato. Infatti, in seguito al trasferimento dell’università in un’altra sede, l’ala orientale è messa
a disposizione del Politecnico finché, dopo aver vinto un
concorso nel 1908, Gustav Gull ottiene l’incarico di ripensare radicalmente l’assetto dell’intero edificio (15). I lavori,
eseguiti tra il 1915 e il 1925, prevedono l’abbattimento
dell’Istituto di Chimica, e di conseguenza una ricostruzione del prospetto orientale che fronteggiava l’istituto
(figg. 4-5): Gull ribalta l’ingresso principale, trasferendolo
219
ciate semperiane in maniera pedissequa sia quelli che non
tengono in alcun conto la preesistenza. L’idea della nuova
sala passante a quattro livelli nel braccio tra le due corti reinterpreta il precedente di Semper, pur volgendo la
nuova facciata monumentale dal lato di quello che era il
prospetto posteriore, che nel corso degli anni ha però visto
sorgere diversi edifici universitari: seppur non esente da
critiche (17), proprio in un’ottica di ‘rivalità’ con la sede
dell’università, la monumentale cupola del fronte orientale
assume una funzione decisiva nel nuovo Politecnico.
Le trasformazioni dell’edificio continuano anche nella
seconda metà del Novecento. Riprendendo una precedente proposta di Hans Hofmann, tra il 1966 e il 1978
Alfred Roth e Charles-Edouard Geisendorf realizzano
una serie di modifiche, di cui la più significativa riguarda
le due corti dell’edificio, ora coperte da strutture vetrate, in cui sono realizzati due auditorium speculari (18).
Attualmente sono previste nuove modifiche, in special
modo per quanto riguarda l’area edificata da Gull (19).
La cittadella universitaria
Fig. 3 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude,
1858-64: facciata nord con lo sgraffito, 1920 (da HASSLER, KAINZ
2016).
sul prospetto orientale, dove aggiunge due ali ortogonalmente al prospetto e sostituisce il corpo scale centrale con
un corpo semicilindrico coperto da cupola, contenente un
vasto auditorium e prospiciente una sorta di cour d’honneur;
tale corpo semicilindrico costituisce l’elemento terminale
dell’asse centrale che passa per il braccio tra le due corti,
dove un’ampia sala, alta tre piani, sostituisce l’Antikensaal
di Semper, distrutta senza alcun riguardo.
Concepito alle soglie della stagione delle avanguardie
ma ancora con un’ottica ottocentesca, tale intervento è giudicato come ‘reazionario’ dalla cultura architettonica più
radicale, in particolare da figure come quella di Sigfried
Giedion (16). D’altronde Gull ha terminato nel 1901 la
costruzione dello Stadthaus zurighese, un edificio neogotico per l’amministrazione della città, fortemente legato ai
temi dell’eclettismo ottocentesco. La giuria del concorso
per il Politecnico premia tuttavia proprio tale soluzione
‘intermedia’, eliminando sia i progetti che imitano le fac-
220
Il terzo edificio realizzato per il Politecnico è quello della
Sternwarte (l’Osservatorio), realizzato da Semper nel 1864,
a cui segue la Land- und Forstwirtschaftliche Schule (Istituto di scienze agricole e forestali), realizzato da Otto Weber e terminato nel 1874. Poiché il Politecnico si espande
in maniera abbastanza rapida, tra gli ultimi decenni del
XIX secolo e l’inizio del successivo sono realizzati diversi altri edifici. Negli anni Trenta Otto Rudolf Salvisberg,
architetto svizzero ma molto attivo in Germania, realizza
una delle architetture più interessanti della fase ‘modernista’ con pianta libera, largo uso del vetro e tetto-giardino. Si tratta della ristrutturazione e dell’ampliamento
del Maschinenlaboratorium, insieme al Fernheizkraftwerk
(1930-1935). A differenza di Gull, Salvisberg non nasconde le parti infrastrutturali, soprattutto nella centrale per
il riscaldamento, applicando l’approccio tipico del Neues
Bauen tedesco e rifacendosi a un’estetica sachlich (20).
All’architettura monumentale e isolata del primo edificio del Politecnico si è evidentemente sostituita una
logica fondata sull’accostamento di elementi eterogenei
ma gerarchicamente di pari grado. La costruzione di una
lunga serie di edifici per il Politecnico si somma alle sedi
della Universität Zürich – fondata nel 1833 e ospitata
per un periodo, a partire dal 1864, nello Hauptgebäude
del Politecnico – tanto da formare una sorta di ‘cittadella’
dello studio.
Il Campus di Hönggerberg
Tale crescita delle strutture, che corrisponde a quella
del numero degli iscritti e quindi dell’offerta formativa,
Fig. 4 - Gustav Gull, Politecnico di Zurigo, ampliamento
dello Hauptgebäude, 1915-25:
pianta, 1918 (da OECHSLIN
2005).
spinge a realizzare una vera e propria città universitaria in
un’area esterna al centro cittadino. L’incarico di redigere
il piano originario è affidato a Albert Heinrich Steiner,
Stadtbaumeister dal 1943 al 1957 e titolare dell’insegnamento di Teoria e prassi urbanistica zurighese allo stesso
Politecnico. La prima idea di Steiner, del 1959, si fonda su
una sorta di ‘foro’ centrale, articolato su una piazza al termine di un percorso assiale e contornato da edifici in linea
e a corte. Nel 1957 Steiner aveva partecipato al concorso
per Hauptstadt Berlin, con una proposta affine a quella
Fig. 5 - Gustav Gull, Politecnico di Zurigo, ampliamento
dello Hauptgebäude, 1915-25:
veduta, ca. 1925 (da OECHSLIN
2005).
221
Fig. 6 - Albert Heinrich Steiner, Politecnico di Zurigo, Campus di Hönggerberg, 1961-79: planimetria, 1960-61 (da OECHSLIN 2005).
degli Smithson e che presenta palesi affinità con il piano per la città universitaria zurighese. Steiner modifica lo
schema finché, nel 1960, presenta un progetto basato su
tre nuclei distinti, ognuno contrassegnato da alcune torri,
alte tra i 40 e i 50 metri, circondate da edifici bassi (21).
La proposta riceve molte critiche per la modifica del profilo della città dal lato delle colline e il dibattito investe
la sfera politica, sicché viene presto abbandonata. Steiner
guarda alle novità europee nell’ambito delle architetture universitarie, in particolare ai casi inglesi e tedeschi:
l’episodio più celebre è quello della Ruhr-Universität di
Bochum, la prima struttura universitaria fondata nella
Repubblica Federale Tedesca, finanziata con oltre tre miliardi di marchi, per la quale è bandito nel 1962 il concor-
222
so vinto da Helmut Hentrich e Hubert Petchnigg; il più
grande cantiere tedesco di quegli anni – come sottolinea
«Der Spiegel» – si ispira a sua volta, come nel caso di Heidelberg, al modello del campus americano (22).
Il progetto definitivo per la città universitaria di
Hönggerberg, il cui primo nucleo è costruito tra il 1961
e il 1979, si fonda su una maglia ortogonale, sempre ideata da Steiner, memore di alcuni schemi urbani tra la fine
degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, con
ampi spazi verdi e l’edificio a pianta esagonale dell’aulario quale rottura della geometria dominante (fig. 6). Nel
1962, su proposta di Alfred Roth, docente a Harvard,
viene suggerito che Le Corbusier possa costruire le residenze studentesche del nuovo campus, ma l’architetto si
Fig. 7 - Politecnico di Zurigo, Campus di Hönggerberg, veduta attuale (www.phys.ethz.chthe-department.html).
dichiara indisponibile a causa del mancato pagamento, da
parte del governo svizzero, dell’arazzo realizzato nel 1956
sulla base di un suo cartone e destinato alla sala ‘svizzera’
dell’ala conferenze della sede dell’Unesco (23).
Dopo la costruzione del dipartimento di architettura da
parte di Max Ziegler ed Erik Lanter negli anni Settanta,
nel 1996 inizia la realizzazione dell’edificio per i Dipartimenti di Chimica, Farmacia e Microbiologia, terminata
nel 2004 su progetto degli architetti svizzeri Mario Campi e Franco Pessina, con una pianta a pettine che forse
rimanda anche al Politecnico di Otaniemi di Alvar Aalto.
Si tratta di una megastruttura che si integra solo in parte
con la città-giardino pensata da Steiner. L’ampliamento
del campus non si è arrestato nemmeno in anni recenti
e tra il 2005 e il 2010 è stato realizzato lo eScienceLab
(HIT Gebäude), al margine nord-occidentale del campus,
su progetto di Carlo Baumschlager e Dietmar Eberle.
Costato 6,3 milioni di franchi svizzeri, l’edificio a corte
ospita sale conferenze, postazioni di studio per studenti
e professori, caffè, nonché Istituti come quello di Fisica
teoretica e quello di Teoria dei materiali e strutture del
Dipartimento di Architettura, ma la divisione degli ambienti è concepita per essere flessibile e indipendente dalla
posizione delle aperture esterne (24).
Attualmente sono in corso progetti per rendere il campus di Hönggerberg una Science city che migliori l’offerta
di servizi e la qualità di ricerca e insegnamento. Viene
evocato il modello nordamericano in cui si svolge gran
parte della vita di quanti vi studiano o vi lavorano: a tal
fine è prevista la realizzazione di attrezzature sportive, ristoranti e attività commerciali. Per le strategie di sviluppo
future, nel 2004 è stato scelto il piano di Kees Christiaanse, che si propone di riconnettere le diverse idee urbane
alla base degli interventi già realizzati, incrementando la
mixité funzionale, le reti di collegamento e la densificazione. Proprio la densificazione è alla base del Masterplan
Campus Hönggerberg 2040, approvato dall’amministrazione comunale nel 2016, con cui si prevede la costruzione
di diversi nuovi edifici, anche in sostituzione di alcuni
esistenti, in tre fasi cronologiche differenti. In tal modo,
223
in previsione di un aumento del numero di studenti e di
docenti, si intendono preservare le aree verdi che circondano il complesso universitario (fig. 7).
Conclusioni
La complessa storia delle sedi del Politecnico zurighese
nel corso di oltre un secolo e mezzo rimanda al passaggio
dall’idea di un’istruzione elitaria a quella dell’università
di massa, già prima ma in particolare nel secondo dopoguerra, negli anni della maggiore crescita economica e di
una generalizzata esaltazione per il progresso scientifico.
L’ampia gamma di strutture riflette tutta l’evoluzione del
concetto di edificio universitario, dai prototipi ottocenteschi onnicomprensivi all’idea della città universitaria quale
frammento urbano teoricamente autonomo e separato dal
resto della città. Queste trasformazioni, soprattutto negli
anni Sessanta, comportano soluzioni drastiche, anche violente, adottate per adeguare a nuove esigenze le strutture
preesistenti, e specialmente il primo nucleo semperiano,
un presidio culturale concepito per essere allo stesso tempo
università e museo; l’edificio originario, testimonianza di
una sperimentazione in un ambito tipologico non ancora
codificato e quindi con un valore idealtipico, cede il passo
ad una cittadella composta da blocchi sommatisi gradualmente al primo e infine all’idea anglosassone del campus e
della Science city. In ogni caso, la parcellizzazione degli ambiti scientifici e formativi sarebbe stata incompatibile con
l’idea semperiana della ‘unitarietà’, dall’amburghese difesa
già in sede di commissione di concorso per il Politecnico
insieme all’idea di ‘mutualità’ dell’insegnamento, con riferimento all’interazione tra diverse discipline e tra trasmissione del sapere e funzione espositiva (25).
(1) Della vasta letteratura sulla figura di Semper, si veda in particolare: Mallgrave 1996; Nerdinger, Oechslin 2003; Karge
2007; Hildebrand 2020.
(2) Della giuria fanno parte anche: Friedrich Bürklein, da
Monaco; Friedrich Theodor Fischer, da Karlsruhe; Johann Christoph
Kunkler, da Sankt Gallen; Amadeus Merian, da Basilea. Le motivazioni per la mancata scelta di un vincitore starebbero nell’assenza di
coerenza, in ogni progetto, tra gli alzati e la pianta, che non sarebbe
fondata su un impianto distributivo funzionale: Altmann et alii
2003, p. 344.
(3) A detta del figlio di Semper, Manfred, che esegue molti dei
disegni del progetto, l’Istituto di Chimica sarebbe stato concepito
solo da Johann Caspar Wolff, anche se la letteratura recente dubita
che sia stato possibile: Altmann et alii 2003, p. 347.
(4) In una prima soluzione Semper pensa di inserire nel corpo tra
i due cortili sia la sala con le antichità che un grande auditorium,
due requisiti che aveva già considerato decisivi in sede di giudizio
dei progetti di concorso, mentre nella soluzione definitiva il braccio
intermedio è abbassato di un piano e contiene solo l’Antikensaal:
Altmann et alii, p. 346.
224
(5) Wilkening-Aumann, von Kienlin 2014; Hassler,
Kainz 2016, pp. 166-167.
(6) Lo ‘sgraffito’ consiste in una sovrapposizione di due strati di
intonaco di colore contrastante, graffiando poi lo strato superiore
e lasciando a vista quello sottostante nei punti desiderati. Si veda
Pellegrino 2014. Semper utilizza tale tecnica anche in altri
edifici, come ad esempio al Kunsthistorisches Museum di Vienna:
Hassler, Kainz 2016, pp. 9, 215-217.
(7) Altmann et alii 2003, p. 345.
(8) Hassler, Kainz 2016, pp. 185-187.
(9) In altri casi, come a Vienna o a Dresda, Semper agisce diversamente, evidentemente conciliando la rappresentazione del potere
assoluto con richiami alle signorie rinascimentali o alla Roma
imperiale: si veda Tönnesmann 2005, pp. 74-76.
(10) Hassler, Kainz 2016, pp. 14-16.
(11) Marschall 1993; Lippert 2003.
(12) Maglio 2009, pp. 169-180; Schulte-Wülwer 2009, pp.
198-204; Maglio 2019.
(13) Ci si riferisce in particolare al bolognese Collegio di Spagna,
di Matteo Gattaponi, e al complesso romano de La Sapienza, di
Giacomo Della Porta e Francesco Borromini; gli esempi inglesi
sono probabilmente noti a Semper grazie al suo esilio londinese tra
il 1850 e il 1855: Kiene 1983; Tönnesmann 2005.
(14) Il braccio intermedio contiene al piano inferiore una galleria,
conclusa dalla scala, e al piano superiore un ampio salone, la sala
della Meridiana. Anche nel caso napoletano l’accesso avviene tramite una terrazza a quota superiore rispetto alla strada, anche se già
alla stessa quota del vestibolo interno.
(15) Architetto zurighese, Gustav Gull (1858-1942) si forma
proprio presso il Politecnico della sua città, dove nel 1929
otterrà una cattedra; tra i suoi progetti, vi sono la posta centrale
di Lucerna (1887, con Conrad von Muralt), lo Schweizerisches
Landesmuseum (1892-98) e lo Stadthaus di Zurigo (1898-1901):
Hochbaudepartement 2004.
(16) Giedion 1928; Hildebrand 2005, p. 89.
(17) Hildebrand 2005, p. 91. Nel progetto di concorso, peraltro, invece della cupola Gull prevedeva per il corpo cilindrico una
copertura conica: Weidmann 2005, p. 143.
(18) Geisendorf 1969.
(19) Hassler 2019. Il volume segue i primi due dedicati dalla
stessa autrice, con Korbinian Kainz, al Politecnico zurighese.
(20) Gürtler Berger 2005; Hildebrand 2005.
(21) Maurer 2005, p. 117.
(22) Il modello americano è parzialmente ripreso anche nell’organizzazione amministrativa e nella suddivisione in dipartimenti,
mentre persiste il richiamo ad Alexander von Humboldt circa l’integrazione tra insegnamento e ricerca; il caso di Bochum è celebrato
dalla stampa dell’epoca come un segno di enorme rinnovamento
sociale: «Der Spiegel» 1965. Si veda Stallmann 2004.
(23) L’arredo per la sala, dono del governo federale svizzero
all’Unesco, è progettato dallo studio zurighese Haussmann und
Haussmann: «Das Werk» 1959.
(24) Hanak 2005. Si veda anche: https://www.wirthensohn.ch/
index.php/referenzen/schulen-und-oeffentliche-verwaltung/113-esciencelab-gebaeude-hit-eth-hoenggerberg-zuerich.
(25) Semper 1858.
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225
ETH ZURICH: FROM ‘BOARDING SCHOOL’ TO UNIVERSITY CITY
The long history of the Zurich Polytechnic over the course of more than a century and a half reflects the passage from the idea of elite education to that of mass
university, already before but in particular after the Second World War, in the years of greatest economic growth and a generalized fervor for scientific progress. The
wide range of structures reflects all the evolution of the concept of a university building, from the all-inclusive nineteenth-century prototypes to the idea of the university city as a theoretically autonomous urban fragment, which is separated from the rest of the city. These transformations, especially in the Sixties, entail drastic,
even violent, decisions made to adapt the existing structures to new needs: especially the first Semper building, conceived to be at the same time university and museum,
being also an experimentation of a not yet codified typology and therefore with an ideal value, gives way before to an aggregation of blocks gradually added to the
first one and finally to the Anglo-Saxon idea of a separated campus.
226
IL PERIODO FRA LE DUE GUERRE: IDEOLOGIE AFFINI,
LE CITTÀ UNIVERSITARIE DI ROMA E TEHERAN (1932-1935)
Aban Tahmasebi
Durante il primo Novecento iraniano (1905-1940)
si assiste in Persia a radicali cambiamenti culturali e
architettonici, settori fino ad allora legati alle proprie millenarie tradizioni. Mutamenti che ancora oggi
identificano ampiamente le tematiche architettoniche
e urbanistiche integrate profondamente nell’ideazione
formale e progettuale che si presentano ai nostri occhi
in forma distintamente riconoscibile, seppur implicitamente tendente a una conservatività allusiva verso le
sue radici culturali. Radici robuste di poeti millenari
come Firdusi (1), le vetuste religioni e la continuità
storica territoriale che origina – per mezzo di prove
sicure – la presenza di un popolo antico composto da
diversi gruppi etnici e tribali i quali mettono in luce
il proposito di affermarsi autenticamente fra i paesi
del mondo attraverso la cultura, la politica e l’architettura.
La prima metà del XX secolo persiano si manifesta
come iniziativa nazionale di un certo livello che ridipinge lo scenario culturale seguendo la tradizione instaurata
che si approccia incessantemente alle simultanee opinioni
architettoniche moderniste in occidente quali il futurismo, il razionalismo, l’Art déco, l’Art Nouveau e l’espressionismo tedesco.
L’incontro di due ideologie affini, 1931
Fu attraverso una scrupolosa attenzione rivolta verso l’Italia fascista che la Persia da poco formatasi come
nation-state (1906), riorganizza la struttura operativa
delle proprie forze armate. Inoltre, grazie all’avvicinamento fra i due paesi, vennero realizzati nel territorio
iraniano diversi progetti infrastrutturali sotto l’azione
esercitata dalla moderna ingegneria italiana. Il sistema nazionale iraniano, frutto di un colpo di stato nel
1921, ebbe tendenze affini ai risultati degli avvenimenti del 1922 in Italia. Gli artefici della rivolta,
ideologicamente, videro Italia come l’orizzonte della
modernità europea.
Abd Al Hossein Teymourtache (1883-1933) (2) è uno
degli uomini più influenti del monarca persiano Reza
Shah (1878-1944) che, alla vigilia dell’istituzione della
Dinastia Pahlavi nel 1925, in veste di Ministro di Corte Imperiale fece una visita in Italia incontrando Benito Mussolini (fig. 1). Egli aspirava a creare in Iran un
partito radicale che nel 1927 assunse il nome di Partito
Progressista dell’Iran e seguiva le linee guida del Partito
Nazionale Fascista. In più, Teymourtache – insieme al
re persiano e a Isa Sadiq (1894-1978) – ideò il progetto
della Città Universitaria di Teheran.
La seconda visita in terra italiana del Ministro iraniano – insieme a una delegazione inviata dal re persiano (3)
costituita da fiduciari del re e addirittura dal dodicenne
principe ereditario Mohammad Reza Shah (1919-1980)
che avrebbe continuato i suoi studi in Europa – si tenne nel 1931 (4), organizzata dal Ministero degli Affari
Esteri italiano in collaborazione con la legazione fascista
di Teheran.
Dalle analisi dei documenti conservati presso il Ministero degli Affari Esteri italiano si potrebbe desumere che l’Italia del ventennio (5) in numerose occasioni
mostrò particolare interesse a far proseguire gli studi al
principe ereditario persiano in Italia, in specie nel 1931.
Questo avrebbe dato la possibilità all’Italia di formare il
prossimo monarca persiano in conformità con l’ideologia
del potere in Italia fra le due guerre – cosa che avrebbe
procurato elevati vantaggi geopolitici nella propagazione
del fascismo nel Medio Oriente.
La visita del Ministro di Corte Imperiale può considerarsi quindi come l’iniziazione dell’impero novecentesco
persiano a commisurarsi con i poteri europei attraverso
progetti su scala nazionale (6).
Uno dei più importanti progetti fu quello della Città
Universitaria di Teheran del 1934, in concomitanza ideologica con il progetto della Città Universitaria di Roma,
inaugurata nel 1935 (7).
Tornando alla visita del ministro persiano, il materiale in merito – archiviato presso il Ministero degli Affari Esteri italiano – è catalogato come Visita progettata di
Teymourtache in Italia: il programma prevedeva una serie di visite a diverse infrastrutture industriali, urbane
e militari alle quali il Ministro iraniano avrebbe dovuto
partecipare. Fu da questo momento storico in poi che –
in particolar modo – i rapporti militari fra i due paesi
si intensificarono; furono conseguentemente stipulati sia
patti d’amicizia fra le due nazioni che approvati copiosi
documenti di assegnazione d’incarichi da parte del Governo fascista a ingegneri italiani, allo scopo di eseguire
lavori d’infrastruttura militare e urbanistica sul suolo
persiano (8). L’analisi di queste relazioni aiuta a definire i propositi e gli esiti dell’ideazione del progetto della
Città Universitaria di Teheran, insieme al suo processo
progettuale.
227
Fig. 1 - Anonimo, l’incontro tra Teymourtache e Mussolini, 1925
(archivio dell’A).
Città Universitarie
L’Italia è sempre stato un paese indubbiamente strategico all’interno del panorama storico-culturale dell’Europa (9) e di conseguenza la sua tradizione storica e il suo
peculiare patrimonio archeologico sono sempre stati strumenti innovatori e archetipici dell’istituzionalizzazione
dell’architettura moderna – prevalentemente in Europa
– e successivamente in vari contesti universalmente commisurabili alle influenze culturali della storia e dell’arte
italiana.
Quest’eredità storica diede forma nuova alle città italiane nel periodo fra le due guerre: le morfologie architettoniche e gli insediamenti urbanistici oltre a risultare
innovativi, furono rappresentativi di un potere (nationstate) che si fece erede delle grandezze della Roma antica
(10). Attraverso questo processo innovativo, il complesso universitario unitario (fig. 2) denotò un cambiamento
nella comprensione del sistema istruttivo e accademico,
che inglobò sparsi nuclei e originò la formazione di un
organismo integralmente e ideologicamente rappresentativo – tale è la Città Universitaria di Roma – concepito
228
come una peculiare porzione della città moderna adibita esclusivamente a studi universitari. In questo nuovo
complesso, intere considerazioni progettuali sono finalizzate a una centralità dell’ideazione, esaltata in termini di
architettura rappresentativa di cultura e potere per cui,
al di là di polemiche stilistiche vigenti fra le correnti di
architettura in Italia agli inizi degli anni trenta (RAMI e
MIAR), se si potesse dare una breve definizione al repertorio architettonico privilegiato dal potere allora vigente si potrebbe desumere che si trattò di un’architettura
legata al senso della rinascita di un antico/tradizionale/
barocco (11), modernizzato e coinvolto prevalentemente
nelle tematiche della rappresentazione classicista del potere che – parallelamente – tentò di riconciliare il modernismo nord europeo con un classicismo monumentale e
tradizionalista (12). Per rendere concreto ciò, si compose
così un linguaggio bilanciato in conformità con una lettura innovativa nazionale del Razionalismo (13).
Contrariamente, la Persia fu un paese mediorientale
dove il percorso e lo sviluppo storico-civile verso la modernità seguirono – secondo la tradizione – un itinerario
espressamente diverso da quello europeo. Il Primo Novecento persiano e le sue vicende furono tratteggiati e distinti da una turbolenta rivolta popolare, la Rivoluzione
Costituzionale (1906) che, nei successivi decenni del XX
secolo, condusse gran parte degli eventi storici verso un
accelerato avvicinamento all’Occidente (14). Quest’accostamento si rivelò di sorprendente efficacia per la trasformazione folgorante prima della quotidianità e della
politica e poi dell’architettura persiana. Sulla base degli
improvvisi stravolgimenti inevitabilmente implicati dalla Rivoluzione Costituzionale, unitamente alla volontà di
riacquisizione di un’identità tradizionale – pur quest’ultima rimandando alla modernità – occorse una fondamentale assunzione dei significati nel modo di vedere la società:
i persiani tentarono di insediare e concretizzare un sistema
politico-governativo moderno, che avesse come prerogativa la specifica dualità dell’essere moderno e al tempo
stesso richiamare la tradizione. Un sistema dunque dotato
di un Parlamento portavoce della volontà del popolo e dei
suoi intellettuali (15).
In questi anni i persiani, nel tentativo di avvicinarsi al
mondo europeo come ricerca verso l’innovamento della
propria società tradizionale, si servirono dell’esperienza
europea e attraverso la trasformazione delle tradizionali
istituzioni in distinti organismi moderni, intuirono la
necessità di far educare, istruire e formare accademicamente i giovani persiani in Europa (16). Al loro ritorno
in patria, questi nuovi professionisti, appena laureati in
materie sia tecniche sia scientifiche, trovarono terreno
fertile per condividere con il proprio paese le esperienze e
i connotati della modernità.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, gli architetti
persiani – allo stesso modo dei contemporanei italiani –
cercarono di sintetizzare tra “le esigenze di rappresenta-
Fig. 2 - Veduta aerea della Città Universitaria di Roma, 1935 (da La Città Universitaria 1935, p. 5).
tività dell’architettura e quelle di funzionalità finalizzata
alla modernizzazione del paese” (17). In aggiunta a ciò, la
presenza di archeologi occidentali (nel comparto amministrativo di questa fabbrica d’innovazione) venendo offerto
un ruolo di artefici tecnici di un sentimento di risveglio
della nazione, contribuisce a formare l’apparato essenziale storicistico dell’ammodernamento della società (18).
Analisi accurate sull’ideazione della Città Universitaria
di Teheran (fig. 3) conducono alle ricerche svolte da Issa
Khan Sadiq, esponente di spicco nella formazione dell’ideologia modernista del nuovo sistema. Egli, insieme a
Abd Al Hossein Teymourtache, Ali Akbar Daavar (19)
e altri, organizzò i punti fondamentali di riforme in vari
ambiti culturali. Issa Sadiq fu uno dei personaggi cardine
della dinastia Pahlavi e fu commissionato di importantissimi incarichi ministeriali e accademici (20).
E finalmente, nel marzo del 1931 Teymourtache, Ministro di Corte persiana, su ordine dell’Imperatore venne
incaricato di pianificare la fondazione di una città universitaria; fu egli stesso, in una lettera, a delegare Issa Sadiq
l’incarico di indagare sulla piattaforma di una struttura
universitaria che offrisse pedagogia, medicina e ingegneria civile (21). In quel periodo Sadiq si trovava già negli
Stati Uniti per svolgere una ricerca di dottorato presso
la Columbia University, intitolata Analisi storiche e ammodernamento del sistema di istruzione in Iran (22). Occorre
ricordare che Sadiq e Teymourtache – con il Partito Progressista – appartenevano alla categoria di politici e intellettuali inclini alla modernita’ italiana degli anni Trenta;
si trovano testimonianze e documenti storici che riportano informazioni circa un loro tentativo di avvicinare
l’Iran al fascismo: la sintesi e gli esiti delle loro azioni
dimostrano questa teoria (23).
Analogamente all’Italia, anche in Persia, questo complesso unitario universitario tende a inglobare i nuclei
sparsi di vecchie istituzioni che vengono portate ad avvicinarsi a un modello di lettura articolata del senso modernistico realizzato in una porzione di città del Novecento
persiano. Una porzione nobile che rappresenta una totale
dedizione allo studio; porzione rappresentativa del sapere
che raffigura un ‘Iran Nuovo’ (24).
I persiani, a causa degli eventi storici – o soppressioni
storiche – e di una predisposizione culturale ad assorbire
e accettare i modelli nazionalistici di stato, furono più
propensi a utilizzare come riferimento modelli articolati
di nazioni europee tendenti al nazionalismo (25). Una
nazione ormai chiamata non più Persia bensì ‘Iran’ (26)
si sforzò nella disperata ricerca di un’identità smarrita
229
Fig. 3 - Veduta aerea della Città Universitaria di Teheran,
1941 (archivio dell’A).
di avvicinarsi ai fulcri culturalmente innovatori dell’ambivalenza del vecchio e nuovo, come erano l’Italia e la
Germania. La concomitanza ideologica fra queste realtà
lontane e vicine determinò la strada della futura ricerca
sulle analisi storiografiche dell’essenza del nation-state in
varie zone del globo.
(1) La traslitterazione del nome del poeta secondo il sistema alfabetico latino può avere delle varianti come segue: “Firdusi” (nella
maggior parte dei testi e documentazioni archiviate presso l’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Affari Politici, 1934;
“Ferdowsi” ovvero “Ferdawsi” o anche “Ferdosi” (nella maggior
parte dei testi anglosassoni) per cui, la medesima traslitterazione
può variare secondo le referenze utilizzate nella tesi ed ogni volta
viene affidata alla medesima origine al quale viene riferito.
(2) Il sostegno politico e sociale di Teymourtache al consolidamento della dinastia regnante in Iran (dal 1924 fino al 1932)
può essere meglio compreso attraverso l’influenza di personaggi
italiani degli anni Venti e Trenta, in chiave comparativa con il
fascismo. Carlo Delcroix (1896-1977), per la sua attività politica
– in primo luogo discorsi e celebrazioni dello spirito nazionalistico presente in Italia dopo la Prima guerra mondiale – è da con-
230
siderarsi come un esponente ideologico prominente del regime.
Fu militare e deputato, membro del Consiglio Nazionale delle
Corporazioni e nel 1928 autore di una biografia su Mussolini, Un
uomo, un popolo.
(3) Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari
Politici, Direzione Generale America, Asia e Australia – Militari esteri
nelle Regie Scuole, Principe imperiale della Persia, ammissione all’Accademia Navale, b. 2, fasc. 6, 1931.
(4) Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari
Politici, Serie Affari Politici 1931-1945 – Progetto di Visita a Roma di
S.E. Teymourtache, b. 1, fasc. 1.
(5) Per approfondire la conoscenza del clima ideologico nell’Italia
degli anni Trenta si veda Piacentini 1947, pp. 18-23.
(6) Il 22 Ottobre 1931, a Losanna, Teymourtache riconferma che
il Governo persiano ha sempre avuto più intima e fattiva collaborazione italiana e dà i seguenti affidamenti: l’intera organizzazione
della Marina persiana resterà nelle mani degli italiani e si studierà
l’opportunità di affidargli anche l’organizzazione dell’Aviazione
militare e dell’Idro-aviazione. Il Ministro di Corte si dichiara disposto a facilitare l’importazione italiane entro i limiti della legge del
Monopolio commercio e soprattutto macchine industriali nonché
l’appoggio di esperti italiani e ingegneri purché siano di primissimo ordine. Senza avanzare un invito ufficiale a Teymourtache,
l’incaricato della legazione fascista a Teheran ribadisce al Ministero
degli Affari Esteri a Roma: “parermi utile ripetesse tali affidamenti
personalmente a S. E., Sua Eccellenza, Capo di Governo e a V. E.
Teymourtache mi ha dichiarato aver chiesto telegraficamente allo
Shah autorizzazione recarsi a Roma e mi ha pregato attendere a
Parigi” (Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari
Politici, Direzione Generale America, Asia e Australia – Militari esteri
nelle Regie Scuole, Principe imperiale della Persia, ammissione all’accademia navale, b. 2, fasc. 6, doc. 3355R, 1931).
(7) Spano 1933, pp. 41-62; Pagano 1933, pp. 39-41; Caniggia
1959, pp. 272-299; Azzaro 2012.
(8) Si rimanda all’appendice Marina Militare della tesi di dottorato di Tahmasebi 2018, pp. 281-301 e alla appendice del
Viaggio di Teymourtache, pp. 260-280 (Ministero degli Affari Esteri
Italiano, Archivio degli Affari Politici, Serie Affari Politici 1931-1945
– Progetto di Visita a Roma di S.E. Teymourtache, b. 1, fasc. 1).
(9) Rivoira 1901.
(10) Calza 1923-24, pp. 3-18; Marconi 1931, pp. 761-816.
(11) Dal 1911 al 1940, si trovano numerose trattazioni sul barocco a Roma e sull’architettura minore, tra cui si evidenzia Magni
1911-1913.
(12) Questa descrizione trova la sua massiva validità in Marcello
Piacentini, autore della Città Universitaria di Roma, architetto
coordinatore per eccellenza del regime, il cui pensiero architettonico può essere esplicitato attraverso Piacentini 1930.
(13) Ivi, pp. 527-540; Capponi 1931; Regni Sennato 1985,
pp. 43-45.
(14) Katouzian 2000, pp. 282-299.
(15) Abrahamian 1982, pp. 120-123.
(16) Sadiq 1931.
(17) Coppo 2017, p. 73.
(18) André Godard e Maxime Siroux furono due influenti architetti e archeologi, che progettarono la Facoltà di Medicina dell’Università di Teheran nel 1934; cfr. Gran Aymerich, Marefat
2001; Kiani 2004.
(19) Ali Akbar Daavar, uno dei fondatori della Società per le
Opere Nazionali (SNH), fondata nel 1921, è meglio conosciuto
come l’architetto del nuovo sistema giudiziario iraniano che più
tardi sarebbe diventato Ministro delle Finanze. Il suo ruolo è stato
vitale per la sopravvivenza finanziaria della SNH fino al suo suicidio nel febbraio 1937.
(20) Si rimanda a Tahmasebi 2018, capitolo 2.
(21) Menashri 1992, p. 145.
(22) Sadiq 1931.
(23) In una lettera (promemoria) del 29 ottobre del 1931 l’incaricato d’affari di Persia comunica al Ministero Affari Esteri italiano di
“essere sua impressione che Teymourtache venga in Italia, essendo
il suo più desiderio prendere contatti con noi. Avendogli domandato se aveva avuto precise notizie in proposito, l’incaricato d’affari
mi disse che due o tre giorni or sono egli era stato informato che
il Ministro di Corte intendeva venire in Italia, prima di rientrare
in Persia, ossia a Novembre dovendo ai primi di Dicembre recarsi
a Mosca e verso il 10 di quel mese essere a Teheran. Aggiunse di
ritenere indispensabili prendere con noi accordi sulle più importanti questioni dopo esauriente dissuasioni della medesima. Essere
prossima la richiesta di ufficiali e sottoufficiali della regia marina
circa 50 in tutto per formare i comandi delle 6 nuove unità marine
costruite in Italia. Essere possibile che la Persia debba ordinare sei
altre unità tipo esploratore, non è ancora deciso quale paese debba
costruirle”. Altri documenti dello stesso fascicolo rivelano l’intenso
interesse da parte dell’Italia che la visita progettata dall’Italia per
il Ministro di Corte avesse inequivocabilmente luogo (telegramma
del 26 ottobre 1931). Altri documenti che dimostrano indubbia
importanza di intensificare i rapporti con la Persia attraverso il
canale fiducioso Teymourtache, tant’è che addirittura la legazione
fascista vorrebbe che il Ministro di Corte persiano sia ricevuto senza
invito ufficiale dal Capo di Stato. Cfr. Ministero degli Affari Esteri
Italiano, Archivio degli Affari Politici, Direzione Generale America,
Asia e Australia, Militari esteri nelle Regie Scuole – Principe imperiale
della Persia, ammissione all’Accademia Navale, b. 2, fasc. 6, 1931.
(24) Menashri 1992, pp. 143-155.
(25) Archivio Storico Nazionale dell’Iran – Centro delle
Documentazioni Nazionali dell’Iran (Markaze Asnaade Melli e
Iran), Biblioteca Nazionale iraniana: documento n. 297030176,
anno 1935, posizione 104, fasc. 02190079, oggetto: I nomi degli
scienziati italiani e invitati alla celebrazione del millenario del poeta persiano Firdusi insieme al conferimento di direzione onorario della commemorazione a Benito Mussolini. Cfr. Ministero degli Affari Esteri Italiano,
Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri italiano, serie
Affari Politici 1931-1945, b. 11, fasc. 7, posizione 58, Celebrazione
del millenario del poeta persiano Firdusi (1935).
(26) Ward-Perkins 1947.
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BETWEEN THE WARS: KINDRED IDEOLOGIES FOR THE CAMPUSES
OF THE UNIVERSITIES OF ROME AND TEHRAN (1932-1935)
The early twentieth century of architecture in ideologically parallel contexts conveys concomitant understandings of an alternative modernity. This outlook is
utterly deciphered by the cultural/nationalistic aspects of the nation-state scheme. Due to this, the interwar period in Italy and Iran contains affinities in urban design developments and architectonic modernizations. The glances of both nations are synchronized upon finding common fields in history revising to avoid
the contingencies of the international modernity that outbursts through the daily life of both citizens and decision makers and might take over the traditional
routine cultural process. In such atmosphere, the interwar period finds a strong rope to pack up all the elements in the same alignment store – dynamited by
modernity - and the ideation of the two important university campuses play out a crucial role. The paper aims at shedding light on the essence of these affinities
between the two near and distanced realities.
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