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Atti in Palladio VOL II stampa

Atti del Convegno internazionale "Le città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma", tenutosi in occasione delle Celebrazioni per l'ottantesimo della realizzazione della Nuova Città Universitaria di Roma 1935-2015, Roma, 23 -25 novembre 2017.

PALLADIO NUOVA SERIE - ANNO XXXI - NN. 61-62 GENNAIO-DICEMBRE 2018 La rivista Palladio, fondata da Gustavo Giovannoni e specializzata in Storia dell’Architettura e Restauro, da oltre settanta anni coltiva questo campo storiografico nelle vicende che vanno dall’antico al contemporaneo. Atti del Convegno internazionale “Le città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma”, tenutosi in occasione delle Celebrazioni per l’ottantesimo della realizzazione della Nuova Città Universitaria di Roma 1935-2015, Roma, 23 25 novembre 2017. Volume II a cura di Bartolomeo Azzaro Questo numero accoglie studi vagliati dal Comitato scientifico del Convegno internazionale Le città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma Il presente fascicolo è stato realizzato con il contributo di: Sapienza Università di Roma Comitato direttivo: Augusto Roca De Amicis (direttore responsabile), Bartolomeo Azzaro, Claudio Varagnoli Consiglio scientifico: Simona Benedetti, Maria Beltramini, Francesco Benelli, Maurizio Caperna, Joseph Connors, Riccardo Dalla Negra, Alessandro Ippoliti, Cettina Lenza, Tommaso Manfredi, Fabio Mangone, Francesco Moschini, Javier Rivera Blanco, Giorgio Rocco, Steven W. Semes, Piero Cimbolli Spagnesi, Maria Grazia Turco, Marcello Villani Comitato di redazione: Fabrizio Di Marco (caporedattore), Iacopo Benincampi, Alberto Coppo, Marco Corsi, Luca Creti, Emanuele Gambuti, Elisa Genovesi, Maria Clara Ghia, Marisa Tabarrini, Maria Grazia Turco © ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.p.A. – SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA Per abbonamenti e acquisti rivolgersi a: ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.p.A. – E-mail: [email protected] – Numero verde 800864035 Condizioni di vendita e abbonamento per il 2021 Per l’Italia: prezzo del singolo fascicolo € 36,00. prezzo dell’abbonamento annuo (2 numeri) € 62,00. Per l’Estero: prezzo del singolo fascicolo € 52,00. prezzo dell’abbonamento annuo (2 numeri) € 93,00. È vietata la riproduzione, con qualsiasi procedimento, della presente opera o di parti di essa. Ogni abuso verrà perseguito ai sensi di legge. ISSN: 0031-0379 Registrazione Tribunale di Roma n. 92 dell’8/06/2017* Finito di stampare nel mese di dicembre 2020 a cura dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. - Roma * Si precisa che il Poligrafico, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 6 della L. n. 47/48, ha richiesto al Tribunale di Roma l’annotazione del rapporto di coedizione con Sapienza Università di Roma e della nomina del prof. Antonio Roca De Amicis quale nuovo Direttore Responsabile e che, alla data della stampa della Rivista, il relativo procedimento è ancora in corso PALLADIO NN. 61-62 GENNAIO DICEMBRE 2018 RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO Architetture universitarie italiane 7 Maria Antonietta Crippa: Dall’originaria articolazione tra sedi universitarie e città, in Milano, ad oggi. Il caso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore 15 Emilio Faroldi: L’architettura del Campus al Politecnico di Milano. Storia, sviluppo territoriale e nuovi innesti urbani 25 Pierfranco Galliani: Milano: “campus non campus” 33 Fabio Mangone: Il campus napoletano di Monte Sant’Angelo 41 Antonietta Iolanda Lima: Le sedi universitarie nella progettazione dello studio Pica Ciamarra Associati 53 Cinzia Gavello: Alberto Sartoris e il progetto della Città Universitaria di Torino 59 Michelangelo Savino: L’università costruisce la città. Padova dal “Campus diffuso” alla Rete urbana 67 Gemma Belli: Il piano di Luigi Piccinato per il nuovo Centro universitario di Catania 75 Francesca Martorano: La Cittadella universitaria di Reggio Calabria. Progetto e realizzazione 83 Lorenzo Mingardi: Il Campus di Urbino e il progetto culturale di Carlo Bo e Giancarlo De Carlo 89 Micaela Antonucci: Modelli italiani per la Nuova Città Universitaria di Roma: la Scuola per gli Ingegneri di Bologna di Giuseppe Vaccaro 97 Ferdinando Zanzottera: Da cittadelle della salute mentale a campus universitari. Dismissioni e trasformazioni degli ex ospedali psichiatrici nel nord-est italiano 105 Patrizia Montuori: Dalla salute all’istruzione della “meglio gioventù”, dalla colonia montana IX maggio a Monteluco di Roio alla facoltà d’Ingegneria dell’Università dell’Aquila PALLADIO NN. 61-62 GENNAIO DICEMBRE 2018 RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO Architetture universitarie europee e americane 113 Harald Bodenschatz: Progettazione e costruzione di città universitarie sotto le dittature europee nella prima metà del Novecento 119 Diane Yvonne Francis Ghirardo: Le università californiane del Novecento 125 Steven W. Semes: Dal chiostro al campus: progettazione delle università americane 133 Chiara Baglione: Eero Saarinen e la progettazione dei campus universitari nell’America del secondo dopoguerra 141 Maria Argenti: Il Florida Southern College di Frank Lloyd Wright, progetto di un organismo aperto. 153 Raffaele Marone: Un monumento alle culture ibride. Juan O’Gorman e la Biblioteca Centrale della Universidad Nacional Autónoma de México a Città del Messico. 161 Javier Rivera Blanco: L’Università del cardinale Cisneros, modello dell’età moderna dichiarato Patrimonio Mondiale 173 Pilar Chías Navarro: La Città Universitaria di Madrid, 1927-2017: 90 anni di storia 181 Raffaella Russo Spena: La Città Universitaria di Madrid e la “Generazione del 1925”: un laboratorio di sperimentazione moderna 187 Calogero Bellanca: Similitudini e differenze: Ciudad Universitaria de Madrid e la Nuova Città Universitaria di Roma. 195 Minna Kulojärvi: After ‘Italia la Bella’ – Interaction between Italian and Finnish architecture in the 1930s in the light of the journal «Arkkitehti» 203 Donatella Scatena: I campus universitari di Vilnius e Kaunas in Lituania: il modernismo baltico del periodo sovietico PALLADIO NN. 61-62 GENNAIO DICEMBRE 2018 RIVISTA DI STORIA DELL’ARCHITETTURA E RESTAURO 209 Elena Manzo: Il campus Universitetsundervisningen di Århus in Danimarca. Disegno urbano, architettura e design nella lezione di Kay Fisker, C.F. Møller e Povl Stegmann 217 Andrea Maglio: L’ETH di Zurigo: dal ‘collegio’ alla Città universitaria. 227 Aban Tahmasebi: Il periodo fra le due guerre: ideologie affini, le città universitarie di Roma e Teheran (1932-1935). DALL’ORIGINARIA ARTICOLAZIONE TRA SEDI UNIVERSITARIE E CITTÀ, IN MILANO, AD OGGI. IL CASO DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Maria Antonietta Crippa Due procedure fondamentali, non solo nella storia dell’architettura e del restauro ma anche nella qualificazione di un intervento urbanistico – il recupero e adeguamento di un’architettura preesistente da una parte, la messa a punto suo tramite di uno specifico ordinamento urbano dall’altra – consentono di ritenere il progetto dell’architetto Giovanni Muzio (1893-1982) per l’Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano esemplificazione significativa del sistema universitario italiano (fig. 1). Esso è, in ogni caso, variante in chiave moderna della reciproca congruenza o ‘contaminazione’, di matrice europea continentale, tra università e città. Identifica infatti, in modo emblematico, il moderno concorso degli insediamenti universitari al consolidamento delle peculiarità urbane nazionali, con tratti di forte continuità con gli studia urbis o Sapienze di origine medievale (1). Fino ai primi decenni del Novecento non emerse in Italia la necessità di una netta disarticolazione, tra città e sedi di studi universitari, in un’area insediativa specifica, il campus secondo la dizione anglosassone, che si diffuse in America provenendo dai college inglesi di inizio Ottocento. Presso di noi, infatti, la vita dei luoghi di più alta ricerca e insegnamento qualificava da tempo la socialità e il tessuto residenziale di importanti settori urbani. In questa tradizione la città universitaria “La Sapienza” in Roma introdusse, del 1932, una certa innovazione, peraltro circolante anche in altre città italiane. Dalla conoscenza diretta dei campus in USA, il suo direttore generale e architetto capo, Marcello Piacentini (1881-1960), trasse indicazioni organizzative, tipologiche e tecnologiche, che adattò alla propria visione romana nella generale planimetria basilicale costituita dai diversi corpi edilizi. In un solo complesso si concentrarono tutte le Facoltà e le relative funzioni accademiche e amministrative. Ma già sul finire degli anni Cinquanta ci si interrogò sull’opportunità di perseguire questo modello o sistema a ‘concentramento unico’, in ragione della proliferazione di edifici universitari fuori dal suo perimetro. Il termine città o cittadella universitaria acquisì, nel frattempo, un significato blando, scarsamente identificativo, come accade del resto oggi per la parola campus utilizzato per molte università italiane. In Italia la congruenza tra università e città sopra delineata ha raggiunto negli ultimi decenni una complessità poco controllata, sia per il continuo aumento degli iscritti sia per un disordine urbano generalizzato e tale da rendere oggi urgente una riflessione a tutto campo sul futuro degli insediamenti universitari. Consistenza e accelerata espansione del patrimonio edilizio universitario italiano sono temi centrali in questo convegno; sono anche problemi attuali e rilevanti in Milano, città in radicale trasformazione dal 2000 a oggi, con notevole implicazione anche dei poli culturali universitari e della loro connessioni a rete tra le città a scala regionale. Assetto, dimensione, posizione dei poli culturali e di quelli universitari in particolare, per il loro specifico carattere sociale incidono profondamente su vitalità, economia e vita civica delle aree nelle quali vengono inseriti; ne costituiscono un nodo architettonico e urbanistico rilevante. Si tratta di un dato di fatto e di un problema tra i più stimolanti poiché, come ha affermato Bernardo Secchi (1934-2014) (2), la configurazione urbana contemporanea è da ritenere intricato e confuso fenomeno in attesa di un progetto nel quale la stratificazione storica degli insediamenti, non legittimando una malleabilità all’infinito, esige al contrario la messa a fuoco e la valorizzazione dei suoi fattori costitutivi come conditio sine qua non. I primi quattro poli universitari milanesi dalla fondazione a oggi L’avvio di un sistema di formazione superiore con specifiche moderne sedi ebbe non poche difficoltà in Milano (3). Restò valido a lungo, dopo l’unificazione nazionale, l’esclusivo riconoscimento, all’antica università di Pavia, dell’attività delle quattro facoltà tradizionali, mentre venne concessa a Milano l’apertura di istituzioni specializzate sul versante applicativo: nel 1859, l’Istituto Tecnico Superiore (premessa all’attuale Politecnico); nel 1870, la Scuola Superiore di Agraria, poi confluita nell’Università Statale degli Studi. Ricerche e formazione mediche si erano avviate da tempo nell’Ospedale Maggiore, la celebre Ca’ Granda. Da questa complessa situazione maturarono, dall’inizio del Novecento, spinte innovative che avrebbero consentito di costituire nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e di ampliare nel successivo fino a oggi il sistema universitario della città in quattro distinte istituzioni: Città Studi, per il Politecnico e altri nuclei e 7 Fig. 1 - Milano, veduta aerea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Archivio ISAL, Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda - fondo BAMSphoto). laboratori universitari; l’Università Statale degli Studi; l’Università Commerciale Luigi Bocconi, l’Università Cattolica del Sacro Cuore. A queste, ora tutte in forte espansione, se ne sono aggiunte altre in anni recenti, dando luogo a un intreccio tra sedi e distaccamenti anche in aree molto distanti tra loro, sia entro Milano che in altre città lombarde. Architetti di fama contribuirono al progetto dei primi quattro nuclei e ai più significativi tra i loro ampliamenti, contrassegnandoli con un vasto campionario formale: dalle espressioni beaux-arts alle più recenti formule architettoniche. Nelle due sedi in antichi edifici, le Università Statale e Cattolica, furono messe a punto anche due varianti progettuali del rapporto tra antica e nuova architettura. Di non secondaria importanza fu l’area d’insediamento di questi primi quattro nuclei, talvolta più marcatamente segnata dall’orientamento a costituire uno specifico comparto urbano, come fu per ‘Città studi’, talaltra invece – nell’Università Bocconi – direttamente immessa in esso svolgendovi il ruolo di articolazione essenziale ma non emergente. L’organismo universitario 8 inoltre divenne perno delle trasformazioni della vasta porzione urbana circostante, in modi diversi per le Università Bocconi e Cattolica; oppure venne incapsulato tra comparti in continua trasformazione come emergenza monumentale: così fu per l’Università statale, alla quale si collegarono però, al di là di via Francesco Sforza che copriva dal 1929 il Naviglio, i vari Istituti ospedalieri del Policlinico. Legami fra città e architettura secondo Giovanni Muzio Il progetto di Giovanni Muzio per la milanese Università Cattolica del Sacro Cuore incise una moderna qualificazione urbana nell’eccezionale contesto attorno alla romanica basilica di S. Ambrogio, da poco liberata dai molti piccoli edifici che l’avevano circondata. Di una generazione più giovane del romano Piacentini, Muzio collaborò con lui in più modi, come lui fu aperto a rapporti internazionali e molto attivo come architetto e urbanista. Ambedue oggetto di recenti recuperi storico critici e di di G. Pinchetti e G. Caniani del 1801, nella conformazione neoclassica. Princìpi di arte urbana, rispetto della tradizione, equilibrato utilizzo di tecnologie e materiali moderni guidarono Muzio che, con i colleghi del “Club degli urbanisti” (A. Alpago Novello, G. De Finetti, T. Buzzi, O. Cabiati, G. Ferrazza, A. Gadola, E. Lancia, M. Marelli, A. Minali, P. Palumbo, G. Ponti, F. Reggiori) li espresse nella Forma Urbis Mediolani, presentata al concorso per il PRG del 1926-27, in un progetto al quale venne preferito il devastante piano di P. Portaluppi e M. Semenza, rimasto per fortuna inattuato. Le sue numerose architetture intesero sempre comporre ‘brani di città’ tramite: dimensioni non eccedenti quelle circostanti, scomposizione dei corpi edilizi, aperture di nuove strade, disegno di vaste corti interne, prospetti dai ritmi sobri. Scompose in due volumi la Ca’ Brütta; diede monumentalità e ritmica corrispondenza agli interni nei prospetti dell’Angelicum in cotto; volle il Palazzo dell’Arte, sede della Triennale, in asse con la civica Arena napoleonica. In cantieri seguiti con cura estrema, introdusse: strutture portanti in cemento armato mai lasciato in vista (Università Cattolica, Angelicum), coperture industriali a shed (Triennale), campiture in mattoni appositamente studiati (Università Cattolica, Angelicum, Triennale) e in klinker (Triennale) da lui portato in Italia dall’Olanda e dalla Germania. I progetti di Muzio per l’Università Cattolica del Sacro Cuore Fig. 2 - Planimetria dell’ex-monastero cistercense con indicazione delle diverse aree funzionali per la nuova università, individuate da Giovanni Muzio (da REGGIORI 1935, p. 324). confronti sull’interpretazione della tradizione classica di ascendenza romana, essi si espressero però in poetiche decisamente divergenti. Sintomatico al riguardo è il riferimento di Muzio al Palladio come propria guida ideale, di Piacentini alla tradizione romana. Professore di Urbanistica al Politecnico di Torino (1935-1963) e di Architettura edile nella Facoltà di ingegneria al Politecnico di Milano (1951-63), di vasto sapere e amico di letterati e artisti (come Ungaretti, Malaparte, Sironi e Funi), Muzio viene inscritto nell’orizzonte della cultura europea della ‘rivoluzione conservatrice’, che ebbe come protagonisti D’Ors e Valéry. Allievo al Politecnico dell’ingegnere archeologo Ugo di Monneret de Villard (1881-1954) – ricostruttore dell’impianto della Milano romana e precoce traduttore de L’arte di costruire la città di Camillo Sitte (1899) –, nel saggio L’architettura a Milano intorno all’Ottocento, del 1921, egli scorse tracce di una Milano grande capitale, come lo era stata nel lontano VI secolo, negli interventi d’età napoleonica dei nuovi edifici antoliniani. La vide delineata, nella carta topografica Dell’intervento di Muzio sul complesso cistercense a partire dal 1928, allora in grave stato di degrado, interessa qui far emergere la definizione urbana e i dati principali del nuovo utilizzo (4). Tralascio invece storia e valutazioni critiche più strettamente connesse ai suoi criteri compositivi e al suo linguaggio architettonico, di grande forza intellettuale. Sul monastero annesso alla basilica di S. Ambrogio, di disegno attribuito a Donato Bramante ma non realizzato sotto la sua direzione, Muzio intervenne aggiungendo un nuovo corpo edilizio all’ingresso (fig. 2), agganciandolo all’antica fabbrica per conferire aspetto urbano moderno all’università affacciata su ampio slargo detto poi largo Gemelli. Nell’area antistante all’ex-convento cistercense, nel 1924-28, l’architetto aveva già realizzato un raffinato e ‘duro’ Monumento ai caduti della prima guerra mondiale (con Alpago Novello, Cabiati, Buzzi, Ponti), racchiuso in un perimetro rettangolare. Sul suo fianco, in testa a largo Gemelli, allineò il nuovo volume edilizio dell’università per ospitarvi ingresso, uffici amministrativi, cappella. Nell’organismo costruttivo articolato in due ampi chiostri, egli intervenne invece nel rispetto delle notevoli qualità del complesso cinquecentesco, con criteri decisamente conservativi nelle componenti più nobili, più liberi per altre parti. 9 Fig. 3 - Planimetria del piano terreno dei nuovi Collegi universitari progettati da Giovanni Muzio (da REGGIORI 1935, p. 325). Fig. 4 - Veduta dell’ingresso all’Università Cattolica da Largo Gemelli (Archivio ISAL - fondo Simioli). 10 La sua procedura può rientrare nella logica di avvaloramento ‘caso per caso’ di A. Annoni, applicata però con notevole libertà. In un cenno di confronto con il restauro e l’adeguamento dell’ex Ospedale Maggiore milanese a sede centrale dell’Università degli Studi di Milano – studiati dal 1939 e realizzati da A. Annoni, P. Portaluppi, L. Grassi e altri, nell’immediato secondo dopoguerra e fino il 1980 – si può affermare che risulti minore la sua distanza critica dal progetto originale cinquecentesco rispetto a quella messa a punto nell’intervento sulla Ca’ Granda. Non per minore intelligenza dei problemi di continuità storica dei tessuti edilizi e del valore in essi delle emergenze monumentali ma per un suo diverso criterio di relazione con le preesistenze, evidente anche nelle scelte linguistiche contrassegnate da continuità di forme classiche semplificate e solidali con aggiornamento tecnico di notevole tenuta. Muzio condusse i lavori dal 1928 fino al 1949, avendo dovuto riprenderli dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che causarono qualche danno alla sede. Concluso nel 1929 il progetto generale, le demolizioni necessarie e il corpo d’ingresso, nel 1931-32 adeguò gli Fig. 5 - Veduta del chiostro dorico dell’Università Cattolica (Archivio ISAL - fondo Simioli). edifici dei chiostri ad aule (accorpando in media due celle per ogni aula), sistemò i percorsi orizzontali e verticali, intervenne con restauri nelle parti preziosamente affrescate (egli aveva importanti incisioni ottocentesche, di Ferdinando Cassina, come guida). Probabilmente su sua sollecitazione, il rettore padre Agostino Gemelli chiese al comune di Milano una Variante di piano per definire un nuovo sistema viario attorno al complesso monumentale; sulla via Ludovico Necchi, l’architetto poté di conseguenza costruire, su un lato della strada opposto a quello dell’ex-monastero i collegi (fig. 3), pensionati maschili per studenti e religiosi, e pensionati femminili. Nel 1949 realizzò qui anche la Mensa universitaria. Nei prospetti diede prevalenza alla finitura in mattoni i cui ritmi compositivi non ribadivano la sottostante struttura portante in cemento armato La planimetria complessiva dell’ex monastero consente di individuare con facilità il chiaro nuovo asset- Fig. 6 - Veduta dell’Aula Magna dell’Università Cattolica (Archivio ISAL - fondo Zanzottera). 11 Fig. 7 - La Caserma Garibaldi, ex Veliti con affaccio su Largo Gemelli (Archivio ISAL - fondo Simioli). to funzionale dato da Muzio al complesso. L’accesso ai chiostri, come da suo progetto, avviene attraversando tuttora il corpo dell’ingresso principale (fig. 4) che sbocca nel chiostro dorico (fig. 5); un porticato continuo consente il passaggio a quello ionico. Nel volume a spina tra i due chiostri, egli ricavò l’Aula Magna (fig. 6) dove un tempo era il refettorio, cui diede capienza globale (aula e balconata) di 870 posti, e mantenne lo scalone monumentale d’accesso. In questa stessa area di spina, aveva realizzato anche una biblioteca su due piani, eliminata nel 1960 per far posto ad aule. Sull’angolo verso vicolo S. Agostino, nei pressi di un ingresso secondario, edificò un grosso volume per due grandi aule circolari, in forma di uno scarno funzionalismo. Nell’Aula Magna riportò il trittico delle Nozze di Cana, dipinto dal pittore lodigiano Callisto Piazza nel 1545; restaurò il soffitto con raffinati decori cinquecenteschi a fasce, che compongono aree triangolari affrescate con varie insegne, tra le quali lo staffile emblema di S. Ambrogio. Dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi, la crescente necessità di aule impose continue modifiche e ulteriori costruzioni nell’area del complesso universitario. Nel 1986, in occasione della costruzione di un nuovo edificio per aule, nella zona un tempo parte del brolo dell’antico monastero, venne alla luce la sua ghiacciaia della metà del XVIII secolo alla profondità di tre metri, oggi visibile grazie al pavimento trasparente dell’aula soprastante. Smontata, fu infatti ricollocata nella stessa posizione a 12 m 10 al di sotto del piano precedente, in lavori diretti dall’arch. G. Schiatti dell’Ufficio Tecnico dell’ateneo. Sono stati inoltre condotti anche diversi interventi di restauro; il principale è stato quello di adeguamento tecnologico e restauro dell’Aula Magna, tra 1994 e 1997, coordinato anch’esso da Schiatti. Il sistema delle università cattoliche in Italia Il sistema cattolico italiano delle università, con centro in Milano, ha assunto nel corso del XX secolo un’interessante articolazione territoriale. Alla fine dell’Ottocento fu promotore del suo avvio l’economista bresciano Giuseppe Toniolo (1845-1918), fondatore delle Settimane sociali cattoliche. Se ne fece carico il medico padre Agostino Gemelli (1878-1959) dell’Ordine dei frati minori. Dall’Istituto Giuseppe Toniolo, fondato nel 1920, venne promossa l’Università ufficialmente sancita a dicembre dello stesso 1920, con approvazione ecclesiastica. Dal 1921 essa fu attiva in sede provvisoria, con 107 studenti. L’Istituto acquisì dal demanio statale, nel 1927, l’area dell’ex monastero cistercense con edifici annessi, utilizzato come ospedale militare dopo la soppressione dell’Ordine, a fianco della milanese basilica di S. Ambrogio. Nel 1928 l’ente diede incarico a Muzio, insieme all’ing. Pier Fausto Barelli come suo sostegno, del progetto di adeguamento del complesso a università. Più tardi, nel 1961, sarebbe stata attivata in Roma, dallo stesso Istituto Toniolo, la Facoltà di Medicina con il Policlinico Gemelli, mentre già nel 1950 era stata aperta a Piacenza la Facoltà di Agraria. In seguito si sarebbero aperte altre sedi staccate in Lombardia (Brescia, Piacenza-Cremona) e istituzioni diverse in altre regioni. L’Università cattolica milanese ha avuto in questi ultimi anni stringenti esigenze di spazi ulteriori a quelli nell’ex monastero e dei corpi aggiunti da Muzio. Allo scopo ha occupato provvisoriamente vari edifici intorno alla sua sede principale: in via S. Vittore, via Morozzo della Rocca, via S. Agnese, via Nirone, via Carducci; più distanti ma sempre in Milano i distaccamenti in via Buonarroti e via Pagliano. Un suo centro sportivo è in viale Suzzani. Per ovviare alla casuale disseminazione e conseguente difficoltà di gestione della vita universitaria in tutti i suoi aspetti, pertanto per potersi espandere con più agio come polo culturale di una delle parti storicamente più rilevanti nel cuore della città, l’Istituzione ha acquistato nel 2015 la Caserma Garibaldi (fig. 7) occupata dalla Polizia di Stato, che si affaccia su largo Gemelli. Ex Caserma dei Veliti, corpo napoleonico di fanteria leggera, costruita in due fasi nel corso del XIX secolo sul sedime della chiesa di S. Francesco grande e del relativo convento, essa insiste su una superficie di circa 20.000 m² e attende il prossimo adeguamento alla nuova destinazione. La doppia rilevanza dell’Università cattolica milanese – perno culturale e religioso, con la basilica vicina, della moderna qualificazione di un’area urbana di grande rilevanza storica, e fulcro del suo riordino, grazie al progetto di Muzio – risponde a un assetto pensato circa novanta anni fa, per un’università con numeri di allievi e obiettivi di ricerca e formazione imparagonabili con gli attuali, in relazione inoltre con una città che è ora vasto continuum con la sua area metropolitana. Come è noto si propongono oggi, da più parti, modelli di crescita fondati sul principio denominato ‘economia della conoscenza’ (5), segnalandone le molte connessioni con territori e città. Numerosi sono gli interrogativi che esso apre e da affrontare in un coordinamento nazionale sul ruolo, in questo sviluppo, delle università italiane e dei loro storici insediamenti, compreso il futuro per quelli di Milano. Essi devono essere affrontati a partire da un dato di fatto di non secondaria importanza, conseguente alla pandemia che in questo inizio 2020 ha colpito il mondo intero: le università italiane, nell’attrezzarsi a corsi a distanza con strumenti informatici, hanno scorto possibilità, finora impensabili né valutabili negli esiti territoriali, per lo svolgimento della didattica e in parte della ricerca. (1) Il saggio è sintesi di riflessioni a partire da: per il rapporto università-città: Secchi 2000, Azzaro 2008, Azzaro 2012, Cappellin 2010, Crippa 2015, Crippa 2016, Pertot, Ramella 2016; per il complesso di ex-monastero e basilica di S. Ambrogio: Gatti Perer 1991, Rossi, Rovetta 2009; per il progetto di Muzio: Muzio 1931, Reggiori 1935, Airoldi 1980, Gambirasio, Mainardi 1982, Burg 1991. (2) Secchi 2000. (3) Langè 2008, pp. 113-122. (4) Per le esatte denominazioni dei vari corpi dell’università, di annessioni o utilizzi di diversi edifici, in prossimità della sede centrale: https://milano.unicatt.it/guida_al_campus_aule_e_servizi_2014.pdf. (5) Il principio identifica, nel contesto delle conoscenze scientifiche e nelle relative risorse umane, i fattori strategici di sviluppo, non solo economico, e relativi processi di apprendimento, di innovazione e di competitività economica. Poiché inoltre provoca crescita della domanda di informazione, esso stimola la diffusione di internet. Cfr. Cappellin 2010. Bibliografia Airoldi 1980 R. Airoldi, L’idea di architettura nelle opere di Giovanni Muzio. 1922-1940, in «Casabella», 1980, n. 454, pp. 56-60. Azzaro 2008 B. Azzaro (a cura di), L’Università di Roma “La Sapienza” e le Università italiane, Roma 2008. Azzaro 2012 B. Azzaro, La Città Universitaria di Roma della Sapienza e le sedi esterne 1907-1932, Roma 2012. Burg 1991 A. Burg, Novecento Milanese: i novecentisti e il rinnovamento dell’architettura a Milano fra il 1920 e il 1940, Milano 1991. Cappellin 2010 R. Cappellin, Reti di conoscenza e innovazione e Knowledge Management territoriale, in G. Pace (a cura di), Sviluppo, innovazione e conoscenza. Strumenti per un’economia mediterranea, Milano 2010, pp. 206-236. Crippa 2015 M. A. Crippa, Abitare in Lombardia tra XIX e XX secolo, in M. A. Crippa (a cura di), Milano e Lombardia dall’alto, Milano 2015, pp. 225-319. Crippa 2016 M. A. Crippa, Avvicinamento alla storia dell’architettura, Milano 2016. Gambirasio, Mainardi 1982 G. Gambirasio, B. Mainardi (a cura di), Giovanni Muzio, opere e scritti, Milano 1982. Gatti Perer 1991 M.L. Gatti Perer (a cura di), Dal Monastero di S. Ambrogio all’Università Cattolica, Milano 1991. Langè 2008 S. Langè, La particolarità milanese: il sistema diffuso della formazione, in Azzaro 2008, pp. 113-122. Muzio 1931 G. Muzio, Alcuni architetti d’oggi in Lombardia, in «Dedalo», agosto 1931, ora in Gambirasio, Mainardi 1982, pp. 254-355. 13 Pertot, Ramella 2016 G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946. Alle origini della ricostruzione, Cinisello Balsamo 2016. Reggiori 1935 F. Reggiori, Arch. Giovanni Muzio. I Collegi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, in «Architettura», XIV, maggio 1935, pp. 321-331. Rossi, Rovetta 2009 M. Rossi, A. Rovetta (a cura di), La fabbrica perfetta e grandiosissima. Il complesso monumentale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2009. Secchi 2000 B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Bari 2000. FROM THE ORIGINAL ARTICULATION OF UNIVERSITY CAMPUSES AND THEIR URBAN SETTING IN MILAN, TO THE PRESENT: THE CASE OF THE CATHOLIC UNIVERSITY OF THE SACRED HEART The universities activated in the first half of the 20th century in Milan are interesting modern cases of connecting their life and buildings with the city. This principle was implemented in different ways in these first four poles: Città Studi; Università Statale; Università Bocconi; Università Cattolica del Sacro Cuore. The case of the Università Cattolica is emblematic. In his change of destination project, the architect Muzio adapted the ancient Cistercian Monastery, designed by Bramante and connected to the basilica of S. Ambrogio, according to personal urban criteria. He carefully restored important sectors, added new volumes, modified the interior spaces. After obtaining from the municipal administration to modify the local road system, he also built a group of autonomous colleges alongside the former monastery. Today, each of the four historical universities of Milan is the central pivot of a network system of buildings on a regional scale, also on a national scale in the case of the Cattolica. 14 L’ARCHITETTURA DEL CAMPUS AL POLITECNICO DI MILANO. STORIA, SVILUPPO TERRITORIALE E NUOVI INNESTI URBANI Emilio Faroldi Campus e città: l’università quale motore di innovazione e rinnovamento del sistema urbano “Considero la scuola come un ambiente spaziale dove sia bello imparare” (1). L’architettura universitaria trova la sua ragione negli spazi modellati dalle esigenze di chi vive e cresce nei luoghi del sapere e della formazione. I fruitori di tali spazialità appartengono a un’ampia ed eterogenea collettività che viene coinvolta a partecipare e a collaborare sinergicamente alle dinamiche attività dell’Ateneo. “L’attività accademica non sopporta più l’isolamento in quanto ha necessità di contatti immediati e continui con una rete assai diffusa di operatori che costituiscono la sua sede reale di committenza” (2). Un luogo d’avanguardia e di sperimentazione, che ha storicamente saputo tradurre tali peculiarità nella fisicità dei suoi spazi, traducendo il contesto accademico in una realtà originale titolare di una propria identità, puntualizzata da opere paradigmatiche e rappresentative dell’epoca di loro concezione. L’architettura universitaria rappresenta un attendibile barometro in grado di intercettare, anche negli aspetti di natura morfo-tipologica, le ragioni dell’innovazione, la solidità della conoscenza e l’appartenenza alla nobile categoria dei luoghi per la cultura. L’Università, perciò, in quanto istituzione urbana, è in grado di configurarsi quale “motore di innovazione e di sviluppo del sistema urbano: la sua presenza contribuisce all’irrobustimento delle ragioni della qualità, innescando una trasformazione dinamica capace di attivare processi di rinnovamento urbano e di rilancio economico” (3). Le strategie evolutive delle università europee, sin dalla loro nascita, risultano connesse a quelle città nelle quali si insediano e sviluppano, in forma proattiva, le istituzioni accademiche: Campus (4) diffusi e nodi cruciali di una rete culturale e formativa, fortemente legata alle logiche e ai cambiamenti sociali e culturali dei centri urbani, in contrasto con i modelli connessi all’indipendenza e all’isolamento di matrice statunitense e anglosassone. L’ideazione dei Collegi di Urbino (5) rappresenta un caso emblematico nel quale si evince l’interazione condivisa tra istituzione universitaria e territorio, valutata quale un’opportunità di arricchimento per le relazioni sociali e culturali della città. Affermava De Carlo: “Il mio sforzo è stato quello di costruire un insediamento universitario indubbiamente contemporaneo, ma gestito dagli echi della storia di Urbino: al punto che un cittadino potrebbe considerarli parte della città che già conosce e sente familiare e volerli frequentare abitualmente, come fa con i luoghi della città stessa anche se qui vivono prevalentemente studenti. In altre parole, l’intenzione era quella di stabilire uno scambio permanente tra la città storica e la città dei Collegi” (6). Il legame biunivoco tra l’Ateneo e l’urbe vede il polo accademico trasformarsi in volano culturale, sociale, economico per il centro urbano: specularmente, la città costituisce un terreno fecondo di possibilità e una fonte di stimolo per l’adeguamento continuo nel campo della didattica e dell’innovazione mediante lo strumento della ricerca. “L’università diventa perno del sistema produttivo per l’innovazione e trasferimento tecnologico nel territorio incidendo sulla base economica quale agente di trasformazione urbana” (7) dalla dichiarata responsabilità sociale. All’interno del dibattito inerente all’identità che “traguarda una natura multi-transcalare come spazio di flussi” (8), la città contemporanea può interpretare l’università quale occasione di definizione di un luogo pubblico. L’obiettivo è rivolto alla qualità, apertura e sperimentazione di “una pratica riflessiva progettuale: un servizio e uno spazio per la città in cui si genera la nuova conoscenza pratica, quella in cui la validità delle proposte è governata e limitata alle situazioni di indagine nella quale trova utilità” (9). In altre parole, il Campus universitario dovrebbe costituire quel contesto pubblico attivante (10), sede di una nuova soglia tra utilità accademica e utilità sociale, intese quali chiavi di riconnessione e rafforzamento del rapporto esistete tra la città e le sue parti. Le università europee e la città di Milano “La città è il luogo deputato alla produzione e alla fruizione di conoscenza e cultura. L’università è il luogo dove confluiscono risorse umane qualificate, idee ed innovazioni, dove è presente in genere, un’elevata apertura internazionale e questo favorisce il transito di informazioni, conoscenza e sapere” (11). La conoscenza e la cultura rappresentano gli strumenti atti allo sviluppo del territorio: il contributo dei centri universitari coopera allo sviluppo della sfera culturale nella città contemporanea. I campus, tuttavia, sono soggetti a numerosi cambiamenti dettati dal progresso tecnologico, dalle politiche urbane, dagli effetti dei processi globali e dalle costanti 15 Fig. 1 - a) Politecnico di Milano, Città Studi. Edificio del Rettorato, 1927 (Archivio Storico, Biblioteca Candiani, Milano Bovisa); b) Città Studi. Vista a volo d’uccello, 1927 (Archivio Storico di Ateneo, Fondo Miscellanea disegni, dediche, fotografie). variazioni presenti nei programmi didattici e nel settore della ricerca. Tali dinamiche si concretizzano nella realtà europea, veri e propri teatri del millenario patrimonio rappresentato dalle strutture universitarie. Dal XX secolo tale insieme non è stato esclusivamente coinvolto in un deciso processo di gemmazione e proliferazione del numero di sedi, bensì da un’evidente volontà 16 di adeguamento delle strutture a nuove logiche di insegnamento e di conseguente apprendimento (12). Una ricchezza distributiva, morfologica, funzionale e architettonica custodita sia nelle grandi città, sia in quelle più decentrate e satelliti delle prime. Nelle loro differenti e ibride declinazioni dimensionali le città universitarie hanno sempre fornito risposte Fig. 2 - Politecnico di Milano. Edificio Trifoglio, 1956-1960 (Marco Introini photography). innovative e aggiornate ai nuovi stili di vita, di apprendimento, di comprensione della conoscenza e del mondo. Le università rappresentano un significativo laboratorio in fieri, detentore di un costante monitoraggio dei nuovi modi di abitare, nel quale si mettono in relazione momenti lavorativi, azioni ludiche e loro connessioni con le forme contemporanee dell’abitare. Alcuni Campus europei possono essere eletti a modelli di sistemi integrati ed efficienti capaci di coordinare le richieste di studenti e ricercatori mirate a soddisfare la richiesta di soggiornare e operare in ambienti confortevoli e facilmente raggiungibili. Si pensi all’Universidad Politécnica de Madrid, all’Universitat Politécnica de Catalunya, alla TU Delft University of Technology o al Wien New University Campus. Anche l’architettura di valore trova ricovero in questo ambito di dibattito: la Facoltà di Architettura dell’Università di Oporto di Alvaro Siza, ad esempio, rappresenta un “componimento che aspira ad essere un lavoro ben fatto e pensato, in grado di rispondere ai bisogni del vivere dell’uomo, attraverso soluzioni funzionali e concrete” (13). Nel contesto italiano, la città metropolitana di Milano risulta essere la prima città del Paese in ambito di offerta e organizzazione universitaria: un livello confrontabile a quello delle più rinomate città europee nel settore delle strutture per la formazione. Il sistema di Università, nel territorio milanese, comprende 39 centri universitari, con 44 facoltà (14) (oggi scuole). Le statistiche indicano la presenza di 267.520 iscritti e più di 27 mila dipendenti riconducibili agli ambiti della didattica, ricerca e dell’apparato tecnico amministrativo: una dinamica di percentuale in forte crescita riconducibile all’aumentato fattore di attrattività che la Lombardia oggi possiede nei confronti del territorio nazionale e dei contesti internazionali (15). Ciò, non esclusivamente per ragioni di matrice quantitativa: i numerosi poli universitari del capoluogo lombardo, infatti, rappresentano oggi metropoli nella metropoli. Grandi sistemi urbani che mutano costantemente la fisionomia di interi contesti, attraendo studenti e investimenti internazionali, stimolando una crescente competitività (16) a livello istituzionale e territoriale volta a perseguire sempre in maggior misura, gradi di eccellenza nella formazione e nella ricerca. A ciò, si affianca il particolare ed efficace riguardo riservato alle esigenze del mercato del mondo lavorativo e del settore legato alla terza missione (17), attraverso la creazione di un modello relazionale e virtuoso tra Imprese, Istituzioni di Governo e Università. Il Politecnico di Milano Le sedi del Politecnico di Milano risultano essere parte integrante del tessuto connettivo e sociale della città, configurandosi quali veri e propri quartieri e reti. Il caso della realtà di Città Studi, nella sua stratificata articolazione, rappresenta oggi, a distanza di oltre un 17 secolo dalla sua fondazione, una trama nevralgica del sistema urbano milanese, sia per il profilo di fulcro urbano educativo, sia per il ruolo che ha assunto nello sviluppo parallelo di crescita della città metropolitana. Nel 1859 si posero le basi dell’Istituto Tecnico Superiore di Milano che dopo pochi anni mutò il suo statuto in Università. Sulla base delle proposte, nel PRG Pavia-Masera del 1912, di realizzare una porzione di città dedicata alla funzione universitaria, nacque Città Studi (fig. 1), collocata nell’area periferica adiacente ai prati di Lambrate, la cui nuova sede dell’Università Politecnica fu inaugurata nel 1927, a seguito della sospensione dovuta al periodo bellico. Il complesso architettonico si configura quale sistema a padiglioni, tra loro collegati da portici, immersi nel verde, come mutazione di configurazioni urbane e tipologie storicamente dedicate ai luoghi della salute fisica e mentale. Da elemento periurbano, a seguito dell’espansione verso le periferie promossa dal Piano Albertini (1934), Città Studi divenne un quartiere integrato alla città consolidata. L’implementazione dell’organismo universitario si pose in relazione e in continuità con la crescita della città: i tracciamenti del sistema infrastrutturale urbano, e le sue conseguenti modifiche, costituirono l’ossatura di base sulla quale si articolarono le nuove integrazioni architettoniche. Nel secondo dopoguerra la Facoltà di Architettura cercò nuove spazialità, che trovarono una convincente e permanente risposta nel Campus Bonardi, posto a nord del quartiere universitario di ingegneria. Gio Ponti e Giordano Forti, sotto la supervisione di Piero Portaluppi, ne progettarono l’ampliamento concretizzatosi attraverso la realizzazione, in particolare, di due manufatti emblematici nella storia dell’architettura milanese degli anni Cinquanta e Sessanta: il Trifoglio (fig. 2) e la Nave. L’anima dell’intervento dei due grandi edifici destinati ad aule didattiche, fu costituito dallo scavo del lotto, che andò a formare un nuovo livello urbano rispetto al piano stradale e che diverrà, nei successivi sviluppi, l’elemento unificatore degli interventi puntuali che caratterizzano l’attuale struttura dell’area posta tra via Bonardi, via Ampére e il centro balneare Giulio Romano, più noto come piscina Ponzio. Attualmente sono in corso lavori che prevedono la realizzazione della nuova Aula Magna dell’Ateneo, collocata all’ultimo livello dell’edificio Trifoglio. Fig. 3 - Politecnico di Milano. Vittoriano Viganò, Facoltà di Architettura, 1985 (Marco Introini photography). 18 Il successivo episodio architettonico, firmato da Vittoriano Viganò e completato nel 1985, si inserisce con forza e carattere in tale sistema innestando e seguendo “una linea costante e antica” (18), dettando le regole di una nuova spazialità urbana fondata sulla cultura delle differenze nella loro sovrapposizione storica e culturale a servizio di docenti, studenti e dell’utenza cittadina (fig. 3). Tali spazialità, aperte e pubbliche dell’Ateneo, vengono concepite come luoghi di incontro e di socializzazione, rappresentando dei fondamentali generatori di opportunità diversificate (19): attrezzature sportive, sale espositive, auditorium, punti ristoro, piazze coperte, giardini pubblici attrezzati, sono solo alcuni degli elementi che costituiscono il complesso sistema dei dialoghi corali del nuovo sistema, che offre nuove opportunità d’incontro e di identificazione della comunità universitaria e di quartiere. Nella prospettiva strategica di Politecnico a rete (20), a partire dal 1989 furono inaugurate le nuove sedi localizzate nel quartiere milanese di Bovisa e nelle realtà di Como, Lecco, Mantova, Cremona, Piacenza. Come Muzio affermava nel suo intervento Forme nuove di città moderne, «non gli enormi ampliamenti e le soluzioni tecniche perfezionate formano il decoro della città, ma soltanto gli insiemi architettonici» (21), così i grandi interventi nella Goccia, a nord della città, stanno sempre più perseguendo una logica di unitarietà e coordinamento, in una visione globale di ricucitura e rigenerazione urbana, all’interno della quale l’istituzione universitaria svolge un ruolo da protagonista. Proprio dal 2017 il Politecnico ha intrapreso una nuova politica di dialogo con l’Amministrazione Comunale che prevede l’ampliamento del proprio Campus verso gli spazi della Goccia medesima: il progettando Parco dei Gasometri rappresenterà il tassello più importante di tale sviluppo. Fig. 4 - ViVi.Polimi.lab, Masterplan 2017-2022, Campus Leonardo, Politecnico di Milano. La riqualificazione dello storico Campus Leonardo, in zona Città Studi, muove dall’obiettivo di nobilitare il luogo simbolo dell’Ateneo, aumentandone la vivibilità e la percezione, per mezzo di azioni progettuali in grado di ripensare l’intero ambito in maniera integrata alla città, tramite progetti tesi ad innalzare la vivibilità dei luoghi, la valorizzazione degli spazi aperti e di relazione, per mezzo di ibridazioni funzionali e spaziali che riguardano lo studio, la ricerca, i servizi. 19 Nuovi scenari per il Campus universitario Progettare nella contemporaneità significa affermare che le dimensioni del tempo risultano unite da una segreta parentela, di cui il presente è un anello tra il passato e il divenire urbanistico e architettonico di una realtà. Affinché un’architettura di oggi assuma tale ruolo, occorre che ci sia in essa la cosciente presenza del passato, nella prospettiva del futuro (22). Il valore della progettazione contemporanea, contestualizzando le parole di Ignazio Gardella, è fortemente legato non solo alla capa- cità di un progetto di inserirsi in continuità con le trame del passato, bensì nell’abilità concettuale di prospettare nuovi scenari dinamici e fisici, che rispondano alle attuali richieste di una società in continua evoluzione. L’Università, incubatore sociale e fulcro del mutamento, rientra a pieno titolo in tale logica: un frammento di città, non isolato, animato da una realtà e da uno spirito che possiede propri ritmi, flussi e regole interne. Il luogo relazionale del Campus politecnico milanese diviene strumento didattico e di sperimentazione, ‘al vero’, all’interno della sfera comportamentale dei suoi Fig. 5 - ViVi.Polimi.lab, Agorà degli studenti, Campus Leonardo, Politecnico di Milano, 2017-2020 (Marco Introini_photography). Il nuovo spazio attrezzato per gli studenti, collocato al primo piano della sede della Scuola di Architettura del Campus Leonardo di Milano, ha riguardato la riqualificazione e valorizzazione degli spazi interni dell’edificio collocato all’incrocio tra via Bonardi e via Ampére, al fine di dotare la Scuola di aggiornate aree e postazioni studio in linea con l’importanza storica e culturale del manufatto architettonico, valorizzando il suo posizionamento baricentrico e strategico rispetto agli edifici limitrofi. L’area oggetto di rifunzionalizzazione si trova all’interno di un complesso di edifici progettati da figure di notevole spessore culturale: realizzato tra il 1953 e il 1961 su progetto da Giordano Forti, Gio Ponti e Piero Portaluppi, l’edificio è stato concepito come “edificio insegnante”, nel quale al proprio interno sono state allocate, costituendo un campionario materico dell’edilizia moderna, numerose tipologie di materiali e sistemi costruttivi. In tali nuove spazialità è stata trasferita la Presidenza della Scuola AUIC, ristabilendo lo storico assetto. Una nuova “piazza per gli studenti”, denominata “Agorà”, a simboleggiare un nuovo luogo di incontro, per lo studio personale e collettivo, per il lavoro al tavolo e per la realizzazione di modelli tridimensionali, dotata di nuove attrezzature per l’archiviazione di oggetti personali. Una soluzione che consente l’esposizione di modelli tridimensionali ed elaborati grafici. 20 abitanti, e in quella di affinamento e formazione tesa a promuovere cultura e sensibilità nei confronti dell’ambiente. Risulta fondamentale il dialogo sinergico tra le qualità dello spazio di lavoro e di studio e quelle della ricerca e della didattica. L’adeguamento agli standard qualitativi internazionali e la costante volontà di essere al passo con le rinnovate istanze della società e della comunità politecnica, ha portato l’Ateneo a una sostanziale riflessione inerente ai propri spazi e la loro trasformazione, approfondendo, promuovendo, attuando strategie e progetti che collocano al centro del sistema l’integrazione degli spazi universitari con la città, i paradigmi della sostenibilità ambientale e i nuovi modi di vivere ed erogare formazione (23). Fig. 6 - ViVi.Polimi.lab, Il Giardino di Leonardo, Campus Leonardo, Politecnico di Milano, 2017-2022 (Marco Introini_photography). Il Giardino riguarda la riqualificazione degli spazi retrostanti l’edificio storico del Rettorato: un nuovo spazio, limitrofo alla storica e recentemente rinnovata Piazza Leonardo da Vinci, qualifica l’esistente attraverso l’efficace connubio del sapore contemporaneo affiancato a quello di inizio Novecento. Obiettivo primario del progetto è quello di garantire la valorizzazione e la massima vivibilità pedonale dello spazio, rendendolo maggiormente fruibile tramite l’eliminazione di circa 130 posti per il parcheggio delle autovetture che nel corso degli anni si erano impadronite del contesto. In un’ottica di sostenibilità e di rigenerazione, il progetto intende strutturare gli spazi aperti del Campus in modo da soddisfare le modalità d’uso adottate dalle persone che quotidianamente li frequentano. L’intervento è teso a recuperare e valorizzare le valenze storiche del Campus, conferendo ordine formale e qualità architettonica e ambientale, con particolare riferimento allo spazio centrale verde prospicente il Rettorato, e ai suoi viali alberati. La sostenibilità del progetto si esprime privilegiando lo spazio verde continuo, ampliandone la superficie e rendendola fruibile sia in maniera informale, sia attraverso diverse isole attrezzate funzionalmente autonome. Il progetto propone una rilettura del sistema degli spazi che non tradisce l’impostazione del progetto originario attualizzandola alle esigenze di un Campus fortemente vissuto dagli studenti, docenti, tecnici amministrativi, cittadini. 21 L’unità disciplinare architettura-urbanistica da Alberto Samonà teorizzata (24) è la chiave per un progetto in dialogo: i nuovi orizzonti progettuali del Politecnico di Milano sono mossi dall’imperativo della rigenerazione, riorganizzazione e riassetto degli spazi alla luce di nuovi modelli formativi e innovativi supporti strumentali. Dopo anni di interventi puntuali, il sistema infrastrutturale torna a rappresentare la struttura portante dei Campus del Politecnico, elementi fondanti dei processi d’integrazione verso l’esterno e di qualificazione del funzionamento interno. L’idea progettuale concepita dall’alumnus Renzo Piano individua nella qualità dello spazio aperto la base essenziale di un sistema capace di riorganizzare il Campus di Architettura di Via Bonardi, per mezzo di uno spazio esterno alberato (circa 9000 mq), aperto alla collettività, che funge da luogo dello stare e da tessuto connettivo tra gli elementi del Campus, valorizzandoli architettonicamente e integrandone l’offerta funzionale (25). L’importante ruolo della ricerca e dell’innovazione tecnologica per l’Università è altresì identificato dal progetto del nuovo complesso di Chimica: una struttura in grado di rispondere alle esigenze di implementazione dei luoghi per la ricerca avanzata e, al tempo stesso, di porsi quale elemento ordinatore di relazione tra viabilità pubblica, verde e attrezzature sportive adiacenti (26). Per il presidio di tali processi di trasformazione urbana, il Politecnico di Milano ha avviato un’azione progettuale e di governance del processo denominata “Vivi.Polimi”: programma operativo e progettuale, ideato e coordinato da Emilio Faroldi, che ha portato alla elaborazione di due masterplan strategici - uno relativo a Città Studi (fig. 4); l’altro riguardante l’area di Milano Bovisa - preposto ad aggiornare e potenziare la qualità di vita negli spazi indoor e outdoor del Campus Leonardo. Le principali operazioni progettuali interessate dal programma, riguardano un’articolata rete di attività progettuali e realizzative, per natura ed entità tra loro interconnesse: dalla costituzione di una nuova Agorà degli studenti, (fig. 5), limitrofa e collegata all’edificio progettato da Vittoriano Viganò, alla riqualificazione del giardino storico di Leonardo, tramite l’ambizioso obiettivo di rinobilitare il luogo simbolo dell’Ateneo, aumentandone la vivibilità e la percezione, tramite la delocalizzazione delle numerose automobili oggi presenti, il ridisegno dei principali assi di collegamento dei nodi di mobilità pedonale, l’incremento delle superfici a verde, la ripavimentazione con materiali lapidei dei viali storici e l’inserimento di nuove strutture coperte e cablate per lo studio all’aperto. Il Giardino di Leonardo: questo il suo nome (fig. 6), in onore del genio italiano per eccellenza più rappresentativo dell’approccio politecnico, a cinquecento anni dalla sua morte. In continuità con tale ottica, anche via Edoardo Bonardi ricopre un ruolo fondamentale: la sua auspicabile e probabile pedonalizzazione permetterà di collegare 22 spazialmente e metaforicamente il Campus di Architettura post-bellico allo storico Campus storico Leonardo, pur confermando la presenza della linea del tram, quale arteria vitale di un trasporto pubblico urbano, dolce e storicamente sostenibile. L’Ingegneria e l’Architettura potranno in tal modo darsi appuntamento in una pedonalizzata via Bonardi, storicizzata linea di divisione fisica tra due discipline, oggi, indissolubilmente interrelate. La valorizzazione e rigenerazione dell’ex area industriale di Bovisa - luogo nel quale l’Ateneo rappresenta da quasi ormai trent’anni una presenza consolidata - si prefigge la messa a sistema dei consistenti manufatti architettonici che oggi definiscono spazi disconnessi e destrutturati. La riorganizzazione di un’area ospitante un sottoutilizzato eliporto, collocata nel cuore del Campus La Masa, si concretizza nella realizzazione della Collina degli studenti, complesso dedicato a spazi per lo studio e funzioni accessorie, caratterizzato dalla forte integrazione tra spazi interni ed esterni, attraverso aree pubbliche polifunzionali e aree verdi destinate a ospitare eventi culturali e ricreativi. Nuovi luoghi di aggregazione per le comunità dei quartieri e per la crescente collettività studentesca, nei quali l’istituzione del Politecnico rappresenta l’autore e il beneficiario del cambiamento e dell’innovazione. Un dialogo nel solco di un sistema unico costituito dalla città e dagli ambiti della formazione, che sancisce il ruolo, che da sempre l’Università incorpora, di faro dei rilevanti mutamenti di matrice sociale e urbana che coinvolgono le realtà urbane interessate da tale imprescindibile e sempre più importante funzione pubblica sociale (27). L’Università come luogo dove storia, sviluppo territoriale e nuovi innesti urbani ridefiniscono un’idea di città quale entità unica, dove l’architettura della formazione rappresenta, anch’essa, la struttura generatrice e portante del futuro sviluppo del nostro vivere urbano. (1) Kahn 1960, p. 70. (2) De Carlo 1968. (3) Perry, Wievel 2008, p.12. (4) Nella tradizione occidentale, i campus trovano la loro origine nella configurazione dell’agorà greca, traendo ispirazione dalla dinamica del dibattito socratico in un luogo aperto e pubblico. Nel tempo, da una spazialità in continuità con il paesaggio, l’agorà diventa un’area ordinata e precisa nella pianificazione dei campi militari romani, introducendo la duplicità del campus come luogo nel quale convivono i concetti di libertà e di controllo. (5) Giancarlo De Carlo, Collegi universitari in Colle dei Cappuccini, Urbino, 1960-1987. (6) Buncuga 2000, p. 132. (7) Bonfantini 2013. (8) Urraya 2010. (9) Schön 1983 (1993). (10) Cognetti 2013. (22) Gardella 2002. (11) Dilorenzo, Stefani 2015, p. 5. (23) Faroldi 2008. (12) Bagnasco 2004. (24) Marras, Pogacnik 2006. (13) Siza, Dubois, Chiaramonte 1997. (14) Balducci, Cognetti, Fedeli 2010. (15) Come espresso nel Portale dei dati dell’istruzione superiore. Censimento inerente agli Atenei della regione Lombardia, Miur, Anno 2019. (16) Nel QS World University Rankings 2019, sistema di valutazione internazionale delle università in cui l’employer reputation (competenze d’impiego futuro) e la academic reputation (valutazioni dello studio accademico) sono due indicatori che parametrizzano l’università, il Politecnico di Milano si classifica al 156esimo posto al mondo e primo in Italia.. In particolare, l’Ateneo si è posizionato nono nella Facoltà di Architettura, 17esimo nella Facoltà Ingegneria, quinto nella Facoltà di Design. (17) Lo studioso Henry Etzkowitz individua tre momenti nell’evoluzione delle università: quello della definizione della funzione didattica, nel periodo medioevale-età industriale; quello della attenzione alla ricerca, dalla prima rivoluzione accademica del XIX secolo; quello della consapevolezza del ruolo della conoscenza nello sviluppo sociale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questi tra aspetti costituiscono la “triplice elica” della missione dell’università; cfr. Etzkowitz 2008. (18) Mantero 1991. (19) Torricelli 2009. (20) Ci si riferisce alla politica del Politecnico (1990-2000) mirata ad espandere le proprie sedi nella regione lombarda, nella visione di un sistema a rete. (21) Muzio 1930. (25) Tre nuove strutture, sorte da un’idea di Renzo Piano, due delle quali caratterizzate da una copertura praticabile posta in continuità con il tracciato pedonalizzato di Via Bonardi, ospiteranno laboratori di modellistica, di progettazione e di tecnologie digitali oltre che spazi studio e aule destinate alla didattica. (26) Il nuovo spazio del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica Giulio Natta, si collocherà di fronte Centro Sportivo Mario Giuriati, anch’esso sottoposto a un intervento di riqualificazione e implementazione delle strutture esistenti. (27) I progetti riportati sono stati elaborati internamente dalle strutture del Politecnico di Milano e con figure ad esso afferenti. Alla loro redazione hanno contribuito, a vario titolo, docenti, dottori di ricerca, assegnisti di ricerca, professionisti, affiancati dai tecnici dell’Area Tecnica Edilizia del Politecnico medesimo. In particolare, alle citate progettualità hanno contribuito, con ruoli e tempi differenti: il professore Emilio Faroldi, Prorettore Delegato e coordinatore del progetto Vivi.Polimi, i professori Stefano Capolongo, Francesco Infussi, Antonio Emilio Alvise Longo, Lorenzo Jurina, Camillo Magni, Laura Elisabetta Malighetti, Tomaso Monestiroli, Eugenio Morello, Filippo Orsini, Alessandro Perego, Gianfranco Pertot, Matteo Umberto Poli, Tiziana Poli, Maurizio Rossi, Michele Ugolini, Ilaria Valente, Maria Pilar Vettori; Arch. Davide Allegri, Ing. Arch. Andrea A. Bassoli, Ing. Fulvio Bernabei, Arch. Matteo Cervini, Arch. Marta Cognigni, Per. Ind. Alessandro Corti, Arch. Andrea Cremonesi, Arch. Andrea Gianni, Arch. Giuseppe Mondini, Arch. Giacomo Penco, Dott. Virgilio Piatti, Ing. Edoardo Poletì, Arch. Paolo Raffaglio, Ing. Bruno Sala, Arch. Alessia Sarno, Ing. Gianluigi Sevini, Arch. Manuela Strada, Ing. Michele Terreni; fotografo Marco Introini. Bibliografia Bagnasco 2004 A. 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THE ARCHITECTURE OF MILAN’S POLYTECHNIC UNIVERSITY CAMPUS: HISTORY, EXPANSION AND NEW URBAN SOLUTIONS The University Campus is a driven force of innovation and urban development, although many interpretative changes regarding its relationship and socialcultural function with the city. In their different ways, university cities have always been able to provide an innovative response to new lifestyles and new kind of learning, offering original and avant-garde spatiality. The new planning of the Politecnico di Milano are going to reorganize the campus structure, with the aim of a sustainable and flexible regeneration of spaces. ViVi.Polimi.lab is the set of these projects aimed at restoring the domestic and familiar meaning of the place of study. 24 MILANO: “CAMPUS NON CAMPUS” Pierfranco Galliani Nell’architettura universitaria, il termine inglese campus ha assunto nel tempo un’estensione di significato. A quello propriamente riferito a un ampio spazio libero sul quale si affacciavano gli edifici per lo svolgimento delle attività legate all’insegnamento e alla vita collettiva dei suoi utenti, docenti e studenti, si è aggiunto il significato inclusivo di complesso educativo (1). Entrambi propri delle università americane, il primo evoca immediatamente l’immagine dell’Università della Virginia a Charlottesville, attorno al cui prato centrale si estendeva ciò che il suo fondatore, Thomas Jefferson, chiamava “villaggio accademico”; il secondo, riferendosi alle esperienze successive, identifica l’insieme degli edifici e degli spazi di relazione dedicati all’attività universitaria, nella loro autonomia morfologica e funzionale rispetto al contesto. Analoghi criteri di autosufficienza hanno ispirato denominazioni come “città degli studi” e “città universitaria” che esprimono maggiori coincidenze tra l’insediamento universitario, articolato in più comparti, e lo sviluppo della città (2). Nella tradizione del campus, oltre agli spazi per la didattica, la ricerca, la gestione universitaria, sono compresi residenze, impianti sportivi e spazi aperti a verde. I casi in sintonia con questa impostazione sono abbastanza isolati nel panorama delle strutture universitarie in Italia: le Università della Calabria a Rende, di Salerno a Fisciano e, parzialmente, le sedi universitarie di Pescara e di Parma (3). Un caso atipico, vicino a realtà inglesi come Oxford o Cambridge, può essere considerato quello dell’Università di Urbino, dotata di estesi collegi residenziali nelle aree collinari limitrofe al centro (4). Le vicende di fondazione, decentramento, trasformazione della sede del Politecnico di Milano rappresentano passaggi paradigmatici della cultura del progetto in questo settore. Le attuali azioni di integrazione con il contesto e di riqualificazione degli spazi aperti poggiano sul superamento di posizioni ideologiche e sul pragmatismo seguito da altre università milanesi. Esordio – Fondazione di Città Studi e sviluppo del Politecnico di Milano Nei primi decenni del Novecento, in un contesto fortemente indirizzato alla soluzione della “città universitaria”, si faceva strada la creazione di Città Studi e della sede del Politecnico di Milano. Il nuovo insediamento veniva inaugurato nel 1927 in base a un piano di urbanizzazione impostato nel 1913 su una vasta area libera che, ceduta dal Comune di Milano, non possedeva una precisa vocazione funzionale essendo lontana da altri servizi e infrastrutture urbane. “La lottizzazione avvenne secondo i criteri urbanistici del Piano Beruto, continuando cioè il tracciato tardo ottocentesco e delimitando in ambiti definiti da uno o più isolati gli spazi di ogni singola disciplina” (5). Il criterio dell’epoca di articolazione della città in parti distinte funzionalmente poneva al centro il Politecnico, prospiciente una grande piazza disegnata da Piero Portaluppi; nei due lotti laterali erano previste, verso sud, le sedi di Agricoltura, Agraria, Veterinaria e gli Istituti clinici di perfezionamento; a nord della piazza, l’Accademia di belle arti, l’Accademia scientifico-letteraria e l’Orto botanico, che però non sarebbero stati realizzati. Il modello di urbanizzazione seguito per edificare il Politecnico e le sedi delle facoltà dell’Università degli Studi era a padiglioni isolati nel verde, “nato in Germania nell’Ottocento nell’intento di creare una nuova tipologia per l’università della scienza e di dare agli spazi universitari un’immagine grandiosa e autocelebrativa” (6). I riferimenti alla manualistica dell’epoca e alle forme classicheggianti assumevano declinazioni differenti: maggiormente solenne per il Politecnico, dove per inquadrare l’edificio centrale del rettorato erano utilizzati tipi a corte porticati; più aperta e meno densa l’immagine ambientale degli altri comparti, dove non vi erano edifici a corte e, in particolare, per Veterinaria l’edificazione era affidata a una sequenza di edifici disposti parallelamente (fig. 1). Questi primi insediamenti di Città Studi si relazionavano all’impostazione delle coeve grandi strutture urbane, come ospedali, caserme, quartieri di edilizia economica, che basavano il loro apporto innovativo sul rapporto fra sistema tipo-morfologico e razionale organizzazione delle singole attività. Un cambio di rotta significativo avveniva con la realizzazione del comparto della facoltà di Architettura che, all’inizio degli anni Sessanta, ricercava con nuovo realismo un rapporto con il contesto urbano circostante. Il nuovo organismo, studiato da Portaluppi nei primi anni Quaranta, veniva costruito tra il 1955 e il 1961 in un lotto separato dal tracciato di via Bonardi rispetto al complesso del primo Politecnico. L’idea di progetto prevedeva un organismo compatto rispetto ai fronti, ma dotato di un patio centrale su cui si affacciavano le 25 Fig. 1 - Veduta aerea dei primi insediamenti di Città Studi: il Politecnico di Milano e le Facoltà di Agraria e Veterinaria, 1930 (Archivio Generale del Politecnico di Milano). aule maggiori, una galleria espositiva e gli spazi di distribuzione. La rigidità dell’impianto avrebbe messo ben presto in evidenza la scarsa flessibilità d’uso degli spazi, soprattutto quelli delle grandi aule che non risultavano frazionabili. Vent’anni dopo, Vittoriano Viganò veniva incaricato di completare la sede di Architettura, i cui spazi erano ormai da tempo insufficienti. Il linguaggio introdotto si differenziava in modo evidente da quello dell’organismo preesistente, tramite l’uso di strutture portanti in acciaio e parti impiantistiche lasciate a vista, che sottolineavano l’orientamento “brutalista” dell’autore. L’idea del grande patio centrale, questa volta coperto e aperto sullo spazio pubblico, veniva efficacemente rilanciato come luogo di relazione tra spazi vecchi e nuovi e le diverse attività compresenti, ma soprattutto, come elemento di integrazione tra l’università e la città, quale riconoscimento al dibattito sul rapporto “architettura e 26 società” che aveva caratterizzato la facoltà di Milano nei decenni precedenti. Al momento di questa realizzazione, Gio Ponti aveva nel frattempo contribuito con grande evidenza al completamento di quello che oggi è il comparto di Architettura. Tra il 1960 e il 1965 erano stati costruiti due nuovi edifici per il biennio di Ingegneria: il “Trifoglio” e la “Nave”, così tutt’oggi denominati per la loro configurazione, disposti isolati all’interno di una parte del recinto universitario, che era stata ribassata per avere un collegamento diretto con il nucleo del primo Politecnico. “Nel progetto di Ponti prevalgono ... razionalità distributiva e ricerca formale sulla volontà di interpretazione e collegamento con il precedente impianto universitario dal quale si differenzia per scelte morfologiche, tipo e linguaggio” (7). L’edificio “Nave”, pensato per ospitare grandi aule da disegno e uffici degli istituti, sviluppava su nove piani fuori terra una estesa pianta a L; il “Trifo- Fig. 2 - Docenti del dipartimento di Progettazione dell’Architettura, planivolumetria del progetto per la sede del Politecnico di Milano a Bovisa, 1990 (da MONESTIROLI 1990, p. 25). glio”, costituito dall’accorpamento di tre aule gradonate da 400 posti ciascuna, proponeva una volumetria libera che mostrava esternamente gli andamenti altimetrici interni. Utopia – Progetti per il decentramento a Bovisa Alle soglie degli anni Settanta le istanze dell’università di massa evidenziavano nuove esigenze in termini di spazi e di servizi, che originavano soluzioni organizzate in macrostrutture a scala territoriale. L’esempio italiano più noto è la sede dell’Università della Calabria nell’area metropolitana di Cosenza (8), un campus segnato da una struttura architettonica a ponte lunga circa due chilometri, su cui si attestano gli spazi universitari e intorno alla quale sono ubicati servizi e residenze nel verde. L’avvento della dismissione industriale faceva evolvere le sperimentazioni macrostrutturali in macro sistemi urbani che nell’elaborazione di nuove centralità consolidavano la carica utopica di quei decenni, dimostrata anche da alcuni significativi ridimensionamenti di intervento a fronte della complessità ambientale dei luoghi e dall’eccesso di astrazione che affidava al potere della sola architettura l’esito positivo degli obiettivi prefissati, come nel caso del progetto non realizzato del nuovo Politecnico di Milano nell’area dei gasometri a Bovisa. Il decentramento di parte del Politecnico in un quartiere periferico della città veniva dichiarato come “un passo improrogabile per ... innescare un processo inverso di recupero di standard per ripristinare progressivamente condizioni accettabili per la didattica e la ricerca” (9). Consapevoli che il processo di lunga durata avrebbe potuto ingenerare interventi provvisori in edifici e aree immediatamente disponibili – come di fatto è accaduto – i progettisti (10) indicavano la necessità di configurare un progetto-programma a sostegno di una finalizzazione coerente degli investimenti da attuare (11). Il nuovo comparto urbano, progettato negli anni 1988-1990, prevedeva un parco longitudinale in cui erano ubicati i grandi “oggetti” architettonici del centro congressi e della biblioteca, e ai cui lati erano disposti gli isolati universitari, all’interno dei quali era prevista la compresenza delle funzioni fondamentali della didattica e della ricerca (fig. 2). L’insediamento era pensato per ospitare i dipartimenti sia di Architettura sia di Ingegneria e proponeva una serie differenziata di blocchi funzionali (a griglia, a pettine, a nuclei, aperti) destinati ad aule, uffici dipartimentali, laboratori pesanti, uffici amministrativi, servizi collettivi, residenze. La partecipazione al progetto di più docenti progettisti aveva reso necessaria la condivisione di uno schema di base e di alcune regole per sviluppare gli spazi. “La prima è stata una regola tipologica relativa agli isolati delle aule, laboratori, dipartimenti. La scelta del tipo a crociera è apparsa la più idonea” (12). Il concorso internazionale di progettazione “Bovisa area gasometri” del 1998, bandito dopo un decennio rispetto agli studi e al progetto dei docenti del Politecnico, individuava due vincitori ex aequo (13), che traevano indubbio spunto dalle precedenti proposte ma che non avrebbero trovato attuazione. Pragmatismo – Realizzazione dell’Università Bicocca, sviluppo dell’Università Bocconi “Il problema delle ... periferie è un problema di mancanza di identità urbana. Nelle periferie mancano luoghi significativi in cui siano riconoscibili le istituzioni civili. La localizzazione dell’università deve essere occasione per definire uno di questi luoghi strategici” (14). Se si collega questa affermazione al layout morfo-funzionale del quartiere Bicocca si possono forse comprendere le difficoltà avute dal “progetto Bovisa”, che affidava la realizzazione di una nuova urbanità a parti architettoniche concatenate in una spazialità ancora troppo metafisica rispetto all’idea di campus universitario, in cui la componente residenziale non risultava fondamentale e la 27 Fig. 3 - Vittorio Gregotti, planivolumetria del progetto per il quartiere Bicocca a Milano con gli edifici universitari nella fascia centrale, 1994-1999 (rielaborazione dell’A.). soluzione globale era vicina a quella di “città universitaria” di inizio Novecento. In una direzione differente procedeva infatti il “progetto Bicocca” che, studiato da Vittorio Gregotti e realizzato negli anni 1994-1999, aveva come obiettivo la rifunzionalizzazione dell’area industriale dismessa degli ex 28 stabilimenti Pirelli a Milano, caratterizzata dalla presenza di spazi per attività di didattica e ricerca universitaria. Il progetto, secondo il suo autore, tendeva a costituirsi come un vero e proprio “centro storico della periferia” (15). Il processo progettuale seguito metteva in primo piano la connessione delle ex aree industriali con il contesto attraverso operazioni di miglioramento dell’accessibilità e della dotazione di servizi generali, in grado di orientare i caratteri morfologici e d’uso dell’intero comparto. I quattro nuclei architettonici, inizialmente dedicati alla costituenda Università di Milano-Bicocca, risultavano totalmente immersi nel nuovo contesto urbano. In particolare, a nord erano accolte in due grandi edifici esistenti disposti a L quattro differenti facoltà (Giurisprudenza, Economia, Sociologia e Statistica); al centro, in un lotto attraversato dalla linea tranviaria, in quattro nuovi corpi a L simmetrici, uniti da una vasta piastra pedonale, erano ubicate le facoltà scientifiche (Biologia, Scienze Ambientali, Fisica, Informatica) (fig. 3). Un altro caso significativo, che rappresenta il pragmatismo milanese nel rapporto università-città, è delineato dall’Università Commerciale Bocconi, la cui sede veniva progressivamente ampliata a partire dall’organismo architettonico originario progettato da Giuseppe Pagano (1936-1941), corrispondendo sempre più a un comparto universitario incastonato all’interno di un tessuto urbano ad alta potenzialità residenziale, senza la presenza di effettivi recinti. Già all’inizio degli anni Cinquanta, il notevole incremento degli iscritti rendeva necessario introdurre alcune strutture ricettive: un pensionato e una mensa progettati da Giovanni Muzio. Lo stesso progettista veniva incaricato nel 1965 per i nuovi spazi dedicati alla facoltà di Economia e Commercio, per le nuove biblioteca e aula magna, stabilendo con rigore formale e distributivo una sintonia con la preesistenza di Pagano con cui costituiva il fronte principale (16). Dopo ampliamenti maggiormente utilitaristici – la Scuola di direzione aziendale (Vittore Ceretti, 1985) e l’edificio per aule denominato “velodromo” (Ignazio e Jacopo Gardella, 2001) – due nuovi importanti progetti avrebbero posto l’Università Bocconi al centro del dibattito architettonico. Il primo riguardava l’edificazione di un angolo urbano per esigenze quantitative ad alta intensità, attuato negli anni 2004-2008 a seguito di un concorso internazionale vinto da Grafton Architects, che avevano proposto un organismo significativamente proporzionato alla scala della città, con corti interne semipubbliche e fronti compatti e materici (17). Il secondo progetto, inaugurato nel 2019, rappresenta un considerevole ampliamento della sede Bocconi sulla vicina area dell’ex Centrale del latte. Il progetto di concorso, vinto dallo studio Sanaa nel 2012 (fig. 4), è pensato per completare le attrezzature esistenti, in particolare per nuove aule, residenze (300 posti) e Fig. 4 - Sanaa (K. Sejima, R. Nishizawa), inserimento morfologico dei nuovi edifici per il progetto di ampliamento dell’Università Bocconi a Milano, 2012-2019 (rielaborazione dell’A.). spazi per il tempo libero immersi in oltre 17.000 metri quadrati di spazi aperti a verde con l’intento di “creare un campus universitario dove studenti, insegnanti e visitatori possano far parte di una comunità accademica attiva, animata da un forte senso di relazione con la città” (18). Integrazione – Nuovi progetti per il Politecnico di Milano e Città Studi Dopo numerosi interventi di trasformazione e integrazione architettonica nel quartiere Bovisa per le strutture destinate alla Scuola di Design e ai dipartimenti di Energia, Ingegneria Gestionale, Meccanica, Scienze e Tecnologie Aerospaziali, e ai corsi di laurea direttamente collegati, il Politecnico di Milano ha negli ultimi anni individuato due principali ambiti di intervento per la sede storica di Città Studi: la riconfigurazione del comparto di Architettura, i cui lavori sono iniziati a metà del 2018, e la riqualificazione degli spazi aperti del nucleo storico dell’ateneo, per i quali la sistemazione di piazza Leonardo da Vinci (fig. 5) ha rappresentato un passo decisivo (19). A questi si sono aggiunti gli studi per il recupero di due storici comparti dell’Università di Milano, contigui al Politecnico: la rifunzionalizzazione delle aree di Agraria da parte del Politecnico per ottenere nuovi spazi; la conversione degli edifici di Veterinaria, facoltà in fase di trasferimento nella nuova sede di Lodi, per insediare il dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dello stesso ateneo. 29 Fig. 5 - Sara Protasoni, veduta del progetto per la sistemazione di Piazza Leonardo da Vinci antistante al Politecnico di Milano, 2013-2016. Gli approfondimenti condotti sull’intero quadrante di Città Studi dal 2017 (20) hanno verificato come la zona sia caratterizzata dalla forte presenza di servizi per l’istruzione superiore e per la salute, comprendendo anche l’Istituto dei Tumori e l’ospedale neurologico Besta, con l’obiettivo di delineare indicazioni strategiche per il futuro a partire dagli interventi già decisi o in corso. La previsione per il biennio 2018-2020 è che siano completati i lavori nel comparto di Architettura, sviluppati in base al progetto ideato da Renzo Piano nel 2015: demolizione di edifici accessori, adeguamento e valorizzazione degli edifici “storici” del secondo Novecento, costruzione dei nuovi corpi di supporto lungo il margine di via Bonardi (aule, sale studio, laboratorio di modellistica, coperture praticabili per 4.200 m2), sistemazione e piantumazione degli spazi aperti di connettivo (8.000 m2) (fig. 6). Nello stesso periodo potrebbe essere avviato il progetto di riqualificazione della Piscina Romano, confinante con il comparto di Architettura, e completato il trasferimento della facoltà di Veterinaria (21). Nel 2022, a conclusione del biennio successivo, dovrebbero risultare: insediate le nuove attività del Politecnico e dell’Università di Milano negli ex comparti di 30 Agraria e di Veterinaria; avviati gli studi o gli interventi su altre aree da recuperare, coinvolgendo anche l’Università di Milano-Bicocca; trasferiti l’Istituto dei Tumori e l’ospedale Besta (22). Per quanto riguarda la nuova sede del dipartimento di Beni Culturali e Ambientali nell’ex comparto di Veterinaria, si prevede l’inserimento di numerose aule (quattro da 200-300 posti) e laboratori per la didattica, uffici dipartimentali, sale studio, una biblioteca specializzata, spazi di ristorazione, oltre alla presenza di due altre importanti istituzioni: APICE (Archivi della parola, dell’immagine e della comunicazione) e il “Museo delle ossa” (Museo scientifico medico antropologico per i diritti umani, la criminalistica e la storia dell’uomo, curato da Cristina Cattaneo). Gli edifici del comparto, ispirati da un linguaggio liberty eclettico, influenzati dall’architettura rurale del nord Europa (23), sono tutelati e prevedono la possibilità di interventi di adeguamento interni ed eventuali integrazioni architettoniche nell’ambito di un generale processo di recupero dell’area e di valorizzazione degli spazi aperti. Anche in questo caso, come in quello delle opere in corso nel comparto di Architettura, si profila la compresenza di più modalità di intervento secondo una prassi, Fig. 6 - Renzo Piano-Politecnico di Milano, planivolumetria e sezione trasversale del progetto per la riqualificazione del comparto di Architettura, 2016 (Politecnico di Milano, Consiglio di Amministrazione, 28 giugno 2016). tanto realistica quanto innovativa, basata su tre operazioni fondamentali: riconoscimento dell’originalità dell’impianto morfologico che caratterizza il paesaggio urbano, con il mantenimento dell’organizzazione dispositiva delle parti costruite; recupero architettonico degli spazi interni al fine di adeguarli ai nuovi usi; ridisegno degli spazi aperti per avvicinare il luogo alla sensibilità della figurazione contemporanea e, soprattutto, alle nuove esigenze di una fruizione osmotica tra università e città. (1) Valente, Biraghi 2016, p. 12. (2) Ivi, p. 13. (3) Progetti coordinati da V. Gregotti (Rende), P.L. Spadolini (Fisciano), G. Grassi e A. Monestiroli (Pescara). (4) Progetto di G. De Carlo. (5) Dagnino 1999, p. 138. (6) Ibidem. (7) Ivi, p. 147. (8) Progetto coordinato da Vittorio Gregotti. (9) Baffa, Molon, Pugliese 1990, p. 77. (10) A. Acuto, M. Baffa, E. Battisti, G. Canella, S. Crotti, G. Grassi, M. Grisotti, C. Macchi Cassia, E. Mantero, A. Monestiroli, P.L. Nicolin, V. Viganò. (11) Baffa, Molon, Pugliese 1990, p. 78. (12) Monestiroli 1990, p. 13. (13) I progetti primi classificati presentati da Ishimoto Architectural & Engineering Firm e da Serete Italia spa. (14) Monestiroli 1990, p. 11. (15) Gregotti 1995, p. 27. (16) Pilastro, Sabatino 2010, p. 29. (17) Ivi, p. 37 (18) Marino 2016, p. 101. (19) Progetto di S. Protasoni, 2013-2016. (20) Consulenza per il Comune di Milano: Servizio di supporto tecnico scientifico per la definizione di nuovi scenari urbani nell’ambito Città Studi, coordinatore A. Balducci, Dastu, Politecnico di Milano. (21) Balducci 2017, p. 28. (22) Ivi, p. 78. (23) Città Studi, Università Statale, Facoltà di Veterinaria. Opere di restauro, ripristino e ristrutturazione con sopraelevazione, relazione a cura di L. Corrieri, 2017. 31 Bibliografia Baffa, Molon, Pugliese 1990 M. Baffa, M. Molon, R. Pugliese, Programma insediativo, modelli organizzaztivi, ipotesi tipomorfologiche, in «Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura», 11, 1990, pp. 77-84. Balducci et Alii 2017 A. Balducci et Alii (a cura di), Città Studi cambia. Stato dell’arte, Rapporto intermedio, Ottobre 2017, Dastu, Politecnico di Milano, 2017. Marino 2016 F. Marino, The new Bocconi Campus, in C. Baglione, R. Dulio (a cura di), Aule/Halls. Buildings for Studying in Milan, Santarcangelo di Romagna 2016, pp. 100-101. Monestiroli 1990 A. Monestiroli, Progetto di un nuovo insediamento del Politecnico alla Bovisa, in «Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura», 11, 1990, pp. 11-25. Dagnino 1999 M.L. 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Realizations and experimentations have traced different paths: from the complexes composed by isolated buildings of the 1920s-1930s to the territorial megastructures of the 1970s, to the great urban interventions of the 1980s1990s resulting from the abandonment of industrial sites. The idea of the campus, however, remained latent: present, due to the enclosure that delimits the relational spaces between the buildings; absent, as far as it concerns the collective services and residences that are fundamental part of a campus. Milan is a significant case. The establishment of the Politecnico and Città Studi, the unrealized project at Bovisa, the transformation programs of the historical premises represent paradigmatic passages of the culture of the project in this sector. The current actions of integration in the context and of the redevelopment of open spaces are based on the overcoming of ideological positions and on the pragmatism followed by other Milanese universities. 32 IL CAMPUS NAPOLETANO DI MONTE SANT’ANGELO Fabio Mangone In netto anticipo sulle altre sedi italiane, già negli ultimi tre lustri del XIX secolo, il grande Ateneo napoletano, che coniugava all’antichissima tradizione scientifica un esteso bacino di utenza, pensava con concretezza a realizzare una vera e propria cittadella universitaria, da realizzarsi sull’area collinare di Miradois a ridosso di via Foria, a partire da due importanti preesistenze quali l’Orto botanico, a valle, e l’Osservatorio astronomico in alto (1). Ben oltre l’opportunità di concentrare in un’area semicentrale tutte le facoltà universitarie, e le istituzioni scientifiche e le scuole di formazione post-secondaria autonome (come rispettivamente l’Osservatorio, o la Scuola di Ingegneria), si intendeva realizzare edifici moderni, con tipologie adatte alle specifiche esigenze della didattica e della ricerca. Il progetto restava inattuato per una serie di opposizioni, ed a lungo l’Università resterà all’interno della città storica, allocata prevalentemente in due nuclei distinti di ex conventi adattati alla nuova funzione, ed eventualmente ampliati. La situazione doveva poi diventare ancor più frammentaria dopo il 1935, quando le Scuole superiori indipendenti (Economia e Commercio, Ingegneria ed Architettura) vengono annesse all’Università. Il Piano Regolatore del 1937 ipotizzava di nuovo la possibilità di realizzare nell’area collinare ad est, e questa volta sulla collina dello Scudillo, una complessiva e completa cittadella universitaria, pure rimasta lettera morta, mentre d’altronde qualche anno più tardi vengono elaborate ipotesi per realizzare a Fuorigrotta, una moderna adeguata sede per Ingegneria (2). Quando si torna a parlare, nel secondo dopoguerra, di decentramento i presupposti sono differenti: se risulta difficile pensare concretamente a un piano complessivo per un vasto campus atto a concentrare tutte le facoltà, il sovraffollamento delle vecchie sedi dovuto alla crescita della numerosità degli studenti, e il congestionamento del vecchio centro storico impongono di trovare soluzioni anche circoscritte a questa o quella facoltà per estendersi su nuove sedi, auspicabilmente di nuova concezione. Alla necessità di reperire risorse, non di rado, si coniugano una serie di non trascurabili difficoltà di tipo amministrativo e urbanistico. Le prime facoltà che richiedono nuove sedi sono quelle in cui le esigenze di ricerca e/o assistenziali, rendono più urgente la necessità di abbandonare ovvero integrare le vecchie strutture conventuali, come accade dapprima con Ingegneria, dislocata a Fuorigrotta (3), e in seguito con il nuovo Policlinico (4), situato al Vomero Alto, presso il già esistente Ospedale Cardarelli. Questi due ben distinti nuclei, in qualche misura anticipano un partecipato e faticoso dibattito sul deconge- stionamento universitario, avviato a fine anni Sessanta, del quale infine il campus di Monte Sant’Angelo rappresenta l’esito principale (5). A livello di Ateneo, la determinazione dell’allora rettore Giuseppe Cuomo e di un folto gruppo di docenti riesce alla fine a piegare le non labili resistenze interne rispetto all’ipotesi di un nuovo polo collocato al di fuori del centro storico, che riecheggiano nei toni il dibattito di fine Ottocento, mentre non meno complessa delle precedenti risulta la vicenda urbanistica e amministrativa. Per l’area, allora quasi completamente agricola, di Monte Sant’Angelo venne stabilita una destinazione universitaria nel Piano Regolatore generale presentato nel 1969 e adottato nel marzo 1970, ma l’ipotesi fu poi stralciata prima della finale approvazione nel 1972. Solamente con una successiva variante, del 1975, la zona fu restituita alla destinazione universitaria ipotizzata: nell’ambito della vasta area collinare, poi, la Soprintendenza ai Monumenti individuava un più ristretto perimetro irregolare all’interno del quale si poteva costruire, e dunque concentrare gli edifici universitari. La zona circostante, comprendente anche la sommità della collina, più ricca di valori paesistici, avrebbe dovuto rappresentare un vasto parco a servizio del complesso: ma proprio qui, immediatamente al di fuori del perimetro individuato, si andranno a sviluppare una serie di costruzioni abusive, che renderanno – per opportunità ed economia della procedura – impossibile espropriare anche l’area da destinare a parco. A formare, assieme alla Facoltà di Ingegneria già dislocata a Fuorigrotta, un ideale polo delle facoltà scientifiche, l’erigendo complesso è inizialmente concepito per ospitare il biennio di Ingegneria, la Facoltà di Scienze strettamente collegata ad esso, nonché la Facoltà di Economia e Commercio, che particolarmente soffre della modesta capienza della pur prestigiosa sede di via Partenope. Per realizzare il programma in tempi ragionevoli, si adotta per motivi di rapidità l’istituto della concessione. Il concessionario viene individuato, nel 1980, nella Infrasud, società di progettazione del gruppo Iri, alla quale viene suggerito di avvalersi delle qualificatissime competenze dell’Ateneo, nella fattispecie individuate in Arrigo Croce, consulente geotecnico, in Elio Giangreco e Renato Sparacio, consulenti per le strutture, in Raffaele Vanoli e Vittorio Betta, consulenti per l’impiantistica, e soprattutto in Michele Capobianco e Massimo Pica Ciamarra, progettisti. In termini cronologici, la progettazione di Monte Sant’Angelo si colloca al termine di una stagione architettonica particolarmente densa e vivace, a livello inter- 33 Fig. 1 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Planimetria generale (Archivio Capobianco, Napoli). nazionale, durante la quale si era potuto proficuamente sperimentare un approccio tutt’affatto nuovo all’edilizia universitaria. Ai cospicui e innovativi modelli europei degli anni Cinquanta e Sessanta – in particolare nordici (non soltanto il Politecnico di Otaniemi, in Finlandia, in larga parte progettato da Alvar Aalto, ma anche i tanti esempi svedesi, tra cui il Centro di formazione per docenti a Malmö, di Carl Nyrén) e inglesi (la Facoltà di Ingegneria a Leicester e quella di Storia a Cambridge, entrambe di James Stirling, nonché la East Anglia University di Denys Lasdun) – aveva fatto seguito negli anni Settanta un articolato dibattito italiano, nel quale veniva esaltata la dimensione sociale associata al nuovo modo di comporre, specchio di un nuovo modo di intendere la didattica universitaria, e un nuovo modo di concepire il ruolo dello studente. A tale dibattito erano tutt’altro che estranei i due architetti dell’Ateneo napoletano: e taluni temi di precedenti lavori individuali ritorneranno in forma più matura a Monte Sant’Angelo, come tra gli altri la promenade architettonica sotto forma di galleria vetrata che strutturava già il progetto di Capobianco (6) per la Facoltà di Scienze dell’Università di Salerno, o anche il sistema di percorsi in quota che caratterizzava già il complesso dell’Università della Calabria, costruito da Pica Ciamarra (7). Sin dall’impostazione di massima del complesso napoletano, firmata da entrambi i progettisti, viene però operata una sorta di ‘sintesi critica’ rispetto a tutti i pre- 34 cedenti. Risulta esplicito il desiderio di conseguire un carattere dinamico più che statico, e per ottenerlo ci si avvale di un articolato sistema di percorsi – coperti e scoperti, a più livelli, arricchiti di elementi ‘in quota’ e ‘a ponte’ – tutto teso ad affermare il significato sociale della strada e degli spazi di percorrenza, sviluppando in termini aggiornati l’approccio proposto da Lasdun nella East Anglia University. Per altro verso, tuttavia, vengono rilevati i limiti di certe disposizioni planimetriche troppo ‘aperte’ e dispersive: limiti tanto più evidenti in un sistema quale quello italiano ben diverso dalla tradizione anglosassone del campus, e a maggior ragione in un ambito ormai in parte compromesso perché aggredito lungo i bordi dagli esiti riprovevoli della speculazione. D’altra parte, il nuovo complesso è inteso più che come fedele trascrizione spaziale del modo corrente di ‘utilizzare’ gli spazi universitari, come anticipazione e come suggerimento (soltanto in parte recepito dal ‘sistema’) di una nuova maniera di intendere la vita universitaria. Il piano complessivo (fig. 1) prevede la suddivisione del complesso in varie parti funzionalmente specializzate: un blocco dei servizi comuni, con le presidenze delle due facoltà, una grande biblioteca, un centro congressi; un primo comprensorio di aule, posto come cerniera tra gli spazi delle due facoltà; un secondo insieme di grandi aule, le cui capienze possono all’occorrenza essere sommate; un edificio per la Facoltà di Economia, ed i suoi dipartimenti; un grande Fig. 2 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Assonometria dei corpi di fabbrica orientali (Archivio Capobianco, Napoli). edificio tripartito che riflette in qualche misura l’articolazione plurima della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. Essendo intervenute alcune modifiche, e soprattutto non essendo stato del tutto ultimato il complesso, non è possibile attualmente cogliere appieno il meccanismo articolato dei sistemi di circolazione, pedonale e automobilistica, originariamente previsto. Si intendeva privilegiare come accesso pedonale il versante più urbanizzato, verso via Claudio, creando un diretto collegamento con le già esistenti sedi di Ingegneria: un cavalcavia su via Terracina e una serie di altri elementi di attraversamento all’interno dell’area miravano a creare un continuum pedonale prevalentemente destinato agli studenti; rivolto soprattutto ai docenti, invece, sarebbe stato l’accesso da via Cintia ben raccordato alla viabilità di scorrimento. Nella generale disposizione dei corpi di fabbrica, si legge infatti la volontà di ‘chiudere’ verso l’esterno la struttura universitaria, proteggendola dal caos edilizio circostante. Si percepisce poi l’intento di assecondare l’andamento scosceso del sito, in un’intelligente dialettica tra un sistema ‘aperto’ e uno compatto. La successiva, più precisa definizione architettonica comporta una netta suddivisione dei compiti tra i due progettisti (8): a Capobianco spetteranno i centri comuni, l’insieme delle aule consolidate, la sede della Facoltà di Economia e Commercio; a Pica Ciamarra la sede della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, il blocco delle grandi aule, gli spazi per lo sport. La trilogia affidata a Capobianco, in collaborazione con Daniele Zagaria, è composta dai centri comuni, dalle aule consolidate e dalla sede di Economia e Commercio, tutti collocati nella zona inferiore, in prossimità di via Cintia, con tre corpi distinti in termini tanto volumetrici quanto linguistici. I blocchi, ad andamento lineare, sono disposti lungo assi paralleli, avvantaggiandosi dei dislivelli per creare un sistema di intersezioni dal valore tanto semantico quanto funzionale. Di questo intento di creare un contrappunto architettonico del paesaggio testimonia fra l’altro il riuscito e multiforme 35 Fig. 3 - Michele Capobianco. Studio per la facciata dell’edificio dei servizi comuni del Campus di Monte Sant’Angelo (Archivio Capobianco, Napoli). motivo dei piani obliqui, che mentre in forme differenti contrassegna gli ingressi rispettivamente dei centri comuni e della Facoltà di Economia, risulta assolutamente dominante nel corpo delle aule. Progettato insieme agli altri due nel 1980, ma rielaborato nel 1988 in funzione delle nuove norme di sicurezza, il blocco dei centri comuni (fig. 2) viene ultimato soltanto nel 1998. Posto in prossimità dell’entrata da via Cintia, questo corpo assume una conformazione più ricca e complessa, dovendo sintetizzare simbolicamente l’immagine del complesso. La pluralità degli ambienti e degli organismi ospitati si riflette all’esterno – pur senza svelare del tutto il funzionamento spaziale del complesso – nella molteplicità formale, nella libera alternanza di superfici e volumi estroflessi o introflessi, nel ritmo sincopato scandito dal succedersi dei ‘tagli’ in motivi particolarmente riusciti come nel profilo inferiore a gradini dell’auditorium minore, o nei cunei sporgenti della biblioteca. La configurazione attuale è frutto di una realizzazione parziale, ottenuta rinunciando ad una prevista pareteschermo traforata (fig. 3), in forma di telaio regolare abitato da rampicanti intesa come elemento di sottile mediazione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, tra artificio e natura. Contrassegnata, non senza un briciolo di compiaciuta ironia, da auliche colonne classiche laddove la superficie diventa permeabile in corrispondenza degli ingressi, la parete-schermo doveva fungere anche da ufficiale ‘facciata’ del complesso universitario. Segno 36 questo della straordinaria capacità di leggere la lezione del Razionalismo italiano degli anni Trenta, e dell’opera di Terragni in particolare, filtrata attraverso le più recenti suggestioni interpretative offerte dagli americani Five architects, per andare oltre, verso la dissacrazione postmodernista. Per la verità, all’interno della ‘trilogia’ Capobianco illustra qua e là con raffinate citazioni la sua formazione europea, la sua deliberata filiazione dai grandi maestri del Moderno che lo hanno preceduto: Asplund, Aalto, Le Corbusier, Stirling, e direi anche gli Smithson. Se realizzato, il grande parcheggio sotterraneo dei centri comuni con il grande ascensore vetrato con passerella avrebbe rappresentato una sorta di omaggio all’autore del famoso ascensore urbano Katarina Hissen di Stoccolma, Olof Thunström, presso il quale il giovane architetto napoletano aveva compiuto alcune delle esperienze giovanili. Al di là del gioco colto e raffinato delle citazioni, Michele Capobianco mostra di saper originalmente trasfigurare, in termini di linguaggio rigorosamente moderno, temi spaziali e compositivi a-temporali se non antichi, quali ad esempio la facciata, la piazza, quale è quella che si configura tra il blocco delle aule e quello dei servizi comuni, la galleria. Nel risolvere formalmente l’insieme strutturante dei percorsi, Capobianco associa alla formalità regolare e alla ariosa grandeur spaziale delle grandi gallerie europee dell’Ottocento l’imprevedibilità di una strada mediterranea, intesa come uno “spazio interno teso e stretto” (9), attraversato da una molteplicità di passaggi e scale. L’impianto assiale suggerisce una prospettiva centrale, di impronta classica, ma i disassamenti, i tagli, le lacerazioni, le aperture e le chiusure inattese, le dilatazioni e le compressioni di ascendenza vagamente barocca arricchiscono la visione di molteplici scorci pittoreschi e tagli luminosi. Ai vari livelli, l’arioso e unitario percorsogalleria (fig. 4) si frantuma in tanti ambiti più raccolti, la cui individualità è sottolineata sia dal variare delle condizioni di luce, sia dal complesso gioco dei colori accesi. Assai differente nell’organizzazione spaziale rispetto ai due adiacenti corpi con galleria, il blocco della Facoltà di Economia e Commercio, destinato prevalentemente agli studi dei docenti, si struttura attraverso delle interessanti corti chiuse. All’esterno, una ben calibrata serie di ‘rotazioni’ dei piani verticali che divengono obliqui o sghembi libera la volumetria dai vincoli di un’ortogonalità troppo rigorosa e banale, e addolcisce l’impatto paesistico. Nelle aree più distanti dal limite verso via Cintia, e alle spalle del blocco delle aule consolidate che funge da cerniera tra i vari corpi, si situa la Facoltà di Scienze, definita in termini progettuali più precisi da Pica Ciamarra unitamente al blocco delle aule ‘a quadrifoglio’. Rispetto agli edifici posti più a valle, la Facoltà di Scienze assume una fisionomia piuttosto differente, pur condividendone alcuni elementi e taluni principi. An- Fig. 4 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Promenade interna all’edificio dei servizi comuni. che qui il rapporto con la peculiare orografia naturale si configura come fattore condizionante e caratterizzante: ma nel reiterare a monte il sistema degli assi paralleli, il blocco ‘a pettine’ della Facoltà di Scienze dispone i suoi elementi lineari di taglio rispetto alle curve di livello, proponendo un’opposta giacitura rispetto all’andamento del pendio. Infatti, mantenendo costante la quota delle coperture il blocco assume altezze differenti, via via descrescenti da valle verso monte. Quali prolungamenti ‘artificiali’ dell’area a verde e della strada sinuo- 37 Fig. 5 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Percorsi interni nella Facoltà di Scienze. sa, le grandi superfici delle coperture costituiscono una suggestiva promenade, accessibile anche ai mezzi meccanici; i nitidi solidi che le popolano – tra cui semicilindri e parallelepipedi appoggiati su uno spigolo – si stagliano sul panorama sui lontani profili dei tetti napoletani. Tra questi parterre si insinuano ripidi pendii, che mentre lasciano leggere la peculiare orografia del sito, vanno a raggiungere le corti porticate poste a valle. Se i blocchi dei centri comuni e delle aule consolidate risultano tutti strutturati su un percorso interno orizzontale (fig. 5) coincidente con i grandi tagli che generano le luminose gallerie, qui nella Facoltà di Scienze il sistema portante dei percorsi privilegia le promenade all’aperto, orizzontali e oblique, e i collegamenti verticali. Il tema delle coperture percorribili, abitabili, e persino dotate di specifiche funzioni (come quelle delle aule a quadrifoglio che ospitano gli impianti sportivi) rappresenta una matura rielaborazione critica del tema del ‘tetto giardino’ di Le Corbusier, filtrata anche dalla cultura anglosassone e da Lasdun in particolare, e si coniuga con l’evoluzione del concetto di città su più livelli secondo le prospettive aperte dal Team X. Un approccio che si riflette non soltanto nella rinuncia a un cromatismo vivace, lasciando al cemento il suo colore naturale, e adottando un’unica tinta per gli infissi, ma anche nell’enfasi tettonica (fig. 6) nel ruolo fortemente espressivo affidato ad alcuni elementi strutturali, agli alti pilastri degli spazi porticati, al grande reticolo metallico che propone una incisiva sottolineatura della disposizione a gradoni dei vari fabbricati. Tuttavia, una serie di fenditure e di tagli vanno a intaccare la continuità dello schema, così 38 come alcuni elementi giustapposti, taluni corpi curvilinei e certe linee sinuose, vanno a intaccare il generale ordinamento ortogonale della costruzione e dei camminamenti, per generare l’immagine di un meccanismo dinamico piuttosto che di un corpo statico, creando un gioco complesso di ambiguità: così il grande blocco della Facoltà di Scienze che in certi scorci da lontano si mostra quasi come una compatta megastruttura, da vicino diventa improvvisamente permeabile e attraversabile; la sua dimensione sembra variare man mano che si sposta il punto di osservazione dal cammino pedonale a valle ai grandi parterre delle coperture, passando per i porticati e le varie corti. Permeabile come estensione dello spazio aperto si mostra anche l’insieme delle aule ‘a quadrifoglio’, pure accessibile a vari livelli grazie a camminamenti tanto in piano quanto in discesa, dall’immagine nitida e rigorosa determinata dagli spalti delle attrezzature sportive sovrastanti. Ad una scala più ravvicinata, il peculiare trattamento delle superfici e delle finiture rappresenta un elemento importante di caratterizzazione dell’intero complesso. Segnata dall’eredità del New Brutalism, si manifesta qui un’incisiva poetica dei materiali, atta ad esprimere una sorta di ‘moralità’ degli edifici pubblici. Rifiutando con decisione l’antica prassi del ‘rivestimento’, si punta qui su plurimi contrasti cromatico-materici, in modo da originare plurime sensazioni visive e tattili. La grana del cemento a vista, colorato a tinte vivaci nei corpi studiati da Capobianco e lasciato invece nel suo tono naturale in quelli definiti da Pica Ciamarra, ma sempre segnato Fig. 6 - Napoli. Campus di Monte Sant’Angelo. Esterno della Facoltà di Scienze biologiche. dall’impronta fibrosa della cassaforma lignea fornisce lo sfondo scabro e opaco su cui si stagliano tanto le lisce pareti in mattoni o in vetrocemento, quanto i brillanti smalti dei coloratissimi infissi e delle vistose tubature degli impianti, che dichiarando la propria funzione producono un interessante arricchimento semantico, all’interno come all’esterno. In questo ambito, il rivestimento ligneo della sala Congressi – difforme rispetto al progetto originario – pone una improvvida dissonanza. Pensata come insieme concluso, l’enclave universitaria di Monte Sant’Angelo si presenta oggi – a circa un quarto di secolo dalla sua progettazione, ma in presenza di cantieri ancora aperti e di elementi ancora da realizzare – come una sorta di ‘opera aperta’, e impone una riflessione sul suo completamento, ad una migliore utilizzazione degli spazi aperti, ad una necessaria integrazione con eventuali residenze e ‘spazi sociali’. (1) Mangone, Savorra 2018. (2) Viola 2018. (3) Ibidem. (4) Villari 2004. (5) Mangone 2004. (6) D’Auria 1993. (7) Lima 2017. (8) Mangone 2004. (9) Dardi 1982. Bibliografia Dardi 1982 C. Dardi, L’azzurro del cielo, in «Domus», 625, febbraio 1982, pp. 12-15. D’Auria 1993 A. D’Auria, Michele Capobianco, Napoli 1993. Lima 2017 A. J. Lima, Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici. Architettura dei Pica Ciamarra Associati, Milano 2017. Mangone 2004 F. Mangone, Il complesso di Monte Sant’Angelo, in Il patri- 39 monio architettonico dell’Ateneo fridericiano, Napoli 2004, vol. II, pp. 491-505. Mangone, Savorra 2018 F. Mangone, M. Savorra, Prima della Città degli Studi di Roma. Le strategie per l’edilizia universitaria nell’Italia liberale e un progetto esemplare, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», numero speciale in occasione delle celebrazioni per la realizzazione della Nuova Città Universitaria di Roma, 2018, pp. 5-38. Villari 2004 S. Villari, Il complesso di Cappella dei Cangiani. Le Facoltà di Medicina e Chirurgia e di Farmacia, in Il patrimonio architettonico dell’Ateneo Fridericiano, Napoli 2004, vol. II, pp. 461-490. Viola 2018 F. Viola, L’architettura insegnante. Il Politecnico di Luigi Cosenza, Napoli 2018. THE MONTE SANT’ANGELO CAMPUS, NAPLES An important result of the difficult program of decentralization of the great and ancient Neapolitan University, the Monte Sant’Angelo campus, at the end of a long decision-making process, has been realized since 1980, as a special interpretation of the University Campus issue. Planned to host the Faculty of Science and the Faculty of Economics, the complex was designed by two important professors of the Neapolitan Faculty of Architecture, such as Michele Capobianco and Massimo Pica Ciamarra. After drawing up a common general plan, only partially realized, the two designers share the tasks: Capobianco was charged to plot the layout of the Faculty of Economics and Pica Ciamarra of the Faculty of Sciences. Despite the partial realization of the project, which leaves out some significant elements, the Monte Sant’Angelo campus remains an example of utmost importance, consciously participating in the debate of the late twentieth century on new university buildings. 40 LE SEDI UNIVERSITARIE NELLA PROGETTAZIONE DELLO STUDIO PICA CIAMARRA ASSOCIATI* Antonietta Iolanda Lima Le sperimentazioni dei Pica Ciamarra Associati (PCA) iniziano ancor prima del passaggio dello Studio in una forma associata nei secondi anni Sessanta, il cui concludersi mette a nudo inadeguatezza e inefficenza di modelli consolidati a fronte delle problematiche in atto. Si chiede un punto e accapo radicale. Una rivoluzione istituzionale, sociale, culturale. Ne sono a fondo partecipi i PCA, sia quelli di prima generazione come Massimo Pica Ciamarra e Luciana De Rosa, sia quelli delle successive, la cui competenza nel rendere la diversità di ciascuno un valore contribuirà ad arricchire e fare evol- vere l’iniziale visione dei due iniziali componenti dello Studio; una visione, in nuce, già sistemica la cui genesi è anche inalata durante la formazione universitaria. In breve, definirei un crogiolo di complessità lo Studio dei PCA perché tiene insieme plurime diversità e li fa interagire; un crogiolo in cui ciascuno, nel condividere gli ideali che danno dignità a se stessi e alla vita, materializza nel progetto la consapevolezza di quanto sia responsabile l’architettura nei confronti dell’ambiente e della sua cultura. Dieci gli architetti che danno vita a questa comunità connotata da una dinamica decisionale integrata. Fig. 1 - Messina, Facoltà di Scienze e Farmacia, 1968. 41 Con essa mi sono direttamente confrontata vivendoci per oltre un mese circondata dall’intreccio di costruito e non costruito di Posillipo e del suo aprirsi alla stupenda dimensione paesaggistica della città e del suo mare. E mi è parso di cogliere nelle molteplici specificità di ciascuno quella che, nell’interagire simultaneamente con le altre, sostanzia la forma che traduce il senso del progetto: in Massimo Pica Ciamarra la coesistenza di accentuata razionalità e immaginazione; il vedere oltre di Luciana de Rosa; la sensibilità di Antimo Rocereto e il suo saper trarre valori dalla cultura contadina; la padronanza tecnologica di Claudio De Martino e la capacità di controllo dei processi progettuali; il dare qualità al costruito attraverso la materia da parte di Alex De Siena; la meditata visione spaziale che dell’urbanistica ha Patrizia Bottaro; la cura di Paola Gargiulo nel disegno degli spazi interni; l’attenzione di Emanuele Pica Ciamarra ai contenuti tecnici; la cultura ambientale di Angelo Verderosa; la competenza dei sistemi informatici di Guido De Martino; la particoFig. 2 - Bruxelles, progetto per l’Università libera, 1969. 42 lare attitudine di Carolina Poidomani nell’affrontare le questioni sollevate dal restauro degli edifici. Genesi e alimento è per i PCA la cultura del Team X, condivisa, alimentata e diffusa in Italia da Giancarlo De Carlo in scritti e opere di grande ricchezza contenutistica. Si confrontano, con il libero e stimolante dibattitto che la innerva il cui ragionamento teorico porta avanti principi generati da un’attenta revisione critica del Movimento Moderno, finalizzata a dare senso all’architettura la cui configurazione richiede una nuova strutturazione capace di corrispondere alla necessità di vedere in termini di continuità ed interrelazione gli aspetti diversi delle attività umane. Conseguentemente il progetto è da intendersi non come episodio spaziale in sé concluso, ma come frammento informato di un sistema più ampio connesso a territori e città, preesistenti e in divenire. E’ dunque una visione innovativa e integrata dell’architettura quella del Team X, che i PCA studiano, scavano a fondo, sperimentano. Vi si riconoscono vedendo in essa Fig. 3 - Cosenza, Università della Calabria, progetto per il Polifunzionale di Arcavacata, 1971. una strada da percorrere perché pregna di semi inespressi. Coerenti con tale obbiettivo, la loro riflessione si concentra su parole come luogo, contesto, morfologia, topologia, relazione, connessione, inclusione, integrazione, forma aperta, densità, capacità dell’organismo architettonico di rispondere ad una pluralità di esigenze variabili nel tempo e quindi flessibilità. Si dirà: alcune di queste parole come luogo, contesto, morfologia, fanno parte dell’universo mentale di non pochi architetti, soprattutto dopo Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti e L’architettura della città di Aldo Rossi; ma ciò che fa la differenza nel fare dei PCA è il come si concretizzano relazionandosi con le altre; modo che nasce dal ritenere non autonoma ma eteronoma l’architettura. Attraverso un confronto serrato con diversi e sin dall’esordio complessi temi progettuali si avvia un processo che trasforma queste parole, sempre più meditate, in un sistema integrato di principi in cui ciascuno di essi è in rapporto di interdipendenza con gli altri e come tale frammento indissolubile dell’insieme. Dalla fine degli anni Settanta diventa ossatura portante del loro pensare e agire architettonico, e pur arricchendosi ed evolvendo sotto la spinta dei mutamenti sempre più destabilizzanti del tempo, manterrà inalterata la sua iniziale sostanza sino ad oggi. A-storico per questo? Se lo si considera tale ritengo sia una a-storicità particolare in quanto anticipatrice nel suo lontano generarsi di un insieme di valori imprescindibili per la fioritura della vita e delle città e che per questo deve abitare dentro l’architettura. Antepongono infatti i PCA a forma e linguaggio ciò che rende responsabile l’architettura nei confronti dell’ambiente nella sua più ampia e profonda accezione: esseri umani, città territori paesaggi. La forma viene dunque dopo e non è mai banale l’esito di tale processo, in quanto sostanziato dal dare e, direi anche, restituire senso all’architettura; un’architettura che favorisca l’effetto urbano in quanto portatrice 43 Fig. 4 - Lattakia (Siria), progetto per la sede dell’Università , 1973. di relazioni, integrazioni, di una tridimensionalità che è insieme spaziale collettiva, sociale. Ecco perché sono imprescindibili principi come la densità e il percorso e quando questo, per motivi connessi di volta in volta alle specificità degli incarichi, alle richieste e ai luoghi, non può costituirsi come segno strutturante insieme il dentro e il fuori, negli interni non viene mai meno. Evolvendosi, nel suo possedere implicitamente il valore del porre in relazione, stimolerà la presenza di quello che questi progettisti chiamano l’entrare al centro, il cui effetto è determinare, attraverso la simultaneità della visione, una spazialità dove, pur respirando il valore del vuoto, la sua intrinseca relazionalità si traduce nel cuore tridimensionale dell’intero organismo. Questa dunque la visione dei PCA, qui al massimo sintetizzata. Nell’essere struttura profonda di tutti i loro progetti, la ritroviamo anche in quelli per le sedi universitarie, siano essi un intero complesso o parti di esso. 44 Ma cosa è quindi l’università per Pica Ciamarra Associati? Intrecciata con la ricerca sulla morfologia urbana, connessa alla assimilazione di una semantica intesa come rapporto tra forma globale ed interrelazioni di attività più che di funzioni, la loro energia speculativa si orienta sin dalla fase iniziale del loro operare verso una intensa sperimentazione su questa tematica, prevalentemente attraverso la partecipazione a concorsi spesse volte internazionali. Segnato dal prorompente attacco della contestazione giovanile all’idea di autorità e alla svolta radicale che si richiede a tutti i livelli, il clima che apre agli anni Settanta coinvolge in toto l’università. Per essa occorre conseguentemente una nuova idea che per i PCA non può essere il campus, organismo di matrice anglosassone dal carattere chiuso ed elitario, la cui autonomia funzionale e ambientale lo distacca dal mondo reale della città e della vita che in essa si svolge e dalla sua evoluzione. Necessita quindi un decisivo rove- Fig. 5 - Fisciano, progetto per l’Università nella Valle dell’Irno, 1975. sciamento di prospettiva che sia sostenuto da un sistema che, pur preservando le invarianti ritenute strutturali nella formazione - didattica e ricerca - dia voce a principi quali l’apertura, la relazione, l’integrazione, la capacità di adeguarsi a trasformazioni non prevedibili. Vertebrata da densità concettuale e continuità fisica, l’Università per i PCA è quindi una configurazione aperta, che trae molte delle sue qualità spaziali dalla geomorfologia del sito, dal disegno del paesaggio e dai caratteri dell’intero ambiente nel quale si inserisce, con il quale si connette e con il quale va attuato il massimo del coinvolgimento. Suo obbiettivo è incentivare formazione e socialità a tutti i livelli, in stretta relazione con il territorio e la città, di cui è dimensione rilevante e il cui principale elemento di connessione è il sistema dei percorsi. Per chi conosce la produzione degli architetti del Team X, riferimenti immediati sono due progetti degli anni Sessanta a firma l’uno di George Candilis, Alexis Josic e Shadrach Woods; l’altro di Giancarlo De Carlo. Il pri- mo è il progetto per l’Università di Berlino, il secondo di Dublino, nato da un concorso internazionale. Con un impianto lineare su uno schema a griglia che trae origine dal lungo asse della spina centrale, in entrambi l’università è intesa come luogo e non come strumento, esplicitata da una struttura continua. Aperta alla trasformazione, affida il collegamento con la città al sistema delle comunicazioni e dei percorsi, prevalentemente pedonali lungo i quali gravitano le attività di natura collettiva che stimolano scambi e contatti reciproci. Questo ciò che accomuna i due piani, ma nella proposta di De Carlo si manifesta con maggiore compiutezza quello che ritengo possa definirsi il DNA della progettazione dei PCA: il principio di una totale integrazione di tutte le parti in unico organismo interrelato e flessibile, e per questo capace di indirizzare e controllare anche il processo architettonico in modo da garantire, senza tradire l’essenza del progetto, le inevitabili trasformazioni richieste nel succedersi del tempo da nuove esigenze. Con 45 Fig. 6 - Fisciano, Università nella Valle dell’Irno, veduta dall’alto, 1975. tempi di percorrenza ridotti al minimo da una meditata maglia di percorsi, teso all’integrazione con il paesaggio e la specificità dei suoi segni, un sistema che deve costituirsi come polo di attrazione per la popolazione urbana concretizzando in tal modo quella funzione formativa, culturale e sociale che deve caratterizzare l’Università nel suo “essere”. Nel credere nella coincidenza di architettura e urbanistica, l’università è dunque una organizzazione sociale complessa, relazionata, inclusiva, flessibile, aperta ai più ampi rapporti con la città e al sistema delle sue attrezzature. Vediamo quindi come si declina questa loro visione nel fare progettuale in un arco temporale che giungendo sino ad oggi inizia nei tardi anni Sessanta. Consistente per numero e qualità il loro contributo, in progetti tutti accomunati dall’obbiettivo di favorire una tridimensionalità spaziale collettiva. Coerenza quindi tra visione teorizzata e sua materializzazione che esplicito in un racconto iconografico, per limiti di tempo ridotto, commentato da brevissime notazioni, tranne qualche caso sul quale mi soffermerò ritenendolo più compiutamente emblematico del loro modo di intendere l’architettura delle sedi universitarie. 46 Nel 1968, la Facoltà di Scienze e Farmacia al margine nord di Messina, nel negare l’edificio concluso in una forma, propone un organismo relazionato in cui le diverse attività, integrate in spazi modificabili ed accrescibili nel tempo, si intrecciano con il sistema dei percorsi (fig. 1). L’anno successivo il progetto per l’Università libera di Bruxelles si confronta con un’area in pieno centro urbano (fig. 2). Si chiede di far coesistere, ma in modo indipendente l’una dall’altra, le due Università di lingua francese e fiamminga, 19.000 + 5.000 studenti. Adeguato al contesto sociale e storico e ai caratteri geomorfologici fisici e organizzativi della città, quanto si propone è un organismo ad elevata densità, strutturato da due percorsi: uno pedonale fra le stazioni della metropolitana attraversante i due sistemi; l’altro trasversale di separazione e di supporto ad attività a scala urbana. Nella loro intersezione si determina un nodo a più livelli sul quale convergono le unità residenziali e da cui si diramano i plurimi bracci delle attività secondo multiple direttrici. Nel 1971 l’Università della Calabria, istituita con una legge del 1969, apre all’innovazione. Per quattro motivi: è la prima in Italia, sperimenta il numero programmato, è Fig. 7 - Yarmouk (Giordania), progetto per la sede dell’Università , 1976. residenziale e la sua organizzazione per dipartimenti cambia l’impianto concettuale e funzionale della struttura accademica. L’area è a Rende, in prossimità dello svincolo autostradale Cosenza nord. Vince la competizione il progetto di Vittorio Gregotti, una struttura lineare che nello scavalcare le colline interpreta la dimensione paesaggistica ma nel distinguere tra la tipologia degli edifici e percorso, non prefigura il sistema urbano finalizzato a collegare luoghi diversi stimolando l’integrazione richiesta dal bando di concorso. Elaborato e firmato dai PCA, prossimi a costituirsi in forma associata, compiutamente esplicita la concezione organica che essi hanno dell’architettura la cui concretizzazione fisica è nel Polifunzionale di Arcavacata (fig. 3). Primo nucleo del sistema universitario in itinere, dà voce all’istanza di una mutazione culturale che rivendica nuovi assetti spaziali e simbolici. Sorge in quella parte di territorio che consente di utilizzare la rete infrastrutturale esistente. La collina si lega ai percorsi e alle coperture attrezzate. Le diverse unità/attività sono dentro un reticolo di porticati che continuano all’interno le strade pedonali, che attraversano e sovrapassano lo spazio costruito. Nodo del sistema è la piazza centrale, principale luogo di incontro e di soste, coperto da una struttura tridimensionale in ferro e vetro. Montaggio elastico, disponibile alle trasformazioni di elementi industrializzati che però escludono l’uniformità intrecciandosi con sistemi tecnologici della tradizione. Nel paesaggio della valle del Crati, si genera, come evidenzierà Aldo Van Eyck, un edificio ricco di colti e sapienti rimandi, di stratificazioni teoriche, che rende il senso del luogo parte integrante del significato di architettura. Il pressoché contemporaneo progetto dell’Università di Firenze, anch’esso di concorso, in un’area in prossimità dell’aeroporto e degli svincoli autostradali, si configura come proposta di riammaglio e di forte concentrazione formale per i molteplici fenomeni urbani del sistema Firenze-Prato-Pistoia, lungo il quale, all’interno di un ‘area triangolare, si concentra il sistema universitario. Attraverso operazioni di ricucitura, riconnessione e introduzione di 47 Fig. 8 - Potenza, progetto dell’Università della Basilicata a Macchia Romana, 1984. nuovo senso a quanto già esiste e a quanto è prospettiva già acquisita, si vuole quindi la creazione di un nuovo stato di continuità urbana, evocativo del concetto di città-territorio zeviano, di cui il nuovo organismo culturale è frammento qualificante. Strutturato in edifici-percorso e in sequenze di luoghi di riferimento e di incontro, suo obbiettivo è il costituirsi polo propulsore di crescita umana e culturale. In un susseguirsi di sperimentazioni, il giovane studio affronta nel 1973 il progetto per la sede dell’Università di Lattakia in Siria (fig. 4), con il quale si apre la partecipazione a concorsi internazionali ad inviti. Ne esplicito, più compiutamente i contenuti perché in questo caso la visione dei PCA si vertebra, e a me pare per la prima volta, su una concezione di economia globale ed ecologica che man mano affinandosi diverrà cifra del loro ideare architettonico successivo. Una concezione che investe, gli spazi, l’uso, le tecnologie, rapportandosi simultaneamente ai venti, agli alberi, alla morfologia e alla topologia, alla valore e disvalore delle preesistenze; investe i tempi non solo di percorrenza, riducendoli, ma anche di costruzione e di gestione dell’intero sistema. E’ la contromisura meditata e già matura alla crisi energetica che investe il mondo, anticipata un anno prima dall’architetto e grande intellettuale Manfredi Nicoletti con l’istituzione del corso di Morfologia ed Ecologia Urbana. Realizzandosi, l’università di Lattakia avrebbe configurato una microcittà della cultura interagente con l’esistente e capace inoltre di contribuire allo sviluppo sociale e industriale della regione. Un’azione che connette anche l’architettura alla politica, o quantomeno a quello che essa dovrebbe stimolare. 48 Cinque le facoltà richieste, con un rapporto professorestudente di 1 a 50: scienze, medicina, scienze dell’ingegneria, agricoltura, lettere; ad esse si aggiungono tre scuole tecniche per 5.000 studenti del genio, degli studi mineralogici e petroliferi, di agricoltura e circa 300 ambienti costituiti da luoghi di studio, aule per la didattica, laboratori. Molteplici gli spazi a carattere collettivo. L’area è al margine della città. Si esclude la parte a est, estesa lungo un’ampia fascia da nord a sud, inadatta alla edificazione. La comprensione dei luoghi suggerisce i contenuti della proposta: mantenimento di alcune preesistenze per il loro valore paesaggistico: gli insiemi di alberi di ulivo in parti diverse dell’area e gli anfiteatri naturali; abolizione di una parte degli impianti industriali lungo la rue de Hossaine al fine di garantire la continuità spaziale e visiva del verde tra l’università e il mare; nel rapporto con i venti dominanti, fare in modo che l’asse degli edifici formi un angolo di 45° per arrestare le correnti principali; prevedere un’area di riserva per le esigenze imprevedibili a lungo termine e per facilitare la connessione con le linee di servizi previsti; inserire una stazione secondaria ad est, ai bordi della strada ferrata in costruzione da soprapassare con un ponte pedonale; creare un lago artificiale atto a raffreddare l’acqua dei servizi per le esperienze dei laboratori idraulici, per irrorare i giardini e gli spazi del tempo libero, per le piscine, per l’atterraggio degli elicotteri, per l’antincendio; legare l’università con la viabilità urbana verso il centro della città attuale e futura mediante una strada di collegamento tra il boulevard principale e la rue de Hossaine. Sul piano della organizzazione strutturale e formale l’università si esprime attraverso la sinergia di elementi consolidati: Fig. 9 - Caserta, Facoltà di Medicina e Chirurgia, 1996-2016. nodi di riferimento ed ambiti di relazione, integrazione delle funzioni, flessibilità dell’organizzazione, gioco dei percorsi pedonali, coperture come promenade aperte al paesaggio. Si genera un sistema di luoghi permeati da una continuità di spazi diversi in un reticolo quadridimensionale capace di modificare la sua essenza nelle diverse fasi evolutive: autonomia, integrazione, coincidenza con la città. Suo obbiettivo imprescindibile è dunque la capacità di attuare connessioni, ambiti intercomunicanti di condensazione sociale. Gli spazi della didattica per 28.000 studenti coincidono pertanto con gli assi dei percorsi pedonali, e con essi i portici, gli anfiteatri aperti, le scale giocano un ruolo importante per gli incontri, le discussioni, le informazioni, i confronti. Il grande asse delle attività comuni attraversa la griglia sottesa dell’impianto a 45° e in ciascun punto della intersezione c’è un elemento che attua la coincidenza tra le funzioni di attività, che appartengono nello stesso tempo al sistema universitario e a quello urbano. Un sistema profondamente meditato; relazionato, aperto e privo di barriere. Del 1974 è il progetto dei Dipartimenti di Farmacia a Messina, che nel risolvere al suo interno un dislivello di venti metri documenta una duplice innovazione: la tripartizione slittata del suo notevole spessore e il tema dell’edificio-percorso qui per la prima volta realizzato. Si determinano inoltre immagini unificate alla grande scala, ma ricche di fatti diversi e molteplici in una visione ravvicinata che però evoca in modo sin troppo palese il Le Corbusier della Tourrette. Nel 1975 il progetto per Università nella Valle dell’Irno pone ai PCA il confronto diretto con il comune di Fisciano, le frazioni di Lancusi e Bolano, a nord di Salerno ed il verde territorio di una parte della valle dell’Irno attraversato dall’autostrada Caserta-Salerno (figg. 5-6). Con l’obiettivo di realizzare un sistema capace di configurarsi come dimensione organizzativa e culturale del territorio, elaborano un modello concentrato, multipolare, relazionato. Nel puntare all’integrazione, da nord-est a sud-est i piccoli urbani sono infatti connessi da una viabilità lungo la quale si articola la raggera degli edifici percorso-universitari convergenti nelle 49 Fig. 10 - Benevento, progetto dell’Università del Sannio, complesso di via dei Mulini, 2008. piazze di ciascun insediamento. Intrecciato con un sistema pedonale pensato in funzione del percorso più breve, un nodo di scambio tra la stazione ferroviaria e il raccordo autostradale risolve i trasporti alle diverse scale regionale o comprensoriale. Vogliono che il progetto contribuisca a rendere la città e il territorio aperti alla partecipazione, inclusivi quindi e capaci di riconoscere e valorizzare anche ciò che in essi è più nascosto: il senso del loro passato. Nel 1976 il luogo dove insediare l’Università di Yarmouk è il pre-deserto, in un’area estesa, per km 8 di lunghezza e 1,5 di profondità (fig. 7). Il bando richiede un campus, ma i PCA disattendono. Nella strada principale collegante le due città principali, Amman e Damasco, individuano una predisposizione all’integrazione. Nella parte di area morfologicamente più idonea al fine dell’impianto e del mantenimento della vegetazione, propongono un nucleo costituito da edifici ad alta densità convergenti in una piazza pedonale con il livello sottostante raggiungibile dal percorso veicolare. Da essa si diramano percorsi rettilinei diversamente orientati, e una duna alta circa sette metri riutilizza tutti i terreni di 50 scavo e disegna il paesaggio concludendosi nello stadio. Economia di costi, di tempi, di sostenibilità e di gestione caratterizzano per intero il sistema. L’Università di Salerno (dal 1983 per fasi sino al 2009) nasce come un unicum a livello concettuale, formale e spaziale rispetto a quanto pressoché contemporaneamente si va realizzando nel campus di Fisciano, antitetico al relazionato sistema territoriale proposto dai PCA circa un decennio prima nel progetto di concorso per la valle dell’Irno. Nel negare, come in tutte le precedenti esperienze, l’unità del volume, creano tre diversi edifici - Rettorato, Aula Magna, Biblioteca - attorno ad una piazza pedonale elevata. Connette e consente l’“entrare al centro”, tema, che sarà dai PCA successivamente sperimentato, evolvendolo, in più casi. L’anno successivo il progetto dell’Università della Basilicata a Macchia Romana (fig.8), innerva un’area adiacente al centro storico di Potenza attraverso la prosecuzione della cosiddetta passeggiata di via Pretoria sulle coperture attrezzate del complesso connettendola a ponte alla collina antistante, con l’orto botanico e le serre. Ul- teriori caratterizzanti: il principio del forte spessore, una densità elevata, la coincidenza fra elementi strutturali e percorrenze impiantistiche. Nel 1988, quando viene istituita, l’Università del Molise sorge al margine di Campobasso. Due sole facoltà la costituiscono: Economia e Scienze Sociali ed Agraria. Con una configurazione a conca, circonda l’area una edilizia intensiva, lambita a nord est dalla grande viabilità urbana. Facendo leva sulla sua accentuata accidentalità morfologica, l’accessibilità si prevede dall’alto per la pedonale e in prevalenza da valle per la carrabile. Compatto, relazionato, con veicoli e parcheggi al margine, il nuovo organismo gravita su due piazze: una a nord, ad oggi non ancora realizzata, in cui converge l’impianto ad esedra delle aule; l’altra, dalla parte opposta del centro storico, prevista come futura piazza urbana, in cui convergono facoltà e percorsi. La realizzabilità del progetto per segmenti funzionali compiuti e per entità accrescibili, non ne compromette l’unitarietà. Adagiato sul pendio, permeato da una rilevante attenzione alle caratteristiche morfologiche e paesaggistiche del luogo, e dall’istanza di determinare l’integrazione con l’urbano, lo articola il duplice sistema delle percorrenze pedonali continue e coperte e delle attrezzature per il tempo libero a nord ovest, a servizio dell’università e della città, delle quali si vuole la coincidenza, con possibilità di introdurre gli ampi spazi coperti ad uso plurimo (spettacolo, musica, congressi). Distinti gli edifici che materializzano le funzioni richieste dalla natura dell’Istituzione e ciascuno con una sua palese specificità. Più a monte, a cento metri dal tessuto consolidato, la Biblioteca e l’Aula Magna si impongono per singolarità formale e spaziale. Notevole l’espressività generata dall’intreccio di materiali profondamente diversi come mattoni e acciaio, ciascuno evocativo di fasi e culture diverse. La delimitazione attuata dal palazzetto dello Sport configura una piazza che si pone come punto di confluenza dei percorsi fra i diversi dipartimenti e la cui direzionalità crea idealmente il raccordo con il centro storico. Obiettivi bioclimatici e limitata incidenza sul suolo delle opere di sbancamento e sostegno aggiungono ulteriore qualità all’intero sistema. Nel 1996 è la notevole realizzazione, ancora in corso, della Facoltà di Medicina e Chirurgia a Caserta, in un’area di 25 ettari alla periferia della città (fig. 9). Ubicata tra la bretella di raccordo autostradale ad est e la strada a nord, la sede è concepita per ospitare 3.000 studenti, con annesso Policlinico per 500 letti. In tre fasce lineari fiancheggiate da parcheggi e con aree per attività complementari non universitarie, include didattica, ricerca, assistenza. Ha accentuata attenzione alla sostenibilità, con una complessa, densa ma flessibile organizzazione ortogonale cui contrasta il volume dell’Aula Magna. Asse focale è la galleria degli studenti a più livelli su cui si innestano i collegamenti con i Dipartimenti e l’Assistenza a ovest e quelli verso le aule ad est. I percorsi pedonali fecondano un tessuto continuo articolato attorno ai patii, e di esso, il sistema primario, che segue il tracciato della antica centuriatio, è portato a quota intermedia al fine di minimizzare le distanze e scavalca la viabilità a nord per facilitare di raggiungere, mediante la navetta, il collegamento alla Stazione ferroviaria. Un ‘muro d’acqua’ protegge dalle polveri (27 antenne in acciaio su un rilevato di terreno a forma di duna ricoperta di verde). Patii alberati con giardini verticali di altezza variabile sulle facciate delle zone della ricerca; aule con coperture gradonate che definiscono corti concluse; sistema di illuminazione e aerazione naturale; utilizzo dell’acqua piovana. Nel 2008, il progetto del Complesso di via dei Mulini dell’Università del Sannio a Benevento invera architettura, urbanistica, paesaggio e ambiente, determinando un intervento di alto livello qualitativo (fig. 10). Collega il pieno centro e la vasta zona periferica verso valle. Il concetto di continuità dei percorsi pedonali urbani, sempre sostenuto dai PCA, ne è struttura connettiva e spaziale; interamente vertebra l’articolazione topologica e morfologica d’insieme e degli spazi universitari in esso inseriti. Infine data all’oggi il progetto dell’Università di Marrakesh, al margine del tessuto urbano di Tamanseurt, nuova città del Marocco. Si richiede un campus di oltre 200 ettari per 60.000 studenti. I PCA creano un eco-campus con il parco e il canale che entrano sin dentro il cuore del progetto, un sistema compatto e al pari, mediante un insieme di edifici che per specificità tematica e funzionale hanno maggiore disponibilità alla connessione, capace di stimolare relazioni sia al suo interno, sia con la città di cui fa parte e anche con il centro storico della vicina Marrakesh. Una grande strada alberata collega l’accesso occidentale all’università ed è facilmente accessibile dal complesso residenziale e sportivo. *Il testo si basa sui documenti dell’archivio Pica Ciamarra Associati Bibliografia De Carlo 1968 G. De Carlo, Pianificazione e disegno delle Università, Roma 1968. Lima 2011 A. I. Lima, L’architetto nell’era della globalizzazione, in Ricerca didattica e prassi urbanistica nelle città del Mediterraneo, Roma 2011, pp. 149-157, in particolare le pp. 154-155, sulla costituzione dello Studio PCA e del suo processo aggregativo nel tempo il cui prodotto è un sistema strutturato in intrecci, interazioni e confronti di competenze. Lima 2014 A. I. Lima, Senso prima che forma, l’architettura dei P.C.A., in Mostra Percorso. “Il fiume parla di Architettura”, Pisa 2014, pp. 14-15. Lima 2017 A. I. Lima, Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici. Architettura dei Pica Ciamarra Associati, Milano 2017 (english edition StuttgardLondon 2019). 51 UNIVERSITY CAMPUSES DESIGNED BY THE FIRM PICA CIAMARRA ASSOCIATI The meaning of this paper is to have tried to highlight, through some of the multiple projects developed by Pica Ciamarra Associates, some characters that make their action singular especially in comparison to the historical time in which they operate, from the onset already in the seventies of the Twentieth century to today. Aware and responsible for the totality of the environment and the long-lasting effects that their action can cause, PCA constantly dialogue with the specificities of the urban places on which they intervene and with the landscape dimension that they emphasize to the maximum degree, introducing, where the identify weaknesses and expulsions, from parks to trees. Working simultaneously on complexity, congruence, correspondence, and polidirectionality, they have promoted, especially since the 1990s, the spread of ecological awareness in the practice of thinking and acting, stimulating governments and institutions to those radical changes that it itself claims. Reformulate, they argue: so as to invest deeply in the structure and culture of society. 52 ALBERTO SARTORIS E IL PROGETTO DELLA CITTÀ UNIVERSITARIA DI TORINO Cinzia Gavello Lo studio dei temi legati allo sviluppo progettuale di imponenti agglomerati urbani avviati da Alberto Sartoris tra il 1922 e il 1927 è reso possibile grazie all’analisi dei rapporti che egli ha saputo instaurare con i principali protagonisti dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica del primo Novecento, come ad esempio, Raimondo D’Aronco, Felice Casorati e Annibale Rigotti. A partire dalle prime cosiddette “composizioni urbanistiche”(1) ad opera di Sartoris, dal primo progetto del Piazzale dello Stadium a Torino del 1922, giungendo ai più recenti piani urbanistici di Punta Aspera a Varazze (fig. 1) e di MontFleuri a Montreux del 1963 (2) (fig. 2), il progetto della Città Universitaria di Torino rappresenta una preziosa testimonianza di quanto la sua ricerca relativa alla cosiddetta “lottizzazione razionale” (3) sia indirizzata verso una rigorosa applicazione di quei principi progettuali che mirano a concentrare la popolazione in determinati punti della città (ad esempio in grandi edifici o in quartieri debitamente dimensionati), rivolti alla normalizzazione degli spazi e alla disciplina della circolazione. Le trentasei assonometrie di progetti non realizzati, elaborate da Alberto Sartoris e pubblicate all’interno della sezione italiana del suo celebre volume Gli elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna edito da Ulrico Hoepli nel 1932 (4), possono essere considerate come una vera e propria espressione di quella logica puramente auto-promozionale elaborata dallo stesso Sartoris al fine di accostare il suo nome e i suoi progetti alle più importanti icone dell’architettura razionale dell’epoca. Attraverso la pubblicazione del volume che lo ha reso celebre in tutto il mondo, per l’architetto italo-svizzero si presenta infatti l’occasione di mostrare le assonometrie dei principali progetti delle sue opere rimaste sulla carta, come il progetto del Piazzale dello Stadium di Torino (figg. 3-4), la celebre cattedrale di Notre Dame du Phare o la villa per il pittore Jean Saladin van Berchem entrambe del 1931. Le assonometrie dei suoi progetti, divenute celebri in tutto il mondo, diventano quindi l’unica chiave di lettura di quella “sfera pratica” del suo volume e come tali vengono riprodotte anche sulle pagine delle principali riviste di architettura del periodo. Su circa ottocento progetti solo una cinquantina sono stati effettivamente realizzati: ciò nonostante, i progetti di Sartoris rimasti sulla carta assumono nel corso della sua lunga carriera il ruolo di vere “icone della modernità” (5). Il primo progetto assonometrico della Città Universitaria per Torino del 1922 può essere considerato come una sorta di evoluzione del progetto del Piazzale dello Stadium, area per cui Sartoris disegnerà, pochi mesi dopo, le due soluzioni progettuali della Città Universitaria. Secondo Sartoris lo Stadio, infatti, emblema della moderna società di massa, potrebbe rapidamente trasformarsi in una borgata, in un quartiere o in un centro di studi universitario. L’opera di divulgazione avviata da Sartoris attraverso le sue numerose pubblicazioni si concentra principalmente intorno alla questione della cosiddetta “urbanistica moderna” (6). In relazione all’intenso scambio di immagini e di fotografie che Sartoris intraprende a partire dal 1926, lo spazio riservato al progetto delle sistemazioni architettoniche dello Stadio e della successiva Città Universitaria all’interno delle principali riviste specializzate e dei quotidiani del periodo si rivela uno strumento fondamentale per ripercorrere le principali tappe che testimoniano i rapporti instaurati con i più importanti protagonisti dell’architettura dell’epoca. Ad esempio, nel volume Internationale neue Baukunst di Ludwig Hilberseimer del 1926 viene pubblicata, accanto al progetto della Città Nuova di Antonio Sant’Elia, l’immagine dell’assonometria ad opera dello stesso Sartoris del progetto della sistemazione del quartiere dello Stadium a Torino del 1925 (7). Le immagini fornite all’architetto tedesco rappresentano quelle canoniche immagini, già precedentemente diffuse da Sartoris sulle principali riviste del settore dell’epoca, che meglio identificano l’iconicità della sua architettura. Nonostante la forte adesione di Sartoris al Movimento Futurista italiano promosso da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, i disegni da lui realizzati nell’arco della sua lunga attività di teorico e progettista mostrano un netto distacco dalle rappresentazioni delle architetture utopistiche di Sant’Elia o di Mario Chiattone e da quelle prodotte dalle avanguardie artistiche nei primi anni Venti del Novecento. L’essenzialità dei progetti urbanistici di Sartoris è da ricercare, non tanto nelle opere futuriste di Sant’Elia o di Chiattone, bensì nei rapporti che l’architetto italo-svizzero ha saputo sapientemente instaurare con Felice Casorati, pittore ma soprattutto scultore e artigiano. I progetti delle due soluzioni urbanistiche della Città Universitaria rappresentano le prime tavole in cui Sartoris utilizza per la prima volta l’assonometria isometrica ortogonale (8). Le uniche due soluzioni assonometriche del progetto citato, così come il progetto per il quartiere di Orbassano e dei successivi progetti urbanistici rappresentano, secondo Bruno Reichlin, un autentico “enunciato figurativo” (9) sui concetti e metodi sartorisiani relativi alla progettazio- 53 Fig. 1 - Sistemazione urbanistica di Punta Aspera Varazze, planimetria generale del complesso (da ABRIANI 1972, p. 97). ne architettonica. Tale progetto può essere quindi definito come un “diagramma costruttivo”, definito da Christopher Alexander come una sorta di “ponte” fra i requisiti e la forma dell’edificio (10). Il tentativo operato da Sartoris di coniugare insieme l’originalità del Movimento Futurista italiano e le tematiche del razionalismo europeo è ben evidente se si osservano le sue celebri assonometrie. Fin dai suoi primi progetti illustrati con questa tecnica di rappresentazione è rintracciabile una forte ricerca propositiva di quella cosiddetta “nuova architettura” (11), resa attraverso un attento studio del colore e delle proporzioni relative alla composizione architettonica. Sartoris usa quasi esclusivamente l’assonometria isometrica ortogonale come principale strumento di rappresentazione per mettere in evidenza, allo stesso tempo, pianta e prospetto; tuttavia, i documenti d’archivio legati alla sua vasta produzione professionale e di ricerca formale mettono in evidenza come egli non si serva unicamente dell’assonometria per rappresentare il progetto, ma faccia riferimento anche ad elaborati grafici bidimensionali, quali piante, prospetti e sezioni realizzati con la stessa impronta grafica. Ciò nonostante, i suoi disegni più noti rimangono le utopiche assonometrie di edifici sospesi nello spazio in cui gli elementi che costituiscono il contesto esterno non vengono mai rappresentati: Sartoris infatti tralascia di inserire gli alberi, l’uomo e tutti quegli elementi della sfe- 54 ra urbana che caratterizzano fortemente anche la pittura d’avanguardia. Solo in alcune assonometrie il contesto è rappresentato attraverso una semplice linea di terra, un tratto illusorio che identifica un piano immaginario ideale, quasi come se egli volesse lasciare immaginare allo spettatore un’utopica contestualizzazione. Sartoris sfrutta le potenzialità grafiche offerte dall’assonometria in una duplice valenza: la prima per mettere in evidenza l’opera architettonica come oggetto a sé stante, la seconda per trasmettere i disegni da consegnare in cantiere con le indicazioni per la costruzione, diventando così un vero e proprio strumento operativo. In questo contesto, la rappresentazione utilizzata mette in luce il montaggio di un manufatto come un oggetto scomponibile e assemblabile attraverso un semplice sistema di aggregazione di volumi. L’analisi delle numerose assonometrie realizzate da Sartoris a partire dalla fine degli anni Venti del Novecento mette in evidenza un costante rigore geometrico in cui l’architetto tralascia, fino ad eliminare completamente, l’elemento decorativo. I due studi assonometrici della Città Universitaria di Torino (figg. 5-6) rappresentano la prima testimonianza della completa assenza di decorazione in cui, raggiungendo l’estrema sintesi, la forma degli edifici diventa l’unico ornamento (12). Il rigoroso impiego dell’assonometria viene inteso da Sartoris non tanto come riferimento ad una corrisponden- Fig. 2 - Piano regolatore del quartiere di Mont-Fleuri a Montreux, assonometria (da ABRIANI 1972, p. 99). te realtà costruita ma, per la coerente astrattezza, come indicatore di regole dello spazio architettonico (13). L’assonometria utilizzata da Sartoris a partire dalle composizioni urbanistiche del 1922 ridotta a tratti essenziali e a ben definiti volumi di immediata percezione figurativa, può essere considerata come la variante purificata e geometrizzata di quella già utilizzata durante il Futurismo, ovvero utopica e fantasiosa. Il tema del disegno assonometrico assolve quindi per Sartoris la funzione di vero e proprio Manifesto dell’Architettura Razionale e viene messo in evidenza attraverso le numerose pubblicazioni dello stesso autore e con la sua continuativa presenza e partecipazione a conferenze ed esposizioni internazionali. Secondo la critica dell’epoca con il progetto della Città universitaria, Sartoris ha saputo utilizzare i mezzi della sua arte adeguandoli al gusto e alle necessità pratiche del suo tempo. Sartoris sceglie di ignorare le tradizionali procedure edilizie e amministrative e sceglie la strada della cosiddetta “utopia per ottimalizzazione” (14). In entrambe le soluzioni il progetto sembra ridurre al minimo gli spazi, pur garantendo un’elevata qualità resa possibile at- traverso un corretto orientamento dei volumi e attraverso una adeguata distribuzione dei locali. Ogni locale però sembra essere polivalente e il risultato è un interessante gioco compositivo nonostante l’apparente semplicità dei volumi. La prima e la seconda versione del progetto si compone di un insieme di volumi disposti in modo tale da sfruttare al massimo il lotto a disposizione. Sartoris presenta con questo progetto uno scenario quasi surreale, in cui non sono definiti con precisione né la tipologia, né il sistema costruttivo. Soltanto il titolo attribuito da Sartoris alle sue tavole progettuali fornisce una descrizione tipologica del progetto. Il risultato di tale strategia progettuale è tale da annullare ogni riferimento o contenuto architettonico. Il rifiuto di qualificare lo spazio in cui si inserisce il progetto della Città Universitaria caratterizzerà anche le successive rappresentazioni assonometriche ad opera di Sartoris. Le assonometrie del progetto citato si innestano infatti in un territorio fantastico e non riconoscibile. Questo tipo di rappresentazione è probabilmente frutto della convinzione della priorità teorica del disegno, inteso come strumento essenziale e non casuale della rappresentazione architettonica. La necessità di presentare il funzionalismo architettonico come necessità culturale ed educativa traspare non sono attraverso le sue celebri pubblicazioni, ma in tutta la produzione sartorisiana, tant’è che i suoi progetti urbanistici assumono i caratteri di un vero e proprio Manifesto. Secondo le parole dello stesso Sartoris: “solo gli elementi architettonici ridotti alla loro più semplice espressione consentono una forma attuale, quindi sempre variabile. L’architettura non è quindi più una composizione definitiva, perenne; non è più un insieme chiuso dato che le sue dimensioni e i suoi elementi plastici e utilitari subiscono dinamicamente trasformazioni essenziali radicali” (15). Sartoris, già nel 1929, dedica un articolo pubblicato su «La casa bella» (16) di Milano all’architettura standardizzaFig. 3 - Sistemazione del piazzale dello Stadium per Torino, 1926, modello in cartone (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 149). 55 Fig. 4 - Sistemazione del piazzale dello Stadium per Torino, 1926, assonometria della variante con due torri centrali (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 149). ta, strettamente legata ai nuovi sistemi costruttivi e ai nuovi materiali, illustrando alcune opere di Walter Gropius e Le Corbusier. Facendo riferimento soprattutto all’abitazione, Sartoris descrive architettura e standard come risposta alle nuove esigenze abitative, ma anche come possibile indirizzo estetico: “l’architettura standardizzata si manifesterà logicamente in belle forme se chi l’ha disposta ha tenuto conto delle infinite possibilità della tecnica moderna e della nuova sensibilità plastica che regola il nostro tempo” (17). Viene quindi messo in evidenza come l’uso di nuovi sistemi costruttivi e di nuovi materiali che consentono una produzione di elementi architettonici in serie, possa rappresentare la soluzione per rinnovare l’architettura in modo tale da poter rispondere alle nuove esigenze della società. L’attività editoriale di Sartoris incomincia ad avere una risonanza e una diffusione a livello internazionale a partire dai primi anni Trenta del Novecento, dal momento in cui numerose riviste italiane e straniere si interessano ai suoi progetti e alle sue pubblicazioni per lo più relative ai temi d’arte e di attualità. Attraverso le prime pubblicazioni d’arte, italiane e straniere, si incomincia a definire infatti una specifica iconografia legata all’architetto italosvizzero che lo accompagnerà nel corso della sua lunga attività editoriale, accademica e professionale e che lo asso- 56 cerà indiscutibilmente alle grandi icone dell’architettura razionalista del Novecento. I cataloghi delle numerose esposizioni curate e allestite da Sartoris nel corso della sua lunga carriera costituiscono il mezzo più idoneo, da lui utilizzato, per prendere dimestichezza con l’attività pubblicistica di settore e per diffondere le immagini delle più note architetture del periodo. Infatti, le molteplici mostre che raccolgono i disegni e le assonometrie prodotte dallo stesso Sartoris a partire dal 1922 e le fotografie collezionate nel corso della sua lunga carriera rappresentano una preziosa occasione per riflettere sul significato dell’uso del disegno assonometrico, non solo come strumento di rappresentazione ma anche come vero e proprio mezzo di trasmissione di una determinata immagine architettonica. Le esposizioni nazionali ed internazionali si prestano in maniera efficace all’elaborazione di quelle cosiddette scenografie architettoniche. Sartoris segue questa tendenza, facendo della rappresentazione assonometrica lo strumento di comunicazione più appropriato per descrivere e trasmettere al pubblico una determinata immagine dell’architettura europea del periodo. Tra i molti episodi ricostruibili attraverso l’analisi della corrispondenza privata di Sartoris, degno di essere menzionato è quello legato al primo scambio di immagini fra Sartoris e Victor Bourgeois che avviene nel febbraio del 1928: tale interesse dimostrato in primo luogo dall’architetto olandese verso il lavoro svolto da Sartoris è dovuto, specialmente, alla preparazione del materiale da pubblicare all’interno della nascente rubrica “Figures de l’Architecture Moderne” della rivista «7 Arts». Presentando tale nuova rubrica, che prevede la pubblicazione di una serie di brevi ma aggiornate biografie dedicate ai principali “architetti contemporanei” (18) Bourgeois coglie l’occasione per proporre Fig. 5 - Composizione urbanistica per la Città Universitaria di Torino, 1926-1927, prima soluzione (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 150). Fig. 6 - Composizione urbanistica per la Città Universitaria di Torino, 1926-1927, seconda soluzione (da ABRIANI, GUBLER 1992, p. 150). inizialmente a Sartoris la pubblicazione di un elenco ragionato di saggi, già pubblicati o in corso di pubblicazione, che “confermano il ruolo sociale e teorico riconosciuto sempre più unanimemente alla nuova architettura”(19). Nel febbraio del 1928 Bourgeois, in vista della prossima pubblicazione di un articolo relativo all’architettura razionale italiana, ricorda a Sartoris di inviargli al più presto il testo del saggio promessogli con alcune foto di accompagnamento alla redazione di «7 Arts» (20). Una breve biografia relativa all’attività svolta dall’architetto italo-svizzero compare sulle pagine della nuova rubrica della rivista nel maggio dello stesso anno, con il titolo “L’Architecture Rationnelle Italienne”, a firma di Enrico Paulucci, ed è accompagnata da due immagini dell’assonometria del progetto del Padiglione delle Comunità Artigiane di Torino del 1928 e una immagine dell’“Ensemble plastique d’un centre d’études modernes” del 1923 (21). A seguito della pubblicazione di tale articolo, Bourgeois sembra inoltre mostrare particolare interesse ad un primo tentativo editoriale, “sur l’urbanisme” (22), annunciato da Sartoris per l’autunno dello stesso anno e per il quale l’architetto italo-svizzero sembra aver richiesto alla redazione della rivista olandese alcune immagini da pubblicare (23). In realtà gli esiti dei primi studi svolti in ambito urbanistico da Sartoris non verranno mai raccolti in un vero e proprio volume, ma confluiranno semplicemente in un lungo articolo apparso sulle pagine del settimanale milanese «La Fiera Letteraria» nel novembre del 1928 e sulle pagine di «L’Equerre» nel dicembre del 1934 (24). I principi di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità, sintetizzati da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, sono gli stessi riscontrabili in ogni disegno di Sartoris: i suoi elaborati infatti illustrano una cura quasi ossessiva per il tratto nitido, chiaro e senza incertezze, ma allo stesso tempo inconsistente che conferisce maggiormente il senso di spiritualità e impalpabilità alle sue opere. I suoi disegni possono essere associati quasi a dei modelli di architettura virtuale, sospesi all’interno della cornice del foglio ed estranei al loro contesto (25). Le rappresentazioni assonometriche del progetto della Città Universitaria torinese delineano infatti uno dei primi tentativi operati da Sartoris di dare luce ad una nuova forma di sperimentazione urbanistica, dove i principi della cosiddetta “nuova architettura” del primo Novecento vengono messi in luce attraverso un attento studio del colore e delle proporzioni relative alla composizione architettonica ed urbana. Ancora oggi le numerose mostre delle sue assonometrie allestite a seguito della sua morte, avvenuta l’8 marzo del 1998, rappresentano delle ulteriori occasioni per celebrare l’attività del Sartoris-urbanista attraverso un’esaltazione dei suoi numerosi progetti, in gran parte rimasti sulla carta, elaborati con l’obiettivo di definire “un’arte abitabile” (26). A ventidue anni dalla scomparsa del cosiddetto “testimone di un secolo” (27), tali celebrazioni lasciano intravedere, ancor oggi, nuovi orizzonti di ricerca all’interno della sua vastissima produzione. (1) Si vedano Sartoris 1934a, p. 4 e Fillìa 1934, p. 2. (2) Abriani 1972, pp. 97-99. (3) Sartoris 1930, pp. 9-13. (4) Sartoris 1932a. (5) Jaunin 1998, p. 47. (6) Sartoris 1932b, pp. 341-345. (7) Si veda Hilberseimer 1927, p. 27. (8) Gubler, Abriani 1990, p. 60. (9) Reichlin 1979, pp. 82-93. (10) Graziano 2016, p. 835. (11) Sartoris 1929a, pp. 9-13. (12) Abriani, Gubler 1992, p. 21. (13) Cattaneo 1993, p. 41. (14) Sartoris, Angeletti, Carloni 1979, p. 29. (15) Sartoris 1932a, p. 16. (16) Sartoris 1929b, pp. 9-11. (17) Ivi, p. 10. (18) Matteoni 1992, p. 67. (19) Matteoni 1988, p. 26. (20) Archives de la construction moderne-École Polytechnique Fédérale de Lausanne (Acm-EPFL), cart. AS.03.045, Cartolina di Victor Bourgeois a Sartoris del 7 febbraio 1928. (21) Paulucci 1928. (22) “Alberto Sartoris … collabore à de nombreuse revues italiennes et étrangères. Il a organisé plusieurs expositions d’art moderne suisse et italien. Son volume sur l’Urbanisme va paraître prochaine- 57 ment. Il est un des premiers représentant de l’architecture italienne d’avant garde: sa croisade en faveur de la de la construction rationnelle date de 1920” (Paulucci 1928). (23) Acm-EPFL, cart. AS.03.045, Lettera di Victor Bourgeois a Sartoris dell’11 maggio 1928. (24) Sartoris 1928, e Sartoris 1934b, p. 17. (25) Calvino 1988. (26) Sartoris 1982, p. 11. (27) Dell’Oro 1995, p. 372. Bibliografia Abriani 1972 A. Abriani (a cura di), Alberto Sartoris: mezzo secolo di attività, Torino 1972. Abriani, Gubler 1992 A. Abriani, J. Gubler (a cura di), Alberto Sartoris. Novanta gioielli, Milano 1992. Calvino 1988 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano 1988. Cattaneo 1993 M. Cattaneo, Nello spazio di Sartoris, in «Il Corriere del Ticino», 24 settembre 1993, p. 41. Dell’Oro 1995 L. Dell’Oro, Alberto Sartoris. Testimone del secolo, in «Modulo», 1995, 211, pp. 372-379. Fillìa 1934 Fillìa, Alberto Sartoris, in «La Città Nuova», 1934, 7-8, p. 2. Graziano 2016 G. Graziano, Futurismo e razionalismo in alcuni disegni relativi a edifici progettati a Torino a cavallo fra le due guerre del ‘900. Alberto Sartoris e la rappresentazione futurista dell’architettura, in M. Bini, S. Bertocci (a cura di), Le ragioni del Disegno/The reasons of Drawing, Atti del 38° Convegno internazionale dei docenti della rappresentazione (Firenze, 15-17 settembre 2016), Roma 2016, pp. 829-836. Gubler, Abriani 1990 J. Gubler, A. Abriani, Alberto Sartoris: dall’autobiografia alla critica, Milano 1990. Hilberseimer 1927 L. Hilberseimer, Internationale neue Baukunst, Stoccarda 1927. Jaunin 1998 F. Jaunin, Alberto Sartoris a traversé ce siècle sous le signe de la splendeur géométrique, in «24 Heures», 11 marzo 1998, p. 47. Matteoni 1988 D. Matteoni, Il Belgio di fronte al Movimento Moderno, in «Rassegna di architettura», 1988, 34, pp. 25-34. Matteoni 1992 D. Matteoni, Da “7 Arts” al “Gruppo 7” via Sartoris, in Abriani, Gubler 1992, pp. 67-73. Paulucci 1928 E. Paulucci, L’Architecture Rationnelle Italienne, in «7 Arts», 1928, 23. Reichlin 1979 B. Reichlin, L’assonometria come progetto. Uno studio su Alberto Sartoris, in «Lotus International», 1979, 22, pp. 82-93. Sartoris 1928 A. Sartoris, Urbanesimo, in «La Fiera Letteraria», 18 novembre 1928. Sartoris 1929a A. Sartoris, Gli elementi della nuova architettura, in «La casa bella», 1929a, 8, pp. 9-13. Sartoris 1929b A. Sartoris, Architettura standard, in «La casa bella», 1929b, 11, pp. 9-11. Sartoris 1930 A. Sartoris, Sistema dell’urbanismo, in «La casa bella», 1930, 28, pp. 9-13. Sartoris 1932a A. Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale. Sintesi panoramica dell’architettura moderna, Milano 1932a. Sartoris 1932b A. Sartoris, De l’urbanisme, in «Bulletin technique de la Suisse romande», 24 dicembre 1932, pp. 341-345. Sartoris 1934a A. Sartoris, Sistemi architettonici, in «La Città Nuova», 1934, 3, p. 4. Sartoris 1934b A. Sartoris, De l’urbanisme international, in «L’Equerre», 1934, p. 17. Sartoris, Angeletti, Carloni 1979 A. Sartoris, P. Angeletti, L. Carloni, Alberto Sartoris, un architetto razionalista, Roma 1979. Sartoris 1982 A. Sartoris, L’art dans la cité, in «Bulletin technique de la Suisse romande», 1982, 55, p. 11. ALBERTO SARTORIS AND THE DESIGN FOR THE UNIVERSITY OF TURIN’S MAIN CAMPUS In the last twenty years the figure of Alberto Sartoris has been the subject of numerous celebrative publications: despite this critical fortune, catalogues of exhibitions and essays dedicated to him are mostly referred to specific episodes of his career and the aspect of his relationship with the urban planning has always remained in the background, in spite of this very rich bibliographic production. The aim of this research is to add a further piece to the complex artistic-theoretical activity of such a multifaceted person. His eclectic personality allowed him to successfully apply in many disciplines, from painting to advertising art to furnishing architecture to urbanism, so as to be recognized as one of the most important precursors of rational architecture. The famous axonometric representation of the project of the University City of Turin represents in fact one of the first attempts made by Sartoris to give light to a new form of urban experimentation, where the principles of the so-called “new architecture” are brought to light through a careful study of colour and proportions related to the architectural and urban composition. 58 L’UNIVERSITÀ COSTRUISCE LA CITTÀ. PADOVA DAL “CAMPUS DIFFUSO” ALLA RETE URBANA Michelangelo Savino Città universitaria? Padova incarna uno degli esempi più emblematici di quell’organizzazione urbana in cui la presenza dell’università risulta determinante, come Bologna, ma anche Trieste, Parma, Pisa, Pavia, Perugia, Messina, Lecce, Siena e Pisa: ossia città medie in cui l’esistenza di uno o più atenei acquista un ruolo decisivo nella creazione di un’immagine identitaria – quasi un logo in cui la città si rispecchia, seppure non sempre in modo armonico – e nell’influenza esercitata sulla struttura urbana, e soprattutto nel condizionamento dell’economia e dello sviluppo, della mobilità e del funzionamento. Per quanto la realtà sociale ed economica padovana possa dirsi in parte bilanciata dalla presenza di altre attività economiche e da altre istituzioni oltre quelle accademiche – diversamente da quanto accade a città in cui la struttura universitaria monopolizza la vita urbana, come a Urbino o Camerino – le forti inferenze che si registrano tra un sistema apparentemente chiuso e circoscritto (l’università) e il contesto che lo circonda (la città) danno al termine di ‘città universitaria’ un senso del tutto particolare, almeno come questa si declina nel nostro paese. In Italia la ‘città universitaria’ ha assunto – per motivi di carattere politico e istituzionale (e non ultimo anche di ordine pubblico) – un ruolo specifico: non di rado la specializzazione era un modo per allontanare il sapere dalle capitali (nella Pavia degli Sforza come nella Pisa dei Medici e non diversamente a Padova nella Serenissima Repubblica, per esempio) e i privilegi che questa ‘segregazione’ comportava solo in parte compensavano le forme di controllo a cui erano soggette le attività accademiche (dalla Chiesa o dallo Stato, come la vicenda galileiana riassume in modo efficace). La specializzazione universitaria diventava pervasiva della vita urbana, per quanto non totalizzante, anche perché sino all’avvento dell’università di massa la presenza fisica dell’università è stata meno pregnante di quanto si ritenga: occupando sedi temporanee in diverse aree o edifici delle città italiane: in nessuna di esse l’università ha avuto – almeno fino al XVIII secolo – un luogo designato allo studium. Successivamente la crescita dell’istituzione ha spinto alla moltiplicazione di sedi nel tessuto urbano, prevalentemente in quello che con il tempo assumerà configurazione e ruolo di ‘centro storico’: l’università è esplosa nella realtà urbana lanciando frammenti e schegge in ogni direzione. La polverizzazione nella struttura urbana delle attrezzature universitarie (le cui tipologie sono divenute sempre più eterogenee) ha spinto a parlare di ‘campus diffuso’, per quanto l’estrema introspezione dei recinti universitari e al contempo, paradossalmente, la straordinaria intensità delle interazioni tra città e università non permettono, nel caso italiano, di poter utilizzare in modo pertinente questo termine (1). In Italia, ancor più dopo questi ultimi trent’anni di crescita tumultuosa delle università, si rende necessario trovare una diversa ed alternativa definizione per descrivere una realtà di intensi scambi, di reciproche opportunità ma anche di conflitti, quando non di esistenze parallele non inferenti. Padova è un buon esempio di questo rapporto controverso. Padova, il campus diffuso A Padova, fino al XIX secolo, l’Università ha rappresentato ‘una’ delle attività economiche culturali e sociali della città, non la preminente, nonostante l’indubbio prestigio che questa le ha sempre assicurato. Compresa solo all’interno di alcuni edifici specializzati (il Bo, l’Orto dei Semplici, l’ex Ospedale di San Francesco Grande) (fig. 1), nel corso del secolo si espande nel tessuto urbano, con l’acquisizione di nuovi edifici (per donazioni, con l’acquisto di diversi immobili) e attraverso la realizzazione di edifici in aree non edificate, come l’area del Portello, dove l’università urbanizza e rimodella una zona sostanzialmente sottoutilizzata della città murata (2). Il processo prosegue per tutto il XX secolo, con una moltiplicazione di sedi monumentali; con la progressiva dilatazione del polo ospedaliero (che dal nucleo dell’Ospedale Giustinianeo scavalca la cinta muraria con la proliferazione di padiglioni); con la specializzazione dell’area del Portello (fig. 2) lungo il Piovego (3), per poi superare anche il corso d’acqua ed espandersi nell’area nord-orientale. In tal modo, da punti specifici e circoscritti, il sistema universitario si diffonde nella città, che ‘passivamente’ viene investita dalla dispersione delle attività accademiche sempre più articolate, non più solo amministrative, didattiche e di ricerca, ma sempre più diversificate e complesse, per assicurare servizi e funzioni (mense, studentati, biblioteche, sale studio e lettura, attrezzature sportive), progressivamente considerate complementari ed indispensabili alla vita degli studenti (e non solo) (fig. 3). 59 Fig. 1 - Il Bo. Sede storica dell’Ateneo di Padova (foto dell’A.). Questa progressiva infiltrazione dell’università nel tessuto urbano dà vita ad un ‘campus’ disarticolato e composto in realtà da più recinti “inframmezzati” dalla città e, originando un sistema che non ha alcuna coerenza interna o razionale organizzazione, cresce in assenza di un progetto unitario (nei piani urbanistici come nei piani di sviluppo edilizio dell’Ateneo, così come anche i diversi progetti architettonici non sembrano cercare una forma coerente e tipologie compatibili con le strut- 60 ture interne al recinto, né tantomeno con la città circostante), con relazioni intra-moenia spesso complicate se non difficili, non di rado ai limiti dell’efficienza di funzionamento. L’espansione segue prevalentemente due linee di intervento: la prima, gradualmente abbandonata per i suoi costi, con la costruzione di nuove sedi (generalmente ipotizzate come complete e autosufficienti, quasi sempre in contesti periferici della città); Fig. 2 - Il quartiere del Portello ai tempi del Covid19 (foto dell’A.). Fig. 3 - Spazi aperti all’interno del Polo scientifico del Piovego (foto dell’A.). la seconda – erroneamente considerata meno dispendiosa e più strategica – attraverso il recupero di manufatti dismessi, di differente tipologia, destinazione funzionale originaria diversificata (impianti produttivi, manifatture tabacchi, caserme, ecc.), ed epoca di costruzione e qualità edilizia e architettonica differenti, in diversi punti della città, dentro o fuori dal centro storico. E non sempre queste sedi possono vantare architetture di pregio, non solo quando sopraelevazioni, ampliamenti, superfetazioni alterano significativamente le strutture edilizie originarie. ‘Campus diffuso’ sembra dunque un termine che tenta timidamente di nobilitare una situazione di ordinario disordine che poco ha a che fare con la creazione strategica di un organico sistema universitario e dove le 61 Fig. 4 - L’intervento di Gino Valle nell’area del Piovego. Casa dello studente e piazza pedonale del Dipartimento di Psicologia Generale (foto dell’A.). Fig. 5 - Il “Fiore” di Mario Botta, sede del Dipartimento di Biologia (foto dell’A.). problematiche si acuiscono sia ‘dentro il recinto’ sia ‘fuori dal recinto’: se dentro si continua a patire una generale insufficienza e inadeguatezza degli spazi, la città attorno manifesta sempre più il disagio prodotto dalla congestione di attività, dai contrasti determinati dalle destinazioni funzionali non sempre compatibili, da un’accessibilità divenuta più faticosa, dai conflitti tra residenti e city users (che siano studenti o quanti usano – se non vivono – la città) la cui presenza è determinata dall’università. 62 Dentro il recinto In una città di 235.000 abitanti, dunque, pesa un’istituzione di 2.100 componenti del personale docente e ricercatore, 2.300 unità di tecnici ed amministrativi, 57.272 studenti iscritti (dei quali 5.664 immatricolati nel 2016) che si distribuiscono in più poli prevalentemente nel centro storico e nelle aree immediatamente adiacenti (4). Un sistema che è andato crescendo nel corso del tempo con logiche a volte unitarie, in molti casi per episodi e frammenti spesso casuali, sia per l’acquisizione di sedi sparse nel centro storico, sia con la creazione di poli ancora nella ‘città murata’ subito a ridosso (come gli istituti universitari oltre il Piovego che dagli anni ’70 ad oggi hanno esaurito tutte le aree disponibili (da ultimo con la realizzazione dei dipartimenti di Psicologia e della nuova Casa dello Studente su progetto di Gino Valle, 1995-2013) (fig. 4) o spingendosi oltre, con la creazione del nuovo “Fiore di Botta” (dal nome dell’architetto a cui si deve la sede del ‘campus’ biomedico, 2007-2014) (fig. 5) in questo modo indicando future possibili direttrici di espansione. Dopo un timido tentativo di uscire dalla città, con la creazione durante gli anni ’70 del centro ricerche di Voltabarozzo (1969-1980), il campus di Agripolis per la Scuola di Agraria e Veterinaria (1970-1996) e i Laboratori Nazionali dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (1968-2010) nel comune di Legnaro, a 10 km da Padova, di recente, però, l’Università è “tornata” all’interno della cinta muraria con l’acquisizione dell’ex Ospedale Geriatrico (2007), ristrutturato per accogliere il Polo umanistico del Beato Pellegrino (settore nord-ovest del centro storico) e poi dell’ex caserma Piave (2017) che diverrà il nuovo Polo di Scienze Sociali. Si tratta di localizzazioni decise in base a convenienze immobiliari e non sempre pianificate con ampio respiro e visioni di medio-lungo periodo, come accade in quasi tutti gli atenei italiani, dove mancano piani di sviluppo organici o piuttosto una strategia di organizzazione e logistica dell’intero sistema coerente e meno estemporanea. Un patrimonio edilizio eterogeneo, a cui si aggiungono musei, collezioni storiche, sedi di centri e fondazioni, che fanno dell’università anche uno dei principali proprietari immobiliari della città, uno stake-holder e interlocutore politico di indubbio rilievo non solo per il prestigio culturale, ma anche per il suo peso economico. Ma questo patrimonio da risorsa si traduce anche in un gravoso problema. La varietà delle sedi – edifici di carattere storico-architettonico e monumentale di rilevante pregio, edifici spesso di dubbia qualità edilizia degli anni ’50-’70, più di recente caserme, ex edifici industriali, ex ospedali, e altre costruzioni un tempo ad altro uso destinate, ristrutturate e recuperate ad ‘usi universitari’ – produce oggi gravi difficoltà di adeguatezza alle funzioni a cui vengono destinate (aule, laboratori e centri di ricerca, biblioteche, uffici amministrativi, studioli per le diverse forme di personale che opera all’interno dell’università), soprattutto mancano dei requisiti di comfort e di accessibilità anche alle persone con limitata capacità motoria o sensoriale. Prescrizioni vincolanti, prevalentemente dettate da normative nazionali e regionali, quando non da nuove indicazioni ministeriali (che più che essere utile guida alla riorganizzazione delle sedi vengono utilizzati come indicatori di qualità degli atenei e quindi come criterio dirimente i finanziamenti) rendono difficile e costoso l’adeguamento delle sedi anche alle nuove disposizioni in materia di sicurezza (antincendi, antisismica, ecc.) che si sovrappongono agli ordinari interventi necessari di manutenzione ordinaria e straordinaria. Non ultime le indicazioni per la conversione dell’ateneo in ‘università sostenibile’ (risparmio energetico, smaltimento dei rifiuti, mobilità, in cui l’Ateneo patavino si è impegnato con l’adesione alla Rete delle Università Sostenibili – RUS nel 2016). Non solo le sedi monumentali (spesso vincolate), ma anche il patrimonio realizzato negli anni ’40-’70 presentano oggi difficoltà tecnico-edilizie ed anche tecnologiche di adeguamento, che in molti casi, per gli elevati costi che comportano, suggeriscono la conversione degli edifici ad altre funzioni se non la loro dismissione, quando non può sembrare strategica, piuttosto la loro alienazione, se solo ci fosse un mercato immobiliare interessato a questo patrimonio. Nella maggior parte dei casi, l’Ateneo – davanti alle difficoltà di intervento – tende a moltiplicare le sedi e realizzare ex novo o individuare altri ‘contenitori’ in cui collocare le funzioni. L’emergenza spinge spesso ad acquisire temporaneamente, in locazione sedi, che poi, nonostante le spese ed i lavori sostenuti per il loro adeguamento (come la normativa impone), verranno lasciate. Tutto accade nelle maglie di un bilancio che appaiono sempre più strette. La natura diffusa degli interventi, e le politiche immobiliari dettate dall’emergenza acuiscono, quindi, la condizione di disseminazione delle sedi, a cui si aggiungono nuove esigenze legate all’‘università di massa’ o alla seconda e/o ‘terza missione’. Nel primo caso diventa necessario assicurare non solo aule ampie, ma anche spazi per altre attività, che siano sale di studio o lettura o luoghi ricreativi e per altre attività culturali (anche a fronte di un calo relativo degli iscritti); nel secondo, invece, diventa strategico favorire nuove attività come spin-off o start-up, attività di collaborazione pubblico-private e/o conto terzi che chiedono altri e diversi spazi. La risposta conseguente è l’individuazione e la realizzazione di strutture sempre più autonome e distinte, aumentando la frammentazione, imponendo un maggior numero di spostamenti tra sedi una o più volte nell’arco della giornata nel ‘corpo vivo’ della città – e non all’interno del recinto –, che si intrecciano e si confondono con i flussi urbani, condividendone congestione, limiti di offerta del trasporto pubblico (numero di corse, frequenza, linee), difficoltà del ricorso al mezzo privato (condizionato dai limiti di accesso e di circolazione nel centro storico, dalle difficoltà di parcheggio, ecc.), ritardi nella realizzazione di reti per la mobilità alternativa e scarsità dei nodi intermodali spesso non attrezzati. 63 Fig. 6 - Studenti nei pressi della Stazione ferroviaria di Padova (foto dell’A.). La pianificazione urbanistica non aiuta e non contribuisce ad un’ottimizzazione del sistema. Se a Padova si osservano i piani urbanistici dagli anni ’80 ad oggi (Variante per i Servizi e alle Norme, 1983 e successiva del 2007; Variante per il Centro Storico, 1992; PAT, 2014; PI, 2017) quello che si rileva, più che una programmazione concertata e condivisa, è sostanzialmente un avvallo a posteriori delle scelte dell’Ateneo. Lo dimostra il recente Documento preliminare dell’ottobre 2017 predisposto dal Comune di Padova per una variante al Piano degli Interventi con il quale si legittimano le operazioni urbanistiche di recupero e conversione dell’ex Caserma Piave (a valle del protocollo di intesa tra Università di Padova ed il Ministero delle Difesa siglato a giugno 2017) e si riclassifica l’area del ‘Fiore di Botta’ come “zona universitaria” (a due anni dall’inaugurazione dell’edificio). La variante urbanistica, però, è ancora in corso di elaborazione. Oltre il recinto Anche oltre il recinto non sembrano mancare problematiche e in alcuni casi anche delle conflittualità. Abbiamo già accennato ad un problema di flussi e di mobilità nella città, non solo tra le varie sedi universitarie per l’efficienza del sistema, ma anche tra le sedi e 64 le altre zone della città e i principali nodi intermodali (stazione ferroviaria, stazione delle autolinee, ecc.) (fig. 6): l’università con i suoi differenti utenti concorre al progressivo sovraccarico del sistema del trasporto pubblico e della mobilità veicolare privata, solo in parte compensata da un’elevata propensione all’uso della bicicletta. Colpiscono le dimensioni di questi flussi, polarizzati sulle sedi universitarie, ma capaci di generare effetti su tutto il sistema urbano, rispetto ai quali il mobility manager di Ateneo ha provato a stringere diversi accordi con l’Amministrazione comunale e con le società di gestione del trasporto per individuare strategie in grado di risolvere il problema (agevolazione sui prezzi dei titoli di viaggio, integrazioni tariffarie, sostegno all’intermodalità, ecc.). Si attende però che sia il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile in corso di elaborazione a definire nuove strategie di mobilità che tengano in debito conto le relazioni ‘pericolose’ tra città e università. Non c’è modo di elencare le tante forme di connessioni e interferenze tra città e università che si determinano a Padova (ma frequenti in tutte le città universitarie di dimensione media del paese): al di là di numerose ricerche che hanno tentato di metterle in luce, sono state evidenziate in alcuni dibattiti politici in corso a Padova, collegati soprattutto all’acquisizione dell’ex Caserma Piave da parte dell’Università, in merito al quale sono state denunciate (sulla stampa locale e attraverso la costituzione di comitati di cittadini) alcune forme di incompatibilità, generalmente trascurate dalle strategie dell’Ateneo. Per brevità bisogna annotare solo alcune di queste, come ad esempio: la profonda trasformazione della rete commerciale nelle ‘zone universitarie’, ossia la rete di attività commerciali che si crea attorno alle sedi accademiche, fenomeno evidente e macroscopico che spesso comporta anche specializzazioni commerciali in alcune aree, con depauperamento della rete di dettaglio originaria ed una penalizzazione per le necessità quotidiane della popolazione residente; la competizione tra residenti, altri utenti o city users e gli studenti per l’accesso al patrimonio residenziale in affitto (già profondamente eroso dagli andamenti del mercato immobiliare e dall’insorgente – anche a Padova – fenomeno del turismo residenziale, gestito da grandi operatori multinazionali e dalle platform economies). Un problema di difficile rilevazione (pochi dati, pochi studi mentre sono sicuramente più evidenti gli annunci esposti nelle bacheche universitarie o sui muri delle diverse sedi a denunciare le dimensioni del fenomeno e il livello della domanda) che davanti alle difficoltà di intervento del settore pubblico, come dell’Ateneo (attraverso i soli strumenti e le risorse per il diritto allo studio in progressivo calo), tende a creare gravi situazioni di disagio, concorrenza ed incremento dei costi per gli studenti fuori sede. A Padova, il posto letto costa in media al mese dai 300 ai 500 euro (in camera singola); l’innalzamento dei valori immobiliari nelle ‘zone universitarie’, perché l’Università sembra promuovere processi di rigenerazione nelle aree in cui approda, ma anche perché dirige l’attenzione di potenziali operatori immobiliari e acquirenti verso aree che spesso risultano se non neglette certamente non appetibili per il mercato. È un mondo ‘opaco’, di cui si percepisce – ma con difficoltà si rileva – il fenomeno, evidente solo quando diventa alquanto complicato poter intervenire; non ultimo, l’intolleranza (ai limiti del conflitto) della popolazione residente nei confronti della presenza studentesca, per quanto molte volte risulti esito di pregiudizi o di una sensibilità esasperata nei confronti dei processi di trasformazione in atto. Gli studenti sono molto spesso temuti per il rumore, la sicurezza, una diffusa illegalità e via discorrendo; non di rado la popolazione studentesca è stata contestata per la competizione emersa negli usi e pratiche dello spazio pubblico e di qualche specifico ambito urbano. È difficile cogliere quanto questi conflitti siano frutto di concrete difficoltà quotidiane dei residenti e quanto di un immaginario collettivo che ha una visione non sempre positiva dello studente universitario o che non comprende né il disagio né le forme di denuncia del disagio che spesso si manifestano nello spazio urbano (la cittadinanza di Padova ricorda ancora traumi e paure delle prime forme di contestazione studentesca e di rivolta armata negli anni ’70 in Italia), ma indubbiamente queste ‘interferenze’ hanno un peso nella formulazione delle politiche pubbliche urbane e soprattutto nella formazione del consenso, per le quali gli studenti universitari non residenti (e quindi non elettori) assumono scarsa rilevanza. Prospettive È evidente che questo sistema necessiti, almeno per il futuro, di una svolta, che sappia in qualche modo rimediare alle carenze del sistema universitario, ma soprattutto sia in grado di valorizzare le relazioni con la città, risolvendo alcuni conflitti (attraverso azioni condivise con l’Amministrazione comunale e con gli altri attori istituzionali che agiscono in città) e moltiplicare i benefici che la presenza dell’università nella struttura urbana produce. Un’università che riesca a moltiplicare le connessioni con il territorio e con il sistema economico locale può favorire una maggiore competitività della città e uno sviluppo che a sua volta polarizzi flussi, investimenti e risorse umane. Un’università funzionale ed efficiente in una città attrattiva ed accogliente può indurre gli studenti a trattenersi, divenendo non solo nuovi residenti ma anche fattori determinanti di crescita sociale ed economica della città. Un’università che riesca ad integrarsi e ad integrare nella città le sue componenti, contribuisce anche ad un maggior dinamismo sociale, ad una vivacità culturale rendendo la città un cantiere creativo ed innovativo. È per questo che in una fertile integrazione tra città e università si può intravedere un fattore strategico per il futuro, ed è forse in questo senso che va inteso oggi il termine di “città universitaria” riferendolo a forme e strutture di organizzazione e localizzazione delle funzioni universitarie. Per ottenere questo, si elencano qui solo alcune indicazioni dei possibili passi da compiere: l’acquisizione da parte delle istituzioni di una consapevolezza del valore delle sinergie e quindi la convinzione che per una (più o meno) armonica convivenza e compresenza, tra città ed università si debbano realmente perseguire forme di integrazione e di condivisione; la necessità di formulare programmi di lungo termine che partendo da un’attenta analisi dei bisogni delle sue diverse componenti (non solo durante il loro percorso accademico, ma anche nel quotidiano ed al di fuori del recinto universitario) possano fornire tutti i dati necessari ad una progettazione integrata delle soluzioni urbane delle problematiche rilevate. Questo processo di programmazione può raggiungere un alto livello di efficacia 65 solo attraverso la ricerca interdisciplinare, la cooperazione interna ed esterna; la redazione di programmi (e piani, e progetti) di sviluppo a differente scala, multisettoriali ma coerenti tra di loro e soprattutto coerenti ad un quadro di obiettivi univoci condivisi che devono ispirare politiche ed azioni. Questo complesso di progetti e piani deve risultare coerente con le scelte urbanistiche del Comune e deve potersi integrare con le politiche che cercano di indirizzare lo sviluppo del territorio; il maggior coinvolgimento possibile di tutte le componenti accademiche e cittadine in un processo di dibattito pubblico, destinato non solo ad informare ma anche per definire un quadro quanto più esaustivo delle doman- de sociali e dei bisogni per la formulazione condivisa di soluzioni percorribili. Un’agenda che tenga conto di queste priorità per tentare una nuova e diversa strategia di sviluppo rispetto al passato (5) deve poter favorire lo sviluppo di “città universitarie” efficienti, funzionali, attrattive, ma soprattutto accoglienti, creative e quindi competitive. (1) Martinelli 2012. (2) Dal Piaz 1990; Alberton 2018. (3) Savorra 2006; Giordano, Zaggia 2011. (4) Savino 2018. (5) Savino 2015. Bibliografia Alberton 2018 A.M. Alberton, L’università di Padova dal 1866 al 1922, Padova 2018. Dal Piaz 1990 V. Dal Piaz, Il Cantiere Università, durante il rettorato di Carlo Anti, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Padova 1990, pp. 241-285. Giordano, Zaggia 2011 A. Giordano, S. Zaggia (a cura di), Il complesso d’Ingegneria di Daniele Donghi, Padova 2011. Martinelli 2012 N. Martinelli, Spazi della conoscenza. Università, città territori, Bari 2012. Savino 2015 M. Savino, Il ruolo dell’università nel processo di trasformazione sociale dopo la crisi, in N. Martinelli, M. Savino (a cura di), Università/ Città. Condizioni in evoluzione, in «Territorio», 2015, 73, pp. 60-66. Savino 2018 M. Savino, Centro storico e Università. Questioni e dinamiche inesplorate a Padova, in P. Pedrocco (a cura di), I centri storici del Veneto. Considerazioni sul passato, sul presente e sul futuro, Roma 2018, pp. 95-109. Savorra 2006 M. Savorra, Scuole Politecniche e città degli studi: Daniele Donghi e il caso di Padova, in G. Mazzi (a cura di), L’Università e la città. Il ruolo di Padova e degli altri atenei nello sviluppo urbano, Bologna 2006, pp. 175-189. THE UNIVERSITY BUILDS THE CITY: PADUA’S CITY-WIDE CAMPUS AND URBAN NETWORK On June 2017, the University of Padua and the Ministry of Defense signed the agreement for the assignation to the University of the former Piave Barracks for converting it into a new “campus”. It was the last act of the University of Padua reorganization strategy over the last few years, which through purchasing of existing (disused or abandoned) areas or acquisition of new free surfaces will lead to a complete arrangement of the university localizations in the city. Furthermore, according to recent studies held by the author, University determines changes of commuters and customers flows within the city, new activities and functions, economic and social revitalization, also triggering transformation of the real estate market (sensitive to the students demand). 66 IL PIANO DI LUIGI PICCINATO PER IL NUOVO CENTRO UNIVERSITARIO DI CATANIA Gemma Belli Nel 1959 Luigi Piccinato (1899-1983) – uno degli indiscussi padri dell’urbanistica italiana del Novecento – riceve l’incarico per il piano del nuovo Centro universitario di Catania, da destinare a sede delle Facoltà scientifiche e del Policlinico (1). Non è la prima volta che l’architetto di origini venete e di formazione romana lavora nella città etnea (2). Infatti, già nel 1926, giovanissimo laureato, era stato incaricato del rifacimento del teatro-arena Pacini (3), e nel 1931 aveva partecipato, assieme ad Ignazio Guidi e a Giuseppe Marletta, al concorso per il piano regolatore urbano, classificandosi secondo (4). Ma l’occasione del programma per il nuovo Centro universitario segna per lui l’avvio di un rapporto ultradecennale con Catania, durante il quale interviene anche nel disegno del quartiere Rotolo nel 1962, nel progetto di risanamento del rione San Berillo nel 1969, e soprattutto nella redazione del piano regolatore generale a partire dal 1961 (5), oltre che nell’elaborazione del piano territoriale tra il 1963 e il 1971, quest’ultimo con un team che annovera, tra gli altri, Leonardo Urbani ed Ernesto Dario Sanfilippo. Analogamente a Napoli, a Padova e ovviamente a Roma, Catania rappresenta dunque un luogo con cui l’urbanista di Legnago instaura un legame privilegiato – pur non alieno da conflitti – e nel rapporto con il quale è possibile rileggere momenti culturali differenti e l’evoluzione del suo pensiero urbanistico. Quando riceve l’incarico per il nuovo Centro universitario, Piccinato è un professionista affermato in Italia e all’estero, e si è già occupato del problema della localizzazione delle cliniche universitarie nell’ambito del piano di Padova; ha, inoltre, collaborato al progetto della Città degli studi a Istanbul, come egli stesso rammenta a Cesare Sanfilippo (6); e – circostanza recentemente evidenziata da Sergio Zevi (7) – ha pure offerto il suo contributo scientifico e culturale al piano della Città universitaria di Tucumán, avviato nel 1947 sotto la guida di Jorge Vivanco, all’interno di un complessivo e ambizioso programma di riorganizzazione e di ristrutturazione degli studi voluto dal rettore Horacio Descole. La documentazione conservata presso l’Archivio Luigi Piccinato (8) mette in luce che i rapporti tra Cesare Sanfilippo, Ordinario di Istituzioni di Diritto Romano di origini palermitane, Rettore dell’ateneo catanese dal 1950 al 1974, e l’urbanista veneto iniziano a cavallo tra il 1958 e il 1959, quando l’amministrazione universitaria chiede a Piccinato di intraprendere un’analisi del contesto etneo, individuando le aree per le quali redigere un piano urbanistico particolareggiato, capace di conferire un assetto nuovo e razionale agli istituti delle facoltà scientifiche, e fornire una sede adeguata al costituendo centro universitario clinico. In questa, come in numerose altre occasioni, lo studio romano si avvale della collaborazione dell’insostituibile Vera Consoli. Il 23 gennaio 1959 Piccinato, appena rientrato a Roma dall’estero – probabilmente da Israele, dove si sta occupando del piano urbanistico comunale di Eilat (9) – ringrazia Sanfilippo per l’incarico “così delicato, impegnativo e colmo di interesse” (10), piena espressione di fiducia nelle sue capacità. Nei fatti, a tale data il Consiglio di amministrazione dell’Università non ha ancora autorizzato il Rettore a conferire l’incarico professionale per l’“esecuzione di uno studio generale del piano edilizio” (11), cosa che però avviene di lì a poco (fig. 1). Il 2 febbraio del 1959, infatti, Sanfilippo informa Piccinato di essere finalmente autorizzato ad attribuirgli il mandato per la sistemazione dell’area destinata all’attuazione del programma, il quale deve necessariamente prevedere futuri sviluppi per il complesso universitario. Il compito comprende anche la supervisione sui progetti dei singoli edifici, affidati a gruppi di professionisti locali. Il 14 gennaio 1960 il Rettore comunica finalmente all’architetto che l’Assessorato ai Lavori pubblici della Regione Sicilia ha espresso parere favorevole in ordine al piano urbanistico del nuovo complesso clinico-scientifico, e il 13 maggio 1960 convoca la riunione per illustrarne i criteri, e passare al conferimento degli incarichi ai singoli progettisti. Di fatto le attività per la realizzazione del plesso universitario sulla collina Santa Sofia, nell’area settentrionale di Catania, erano già state avviate in precedenza. Come testimonia, infatti, il carteggio presente negli archivi della Sapienza (12), già al principio del 1958 Cesare Sanfilippo ha individuato nella città universitaria romana un valido esempio di riferimento, soprattutto per quel che concerne la concezione, giudicata organica e funzionale. Di conseguenza, l’11 gennaio 1958 la Società Generale Immobiliare, che all’epoca finanzia l’ISTICA (Istituto immobiliare di Catania), e promuove pure l’Istituto di edilizia economica e popolare di Catania-San Berillo (13), contatta l’allora Rettore dell’ateneo romano Ugo Papi, richiedendo le planimetrie di alcuni edifici della Sapienza (e precisamente: Chimica, Farmacia, Anatomia, Medicina legale, Igiene, Patologia generale, Fisiologia e antro- 67 Fig. 1 - Luigi Piccinato, “Catania, nuova sede dell’Università”, planimetria, 1959 (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.00). pologia, Anatomia patologica e chirurgica, Farmacologia e chimica biologica, Chimica industriale e Impianti industriali chimici), con i relativi dati funzionali, dovendo procedere su incarico di Sanfilippo alla redazione di un programma di massima per la sistemazione degli istituti universitari catanesi in un unico complesso. Il 15 marzo 1958, poi, è lo stesso giurista palermitano a comunicare a Papi la sua volontà di predisporre un piano generale di assetto edilizio “moderno” e “funzionale”, per la realizzazione di un unico centro in cui collocare gli istituti scientifici dell’Ateneo siciliano, e a rendere noto di avere conferito alla Società Generale Immobiliare tale incarico. Quando Piccinato interviene, accoglie appieno le direttive di Sanfilippo, tanto riguardo all’impostazione organica, rispettosa dei valori d’ambiente e paesistici, quanto alla condotta dell’intero lavoro, da svolgere in stretta collaborazione con il corpo accademico, al fine di 68 ottenere una completa rispondenza dell’opera alle reali necessità dei singoli istituti universitari (14). E fonde tali linee con alcuni princìpi cardine della sua immagine di città specializzata funzionalmente (15). Così, su un’area ampia 25 ettari, acquisita a prezzo agricolo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ubicata a monte della costruenda circumvallazione nord, delimitata a ovest dall’intersezione con il terminale settentrionale della via Etnea, e comprendente la collina di Santa Sofia, Piccinato concepisce una serie di padiglioni isolati disposti su più file parallele, collegati da un doppio sistema di strade a sedi distinte, nelle quali i flussi veicolari possano essere separati da quelli pedonali. Nella parte più alta è collocato il Policlinico; a monte della circumvallazione viene individuato l’ampio piazzale circondato dagli edifici di rappresentanza e dalle attrezzature comuni; alle spalle di questo sono posti i corpi di fabbrica delle Facoltà scientifiche. Il tutto, prevedendo la possibilità di ampliamento nel tempo. Definito l’assetto urbanistico, sono immediatamente intraprese le opere di urbanizzazione, e predisposte le reti idriche, elettriche, del gas e dei servizi tecnologici. Il disegno iniziale è di lì a poco modificato: difatti, nel 1961 gli edifici destinati alle attrezzature comuni vengono collocati nell’area centrale, e nella parte alta dell’insediamento è anche ipotizzato l’Osservatorio astrofisico (fig. 2). I diciotto padiglioni programmati vengono, così, raggruppati in tre grosse aree: a valle, nella parte più meridionale, a ridosso di via Andrea Doria, trovano posto gli Istituti scientifici; nella fascia mediana, la più larga, accessibile anche da via Passo Gravina, sono ubicati gli spazi sociali e collettivi (mensa, casa dello studente, biblioteche centralizzate, Aula Magna, impianti sportivi, teatro all’aperto); nella parte più settentrionale, infine, vengono col- locati i padiglioni del Policlinico, con il Pronto Soccorso e la Cappella (fig. 3). Inoltre, l’asse viario sud-nord, originariamente perimetrale, assume il ruolo di arteria dorsale. Nel 1966 il progetto è sottoposto a un’ulteriore revisione, e stavolta Piccinato redige il nuovo piano in collaborazione con Francesco Vinciguerra. Il progetto esecutivo definitivo, composto da 25 tavole – ma non corredato da computo metrico estimativo, essendo assunta l’incombenza dall’Ufficio tecnico dell’Ateneo – è pronto il 1° febbraio. Il comprensorio è esteso verso nord e verso ovest, raggiungendo la dimensione di circa 70 ettari, e l’ampliamento segue le direttive del piano regolatore generale, al quale Piccinato lavora negli stessi anni. Nel mese di maggio la sistemazione degli Istituti di Fisica, di Matematica, del Biennio di Ingegneria, può considerarsi definitiva. E lo studio Piccinato controlla Fig. 2 - Luigi Piccinato, “Catania, nuova Città universitaria”, planimetria, 1961 (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.01). 69 Fig. 3 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania, foto del plastico (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.01). pure le prime realizzazioni quali le Cliniche, gli Istituti di Patologia, Igiene, Microbiologia, Zoologia, l’Istituto di Botanica, l’Aula magna dell’Istituto di Chimica, l’Istituto di Biologia-Fisiologia e Farmaceutica, l’Istituto di Matematica, quello di Disegno, il blocco del Biennio di Ingegneria, l’Istituto di Fisica, la Facoltà di Agraria, il campo sportivo, oltre ad elementi come il corpo dell’ingresso principale con portineria, e la recinzione (figg. 4-6). Inizialmente, nell’individuazione delle principali linee-guida e nel coordinamento dei gruppi incaricati, Piccinato viene anche affiancato da Ignazio Gardella. La collaborazione, però, è di breve durata, molto probabilmente per l’indisponibilità di alcuni dei soggetti coinvolti ad assoggettarsi alle direttive del progettista mila- 70 nese, il quale, tuttavia, segna alcune tracce evidenti per l’unificazione degli elementi architettonici da utilizzare nella progettazione dei differenti edifici (16). Nel dicembre 1969, poi, matura un’ulteriore novità: si profila, infatti, la possibilità di ottenere la concessione dei benefici previsti dalla legge di finanziamento delle opere ospedaliere per la costruzione della fabbrica destinata alle Cliniche, a patto di avere un progetto già redatto (17). Dopo avere discusso dell’alternativa di avvalersi dell’Ufficio tecnico dell’Università, oppure di un professionista designato dagli ordini professionali catanesi, o ancora di un progettista di chiara fama, le autorità accademiche optano per la terza soluzione, coinvolgendo Pier Luigi Nervi. Così, alla vigilia dell’ultimo dell’anno 1969, Piccinato scrive a Sanfilippo, rammaricandosi di non essere stato interpellato. Sottolinea che la soluzione più logica avrebbe dovuto essere quella di “un concorso nazionale tra architetti: [cosa] che avrebbe risvegliato una eco di simpatia e di interesse per l’Università” (18), ma soprattutto, in maniera tutt’altro che velata, critica l’ingegnere di Sondrio: “Nervi è un mio amico e collaboratore: non è affatto un architetto ma, piuttosto uno strutturalista, esperto e creatore di strutture in c.a. Insieme (io come architetto e Nervi come specialista in strutture) abbiamo collaborato per l’attuale stazione di Napoli, progetto definitivo, per la quale abbiamo vinto il concorso nazionale, ‘pari merito’. Vi sono oggi altri strutturalisti, forse più agguerriti: Morandi, Cestelli, etc. Nervi non è certo uno specialista di progettazioni ospedaliere: si varrà di un architetto del suo studio e di qualche specialista del ramo, ma penso che sarebbe bene che gli si desse dei limiti ‘urbanistici’ per l’inserimento nel quadro generale” (19). E in effetti è proprio il controllo del quadro generale, ciò che preoccupa maggiormente Piccinato. Lo si evince anche dalla corrispondenza con i differenti progettisti incaricati (20), con le imprese, con gli uffici tecnici; lo si deduce dalle continue richieste di modifiche da lui avanzate anche per ricondurre il progetto nell’alveo delle linee del piano regolatore. E nella direzione di una controllata regia urbanistica, volgono pure le direttive architettoniche, impartite inizialmente in maniera unitaria, in una visione complessiva riconducibile a una sorta di razio- nalismo organico: il ricorso a volumetrie articolate ma regolari, l’uso di materiali locali, o comunque armonizzati con essi, il modellamento delle fabbriche in funzione della morfologia dei luoghi. Concepito prima della legge n. 910 del 1969, che liberalizza gli accessi all’università, e della legge n. 766 del 1973, primo provvedimento organico italiano per l’edilizia universitaria, il progetto catanese vuole chiaramente rispondere alle nuove esigenze logistiche legate all’incremento della popolazione studentesca, e alla pressante richiesta di nuovi spazi da destinare a laboratori per la ricerca, in un momento di consistente progresso tecnologico; e vuole ovviare alla perdita di identità legata alla dispersione delle strutture deputate all’istruzione superiore nel tessuto urbano. Esso è pertanto ipotizzato sin dal principio in un’area esterna alla città e, pur costituendo un magnete di grande rilevanza, non aspira ad acquisire intenzionalmente dimensioni territoriali per un ambito regionale o sub-regionale: nasce nella città e continua a essere attratto da essa, perché in essa trova le radici della sua cultura, stabilendo contatti con la rete degli operatori che costituiscono la sua effettiva committenza. E, per di più, rappresenta uno di quei casi in cui la città promuove gli interventi di edilizia universitaria ai margini del suo stesso tessuto per estendere la rete dei servizi primari di urbanizzazione e per valorizzare le aree periferiche. Inoltre sembra riflettere appieno l’impostazione culturale del periodo, secondo la quale il problema degli edifici Fig. 4 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania: istituti di zoologia e anatomia comparata, vista prospettica (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.03.007). 71 Fig. 5 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania: collegio maschile, planivolumetrico (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.06.009). universitari può essere risolto nel quadro cittadino solo se affrontato come un tutto, come un settore distinto della città, un “quartiere autosufficiente”, connotato da una chiara distinzione dei traffici di servizio interno (meccanizzati e pedonali) da quelli esterni al complesso, dotato di un elevato grado di flessibilità nello schema planimetrico, nella forma e nella disposizione degli impianti, tale da consentirne futuri ampliamenti. Tuttavia, la grande facilità con cui Piccinato trasferisce elementi costitutivi del piano da un contesto all’altro, fa sì che questo quartiere autosufficiente appaia simile ad altri da lui progettati altrove, oltre che formalmente vicino alle immagini idilliache dell’urbanistica scandinava e inglese, diffuse sulle pagine delle riviste coeve. 72 Rispetto a realizzazioni più o meno contemporanee, come quelle di Bari o di Urbino, il progetto di Piccinato assume probabilmente una valenza intermedia: non è un luogo della città, fisicamente separato da essa, come nel caso pugliese, e non raggiunge l’osmosi pienamente attuata nel capoluogo marchigiano, dove la città si identifica con l’università, grazie all’assunzione della topografia nell’ordine urbano degli interventi, e in virtù dello speciale legame instauratosi tra il progettista e i luoghi. Ciononostante, e malgrado le notevoli modificazioni di indirizzo intervenute nel tempo, il piano di sistemazione del nuovo Centro universitario clinico-scientifico resta la più importante previsione attuata da Piccinato a Catania. Fig. 6 - Luigi Piccinato, nuovo Centro universitario di Catania: clinica neuropsichiatrica, vista prospettica (Archivio Luigi Piccinato, ALP_01.02_208.03). (1) Circa il progetto e la realizzazione della città universitaria di Catania si veda in particolare Barbera 1992. (2) La bibliografia su Luigi Piccinato è ricca di titoli; in questa sede si citano solo: De Sessa 1985; Merlini 1992; Malusardi 1993; Belli, Maglio 2015. (3) In merito ai progetti di Luigi Piccinato per architetture teatrali, e al rifacimento del teatro-arena Pacini, si rimanda a Savorra 2015. (4) Il concorso è bandito nel 1931, ma i disegni conservati nell’Archivio Luigi Piccinato (ALP) sono datati 1932. (5) Il piano sarà adottato nel 1964 e approvato nel 1969, ma alla fine non recherà la firma di Piccinato, non condividendo egli alcune delle modifiche apportate dall’amministrazione comunale. (6) Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 23 gennaio 1959 (ALP_01.091.02). (7) Zevi 2015, pp. 38-43. (8) I disegni dei progetti relativi al nuovo Centro Universitario di Catania sono conservati presso l’Archivio Luigi Piccinato, depositato nel Dipartimento di Pianificazione Design Tecnologia dell’Architettura, Sapienza Università di Roma, e sono individuati dalle seguenti segnature: ALP_01.02_208.00, ALP_01.02_208.01, ALP_01.02_208.02, ALP_01.02_208.03, ALP_01.02_208.04, ALP_01.02_208.05, ALP_01.02_208.06, ALP_01.02_208.07, ALP_01.02_208.08, ALP_01.02_208.09, ALP_01.02_208.10, ALP_01.02_208.11, ALP_01.02_208.12, ALP_01.02_208.13, ALP_01.02_208.14, ALP_01.02_208.15, ALP_01.02_208.16. La documentazione custodita è invece individuata dalla seguente segnatura: ALP_01.091.02. La consultazione dei disegni e dei documenti è stata resa possibile dalla rara disponibilità del suo direttore, il professore Sergio Zevi. (9) Piano urbanistico comunale di Eilat (Israele), 1959 (ALP_01.02_202). (11) Lettera di Cesare Sanfilippo a Luigi Piccinato, Catania 26 gennaio 1959 (ALP_01.091.02). (12) Il carteggio, non ancora inventariato nel novembre 2017, mi è stato cortesemente segnalato e messo a disposizione dal professore Bartolomeo Azzaro della Sapienza Università di Roma, in occasione del convegno Le Città universitarie del XX secolo e la Sapienza di Roma. (13) Nel 1946 l’Immobiliare aveva impostato una concreta attività edilizia nelle città di Milano, Genova, Pisa, Napoli, Frascati, oltre che a Roma, giungendo, alla metà degli anni Settanta, ad operare in tutta Italia attraverso i suoi uffici distaccati di Milano, Torino, Genova, Trieste, Padova, Bologna, Modena, Ravenna, Firenze, Perugia, Napoli, Bari, Palermo e Catania. Qui, nel 1952, erano già attivi quindici istituti Ieep (Istituti edilizia economica e popolare), di cui uno a Catania-San Berillo, promossi dalla società per realizzare alloggi per i dipendenti degli enti soci. Per l’attività della SGI si veda in particolare Bonomo 2006. (14) Cfr. Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 23 gennaio 1959 (ALP_01.091.02). (15) Sino alla fine degli anni Cinquanta, tranne sporadiche eccezioni, la manualistica tecnica urbanistica riserva scarsa attenzione al disegno dei luoghi deputati all’istruzione pubblica. Pertanto, quando Piccinato si accinge al progetto del nuovo Centro universitario catanese le indicazioni più approfondite sono fornite da Pasquale Carbonara nel tomo II del volume III di Architettura pratica, pubblicato nel 1958, nel quale tra gli esempi emblematici è citata anche la città universitaria di Tucumán, ben nota all’architetto-urbanista. (16) Degli studi condotti da Gardella per uniformare il linguaggio architettonico resta una traccia nei materiali impiegati 73 nelle prime realizzazioni, come i rivestimenti esterni in tesserine maiolicate rosso mattone, o i paramenti dei basamenti in conci squadrati di pietrame lavico, nonché in taluni elementi strutturali in calcestruzzo faccia a vista. A Gardella subentrerà Daniele Calabi, il quale definirà in maniera più precisa i fabbisogni del Policlinico, preoccupandosi di organizzare le varie Cliniche in un sistema omogeneo. (17) Cfr. lettera di Cesare Sanfilippo a Luigi Piccinato, Catania 22 dicembre 1969 (ALP_01.091.02). (18) Lettera di Luigi Piccinato a Cesare Sanfilippo, Roma 30 dicembre 1969 (ALP_01.091.02). (20) Si tratta di quattro gruppi di professionisti, tra i più affermati a livello locale a quel tempo: Fiducia, Platania e Spampinato (affiancati da Vera Consoli) per gli Istituti chimici; Marletta, Amantia e D’Agata per gli Istituti farmacologici; Adelasio, Ficara e Gibiino per la Clinica pediatrica; Leone e Fichera per la Clinica neuropsichiatrica; cfr. la corrispondenza in ALP_01.091.02. Bibliografia Barbera 1992 S. Barbera, Edilizia universitaria a Catania: la cittadella di S. Sofia, Catania 1992. Belli, Maglio 2015 G. Belli, A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (1899-1983). Architetto e urbanista, Roma 2015. Bonomo 2006 B. Bonomo, Grande impresa e sviluppo urbano: l’attività della Società generale immobiliare a Roma nel secondo dopoguerra, «Storia urbana», XXXI, 2006, 112, pp. 167-195. De Sessa 1985 C. De Sessa, Luigi Piccinato architetto, Bari 1985. Malusardi 1993 F. Malusardi (a cura di), Luigi Piccinato e l’urbanistica moderna, Roma 1993. Merlini 1992 C. Merlini, Luigi Piccinato. Una professione per la città e la società, in P. Di Biagi e P. Gabellini (a cura di), Urbanisti italiani: Piccinato, Marconi, Samonà, Quaroni, De Carlo, Astengo, Campos Venuti, Roma-Bari 1992, pp. 25-95. Savorra 2015 M. Savorra, Luigi Piccinato e “la nuova architettura teatrale in Italia”, in G. Belli e A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (18991983). Architetto e urbanista, Roma 2015, pp. 107-119. Zevi 2015 S. Zevi, L’esperienza urbanistica di Luigi Piccinato in Argentina, in G. Belli, A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (1899-1983). Architetto e urbanista, Roma 2015, pp. 37-52. LUIGI PICCINATO’S DESIGN FOR THE UNIVERSITY OF CATANIA’S NEW MAIN CAMPUS In 1959 Luigi Piccinato (1899-1983) received the project assignment for the plan of Catania’s new University Centre. It isn’t the first time that the architect-urbanist, from Venetian origins and Roman training, works in the city of Etna. In fact, in 1926, as very young graduate, he got the task of rebuilding the Pacini theater-arena, and in 1932 he participated in the competition for the city’s urban planning. But the circumstance of the New University Centre marks for Piccinato the start of a more than ten-year relationship with the City, which also includes the complicated drafting of the Municipal town planning (1961-69). Consistently with the local dynamics of urban growth and looking at the model of Anglo-Saxon campuses and self-sufficient Scandinavian neighborhoods, with the New University Centre Piccinato intends to define a territorial magnet of great importance. This article describes some fundamental stages of this project, examining the documents contained in the Luigi Piccinato’s Archive, which has recently been ordered and made completely usable in its great wealth. 74 LA CITTADELLA UNIVERSITARIA DI REGGIO CALABRIA. PROGETTO E REALIZZAZIONE. Francesca Martorano Il libero Istituto Universitario di Architettura di Reggio Calabria, con ottantatré studenti, avviava i corsi il 5 dicembre del 1967 (1). Non fu una procedura scontata né improvvisa: anni erano intercorsi tra dibattiti, anche infuocati, e disegni di legge presentati da varie forze politiche, per colmare un vuoto, l’assenza di una Università in Calabria, e tentare di porre un freno alla continua emigrazione intellettuale (2). La dislocazione delle sedi, il numero e il tipo di Facoltà costituivano il centro della discussione e se, con più rapidità, nello stesso 1968 fu fondata a Cosenza l’Università “della Calabria”, per Reggio il riconoscimento richiese ancora qualche anno. La scelta di Architettura, quale facoltà fondante, non fu immediata: si parlò dapprima di Agraria, di un Centro universitario linguistico, di un Istituto superiore di tecnologia, ma prevalse Architettura. L’incremento progressivo degli studenti, la crescita del corpo docente e il convinto supporto delle forze politiche condusse a breve, nel 1970, alla statizzazione dello I.U.S.A.RC (3). Nel 1974 poi, il 31 ottobre, con decreto presidenziale ad Architettura fu affiancato anche il corso di Laurea in Urbanistica (4). Occorsero ancora otto anni affinché nel 1982, con legge del Parlamento italiano, lo I.U.S.A.RC si trasformasse in Ateneo, con quattro nuove facoltà che si aggiunsero all’originaria ma dislocate su due sedi. Si trattava di Agraria e Ingegneria, anch’esse site a Reggio, mentre per Giurisprudenza e Medicina e Chirurgia si scelse Catanzaro (5). Ho accennato brevemente alla storia fondante del piccolo Ateneo reggino perché ciò, come è facile intuire, ha riflessi sul progetto e sulla sua realizzazione, e anzitutto sulla scelta delle aree su cui dovevano insediarsi i complessi universitari, perché si desiderava abbandonare la diffusa e puntuale presenza nei centri urbani che riutilizzava edifici preesistenti, ancorché ristrutturati per adeguarli alle esigenze didattiche, amministrative e della ricerca (6). L’ambizione era di realizzare interventi di rilevante impatto urbano, ridisegnando ampi settori territoriali ai margini degli abitati preesistenti. Mi soffermerò sulla sola cittadella di Reggio Calabria, tracciandone l’iter progettuale e realizzativo, perché dal 1998 Catanzaro fu trasformata in Università autonoma assumendo il nome “Magna Grecia” (7). Ritorniamo pertanto indietro negli anni e alla scelta insediativa del campus. Le prime proposte erano indirizzate verso aree extraurbane: i piani di Arghillà, i piani di Sambatello e quelli di S. Giovanni (8) ed anche il PRG della città, approvato nel 1970, prevedeva la destinazione del campus ad Arghillà, vasto pianoro panoramico a 12 Km dal centro urbano (9). Tale designazione non trovò consenso e nel 1980 l’Amministrazione comunale propose per la “cittadella universitaria” Feo di Vito (10), un’area periferica a nord della città storica relativamente prossima ad una infrastruttura cittadina primaria, il porto, che garantisce specialmente gli spostamenti veloci (aliscafi) con Messina ed il suo territorio. La variante al Piano fu approvata e 273.000 m² da destinare ad “aree per attrezzature scolastiche di grado superiore” furono perimetrati sui pendii collinari lungo il torrente Annunziata. L’area è non facile per una orografia accidentata - vi sono presenti diverse collinette che segnano il territorio – e per di più è suddivisa in due settori da una strada a scorrimento veloce, la circonvallazione della città, che collega l’autostrada tirrenica con la Statale 106 jonica. A fronte di questi ostacoli, che richiedevano un complesso rimodellamento del terreno, l’area gode di una grande potenzialità paesaggistica, per la possibilità di apprezzare ampie visuali sullo Stretto, tanto che nel lontano passato, a fine Cinquecento, fu proposta dall’ingegnere militare Gabrio Serbelloni come sito ottimale per ricostruire una città più facilmente difendibile dagli attacchi turchi (11). Il primo schizzo di progetto (1982) di Antonio Quistelli, direttore dello I.U.S.A., è importante soprattutto perché contiene la scelta della collocazione topografica delle tre nuove facoltà, scelta che sarà mantenuta immutata in tutte le successive varianti (fig. 1) (12). Nell’area contigua al centro storico, alla fine del tracciato del piano De Nava del 1908, venne collocata la facoltà di Architettura, al di là della circonvallazione Ingegneria ed infine, a sinistra e in posizione dominante, Agraria. I tre edifici sono in realtà delle icone, presenze puntuali che segnano il territorio in modo indifferenziato, che richiamano l’esperienza del Corviale (13). Anche in disegni successivi, del 1982-83, permane la stessa indifferenziazione iconica, ma con un incremento numerico degli edifici annessi ai tre corpi principali. Maggiore riflessione è tuttavia rivolta alla viabilità di accesso e di collegamento tra i plessi, ai percorsi interni e tra le strutture, e l’insieme del campus è 75 Fig. 1 - Primo studio urbanistico per la facoltà di Architettura, 1982 (da QUISTELLI 1994, p. 12). proiettato sulla base cartografica reale (fig. 2). Occorre attendere altri quatto anni, e giungere al 1987-88, con il piano particolareggiato per l’insediamento della CitFig. 2 - Progetto della sede dell’Istituto a Feo di Vito, 1982-1983. 76 tadella, per avvicinarci a un’impostazione di insieme che delinei i tre complessi principali in modo non più indifferenziato e aderenti alla reale situazione orogra- Fig. 3 - Studio preliminare per l’insediamento della Cittadella a Feo di Vito, 1988 (da BUSCA, BALBO, VENDITTELLI 1989, p. 30). fica (14) (fig. 3). Ognuno di essi appare articolato in più corpi con planimetrie dissimili tra loro, destinati alla didattica, ai dipartimenti e ai laboratori. I singoli progetti esecutivi non rispecchiano totalmente quanto qui previsto, né in relazione alle forme né alle volumetrie, anche se per ciascuna facoltà persiste un elemento Fig. 4 - La Cittadella, gli edifici realizzati e i percorsi di collegamento (elab. dell’A.) 77 Fig. 5 - Veduta aerea della struttura per la didattica di Architettura, con in primo piano gli edifici dei dipartimenti e le torri/uffici. A destra la costruzione plurifunzionale, che ospita Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane (foto 2016). chiave: per Architettura l’edificio a pianta quadrata con volume cilindrico, per Ingegneria l’edificio “ponte” o “diga” che chiude la valletta del Borrace, per Agraria la struttura a tenaglia sulla collina più emergente, architetture tutte destinate alla didattica e forse per questo più rapidamente risolte. Per la prima volta nel progetto del campus è inserito il “Crescent”, amplissima esedra di appoggio alla viabilità di collegamento e aperta sul torrente Annunziata, di cui si prevedeva il proseguimento della copertura per prolungare il tracciato viario verso la collina. Il “Crescent” a gradoni avrebbe potuto accogliere attività comuni e per gli studenti, e di relazione con l’ambiente cittadino, ricucendo la frammentarietà dei tre nuclei imposta dall’orografia. Questa architettura non fu costruita neanche parzialmente e ritengo sia stato un grave danno, perché la cittadella realizzata soffre della mancanza di percezione unitaria (fig. 4). I progetti esecutivi, assegnati a gruppi di docenti delle facoltà di Architettura e Ingegneria, furono realizzati con stralci funzionali interconnessi ma eseguibili indipendentemente. Il complesso di edifici che costituisce la facoltà di architettura fu il primo ad essere avviato e si compone di diverse parti, edificate in differenti fasi 78 (15). Il corpo principale, realizzato per primo, si basa su un’idea di Antonio Quistelli, sviluppata poi in fase esecutiva dall’ing. Cadermatori, progettista per l’impresa Italposte vincitrice dell’appalto (16). Un volume cilindrico per le attività comuni, biblioteca, aula magna, atelier, emergente e visibile dall’esterno nella sola parte sommitale, è contenuto in un parallelepipedo a quattro ali, da cui lo separa un cortile interno a due livelli connessi da una scalinata. Il volume esterno contiene gli ambienti destinati alla didattica disposti lungo il perimetro di ogni livello. I corpi scala per l’accesso ai tre livelli sono concepiti come snodi verticali, con un particolare rilievo posto a quello accanto l’ingresso principale, contenuto in un cilindro. L’illuminazione naturale della parte perimetrale del complesso è garantita da pannelli vetrati sui prospetti esterni e da una serie di finestre a nastro, che affacciano sul cortile centrale a due livelli. La realizzazione dell’edificio si concluse nel 1993 e l’anno successivo era in uso per l’attività didattica e amministrativa (fig. 5). La costruzione dei dipartimenti, avviata nel 1994, si discosta dai primi schizzi di progetto di Antonio Quistelli (17). Questi, alla fine degli anni Ottanta (198788), aveva previsto blocchi quadrati che poggiavano su Fig. 6 - La Cittadella in rapporto al tessuto urbano. In primo piano Architettura e Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane, a seguire, verso l’alto, l’edificio “ponte” di Ingegneria, infine Agraria (foto 2016). una piastra comune, collegati tra loro da passerelle sospese e connesse ad un edificio di testata a forma di U, posto in direzione dello Stretto (18). L’elemento importante, e di cui non si tenne conto in fase di progettazione finale, era il mantenimento di una quota di elevazione sommitale più bassa rispetto all’edificio della didattica, in modo da non ostacolare la visibilità dello Stretto dalle sue terrazze. Purtroppo non si progettò neppure una soluzione paesaggisticamente più consona e integrata, come poteva rivelarsi uno schema a gradoni, che adattandosi al pendio collinare avrebbe consentito di godere sia dello straordinario paesaggio che di migliori condizioni termiche per la ventilazione naturale. Fu invece progettato un modello a pettine, realizzando quattro corpi di fabbrica allungati (chiamati colloquialmente “stecche”), che terminano con altrettante torri più elevate a pianta quadrangolare (19). Nel 2006 si concluse poi, dopo un decennio, la costruzione del grande edificio parallelepipedo posto a chiusura verso meridione dell’area dipartimentale, che oggi ospita il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane. Già previsto negli schizzi di progetto di Antonio Quistelli venne confermato nel progetto esecutivo (20). Il complesso della Facoltà di Ingegneria si articola oggi su una superficie di 23.000 m², con tre corpi di fabbrica che si collocano fra le “pieghe” orografiche del sito. Il corpo principale è posto trasversalmente alla direttrice del torrente Borrace, quasi alludendo ad una “struttura-ponte” o “diga” di matrice lineare, scandito da bucature seriali lungo i prospetti e da un grande portale d’ingresso (21). Questo primo corpo, in cui sono allocati i laboratori, alcune aule, gli uffici amministrativi, si pone in contro-asse rispetto al percorso di accesso e di distribuzione principale: la struttura “lineare” ha le estremità innestate direttamente sulle pareti scoscese delle colline, mostrando così due soli prospetti longitudinali. Subito dietro, e a quota leggermente più elevata, è dislocato il volume semicilindrico destinato ad Aula Magna e Biblioteca, che si distingue per la sua compattezza esaltata dal rivestimento in blocchi di pietra. Due serie di finestrelle quadrate in alto e una finestra a nastro sotto il solaio di copertura segnano la “chiusura” del volume, mentre il grande portale d’accesso arcuato è a tutt’altezza. Nella parete posteriore, rivolta a sud, alla grande finestra sagomata si accompagna un singolare elemento piramidale/cuspidato in vetro che è in sostanza un lucernario per il piano sottostante seminterrato. Un terzo edificio, posto sul declivio della collina, secondo un andamento ortogonale al primo, è composto da sei corpi cubici (aule e laboratori) legati da un sottile 79 corpo arretrato (corridoio) (22). La forte pendenza del sito è mediata da terrazzamenti collegati da rampe e scale. Della Facoltà di Agraria, il cui progetto originario prevedeva la costruzione di tre corpi di fabbrica funzionali ad altrettante attività: didattica e servizi generali, dipartimenti e laboratori di ricerca, ad oggi risulta realizzato solo l’edificio principale che, posto sul punto più alto della contrada Feo di Vito, domina lo Stretto (23). Questo organismo, la cui pianta richiama la forma di un granchio, si sviluppa intorno ad una piazza interna in leggera pendenza, tale da superare un dislivello di circa 4 m e sotto la quale doveva sorgere l’aula magna ipogea, oggi non realizzata. Ha un aspetto compatto e massiccio, con un impianto assiale rigido, evidenziato nel fronte principale dal grande vano d’ingresso affiancato da torri semicircolari. I prospetti laterali si mostrano più articolati per la voluta proiezione verso l’esterno dei corpi aula. La scelta formale delle bucature, che richiamano le finestre “termali”, l’uso di marcapiani sagomati, di cornicioni mistilinei e fortemente aggettanti, e di timpani alludono alla tradizione classica romana. Si articola su quattro livelli, di cui il primo, interrato, accoglie i laboratori. Sui restanti tre livelli, lungo le ali orientate verso la collina, si snodano le aule e gli ambienti funzionali alla didattica, mentre nel corpo centrale trovano posto le sale di rappresentanza e di servizio (direzione del dipartimento e segreteria), e infine, nelle testate delle ali, i servizi igienici. Un’elaborata struttura di copertura in acciaio dà agli spazi interni un forte effetto verticale, accentuato dai lucernari laterali. Grande attenzione è stata posta poi nell’uso dei materiali di rivestimento, non solo per ottenere particolari effetti estetici ma anche per contribuire ad un buon microclima interno (24). In conclusione la Cittadella universitaria di Reggio, un cantiere progressivo dalla realizzazione ancora non interamente terminata (25), costituisce una forte presenza architettonica che si impone sul tessuto urbano circostante (fig. 6). Si tratta di edifici a diversa connotazione architettonica e spaziale: la candida essenzialità del plesso Architettura si discosta dalle scelte formali di Ingegneria, ma soprattutto è in evidente contrasto con i volumi e le superfici di Agraria, che adottano un linguaggio maggiormente legato alla tradizione. Certamente ciò dipende dalle scelte dei gruppi di progettazione, che hanno lavorato in autonomia pur nel rispetto del piano insediativo generale. È stata accantonata purtroppo, come già detto, l’idea del “Crescent” plurifunzionale, che avrebbe costituito un forte elemento di connessione, poi sostituito da volumi singoli (quattro parallelepipedi e un cilindro, peraltro ancora in fase di costruzione) tanto che la spiccata individualità dei tre nuclei, quasi blocchi autonomi, ha tuttora elementi irrisolti. 80 Il naturale dislivello del terreno su cui insiste ha imposto differenti livelli di quota per i fabbricati che ospita e che si trovano ad essere più o meno evidenti nella percezione visiva dalla città. L’emergenza di Architettura e Agraria al colmo delle collinette, contrasta con la soluzione “ponte/diga” di Ingegneria, che nasconde totalmente le architetture retrostanti. Questa “cittadella”, fortemente dilatata negli spazi e frammentaria nelle componenti, potrà essere ricompattata - ritengo - con un adeguato sistema di percorsi, sia carrabili che pedonali, elementi connettivi per tutta l’area alle diverse quote e con diverse gerarchie. Un adeguato progetto botanico con il recupero delle specie esistenti e nuove piantumazioni, in parte già avviato, potrà trasformare le estese aree non edificate in un parco urbano di notevole valenza paesaggistica, fruibile a diverse scale e da diversi utenti. La serie di terrazzi, in posizione soprelevata rispetto alla parte settentrionale della città, lo dotano infatti di una eccezionale panoramicità sullo Stretto. È con l’auspicio del completamento a verde del campus, fruibile con percorsi pedonali anche da parte dei cittadini, che la cittadella potrà maggiormente integrarsi con il tessuto urbano, costituendone un polo di riferimento pienamente vissuto in tutte le sue componenti e non solo culturali. (1) Già nell’anno accademico successivo 1968/69 le matricole erano cresciute, per un totale di 223 iscritti ai primi due anni; cfr. Laganà 2018, pp. 76, 83-84. (2) Per un’ampia disanima degli avvenimenti, corredata da apparati documentali, cfr. ivi, pp. 13-72. (3) La statizzazione avvenne con D.P.R., on. Giuseppe Saragat, n. 750 del 14 febbraio 1970, pubblicato in G.U. n. 274 del 28 ottobre 1970. (4) D.P.R. n. 861 del 31 ottobre 1974, pubblicato in G.U. n. 58 del 1 marzo 1975. (5) L. 14 agosto 1982, n. 590, pubblicata in G.U. n. 231 del 23 agosto 1982. (6) Il progetto del Centro Audiovisivo per Architettura risale agli anni 1981-83, mentre quello della nuova Biblioteca è degli anni 1986-88. Contemporaneamente si ristrutturava la sede di Facoltà (1987-89), in attesa della realizzazione delle nuove strutture a Feo di Vito; cfr. Valeriani 1989, pp. 6-11; Valeriani 1999, p. 206. (7) D.M. 29 dicembre 1997, n. 1523 - Istituzione di nuove università, in G.U. 29 dicembre 1997. (8) Laganà 2018, pp. 148-150. (9) Il Piano regolatore, alla cui stesura si lavorava negli anni 1968-70, era stato elaborato dallo studio Quaroni – Quistelli. Ludovico Quaroni fu parte attiva nella strutturazione dello I.U.S.A. come presidente del Comitato Tecnico, così come lo stesso Antonio Quistelli, che a partire dal 1976 rivestì la carica di Direttore, poi Rettore sino al 1989. Il Piano regolatore demandava ai piani particolareggiati, strumenti urbanistici intermedi, tutte le scelte architettoniche pertinenti i singoli comparti e identiche procedure furono applicate per l’Università. (10) Cervellini 1989, p. 27-28. (11) Martorano 2002, pp. 394-398. (12) Quistelli 1994, p. 12. (13) Con particolare riferimento al centro servizi. Per il progetto del Corviale si rimanda a Roma: le periferie 1978, pp. 36-39; Tafuri 1981 pp. 22-26. (14) Il piano particolareggiato fu redatto da Pier Paolo Balbo, Alessandro Busca (coord.), Manlio Vendittelli e Francesco Cervellini: Busca, Balbo, Vendittelli 1989, pp. 30-34. (15) Furono edificati 11.000 m² e 5.000 m² di pertinenze esterne; cfr. Taverriti 1999, p. 212. (16) Fu applicato l’istituto della concessione, come avvenne anche in altri atenei, ad esempio nel complesso di Monte Sant’Angelo dell’Università federiciana di Napoli. Sul progetto di Architettura: Quistelli 1994, pp. 13-14; Cademartori 1994, pp. 22-23; Cervellini 1994, pp. pp. 42-44. (17) Per gli schizzi e i disegni di progetto si veda Ferrari et alii 1989, pp. 40-42. (18) Ivi, pp. 35, 38. (19) Le quattro stecche hanno disposizione planimetrica semplice: un lungo corridoio segue il lato di ciascun livello, fungendo da percorso distributivo e aprendosi sui singoli locali interni. In testata e a metà della lunghezza sono presenti corpi scala a loro servizio. Gli edifici si sviluppano su quattro piani, due livelli in elevazione e altrettanti sotto il livello del suolo. Anche le torri, che concludono i corpi di fabbrica dei dipartimenti, sono fornite di propri vani scale e ascensori. Il primo lotto di lavori, avviato nel 1994, si concluse nel 1996. Il secondo, con la realizzazione delle torri, è terminato nel 2006. (20) L’edificio, estremamente differenziato negli ambienti e ai differenti livelli, accoglie anche laboratori, aule didattiche, l’Aula Magna di Ateneo e molteplici uffici. (21) La scansione delle bucature dei due prospetti segue un ritmo diverso e asimmetrico nella zona inferiore, mentre gli ultimi due livelli in alto presentano una maggiore uniformità. Il progetto del 1986, avviato il 7 marzo del 1991, fu concluso nel 1996, capogruppo Vincenzo Torrieri. Concessionario l’Istituto Promozionale per l’Edilizia (ISPREDIL). (22) Esso consta di quattro piani fuori terra, dei quali il primo si presenta molto più allargato, quasi fosse un piano-base. (23) Il progetto è anch’esso degli anni 1987-88: l’esecuzione del primo lotto (rimasto unico) iniziò il 15 marzo 1991 e si concluse nel 1996, progettisti Claudio D’Amato (capogruppo), Sergio Bollati, Mario Giovinazzo, Vincenzo Squillace, concessionario l’ISPREDIL; cfr. D’Amato et alii 1989, pp. 51-58; Strappa 1998, pp. 44-47. (24) Furono usate per rivestire la struttura in cemento armato, sia all’interno che all’esterno, laterizi e carparo (calcarenite). Marcapiani in travertino e fasce in cemento armato segnano gli orizzontamenti; cfr. D’Amato 2008. (25) Restano da completare le opere infrastrutturali, che a differenza delle strutture edilizie finanziate con fondi nazionali e FESR, rientrano nei finanziamenti previsti dalla L. 246/89; cfr. Taverriti 1999, p. 213. Bibliografia Busca, Balbo, Vendittelli 1989 A. Busca, P.P. Balbo, M. Vendittelli, Piano particolareggiato del nuovo insediamento universitario, in «Controspazio», XX, 1989, 5, pp. 30-34. Cademartori 1994 M. Cademartori, Appunti di viaggio, in «Controspazio», XXV, 1994, 1, pp. 22-24. Cervellini 1989 F. Cervellini, Progetto di Ateneo, progetto di Città, in «Controspazio», XX, 1989, 5, pp. 26-28. Cervellini 1994 F. Cervellini, A Reggio Calabria spazi per la didattica nella nuova facoltà di Architettura, in «D’A. d’Architettura», IV, 1994, 11, pp. 42-44. D’Amato et alii 1989 C. D’Amato, S. Bollati, M. Giovinazzo, V. Squillace, Facoltà di Agraria, in «Controspazio», XX, 1989, 5, pp. 51-58. D’Amato 2008 C. D’Amato, Facoltà di Agraria, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, in G. Blanco (a cura di), Manuale di progettazione: Marmi e pietre: applicazioni superficiali e decorazione, Roma 2008, pp. E10-E13. Ferrari et alii 1989 R. Ferrari, F. Cervellini, G. Foti, D. Gimigliano, R. Giuffrè, Facoltà di Architettura, in «Controspazio», XX, 1989, 5, pp. 35-42. Laganà 2018 R. Laganà, La Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. Dalle origini all’anno 1982, Reggio Calabria 2018. Martorano 2002 F. Martorano, L’architettura militare tra Quattrocento e Cinquecento, in S. Valtieri (a cura di), La Calabria nel Rinascimento, Roma 2002, pp. 353-408. Quistelli 1994 A. Quistelli, 1982-1994: un progetto, in «Controspazio», XXV, 1994, 1, pp. 12-15. Roma: le periferie, numero monografico di «Casabella», XLII, 1978, 438. Strappa 1998 G. Strappa, Facoltà di Agraria, in «Materia», X, 1998, 27, pp. 44-47. Tafuri 1981 M. Tafuri, Diga insicura, in «Domus», 1981, 617, pp. 22-26. Taverriti 1999 A. Taverriti, L’edificazione della nuova Università, in A. Mambriani (a cura di), Università, città, piano: Parma, Brescia, Bologna, Milano, Venezia, Reggio Calabria, Roma 1999, pp. 212-213. Valeriani 1989 E. Valeriani, Da una continuità culturale immagini per una nuova idea di città, in «Controspazio», XX, 1989, 5, pp. 3 -11. Valeriani 1999 E. Valeriani, Cittadelle universitarie, in A. Mambriani (a cura di), Università, città, piano: Parma, Brescia, Bologna, Milano, Venezia, Reggio Calabria, Roma 1999, pp. 206-211. 81 THE MAIN CAMPUS OF THE UNIVERSITY OF REGGIO CALABRIA, FROM DESIGN TO CONSTRUCTION The University of Reggio Calabria was founded as the State University Institute of Architecture in 1967 and became a full-fledged university in 1982, including four additional faculties. However, the university was territorially split between two cities, with Reggio Calabria hosting the faculties of Architecture, Engineering and Agricultural Studies, while Catanzaro was assigned Law and Medicine. A few years later, in 1988, the two faculties in Catanzaro became an autonomous university – the ‘Magna Grecia’ University of Catanzaro – while the University of Reggio Calabria acquired its current name – ‘Mediterranea’ University of Reggio Calabria – with the addition of a Law School. This complex evolution has significantly affected the location, design and implementation of the buildings that were to host the teaching and research activities of the new Mediterranea University of Reggio Calabria, starting in 1987. The paper retraces the architectural decisions and design processes that have led to the current form of the university campus, highlighting its general layout and its constituent elements. 82 IL CAMPUS DI URBINO E IL PROGETTO CULTURALE DI CARLO BO E GIANCARLO DE CARLO Lorenzo Mingardi Chi si reca oggi a Urbino lo fa per visitare il Palazzo Ducale, per ammirare un ben conservato tessuto medioevale con alcuni edifici significativi del XV e del XVI secolo, ma soprattutto, se ha tra i 18 e i 30 anni, lo fa per studiarci: Urbino è sede di una delle più quotate università italiane per gli studi umanistici e sociali. Questo è stato possibile grazie a un lungimirante progetto di Carlo Bo, rettore dell’università dal 1947 al 2001, messo in pratica da Giancarlo De Carlo con la collaborazione dell’amministrazione comunale. Gli interventi a scala urbana e architettonica, che, a partire dal 1951, hanno trasformato la città, sono ancora oggi al centro di continui studi e ricerche per la loro validità e attualità. La storia dell’Università di Urbino è secolare. Fondata nel 1506, fino alla fine del XVIII secolo ha vissuto stagioni prestigiose grazie allo stretto rapporto con curia papale, interrotto soltanto dalle sollevazioni popolari di inizio 1800. Nel 1862, dopo una parziale chiusura, l’Ateneo di Urbino si era rinnovato dichiarandosi “Libera Università” − uno status che conserverà sino al 2012, quando verrà statalizzato − e aveva vissuto nuovamente anni proficui dal punto di vista degli iscritti e della produzione scientifica fino alla seconda guerra mondiale, quando tutto si era fermato (1). Dopo la Liberazione l’Ateneo non aveva quasi più nulla che attestasse la sua millenaria tradizione. La decadenza dell’Università andava di pari passo con quella della città. Come in tante altre realtà italiane, Urbino viveva anni difficili: crisi dell’agricoltura con il conseguente spopolamento della campagna, mercati e attività commerciali ormai ridotte all’osso. Non si era insediata nel territorio alcuna forma di attività industriale perché la città era, com’è ancora oggi, tagliata fuori dalle grandi arterie stradali. Inoltre, date le piccole dimensioni, la città non aveva peso sul piano elettorale e quindi non attirava l’attenzione dei partiti politici. La prima pietra di ricostruzione dell’Università, e, come vedremo, anche della città, viene posta nel 1947 con la chiamata di Carlo Bo al rettorato. Carlo Bo è, oltre che un importante critico letterario e intellettuale, un professore di lingua e letteratura francese dell’università urbinate dal 1939. Al momento della sua elezione conosce dunque già bene la realtà urbinate. In poco tempo concepisce un progetto politico e culturale chiaro quanto ambizioso: trasformare il piccolo ateneo in una grande università, beneficiando della storia e delle strutture secolari della città. Bo non è solo un letterato: ha buoni uffici presso la politica romana grazie alla sua militanza nella Democrazia Cristiana; ciò lo rende una personalità dalle infinite relazioni. Per questo il suo progetto non appare velleitario, ma realisticamente pianificato dall’inizio del suo mandato. Con notevole rapidità, la nuova università di Bo riesce a dotarsi di un corpo docente di levatura scientifica nazionale, ma per far sì che possa diventare un luogo culturalmente vivace e attrezzato per la ricerca e il confronto scientifico bisogna dotarla di sedi consone e di strutture adeguate. Innanzitutto occorre trasformare la sede dell’Ateneo a due passi da Palazzo Ducale, Palazzo Bonaventura, che alla fine degli anni Quaranta è in stato di evidente degrado e non è più adatta ad ospitare un numero di studenti di diverse facoltà − Farmacia, Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Magistero − che sta crescendo di anno in anno. Nel 1951 il Rettore decide quindi di iniziare i lavori. Chi può occuparsi della risistemazione della sede? Carlo Bo pensa a un architetto dotato di una visione libera dai vincoli provinciali, lungimirante quanto lui: non si tratta solo di restaurare un edificio, ma di progettare un più ampio sviluppo dell’Ateneo che identifichi la città con l’università e l’università con la città. La scelta cade su Giancarlo De Carlo (fig. 1), che Bo aveva conosciuto a Milano grazie agli amici comuni Vittorio Sereni ed Elio Vittorini. In quel momento De Carlo è un giovane architetto trentenne che ha costruito ben poco (2), ma è già un intellettuale di rilievo nell’ambito della cultura architettonica italiana del secondo dopoguerra: nel 1945 si era occupato di un’antologia di scritti di Le Corbusier (3), nel 1946-47 aveva curato un volume su William Morris e scritto alcuni articoli per la nuova «Domus» diretta da Ernesto Nathan Rogers (4). Inoltre insegnava allo IUAV, che, per le prestigiose figure al suo interno, era una sorta di “Scuola di Atene” dell’Università italiana (5). In uno degli articoli pubblicati su «Domus» nel 1947, La scuola e l’urbanistica, De Carlo aveva già mostrato di intravedere, prima che si concretizzasse la possibilità di Urbino, l’importanza che la scuola, e quindi, l’università, potevano avere come centri propulsivi nella crescita di un organismo urbano: “Il problema urbanistico della scuola [è] divenuto ormai il problema urbanistico della città [...] La scuola intesa come nucleo della vita sociale, strettamente legata alla vita della collettività, non limitata nel tempo e nello spazio, estesa all’intera esistenza del cittadino e a tutto l’ambiente della città, diventa un elemento essenziale nel processo evolutivo della società contemporanea [...] 83 Fig. 1 - Giancarlo De Carlo al Collegio del Colle, workshop fotografico degli studenti della Kunstgewerbeshule di Zurigo, 1965 (su gentile concessione di Anna De Carlo). L’interesse primo dell’educazione pubblica è di realizzare, attraverso mezzi e sistemi collettivi, una migliore società politica. La città, sede di questa società politica, è lo strumento educativo più importante” (6). De Carlo appare dunque il candidato ideale per il progetto che Bo vuole realizzare a Urbino. Dal 1951 l’architetto inizia così a lavorare al Palazzo Bonaventura, sapendo probabilmente che quello sarà solamente il primo di una lunga serie di progetti per l’Università, tanto è già forte l’intesa intellettuale con Carlo Bo. De Carlo riconfigura interamente l’interno dell’edificio: gli ambienti vengono sventrati e interamente ripensati, eliminando numerose superfetazioni d’intralcio alla nuova organizzazione spaziale (7). Ma il progetto di Bo va molto oltre interventi puntuali di restauro; per dargli veramente avvio serve uno strumento che indirizzi lo sviluppo della città. Questo strumento è indubbiamente il Piano Regolatore: a quel tempo la città n’è sprovvista, ma, a norma di legge, è obbligata a dotarsene al più presto (8). Per mettere a punto un PRG che abbia nella crescita dell’Università il suo elemento più importante, occorre necessariamente la collaborazione dell’amministrazione comunale, che arriva prontamente: il Comune, guidato dal sindaco Egidio Mascioli, comunista, ex-minatore e partigiano, sceglie di affidare interamente il rilancio economico di Urbino al potenziale culturale dell’Università, anche perché non vi sono valide alternative: l’industria a Urbino è inesistente e l’agricoltura in crisi irreversibile. Così i due poli del potere cittadino si legano e divengono due strumenti complementari di una stessa vita economica e sociale. A testimoniare questo connubio, Mascioli è inserito nel consiglio di amministrazione dell’Ateneo, ed entrano progressivamente a far parte dell’amministrazione comunale alcuni autorevoli docenti, come lo storico Pasquale Salvucci o il filosofo Livio Sichirollo, che sarà assessore alla Pubblica Istruzione e, in seguito, all’Urbanistica. 84 Fig. 2 - Urbino nel 1951. Archivio Fotomero, Urbino (su gentile concessione di Ester Arceci). Il piano regolatore deve essere pensato e predisposto in funzione dell’Università, della sua espansione e del suo insediamento nel centro storico: la ristrutturazione del sistema universitario urbinate deve diventare la riorganizzazione del sistema portante del telaio urbano e viceversa. Deve quindi occuparsene colui che Bo ha scelto come “architetto della città”: Giancarlo De Carlo. Egli comprende che si tratta di un’occasione straordinaria: ha la possibilità di plasmare un’intera città storica il cui assetto urbanistico e architettonico è rimasto cristallizzato nel tempo (fig. 2). De Carlo si occupa del piano regolatore per più di dieci anni, tra il 1953 e il 1964 (9), anno in cui viene adottato dal Comune. I tempi assai lunghi sono dovuti alle numerose opposizioni della minoranza guidata dai democristiani in seno al consiglio comunale, che non vuole lasciare nelle mani della sinistra uno strumento che promette di assumere un ruolo determinante nel riassetto non solo urbanistico, ma anche politico ed economico del territorio. L’idea cardine del Piano per la costruzione della città campus, è infatti “occupare” con l’università il centro di Urbino per poter sfruttare il suo prestigio e frenare la crescita incontrollata delle costruzioni oltre le mura. De Carlo e Bo vo- Fig. 3 - Cantiere della Facoltà di Magistero, 1975 (foto di Augusto Rossari). gliono inserire all’interno dei grandi complessi architettonici abbandonati del centro storico le nuove sedi delle facoltà dell’Ateneo, e ricavare, per combattere il rincaro degli affitti, alcune residenze pubbliche per gli studenti all’interno degli stabili delle aree residenziali più degradate, come ad esempio nel rione Lavagine, per il quale viene messo a punto un piano particolareggiato (10). Si intende realizzare dunque “una specie di collegio diffuso dentro le strutture antiche” (11), perché in una piccola realtà come Urbino l’Ateneo non deve isolarsi, ma compenetrarsi con la vita cittadina. Nel centro storico l’università ha infatti la possibilità di interagire con le attività a essa correlate: partiti politici, organizzazioni sindacali, attività artigianali, ecc. Il modello che De Carlo, di concerto con Bo, vuole introdurre a Urbino è quindi opposto a quello del campus esterno, che sarebbe invece in un rapporto di giustapposizione con la città. Non sarà possibile realizzare residenze in centro perché l’Università non ha i mezzi economici sufficienti per comprare gli immobili e perché il Comune non ha il necessario potere decisionale per procedere agli espropri (12). Poco dopo l’adozione del PRG, beneficiando di un finanziamento statale (13), lo studentato dell’Università viene sì realizzato, ma fuori dalle mura della città storica, in un’area scelta da De Carlo: il colle dei Cappuccini. In una prima ipotesi del progetto, di cui da poco si sono ritrovati i disegni (14), De Carlo progetta l’intervento sulla sommità del colle, ma i vincoli paesaggistici lo costringono in seguito a rivedere l’edificio e a collocarlo lungo il declivio dell’altura (15). Il primo collegio di Urbino − noto come Collegio del Colle, inaugurato nel 1965 − è l’architettura che dà una svolta alla carriera e alla vita di De Carlo. L’edificio infatti ha un’immediata considerazione internazionale che fa acquisire all’architetto una dimensione non più solo nazionale: consolida la sua posizione all’interno del Team X (16), dal 1966 viene chiamato come visiting professor nelle più importanti università statunitensi (17), nel 1970 è tra i protagonisti dell’Expo di Osaka. Diversamente da quanto accade per le residenze universitarie, le sedi delle facoltà vengono costruite all’interno del centro storico. Durante la redazione del Piano Regolatore, tra i complessi abbandonati di proprietà comunale, quindi facilmente acquistabili dall’Università, De Carlo indica a Carlo Bo due ex conventi di origine trecentesca e in cattivo stato di conservazione − Sant’Agostino e Santa Maria della Bella − come i più adatti per essere trasformati rispettivamente in Facoltà di Giurisprudenza e di Magistero, gli indirizzi con il maggior numero di studenti iscritti. Siamo agli inizi degli anni Sessanta e in Italia il tema riguardante l’inserimento dell’architettura contemporanea all’interno dei centri storici è il fulcro di numerose discussioni tra architetti, urbanisti e intellettuali (18). Ci si pongono domande che in passato erano già state elaborate, ma 85 Fig. 4 - Interno della Facoltà di Magistero, 1980 (foto di Augusto Rossari). mai con una tale forza: in che modo si tutela il tessuto storico? Come può la modernità aiutare la conservazione? De Carlo è convinto che i complessi urbinati nei quali ha scelto di inserire le Facoltà non abbiano un valore tale da giustificare la loro integra conservazione; interviene quindi con progetti che prevedono delle parziali demolizioni nel caso di Sant’Agostino e, addirittura, un completo abbattimento per Santa Maria della Bella. Se, a partire dal 1966, nella Facoltà di Giurisprudenza i nuovi ambienti sono progettati mantenendo l’involucro esterno dell’edificio e alcuni spazi interni originali, per il successivo progetto di Magistero, sviluppato a partire dal 1968, De Carlo attua una scelta ben più radicale: per avere maggiore libertà di plasmare gli spazi interni senza attenersi ad alcuna preesistenza, decide di demolire l’intero complesso (fig. 3). Si tratta di uno dei progetti urbinati più brillanti e celebrati dell’architetto, ma per lungo tempo esso ha rischiato di rimanere solamente sulla carta perché, in regime di legge Ponte, si stava abbattendo una fabbrica storica. L’articolo 17 della legge n. 765 del 1967 recita infatti: “Qualora l’agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi”. La scelta della demolizione, inizialmente non avallata neanche da Carlo Bo (19), causa numerose proteste in consiglio comunale − sia dei democristiani sia della maggioranza − che contribuirono non poco a rallentare i tempi di realizzazione dell’edificio, inaugurato solo nel 1976. È possibile costruire il nuovo edificio, che mantiene una parvenza d’antico grazie alla ricostruita cortina esterna in mattoni, solo grazie a una grande assunzione di responsabilità da parte della Soprintendenza, che approva 86 il progetto di demolizione come “restauro conservativo”. Così scrive nel 1969 Maria Grazia Polichetti della Soprintendenza a Giancarlo De Carlo: “Il tuo progetto di Urbino è stato finalmente varato [...] È stata necessaria una lunga e paziente opera di convinzione, ad ogni modo alla fine ha prevalso il buon senso e non la norma!”(20). È evidente che gli organi di tutela del territorio tenevano in grande considerazione le idee progettuali di De Carlo, altrimenti difficilmente lui e il rettore avrebbero potuto anche solo concepire una così ardita politica edilizia all’interno del centro storico (fig. 4). Uno degli elementi che rende unico il progetto di Urbino città campus è la stretta corrispondenza tra il dettaglio e il generale che non risente di separazioni di scala: le scelte urbanistiche del piano regolatore ricompaiono nei singoli progetti architettonici perché il piano è redatto da un architetto che progetta sin dall’inizio l’idea urbanistica nel particolare. L’obiettivo di portare l’università a compenetrarsi con la città − uno dei punti cardine del Piano − è infatti ben espressa nel progetto di Magistero: alcuni suoi spazi collettivi, come il cinema e il bar, sono pensati per essere utilizzati nelle ore diurne dagli studenti e dagli urbinati nelle ore serali. Lo stesso anelito di immedesimazione tra città e università, è presente anche quando, all’inizio degli anni Settanta, De Carlo deve progettare l’ampliamento del Collegio del Colle che non è più in grado di sostenere l’enorme richiesta di stanze da parte degli studenti. De Carlo insiste nel dare seguito all’idea di inserire le abitazioni degli studenti vicino alle abitazioni civili, perciò immagina di adibire a studentato uno degli edifici del quartiere residenziale “Pineta” (1963-1969) che sta completando proprio nello stesso periodo (21) (fig 5). Nonostante l’architetto insista in Fig. 5 - Quartiere Pineta, 2016 (foto dell’A.). più occasioni con il Rettore circa la validità dell’operazione, questa ipotesi non trova però seguito e i nuovi collegi vengono costruiti in un lungo arco di tempo, dal 1973 al 1983, sul colle dei cappuccini (22). Alla ricerca di una continua relazione con la città, molti degli spazi pubblici dei nuovi collegi sono progettati per essere vissuti non solo dagli studenti, ma anche dai cittadini urbinati. Tuttavia, come accade negli spazi comuni del Magistero, utilizzati dai soli studenti, questo non si è verificato: gli sforzi di De Carlo si sono rivelati vani. Il rapporto di convivenza tra Università e città è al centro di continui studi (23): il saggio pubblicato nel 2013 da Luigi Ceccarini e Ilvo Diamanti, Urbino e l’Università: le due Città ha un titolo quanto mai azzeccato (24). I cittadini, probabilmente anche a causa delle mancate politiche inclusive delle amministrazioni comunali che nel corso degli anni si sono avvicendate, non hanno mai recepito la “presenza” universitaria come un fattore positivo. Anzi. Sono all’ordine del giorno i reclami e lamentele dei cittadini nei confronti dei comportamenti degli studenti che abitano nelle case del centro a loro affittate a caro prezzo. E i collegi sono divenuti proprio ciò che De Carlo non avrebbe mai voluto divenissero: una cittadella studentesca isolata dalla città ‘vera’, quasi un confino dove alloggiare studenti “chiassosi” e “sfaticati”. A fronte di questa parziale sconfitta del progetto di città campus, l’esperienza di Urbino rappresenta però una vicenda nel complesso decisamente positiva, perché grazie all’Università è stato possibile trasformare il centro storico senza snaturarlo, rivitalizzando così una città agonizzante. Il piano avrebbe potuto essere preso a modello per interventi simili anche in altre città italiane. Ma a tal proposito c’è da dire che molti degli intenti del piano sono andati a buon fine solo grazie alle condizioni del tutto uniche della Urbino degli anni Cinquanta e Sessanta rispetto al panorama italiano: mai si è verificato un legame e un’unità d’intenti così stretta tra committenza e progettista. Carlo Bo e l’amministrazione comunale, per lo meno durante il periodo in cui Egidio Mascioli è sindaco (1953-1971), si attengono in toto all’autorità dell’architetto, che è come se traducesse in segni e volumi i loro desideri. E lo fa molto spesso andando anche oltre l’input iniziale del committente: il progetto di città campus è inizialmente del Rettore, ma è De Carlo, di fatto, a guidarne lo sviluppo scegliendo quali edifici riadattare a sedi di Facoltà e in quale area costruire i collegi. Le particolari condizioni di autonomia in cui De Carlo si trova molto spesso ad operare costituiscono di fatto un unicum nell’Italia democratica del XX secolo. Anche se nel corso del tempo si avvicenderanno numerose giunte comunali e verranno apportate varianti al PRG adottato nel 1964, il progetto di Urbino città campus, concepito negli anni Cinquanta, proseguirà il suo corso fino alle soglie del nuovo millennio. Ancora oggi, per la validità e l’attualità dei suoi principi, continua a “volteggiare nel cielo” di Urbino come un aquilone (25). (1) Per la storia dell’Ateneo urbinate si veda Pivato 2006. (2) La prima realizzazione dell’architetto sono gli appartamenti per i reduci di guerra nel quartiere sperimentale QT8 a Milano (1947). Con la partenza del Piano INA-Casa ha diverse occasioni di lavoro. Tra il 1950 e il 1951 De Carlo aveva progettato piccoli interventi residenziali in Lombardia a Sesto San Giovanni, Clusone, San Giovanni Bianco, Cologno al Serio, e in Piemonte a Baveno, Cannobio e Stresa. Per approfondimenti si veda Samassa 2001. (3) De Carlo 1945. (4) De Carlo 1946a, pp. 21-24; De Carlo 1946b, pp. 18-21; De Carlo 1947a; De Carlo 1947b, pp. 13-17. (5) Per approfondimenti si veda Zucconi 2012. (6) De Carlo 1947b, p. 14. (7) Per il lavoro di De Carlo per la sede principale della Libera Università di Urbino si veda Bo 1960, pp. 8-15; Rossi 1988, pp. 44-47. (8) Legge n. 1150 del 17 agosto 1942. (9) Il PRG viene adottato dal Comune nel gennaio del 1964. Archivio di Stato di Pesaro e Urbino (d’ora in poi ASU), regg. Delibere Consiliari, n. 2456, Consiglio Comunale del 16 gennaio 1964. (10) De Carlo 1966. (11) Archivio Antonio Cederna, fasc. 1351, Parco Archeologico dell’Appia Antica (MiBACT). Lettera di Giancarlo De Carlo a Antonio Cederna, Milano 1° agosto 1967. (12) Ibidem. (13) Archivio Università Carlo Bo di Urbino (AU), Verbale del Consiglio di amministrazione dal 24/11/1959 al 14/12/1960, Relazione di Carlo Bo al Consiglio di Amministrazione dell’Università del 10 settembre 1960. (14) Mingardi 2018. (15) AU, Delibere consiliari, n. 2452, Consiglio Comunale del 9 aprile 1960. (16) Risselada, Van den Heuvel 2006, pp. 18-41; Casciato 2008, pp. 31-37. 87 (17) Lyndon 2004, pp. 47-58. (18) Giuliani 1966; Albrecht, Magrin 2015. (19) AU, Verbali del Consiglio di Amministrazione dal 27/11/1967 al 5/12/1968, Consiglio di Amministrazione dell’Università del 1° marzo 1969. (20) Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti (AP), De Carlo-atti/034, lettera di Maria Luisa Polichetti a Giancarlo De Carlo, Ancona, 3 aprile 1969. (21) “Acquisto dell’area della Pineta dove già è stata prevista e approvata la costruzione di un edificio residenziale analogo a quello attuato. Con alcune modifiche di carattere tipologico e senza variare la volumetria approvata (il che implica che non si dovrebbe ripercorrere l’iter delle approvazioni paesistiche e urbanistiche) si potrebbe costruire subito un complesso capace di ospitare all’incirca 250 studenti, dotato dei necessari servizi collettivi”; AP, De Carlo-atti/033, lettera di Giancarlo De Carlo al Prof. Mario Petrucciani (Istituto di Filosofia, Libera Università degli Studi) , Milano, 14 settembre 1970. (22) Rossi 1988, pp. 166-187. (23) Maggioni 2017. (24) Diamanti, Ceccarini 2013. (25) Cfr. Bunčuga 2000, p. 169. Tra il 1989 e il 2000 De Carlo trasformerà Palazzo Battiferri in Facoltà di Economia e sul finire degli anni Novanta progetterà la Data - ciò che rimaneva delle stalle di Palazzo Ducale - in uno spazio polifunzionale per gli studenti dell’Università. Per un quadro completo delle realizzazioni di De Carlo tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila, si veda Fuligna 2001. Bibliografia Albrecht, Magrin 2015 B. Albrecht, A. Magrin (a cura di), Esportare il centro storico, Catanzaro 2015. Bo 1960 C. Bo, L’Università di Urbino, in «Domus», XXXI, 1960, 364, pp. 8-15. Bunčuga 2000 F. Bunčuga, Conversazioni con Giancarlo De Carlo. Architettura e libertà, Milano 2000. Casciato 2008 M. Casciato, Habitat: la sfida della multietnicità, in F. Bilò (a cura di), A partire da Giancarlo De Carlo, Roma 2008, pp. 31-37. De Carlo 1945 G. De Carlo (a cura di), Le Corbusier, Milano 1945. De Carlo 1946a G. De Carlo, L’insegnamento di F. L. Wright, in «Domus», XVIII, 1946, 207, pp. 21-24. De Carlo 1946b G. De Carlo, William Morris, pioniere dell’arte sociale, in «Domus», XVIII, 1946, 211, pp. 18-21. De Carlo 1947a G. De Carlo, William Morris, Milano 1947. De Carlo 1947b G. De Carlo, La scuola e l’urbanistica, in «Domus», IXX, 1947, 220, pp. 13-17. De Carlo 1966 G. De Carlo, Urbino. La storia di una città e il piano della sua evoluzione urbanistica, Padova 1966. Diamanti, Ceccarini 2013 I. Diamanti, L. Ceccarini, Urbino e l’università: le due città, in I. Diamanti, C. Maggiora (a cura di), Studiare a Urbino. Gli studenti, la città, l’Università, Napoli 2013. Fuligna 2001 T. Fuligna, Una giornata a Urbino con Giancarlo De Carlo, Urbino 2001 Giuliani 1966 A. Giuliani, Monumenti, Centri storici, Ambiente, Milano 1966. Lyndon 2004 D. Lyndon, Giancarlo De Carlo negli Stati Uniti, in F. Samassa (a cura di), Giancarlo De Carlo. Perscorsi, Padova-Venezia 2004, pp. 47-58. Maggioni 2017 G. Maggioni (a cura di), Urbino e le sfide della città-campus. Una ricerca su studenti, città, università, Milano 2017 Mingardi 2018 L. Mingardi, Sono geloso di questa città. Giancarlo De Carlo e Urbino, Macerata 2018. Pivato 2006 S. Pivato (a cura di), L’Università di Urbino 1506-2006, Urbino 2006 Risselada, Van den Heuvel 2006 M. Risselada, D. van den Heuvel, Team 10. In search of a Utopia of the Present 1953-1981, Rotterdam 2006. Rossi 1988 L. Rossi, Giancarlo De Carlo. Architetture, Milano 1988. Samassa 2001 F. Samassa, La stagione dell’INA- Casa e il giovane Giancarlo De Carlo, in P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, Roma 2001, pp. 293-308. Zucconi 2012 G. Zucconi (a cura di), Officina Iuav, 1925-1980. Saggi sulla scuola di architettura di Venezia, Venezia 2012. THE UNIVERSITY OF URBINO CAMPUS AND THE CULTURAL PROJECT BY CARLO BO AND GIANCARLO DE CARLO This paper will focus on a number of city-wide interventions on an urban and architectural scale that make the University of Urbino one of the most significant examples of an urban campus designed in the 20th century. Beginning in the mid-fifties, members of the city council, led by Mayor Egidio Mascioli, along with rector Carlo Bo, joined forces on an economic revitalization project for the city that hinged entirely on the university’s cultural potential. Giancarlo De Carlo was assigned the task of translating this program into architectural and urban forms, expanding the university facilities. To this end, the PRG (1954-1964) reconfigured the city: the development of the university coincided, therefore, with the growth of the city itself. The University of Urbino became an open system, a spread-out campus interwoven with the life of the city. The residential halls on the Cappuccini hill (1960) and the Faculty of Education (1968) inside the historic city center are the two architectural examples that best express this osmosis: neither complex was designed by De Carlo for students only, but also for the residents of Urbino, who to this day still use the services and community spaces. 88 MODELLI ITALIANI PER LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI ROMA: LA SCUOLA PER GLI INGEGNERI DI BOLOGNA DI GIUSEPPE VACCARO Micaela Antonucci Quando, alla metà del 1932, Marcello Piacentini, nel suo ruolo di Direttore Generale e Architetto Capo, si predispose ad avviare il grande progetto per la costruzione della nuova Città Universitaria di Roma, una delle sue prime iniziative fu quella di promuovere un sistematico lavoro di ricognizione e studio dei principali complessi universitari nazionali e internazionali di più recente costruzione. Questa esplorazione era diretta non solo alle tipologie progettuali e funzionali, ma anche alle soluzioni costruttive e tecnologiche adottate, in modo da avere a disposizione una casistica più ampia e aggiornata possibile delle diverse soluzioni architettoniche, tecniche e tecnologiche adottate. L’attenzione era rivolta in particolare a due aspetti: l’analisi dell’impianto generale e del suo rapporto con la struttura urbana; lo studio dei caratteri degli spazi per la didattica e le attività di ricerca in relazione all’adeguamento tecnologico e tipologico nei diversi ambiti disciplinari. A tale scopo, Piacentini non solo incoraggiò e finanziò le missioni all’estero dei vari progettisti dei singoli edifici della Città Universitaria da lui coordinati (1), ma promosse un più articolato piano di viaggi dei professionisti dell’Ufficio Tecnico del “Consorzio autonomo per il completamento dell’assetto edilizio e l’arredamento della Regia università di Roma”, istituito con la legge 607 del 5 giugno precedente (2). Dell’impegnativo compito si fecero carico, in particolare, i giovani ingegneri Gaetano Minnucci e Francesco Guidi, che affiancavano Piacentini nel coordinamento dell’Ufficio Tecnico e che, oltre a essere capaci professionisti, avevano già entrambi una buona conoscenza del contesto architettonico internazionale. Minnucci aveva infatti trascorso una significativa parte della sua formazione in costante contatto con la scena architettonica olandese, recandosi per lunghi periodi, tra il 1924 e il 1926, in Olanda, e stringendo rapporti di amicizia con figure di primo piano come Willem Marinus Dudok e Jacobus Johannes Pieter Oud (3). Forte anche di queste esperienze, nel settembre 1932 egli intraprese su impulso di Piacentini un articolato viaggio di studio in diverse città dell’Europa settentrionale – tra le quali Zurigo, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Hannover, Amburgo, Berlino, Magdeburgo, Dresda, Lipsia, Monaco di Baviera – sugli esiti del quale pubblicò nel dicembre dello stesso anno una dettagliata relazione (4). Guidi – che era uno dei collaboratori più stretti di Piacentini, nel cui studio lavorò dal 1927 al 1950 – aveva invece studiato approfonditamente la Ciudad Universitaria di Madrid, che all’epoca era, insieme alla “Cité universitarie” di Parigi, un significativo esempio di “città universitaria” europea come definito e organico comparto urbano (5). Oltre alla visita di studio all’università di Madrid nell’ottobre 1934, dettagliatamente illustrata in una relazione presentata al Comitato esecutivo del Consorzio (6), il mese precedente Guidi aveva anche intrapreso un breve tour nell’Italia settentrionale, recandosi a Pistoia per verificare la disponibilità e la tipologia delle essenze per l’impianto del verde della città universitaria, ed a Bologna, per visitare la nuova sede della Scuola di Applicazione per Ingegneri, che era in fase di completamento (7). L’interesse del Consorzio e dei suoi tecnici per l’attività edilizia dell’ateneo bolognese è in questa fase di studio e ricognizione molto attento, non solo dal punto di vista architettonico-edilizio ma anche da quello organizzativo e amministrativo, come testimoniato da diversi documenti presenti nell’archivio del CERUR. Tra questi, è una “Relazione sull’impiego dei fondi della costruzione della città universitaria di Roma” datata al febbraio 1935, nella quale si additano a modelli le università di Pisa, Padova e Bologna, sottolineando come stessero “ricostruendo e rinnovando i propri locali con grande larghezza di mezzi e signorilità” (8). Sin dalla fine degli anni Venti, infatti, l’ateneo bolognese aveva avviato un grande piano di rinnovamento edilizio, grazie alla convenzione stipulata il 19 ottobre 1929 tra Comune, Provincia, Stato ed enti locali e ratificata dalla Camera dei Deputati il 19 dicembre successivo per ”l’assetto edilizio della Regia Università”, in particolare per le scuole di Ingegneria e Chimica e il Policlinico di Sant’Orsola (9). Questa convenzione, promossa per diretto interessamento del Duce, era ben presente anche ai responsabili del Consorzio romano, come dimostrato dalla presenza tra i documenti di archivio di una relazione dell’Ufficio Centrale presentata il 12 marzo 1930, in cui veniva giudicato “uno strumento operativo di grande efficacia” (10). La convenzione del 1929, successivamente integrata nel 1934, delineava un programma per l’aggiornamento e l’implementazione dell’edilizia universitaria per una spesa di 58.150.000 lire, da effettuare nel periodo tra il 1931-32 e il 1935-36; un programma ambizioso e imponente che si andava a inserire nell’ambito di una lungimirante politica dell’ateneo bolognese avviata sin dal 1899, quando si era deciso di formare a tale scopo un Consorzio con il Comune e la Provincia (fig. 1). 89 Fig. 1 - R. Università di Bologna. Planimetria generale degli stabili universitari, 1935 (Archivio Storico della Regione Emilia-Romagna, da PRISCO 2014-2015, p. 41). Grazie a queste risorse, si poté procedere alla costruzione di una nuova sede per la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, che da tempo rappresentava un caso esemplare della necessità di rinnovamento e adeguamento degli edifici universitari bolognesi (11). La Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna era stata istituita nel 1875, in seguito alle disposizioni della legge del 13 novembre 1859 che prendeva il nome da Gabrio Casati, all’epoca ministro della Pubblica Istruzione – la quale disponeva l’istituzione di una Regia Scuola di Applicazione in ogni città capoluogo, con la finalità di formare le figure competenti necessarie alla pubblica amministrazione del nuovo Stato unitario (12) – e iniziò 90 a funzionare a pieno regime a partire dall’anno scolastico 1877-78, sotto la direzione di Cesare Razzaboni, ingegnere, fisico, matematico e architetto; la sede venne stabilita in via D’Azeglio, nell’ex convento dei Celestini (13). A partire dal quel momento, la Scuola conobbe un rapido sviluppo fino a divenire, nella Bologna a cavallo tra XIX e XX secolo, uno dei centri nevralgici del fermento culturale che animava la città ed epicentro della diffusione di quella “cultura politecnica” che univa teoria e sperimentazione, incanalando “in tempo reale” nella didattica le innovazioni nell’architettura e nelle tecnologie costruttive (14). Nella didattica grande spazio era destinato all’attività pratica, organizzando esercitazioni in aula e in labora- torio; in particolare, grazie all’intensa attività del Laboratorio sperimentale, la Scuola divenne un centro di eccellenza per la taratura di strumenti, prove di materiali da costruzione, controllo della potenza dei macchinari e rilievi topografici (15). Proprio in ragione di ciò, ben presto nacque un problema di spazi, essendo ormai l’ex convento dei Celestini divenuto inadeguato sia al crescente numero degli studenti, sia alla necessità del costante aggiornamento tecnologico delle strumentazioni usate nelle attività didattiche e laboratoriali. È in particolare uno dei più attivi docenti della Scuola – della quale è anche direttore negli anni 1923-1927 – l’ingegnere Attilio Muggia a prendere a cuore il problema: professionista di grande successo e tra i pionieri dell’uso del cemento armato in Italia, egli dedicò un’inesauribile energia anche allo sviluppo della Scuola nell’attività didattica (16). Non a caso, molti dei suoi allievi diventeranno personaggi di rilievo nel panorama architettonico italiano del Novecento: tra gli altri si ricordano Pier Luigi Nervi, Angiolo Mazzoni, Eugenio Miozzi, Enrico De Angeli e Giuseppe Vaccaro – quest’ultimo, come vedremo più avanti, sarà proprio il protagonista della costruzione della nuova sede della Scuola (17). Risale al 1920 la prima proposta di Muggia per trasferire la Scuola nell’area appena fuori il perimetro dell’antica cerchia muraria ai piedi della collina di San Michele in Bosco, vicino all’ex Convento dell’Annunziata, dedicata sin dall’epoca postunitaria a una destinazione militare. L’ipotesi, a lungo studiata dall’ingegnere in numerose varianti progettuali (18), tramontò definitivamente nel 1926 dopo la conferma dell’inamovibilità delle strutture militari, ma Muggia non si perse d’animo e continuò a sfornare proposte alternative negli anni successivi. Nonostante il suo grande e appassionato impegno, alla fine egli non ebbe l’incarico, che invece andò proprio a uno dei suoi brillanti allievi, Giuseppe Vaccaro. Con la stipula della già menzionata convenzione del 1929 tra Stato ed enti locali per il riassetto edilizio delle scuole universitarie bolognesi, venne scelta per la nuova sede di Ingegneria un’area fuori Porta Castiglione, affidando l’incarico di progetto all’Ufficio Tecnico del Consorzio per gli edifici universitari. In questi anni, un grande sostegno ai piani di rinnovamento era venuto da Umberto Puppini, professore di Idraulica, Direttore della Scuola dal 1927 al 1932, oltre che sindaco di Bologna negli anni 1923-1926, deputato della Camera del Regno nella XXVIII e nella XXIX legislatura e Ministro delle Comunicazioni dal 1934 al 1935 (19). Proprio attraverso Puppini, nel 1930 entrò in scena in questa tormentata vicenda progettuale Giuseppe Vaccaro, suo nipote per parte materna: l’allora Direttore della Scuola fu ben lieto di accettare la proposta del suo famigliare di “studiare la parte architettonica” del progetto del Consorzio nel 1930 (20). Vaccaro aveva già raggiunto una certa notorietà nel panorama architettonico italiano, in particolare grazie alla vittoria ex-aequo con il gruppo guidato da Marcello Piacentini (nel cui studio lavorò per circa due anni a partire dal 1922) del concorso per il palazzo del Ministero delle Corporazioni a Roma (1928) e ai progetti per il Palazzo delle Poste a Napoli (con Gino Franzi, dal 1929) (21). Lo stesso Piacentini, nel presentarne nel 1932 l’opera sulla rivista «Architettura» da lui diretta, non lesinava lodi al suo allievo e sottolineava come Vaccaro avesse raggiunto “una modernità soda, ragionata, serena, italiana, nella quale l’idea non è mai dominata dalla tecnica e nei cui elementi esiste sempre un equilibrio tra la funzione pratica e la funzione espressiva” (22). Tra l’autunno del 1930 e il febbraio 1931 Vaccaro inviò dunque allo zio Puppini la sua proposta progettuale per la nuova Scuola di Applicazione per Ingegneri, accompagnata da una sintetica relazione e articolata in una serie di tavole oggi conservate presso l’Archivio Storico dell’Università di Bologna (23). Nell’agosto 1931, il Consiglio di Amministrazione del Consorzio decise di individuare per la costruzione della nuova sede un’area ai piedi del colle dell’Osservanza, sui terreni della ex villa Cassarini, confermando a Vaccaro l’incarico per la “collaborazione artistica” alla redazione del progetto. Finalmente, anche sulla spinta dell’impulso che arrivava da Roma grazie a Puppini e all’interessamento dello stesso Mussolini, l’opera procedette rapidamente: nel luglio 1932 vennero redatti i progetti di massima; in agosto venne presentato in Comune il progetto architettonico, approvato definitivamente nel febbraio successivo; iniziati i lavori, la costruzione venne terminata nel 1935 e inaugurata il 28 ottobre di quell’anno. Se l’organizzazione planimetrica generale e l’inserimento nel contesto urbano sono da ricondurre all’Ufficio Tecnico del Consorzio, a Vaccaro – forse con il contributo del collega Enrico De Angeli, come ipotizzato da alcuni studiosi (24) – è senz’altro da ascrivere la concezione architettonica, oltre alla definizione dei caratteri tecnologici e delle soluzioni funzionali. Questo progetto rappresenta una tappa importante nella carriera di Vaccaro tanto che, come scrive Gio Ponti, insieme a quello per le Poste napoletane segna l’arrivo a una piena maturità: “i primi due edifici … che Vaccaro ci porge a identificare il suo stile” (25). La Scuola bolognese era una efficiente macchina edilizia organizzata in modo tale che ogni attività didattica fosse autonoma e indipendente, e ospitava nei vari laboratori le più aggiornate attrezzature tecniche: caratteri che, come vedremo, ne facevano un modello tra i più interessanti per la Città Universitaria romana. La pianta aveva una forma “a pettine” – tipologia già ipotizzata da Muggia nei suoi precedenti progetti – in cui ogni braccio ospitava differenti funzioni distribuite sui quattro livelli (aule e studi nei bracci minori, aule da disegno e aula magna nel corpo allungato di collegamento, laboratori al piano terreno), consentendo una razionale e ordinata organizzazione del- 91 lo spazio a seconda delle varie attività (fig. 2) (26). I prospetti erano improntati, come sottolinea lo stesso Vaccaro nella relazione di progetto, a “forme di semplice e severa modernità, che si ricollegassero tuttavia sia per l’uso dei materiali che per il carattere delle proporzioni allo spirito della tradizione architettonica bolognese” (27), richiamata in particolare nell’uso del mattone e nella imponente torre che sovrastava l’ingresso principale. Quest’ultima, alta 45 metri e utilizzata nel suo terrazzo anche come osservatorio geodetico, era – ed è tutt’oggi – destinata a ospitare la biblioteca, capace di contenere oltre 60.000 volumi organizzati su scaffalature metalliche a ripiani spostabili, in cui i vari livelli sono collegati da una scala metallica e da un ascensore. Se all’interno adottava elementi moderni e funzionali, all’esterno la torre era rivestita interamente in matto- ni sabbiati, che si distaccavano dalle pareti del corpo di fabbrica principale in intonaco terranova, acquistando – come scriveva Piacentini – “pur nella schietta modernità di concezione artistica e tecnica … un intimo carattere bolognese” (28). Il latente riferimento all’architettura storica bolognese era uno degli elementi sui quali insisteva la pubblicistica su quest’opera, finanche nelle campagne pubblicitarie delle ditte che lavorarono alla costruzione: come il manifesto che illustra le strutture metalliche della torre, affiancata alle celebri due torri felsinee e al Nettuno; o l’inserzione pubblicitaria dei produttori di elementi in vetromattone su «Architettura», in cui la torre di Vaccaro è definita “nuova Garisenda” (fig. 3) (29). Tradizione e modernità convivono dunque qui a stretto contatto: accanto ai richiami alla storia, un’altra delle chiavi Fig. 2 - G. Vaccaro, progetto per la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna, assonometria, 1932 (Archivio Storico dell’Università di Bologna, da CASCIATO, GRESLERI 2006, p. 69). 92 Fig. 3 - Immagine pubblicitaria per l’impianto di scaffalatura metallica realizzato nella torre della Facoltà di Ingegneria di Bologna, accostata all’immagine delle Due Torri e del Nettuno (Archivio Storico della Regione Emilia-Romagna, da PRISCO 2014-2015, p. 51). Fig. 4 - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna, prospetto del lato nord-est con le aule di disegno e l’aula magna, con le lunghe vetrate continue ai piani superiori (da MULAZZANI 2002, p. 118). principali del progetto è l’impiego di soluzioni costruttive e tecnologiche innovative. I laboratori erano dotati di moderni macchinari e impianti; l’energia arrivava da un impianto idroelettrico sperimentale a condotta forzata, creato sfruttando la pendenza della collina retrostante; l’impianto di riscaldamento era a termosifone con circolazione accelerata, ottenuta con tre elettropompe centrifughe. L’uso delle nuove tecnologie diventò per Vaccaro anche strumento progettuale: un caso esemplare è l’adozione, nelle aule da disegno, di lunghe vetrate continue (fino a 35 metri), grazie all’arretramento dei pilastri della struttura rispetto al filo di facciata (figg. 4-5a) – come nella Scuola del Bauhaus a Dessau di Gropius – con la possibilità di completa scomparsa mediante uno speciale sistema, costruito dalla ditta Curti di Bologna, che permetteva di aprire il serramento ripiegandolo a libretto con un unico movimento a comando elettrico (fig. 5b). L’importanza che Vaccaro assegnava a questo elemento è evidente sia nella relazione di progetto, sia nell’ampio spazio riservatogli nel lungo articolo, accompagnato da un ricco apparato illustrativo, pubblicato nel marzo 1936 sulla piacentiniana «Architettura» (30). Alla stessa ditta Curti sarà appaltata la fornitura degli infissi per gli edifici della Città Universitaria di Roma (31): possiamo ipotizzare che proprio l’interesse per l’edificio di Vaccaro, culminato con la visita di Francesco Guidi nel 1934, sia stata l’occasione per conoscere e adottare tale innovativa soluzione. Il progetto di Vaccaro rappresentava una proposta moderna e originale nell’edilizia universitaria bolognese, nell’ambito della quale, a cavallo tra Otto e Novecento, si andavano sperimentando nuove soluzioni che coniugavano tradizione e innovazione. La nuova sede della Scuola per gli Ingegneri, in particolare, doveva essere il simbolo di una realtà rinnovata nella formazione e nella pratica professionale, e la proposta di Vaccaro interpretava in modo esemplare tale esigenza. L’uso di un linguaggio moderno e razionale, associato all’im- 93 piego delle più avanzate conoscenze tecniche e alle più aggiornate tecnologie, studiando con accuratezza il progetto in ogni sua parte – dallo schema strutturale all’organizzazione degli spazi, dagli impianti tecnici agli elementi rappresentativi, dagli arredi agli infissi – fanno di questa architettura una perfetta sintesi tra monumentalità, tecnica e funzionalità. Grazie all’esame dei documenti presenti nell’archivio del CERUR, sappiamo che proprio questi caratteri innovativi, che i recenti restauri dell’edificio hanno cercato di conservare (32), ne hanno fatto uno dei modelli italiani più interessanti per la Città Universitaria di Roma. Fig. 5a - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna: una delle aule di disegno con la vetrata continua a tutta altezza (da MULAZZANI 2002, p. 28). (1) Nell’agosto 1932 Piacentini chiede al Consorzio di finanziare i viaggi all’estero di Giuseppe Pagano (Istituto di Fisica), Giuseppe Aschieri (Istituto di Chimica), e Giuseppe Capponi (Istituto di Botanica e Chimica Farmaceutica). Alla fine del 1933 vengono rimborsate le spese di viaggio a Gaetano Rapisardi (Facoltà di Lettere e Filosofia) e, ancora, a Pagano, così come anche allo stesso Piacentini per viaggi effettuati tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 (AS Sapienza, CERUR, fasc. 368, 6 ottobre 1932 e fasc. 360, 23 gennaio 1934). Sui documenti conservati in AS Sapienza si veda Azzaro 2012. (2) Mitrano 2008; Onesti 2013. Fig. 5b - G. Vaccaro, Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Bologna: una delle aule di disegno con la vetrata continua aperta a libretto con un unico movimento a comando elettrico (da MULAZZANI 2002, p. 29). 94 (3) Sulla figura e l’opera di Minnucci, si vedano Zacheo 1984; Capanna 2010. (4) La relazione è in Archivio Centrale dello Stato, Fondo Gaetano Minnucci, sc. 110, fasc. 142. (5) Guidi 1934; Di Marco 2016. (6) AS Sapienza, CERUR, fasc. 5, ottobre 1935. (7) Ivi, fasc. 365, fatture varie e rimborsi spese 1932-1938, 10 settembre 1934, “nota di spese dell’Ing. Francesco Guidi per viaggio a Bologna e Pistoia, visita della nuova scuola di applicazione per gli ingegneri a Bologna e visita ai vivai per scelta di piante (3-4-5 settembre 1934)”. (8) AS Sapienza, CERUR, fasc. 376, febbraio 1935. (9) Convenzione Bologna 1929. (10) AS Sapienza, CERUR, fasc. 2, busta 1 (Preventivo di massima e relazione della Commissione, 1930-1931; “Cartella convenzione dell’Università di Bologna e Pisa”). (11) Sul problema di costruire spazi adeguati e specifici per la didattica universitaria delle discipline scientifiche nell’Italia postunitaria, si veda come riferimento il recente saggio di Mangone, Savorra 2018. (12) Sulle complesse vicende delle scuole di ingegneria pre e post-unitarie, qui solo accennate, si vedano come utili riferimenti: Lacaita 1993; Calcagno 1996; Silvestri 2006. (13) Sulla nascita e sulle successive vicende della Regia Scuola di Applicazione per Ingegneri di Bologna, si vedano Cocchi 1988; Calcagno 1995; Benassi Capuano 2000; Giumanini 2000; Diotallevi 2012. (14) Si vedano come riferimento a tale proposito, oltre ai testi alla nota precedente: Trombetti 2014; Antonucci 2010 e 2017. Bibliografia Antonucci 2010 M. Antonucci, Pier Luigi Nervi studente e docente: la formazione dell’ingegnere-architetto e Note biografiche, in A. Trentin, T. Trombetti (a cura di), La lezione di Pier Luigi Nervi, Milano 2010, pp. 1-23. Antonucci 2017 M. Antonucci, La formazione di Pier Luigi Nervi a Bologna, tra cultura politecnica e sperimentazione costruttiva, in G. Barazzetta (a cura di), Pier Luigi Nervi. Il modello come strumento di progetto e costruzione, Macerata 2017, pp. 52-57. Azzaro 2012 B. Azzaro, La Città Universitaria della Sapienza di Roma e le sedi esterne 1907-1932, Roma 2012. Benassi Capuano 2000 M. Benassi Capuano, La Scuola di Applicazione per gli Ingegneri in Bologna (1877-1915), in «Strenna Storica Bolognese», L, 2000, pp. 37-79. Bettazzi 2006 M.B. Bettazzi, Tra Attilio Muggia, Remigio Mirri e Giuseppe Vaccaro: dal progetto per la Regia Scuola di Applicazione per Ingegneri alla Facoltà di Ingegneria, in M. Casciato, G. Gresleri (a cura di), Giuseppe Vaccaro. Architetture per Bologna, Bologna 2006, pp. 47-70. Bettazzi 2016 M.B. Bettazzi, La regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri a Porta San Mamolo, in M.B. Bettazzi, M. Sintini, P. Orlandi (a cura di), Le Bologne possibili, Bologna 2016, pp. 78-93. (15) L’elenco Gabinetti e Laboratori e la loro dotazione di attrezzature sono accuratamente descritti nei Commentarii 1909, Allegati XLIX-L; sul loro contributo all’attività produttiva e imprenditoriale bolognese e italiana, il testo si diffonde anche alle pp. 26-31, 224-237. (16) Sulla figura di Attilio Muggia, si veda Bettazzi, Lipparini 2010. (17) Sugli allievi formati da Muggia e dalla Scuola per gli Ingegneri si vedano Bettazzi, Lipparini 2010, pp. 161-222; Antonucci 2010. (18) Muggia 1921; Muggia 1927-28, p. 6; Bettazzi 2016. (19) Salustri 2006. (20) Casciato 2006, p. 73. (21) Sulla figura e l’opera di Vaccaro, si vedano come riferimenti Cassarà 2001; Mulazzani 2002. (22) Piacentini 1932, p. 513. (23) Archivio Storico dell’Università di Bologna, Fondo Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, b. 17/71b. (24) Cassarà 2001, p. 248; Bettazzi 2006, p. 54. (25) Ponti 1943. (26) Sul progetto di Vaccaro, si veda la dettagliata descrizione in Relazione riassuntiva 1938, pp. 27-29. (27) Archivio Storico dell’Università di Bologna, Fondo Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, b. 17/71b. (28) Piacentini 1932, p. 524. (29) Mulazzani 2002, p. 10. (30) Vaccaro 1936. (31) AS Sapienza, CERUR, fasc. 91, b. 9. (32) Gulli, Predari 2018. Bettazzi, Lipparini 2010 M.B. Bettazzi, P. Lipparini (a cura di), Attilio Muggia. Una storia per gli ingegneri, Bologna 2010. Calcagno 1995 C.G. Calcagno, Un istituto per la formazione degli ingegneri: la «Scuola di Applicazione» di Bologna, in E. Decleva, C.G. Lacaita, A. Ventura (a cura di), Innovazione e modernizzazione in Italia tra Otto e Novecento, Milano 1995, pp. 262-296. Calcagno 1996 G.C. Calcagno (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni. Università e professione nell’Italia del Novecento, Bologna 1996. Capanna 2010 A. Capanna, Minnucci, Gaetano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 74, Roma 2010. Casciato 2006 M. Casciato, Intorno all’edificio di ingegneria e al suo valore di monumento moderno, in M. 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L’area delle Facoltà di Ingegneria e Chimica Industriale dell’Università di Bologna e i rifugi antiaerei: ricostruzione storica e proposte di riqualificazione, Tesi di Laurea in Ingegneria Edile-Architettura, relatrice prof. M. Antonucci, Università di Bologna, a.a. 2014-2015. Onesti 2013 C. Onesti, L’Archivio storico della Sapienza e la documentazione della nuova Città universitaria di Roma, in B. Azzaro (a cura di), La Città Universitaria della Sapienza di Roma e le sedi esterne 1907-1932, Roma 2013, pp. 83-88. Relazione riassuntiva 1938 Relazione riassuntiva delle opere edilizie universitarie eseguite dall’inizio dell’era fascista, Bologna 1938. Salustri 2006 S. Salustri, Sapere e politica: Umberto Puppini e la facoltà di Ingegneria, in M. Casciato, G. Gresleri (a cura di), Giuseppe Vaccaro. Architetture per Bologna, Bologna 2006, pp. 111-121. Silvestri 2006 A. Silvestri, La nascita delle Facoltà di Ingegneria e Architettura in Italia, in A. Buccaro, G. Fabbricatore, L.M. 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He entrusted engineers Gaetano Minnucci and Francesco Guidi, two of his collaborators at the Engineering Department of the CERUR (Consorzio autonomo per il completamento dell’assetto edilizio e l’arredamento della Regia università di Roma). Travelling extensively across Europe in the years 1932-1935, Minnucci and Guidi, visited many branches of* U.S. colleges as well as the main European campuses; in Italy, they visited Padua, Pisa and Bologna. Guidi went to Bologna at the end 1934 to visit the School of Engineering (Scuola di Applicazione per Ingegneri) designed by Giuseppe Vaccaro. The blend of innovation and tradition made this building one of the major Italian models for the “Città Universitaria” in Rome. 96 DA CITTADELLE DELLA SALUTE MENTALE A CAMPUS UNIVERSITARI. DISMISSIONI E TRASFORMAZIONI DEGLI EX OSPEDALI PSICHIATRICI NEL NORD-EST ITALIANO Ferdinando Zanzottera Tradizionalmente considerata tra le aree produttive maggiori d’Italia, la regione del nord-est costituisce un variegato mondo culturale particolarmente significativo anche per la storia della psichiatria e dell’architettura manicomiale. In essa si sono incontrati saperi e formazioni intellettuali molto differenti tra loro, divenendo privilegiato luogo di dialogo tra le diverse istanze psichiatriche nazionali e quelle di matrice austroungarica e slava, oltre che francesi, svizzere e tedesche. Già a partire dagli anni settanta del XIX secolo la cura della malattia mentale friulana si fondava sulla coesistenza e l’integrazione di ampie architetture nosocomiali poste in prossimità dei principali centri urbani e piccole realtà periferiche, poco compatibili con un reimpiego in compiuti campus universitari nella contemporaneità. Modelli a scala differenziata si applicarono anche nella provincia milanese, nella quale coesistevano grandi centri di accoglienza freniatrica (lo storico Ospedale di Mombello e la nuova Grande Astanteria Manicomiale in Affori) posti in rete con istituti privati (es. Ospedale Psichiatrico di Brugherio Villa Fiorita di Brugherio), strutture minori (es. le cosiddette Case di Cantello, Cesano Boscone e San Colombano al Lambro) e dispensari psichiatrici delle aree rurali. Negli anni sessanta e settanta, invece, il territorio goriziano e triestino fu il luogo di partenza del rinnovamento della cura psichiatrica che culminò con l’emanazione della legge sugli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori (Legge 180 del 13 maggio 1978) e della legge all’Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (Legge 833 del 23 dicembre 1978) note come Legge Basaglia e Legge di riforma sanitaria. Queste introdussero nuovi indirizzi di gestione medica e sancirono il principio di universalità delle cure e dell’eguaglianza di trattamento per i pazienti, introducendo i cardini per il ripensamento generale delle architetture della cura. Ad entrambe le leggi, inoltre, sono da ascrivere i principi che condussero al superamento del vetusto concetto di “manicomio” e alla trasformazione e dismissione delle relative strutture manicomiali, consentendo l’avvio di un lungo processo di deistituzionalizzazione. La chiusura dei nosocomi, infatti, ebbe tempistiche eterogenee e seguì fasi differenti nelle diverse regioni, provincie e singoli complessi di cura. Sebbene il nord-est italiano fu tra le aree più solerti nel recepire le disposizioni legislative e nell’intraprendere nuovi modelli clinici di cura, in essa non si riuscì a dar corso immediato al ricollocamento dei pazienti dimessi, rallentando, nei fatti, anche il processo di riconversione delle strutture manicomiali. La chiusura definitiva delle originarie cittadelle della cura psichiatrica si ebbe, dunque, solo con la Legge finanziaria n. 449 del 1997, che impose inderogabilmente la dismissione degli ospedali psichiatrici entro tre mesi dalla sua pubblicazione, pena eccezionali sanzioni economiche per le regioni inadempienti. L’effetto fu la chiusura rapida, e talvolta confusa, delle originarie strutture, con strascichi operativi sino al 2010. Le tempistiche e i vincoli della legge, inoltre, indussero alcune regioni a dismettere gli ospedali psichiatrici senza predisporre adeguati progetti di riutilizzo e riqualificazione del patrimonio immobiliare, già parzialmente degradato, spingendo negli anni successivi talune amministrazioni a vendere i terreni delle annesse aziende agricole o a concedere autorizzazioni edilizie per edificare nuove strutture entro gli originari perimetri manicomiali. Questo comportò un depauperamento del patrimonio agricolo e dei parchi, talvolta secolari e spesso di notevole pregio, complicando ulteriormente le possibilità di recupero dei complessi architettonici. Queste aree, già percepite dalla società civile come marginali, in molti casi divennero luoghi di abbandono e ricetto di nuove marginalità, compromettendo anche possibili processi di trasformazione. Solo in alcuni casi eccezionali la riconversione iniziò poco dopo la promulgazione della Legge Basaglia che, in Lombardia, in gran parte ebbe luogo a partire dal 1995-1996, benché un interesse specifico fosse maturato compiutamente già da alcuni anni. Con il D.Lgs. V/1329 Regione Lombardia promosse il progetto-obiettivo denominato Tutela socio-sanitaria dei malati di mente che aveva la finalità di avviare il processo di trasformazione edilizia e di rifunzionalizzazione sanitaria dei differenti ospedali psichiatrici regionali, coinvolgendo numerosi enti socio-assistenziali, con ricadute inevitabili sui successivi scenari di reimpiego e trasformazione delle originarie strutture manicomiali. Questo progetto, tuttavia, non prevedeva integrazioni significative con il mondo della ricerca universitaria, se non limitatamente alle discipline sanitarie, recuperando parzialmente una tradizione di decennale sperimentazione. La prima cattedra universitaria creata all’interno di un manicomio fu infatti realizzata nell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano nel 1958, dando avvio ad un processo culturale tutt’altro 97 Fig. 1 - Ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, particolare della CTR di Trieste con evidenziata, in grigio chiaro, l’area del complesso nosocomiale e, in grigio scuro, le strutture occupate o di proprietà dell’Università (elaborazione dell’autore in base alle indicazioni fornite dalla ASL Trieste). che marginale, ripreso anche dalla letteratura scientifica dell’epoca (1). L’impegno per la ricerca, inoltre, si espresse in questo ospedale psichiatrico mediante la creazione di un vasto impianto di diagnostica terapeutica dotato delle più moderne attrezzature, che condusse alla creazione di un “reparto pilota” rivolto all’analisi dei casi clinici più complessi e allo studio di nuove terapie sperimentali. Dopo circa cinquant’anni da quella prima esperienza, il mondo universitario ha potuto cominciare ad interessarsi al patrimonio architettonico manicomiale in maniera completamente differente rispetto ai decenni precedenti, progettando anche il proprio inserimento in queste originarie cittadelle della salute mentale, trasformandole in campus o poli universitari. Tra i casi di recupero più significativi è meritevole di attenzione quanto operato nell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste (2) (fig. 1), fautore di un intervento di integrazione tra ex manicomio e tessuto urbano cittadino, otte- 98 nuto attraverso specifici accordi di programma, grazie ai quali si sono attuate: la trasformazione della spina viaria centrale in asse stradale pubblico che pone in collegamento la parte superiore di Trieste con il “Borgo Teresiano”; la permeabilità dell’ex complesso manicomiale alla rete di trasporto pubblico, sottolineata dalla creazione di un capolinea di autobus utile anche agli studenti delle scuole superiori e del campus universitario ivi realizzati; la gestione compartecipata del verde pertinenziale da parte di Regione, Provincia, Comune, Azienda Sanitaria Locale e Università. Negli anni novanta l’Università degli Studi di Trieste decise di acquistare dalla Provincia cinque padiglioni per sedi dipartimentali e, in particolare, per realizzare parte del polo afferente al Dipartimento di Scienze della Vita istituitosi nel 2008 aggregando i precedenti Dipartimenti di Biochimica, di Biofisica e Chimica Macromolecolare, di Biologia, di Fisiologia e Patologia, di Scienze Fig. 2 - Ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, Padiglione “Tranquilli uomini” oggi Facoltà di Psicologia – Padiglione F (Archivio ISAL, fotografia di Ferdinando Zanzottera). Biomediche e di Psicologia. Dove un tempo insistevano i padiglioni ‘osservazione e cure donne’, ‘semiagitati donne’, ‘agitati donne’, ‘semi agitati uomini’ e ‘sucidi’ e ‘paralitici donne’, oggi sono presenti i laboratori di Psicologia e parte delle strutture universitarie che si occupano delle tematiche e delle discipline proprie delle scienze della vita, della psicologia e delle scienze cognitive (fig. 2). A questa prima acquisizione seguirono reiterate fasi di ampliamento degli spazi universitari, ottenuti mediante l’acquisizione dei volumi del ‘padiglione tranquilli uomini’ e della ‘lavanderia vecchia e nuova’ (2002), oggi sede del Museo dell’Antartide. Sei anni dopo l’Università acquisì anche l’ampio fabbricato che un tempo ospitava le ‘cucine’, implementando ulteriormente la sua presenza all’interno dell’originario complesso manicomiale. Collocata non molto distante dalla sede storica dell’Università degli Studi di Trieste, il nuovo polo accademico ha contribuito alla riqualificazione dell’intera area attivando tempestivamente anche un piccolo bar, finalizzato a soddisfare le esigenze di un’utenza diurna non esclusiva, che ha costituto un ulteriore tassello di un lungo processo di vivace recupero sociale ed urbano dell’area. La costante presenza di docenti, studenti e personale amministrativo dell’università ha infatti aiutato a far superare il pregiudizio sul luogo, che veniva ancora percepito come località di dolore e di emarginazione. La riqualificazione del verde pertinenziale, oggi divenuto parco pubblico attrezzato, l’inserimento al suo interno di specifici arredi urbani, oggetto di particolari studi e di attenzione per le peculiarità del luogo e del bello, e le numerose attività ricreative qui attivate da una pluralità di soggetti, hanno consentito di dar vita a processi psicologici di riappropriazione del luogo, rivalutandone la storia e avviando processi identitari largamente condivisi. La realizzazione dello stesso Museo Nazionale dell’Antartide, inaugurato nel 2004, e la sua qualificazione come struttura espositiva modernamente intesa dotata di postazioni interattive e di percorsi multimediali, hanno cooperato per definire l’area dell’ex manicomio provinciale come luogo di conoscenza pluridirezionale e come Centro Interuniversitario degli Atenei di Genova, Siena e Trieste (3). L’importanza e il successo della presenza di questi luoghi di alta formazione e di cultura universitaria nel tessuto edilizio dell’ex manicomio triestino, sono stati amplificati anche dalla coesistenza e dalla condivisione dei relativi spazi comuni con altre realtà legate alla formazione liceale, all’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste e ad altre realtà creative e artistico-espressive, quali, ad esempio, il Teatrino “Franco e Franca Basaglia” e il Parco dei Bambini “San Giovanni Mini Mu”. La definizione di ulteriori luoghi di ritrovo (bar e piccole botteghe), l’inserimento di un pregiato roseto di oltre 8.000 piante realizzato e curato in collaborazione con l’Istituto di botanica dell’Università di Trieste e l’attivazione di periodiche manifestazioni hanno ulteriormente contribuito alla reale integrazione urbana dell’originaria struttura manicomiale. 99 Fig. 3 - Ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese, particolare della CTR di Varese con evidenziata, in grigio chiaro, l’area del complesso nosocomiale, in grigio scuro, le strutture occupate dall’Università dell’Insubria e, evidenziati dalla lettera “S”, gli insediamenti della zona destinati ad attività di formazione (elaborazione dell’A.). Unico progetto di compiuto polo accademico in territorio lombardo realizzato in una struttura ex manicomiale è quello di Varese, che ha saputo creare una cittadella della cultura occupando anche parte di questa significativa architettura degli anni trenta e acquisendo sempre più spazi ed edifici in località Bizzozero. Esso è stato fondato solo in epoca recente e si è fuso con il progetto di riqualificazione dell’intero complesso nosocomiale promosso dall’Ufficio Tecnico della Azienda Sanitaria Locale che, sebbene non si fosse prefissato di realizzare un intervento di “restauro del moderno”, ha perseguito un progetto particolarmente sensibile nel rispettare la struttura architettonica originaria (4). La storia della deistituzionalizzazione dell’ex manicomio riflette quel lento processo di adesione alle prescrizioni normative che seguirono la riforma basagliana. Così come avvenne per numerose realtà nosocomiali italiane, infatti, anche l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese (fig. 3) non attivò una reale operatività di chiusura sino alla metà degli anni novanta, quando venne decretata la cartolarizzazione della struttura manicomiale, in parte acquistata dall’Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo - Fondazione Macchi. Questa, dopo la creazione dell’Università dell’Insubria avvenuta il 14 febbraio 1998, cedette a quest’ultima in comodato d’uso alcuni padiglioni affinché vi realizzasse un piccolo polo accademico (fig. 4). Oltre ad animare il luogo, l’intervento ha consentito 100 di recuperare anche le significative componenti esteticovisuali dell’intero complesso, poiché il processo virtuoso di riqualificazione della struttura ha inteso armonizzare le istanze di rifunzionalizzazione degli spazi affidati all’Università e agli Enti Sanitari presenti sul territorio con il rispetto delle preesistenze. Una discreta rete dei servizi dei trasporti e la vicinanza al polo ospedaliero hanno contribuito a rendere vivace e conosciuto alla popolazione locale l’impianto architettonico ricco di storia e fascino. Benché periferico rispetto al centro storico cittadino, tale complesso risulta oggi pienamente relazionato al contesto urbano, mentre la nuova funzionalità e la qualità dei servizi offerti hanno reso possibile l’abbattimento dei pregiudizi culturali che affliggevano questo luogo. La trasformazione in Polo universitario, esteso anche alle aree limitrofe, ha contribuito a generare una diffusa attenzione alla struttura architettonica da parte degli Enti Sanitari che si dividono la proprietà degli stabili ex manicomiali, che si sono così implicati attivamente in processi di valorizzazione storica e culturale dei manufatti edilizi. Risale invece al 13 aprile del 2007 la formalizzazione a Regione Lombardia del desiderio di trasformare l’ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como (fig. 5) in cittadella universitaria. Il progetto è nato da convergenti istanze condivise dal Comune, dalla Provincia, dalla Camera di Commercio, dall’Azienda Sanitaria Locale coma- sca, dall’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e dalle Università che gravitavano sul territorio (Politecnico di Milano e Università dell’Insubria). Tale sinergia spinse la regione a sostenere l’iniziativa emanando il Dgr. n. 8/6632 del 20 febbraio 2008 relativo alla Promozione di un accordo di Programma per la valutazione di fattibilità dell’ipotesi di realizzazione di un Campus Universitario nell’area dell’ex ospedale psichiatrico San Martino a Como (5). L’accordo rivelava anche l’interesse del Politecnico di Milano a realizzare una grande cittadella politecnica, capace di ospitare aule studio, uffici, strutture sportive, una residenza universitaria, una foresteria, una mensa, un museo, un parco urbano e un parcheggio di circa 1.200 posti auto. Per dar seguito all’idea venne affidato il compito di redigere un compiuto progetto architettonico di riconversione dell’ex ospedale ad un pool di professionisti e docenti del Politecnico milanese con a capo l’architetto Riccardo Licari (responsabile dell’Area Tecnico Edilizia), che si avvalse della collaborazione e consulenza dei professori Stefano Della Torre, Antonio Capsoni e Nicolò Aste, rispettivamente per le architetture, le opere strutturali e gli impianti meccanici (6). Il progetto di riconversione dell’ex-ospedale psichiatrico aveva il dichiarato obiettivo di adeguare funzionalmente le strutture alle nuove destinazioni e di recuperare, quando possibile, la struttura architettonica esistente. Esso fu redatto a seguito di un attento studio di fattibilità (7) stilato l’anno precedente, che confermava il desiderio di realizzare un luogo particolarmente significativo e di rappresenta- tività, capace di migliorare la qualità degli spazi e delle dotazioni impiegate nell’erogazione dei servizi universitari comaschi (fig. 6). Parimenti il progetto intendeva soddisfare il fabbisogno di spazi, prevedendo una riserva in termini di superficie per le possibili successive espansioni del polo, offrendo in termini quantitativi una diversificazione dei volumi e degli ambienti, e fornendo agli studenti nuovi servizi, strategicamente da aprire alla collettività cittadina. Il progetto, che giunse a realizzare dettagliati layout delle aule e degli alloggi universitari, prevedeva un impegno economico complessivo di oltre 35 milioni di euro e un costo annuo di gestione e manutenzione di circa 1.700.000 euro, ai quali dovevano sommarsi i costi di gestione delle “strutture eccedenti” e della residenza. L’interessante piano progettuale, che aveva calcolato anche la ricaduta sul patrimonio immobiliare pubblico e privato della città di Como e l’impatto attrattivo del polo universitario ben oltre i meri confini nazionali nella certezza di poter rappresentare una valida alternativa agli istituti elvetici, non venne realizzato, con il conseguente accantonamento del progetto. Solo nella seconda metà del 2019 è ritornata in auge l’idea di recuperare quest’area per realizzare un polo culturale per la formazione di alto livello dotato di una moderna biblioteca e di laboratori, che trovano in Enrico Lironi, membro del consiglio di amministrazione della Commissione centrale di beneficenza di Fondazione Cariplo e presidente di Sviluppo Como, uno dei suoi massimi sostenitori. Fig. 4 - Ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Varese, Padiglione Morselli oggi sede di aule didattiche e laboratori dell’Università Insubria (Archivio ISAL, fotografia di Ferdinando Zanzottera). 101 Fig. 5 - Ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como, particolare della planimetria del manicomio del 1987 con evidenziate le aree interessate dal progetto di trasformazione in sede universitaria del Politecnico di Milano (2012): in grigio chiaro l’area del complesso nosocomiale; in grigio scuro le strutture interessate direttamente dal progetto. All’interno della planimetria sono contrassegnati dalla lettera “P” i volumi architettonici che dovevano essere occupati per attività didattiche e gestionali dal Politecnico milanese; dalla lettera “R”, quelli destinati ad accogliere la residenza universitaria; dalla lettera “T”, quelli da cedere a terzi (elaborazione dell’A.). Più in generale, le aree un tempo occupate dalle strutture manicomiali sono oggi al centro di un rinnovato interesse e in questi ultimi anni le istituzioni locali hanno cercato di promuoverne il recupero coinvolgendo anche i privati. Legate da un’unica finalità curativa, le strutture manicomiali sono state spesso costruite ai margini dei grandi centri urbani e si sono velocemente trasformate in “cittadelle per la reclusione dei folli” contrapposte alle “città dei sani”, che spesso volevano cancellare dalla propria vista chi era affetto da malattie psichiatriche. Queste strutture costituiscono oggi un inestimabile patrimonio della memoria e pregevoli testimonianze dell’arte del costruire che, in ragione dell’espansione urbana, in molti casi sono divenute parte viva del tessuto cittadino, occupando aree strategiche e di particolare qualità paesaggistica. Anche per questa ragione, già da qualche anno, si è acceso su di esse un dibattito che oscilla tra chi vorrebbe una trasformazione radicale delle architetture esistenti e chi preferirebbe la musealizzazione integrale di tutti i padiglioni. Tra questi due estremi si concentrano altre proposte di intervento, che talvolta sembrano non accorgersi che insieme ad un provvedimento architettonico-edilizio occorre ricucire quella ferita ancora esistente nella società, generata dal differente modo di concepire la malattia mentale. Per questa ragione le soluzioni già adottate per la riconversione delle aree manicomiali in poli universitari, costituiscono interessanti modelli di recupero che in certune occasioni si sono distinti per lungimiranti tenta- 102 tivi di superare, anche solo idealmente, i muri perimetrali degli ex nosocomi (8). Le generalizzate ampie dimensioni di questi complessi e la loro collocazione, quasi sempre periferica rispetto ai centri storici, offrono inoltre una concreta possibilità di sviluppo per le città ai cui bordi essi si trovano. Le loro aree libere generalmente sono parchi verdi di indiscusso interesse, che spesso necessitano di un recupero funzionale anche secondo logiche di ridisegno del paesaggio, e, in qualche caso, di veri e propri restauri botanici. Infine, il recupero delle strutture architettoniche degli ex Ospedali Psichiatrici, che generalmente impone logiche sovracomunali, può offrire l’occasione anche per ripensare a scala regionale la gestione di alcuni servizi collettivi e formativi. La trasformazione di queste aree e la definizione di nuove funzioni compatibili, impongono, dunque, un serio confronto tra i differenti soggetti coinvolti, che non può prescindere da un giudizio di valore sui singoli manufatti edilizi, dalla verifica di sostenibili scenari a scala regionale capaci di confrontarsi con soluzioni innovative anche a livello europeo, dal riconoscere che occorre salvaguardare la storia che appartiene all’intera comunità nazionale e dalla necessità di attivare un dibattito comparativo sui risultati già ottenuti, secondo un atteggiamento realistico proiettato verso il prossimo futuro. Un imperativo educativo e formativo, dunque, al quale il mondo universitario (9) non può sottrarsi, indipendentemente dalle possibilità concre- Fig. 6 - Ex Ospedale Psichiatrico San Martino di Como, veduta dei volumi architettonici centrali della struttura ex manicomiale (Archivio ISAL, fotografia di Adele Simioli). te di insediarvisi realizzando poli di eccellenza didattica o articolati campus modernamente intesi. (1) Bozzi 1959, p. 21. (2) Cfr. Barillari 2008; Zanzottera 2013b. (3) Cfr. Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 282, 2 dicembre 1991. (4) Cfr. Zanzottera 2013c; Crippa, Zanzottera 2013. (5) Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, Serie Ordinaria, n. 10, 3 marzo 2008, pp. 532-533. (6) Cfr. Recupero architettonico 2013. (7) Cfr. Nuovo Polo di Como 2012. (8) Cfr. Zanzottera 2013a. (9) L’interessamento del mondo universitario per le strutture ex manicomiali è testimoniato dalle ricerche e dall’attività scientifiche promosse in questi ultimi anni da numerosi docenti, tra le quali particolare attenzione merita il Progetto PRIN 2008 coordinato dalla professoressa Cettina Lenza intitolato I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento. Atlante del patrimonio storico-architettonico ai fini della conoscenza e della valorizzazione, sviluppato congiuntamente da unità di ricerca del Politecnico di Torino, Politecnico di Milano, Università di Camerino, Università di Palermo, Seconda Università di Napoli e componenti delle Università di Pisa e di Reggio Calabria. Bibliografia Barillari 2008 Bozzi 1959 D. Barillari (a cura di), L’Ospedale psichiatrico di San Giovanni a R. Bozzi, L’Ospedale Psichiatrico provinciale di Milano. Aspetti organiz- Trieste. Storia e cambiamento, 1908-2008, Milano 2008. zativi e funzionali lontani e recenti (dalle origini al 1959), Milano 1959. 103 Crippa, Zanzottera 2013 M. A. Crippa, F. Zanzottera (a cura di), Documentare l’architettura: metodi, casi e archivi. Gli ex ospedali psichiatrici in Lombardia, Brescia 2013. Zanzottera 2013a F. Zanzottera, Il destino controverso degli ospedali psichiatrici in Italia: tra riusi e abbandoni, in «Territorio», 2013, 65, pp. 81-84. Nuovo Polo di Como 2012 Nuovo Polo di Como presso l’ex-ospedale psichiatrico San Martino di via Castelnuovo, Como. Studio di prefattibilità, Area Tecnico Edilizia Politecnico di Milano, Milano 2012, dattiloscritto. Zanzottera 2013b F. Zanzottera, Manicomio provinciale di Trieste, in C. Ajroldi et alii (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2013, pp. 163-165. Recupero architettonico 2013 Recupero architettonico e riconversione dell’ex-ospedale psichiatrico San Martino in sede universitaria del Politecnico di Milano. Progetto Lotto 1. Relazione tecnica Opere architettoniche, Univercomo, Milano 2013, dattiloscritto. Zanzottera 2013c F. Zanzottera, Manicomio provinciale di Varese, in C. Ajroldi et alii (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2013, pp. 177-179. FROM MENTAL HEALTH FACILITIES TO UNIVERSITY CAMPUSES: THE RECONVERSION OF FORMER PSYCHIATRIC HOSPITALS IN ITALY’S NORTHEAST The implementation of Law 180 of 1978, known as the Basaglia Law, has resulted in large abandonment phenomena and partial transformation of the vast building and landscape heritage of the former Italian asylums. In many cases the varied universe of the “mental health citadels” has been largely under-used or almost entirely abandoned, giving rise to a prolonged phenomenon, still partially underway, of disintegration of buildings and disregard of value of these large scale-areas. In the Lombard and north-eastern areas of Italy, these complexe are still largely abandoned or underused today, although there are significant recovery projects or examples of virtuous redevelopment. Among these, the interventions that have transformed former psychiatric hospitals into “citadels of university culture” or aspire to become modern university campuses, intended as preferential subjects of development, also generating phenomena of debasement of the outstanding memory. 104 DALLA SALUTE ALL’ISTRUZIONE DELLA “MEGLIO GIOVENTÙ”, DALLA COLONIA MONTANA IX MAGGIO A MONTELUCO DI ROIO ALLA FACOLTÀ D’INGEGNERIA DELL’UNIVERSITÀ DELL’AQUILA Patrizia Montuori Nel Novecento la presenza del Movimento Moderno a L’Aquila e, in generale, in Abruzzo, è sporadica e scarsamente incisiva nel contesto architettonico locale, ancora prevalentemente legato a dettami storicisti. Nel capoluogo abruzzese, infatti, l’introduzione del linguaggio razionalista è affidata a un numero relativamente esiguo di architetture, in buona parte opera di professionisti gravitanti nell’area romana, realizzate su committenza pubblica e, più raramente, privata. Il regime fascista svolge un ruolo strategico nella diffusione dell’architettura moderna anche in contesti locali non favorevoli, come quello abruzzese, creando nell’arco di un ventennio un sistema di strutture di servizio (assistenziali, educative, culturali e politiche), capace di servire capillarmente tutta la popolazione, sia nelle città, sia nei piccoli centri dell’entroterra e di confine. L’obiettivo principale è ‘plasmare’ un uomo nuovo forgiato, fisicamente e mentalmente, sin dall’infanzia, attraverso l’educazione fisica e il rafforzamento dei giovani italiani, in particolare, di quelli più deboli e indigenti. A tale scopo il regime crea o affina nuove tipologie di edifici come le sedi della Gioventù Italiana del Littorio (GIL), dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) e, soprattutto, le colonie permanenti, diurne e climatiche (marine, montane, lacustri o fluviali). Queste ultime, nate con finalità elioterapiche e sanitarie mutuate dall’igienismo ottocentesco, che aveva prodotto gli ospizi marini e i sanatori con cui si era tentato di combattere il ‘mal sottile’ (1), erano progettate per essere funzionali al benessere fisico dei piccoli ospiti, all’interno e all’esterno, con spazi circondati dal verde, ben aerati e illuminati. Al contempo gli edifici erano concepiti per trasportare i bimbi in un contesto ‘altro’ dalla famiglia e dai luoghi di provenienza, impressionandoli con linee moderne ed essenziali, che evocano immagini futuristiche (aerei, idrovolanti, navi, sommergibili) e i giochi meccanici agognati dai bambini, o trasfigurazioni a scala architettonica di simboli cari al regime, come la ‘M’ mussoliniana, i fasci littori ecc. Finalità architettoniche e propagandistiche con cui sono concepite le tre colonie climatiche che, nel corso degli anni Trenta del Novecento, sono realizzate anche in Abruzzo, sulla scia del massiccio programma per il rinvigorimento della gioventù avviato dal regime (2): due marine, ubicate sulla costa Adriatica, la Rosa Maltoni Mussolini a Giulianova, in provincia di Teramo (1936) e la Stella Maris a Montesilvano, vicino a Pescara (1939) (fig. 1); una montana, nei pressi di L’Aquila, la Colonia IX Maggio a Molteluco di Roio, realizzata dall’Ente Nazionale Fascista per L’Assistenza alla Gente di Mare (3) su progetto dell’architetto Ettore Rossi: convertita alla fine degli anni Sessanta nella Facoltà di Ingegneria della giovane università aquilana, essa proseguirà idealmente la sua “missione educativa” fino al sisma del 2009. La colonia IX Maggio è situata su un altopiano quasi sulla cresta della collina di Roio, a circa dieci chilometri da L’Aquila, su cui affaccia dal versante settentrionale, fronteggiando, invece, sul lato opposto il massiccio della Maiella e quello del Sirente. L’edificio segna con l’elegante profilo il limite tra la parte meridionale del colle, ancora oggi quasi totalmente priva di vegetazione, e il lato nord, con la densa pineta di conifere, che il Regio Corpo Forestale dello Stato per prevenire le frane sulla strada e la linea ferroviaria sottostanti. Le qualità climatiche e il contesto ambientale sono fondamentali per l’ubicazione della colonia che ospiterà 500 ‘figli del mare’ provenienti da tutto il territorio nazionale: un fabbricato di 31.000 metri cubi per costruire il quale “sono stati portati sul Monte Rojo, a 970 metri sul livello del mare, tutti i materiali di ferro, di muratura e di legno … (4)”. Se già dall’Ottocento, infatti, erano noti i salutari effetti dell’altitudine per la cura delle patologie polmonari tubercolari e il potenziamento delle capacità respiratorie, nel 1884 il medico e igienista abruzzese Gennaro Finamore aveva evidenziato come l’Abruzzo, in particolare, fosse un’eccellente stazione estiva per il trattamento climatico di diversi stati morbosi (anemie, scrofola, infezione cronica da malaria, tubercolosi polmonare) più rari nei climi temperati e ad un’altezza oltre i 600 metri, dato che “gran parte della nostra Regione è al di sopra di siffatto limite (quattro quinti dei Comuni dell’aquilano sono ad un’altezza superiore a 600 metri)” (5). Dei benefici effetti della colonia da costruire a Roio, anche sull’economia locale, d’altra parte, è persuaso il podestà dell’Aquila Centi-Colella, che nel luglio del 1934 (6) approva la cessione gratuita all’ente dell’area dove sorgerà l’edificio e di parte della pineta per lo svago dei bambini, oltre alla realizzazione a spese del Comune del collegamento di circa 150 metri tra la 105 Fig. 1- Le due colonie marine abruzzesi: la Rosa Maltoni Mussolini a Giulianova, Teramo, Alberto Ricci, 1936; la Stella Maris a Montesilvano, Pescara, Francesco Leoni, 1939 (tesi Di Massimo-Iachini; Archivio Centrale dello Stato, PNF, Servizi vari, Serie II, b. 1368). Colonia e l’esistente strada della pineta e l’estensione fino ai fabbricati dell’illuminazione elettrica. L’edificio, poi, è costruito in poco più di due anni dall’impresa vincitrice nella licitazione privata dell’agosto del 1934, la romana Bonomi & Federici, tra le più attive nella Capitale, ove nel 1932 aveva lavorato alla realizzazione del grandioso progetto della Via dell’Impero. Anche il progettista e direttore dei lavori, Ettore Rossi, nella relazione del giugno del 1935 a Davide Lembo, presidente della Federazione Fascista Gente del Mare, testimonia la solidità dell’impresa, che 106 ha assunto numerosi operai per garantire due turni giornalieri e allestito il cantiere con tutti i macchinari necessari (7). Nonostante il ritardo nell’inizio dei lavori, consegnati il 7 settembre 1934, per la decisione di aumentare di un piano l’edificio che, trovandosi in zona sismica, impone “lo studio di speciali robuste strutture in armonia alle nuove disposizioni ed alle richieste fatte dalle Superiori Autorità tecniche” (8), il 27 luglio 1937 il Ministro delle Comunicazioni Antonio Stefano Benni e il Ministro delle corporazioni Ferruccio Lantini inaugurano “nel nome del Duce” la Fig.2 - La colonia IX Maggio a Monteluco di Roio, L’Aquila, Ettore Rossi (1937). Vista dell’edificio allegata al progetto di ripristino del 1955 e foto tratta dal fascicolo pubblicitario dell’Ente Nazionale Fascista per l’Assistenza alla Gente di Mare (Archivio Enti Soppressi presso l’Ispettorato Generale di Finanza, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1937-61). colonia IX Maggio (fig. 2) che, durante la visita del 18 giugno 1939, anche Costanzo Ciano apprezzerà come “semplicemente bella” (9). Quando progetta la colonia aquilana, d’altra parte, Ettore Rossi (1894-1968), architetto originario di Fano, ma che vive e lavora a Roma fino al 1945, anno in cui si trasferisce a Milano ‘naufrago’ del regime, è già partecipe della breve ma intensa stagione del MIAR, il Movimento Italiano Architettura Razionale, probabilmente, anche grazie all’influenza dell’amico e collega di studio Mario Ridolfi (10). Se, infatti, sul finire degli anni Venti del Novecento, Rossi aveva realizzato nella Capitale importanti edifici ancora con un gusto storicista (11), certamente gli anni Trenta sono per lui quelli più fecondi, anche per la maturazione di uno stile razionalista, con progetti e realizzazioni legati al regime (12) e la crescente esperienza nella progettazione di moderni ospedali monoblocco, tra cui quello vincitore a Bolzano (1934), con planimetria a doppio T a braccia disuguali incurvate. Un’architettura in cui evidenti sono le analogie con l’impianto di Roio, progettato nello stesso anno, in particolare nella distribuzione per zone e nel corpo frontale sud dedicato alla degenza. Rossi, il primo in Italia a progettare ospedali a blocco unico, già da tempo adottati negli Stati Uniti per ridurre i tempi di percorrenza tra reparti e i costi di costruzione rispetto al tipo ‘a padiglioni’, infatti, progetta la colonia aquilana secondo un canonico schema ‘monoblocco’, realizzando un corpo di fabbrica unico “per quanto il terreno piano non gli mancasse; essendo anzi invidiabile questa colonia per i grandi prati cintati che può offrire ai suoi ospiti” (13). Pur non essendo previste la degenza e la cura dei malati, egli applica anche nella colonia di Roio i criteri progettuali di serialità su più piani e disposizione degli ambienti in base alla destinazione e all’ottimale orientamento per la loro aerazione e soleggiamento, desunti dall’esperienza nella progettazione edilizia ospedaliera. I servizi posti in asse nella porzione centrale del fabbricato, infatti, suddividono l’edificio in due ali, maschile e femminile, inclinate esattamente di quindici gradi verso est in modo da godere di un’insolazione ottimale durante la giornata e in inverno, giacché la colonia era attiva anche da novembre a giugno, oltre che nel periodo estivo. Le ali contengono le palestre a piano rialzato e le camerate ai piani superiori, con i corridoi e i servizi disposti sul fronte opposto, in modo da usufruire anch’essi di un’aerazione e illuminazione dirette (fig. 3). Anche in questo caso Rossi applica quanto indicato in riviste e convegni per la realizzazione degli ospedali monoblocco in Italia. A differenza di quelli americani, si raccomandava che gli edifici non avessero camere di degenza su entrambi i lati dei corridoi, affinché non fossero bui e poco aerati, e non ci fossero servizi igienici privi di finestre, in cui non sempre era possibile utilizzare la costosa ventilazione artificiale, già ampiamente diffusa oltre oceano. L’elegante planimetria a doppia curvatura della colonia, certamente risultato del razionale orientamento degli ambienti interni secondo l’asse eliotermico e la loro destinazione, ma anche di una sapiente ricerca architettonica, evoca una ‘M’ stilizzata in onore del duce e rimanda alla proposta presentata proprio tra il 1933 e il 1934 da Ettore Rossi, Mario Ridolfi, Vittorio Cafiero e Bruno Ernesto La Padula nel concorso del Palazzo del Littorio a Roma. L’edificio, infatti, si staglia sullo sfondo boscoso della Pineta di Roio aprendosi verso il fronte sud della collina, in origine completamente privo di alberature (fig. 4), creando un bilanciato insieme architettonico e paesaggisti- 107 Fig. 3 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio: planimetrie originarie dell’edificio (LABÒ, PODESTÀ 1941) . co, già apprezzato dai contemporanei. Giuseppe Pagano osserva, infatti, che “questa sana e semplice costruzione di Ettore Rossi, ottimo architetto e tecnico ospedaliero, è una realizzazione che si inserisce ottimamente nella letteratura internazionale delle Colonie di montagna e fa figurare bene il nostro paese” e che “il paesaggio ampio e solenne, col digradante ondeggiamento dei boschi di pini, ne è valorizzato e non soffre alcuna offensiva contaminazione” (14). Nella colonia aquilana, tra l’altro, l’istituzione dei turni invernali portava il periodo di permanenza dei piccoli ospiti da quaranta giorni a otto mesi, passando dai più semplici criteri organizzativi propri delle colonie temporanee a quelli più complessi degli istituti permanenti, rivolti non soltanto al miglioramento delle condizioni fisiche e spirituali, ma anche alla formazione culturale e scolastica dei bambini. Tale maggiore complessità funzionale renderà la struttura tipologicamente adatta ad accogliere la funzione universitaria, che assumerà alla fine degli anni Sessanta, dopo il periodo di trasformazioni e abbandono iniziato con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (15). Anche il rettore Vincenzo Rivera, infatti, nell’inaugurazione dell’anno accademico 1966/67 osserva che “lo stabile, che appartiene all’ente assistenza gente di mare, che risulta di circa 40.000 metri cubi di capienza, con circa 250 finestre, … così com’è, in parte già corrispon- 108 de largamente alle necessità di una Facoltà di notevole impegno, quale quella d’Ingegneria, essendo dotato di 16 grandi aule e circa 10 altri diversi ambienti” (16). L’obiettivo è creare per la Facoltà d’Ingegneria, nata nel 1966 in seno alla Libera Università degli Studi dell’Aquila istituita nell’agosto 1964, “un centro universitario moderno, completo, autonomo, indipendente dal centro urbano, tipo College, verso cui vanno orientandosi le università dell’avvenire” (17) con spazi per la didattica, nuove strutture sperimentali, di ricerca e ricettive; obiettivo parzialmente realizzato solo con l’ampliamento costruito negli anni Novanta. In realtà, di là da quanto ritenuto, l’adattamento dell’ex colonia montana alla funzione universitaria richiese non poche, infelici, modifiche all’equilibrato impianto originario, operate su progetto dell’allora direttore dell’Istituto di Architettura e Urbanistica, Leonardo Del Bufalo. Le più visibili riguardarono sia la parte sommitale, con la chiusura del solarium, che sottolineava con la sua leggerezza l’elegante disegno originario, con vetrate continue e struttura in acciaio; sia quella basamentale in cui, in particolare, furono tamponati gli spazi per l’attività fisica all’aperto, posti nelle testate e coperti dalla pensilina a sbalzo che percorreva tutto l’edificio, il cui sottile disegno fu alterato con un pesante cornicione di bordo in acciaio corten, analogo a quello inserito nell’ultimo piano. Fig. 4 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio: vista originaria del fronte principale dell’edificio (LABÒ, PODESTÀ 1941). Se tali manomissioni furono operate all’interno delle linee geometriche dell’impianto esistente, il ‘brutale’ accostamento sul fronte nord del doppio corpo cilindrico di aule in cemento a vista, fu solo la prima delle superfetazioni (capannoni, volumi tecnici e laboratori), più o meno casuali, realizzate nel tempo, compromettendo non solo l’integrità del manufatto, ma anche il suo equilibrato rapporto con lo spazio circostante. Negli anni Settanta la piantumazione di sempreverdi realizzata davanti al fronte meridionale, l’ha progressivamente schermato alla vista, alterando la percezione dell’edificio, in origine enfatizzato dal parterre libero antistante e dal lungo viale assiale, che dai due piccoli padiglioni di accesso conduceva all’ingresso. Ulteriori modifiche sono intervenute, poi, dalla metà degli anni Ottanta: all’esterno, la sostituzione dei serramenti delle finestre, originariamente in ferro con maglie rettangolari orizzontali, con più banali e pesanti infissi in alluminio a doppia specchiatura e serrande in PVC; all’interno, l’alterazione di alcuni significativi spazi, come le due plastiche trombe-scala laterali (fig. 5), occluse con l’inserimento delle colonne degli ascensori, per le necessità di adeguamento alle normative di accessibilità e sicurezza (18). Più o meno nello stesso periodo, però, l’incremento della popolazione universitaria delle facoltà aquilane e la riorganizzazione e specializzazione nazionale dei corsi di laurea d’ingegneria, ha reso pressante l’esigenza di spazi adeguati, non presenti nella vecchia sede, e la necessità di realizzare un nuovo complesso, costruito negli anni Novanta accanto all’ex colonia (fig. 6). Opera di Giulio Fioravanti e Gian Ludovico Rolli, all’epoca entrambi docenti della facoltà, la nuova sede d’Ingegneria, oggi (2020) campus del Dipartimento d’Ingegneria Civile, Edile-Architettura, Ambientale (DICEAA) e del Dipartimento d’Ingegneria Industriale e dell’Informazione e di Economia (DIIIE), è strutturata in tre parti, collegate da una ‘strada interna’ e un percorso sotterraneo, che conduce dai due corpi destinati alla 109 Fig. 5 - Ettore Rossi, colonia IX Maggio, una delle due plastiche scale laterali, occluse negli anni Ottanta con l’inserimento delle colonne degli ascensori (Archivio Enti Soppressi presso l’Ispettorato Generale di Finanza, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1937-61). didattica al terzo, con l’aula magna e la biblioteca (19). Nonostante la notevole dimensione e l’inevitabile impatto, la disposizione dei blocchi è stata studiata sfruttando il declivio del terreno, per non alterare il delicato contesto ambientale e architettonico preesistente e consentire a chi giunge sull’altopiano di proiettare lo sguardo oltre gli edifici stessi, evitando di soffocare con i nuovi corpi di fabbrica l’affaccio a valle dell’ex colonia e lo spazio libero del campus. Completato negli anni Novanta, il complesso è stato destinato esclusivamente alla didattica e i servizi connessi, mentre l’ex colonia ha continuato a ospitare le strutture dipartimentali fino al sisma dell’aprile 2009, che ha danneggiato l’edificio preesistente in modo mediograve, non avendo arrecato danni evidenti alla struttura portante, e in modo più significativo le strutture recenti. Mentre, però, i tre nuovi blocchi sono stati riparati e progressivamente riattivati a partire dal 2012, attualmente il progetto di consolidamento e restauro dell’ex colonia è ancora in fase di verifica e in attesa di essere avviato. Si auspica che esso sia occasione per un’opportuna rilettura critica dell’edificio e del suo contesto ambientale che, oltre all’intervento a scala edilizia e di dettaglio, volto a restituire al manufatto storico l’integrità espressiva alterata negli anni, contempli anche un restauro ambientale, che consenta di ‘ricucire’ l’intimo legame tra architettura e luogo, nonostante le irreversibili modifiche intervenute con la realizzazione della nuova cittadella universitaria. (1) Ciranna, Montuori 2018. (2) Montuori 2019. (3) L’Ente Nazionale Fascista per l’Assistenza alla Gente di Mare, riconosciuto con il Regio Decreto del 14 luglio 1937 quale istituto assistenziale, aveva il compito di provvedere a forme integrative 110 di assistenza per i marittimi disoccupati o in attesa d’imbarco e le famiglie, e di concedere cure climatiche ai figli dei marinai. Vedi: Statuto Ente Nazionale Assistenza alla Gente di Mare approvato con Decreto del Presidente della Repubblica del 10 maggio 1955, in Archivio Enti Soppressi presso l’ispettorato generale di finanza (AES-IGF), ENAGM, b. Colonia Roio, 1966-68. (4) Fascicolo pubblicitario dell’ENAGM, La Colonia IX Maggio per i figli dei Marittimi (s.d.), in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1937-61. (5) Finamore 1884, p. 4. (6) Deliberazione del podestà del 19 luglio 1934, in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1936-38. (7) Relazione di Ettore Rossi del 15 giugno 1935, in ivi, 1934-43. (8) La struttura portante della colonia è in cemento armato sismo-resistente, con campate tra i pilastri di 4,5 x 5 metri. (9) Fascicolo pubblicitario dell’ENAGM, La Colonia IX Maggio…, in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia Montana di Rojo, 1937-61. (10) Pandolfi 2013. (11) Rossi realizza a Roma vari importanti interventi, tra cui il Pontificio Collegio Nord Americano sul Gianicolo (1926) e il complesso residenziale in viale delle Belle Arti (1929). (12) Nel 1935 Rossi progetta e realizza i padiglioni dell’Ottica, della Chimica e del Turismo all’Esposizione Universale di Bruxelles e, nel 1937, quello introduttivo e quello dell’ONMI all’Esposizione Nazionale delle Colonie Estive e della Cura dei Bambini, allestita a Roma al Circo Massimo da Adalberto Libera, Mario De Renzi e Giovanni Guerrini, dove si contano ben 492 edifici per le colonie climatiche. Vedi: Lavagnino 1937. (13) Labò, Podestà 1941. (14) Pagano 1937, pp. 24-25. (15) Dal 1940 la colonia IX Maggio accoglie 600 bambini libici ospiti del Ministero dell’Africa Italiana, poi è occupata dall’esercito italiano e da quello tedesco e, in seguito, ospita fino al 1949 profughi e sfollati dalla guerra. Negli anni successivi l’edificio è utilizzato solo sporadicamente fino al 1968, quando è acquistato dall’Università degli Studi dell’Aquila. Fig. 6 - Vista dall’alto dell’ex colonia, ristrutturata dopo gli anni Sessanta per accogliere la Facoltà d’Ingegneria dell’Università degli Studi dell’Aquila, e del nuovo complesso costruito negli anni Novanta (LIAP, fonte: https://it.wikipedia.org). (16) Relazione del rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila degli Abruzzi alla inaugurazione dell’anno accademico 1966/67, in AES-IGF, ENAGM, b. Colonia montana di Rojo, 1946-62. (17) Relazione del rettore…, ibidem. (18) Benedetti 2009. (19) Contini, Guerrucci 2003. Bibliografia Benedetti 2009 A. Benedetti, Un caso studio. Colonia montana a Poggio di Roio diventata sede della Facoltà di Ingegneria dopo il terremoto, in «Giornale do.co.mo.mo. Italia», 25, 2009. Ciranna, Montuori 2018 S. Ciranna, P. Montuori, Cambiare aria per guarire. Ospizi marini e luoghi di cura in Italia e in Abruzzo tra Ottocento e Novecento, in F. Capano, M. I. Pascariello, M. Visone (a cura di), La città altra. Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità, Napoli 2018, pp. 649-657. Contini, Guerrucci 2003 F. Contini, E. Guerrucci, Uno spazio compresso e disegnato. Intervista a Giulio Fioravanti e Gian Ludovico Rolli, in «Controspazio», 2003, 106, pp. 28-39. Finamore 1884 G. Finamore, L’ Abruzzo come stazione climatica, Lanciano 1884. Labò, Podestà 1941 M. Labò, A. Podestà, Colonie marine, montane, elioterapiche, in «Casabella-Costruzioni» 1941, 167. Lavagnino 1937 E. Lavagnino ( a cura di), Mostra nazionale delle colonie estive e dell’assistenza all’infanzia: il bambino nell’arte, Roma 1937. 111 Montuori 2019 P. Montuori, Al mare e ai monti contro il “mal sottile”. Tipologia, architettura e controllo ambientale dagli ospizi ottocenteschi alle colonie del Ventennio Fascista in Italia e Abruzzo, in S. Ciranna, A. Lombardi, P. Montuori (a cura di), La Storia incontra la scienza tra l’Abruzzo e il Texas. Architettura, Restauro e Controllo Ambientale del Costruito Storico. History meets Science between Abruzzo and Texas. Architecture, Restoration and Environmental Control of Historical Buildings, Roma 2019, pp. 65-78. Pagano 1937 G. Pagano, Una colonia montana, in «Casabella», 1937, 116, pp. 24-27. Pandolfi 2013 E. Pandolfi, Ettore Rossi (1894-1968) architetto del movimento moderno, Pesaro 2013. THE SHIFT IN FOCUS FROM HEALTH TO THE EDUCATION OF THE “BEST AND THE BRIGHTEST”: HOW THE HIGH-ALTITUDE HOLIDAY CAMP “IX MAGGIO” IN MONTELUCO DI ROIO BECAME THE ENGINEERING DEPARTMENT OF THE UNIVERSITY OF L’AQUILA The “Colonia IX maggio”, built in 1937 as part of the Fascist regime’s systematic strategy of the care and training of young people, is situated on Monte Luco di Roio, a hill about ten kilometers away from the city of L’Aquila. A relationship with the environment and the rationalist principles guided the architect Ettore Rossi in the design of the building, which displays an elegant, double-inflected architecture, but is also a “health machine”, the result of Rossi’s experience in the construction of modern monoblock hospitals. Used briefly at the outbreak of the Second World War, in the late Sixties the former holiday camp was converted for use by the University of L’Aquila’s Faculty of Engineering and subjected to significant alterations to adapt it to university education. In the Nineties it the faculty? or the former holiday camp? was transferred to a new complex nearby. Today (2020), the original building, with all its visible alterations, functional adaptions and the scars of the 2009 earthquake, faces the faculty’s three buildings. Strengthened and reactivated, it awaits solutions for restoration and reuse, as well as ways to re-stitch the small campus together. 112 PROGETTAZIONE E COSTRUZIONE DI CITTÀ UNIVERSITARIE SOTTO LE DITTATURE EUROPEE NELLA PRIMA METÀ DEL NOVECENTO Harald Bodenschatz Nel Novecento le nuove città universitarie rappresentarono un tema di grande rilievo sia in Europa che nelle Americhe. Le dittature europee della prima metà del Novecento hanno rivolto una particolare attenzione alla costruzione di nuove città universitarie: la Città Universitaria di Roma è indubbiamente l’esempio più noto. Ma nonostante il loro importante ruolo, le città universitarie vengono spesso trascurate nella storiografia dell’urbanistica, soprattutto quelle realizzate sotto le dittature. Sembra quasi che la progettazione di città universitarie non possa essere accostata all’immagine più diffusa delle dittature, che oggi appaiono retrograde, antimoderne, immobiliste, vere e proprie tombe della produzione scientifica. Un approccio, questo, che ignora il loro carattere complesso. Per imporre i loro programmi e realizzare i loro processi di modernizzazione, le dittature hanno avuto bisogno di esperti, soprattutto – e preferibilmente – di quelli che si erano formati nelle loro istituzioni. In seguito vorrei presentare tre città universitarie, che vengono spesso dimenticate perché si trovano in un paese piccolo e ai margini dell’Europa, il Portogallo. Non tratterò la Ciudad Universitaria di Madrid, che verrà analizzata in altri contributi all’interno di questo volume. Dopo aver parlato del Portogallo, affronterò la più importante città universitaria tedesca, progettata ma non realizzata: la città universitaria di Berlino. Il contributo è basato sui risultati di ricerche sull’urbanistica delle dittature, specialmente nell’Unione Sovietica (1), in Italia (2) e, naturalmente, in Germania (3). Recentemente ho diretto, insieme al mio collega professore Max Welch Guerra, un progetto di ricerca sull’urbanistica sotto le dittature di Salazar, in Portogallo, e di Franco, in Spagna. La nostra ricerca è oramai terminata e i risultati sono stati pubblicati in due libri. (4). Instituto Superior Técnico, Lisbona (5) In Portogallo, il primo politecnico venne fondato relativamente tardi, nel 1911. Si trattava dell’Instituto Superior Técnico, a Lisbona. Tuttavia, fu solo un anno dopo il colpo di stato militare del 1926 che cominciarono i preparativi per la costruzione di una città universitaria vera e propria. La realizzazione della nuova città universitaria venne imposta dal nuovo direttore dell’Instituto Superior Técnico, l’ingegnere José Duarte Pacheco, designato nel 1927. Lo strumento utilizzato fu una politica del suolo mirata: l’u- niversità acquistò terreni alla periferia di Lisbona, utilizzando un’area molto più estesa di quella necessaria per la nuova città universitaria. Dopo la sua urbanizzazione, i terreni non necessari vennero rivenduti a prezzo moltiplicato, operazione che permise il finanziamento per la costruzione della città universitaria: una strategia rischiosa, ma vincente. Questo successo contribuì in maniera significativa all’ascesa al potere del direttore dell’Instituto Superior Técnico: nel 1932, Duarte Pacheco divenne ministro dei Lavori Pubblici, carica che mantenne, eccezion fatta per una breve interruzione, fino alla sua morte improvvisa nel 1943, in un incidente automobilistico. Duarte Pacheco fu anche sindaco di Lisbona dal 1938 al 1943, ma soprattutto fu la personalità più influente nella produzione urbanistica della dittatura di Salazar. Pacheco incaricò nel 1928 un suo collega, l’architetto Porfírio Pardal Monteiro, di progettare la nuova città universitaria. Questa venne realizzata su una collina, con una struttura estremamente compatta e un carattere fortemente urbano. L’edificio principale (fig. 1), che ospita il rettorato, la biblioteca e l’auditorio, si trova lungo un imponente asse centrale, che porta ad una strada radiale di grande importanza. Si tratta dell’Avenida Almirante Reis, che andrà a collegare il centro della città, sulla riva del fiume, al nuovo aeroporto, che verrà realizzato negli anni successivi. Gli edifici laterali ospitavano soprattutto laboratori. La progettazione restò nelle mani di un solo architetto, che adottò un linguaggio formale per nulla imponente, bensì funzionale, semplice, certamente sobrio. La costruzione della città universitaria terminò nel 1937. L’università fu concepita come una sorta di corona urbana e venne realizzata in gran parte coerentemente al progetto originale. Un’altra caratteristica peculiare del progetto è quella legata alla strategia per il suo finanziamento, basata su una politica del suolo che speculava sull’aumento del valore dei terreni attraverso la loro urbanizzazione. L’Istituto Superior Técnico non fu solo la prima città universitaria costruita a Lisbona, o in Portogallo, ma anche una delle prime in Europa dopo la prima guerra mondiale. Cidade Universitária, Lisbona (6) La seconda città universitaria costruita a Lisbona sarà molto diversa dalla prima. I preparativi per la pianificazione iniziarono già nel 1930, ma solo nel 1935 si tro- 113 vò un’efficace struttura organizzativa. Nello stesso anno Porfírio Pardal Monteiro, progettista dell’Istituto Superior Técnico, ricevette l’incarico di progettare anche la nuova città universitaria. Nel 1937, Pardal Monteiro visitò, insieme al Ministro dei Lavori Pubblici e dei Trasporti Duarte Pacheco, alcune strutture universitarie in Algeria, Italia e Francia. A Roma visitarono la Città Universitaria e a Parigi la Cité Universitaire. Nel 1939 venne presentato pubblicamente il progetto di una nuova città universitaria a Lisbona. Basandosi sul modello di quella romana, Pardal Monteiro progettò un complesso di edifici compatto, in cui il rettorato e l’auditorio avrebbero costituito il centro della nuova città universitaria. Dopo alcuni cambiamenti, alla fine del 1941 Pardal Monteiro iniziò ad elaborare il progetto definitivo. Tuttavia, la morte precoce del potente ministro Pacheco, nel 1943, portò a un’interruzione del progetto. Anche se più avanti, nel 1952, lo stesso Pardal Monteiro poté riprendere i suoi piani, nel 1956 altri architetti, João Simões e Norberto Corrêa, furono incaricati di proseguire la realizzazione della città universitaria. Questi cambiarono radicalmente il carattere del primo progetto: si passò da un complesso di edifici compatto a un parco, in cui gli edifici universitari vennero collocati a grande distanza l’uno dall’altro. Oggi, il campus appare sconfinato: la struttura risulta poco comprensibile, data la dispersione e la distanza tra i vari edifici (fig. 2). L’Ospedale Universitario, nonostante sia poco integrato, costituiva e costituisce parte integrante della Cidade Universitária. Fu progettato dall’architetto tedesco Hermann Distel, che disegnò anche l’Ospedale Universitario di Porto. Entrambi gli ospedali ricordano fortemente l’architettura rappresentativa nazionalsocialista. Universidade de Coimbra (7) L’Università di Coimbra era la più importante e antica università portoghese. Già nel 1308 Coimbra divenne sede dell’università. Nel 1928, due anni dopo il colpo di stato militare, si iniziò a discutere della costruzione di una nuova città universitaria. Vennero esaminate le strutture di Parigi e Milano, ma anche la nuova città universitaria di Madrid. Dopo un lungo dibattito, si decise di non realizzare una struttura separata dal resto del contesto urbano, ma ubicata in città, sulla collina del centro storico, decisione che implicò importanti demolizioni nel tessuto antico. Il dittatore Salazar, che era professore a Coimbra, seguì con particolare interesse la costruzione della città universitaria. Inoltre, il potente ministro dei Lavori Pubblici, Duarte Pacheco, fu coinvolto direttamente nel progetto. Dopo una lunga discussione, l’architetto José Angelo Cottinelli Telmo, in quel momento uno dei più importanti architetti Fig. 1 - Lisbona, Instituto Superior Técnico, edificio del Rettorato, 2012 (foto dell’A.). 114 Fig. 2 - Lisbona, Ciudade Universitária, edificio del Rettorato, 2014 (foto dell’A.). della dittatura, venne incaricato di tradurre i desideri di tutti i partecipanti in un progetto generale. Nel febbraio 1942, nel mezzo della seconda guerra mondiale, la commissione per il progetto dell’Università di Coimbra chiese agli ambasciatori di Germania, Italia, Spagna e del regime di Vichy di inviarle informazioni sulla costruzione o ampliamento delle Università di Roma, Pavia, Firenze, Milano, Parigi, Heidelberg, Monaco di Baviera, Madrid, Salamanca e Valencia. Anche questa richiesta venne sorprendentemente soddisfatta e nello stesso anno Cottinelli Telmo presentó il suo progetto. Su questa base, vennero avviate le espropriazioni e iniziate le demolizioni di edifici storici. La nuova città universitaria venne progettata attorno ad un asse centrale, dallo spiccato carattere monumentale. All’inizio si trova una grande scalinata che conduce ad uno spiazzo con un’enorme statua del fondatore dell’università, il re Dom Dinis. L’arco di trionfo dietro alla statua avrebbe dovuto segnare poi l’ingresso nella zona universitaria vera e propria. Qui inizia un percorso pedonale, affiancato dagli edifici delle diverse facoltà (fig. 3), che termina davanti al portale del palazzo universitario storico, dove era stata progettata un’ulteriore piazza, con la nuova biblioteca centrale. Dietro il portale si apre l’antico patio dell’università. Per garantire dal patio una vista suggestiva sulla valle del fiume, venne demolito l’edificio storico dell’osservatorio astronomico. La nuova città universitaria venne costruita durante un periodo Fig. 3 - Universidade de Coimbra, Facoltà di Lettere, 2012 (foto dell’A.). 115 Hochschulstadt di Berlino Fig. 4 - Berlino, riorganizzazione del Grunewald. A nord la città universitaria e la Scuola di Guerra del Politecnico di Berlino (da «Architettura», agosto 1939, p. 492). molto lungo, di circa quarant’anni. L’ultimo edificio fu inaugurato soltanto nel 1975, dopo la caduta della dittatura, mentre l’arco di trionfo non fu mai costruito. La costruzione della città universitaria di Coimbra è stata resa possibile grazie alla mancanza di scrupoli delle istituzioni che si fecero carico del progetto e della realizzazione. La brutalità dei loro metodi era particolarmente evidente in tre aspetti: nei confronti degli edifici storici, che vennero demoliti in gran quantità, dei loro abitanti, obbligati con la forza a trasferirsi, e dei loro proprietari, che vennero espropriati. A causa della sua posizione, all’interno del centro storico, la città universitaria poteva essere ampliata solo in maniera molto limitata e attraverso processi di densificazione. Oggi, la città universitaria troneggia sulla città, dalla quale è però separata. Città e Università formano mondi paralleli, sia dal punto di vista urbano che sociale. Dal punto di vista architettonico, gli edifici della città universitaria sono, stranamente, decifrabili con difficoltà: né neoclassici né moderni, né imponenti né eleganti, senza dubbio austeri e alquanto goffi. Gli spazi tra gli edifici sono estesi e desolati, per nulla simili a quelli del centro storico. Nonostante tutto, nel 2014 la città universitaria è stata inclusa nella lista del Patrimonio UNESCO. 116 Ottanta anni fa, nel dicembre 1937, venne organizzato il concorso per uno dei più grandi progetti della dittatura nazionalsocialista a Berlino: la nuova città universitaria. Con questo gigantesco progetto, tutte le città universitarie esistenti nel resto d’Europa dovevano essere superate. Il concorso venne indetto dal Generalbauinspektor der Reichshauptstadt, Albert Speer. Il Generalbauinspektor era una potente istituzione, subordinata esclusivamente al cancelliere del Reich, Adolf Hitler. Venne fondata il 30 gennaio 1937, per poter pianificare velocemente e in maniera coerente la regione urbana di Berlino, evitando tutti gli ostacoli esistenti a livello comunale. L’obiettivo del concorso era, secondo l’annuncio del 1937, “la concentrazione di tutte le università di Berlino, ad eccezione dell’Accademia delle Belle Arti, in una grande città universitaria del Reich” (8). Il concorso non era rivolto solo agli architetti, ma a “tutti i tedeschi, che si sentissero chiamati a contribuire a questo importante progetto” (9), compresi quelli che vivevano al di fuori del Reich. Si sottolineò esplicitamente che il concorso mirava a coinvolgere “nuovi” partecipanti, anche giovani (10). Come a Roma. Al grande concorso “pubblico” doveva seguirne un secondo, “ristretto” (11), al quale dovevano partecipare i 15 migliori progetti del concorso aperto. Oltre a questi, il Generalbauinspektor doveva invitare 20 architetti di fama. I progetti per la fase a partecipazione ristretta del concorso dovevano essere consegnati entro il 1° agosto del 1938. I premi per il concorso erano molto cospicui: 50.000 marchi al primo progetto classificato, 20.000 al secondo e 10.000 al terzo. Nell’annuncio del concorso si sottolineava inoltre che il Führer in persona avrebbe selezionato i progetti vincitori. L’idea era di consultare i singoli concorrenti per l’attuazione del progetto, ovviamente sotto la guida del Generalbauinspektor. L’obiettivo era quello di costruire una sorta di città complessa, con il contributo di diversi architetti che dovevano lavorare sotto la direzione di un urbanista, responsabile dell’intero progetto, come avvenne per la città universitaria di Roma, per un periodo di realizzazione stimato in sei anni. L’obiettivo legato al progetto della nuova città universitaria era estremamente ambizioso: la nuova struttura doveva rappresentare la grandezza e l’importanza delle università di Berlino come “sede del più grande centro culturale tedesco” (12). Avrebbe costituito la “porta d’ingresso occidentale alla capitale del Reich” (13). Infatti l’area scelta per la nuova città universitaria si trovava al margine occidentale di Berlino, direttamente sull’asse Ovest, che, assieme all’asse Est e a quello Nord-Sud, avrebbe dovuto dare un nuovo ordine all’intera area metropolitana . Non lontano, sorgeva un altro importante impianto costruito nel periodo nazionalsocialista: il Reichssportfeld, il complesso sportivo che ospitò i Giochi Olimpici del 1936. Inoltre, sempre nelle vicinanze della futura città universitaria, si estendeva anche il Gru- newald, il più importante parco urbano di Berlino (fig. 4). Era evidente che “la vicinanza immediata del Reichssportfeld, del Grunewald, delle acque del fiume Havel avrebbe dato inoltre agli studenti l’opportunità di riposarsi fisicamente, fare esercizio motorio e rilassarsi intellettualmente” (14). La nuova città universitaria doveva essere organizzata attorno ad una piazza centrale, lo Scholzplatz. Essa formava una cerniera lungo l’asse ovest, perché a questo punto l’asse si piegava verso nord-ovest. Era stato progettato anche un ospedale universitario, enorme edificio disegnato da Hermann Distel, che in quel periodo si stava occupando anche della costruzione degli ospedali di Lisbona e Porto. Anche il progetto dell’ospedale berlinese era poco integrato nella città universitaria. Infine, più a est, sulla Heerstraße, era stata progettata la Stazione Mussolini. Tra i 700 progetti di architetti provenienti da tutto il mondo che parteciparono al concorso, ne vennero selezionati 20. Tuttavia il concorso non venne mai portato a termine e i vincitori non vennero proclamati. Ad oggi non esiste ancora nessuna ricerca approfondita su questo importante progetto. Poco prima dell’annuncio del concorso per la città universitaria, ebbe luogo un primo atto formale a sostegno della strategia di realizzazione di una struttura universitaria ancora più estesa, nella parte occidentale di Berlino: la posa della prima pietra dell’edificio della Scuola di Guerra del Politecnico di Berlino (fig. 5). Questa facoltà nacque come estensione dei dipartimenti del Politecnico di Charlottenburg che si occupavano di aspetti tecnici per conto della Wehrmacht tedesca. La posa della prima pietra avvenne 80 anni fa, il 27 novembre 1937. In occasione di questo atto, Hitler rese noto che la Scuola di Guerra si doveva inserire nel quadro di un nuovo complesso universitario. Così, nello stesso 27 novembre, venne pubblicamente annunciato il progetto di una città universitaria. La posa della prima pietra dell’edificio della Scuola di Guerra fu un atto importante anche da un altro punto di Fig. 5 - Plastico della Scuola di Guerra del Politecnico di Berlino (da «Architettura», agosto 1939, p. 499). vista. Può, anzi deve essere intesa come l’inizio di una profonda riorganizzazione della capitale del Reich, pianificata da Hitler e Speer. Il discorso del Führer in questa occasione sottolineava questo aspetto simbolico: “per questo sono fermamente risoluto a far costruire a Berlino quelle strade, edifici e piazze, che la renderanno per sempre degna di essere la capitale del Reich tedesco … Con questa sacra convinzione poso ora la prima pietra della Scuola di Guerra, la prima costruzione che verrà eretta per assecondare questi piani. Dovrà diventare un monumento alla cultura tedesca, alla conoscenza tedesca e alla forza tedesca” (15). I lavori per la costruzione della Scuola di Guerra del Politecnico de Berlino andarono avanti fino al 1944, poi vennero sospesi. Dopo la guerra, le macerie di edifici distrutti furono accatastate sul cantiere della Scuola di Guerra e lì rimasero per più di 20 anni. Il risultato fu la collina più alta di Berlino, il Teufelsberg (collina del Diavolo), alta 114 metri. Sotto questa collina sono seppelliti i resti della Scuola di Guerra. Berlino contro Roma e viceversa Le città universitarie rappresentarono progetti di prestigio, a livello nazionale, per le dittature europee. La loro progettazione aveva però, sempre, un carattere fortemente internazionale. Gli architetti incaricati rielaboravano le esperienze organizzative e di progettazioni di altre città europee. Il modello più importante, cui si faceva riferimento e che si mirava a superare, era la città universitaria di Roma. Roma e Berlino erano in grande concorrenza, questo si esprimeva anche nel difficile rapporto tra Marcello Piacentini e Albert Speer. Quello che Piacentini pensava dell’architettura del Terzo Reich, fortemente influenzata da Speer, lo ha consegnato, con toni diplomatici, ai posteri. Nel numero speciale della rivista “Architettura” (agosto 1939), sul tema “L’Architettura nel Terzo Reich”, curato da lui stesso, scriveva: “Il metro d’oggi in Germania è fatto di mille centimetri… L’architettura è volutamente ufficiale…In quei pilastroni scanalati, non rozzi, ma forti, maschi, ci vedi un temperamento militare, e ti sembra di doverli passare in rivista, così tutti allineati, come in divisa. Il giudizio su questo movimento non può ancora darlo nessuno; dobbiamo attenderne il regolare sviluppo” (16). (1) Bodenschatz, Post 2003 (2015). (2) Bodenschatz 2011; sulle celebrazioni per gli 80 anni della Città Universitaria di Roma cfr. anche Bodenschatz 2018a. (3) Cfr. ad esempio Bodenschatz 2018b; su questo argomento cfr. anche Bodenschatz, Welch Guerra, Sassi 2015. (4) Bodenschatz, Welch Guerra 2019; Welch Guerra, Bodenschatz 2019. Al progetto hanno lavorato i nostri assistenti Christian von Oppen e Piero Sassi. Questo contributo è in parte 117 basato sui risultati della loro attività scientifica. Vorrei ringraziare anche Fabiana Ferro, studentessa dell’Università Bauhaus di Weimar, che ha tradotto il testo del mio intervento. (5) Cfr. Oppen 2019. (6) Ibidem. (7) Ibidem. (8) Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937, p. 1095. (9) Ibidem. (10) Ibidem. (11) Wettbewerb Hochschulstadt 1937, p. 6. (12) Ibidem. (13) Ibidem. (14) Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937, p. 1095. (15) Hitler 1937, p. 4. (16) Piacentini 1938, p. 468. Bibliografia Bodenschatz, Post 2003 (2015) H. Bodenschatz, C. Post (a cura di), Städtebau im Schatten Stalins. Die internationale Suche nach der sozialistischen Stadt in der Sowjetunion 1929-1935, Berlin 2003; ed. russa: Харальд Боденшатц/Кристиане Пост (сост.), Градостроительство в тени Сталина. Мир в поисках социалистического города в СССР 1929-1935, СанктПетербург 2015. Bodenschatz, Welch Guerra, Sassi 2015 H. Bodenschatz, M. Welch Guerra, P. Sassi (a cura di), Urbanism and Dictatorship: A European Perspective. Basel 2015. Der Wettbewerb für die neue Berliner 1937 Der Wettbewerb für die neue Berliner Hochschulstadt, in «Bauwelt», 1937, 48, p. 1095. Bodenschatz 2011 H. Bodenschatz (a cura di), Städtebau für Mussolini. Auf der Suche nach der neuen Stadt im faschistischen Italien, Berlin 2011. Hitler 1937 A. Hitler, Rede anlässlich der Grundsteinlegung zum Neubau der Wehrtechnischen Fakultät der Technischen Hochschule Berlin am 27. November 1937, in Wettbewerb Hochschulstadt Berlin, Berlin 1937, pp. 3-4. Bodenschatz 2018a H. Bodenschatz, 80 Jahre La Sapienza oder: Weisheit auf Italienisch, in «Bauwelt», 2018, 2, pp. 6-7. Oppen 2019 C. von Oppen, Technische Hochschule, Universitätsstadt, Coimbra: Portugiesisches Heidelberg, in Bodenschatz, Welch Guerra 2019 Bodenschatz 2018b H. 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THE DESIGN AND CONSTRUCTION OF UNIVERSITY CAMPUSES UNDER EUROPEAN DICTATORSHIPS DURING THE FIRST HALF OF THE 20TH CENTURY University cities were a national prestige project for European dictatorships during the first half of the 20th century. Their preparation was, however, internationally oriented. The architects processed the experiences of other European cities. The “Città Universitaria” in Rome is the most famous example. Also well known is the “Ciudad Universitaria” in Madrid. Less attention has been paid to the three new university cities in Salazar’s Portugal: the “Instituto Superior Técnico” of Lisbon, then the “Universidade de Coimbra”, the first domain of Salazar, and finally the “Universidade de Lisboa”. The planned “Hochschulstadt” of the Nazi dictatorship in Berlin is also largely unknown outside of specialist circles. Rome and Berlin were in a tough urban design competition. The project of the university city in Berlin should be considered in response to the “Città Universitaria” in Rome. 118 LE UNIVERSITÀ CALIFORNIANE DEL NOVECENTO Diane Yvonne Francis Ghirardo Le prime università in America seguirono quelle europee, in quanto servivano principalmente all’educazione di ecclesiastici, notai, avvocati e altri funzionari dello stato (1). La prima università delle colonie britanniche nelle Americhe, Harvard, nacque nel 1636 in una modesta casa familiare al confine della regione selvaggia dell’ovest. All’inizio del Settecento un insieme di edifici con muri esterni timpanati furono ambientati in un grande giardino e disposti attorno ad uno spazio aperto, il Quad, in memoria degli edifici ecclesiastici di Oxford e Cambridge (2), dove gli studenti parlavano solamente latino. L’architettura d’ispirazione vagamente medioevale del primo Settecento sparì nei decenni seguenti, quando l’università abbracciò lo stile Georgiano per Massachusetts Hall, mentre nei nuovi edifici si iniziò ad adottare lo stile del Rinascimento italiano (3). Non lontano da Harvard, nel 1701 fu stabilita l’università di Yale, con un campus in stile gotico austero seguito dal neo-gotico (4). Con gli edifici principali disposti attorno ad uno Quad, Yale assomigliava a Harvard e ad altre università fondate prima della rivoluzione industriale, sempre legandosi al modello ‘Oxbridge’ delle università inglesi di Oxford e Cambridge (5). Nell’adoperare questa tipologia, le università americane confermavano una concezione dello studio universitario indirizzato ad educare gli ecclesiastici e i servitori dei governi, o i gentiluomini dotati di mezzi sufficienti per evitare la necessità di lavorare (6). Il concetto di produzione di novità nelle università americane nacque nel Settecento, nell’epoca dell’Illuminismo, diventando sempre più importante negli anni della Rivoluzione Industriale con la crescita di università pubbliche e private, che proseguì nella seconda metà dell’Ottocento. Non era più possibile contenere tutto il mondo della sapienza nel corpus degli studi umanistici e la preparazione del corpo ecclesiastico tenuto a svolgere il ruolo di pastore per la nuova società ideale in un mondo nuovo. Nel corso del mezzo-secolo successivo, le università private aggiungevano le facoltà di medicina, di ingegneria, di scienza, di biologia ed altre materie che rispondevano ai cambiamenti introdotti dalla Rivoluzione Industriale. Questa trasformazione si legò alle discipline accademiche e ad una nuova visione dell’unità della sapienza, non più espressa dalla centralità della filosofia morale bensì dalla separazione della scienza dalla religione, con conseguente marginalizzazione della religione e dell’importanza dell’etica negli studi universitari (7). Lo sviluppo dell’architettura e la pianificazione delle università americane del Novecento con la nuova enfasi sulle scienze esprime questa cesura tra le scienze, le professioni e gli studi umanistici, da una parte, e gli studi religiosi dall’altra, resi sempre più marginali nel corso del secolo. In questa relazione verranno prese in considerazione alcune delle università della California che risalgono agli ultimi anni del XIX secolo e ai primi anni del Novecento. Due sono università pubbliche: l’University of California a Berkeley e a Los Angeles, mentre altre tre sono private: l’University of Southern California, la Stanford University, e la Golden Gate University. In origine le aule di Berkeley furono ambientate nella vicina città di Oakland (8). A partire dal 1870, vennero eretti nuovi edifici su grandi appezzamenti terrieri, al tempo acquistati per edificare un college privato che doveva fondersi come scuola di agraria. Il sito era caratterizzato da colline, gole, alberi di querce e i primi edifici erano piuttosto modesti. Costruiti senza un piano regolatore preciso, si mescolavano costruzioni in legno in stile Gotico-Vittoriano con altre in stile secondo impero o in un modesto stile neoclassico (fig. 1). Phoebe Hearst sosteneva la costruzione di un ginnasio per le donne. Esso venne progettato da Bernard Maybeck, mentre gli interni vennero ideati dalla sua exstudentessa Julia Morgan, riprendendo lo stile grazioso in legno già visto nel tipico ‘bungalow californiano’ (9). Dopo la sua distruzione in un incendio nel 1922, il figlio William R. Hearst commissionò in memoria della madre una nuova struttura, l’Hearst Memorial Gymnasium (1923-1927), chiamando a progettarlo ancora Maybeck e Julia Morgan. Gli architetti decisero di cambiare l’indirizzo stilistico della prima versione e di sceglierne uno più attuale, basato su un classicismo moderno “stripped”. Il progetto privilegiava il grande volume del ginnasio con grandi muri e ampi spazi nudi, grandi colonne raddoppiate, finestre a doppia altezza marcate da lesene, grandi fregi e colonnette di bronzo. Nel 1898 la Hearst organizzò un concorso internazionale ad Anversa per scegliere undici architetti per partecipare in seguito a un secondo concorso finale con proposte personali. Queste proposte seguivano i principi di pianificazione assiale e la disposizione delle masse secondo i paradigmi dell’architettura classicizzanti dell’Ecole des Beaux Arts (10), ma l’unico a non recarsi in California fu proprio il vincitore, Emile Benard di Parigi. Vinto il concorso, si recò subito in California, ma quando venne a sapere che sarebbe passato almeno un decennio per costruire solo i primi edifici, il suo comportamento, arrogante e presuntuoso, si rivelò un affronto per tutti, ad iniziare dalla Hearst. Fu così che venne revocata la scelta che fu poi assegnata a John Galen Howard, il quale seguì l’indirizzo stabilito da Benard per una pianta ‘Beaux Arts’, introducendo alcuni cambiamenti. 119 Fig. 1 - University of Berkeley. Panorama, ca 1900. Fig. 2 - Fredrick Law Olmsted. Progetto per la Stanford University, 1888. La sua visione comprendeva la formazione di un ambiente in stile italiano, che aveva l’obiettivo di ricreare in California il sogno di un nuovo Mediterraneo sulla costa del Pacifico, ispirato al clima, al paesaggio e alle grandi aspirazioni della nuova Università. Il primo edificio costruito da Howard fu the Hearst Memorial Mining Building, che richiamava chiaramente alcuni ambienti della Bank of England di Sir John Soane. Il Benard, invece, vinse un concorso per la biblioteca Doe nel 1901, un progetto neo-classico portato 120 a termine nel 1911 che rimane il suo capolavoro. Benard si era lasciato ispirare da alcuni elementi caratteristici di biblioteche famose, come ad esempio quella realizzata da Christopher Wren a Cambridge (11). La University aprì nel 1919 un campus più a sud, nell’allora zona residenziale a sud del downtown di Los Angeles, inizialmente come scuola per futuri insegnanti, il cui programma prevedeva solo due anni di studio. Dieci anni dopo, i direttori dell’Università decisero di svilupparla in un’area Fig. 3 - University of Southern California. Ralph C. Flewelling, Mudd Memorial Hall, cortile, 1938. Fig. 4 - University of Southern California. Ralph C. Flewelling, Harris Hall, 1940. di Westwood. L’architetto capo, George Kelham, progettò i primi quattro edifici, tra cui il più importante era la Royce Hall (1929). Il secondo edificio rimarchevole era la Powell Library, sempre di Kelham, che, come la Royce, era costruita secondo lo stile Romanico. Gli architetti si erano liberamente ispirati ad alcuni edifici del nord Italia, in particolare alla chiesa di S. Ambrogio a Milano. La Kerckoff Hall di Allison e Allison (1928), invece, era ispirata ad uno stile gotico più nordico. Man mano che il campus cresceva, specialmente durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, lo stile Romanico era considerato troppo costoso, per cui per la costruzione della successiva ondata di edifici furono proposte versioni più moderate, anche se spesso ci si riferiva in maniera astratta agli stili dei primi edifici. Notevole fu la differenza tra il campus di Berkeley rispetto a quello della nuova università di Leland Stanford, la Stanford University, la prima grande università privata fondata nel 1887 a sud di San Francisco sul sito dell’allora Palo Alto Stock Farm (12). Nonostante il fatto che i fondatori avessero una certa predilezione per l’architetto Henry Hobson Richardson, la loro scelta per il piano regolatore ricadde sul famoso architetto-paesaggista Frederick Law Olmsted, che però morì proprio nel 1888 (13). Passato dunque in gestione allo studio Shepley Rutan e Coolidge, il progetto prevedeva tre grandi cortili con portici ad archi ribassati, colonne massicce, tetti di tegole rosse, impiego di una lucida pietra arenaria locale (fig. 2). Molto legati all’Italia dove morì l’unico figlio, Leland Stanford junior, i genitori scelsero uno stile architettonico simile al tipico monastero medioevale italiano, ovvero la sua versione trapiantata in California. Tra gli edifici più importanti del cortile centrale è da segnalare la Memorial Church, completata nel 1905. Sebbene la chiesa fosse stata disegnata da Shepley Rutan e Coolidge, il progetto finale si deve all’architetto Clinton Day di San Francisco. Gli ampi mosaici sulla facciata e gli interni furono ideati e prodotti da Maurizio Camerino a Venezia e poi spediti negli Stati Uniti. La cupola è posta su pennacchi; in origine comprendeva una torre, gravemente danneggiata nel terremoto e mai ricostruita. I committenti insistevano per avere un grande arco all’entrata del cortile, che gli architetti furono costretti a costruire nonostante la loro avversione inziale. Nel 1906 il terremoto di San Francisco fece crollare una parte dell’arco della porta che non è mai stato ricostruito. Va notato che Leland Stanford prese in considerazione di costruire il cortile interno su larghe fondamenta, disposizioni poi ignorate per le successive costruzioni dopo la sua morte, che invece subirono i danni minori a seguito dei terremoti di San Francisco nel 1906 e di Loma Prieta nel 1989. Le costruzioni successive aggiunte all’Università, in particolare sul lato ovest del campus, dove si trovano i dipartimenti di Scienze, Ingegneria e Medicina, si sono allontanate dallo stile romanico per allinearsi a gusti più moderni, anche se spesso si è cercato di richiamare le allusioni medioevali del primo Quad. Viceversa, gli edifici costruiti più recentemente ritornano allo stile romanico delle origini, anche se nessuna costruzione tra le altre opere di architettura si è al momento particolarmente distinta. A parte un inizio simile a quelli di Harvard, Berkeley e tante altre nuove università americane, la University of Southern California, fondata nel 1880 in collaborazione con la chiesa metodista (14), ebbe uno sviluppo nei primi ottant’anni che seguì uno stile medioevale. L’università immaginata dai fondatori consisteva in una serie di programmi di arti liberali, ingegneria, salute e scienze. La sua missione venne dichiarata nel 1880 e comprendeva l’insolita disposizione secondo cui a nessuno studente sarebbe stato negata l’ammissione a causa della razza, così come le donne erano ammesse. Inizialmente costruiti su terreni agricoli a sud del centro della città, i primi edifici della USC erano strutture in legno relativamente semplici o strutture in mattoni, come Widney Hall, inaugurata nel 1880. Come si nota dalla mappa e dalle fotografie, nei primi anni della sua esistenza l’università fu attraversata da strade cittadine e divenne centro di un traffico automobilistico abbondante. 121 Nel 1919 John Parkinson sviluppò un nuovo piano regolatore per l’Università, proponendo dodici nuovi edifici. A quel tempo, l’Università decise di allinearsi in architettura allo stile romanico italiano, emblematicamente evidente in numerosi edifici, quali ad esempio il Rettorato Bovard (1921), la biblioteca Doheny di Ralph Adams Cram (1928) e la Mudd Memorial (1929) (fig. 3). Questa scelta stilistica aveva lo scopo di ricreare un ‘tipico’ monastero toscano, completo di campanile, di cortile colonnato, di biblioteca con un’abside e vetrate, come se fosse una chiesa monastica. Il progetto dell’architetto Ralph Flewelling per Harris Hall nella facoltà di Architettura adottò invece uno stile dal sapore moderno semplificato, razionalizzando molte delle caratteristiche tradizionali come le cornici delle porte, il cortile, le bande alternate di mattoni e pietra e, sulla trabeazione, un affresco socialista-realista che celebrava la storia della civiltà (fig. 4). La Seconda Guerra Mondiale segnò un cambiamento nelle università, sia negli indirizzi accademici sia semplicemente di dimensioni. L’arrivo degli ex-combattenti con finanziamenti statali (GI Bill) e la necessità di affrontare la guerra fredda e le nuove ricerche scientifiche per il complesso militare-industriale portò ad un ampio ingrandimento di quattro delle cinque università. La sorpresa dell’iniziativa spaziale russa con lo Sputnik, nel 1957, diede un impulso alla ricerca scientifica a beneficio delle università, mentre l’arrivo dei baby boomers dopo il 1965 richiese una spinta ancora più forte e tempestiva per tutte le facoltà universitarie (15). All’inizio si tentò di adottare motivi tradizionali in lingue moderne, come nel caso della UCLA, dove anche in tempi recenti si è continuato ad utilizzare i mattoncini rossi, una pietra chiamata ‘buff stone’ e terracotta, già utilizzate nei primi edifici, come il Genetics Building di Venturi, Scott, Brown e nella Herb Alpert Music School di Kevin Daly, che ha mantenuto il tradizionale utilizzo di mattoni, buff stone e terracotta, anche se orchestrati in un linguaggio molto più contemporaneo. Comunque, la mediazione tra la tradizione e il gusto moderno non durò a lungo. Presso la USC il nuovo piano regolatore di William Pereira seguiva i principi standard della pianificazione modernista, chiudendo le strade e tenendo separati pedoni e automobili, spostando il parcheggio sul perimetro e inserendo ampi spazi verdi. Il progetto aveva l’obiettivo, infatti, di riqualificare il campus con una serie di cortili, o piazze quadrate, dando così inizio ad un’epoca in cui la tradizione neo-romanica si spostava a favore di edifici progettati in stili architettonici moderni, come nella Gould School of Law di A.C. Martin (1970). La Gould segnò il passaggio alla costruzione di nuovi edifici brutalisti per il campus, ad esempio la Watt Hall (1974) di Edward Killingsworth e Samuel Hurst. Se questa scelta di sviluppare lo stile brutalista fosse legata alla Ribellione di Watts di 1965 rimane una domanda aperta. Negli ultimi anni, il presidente dell’università Nikias ha orientato lo stile architettonico verso il modello medievale-romanico ampliato con ‘steroidi’, come il Tutor Campus Center e il nuovo “villaggio” Universitario. Tra le più importanti delle strutture recenti c’è la Facoltà dell’Arte del Cinema, finanziata da George Lucas il quale odiava la noiosa scatola modernista della precedente scuola di cinema. Il capocantiere personale per i suoi film, Tom Brady, si impegnò a realizzare gli schizzi di edifici medievali preparati da Lucas. Seguendo le orme delle altre università, anche la Stanford vacillò tra il tentativo di mediare tra stili tradizionali e altri moderni e la ricerca di stili architettonici alla moda, come nella nuova facoltà di Storia dell’Arte di Diller e Scofidio (fig. 5). Fig. 5 - Oshman Diller Scofidio + Renfro. McMurtry Hall, Stanford University, 2015 (foto dell’A.). 122 Fig. 6 - Golden Gate University, Golden Gate Avenue, San Francisco. Di tutte le università analizzate sinora qui, soltanto la Golden Gate è rimasta coerente con la sua missione iniziale. La Golden Gate University iniziò la sua vita istituzionale con lezioni serali tenute presso la YMCA (Young Men’s Christian Association) a San Francisco durante la Gold Rush, formalmente fondata nel 1901. Si è poi occupata di organizzare corsi serali per studenti che volevano studiare giurisprudenza ma i cui lavori diurni impedivano loro di frequentare un’università in modo regolare o di studiare presso uno studio legale senza essere pagati per diversi anni; le sue lezioni si tenevano di notte. Essa ha offerto fin dall’inizio una formazione professionale, prima in giurisprudenza e poi in business, contabilità, tassazione ed altre professioni. Fin da subito ha ammesso donne e persone di colore. Va notato che questo era in netto contrasto con le università private della costa orientale americana, dove le donne non furono ammesse ai programmi universitari di Harvard alla pari con gli uomini fino al 1977. Il primo edificio della Golden Gate era posto all’interno della YMCA di San Francisco, dove si trovavano le scuole di giurisprudenza e di contabilità. La scuola rimase fino al terremoto del 1906, quando l’incendio distrusse gran parte dell’edificio della YMCA, la quale nel 1910 si trasferì nell’edificio sulla Golden Gate in una struttura in muratura. Questo edificio venne sempre condiviso con la YMCA. L’università si trasferì alla sua posizione attuale sul viale Mission nel 1968, nell’edificio l’Allyne Building, seguito dal progetto di William Podesto & Associates per una nuova struttura distaccata dalla YMCA nel 1977, in stile neo-brutalista ma sempre inglobato dai grattacieli della vivace downtown di San Francesco (fig. 6). Tra le sue caratteristiche più singolari, la Golden Gate ha sempre mantenuto (e continua a farlo) programmi serali per chi lavora. Come abbiamo visto, con la singolare eccezione della Golden Gate, l’architettura di tutte le università era ispirata interamente a modelli europei e a quelli appartenenti alla costa orientale, con una breve parentesi negli anni ’60 e ’70. Infatti, proprio quando il nuovo campus universitario di Roma fu costruito in uno stile moderno da Piacentini, Pagano e altri, in California tutte le scuole, eccetto la Golden Gate, stavano perfezionando entusiasticamente le loro versioni del romanico italiano ovvero, medievale toscano. Tutte le università pubbliche e private spesero considerevoli energie nella raccolta di fondi per erigere nuovi edifici universitari per soddisfare le nuove esigenze in campi come la bioingegneria ancora una volta, ad eccezione della Golden Gate, la cui energia rimase coerente in alcuni campi professionali. Tutte le altre scuole hanno residenze per permettere agli studenti di vivere nel campus, e quindi forniscono anche molte altre strutture, come sempre lo stadio. Golden Gate è una scuola professionale, quindi non è munita di sport, dormitori e neppure di tutte le altre strutture tipiche delle altre università; gli studenti possono invece usufruire delle possibilità offerte dalla città stessa. Tuttavia, è l’unica delle scuole situate direttamente nel centro di una città, anche se ci sono altre università private più lontane dal downtown di San Francisco. È forse questa la caratteristica più notevole di queste università della California. Con abbondanti aree urbane e rurali, in tutti i casi tranne quello della Golden Gate amministratori e fondatori hanno scelto di portare gli studenti lontani dalla corruzione e dalle delizie della città, seguendo una lunga tradizione di sentimenti anti-urbani già sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti. Persino la USC, pur sostenendo di essere un’università urbana, si trova in realtà nel mezzo di un’area suburbana di case e appartamenti costruiti nel primo Novecento, occupati pre- 123 valentemente da neri e messicani. In ogni caso, negli anni successivi alla ribellione di Watts, la USC iniziò la costruzione di barriere e porte per controllare l’accesso veicolare all’università e per rendere possibile la chiusura totale nel caso di una ribellione. Molto più recente invece è la chiusura anche al traffico pedonale dalle 21 alle 6 di mattina - quando, per altro, tutti gli edifici e le strutture del campus sono accessibili solo a chi ha la carte d’identità dell’università. La stessa paura della città che ha spinto le altre tre università ad essere fondata lontano dalla città spinge la USC a chiudersi contro la città. Un cinema e una sala da bowling facevano parte della vecchia University Village, quando però si propose di rifarli nel nuovo quartiere, il presidente negò con intransigenza l’idea, perché a suo giudizio avrebbe portato “gente sbagliata” nel quartiere. Soltanto la Golden Gate ha prosperato nella sua posizione centrale, in quanto non solo è facilmente accessibile ai residenti della città, ma attrae studenti provenienti dalla penisola e dalle città limitrofe. Le altre quattro università, come molte altre nello stato della California, rimangono affascinanti perché il campus universitario è simile per certi versi a un monastero, incontaminato da forze esterne e di aspetto altero grazie al recupero di modelli medievali di università celebri in Italia, Inghilterra e Francia, così in progetto come in architettura. Tuttavia l’immagine non quadra con la realtà, perché oramai lo studente viene considerato un consumatore e l’università la tavola grande dove si può scegliere secondo il proprio gusto: in questo modo l’università è tenuta a provvedere e a soddisfare tutti gli appetiti. (1) Rudolph 1990; Geiger 2014. (2) Bunting 1998. (3) Ivi, pp. 15-26. (4) Boris 1988; Clark, Crook 1995. (5) ‘Oxbridge’ (Oxford + Cambridge) esprime l’organizzazione dell’università in collegi con edifici storici prevalentemente di gusto gotico, disposti in piccole comunità dove gli studenti vivono e studiano. (6) Geiger 2014, pp. 25-31. (7) Reuben 1996. (8) Pelfrey 2004. (9) Boutelle 1995. (10) Drexler 1977. (11) Helfand 2002. (12) Turner 1984. (13) Fein 1973. (14) In sintesi la Universsity of Southern California fu gestita con presidenti ministri metodisti fino al 1952, quando l’affiliazione con la chiesa fu abbandonata definitivamente. (15) Muthesius 2001, pp. 13-15; Kerr 1963. Bibliografia Boris 1988 E. 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Two major private universities and three private ones serve as models for the range of approaches taken to address the demands of a new curriculum. Only one private university, Golden Gate University and, to a lesser extent, the University of Southern California, remained integrated within an urban setting, 124 DAL CHIOSTRO AL CAMPUS: PROGETTAZIONE DELLE UNIVERSITÀ AMERICANE Steven W. Semes La Città Universitaria, un complesso di edifici specificamente progettato e realizzato nel 1932-35 per ospitare la sede dell’Università di Roma “La Sapienza”, è una novità nello sviluppo storico delle università italiane le quali, come altre nel continente europeo, erano collocate in edifici destinati ad altri scopi e disperse tra i quartieri della città, quindi comunità inserite nel tessuto urbano, come a Bologna o Parigi. La nuova sede della Sapienza richiama le istituzioni anglosassoni, dove studenti e docenti lavorano in relativa indipendenza dalla città. Essendo state fondate in associazione con comunità religiose, le università britanniche hanno mediato le forme dai monasteri medievali, con le diverse attività collocate intorno un chiostro o quadrangle. Le sedi delle facoltà di Oxford e Cambridge conservano ancora questo carattere di chiostro, anche se i tipi e gli stili degli edifici hanno subìto cambiamenti nel corso dei secoli (1). Un simile modello fu adottato nelle colonie inglesi in America, dove furono costruiti complessi di edifici dentro le città ma distinti dai loro centri. Tali edifici venivano collocati intorno ad uno spazio aperto che richiamava il chiostro o quadrangle degli esempi inglesi, come ad Harvard, la prima università fondata nelle colonie (2) e come anche a Yale, William and Mary, Princeton ed altre università contemporanee (3) (fig. 1). Una seconda differenza tra le istituzioni del mondo anglosassone e quelle europee va rilevata nel fatto che nelle prime gli studenti erano prevalentemente alloggiati negli edifici dell’università, assumendo così gli edifici stessi un carattere residenziale oltre che istituzionale. Il “villaggio accademico” di Thomas Jefferson nell’Università della Virginia, realizzato tra il 1819 e il 1826, ci offre un diverso modello, una comunità quasi utopistica situata in un idilliaco paesaggio rurale: studenti e professori vivono e lavorano insieme dietro il lungo colonnato che si affaccia sui due lati del prato centrale, uno spazio aperto e alberato, per un’immagine perfetta di una comunità di uguali. Il prato sale leggermente lungo una collina in cima alla quale domina la Rotunda, monumento ispirato al Pantheon di Roma e che contiene la biblioteca. Il prato, The Lawn in inglese, è più una sorta di percorso che un quadrangle, con un carattere che somiglia ad un villaggio piuttosto che ad un chiostro. Come alcune delle intentional communities nel Nuovo Mondo, ossia comunità fondate dal nulla da leader di società o gruppi religiosi, l’idea di Jefferson era essenzialmente urbana, nel senso che si voleva un insediamento denso su un piano rego- larmente geometrico, ma anche posto in relazione con un circostante paesaggio civile e coltivato. Dobbiamo ricordare che Jefferson era un illuminista, non un romantico: la vista importante per lui non era quella dalla Rotunda verso il paesaggio, ma quella dal paesaggio verso la Rotunda, a simboleggiare il tempio della sapienza (4) (fig. 2). Purtroppo, alla fine dell’Ottocento, la lettura del sito è stata cambiata: la Rotunda fu ricostruita dopo un incendio e l’ingresso del campus spostato alle sue spalle. In questo modo la vista del paesaggio venne chiusa con l’aggiunta di tre edifici accademici all’estremo opposto. Il carattere aperto del ‘villaggio accademico’ fu alterato divenendo una composizione chiusa e tutte le espansioni nel ventesimo secolo continuarono ad allontanarsi dall’originario modello urbano (5). Nel Novecento, il campus americano si è ispirato ad entrambe queste tradizioni, a volte combinandole, a volte aggiungendo elementi nuovi. Gli architetti McKim, Mead & White, gli stessi che hanno trasformato l’Università della Virginia, nel 1893 hanno redatto un piano regolatore per la Columbia University di New York nello stile neo-romano classico, con uno spazio centrale ispirato ai Fori Imperiali e dominato dalla biblioteca (nella posizione del tempio principale e sormontata da una cupola), intorno alla quale sono collocate le altre strutture per le lezioni e gli alloggi, inframmezzati da cortili. Il piano ha creato un superblock con gli edifici posti su una piattaforma che rende ancora più isolato il campus dalle vie della città che lo circondano (6) (fig. 3). Un asse principale organizza formalmente gli edifici e gli spazi aperti, mentre un asse secondario perpendicolare al primo, continuazione pedonale di una via cittadina, costituisce l’entrata principale al campus. L’intero complesso diventa una sorta di acropoli accademica e il suo nobile isolamento ci restituisce un’immagine opposta al ‘villaggio accademico’ di Jefferson, con il suo confine più sfumato tra università e paesaggio circostante. Virginia e Columbia, rispettivamente, rappresentano due poli della pianificazione del campus americano: l’idilliaco, quasi utopistico villaggio e la cittadella urbana. Questi due modelli ebbero la possibilità di essere combinati, come avviene nel progetto di Emile Bénard per l’Università di California a Berkeley, risultato di un concorso vinto nel 1897 dall’architetto francese, alunno della Ecole des Beaux-Arts di Parigi, ma realizzato dall’architetto americano John Galen Howard. Qui la disposizione classica degli edifici lungo un asse centrale si combina con 125 Fig. 1 - Harvard College, 1720, stampa storica (New York Public Library Digital Collections, The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Print Collection, NYPG97F564). un paesaggio romantico, scendendo lo stesso asse centrale verso una vista stupenda della baia di San Francisco. Il ricordo dei templi classici nel pittoresco paesaggio preso in prestito dai quadri di Claude Lorrain o Nicolas Poussin dà un carattere poetico all’ambiente in cui sono stati inseriti gli eleganti edifici di Howard, Bernard Maybeck, Julia Morgan ed altri architetti (7). Nel primo Novecento altre università ricercarono modelli alternativi, come la cosiddetta Cathedral of Learning dell’Università di Pittsburgh progettata da Charles Klauder nel 1925, un grattacielo di 42 piani che contiene aule ed uffici basato sulle torri medievali francesi. Nella stessa città si costruirono gli edifici per la CarnegieMellon University, un complesso a carattere industriale, progettati nel 1904 da Henry Hornbostel appositamente con l’intenzione di riconvertirli in industrie qualora l’università non fosse risultata sostenibile (8). Allo stesso tempo altre università hanno utilizzato l’approccio opposto, con nuovi edifici progettati in uno stile storico al fine di ricreare l’immagine dell’università 126 inglese. Alla Yale University, l’architetto James Gamble Rogers ha progettato negli anni Venti edifici accademici e residenziali nello stile Collegiate Gothic, basato sugli esempi di Oxford e Cambridge, un modello seguito anche da Ralph Adams Cram a Princeton e Henry Ives Cobb all’Università di Chicago (fig. 4). In altri casi, gli architetti hanno utilizzato un linguaggio architettonico più familiare agli americani, applicando lo stile delle colonie del Settecento, come alla Graduate School of Business di Harvard, di McKim Mead & White. Questa architettura eclettica fu motivata dal desiderio di collegare l’università contemporanea alle sue radici storiche, un esempio dell’uso di uno stile architettonico per creare un’identità istituzionale (9). In contrasto con queste reminiscenze storiche, negli anni Trenta si iniziò una serie di esperimenti formali per alcuni campus americani con architetti modernisti europei, in particolare quelli fuggiti dalla Germania nazista: Walter Gropius, il nuovo preside della Graduate School of Design a Harvard, progettò il Graduate Fig. 2 - Peter Maverick, Pianta dell’ Università della Virginia, 1825 (University of Virginia, Albert and Shirley Small Special Collections, MSS 6552 -a N-385 RG-30/1/8.381). Center; in seguito architetti come Le Corbusier, Jose Lluis Sert, John Andrews e più di recente Renzo Piano, ne hanno realizzati altri. L’insieme di modesti edifici intorno a Harvard Yard è cresciuto come una città dentro la città, caratterizzata da una architettura molto varia (10). A Chicago, Ludwig Mies van der Rohe fu eletto nel 1938 preside della facoltà di architettura dell’Illinois Institute of Technology e gli fu commissionato il progetto dell’intero nuovo campus. Ne risultarono edifici situati in uno spazio aperto lungo una griglia sottostante, impianto che divenne il modello per molti altri campus e sviluppi nelle periferie americane (fig. 5) (11). Il processo di modernizzazione del campus americano è continuato più rapidamente dopo la seconda guerra mondiale con conseguenti contaminazioni dei tipi precedenti. Il periodo fu dominato da una forte crescita della popolazione studentesca e da rapidi cambiamenti delle idee architettoniche ed urbanistiche, con conseguenti radicali trasformazioni dei campus. Durante i decenni seguenti l’architettura universitaria mostra una successione di mode, con il funzionalismo seguìto da brutalismo, neo-modernismo, post-modernismo, deconstruction e, infine, un nuovo tradizionalismo (12). Il risultato è un campus concepito non più come un coerente tessuto architettonico ma come una raccolta di manufatti, ciascuno dei quali pubblicizza l’anno di costruzione. Alla Yale University, per esempio, l’espansione della galleria d’arte di Louis Kahn, la facoltà di arte e architettura di Paul Rudolph e i Morse and Stiles Colleges di Eero Saarinen hanno stabilito un carattere in contrasto con lo stile Collegiate Gothic degli edifici progettati soltanto un paio di decenni prima (13). Altre università hanno cercato di limitare l’effetto negativo delle mode effimere, come in Virginia, dove gli edifici nuovi hanno continuato lo stile Palladiano fino agli anni Settanta e Ottanta. La nuova facoltà di architettura di Pietro Belluschi, realizzata nel 1970, ha rappresentato una prima rottura con lo stile Jeffersoniano o Palladiano pur facendo riferimento agli edifici più vecchi con l’impiego di materiali coerenti con essi, i mattoni rossi, la pietra o l’intonaco bianco (14). Le costruzioni successive hanno continuato questa rottura tra fedeltà agli stili storici e opere nettamente moderniste, anche se alcuni esempi come la Bryan Hall di Michael Graves, realizzata nel 1995, cercano di sintetizzare il classico ed il moderno (15). Negli anni Novanta le università ebbero sempre più bisogno del sostegno di fondi privati. Di conseguenza gli atenei americani hanno usato l’architettura come strumento di branding per creare un’immagine dell’istituzione e distinguerla dalle concorrenti. Seguendo l’esempio delle grandi società di affari, hanno cercato di stabilirsi come brands - come marchi nel mercato - allo scopo di attrarre studenti e donazioni. In alcuni casi agli architetti fu chiesto non di innovare e creare stili nuovi, ma di progettare in uno stile già associato con l’istituzione. Questo stile può non essere quello delle fasi iniziali, ma quello ormai stabilito nella percezione pubblica. Un buon esempio è la Harvard Business School, dove è stato costruito un complesso di nuovi edifici progettato da Robert A. M. Stern Architects in continuità con lo stile neo-georgiano del primo Novecento (16). Un ulteriore esempio può essere il Whitman College a Princeton di Demetri Porphyrios, il quale ha ripreso lo stile Collegiate Gothic. Gli attuali studenti, cresciuti con i film di Harry Potter, si sentono subito a casa nell’ambiente neomedievale dei nuovi edifici, come verificato in una mia intervista con uno studente residente nel 2008, l’anno dopo la realizzazione del progetto (17). Anche la mia Università di Notre Dame vicino a Chicago mostra questa tendenza: fondata da monaci francesi negli anni Quaranta dell’Ottocento, gli edifici originari furono progettati in una versione provinciale dello stile Napoleone III, tranne la basilica in stile neogotico. Collocati su un piano assiale e prospiciente due laghi, gli edifici sono organizzati intorno ad una serie di quadrangle. Nel primo Novecento vennero aggiunte nuove costruzioni nello stile classico e negli anni Venti e Trenta una serie di complessi residenziali nel Collegiate Gothic. Dopo la seconda guerra mondiale strutture moderniste hanno in parte cambiato il carattere del campus, ma negli anni Novanta questa tendenza è stata rovesciata dall’aggiunta della facoltà di architet- 127 Fig. 3 - McKim Mead & White, Columbia University, pianta generale, 1893 (da A Monograph of the Works of McKim 1915, vol. 1, tav. 47). tura e della vicina Sandner Hall, progettate da Thomas Gordon Smith, che riprendono il carattere degli edifici adiacenti (18). L’attuale piano regolatore per il campus ha previsto per le nuove costruzioni lo stile del Collegiate Gothic, come si vede nella appena realizzata Nanovic- 128 Jenkins Hall degli architetti HBRA. Nel frattempo una nuova sede per la facoltà di architettura, appena realizzata su progetto di John Simpson, riprende il carattere classico in maniera coerente con il programma didattico della scuola (19). Fig. 4 – James Gamble Rogers, Branford Court, Harkness Memorial Quadrangle, Yale University, 1921 (foto di Michael Mesko). Ma il più ambizioso ritorno agli stili architettonici antecedenti riguarda le nuove residenze di Yale, sempre di Stern, due grandi complessi di alloggi con volumi e dettagli che richiamano quelli del Collegiate Gothic di Rogers. Il progetto è tanto grande e l’immagine tanto coerente che può forse ristabilire il carattere dell’intero campus. Secondo i suoi sostenitori, il campus adesso somiglia al ‘marchio Yale’ (20) (fig. 6). Mentre è stato lo stesso Stern a celebrare l’uso dello stile architettonico come una forma di branding per villaggi vacanze, luoghi d’intrattenimento e sedi di società di affari, il suo successo nel determinare caratteri distintivi per i diversi campus è forse ancor più interessante (21). Anche se alcuni critici rifiutano questo approccio e lo considerano una sorta di Disneyland di moderni edifici in vesti storiche, potremmo dire che non ci sia niente di nuovo. La decisione di introdurre il Collegiate Gothic nel primo Novecento è stata una scelta di rappresentare l’istituzione nel “vestito” che comunicasse meglio le sue aspirazioni accademiche. Rinforzare l’associazione visiva con Oxford e Cambridge, o gli ideali palladiani di Jefferson, era un modo di dare alle istituzioni americane una genealogia storica radicandole nella cultura europea che le aveva generate, ma che il nuovo mondo anche cercava di trascendere. E non sono anche le opere di Gropius, Mies, Le Corbusier, ed altri simili tentativi a promuovere un’immagine di funzionalità e tecnologia che vuole esprimere la modernità? Spesso, il design modernista viene utilizzato dalle università quando vogliono mostrarsi innovative quanto le scienze e le nuove tecnologie. A Princeton, non lontano dal neo-gotico Whitman College, la biblioteca di scienze progettata da Frank Gehry ci mostra un’immagine di attualità in contrasto con il neogotico; l’eventuale contraddizione tra l’uso di questi 129 Fig. 5 – Ludwig Mies van der Rohe, Crown Hall, Illinois Institute of Technology, 1956 (foto di Steven W. Semes). due approcci in uno stesso luogo allo stesso tempo illustra come l’architettura adesso dia un messaggio a sostegno del brand (22). Simili progetti sono in corso di realizzazione alla Columbia e alla Cornell, entrambe a New York (23). E per quanto riguarda il caso dell’Università “La Sapienza” di Roma? Non è per caso che Marcello Piacentini e prima di lui Gustavo Giovannoni hanno introdotto il concetto del campus all’americana nel contesto romano. Entrambi gli architetti erano ben informati sui contem- Fig. 6 - Robert A. M. Stern Architects, Pauli Murray e Benjamin Franklin Colleges, Yale University, veduta generale, 2017 (Peter Aaron/Otto for Robert A.M. Stern Architects). 130 poranei sviluppi americani ed entrambi avevano pubblicato articoli o libri sulle architetture americane negli anni Venti e Trenta (24). Piacentini, per rappresentare un’immagine, un brand se possiamo dire, ha utilizzato lo stile razionalista, che non era affatto unico in Italia durante quegli anni ma fu un tentativo consapevole di sintetizzare lo stile classico con quello moderno, un motivo che era quasi universale nel periodo. Anche il progetto, a confronto con quello della Columbia University, rivela una genealogia che si estende oltre la Roma degli anni Trenta. La Roma dei Cesari ha ispirato gli architetti che hanno progettato la Columbia a New York, e a quel progetto si è ispirato Piacentini, specialmente nel modello urbano in cui gli edifici determinano e chiudono lo spazio, in contrasto con quello di Mies Van der Rohe, in cui lo spazio è concepito come contenitore neutrale degli edifici. Questo dà al piano di Piacentini il suo aspetto classico. Così possiamo vedere che i collegamenti che uniscono i progettisti delle università italiane ed americane nel Novecento sono stati più complessi di quanto si pensasse. (1) Coulson, Roberts, Taylor 2015, pp. 1-13; Turner 1984, pp. 9-15. (2) Shand-Tucci 2001, pp. 1-25; Coulson 2015, pp. 59-65. (3) Turner 1984, pp. 17-46. (4) O’Neill 1968, pp. 9-42; Wilson 2012, pp. 3-53; Turner 1984, pp. 76-87; Coulson 2015, pp. 200-207. (5) Wilson 2012, pp. 55-58. (6) A Monograph of the Works of McKim 1915, vol. 1, tav. 47; vol. 3, tavv. 300-303; vol. 4, tavv. 313-319; Coulson 2015, pp. 46-52. (7) Helfand 2001, pp. 10-20; Turner 1984, pp. 180-188; Coulson 2015, pp. 126-133. (8) Turner 1984, pp. 235-238; Kidney 2002, pp. 70-98. (9) Betsky 1994, pp. 103-162. (10) Turner 1984, pp 267-271; Shand-Tucci 2001, pp. 232233. (11) Johnson 1978, pp. 131-153. (12) Coulson 2015, pp. 25-35. (13) Pinnell 2012, pp. 46-52, 101-103; Turner 1984, pp. 294-300. (14) Wilson 2012, pp. 124-126. (15) Ivi, pp. 76-77. (16) Stern 2011, pp. 104-116. (17) Sammons 2014 (18) John 2001. (19) Walsh Family Hall 2018. (20) Hewitt 2018. (21) Stern 2011. (22) Lemonier 2015, pp. 164-165. (23) Lange 2017; Russel 2019. (24) Piacentini 1935. Bibliografia Betsky 1994 A.Betsky, James Gamble Rogers and the Architecture of Pragmatism, Cambridge 1994. chitecture into Practice, in «Curbed New York», 13 Settembre 2017 (https://ny.curbed.com/2017/9/13/16302090/cornell-tech-campus-architecture-review). Coulson, Roberts, Taylor 2015 J. Coulson, P. Roberts, I. 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More recently, architectural style has become a means of branding the institutions, either recalling cultural roots in European universities or presenting an image of modernity and scientific innovation. This paper reviews some typical examples of American campus planning and architecture, suggesting links with Italian developments are closer than often acknowledged. 132 EERO SAARINEN E LA PROGETTAZIONE DEI CAMPUS UNIVERSITARI NELL’AMERICA DEL SECONDO DOPOGUERRA Chiara Baglione In un articolo apparso nel novembre 1960 sulla rivista «Architectural Record», Eero Saarinen affrontava il tema dei campus universitari, sintetizzando riflessioni elaborate nel corso di una lunga esperienza nel campo dell’architettura universitaria (1), avviata nella seconda metà degli anni Trenta in collaborazione con il padre Eliel. In quel periodo era impegnato nella realizzazione dei Morse and Stiles Colleges di Yale, una delle opere completate dopo la sua morte prematura, avvenuta nel settembre del 1961, a 51 anni. Dopo dieci anni in cui si era registrato un boom nella costruzione di strutture universitarie negli Stati Uniti, passando da 1.100.000 studenti nel 1930 a 3.800.000 nel 1960, per Saarinen era tempo di riconsiderare quanto era stato fatto in un campo della progettazione che considerava di estrema importanza. “Universities – scriveva – are oases in our desert-like civilization. And, as the monasteries of the Middle Ages, they are the only beautiful, respectable pedestrian places left” (2). Notando come troppo spesso il masterplan dei campus universitari fosse stato disatteso dagli amministratori e dagli architetti, Saarinen indicava come questione di primaria importanza la creazione di un ambiente unitario, e sottolineava, a questo proposito, i valori positivi degli edifici neoclassici del MIT o di campus neogotici, come quelli della Chicago University e della Yale University, casi che conosceva bene, avendo ricevuto incarichi per la progettazione di nuove costruzioni da inserire in quei contesti urbani consolidati. Pur avendo in passato criticato tali esempi, in quanto basati sulla riproposizione di stili storici, nell’articolo affermava di apprezzali per la capacità di creare un ambiente unitario e di ‘sopportare’ ampliamenti anche a distanza di molti anni. Per Saarinen si poneva la questione chiave di come assicurare totale unità di ambiente, quando non era più possibile contare su uno stile unificante, come il neogotico utilizzato a Chicago e a Yale. L’importanza attribuita alla creazione di un insieme unitario era una risposta al modello diffuso di progettazione dei campus basato sull’aggregazione di ‘oggetti’ isolati, che non tenevano conto del contesto. Ciò era dovuto a ragioni pratiche e contingenti, ma era anche conseguenza di un’attitudine espressamente teorizzata, in particolare da Joseph Hudnut, dean della Graduate School of Design di Harvard, in un articolo apparso nel 1947 su un numero di «Architectural Record» dedicato alle nuove prospettive del ‘college planning’ (3). Del resto, la denuncia da parte di Saarinen della superficialità con cui veniva trattato il masterplan da amministratori e progettisti rifletteva anche l’amarezza per le numerose occasioni in cui i piani complessivi da lui elaborati per istituzioni universitarie erano rimasti sulla carta. Laureatosi in architettura a Yale nel 1934, Saarinen aveva compiuto in seguito un viaggio di studio in Europa. Al suo rientro, nel 1936 aveva iniziato a collaborare con il padre, partecipando anche a concorsi per campus universitari – come ad esempio quello del 1938 per il Goucher College a Towson, vicino a Baltimora, nel quale avevano ottenuto il secondo premio (4) – che segnarono un momento di svolta nel processo di introduzione di un nuovo linguaggio nella progettazione di strutture per l’istruzione. Va ricordato che nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti conobbero un vero e proprio boom nello sviluppo dei campus universitari, legato alla legge in favore dell’istruzione dei veterani di guerra, il cosiddetto G.I. Bill del 1944 (5). I valori tradizionali, che avevano caratterizzato fino a quel momento la progettazione dei campus, dovettero così essere sostituiti da rapidità di realizzazione, sostenibilità dei costi ed efficienza funzionale, criteri che le istituzioni universitarie e alcuni liberal arts colleges avevano cominciano a seguire già negli anni della guerra. È il caso, ad esempio, dell’Antioch College a Yellow Springs, in Ohio, per il quale Eliel e Eero Saarinen studiarono dal 1944 un piano generale, che prevedeva al centro una mensa, una biblioteca e l’Union building, e alla periferia strutture residenziali. Solo una di queste venne realizzata su disegno di Eero, la Birch Hall, un dormitorio dalle linee molto semplici per 110 studentesse (6). Eero era convinto che la creazione di campus ordinati che si presentassero come un ‘total environment’, controllato e coordinato, e che potessero indicare prospettive anche per la progettazione delle città, non dipendesse tanto dall’architettura dei singoli edifici, quanto dalle relazioni tra le costruzioni e dal disegno degli spazi aperti. Un esempio interessante di applicazione delle sue idee in proposito è rappresentato dal piano per la Drake University a Des Moines, in Iowa, presentato nel 1947 (fig. 1): un incarico ottenuto nel 1945 dai due Saarinen – che in quegli anni collaboravano con Robert Swanson – anche grazie al successo del campus della Cranbrook Academy of Art disegnato da Eliel dalla metà degli anni Venti. Il confronto con il masterplan elaborato per la Drake University nel 1943 dallo studio di architetti paesaggi- 133 Fig. 1 - Saarinen, Swanson and Saarinen Architects, piano (non realizzato) per la Drake University, Des Moines, Iowa, 1945-1947 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). sti Morell & Nichols, sulla base dei principi della City Beautiful, mette in evidenza il carattere innovativo della proposta dello studio Saarinen (7). Vi possiamo leggere un’evoluzione delle idee proposte da Eliel a Cranbrook: corti aperte di dimensioni diverse, connesse tra loro, circondate però in questo caso da edifici in cui il vocabolario architettonico è decisamente aggiornato anche grazie al contributo di Eero (8). In particolare, nel piano è riconoscibile, ripetuta in forme diverse, la configurazione a trapezio tipica del piano per Cranbrook. In quel piano, poi realizzato in forma diversa, sono evidenti le analogie, ripetute in più punti, con piazza San Marco: oltre alla riproposizione della forma trapezoidale, per quanto 134 regolarizzata, si nota la combinazione di più piazze, la presenza di una torre, anche se in posizione diversa rispetto al campanile di San Marco, e di un portico di ingresso alla piazza principale che richiama il modello veneziano. D’altra parte, va ricordato che, seguendo la predilezione del padre, Eero fece riferimento in più occasioni alla lezione veneziana, indicando piazza San Marco anche come esempio di relazione armoniosa tra edifici risalenti a periodi storici diversi, un tema centrale nella progettazione dei campus universitari (9). Anche nel caso della Drake University, i Saarinen realizzano solo alcuni edifici, tra cui le sedi dei dipartimenti di scienze e di farmacia, due semplici stecche collegate da Fig. 2 - Eero Saarinen and Associates, Hubbell Dining Hall, Drake University, Des Moines, Iowa, 1953-1954 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). una passerella aerea, forse ispirata alla Bauhaus di Dessau, con un corpo stondato e privo di aperture occupato da due grandi aule (10). Per i due edifici i progettisti disegnarono pareti laterali in mattoni e curtain wall con grandi vetrate e pannelli smaltati, una soluzione in seguito sviluppata e perfezionata da Eero per il Technical Center della General Motors a Warren, vicino a Detroit. Funzionale all’aumento dell’efficienza e della velocità di realizzazione, e al controllo dei costi, l’adozione di un linguaggio moderno, che accomunava un centro di ricerca industriale a un campus universitario, si spiega anche tenendo conto dell’impressione esercitata su Eero dalle strutture dell’Illinois Institute of Technology di Mies van der Rohe, oltre che dell’influsso delle costruzioni industriali di Albert Kahn. Per i dormitori e la mensa della Drake University (fig. 2), collegati da passerelle pedonali, Saarinen utilizzò pannelli prefabbricati in cemento, rivestiti in mattoni, mentre la conformazione del terreno fu sfruttata per la realizzazione di uno specchio d’acqua artificiale, che contribuiva a creare un interessante e ‘pittoresco’ insieme, basato sull’integrazione tra architettura e spazio naturale (11). Va sottolineata anche la cura nella definizione degli ‘spazi sociali’ a doppia altezza nei dormitori interpretati come ambienti domestici. Ultimo intervento nel campus della Drake University, la Divinity School è collegata da una pensilina a una piccola cappella in mattoni, la Oreon E. Scott Memorial Chapel (fig. 3), che ricorda per molti aspetti la più celebre cappella del MIT, studiata quasi contemporaneamente da Saarinen. All’epoca della sua fondazione la Drake University era legata ai Disciples of Christ Church, ma la cappella venne concepita, in analogia con quella del MIT, come un luogo di meditazione multi-confessionale, per trasmettere il senso dell’unità e dell’eguaglianza di tutti i credenti di fronte a Dio. 135 Fig. 3 - Eero Saarinen and Associates, Oreon E. Scott Memorial Chapel e Medbury Hall (Divinity School), Drake University, Des Moines, Iowa, 1952-1955 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). Dal punto di vista della forma architettonica l’edificio si può considerare una sorta di variazione sul tema della cappella del MIT: le forme sono semplificate e l’interno appare più raccolto, sia per le dimensioni e per il numero di posti a sedere, sia per il rivestimento interno interamente in legno. Nel frattempo, nel 1949 Saarinen aveva ottenuto l’incarico per lo sviluppo, in un’area paesaggisticamente suggestiva a Waltham, alla periferia di Boston, del campus della Brandeis University, un’istituzione privata nata l’anno precedente, la prima in Nord America sponsorizzata da un gruppo ebraico, che si considerava però “non settaria” (12). Il masterplan elaborato da Saarinen prevedeva edifici a pianta rettangolare per l’insegnamento delle materie scientifiche e umanistiche. Il cuore del piano era costituito da una piazza aperta con la biblioteca, lo Student Center e il Creative Arts Center, con un teatro e un auditorium ospitato sotto una calotta a pianta circolare supportata da pilastri lungo il perimetro. Tre gruppi di dormitori erano collocati alla periferia. Una cappella multi-confessionale era prevista in un posizione defilata accanto a uno specchio d’acqua (13). 136 In uno studio prospettico della piazza principale della Brandeis University (fig. 4) compariva una torre in posizione decentrata che potrebbe essere letta nuovamente come una rielaborazione dei principi compositivi appresi da piazza San Marco tanto cari ai due Saarinen. A Eero era stato chiesto di produrre in tempi rapidi disegni del piano per la Brandeis University da inserire in una pubblicazione destinata alla raccolta di fondi. Al progetto collaborò un giovane architetto di talento di origini polacche, Matthew Nowicki, che morì prematuramente di lì a poco, nel 1950, in un incidente aereo. Molti schizzi elaborati per presentare il piano del campus e numerosi edifici sono di Nowicki, come gli studi della cappella a pianta circolare o con il perimetro ondulato, che non fu realizzata. Poiché il primo progetto di una cappella interconfessionale venne rifiutato dalla committenza, Saarinen ne presentò un secondo nel 1951 con altari e spazi separati per cattolici, protestanti ed ebrei, che ugualmente non fu accettato. Nel 1956, l’incarico fu infine affidato a Max Abramovitz che progettò tre cappelle distinte e ottenne altri numerosi incarichi essendo nominato architetto dell’università nel 1955 (14). Nel campus della Brandeis University Fig. 4 - Eero Saarinen and Associates, progetto (non realizzato) della piazza centrale della Brandeis University, Waltham, Massachusetts, 1949-1952 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). Saarinen ebbe modo di realizzare solo alcuni dormitori, mentre il suo piano, rielaborato nel 1952, venne abbandonato. Anni dopo, ricordando quell’esperienza, Saarinen affermò che il suo masterplan era stato usato solo come ‘strumento promozionale’ e che la Brandeis University era un chiaro esempio della mancanza di saggezza da parte delle istituzioni universitarie (15). Saarinen ebbe però occasione di sviluppare alcune idee elaborate per la Brandeis University nel campus del MIT: la copertura a calotta, indipendente dalla gradonata, dell’auditorium portò alla definizione del guscio di calcestruzzo a forma di ottavo di sfera poggiante su tre punti dell’auditorium del MIT, mentre la cappella adiacente riprendeva alcune idee elaborate da Saarinen con Novicki per quella della Brandeis University (16). Senza soffermarci su questi celebri edifici del MIT, in questa sede è soprattutto interessante notare come essi apparissero, appena completati, come oggetti isolati in uno spazio aperto a verde, ma in realtà, stando ai primi studi di Eero, avrebbero dovuto sorgere in una piazza dominata da una torre situata in posizione asimmetrica. La torre ritornava, in una posizione diversa, anche nel progetto elaborato in un secondo tempo, tra il 1959 e il 1961, dopo il completamento dell’auditorium e della cappella, per una piazza circondata da edifici, che rimase sulla carta. Nell’idea di Saarinen i due volumi isolati avrebbero dovuto stagliarsi sullo sfondo neutro costituito dagli edifici del Graduate Center e della Student Union, una soluzione che possiamo leggere come una ulteriore reinterpretazione del modello di piazza San Marco. Ma il senso di delusione e amarezza che traspare dal testo di Saarinen citato all’inizio è probabilmente legato soprattutto all’insuccesso del piano per il nuovo campus satellite della University of Michigan, sviluppato tra il 1951 e il 1956, destinato a sorgere in un vasto terreno agricolo a nord del campus storico di Ann Arbor. Eero concepì una ‘collana’ di piazze di differenti dimensioni, poste a quote diverse, connesse tra di loro, che costituiva, a suo avviso, una valida alternativa ai tradizionali piani per i college concepiti secondo grandi schemi assiali, che non funzionavano bene “when you add the dimension of time” (17), quando, cioè – cosa che accadeva molto spesso – gli edifici universitari venivano realizzati in un lungo arco temporale. Anche in questo caso il disegno del campus si articolava intorno a un forum centrale (fig. 5), illustrato in una prospettiva a volo d’uccello (18), in cui si notano due colonne 137 Fig. 5 - Eero Saarinen and Associates, progetto (non realizzato) del forum centrale, North Campus della University of Michigan, Ann Arbor, Michigan, 1951-1953 (da At the University of Michigan 1953). libere al limite della piazza centrale che sembrano quasi voler evocare, ancora una volta, piazza San Marco. Non potendo esercitare pienamente il suo ruolo come consulente dell’università responsabile del coordinamento dei progetti e della scelta dei progettisti, Saarinen rassegnò le dimissioni. Solo il progetto della School of Music venne messo in opera secondo il suo disegno, ma in forma diversa rispetto alla prima soluzione che prevedeva un auditorium simile a quello già citato per la Brandeis University (fig. 6). L’edificio della School of Music, che nell’idea iniziale di Saarinen avrebbe dovuto essere parte di un insieme ‘urbano’, concepito per la circolazione pedonale, sorse invece isolato nel paesaggio naturale, una caratteristica che costituisce al contempo la forza, ma anche la debolezza di un’opera che non possiamo annoverare tra le più riuscite dell’architetto di origini finlandesi. In altri casi Saarinen fu chiamato a inserire edifici in campus esistenti, come l’Emma Hartman Noyes House, un dormitorio femminile nel Vassar college di Poughkeepsie. La scelta della forma semicircolare per l’edificio, di cui venne completata solo una metà nel 1958, venne suggerita all’architetto dalla presenza nel parco di un viale alberato circolare, noto appunto come the Circle. I mattoni scuri e i bay windows triangolari si possono leggere come una reinterpretazione dello stile di alcuni edifici del campus, motivata da una ricerca di sintonia con l’architettura neogotica, senza ricorrere all’imitazione dei linguaggi del passato. Ritroviamo tale ricerca anche nell’edificio per la facoltà di legge della University of Chicago, realizzata da Saarinen negli stessi anni, e soprattutto nei Morse e Stiles Colleges della Yale University (fig. 7), progettati a partire dal 1958 e completati nel 1962, dopo la sua morte. Forte dell’appoggio e della stima di A. Whitney Griswold, presidente dell’università dal 1951 al 1963, che riuscì a fare di Yale un “laboratorio di architettura” (19), Saarinen, oltre a elaborare, in qualità di consulente, proposte per la sistemazione di varie parti del campus, 138 rimaste però sulla carta (20), realizzò il celeberrimo David Ingalls Hockey Rink, tra il 1956 e il 1958, basato su un’originale soluzione strutturale e sull’adozione di ardite forme biomorfe, consentite dalla localizzazione periferica, al di fuori del tessuto compatto del campus storico (21). Nel progetto dei nuovi colleges Saarinen dovette invece affrontare la sfida del rapporto con gli edifici adiacenti neogotici di John Russel Pope e di James Gamble Rogers, di cui, come abbiamo visto all’inizio, apprezzava la capacità di creare un ‘total environment’. A questa esigenza e alla richiesta di un carattere di individualità delle stanze da parte degli studenti, che evitasse ripetizione, uniformità e standardizzazione, non si poteva rispondere secondo l’architetto “within the general current vocabulary of modern architecture” (22). Le soluzioni messe in campo per ottenere questi risultati furono molte: dall’eco di piazza del campo a Siena (23), al ricordo di San Gimignano (24), dal disegno di corti su più livelli capaci di assicurare interessanti esperienze spaziali (fig. 8), allo studio di ambienti interni articolati e quanto più possibile vari, all’invenzione di “masonry walls made without masons”, un metodo costruttivo nuovo, ma ispirato al passato, apprezzato da Henry Russell Hitchcock (25). Come è noto, l’intervento fu invece ingiustamente criticato in modo aspro da Reyner Banham che lo considerava “a fairly advanced case of that mania for the picturesque … that has affected recent academic architecture on both sides of the Atlantic”, tale da far dire a molti europei di ritorno dagli Stati Uniti “Yale is a very sick place” (26). Impegnato in una battaglia contro i “tradimenti del movimento moderno”, Banham temeva che le “Morse and Stiles-type aberrations” potessero diventare lo stile preferito anche nei campus inglesi. L’articolo del critico inglese, apparso sulla rivista settimanale «New Statesman», venne ripubblicato in «ArchiFig. 6 - Eero Saarinen and Associates, progetto preliminare della School of Music, North Campus della University of Michigan, Ann Arbor, 1952-1954 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). Fig. 7 - Eero Saarinen con il modello dei Samuel F.B. Morse and Ezra Stiles Colleges, Yale University, New Haven, Connecticut, 1958-1962 (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). Fig. 8 - Eero Saarinen and Associates, Samuel F.B. Morse and Ezra Stiles Colleges, Yale University, New Haven, Connecticut, 1958-1962. Veduta aerea di una delle corti (Yale University Library, Eero Saarinen Collection). tectural Forum», con una breve nota di dissenso dell’autore del testo che accompagnava le immagini dei colleges, Walter McQuade, il quale apprezzava il progettista per aver saputo creare “a firm piece of comfortable, even interesting, design that could differ with the old without breaking off the conversation”(27). Per questo risultato, ma non solo, il complesso può essere considerato un punto di arrivo della ricerca da parte di Saarinen di un ‘total environment’, che incarnasse i valori comunitari al centro della vita dei campus. D’altra parte, l’opera consente di cogliere anche un aspetto essenziale della sua idea di architettura in generale. In un’intervista apparsa nel 1961 su «Perspecta», il progettista affermava, infatti: “I have come to the conviction that once one embarks on a concept for a building, this concept has to be exaggerated and overstated and repeated in every part of its interior, so that wherever you are, inside or outside, the buildings sings with the same message…that is why the interior of the new Yale Colleges have to be just so” (28). MIT Libraries a Cambridge, Mass. e della Avery Architectural and Fine Arts Library presso la Columbia University di New York. Ringrazio il personale della sezione Manuscripts and Archives della Yale University Library a New Haven, dove è conservata la Eero Saarinen Collection, degli Institute Archives and Special Collections, (1) Saarinen 1960, pp. 123-154. (2) Ivi, p. 124. (3) Hudnut 1947. Cfr. Turner 1984, p. 260. (4) Ivi, pp. 252-253. (5) Ivi, pp. 249-250. (6) Merkel 2005, pp. 104-105. (7) Lyons 2008, pp. 19-21. (8) A University Campus 1947. (9) Plattus 2006, pp. 312-313; Baglione 2016. (10) Science and Pharmacy Buildings 1950. (11) Drake University Dormitories 1955. Cfr. Whitehead 2009. (12) Merkel 2005, pp. 106-111. (13) Bernstein 1999. (14) Harwood, Parks 2004, pp. 119-120. (15) Yale University Library, Eero Saarinen Collection, s. IV, b. 154: Memorandum. From Eero To Aline, 12 gennaio 1959. (16) Baglione 2010. (17) At the University of Michigan 1953, p. 122. (18) Ivi, p. 120. 139 (19) Barnett 1962, p. 125. (24) Barnett 1962, p. 129. (20) Plattus 2006, p. 317-318. (25) Hitchcok 1962, pp. 14-15. (21) Saarinen 1960, p. 129. (26) Banham 1962, p. 110. (22) Saarinen 1968, p. 88. (27) McQuade 1962, p. 105. (23) Plattus 2006, p. 318. (28) Saarinen 1961, p. 32. Bibliografia A University Campus 1947 A University Campus Plan Underway, in «Architectural Record», vol. 102, 6 dicembre 1947, pp. 71-87. Hudnut 1947 J. Hudnut, On Form in Universities, in «Architectural Record», vol. 102, 6 dicembre 1947, pp. 88-93. At the University of Michigan 1953 At the University of Michigan, an answer to expansion: don’t extend the old campus; add another one, in «Architectural Forum», vol. 98, 6 giugno 1953, pp. 118-122. Lyons 2008 M. Lyons, Building a modern campus. Eliel and Eero Saarinen at Drake University, catalogo della mostra, Des Moines, Iowa 2008. Baglione 2010 C. Baglione, «Il luogo dello spirito nella vita della mente». La cappella di Eero Saarinen al MIT, in «Casabella», 791, luglio 2010, pp. 4-25. McQuade 1962 W. McQuade, The New Yale Colleges, in «Architectural Forum», dicembre 1962, pp. 105-109. Merkel 2005 J. Merkel, Eero Saarinen, London-New York 2005. Baglione 2016 C. Baglione, La lezione di Piazza San Marco nell’opera di Eliel e Eero Saarinen, in M. Bonaiti, C. Rostagni (a cura di), Venezia e il moderno. Un laboratorio per il Novecento, Macerata 2016, pp. 87-101. Plattus 2006 A.J. 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EERO SAARINEN AND THE DESIGN OF COLLEGE CAMPUSES IN POST-WAR AMERICA A central figure in the panorama of American architecture after the Second World War, Eero Saarinen dedicated a reflection to the theme of university campuses in an article of November 1960 in the magazine «Architectural Record». Saarinen had a long experience in the design of university complexes: among the projects developed in collaboration with his father Eliel there are numerous plans for campuses based on the development of the ideas proposed by Eliel in the design of the Cranbrook Academy of Art. Some of these plans remained on paper, others, such as the one for Drake University, were partially implemented. During the fifties Saarinen designed new campuses (such as the University of Michigan) and individual buildings in existing campuses, obtaining significant results, in particular in the definition of university chapels, such as those of MIT in Boston and of Drake University. The text traces the evolution of the design solutions developed by Saarinen in the creation of a “total beautiful environment” in response to the different needs of the client, with references to the architectural tradition of the North American campuses, but also to Italian examples of historical public spaces. 140 IL FLORIDA SOUTHERN COLLEGE DI FRANK LLOYD WRIGHT, PROGETTO DI UN ORGANISMO APERTO Maria Argenti Fra le architetture di Frank Lloyd Wright, il Florida Southern College (FSC) non è certo la più nota. E nemmeno la più ardita. Concepito più di 80 anni fa, questo complesso mantiene tuttavia intatta – nelle sue architetture, nel suo impianto urbano, nella pianificazione paesaggistica – la sua straordinaria carica innovativa. Era il 1938 quando Ludd M. Spivey, allora presidente del FSC, chiamò Frank Lloyd Wright – in quegli anni impegnato a mettere a punto (con Broadacre City) una riflessione organica sul rapporto fra città e natura – per proporgli la progettazione del campus di Lakeland, nella Contea di Polk in Florida. Realizzato in un lungo arco di tempo, tra il 1938 e il 1957 (1), questo complesso rappresenta oggi la più grande concentrazione di opere di Wright, e consta di una serie di edifici disposti armonicamente tra gli alberi di agrumi su un pendio che domina il lago di Hollingsworth. In un certo senso si può dire che a Lakeland Wright abbia cercato di dimostrare sul campo la possibilità concreta di un’alternativa paesaggistica alla deriva centripeta delle megalopoli attraverso un diverso dinamismo nel rapporto fra architettura e luogo. Nasce così l’idea semplice di mettere in relazione tra loro le singole costruzioni e di creare una studiata connessione – un dialogo sommesso – tra il complesso e la natura che gli preesisteva. Ciò avviene attraverso un sistema di pensiline, sostenute da interessanti quanto insoliti pilastri, che si snodano irregolarmente nel campus. Wright sviluppa qui una concezione totalmente alternativa di college, opposta alla consolidata solennità e all’enfasi dei tradizionali edifici universitari statunitensi. Laddove la regola era la replica di stilemi storici, sempre uguali a se stessi, il campus della Florida diviene un luogo che sperimenta e testimonia la possibilità di un’identità dinamica e aperta a successive trasformazioni coerenti con l’impianto originario. Laddove il linguaggio comune era naturalmente accademico, il FSC offre una risposta antiretorica, funzionale ma allo stesso tempo simbolica, alla crescente domanda di architettura del proprio tempo. Il complesso è dunque un’opera diseguale e coerente, unitaria ma non semplificata: pensata come un organismo vivente, per sua natura mai finito e sempre soggetto a evoluzione. La planimetria è stata paragonata da Vincent Scully Jr. (2) – e altri critici – a quella di Villa Adriana a Tivoli, come se la molteplicità di giaciture degli edifici del campus alluda alla disposizione della collezione delle memorie di viaggio dell’imperatore (fig. 1). Ciò che rende particolarmente interessante il FSC è, in questo quadro, la creazione di un vero e proprio codice linguistico-tecnologico, urbanistico e architettonico. Wright qui progetta anche i componenti base con cui costruire le architetture degli edifici e dei percorsi. Tenta – come afferma Luca Zevi (3) – “l’elaborazione degli ‘ordini’ di una moderna architettura del territorio”. E innova radicalmente rispetto ai codici del classico o del gotico che erano allora lo standard dei college americani. Nel campus l’incontro di volumi e percorsi, come in un gioco di punti e linee, fa sì che la dimensione statica intersechi quella dinamica e l’entità spaziale quella temporale. L’elaborazione della teoria della città-territorio e il rifiuto nei confronti degli eccessi della metropoli industriale appaiono qui per quel che sono nella mente dell’architetto: non un rifiuto della dimensione collettiva e quindi urbana della vita, ma al contrario la ricerca di una diversa dimensione comunitaria e un diverso modo di essere della città (in questo caso universitaria). “Wright – scriveva Argan – detesta la città come forma storico-politica di concentrazione del potere [...]. Ciononostante, la matrice di tutta la sua lunga, prodigiosa attività di architetto è urbanistica, anzi addirittura pan-urbanistica: l’ideale che si prefigge è infatti una architettura così forte, nella propria realtà formale, da urbanizzare anche i boschi, le cascate, i deserti. Non progetta più a scala di città, ma di territorio” (4). Non è senza significato il fatto che proprio negli stessi anni in cui Broadacre City, il modello per una nuova città democratica, prendeva forma (ma solo nei disegni), Wright costruiva a Lakeland il College della Florida del sud. In Broadacre, c’è tutto il gusto della trasgressione di Wright, c’è il rifiuto della dimensione urbana tradizionale, l’arroccarsi orgoglioso dell’intellettuale in un mondo che è agli antipodi della realtà quotidiana. Nel FSC c’è invece la ricerca pragmatica di un compromesso con la realtà. Qui la “città ideale” diventa “reale”, si contamina forse, perché questa è l’unica condizione per esistere senza che Wright rinunci per questo alla sua architettura. Prende forma così l’idea di una serie di assi e di fuochi nel verde che disegnano una “campagna che va alla città”, dove la molla ideale è la strada, il percorso. Siamo in Florida. Il clima invita a stare all’aria aperta, nel sole o (durante i periodi più caldi) all’ombra dei rami profumati dei limoni. In armonia con questa atmosfera, una passeggiata coperta (l’esplanade) unisce tra loro i di- 141 Fig. 1 - Florida Southern College, prospettiva del masterplan disegnata da Frank Lloyd Wright, 1938 (da ZEVI 1979, p. 242). versi edifici e suggerisce un comportamento – il camminarvi sotto – ma non lo impone: lo induce naturalmente. Le piastre della copertura della pensilina sono a sbalzo, si spingono oltre i singolari blocchi di calcestruzzo che asimmetricamente le supportano. La dimensione di vita comune integra qui – o almeno cerca di ricondurre a unità – individualismo ed esigenze collettive; accetta il travaglio e l’indeterminatezza della storia; e racconta la centralità dinamica del rapporto fra architettura e paesaggio, fra urbanistica e composizione, fra progetto e materiali, fra dettaglio e visione complessiva, tra concezione e immagine, tra struttura e costruzione, fra piccola e grande scala. Se partiamo dalla premessa che la città è il centro fisico di una comunità (cioè allo stesso tempo il luogo dove essa si esprime come soggetto collettivo radicandovi la propria memoria, e il luogo che ne costituisce la sua vitale e dinamica espressione costruita, ponendo le basi del proprio futuro) il campus di Lakeland è insomma una piccola città ideale calata nel concreto di una realtà locale. Uno spazio dedicato all’educazione, il cui valore simbolico ne trascende tutt’oggi il valore d’uso. Per spiegarne il carattere fondante, riprendiamo le parole di Wright indirizzate agli studenti riuniti nella Cappella Annie Pfeiffer, cuore del campus: “Ora voi volete da me il segreto dell’architettura. Ma l’architettura ha un linguaggio che non può essere tradotto in parole. Anche se adesso le persone parlano molto, perché si sono accorte che possono fare molto di più con le parole che con qualsiasi altra cosa. E dopo che hanno scoperto che possono parlare, parlano e parlano, fino alla morte. Non smetterebbero mai. 142 Se dovessi tradurre questi edifici in un discorso, [...] dovrei parlare molto e passerei davvero dei momenti difficili. Perché non sono l’unico a saper parlare. Altra gente parla” (5). In un tempo di troppe parole, costruendo un artificio retorico intorno al non detto, Wright lascia che sia l’architettura stessa a parlare. E a raccontare l’ambizione tutt’altro che nascosta che lo aveva mosso nel progetto: sarebbero stati gli edifici stessi – proprio perché radicalmente diversi da quelli di Harvard o di Yale disegnati in stile – a educare nel tempo gli studenti; a insegnare in un’atmosfera di verità; a testimoniare un modo diverso di abitare nel paesaggio e nella storia; a dimostrare la possibilità di un’alternativa sia alla massima densità urbana, sia alla impersonale subordinazione alla storia fondata sulle false ricostruzioni del passato. Ma per capire sino in fondo il FSC occorre fare ancora un passo indietro. Occorre ripartire da quel che cercava l’uomo che pensò di chiamare Wright a progettarlo: Ludd M. Spivey, il presidente della scuola, voleva un tempio. Siamo nel 1938. Spivey è un pastore protestante. Dirige una piccola istituzione educativa, fondata dalla Chiesa metodista, che è allo stesso tempo anche il college più antico della Florida, nato nel 1885. Non ha fondi, ma è un grande fundraiser e sa come raccogliere donazioni intorno a un’idea. Sa che il progetto deve essere affascinante e che deve per questo guardare oltre l’orizzonte del banale. Pensa a Wright, e va a Taliesin ad incontrarlo. Spivey parte da un dato di fatto: la qualità architettonica di un campus è uno dei fattori decisivi nella scelta da parte dei giovani liceali (alla pari con la disponibilità di aiuti finanziari e borse di studio). Il suo sogno è quello di Fig. 2 - Lakeland, Florida, il Florida Southern College sulla riva del Lago di Hollingsworth. Vista da sud, si notano presso l’ingresso a nordovest: i due edifici dell’Administration Buildings, la Water Dome al tempo prevalentemente pavimentata, i Seminars Buildings già uniti in un unico volume e l’Ordway Industrial Arts Building; più a sud la prima Roux Library con la sala circolare, la Annie Pfeiffer Chapel, e la piccola cappella William H. Danforth; a seguire, verso est il Polk County Science Building. Tra questi, i percorsi coperti “esplanades” si diramano nel campus a congiungere tra loro i diversi edifici realizzati da Frank Lloyd Wright (foto della metà degli anni ’60. Courtesy FSC) creare un tempio dell’educazione e allo stesso tempo un luogo simbolo della Florida, una scuola dove la bellezza non sia più legata alla ripetizione di canoni del passato, pedissequamente ripetuti, ma a un futuro aperto e da costruire. Chiede quindi un’architettura contemporanea al proprio tempo, e insieme esige che le nuove costruzioni non violino un’altra bellezza, quella della natura. Il 20 settembre 1938, Wright risponde così: “Mio caro Dr. Spivey, le piante per il FSC stanno prendendo rapidamente forma e posso assicurarti che avremo un college senza eguali da nessuna altra parte del mondo nella bellezza dell’uso e nell’uso della bellezza” (6). La sfida è dunque raccolta in pieno, sia sul piano architettonico sia su quello urbanistico. “La planimetria generale – spiega infatti Wright – prevede un modello di terrazze e pergole che collegano i vari edifici secondo un disegno libero. Questo schema rappresenta in se stesso, secondo me, la cosa più importante dell’intero progetto (fig. 2). È ciò che fa sì che ogni edificio trovi qui più che in qualsiasi altro posto il modo migliore per essere ciò che deve essere” (7). La finalità è chiara, l’ambizione è dichiarata: il progetto avrebbe espresso contemporaneamente una “catarsi spirituale” è un “esempio strutturale di libertà”. La cosa che più inorgoglisce Wright è l’essere riuscito nell’impresa di ricondurre a unità sia la dimensione astratto-concettuale che quella pratico-funzionale dell’architettura. Racconterà infatti nel 1952: “Quando il dott. Spivey, il buon genio del Florida Southern College, volò a nord e venne a Taliesin, venne con lo scopo esplicito e dichiarato di dare agli Stati Uniti almeno un esempio di college in cui la vita moderna potesse usufruire dei vantaggi dell’arte e della scienza moderna nella costruzione degli edifici. Mi disse che mi voleva tanto per la mia filosofia che per la mia architettura. Gli assicurai che le cose erano inseparabili. 143 Fig. 3 - Florida Southern College, Wright al cantiere nel campus. Si nota sulla destra un pilastro dell’esplanade in costruzione (foto databile al 1950 circa. Courtesy “News Bureau, Fla. So. College”) E da allora, a causa degli incessanti sforzi del Dr. Spivey, questa collezione di edifici universitari è stata in continua crescita. Il loro carattere da giardino esterno è destinato a essere un’espressione della Florida nella sua migliore flora. Studia questi edifici dall’interno se vuoi comprendere qualcosa su ciò che chiamiamo architettura organica” (8). Fu così che prese corpo via via l’idea di rovesciare il modello architettonico dei college statunitensi. “Nessuno – spiega Wright – può parlare degli edifici dei college oggi e definirli architettura. Nessuno. Essi sono il frutto di una sbronza. Non sono indicativi dei nostri tempi. […] Ecco perché dobbiamo avere una grande sensibilità” (9). Nell’arco di 20 anni, il FSC divenne conseguentemente una concretizzazione (certo, una delle innumerevoli possibili) a grande scala del pensiero di Wright sul rapporto fra natura e architettura, sulla possibilità di pianificare insieme la città e il territorio. La planimetria del college impegnò Wright nella seconda metà degli anni Trenta. 144 Il piano generale, comprendeva varie unità: cappella, biblioteca, il blocco amministrativo, aule per seminari, spazi per arti industriali, un edificio di musica e uno di scienza e cosmografia, un galleria d’arte e atelier di artisti, un museo, un teatro, un teatro all’aperto e una vasca di giochi d’acqua. Il primo problema fu come inserire le nuove costruzioni in uno scenario naturale di particolare bellezza, come urbanizzare il paesaggio. Noterà Hitchcock: “La pianta appare quanto mai disciplinata, pur essendo decisamente asimmetrica. […] Wright ha ripreso i temi del suo progetto per Chandler, Arizona, del 1927, […] dove affiora il suo interesse per gli angoli di 60 e 30 gradi” (10). Nell’insieme gli edifici sono di modeste dimensioni, ciascuno però con una diversa concezione spaziale, sulla base delle sue funzioni, con un carattere, deciso ma non solenne, identitario ma non aulico; ciascuno capace di trasmettere il proprio “valore culturale” rimanendo ancorato e adatto “al tempo, allo scopo e al luogo” (11). L’intero sistema, legato dalle esplanade, caratterizza il giardino dove la natura è chiamata a integrarsi con l’opera dell’uomo anche attraverso aiuole in continuità con i basamenti o tralicci per rampicanti nelle coperture a sbalzo. È interessante notare anche lo sforzo di Wright per trascendere la povertà del blocco costruttivo in cemento. I textile-block, utilizzati per tutti gli edifici del College – non a caso oggetto di importanti studi (12) e interventi di conservazione e restauro – sono molto più che semplici “mattoni”, sono un carattere unificante del design del campus, di cui raccontano anche la particolarità costruttiva, e insieme conferiscono la solennità rigorosa e austera di un palazzo bugnato a edifici universitari dalle tutto sommato modeste dimensioni. Progettati in oltre quaranta tipi diversi realizzati nell’impasto con sabbia locale fatta di coquina (una roccia sedimentaria che è composta tra l’altro di frammenti di conchiglie) sono gettati in stampi di legno che permettono disegni geometrici a rilievo nei prospetti. Alcuni sono ritmati da fori con incastonati piccoli cubi di vetri colorati che accendono e contrastano i toni caldi delle pareti. Un originalissimo pilastro (fig. 3) ritma, contraddistingue e qualifica la composizione architettonica e paesaggistica della esplanade porticata. Costituito da una combinazione di solidi che genera superfici differentemente orientate, esso appare sbozzato, massivo: un prisma a base quadrilatera che innalzandosi interseca una piramide obliqua capovolta, e poi ancora un’altra più grande e di diversa inclinazione configurando così una sorta di capitello sfaccettato in triangoli dalle superfici con trame tessili a rilievo, dall’aspetto un po’ Maya, un po’ indigeno. Disposti lateralmente al percorso, questi pilastri portano la piastra di copertura rifinita in rame ed “accompagnano” tutte le connessioni tra gli edifici, articolandosi in modo da impedire ogni stancante senso di ripetizione. Il sostegno gioca in maniera libera con i salti di quota, talora raddoppia per Fig. 4 - Florida Southern College, vista del cantiere dall’area della cappella William H. Danforth. Sul fondo il prospetto laterale della Annie Pfeiffer Chapel dove si nota la loggia del secondo livello e sotto l’involucro del basamento in textilebolck (foto databile ai primi anni ’50. Courtesy FSC) Fig. 5 - Florida Southern College, una cerimonia all’interno della Cappella Annie Pfeiffer che mette in mostra la complessa e raccolta spazialità dell’aula. La foto è successiva all’ottobre 1944, quando un uragano causò notevoli danni alla chiesa tra cui il crollo della torre centrale. Nella ricostruzione delle parti danneggiate è stato realizzato un diverso pulpito rispetto al precedente disegnato da Wright. (foto Brad Beck. Courtesy FSC) costeggiare percorsi più ampi e porta pensiline forate che proiettano disegni di luce sulle aiuole incastonate nel viale. L’esplanade a volte si integra con gli edifici che interseca, con soluzioni ancora variabili a seconda delle altezze, delle aperture, degli aggetti. Tutto – il textile-block (fig. 4), la gronda, il pilastro, le esplanade, le aiuole – concorre a formare un design che è parte integrante di un progetto unitario che si dilata nel tempo e nella natura. La Cappella Annie Pfeiffer (1938-41) è la prima costruzione di Wright a Lakeland (figg. 5-6) ed è decisamente 145 Fig. 6 - Florida Southern College. Cappella Annie Pfeiffer, la prima realizzazione di Wright nel campus, vista dell’ingresso principale (foto dell’A.) la più rilevante. Pionieristica la definisce il maestro in una lettera al dottor Spivey del 5 marzo 1941, nella quale gli scrive per scusarsi, dispiaciuto, di non poter essere presente “quando la nostra piccola pionieristica cappella entrerà in servizio” (13). Se Spivey leggeva in questa il simbolo di una teologia modernista, Wright cercava piuttosto nell’innovazione spaziale, nell’ardita struttura, nella decorazione geometrica, un legame con la terra e la natura della Florida, un’identità regionale, un traguardo che marcava e consolidava la distanza da quello che era allora l’ormai omologato stile internazionale (14). Posta al centro del campus, nel verde di un leggero pendio, la cappella è l’unico edificio ad avere una forte enfasi verticale. Esternamente essa si presenta caratterizzata dall’intersezione volumetrica tra una massa in textil-block (dal colore caldo e dall’aspetto materico decorato) ed elementi a sbalzo lisci, intonacati in bianco (15). Al centro due pareti si innalzano parallele dal solaio di copertura configurando un campanile che mentre si protende verso il cielo squarcia l’interno irrompendovi con giochi di luce. Il progetto rappresenta in un certo qual modo anche lo sviluppo delle idee realizzate circa 35 anni prima nell’Unity Temple a Oak Park, Illinois. Ed è interessante notare come a dare “fascino e distinzione” all’edificio sia proprio la combinazione di questa radice con le influenze derivanti dal luogo. Come prosegue Wright nella stessa lettera al committente: “Dopotutto se la cappella si trova proprio lì è a causa della tua visione, coraggio e perseveranza fedele. [...] Quando 146 le piante saranno nelle fioriere e si arrampicheranno sui tralicci metallici e le campane rotonde di bronzo suoneranno sopra di loro, la Florida avrà trovato nella costruzione l’espressione del suo vero nome. Spero e credo che la cappella indichi, con una nuova chiarezza, quella sintonia tra carattere e bellezza della Florida e la vita di molti ragazzi e ragazze, che essi sperimentano lì con te oggi” (16). Costruita intorno a quattro grandi pilastri cavi impostati per generare un impianto geometrico esagonale, la chiesa si basa su un’aula centrale a doppia altezza dove si affaccia il livello superiore. È una cappella-auditorium che conta 940 posti a sedere. Al piano terra l’involucro – chiuso dai textile-block – è attraversato da tanti piccoli inserti di vetri colorati che lasciano passare una luce soffusa. In questo modo essi da una parte esaltano la solennità volumetrica dell’insieme e dell’altra ne filtrano la massa trasfigurandola. Wright cerca così la perfetta coincidenza fra la luce e la densità spaziale, in un rapporto di mutua qualificazione: “Mi hanno detto che c’è chi ha pianto nella cappella. Non vi sembra che in questo edificio vi sia qualcosa che canta, che dà un’indefinibile nota di spiritualità?” (17). Tutto concorre, in quest’architettura, a esaltare la percezione individuale e a porla in relazione con il contesto. Al livello superiore la galleria gira attorno al vuoto centrale fino ad interrompersi incontrando una balconata forata che scherma lo spazio del coro posto a fondale sopra il leggio. A conferma del concetto unitario che lega la composizione, è interessante notare come lo schermo sia decorato da una serie di aperture, piccoli fori e rilievi, impostati su trama esagonale basata sugli stessi angoli da 30 e 60 gradi che hanno generato il disegno della pianta e l’alzato della torre. Di giorno il sole entra dall’alto nell’aula, di notte, quando l’interno della cappella è illuminato, la torre proietta verso l’esterno un bagliore che segnala il “cuore” del college. In questo modo Wright intende assegnare alla luce il duplice ruolo di fonte di meditazione laica (oltre che di preghiera religiosa) e di elemento architettonico. Consapevole della secolarizzazione dell’era moderna, e allo stesso tempo del bisogno di simboli che trasfigurassero il presente offrendo una visione di futuro, scrisse egli stesso a Spivey: “Ci saranno ancora molti che non credono e altri che hanno nostalgia delle forme religiose abituali. Ma entrambi almeno avranno un assaggio del mondo che verrà in questa piccola finestra che abbiamo messo lì nel campus [...] per guardare quel mondo” (18). In realtà nessuna vista si estende all’esterno, tranne dai balconi che si aprono al secondo livello, ma è la luce, grande protagonista dell’interno, a “dissolvere” le pareti. Lo sguardo viene attirato dalla straordinaria e luminosissima torre lucernario (19), impostata su un varco nella copertura e portata da elementi protesi a sbalzo sopra il vuoto centrale. La luce entra attraverso una complessa intelaiatura in acciaio e cemento armato, passando tra le piante e i fiori posti nelle ciotole sospese all’interno della torre. Tutto lo spazio si slancia verso il cielo. Qui Wright – a 10 anni di distanza dall’inaugurazione – pronuncia una sua lectio, è il discorso di un uomo già ultraottantenne. Disincantato. Eppure ancora profetico. Sono le 10 del mattino, Wright si rivolge verso il coro della chiesa, dove si trovano i ragazzi: “Questa cappella è ora piena di fiori. E piena di persone. Persone che vivono negli edifici che abbiamo costruito. E questa immagine mi fa pensare. È come se gli edifici venissero fuori dalle persone e le persone dagli edifici. Edifici costruiti per la gente, semplici, che danno gioia ai loro occupanti. Ed è una cosa nuova, questa, nell’architettura. Per cinquecento anni gli edifici sono stati finalizzati a far sentire gli uomini inferiori, quasi a cambiare la loro natura. Non erano edifici costruiti a misura d’uomo” (20). Accanto alla Annie Pfeiffer troviamo la E.T. Roux. Library (1941-45, successivamente, nota come Thad Buckner Building, prima di diventare, nel 1992, sede del Child’s Sun Visitor Center), presentata da Wright al tempo come “un ottimo compagno per la cappella che porterà un’altra gioia nell’uso dei libri” (21). La biblioteca (fig. 7) è un interessante accostamento di geometrie diverse, separate internamente da un camino. La sala di lettura è circolare, organizzata con “studi” concentrici leggermente terrazzati. Un’intrigante struttura a pilastri inclinati verso il centro, permette una sottile Fig. 7 - Florida Southern College. La prima E.T. Roux Library (successivamente, nota come Thad Buckner Building). Nel prospetto si notano i diversi trattamenti del textile-block (foto dell’A.) 147 Fig. 8 - Florida Southern College. Una diversa declinazione dell’esplanade tra i due edifici dell’Administration Buildings: Emile E. Watson e Benjamin Fine (foto dell’A.) finestra a nastro sotto la copertura della sala lungo tutto il perimetro. In continuità con la sala si trova un volume più alto, esagonale, che conteneva originariamente le scaffalature dei libri. Cinque pozzi di comunicazione (successivamente ridotti a due) si aprivano nei solai conducendo la luce tra i livelli fino al piano interrato. Quando la biblioteca non è stata più sufficiente a ospitare il corpo studentesco in aumento, nel 1968 fu realizzata nel campus una nuova Biblioteca Roux e l’edificio, pur mantenendo la sala circolare, ha subito trasformazioni (22) per essere adeguato a ospitare uffici. Esternamente il prospetto alterna, sopra una base intonacata, le fasce orizzontali dei blocchi in cemento, con altre in texture a rilievo o perforate con vetri colorati. Altre opere progettate da Wright nel Campus meritano almeno un cenno. I Seminar Buildings (1941), allineati lungo un tratto dell’esplanade accanto alla Water Dome, sono realizzati interamente in textil-block con poche aperture. Originariamente erano costituiti da tre unità a un piano, separate da patî aperti. Alla fine degli anni ’50 i tre corpi sono stati uniti tra loro inglobando e chiudendo i cortili. Nel tempo sono poi state fatte anche altre addizioni. La costruzione del campus rallentò drammaticamente durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945 quando ad alcuni cantieri lavorarono anche gli studenti in cambio della loro istruzione. 148 Dopo la guerra, il ritmo dell’espansione riprese di nuovo dando vita ad un successivo gruppo di strutture. L’Administration Building (1946-48), posto vicino all’ingresso, è composto da due unità incorporate nell’esplanade che qui raddoppia la sua ampiezza (figg. 8-9). La Water Dome (1947-48) è rimasta in realtà un’incompiuta sino a pochi anni fa. Nei disegni iniziali si nota infatti che quel che era originariamente previsto in progetto e illustrato nelle prospettive era una fontana: una grande cupola “costruita” solo da getti d’acqua posti lungo la circonferenza e inclinati verso il centro, una architettura liquida e dinamica, fiancheggiata sul lato nord da un boschetto e da una serie di filari d’alberi ad alto fusto disposti a semicerchio. Fu invece realizzata, nel 1948, solo un’ampia vasca circolare perimetrata da scalini che in seguito – negli anni ’60 – fu sostituita da tre piccoli specchi d’acqua di forma irregolare inseriti in una pavimentazione interrotta da aiuole. Solo recentemente, nel 2007, i getti convergenti della Water Dome circolare sono stati riprogettati realizzando così, quasi sessanta anni dopo, l’iniziale visione wrightiana di una cupola d’acqua (fig. 10). L’Industrial Arts Building (1950-52) progettato per ospitare i programmi di arti industriali e belle arti, contiene un teatro circolare (il Fletcher Theater) e spazi liberi per gli studenti. È un edificio a un livello che si sviluppa attorno a due corti longitudinali, una delle quali aperta, definita dal solo porticato costituito dagli stessi elementi dell’esplanade, che rendono così evidente Fig. 9 - Florida Southern College. Vista dell’esplanade, i percorsi protetti da pensiline che legano in un progetto unitario gli edifici realizzati nel tempo da Wright (foto dell’A.) l’integrazione architettonica e la continuità spaziale nel campus. Lo Science & Cosmography Building (195358), un complesso a più livelli, segue la pendenza naturale della collina e termina con il planetario verso il lago di Hollingsworth. La piccola Cappella Danforth, dalle vetrate colorate, destinata alla meditazione e a ospitare piccoli servizi di culto, è infine l’ultimo degli edifici di Wright iniziati quando egli era in vita (23). Fu costruita infatti nel 1954, accanto alla grande Cappella Pfeiffer. Recentemente, su progetto originario di Wright del 1939, è stata realizzata, nel 2013, con la supervisione dell’architetto Jeff Baker (MCWB), la Faculty House (24), commissionata al tempo da Spivey come la prima di una serie di residenze per i membri della facoltà, a est dell’attuale campus. Questa casa unifamiliare in textilblock (2000 elementi a incastro con inserti in vetro), legno di cipresso (soffitti, infissi, pergolati), ora centro di accoglienza per i visitatori, non è sorta sul terreno originariamente previsto, ma a nord del campus, anche se rispetta lo stesso orientamento pensato da Wright. L’abitazione di circa 160 mq è su un unico livello che si apre con più porte sul giardino attorno. L’ingresso principale, nell’angolo sud-ovest, introduce direttamente nel soggiorno pranzo. All’interno gli ambienti sono dominati da allestimenti e arredi in legno. Due le stanze da letto, poste a nord e a ovest, isolate su tre lati, mentre ad est si trova lo spazio per parcheggiare l’auto sotto un’ardita copertura a sbalzo. L’insieme del college, al di là delle singole costruzioni, rimane un’opera di grande interesse (25); non solo come “macchina educativa” ma per il suo essere quasi un testamento, incerto e profetico come sono i discorsi di addio e come fu emblematicamente il saluto di Wright a studenti e insegnanti riuniti nella sua cappella Annie Pfeiffer. Un discorso duro e visionario, sul quale vale la pena di tornare, chiudendo queste note: “Immagino che voi vogliate conoscere da me come si costruisce un edificio. Volete una ricetta per la casa? La volete per il prezzo che avete pagato per iscrivervi al college? Raramente la avrete. Non è questo il modo. Le cose 149 Fig. 10 - Florida Southern College. L’Administration Buildings e in primo piano l’Edgar Wall Water Dome, riprogettata nel 2007 con i getti convergenti a formare una cupola d’acqua come fissato nell’iniziale visione di Wright (foto dell’A.) comuni, quelle che raccogliete per strada, sono facili da ottenere. È per questo che sono comuni. Le cose superiori sono difficili da ottenere. E ce ne stiamo accorgendo qui, nella nostra nazione, quando proviamo a costruire un edificio di qualità superiore. È difficile. Ogni cosa può scoraggiarci” (26). Wright vuole trasmettere agli studenti del college il mistero della conoscenza, della ricerca e della bellezza; e di come le idee nascono e si modificano nella mente. Tra i suoi edifici, davanti a un piccolo uditorio rinuncia a qualsiasi descrizione astratta dei volumi, dei percorsi, del luogo. E parla invece di quel che fra quelle mura avverrà nei giorni a venire, della vita che ospiteranno e che li farà vivere. Così consegna il suo lavoro direttamente ai ragazzi che lì studieranno. Li invita, per progettare il futuro, a farsi emozionare dalle architetture. “Tutto quello che voi dovete fare è immaginare qualcosa nella vostra mente. Voi dovete imparare solo questo, e allora potrete fare qualcosa. È un problema del cuore, del sentimento, una sensazione, un’idea che nasce come un problema di conoscenza [...] Io ho sempre pensato che andare a scuola servisse a trovare dentro di noi quel qualcosa, quella architettura dello spirito, che noi chiamiamo anima; e imparare una tecnica che permetta a questo nostro essere profondo di costruire qualcosa di bello” (27). Quando pronuncia questo discorso, Wright si è appena complimentato con gli allievi del coro per la loro esecuzione. Prova allora ad accennare al rapporto fra la 150 dimensione fisica e quella emozionale nella percezione della qualità delle cose. “C’è in questi edifici qualcosa che vi canta dentro come una nota di qualità spirituale che non può essere definita? Qualcosa di profondo dentro di voi che chiede una risposta? Questo è quel che noi chiamiamo apprezzamento. [...] L’apprezzamento in architettura è qualcosa di simile a un risveglio. Quelli che non ne sono capaci sono come addormentati. [...] Guardi e non vedi. In altre parole ti manca quella che si chiama visione. Come sviluppare la capacità di visione? Un profeta disse laddove non c’è visione un popolo muore. Io dico che laddove non c’è visione non c’è nemmeno un popolo. Non c’è vita, non c’è qualità” (28). Il college diventa così un simbolo in divenire della ricerca di una qualità totale capace di permeare il progetto a qualsiasi scala. Una qualità sinonimo di cultura in divenire e non di standard comuni, un luogo da riscoprire come fosse una prima volta. Come successe a Wright, che ammise: “Lakeland è stata per me una prima volta. La prima volta di un interesse assolutamente idealistico in un college. E poi è quasi diventato il coronamento della mia carriera. Un santuario dell’idealismo e della religione. Tutti gli edifici, nonostante le loro dimensioni modeste, sono unici nel progetto […]. Nella loro vita enfatizzeranno molto il rapporto con il territorio, ognuno con l’altro e ognuno con tutti. Io a Lakeland mi sento come una prugna nel suo succo” (29). Per concludere, tornando al discorso di Wright agli studenti, ci piace ricordare – usando le sue stesse parole – quali fossero il suo obiettivo e la radice del suo progettare: “penso che gli studenti da qui usciranno con miglior senso estetico di quelli di Yale o di Harvard o di altri college progettati in stile gotico. L’atmosfera in cui vi muovete e siete farà la qualità. La qualità è una questione di cultura” (30). (1) L’ultima costruzione, su progetto di Wright a Lakeland, è in realtà recentissima. Si tratta della Faculty House realizzata nel 2013 rispettando fedelmente i disegni originali, sotto la supervisione dell’architetto M. Jeff Baker della Mesick, Cohen, Wilson, Baker Architects (MCWB) di Albany, NY. (2) Scully Jr. 1961. (3) Zevi 1991. (4) Argan 1970, p. 243. (5) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178. (6) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 20 settembre 1938, in Brooks Pfeiffer 1986, p. 168. (7) Ibidem. (8) Wright 1952, p. 120. (9) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178. (10) Hitchcock 1958, p. 447. Il FSC era stato precedentemente trattato dall’autore nel 1942, nel volume monografico (da lui presentato come “a sort of ex post facto catalogue”) della mostra su Wright al MoMA del 1940: Henry-Russell Hitchcock, In the Nature of Materials. 1887-1941 The Buildings of Frank Lloyd Wright. (11) Brooks Pfeiffer 1986, p. 104. (12) Nell’aprile 2009, il World Monuments Fund ha convocato un simposio di storici, architetti, conservatori, artigiani sulla conservazione dei textile-block nell’architettura di Wright; cfr. Chusid 2011. (13) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in Brooks Pfeiffer 1986, p. 179. (14) Su questo argomento cfr. Siry 2004. (15) Qualche anno dopo l’inaugurazione, il 19 ottobre 1944, il forte vento di un uragano causò notevoli danni alla chiesa tra cui il crollo della torre centrale, la distruzione del grande lucernario e danneggiamenti alle sedute nell’auditorium sottostante. La successiva ricostruzione ha portato alcune piccole “correzioni” del progetto. Tra queste delle modifiche per rinforzare la struttura centrale e la torre lucernario, una finitura intonacata che ha coperto le superfici in textile-blocks a vista del 2° piano, non protette da sbalzi superiori, e la realizzazione di un diverso pulpito rimovibile completamente in legno. Cfr. Mac Donald, Galbraith, Rogers Jr. 2007. (16) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, p. 179. (17) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, pp. 177-178. (18) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in Brooks Pfeiffer 1986, p. 179. (19) In una precedente prospettiva, del 1938 la torre centrale era raffigurata più alta rispetto a come sia stata poi realmente costruita. È stato poi ridotto da 5 a 3 il numero dei cosiddetti “bow ties”, gli elementi in cemento armato dalla forma di doppie piramidi che si accostano con i vertici (una sorta di papillon tridimensionali) che ritmano il campanile. I materiali e la costruzione della chiesa sono descritti in Frank Lloyd Wright’s newest creation. A College Chapel Designed to Express the Significance of a Name - Florida, un testo redazionale in «Architect and Engineer», n. 146, July 1941, pp. 34-36. Nel 1976 la rivista «GA» dedica un volume monografico, il n. 40, alla Cappella Pfeiffer e alla Sinagoga Beth Sholom. (20) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 177. (21) Lettera di F.L. Wright al dott. Spivey, 5 marzo 1941, in Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, p. 179. (22) Ad esempio è stato chiuso da pareti il parapetto del balcone che dal secondo piano si affacciava sulla sala di lettura principale e sostituiti numerosi arredi. (23) I disegni di Wright per gli edifici realizzati o progettati nel Florida Southern College sono documentati in alcuni volumi di Brooks Pfeiffer, Frank Lloyd Wright. Monograph. Esattamente gli anni 19241936 sono raccolti nel volume 5, edito nel 1985; gli anni 1937-1941 nel volume 6 del 1986 e gli anni 1942-1950 nel volume 7 del 1989. (24) Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986, pp. 118-119. (25) Grazie all’intelligente e tenace lavoro della presidente del FSC, Anne B. Kerr, il campus è stato inserito nel World Monuments Watch 2008. E nel 2006 ha ottenuto il un Campus Heritage Grant dalla J. Paul Getty Foundation per sviluppare un master plan di conservazione che stabilisse le linee guida per la gestione a lungo termine delle 12 strutture di Frank Lloyd Wright, e il premio Save America’s Treasures per il restauro della Annie Pfeiffer Chapel. Nel 2008 gli edifici di Wright al FSC sono stati inclusi nella World Monument Fund’s World Watch List. (26) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 178. (27) Ivi, p. 177. (28) Ivi, p. 178. (29) F.L. Wright, cit. in Rogers 2001, p. 5. (30) Discorso di F.L. Wright agli studenti tenuto nella Annie Pfeiffer Chapel, il 25 ottobre 1951, ora in Meehan 1987, p. 183. Bibliografia Argan 1970 G.C. Argan, L’Arte Moderna 1770/1970, Firenze 1970. Brooks Pfeiffer, Futagawa 1976 B. Brooks Pfeiffer (testo), Y. Futagawa (foto), The Pfeiffer Chapel and the Beth Sholom Synagogue, in «GA Global Architecture», n. 40, 1976, pp. 2-25. Brooks Pfeiffer, Futagawa 1985 B. Brooks Pfeiffer (testo), Y. Futagawa (foto), Frank Lloyd Wright. Monograph 1924-1936, Volume 5, Tokyo 1985. Brooks Pfeiffer, Futagawa 1986 B. Brooks Pfeiffer (testo), Y. Futagawa (foto), Frank Lloyd Wright. Monograph 1937-1941, Volume 6, Tokyo 1986. 151 Brooks Pfeiffer, Futagawa 1989 B. Brooks Pfeiffer (testo), Y. Futagawa (foto), Frank Lloyd Wright. Monograph 1942-1950, Volume 7, Tokyo 1989. Scully 1961 V. Scully Jr., Modern Architecture. The Architecture of Democracy, New York, NY, 1961. Chusid 2011 J.M. Chusid, Preserving the Textile Block at Florida Southern College. A Report Prepared for the World Monuments Fund, New York, NY, 2011. Siry 2004 J.M. Siry, Frank Lloyd Wright’s Annie M. Pfeiffer Chapel for Florida Southern College: Modernist Theology and Regional Architecture, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 63, 2004, 4, pp. 498-53. Hitchcock 1942 H.R. Hitchcock, In the Nature of Materials. 1887-1941 The Buildings of Frank Lloyd Wright, New York, NY, 1942. Hitchcock 1958 H.R. Hitchcock, Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries, Harmondsworth (Middlesex) Inghilterra 1958; trad. it. L’architettura dell’Ottocento e del Novecento, Torino 1971 e 1989. Mac Donald, Galbraith, Rogers Jr. 2007 R.M. Mac Donald, N.E. Galbraith, J.G. Rogers Jr., The Buildings of Frank Lloyd Wright at Florida Southern College, Charleston, SC, 2007. Red. Frank Lloyd Wright’s newest creation. A College Chapel Designed to Express the Significance of a Name - Florida, in «Architect and Engineer», 146, July 1941, 34-36. Rogers 2001 S.B. Rogers, The Frank Lloyd Wright Campus at Florida Southern College: a Child of the Sun, in «Frank Lloyd Wright Quarterly», 3, 2001, pp. 3-23. Wright 1952 F.L. Wright, Florida Southern College Revisited for Glimpses of the Administration Group in Wright’s Organic Campus, in «Architectural Forum», sept. 1952, 97, pp. 120-127. Wright 1986 F.L. Wright, Lettere ai clienti, raccolte in B. Brooks Pfeiffer, Letters to Clients, Frank Lloyd Wright, Fresno 1986. Wright 1987 F.L. Wright, discorsi, raccolti in P.J. Meehan, (a cura di), Truth Against the World:. Frank Lloyd Wright Speaks for an Organic Architecture, New York 1987, pp. 177-183. Zevi 1979 B. Zevi, Frank Lloyd Wright, Bologna 1979. Zevi 1991 L. Zevi, Florida Southern College. Una miniatura della città-territorio wrightiana, in «L’Architettura. Cronache e Storia», 37, 1991, pp. 648-667. FRANK LLOYD WRIGHT’S FLORIDA SOUTHERN COLLEGE: A LIVING ORGANISM DESIGN Conceived more than 80 years ago, the innovative character of the architecture, urban planning and landscape design of Florida Southern College in Lakeland remains intact. Built over the course of many years, between 1937 and 1957, the campus is the largest concentration of Wright’s work with its 12 buildings lining the shores of Lake Hollingsworth. A system of canopies – supported by columns as interesting as they are unique – creates an esplanade that snakes irregularly across the campus, integrating it within its natural setting. The site plan, which has been compared to Hadrian’s Villa at Tivoli, explored the theme of the city and its territory decades in advance. At Lakeland Wright offers an anti-rhetorical, functional and yet symbolic response to the growing demand for an architecture of its era. The Annie Pfeiffer Chapel is emblematic in this regard. The originality of the concrete block is also interesting: a textile-block designed in over forty different types that contributes to the unity and character of the campus design. As part of the analysis of the College, the essay also presents passages from the tough and visionary speech given by Wright here in 1951. 152 UN MONUMENTO ALLE CULTURE IBRIDE. JUAN O’GORMAN E LA BIBLIOTECA CENTRALE DELLA UNIVERSIDAD NACIONAL AUTÓNOMA DE MÉXICO A CITTÀ DEL MESSICO Raffaele Marone «Tres Culturas» Due lapidi in uno stesso luogo. Sulle ultime tre righe incise sulla prima lapide si legge: “No fue triunfo ni derrota fue el doloroso nacimiento del pueblo mestizo que es el Mexico de hoy” (1). Quelle parole ricordano l’eccidio di nativi del 1521 ad opera delle truppe di Cortèz. La seconda lapide ricorda la matanza di oltre trecento studenti dell’UNAM, la Universidad Nacional Autónoma de México, nel 1968, nello stesso luogo, Plaza de las Tres Culturas, Città del Messico (2). Le tre culture da cui il sito prende il nome sono: l’antica dei nativi, la coloniale e la modernità, le tre culture del pueblo mestizo, «il popolo meticcio che è il Messico di oggi». Plaza de las tres Culturas è uno spazio che lega i destini del pueblo mestizo agli studenti dell’UNAM. La Ciudad Universitaria UNAM Le tre culture del pueblo mestizo, e gli studenti UNAM, di nuovo si trovano legati nella Ciudad Universitaria e, in particolare, nella sua Biblioteca Central (3). Il Campus della UNAM, nel 2007 dichiarato dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità, è un progetto affidato a Mario Pani, dopo un concorso al quale avevano partecipato i principali esponenti del dibattito architettonico nazionale, alcuni dei quali avranno poi incarico di disegnare i diversi edifici (4). Pani, architetto modernista, per l’impostazione dell’impianto generale del complesso decide di richiamare in modo chiaro la potenza insediativa espressa dai grandi complessi cerimoniali della tradizione precolombiana dei popoli nativi (5). In quegli insiemi l’ampio respiro degli spazi aperti è dovuto alla sapiente disposizione dei volumi costruiti. L’intenzione di Pani è di rileggere nella Città Universitaria quel monumentalismo, perentorio ma privo di retorica, che caratterizza gli insiemi architettonici precolombiani: lo scopo è evocare lo spirito di Monte Alban, spettacolare sito dello stato di Oaxaca (fig. 1). Il contrasto tra il rigore International Style degli elementi edilizi e la vivacità degli apparati simbolico-decorativi dei mural, realizzati da alcuni tra i principali muralisti del Paese, determina lo speciale carattere del Campus UNAM e, allo stesso tempo, sancisce concreta- mente il legame tra l’architettura modernista e il muralismo. La Biblioteca Central incarnerà pienamente quel legame. La Biblioteca Central Due anni dopo l’inaugurazione della Città Universitaria, nel 1956, apre la Biblioteca Central del Campus, disegnata da Juan O’Gorman, architetto, pittore e scultore di origini irlandesi, insieme agli architetti Gustavo María Saavedra e Juan Martínez de Velasco. La costruzione era iniziata sei anni prima (6). L’edificio è fondato su una concezione simbolica che vede il Messico contemporaneo indissolubilmente legato al suo passato precolombiano, quindi alle culture dei nativi. L’idea è che il progresso, quale prodotto della modernità, sia inscindibile dal passato, dalle culture delle origini. L’edificio, dimensionato per contenere un milione di volumi, e inizialmente pensato per ospitare la Biblioteca Nazionale del Messico, diviene poi la Biblioteca Centrale dell’UNAM (7). Fin dall’inizio, fu concepito come un segnale architettonico dall’alto valore simbolico, vero e proprio landmark. La composizione è un’unità non scindibile di arte plastica e architettura, un manufatto di limite sotto l’aspetto tipologico, al confine tra architettura e arte pubblica. Gli edifici principali della Città Universitaria si affacciano sul grande vuoto centrale, come nei grandi complessi religiosi mesoamericani. Il volume della Biblioteca, alto 50 metri, è disposto in un punto visivamente determinante dell’impianto del Campus, e apre sullo spazio di incontro della comunità accademica (fig. 2). La composizione del volume della Biblioteca è estremamente semplice: un parallelepipedo orizzontale, su cui si erge in verticale un altro parallelepipedo. L’elemento verticale della torre dei libri, decorato su tutte le facciate da un mural a mosaico, rende la Biblioteca subito distinguibile da tutti gli altri edifici del Campus. Nella parte più bassa del volume verticale, nei livelli corrispondenti alle aree amministrative e di servizio, ci sono tre strisce di mural che si alternano a vetrate colorate. Il parallelepipedo orizzontale, che fa da basamento, si distende sulle asperità del suolo del Pedregal, estesa area vulcanica dall’alto valore paesaggistico, e su di esso poggia 153 Fig. 1 - Il grande spazio aperto su cui prospetta la Biblioteca Central de la UNAM (foto di Adlai Pulido). Fig. 2 - L’edificio della Rectoria in relazione al volume della Biblioteca Central (foto di Adlai Pulido). incastrandosi nella articolata orografia del sito: contiene le sale di lettura e i tutti i servizi al pubblico (8). Le ampie fasce vetrate orizzontali, che inondano di luce le sale di lettura, contraddicono la funzione di appoggio al suolo del basamento. L’ingresso nord dell’edificio è adornato da una 154 fontana in forma di Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità, un motivo che si ripete in diverse parti dell’edificio. Nella Biblioteca Central il rapporto tra contenente e contenuto, tra involucro e spazio interno, è portato all’estremo: è un edificio tutto pelle, nel quale lo spazio interno sembra com- pletamente asservito alla funzione di landmark che il segno architettonico deve giocare. Data la configurazione del manufatto, e il suo ruolo nel complesso della Ciudad Universitaria, è piuttosto evidente che O’Gorman abbia disegnato l’edificio con l’obiettivo primario di creare le condizioni per rivestire completamente la torre dei libri con il mural. Il mural Il mural, che riveste la torre dei libri, su disegno dello stesso O’Gorman, è realizzato con un mosaico di pietre, provenienti da tutte le regioni della nazione. Le figure riprendono lo stile grafico delle culture preispaniche, e il realismo elementare dei muralisti (9). Il tema è l’evoluzione della cultura. Il mural funziona come un codice, rappresenta una narrazione della storia del paese in varie fasi, è infatti intitolato «Rappresentazione storica della cultura». Sulle quattro pareti le immagini raccontano, nella migliore tradizione del muralismo, come si è andato determinando il vitale crogiuolo nel quale si è sviluppata la cultura messicana contemporanea: gli ancestri mejica precolombiani, la colonizzazione spagnola, la modernità e l’istituzione universitaria, che è deputata a rappresentare il più pienamente possibile, nel presente, le tre culture del popolo meticcio. La parete nord dell’edificio rappresenta immagini delle culture preispaniche mesoamericane e le loro divinità, il tema ruota intorno alla dualità vita-morte. La parete sud racconta la visione del mondo europeo contrapposta a quella degli indigeni e illustra il profilo del mondo coloniale della Nuova Spagna, presentando il pensiero alla base della cultura spagnola in quel tempo, segnato dalla contrapposizione tra Dio e Demone, tra religiosità e mondanità. La parete orientale raffigura la modernità, al centro c’è la forma di un atomo (fig. 3). L’atomo al centro della nuova visione del mondo appare come il principio che genera l’energia necessaria alla vita di piante, uccelli, pesci, rettili e del genere umano, e l’energia potenziale dei minerali. La parete occidentale ‘parla’ dell’Università Nazionale e della sua importanza nel Messico contemporaneo. Prima della realizzazione O’Gorman si impegna nella ricerca delle pietre naturali colorate necessarie per il mural. Quella ricerca diviene epica. L’architetto viaggerà per cave e miniere, valli e montagne, attraverso le regioni più remote del Paese, spingendosi fino al deserto di Zacatecas. Anche la realizzazione del mural assume aspetti epici, certamente a causa delle dimensioni dell’opera. O’Gorman si reca ogni giorno della settimana, dalla mattina fino a sera tarda, per due anni, a supervisionare la realizzazione. Per comprendere la scala delle operazioni basti pensare al tavolo di montaggio verticale lungo 48 metri per sei di altezza, preparato all’interno dell’edificio in costruzione, per posare i pezzi singoli di un metro quadro ciascuno da montare sulle facciate. La superficie complessiva dei mosaici è di circa 4.000 mq (fig. 4). Il muralismo originariamente è una forma d’arte intesa come strumento di comunicazione culturale di massa, rivolta essenzialmente alle masse contadine urbanizzate costituite da el pueblo mestizo, il popolo meticcio. Le immagini dipinte venivano distese sulle pareti di costruzioni esistenti. L’edificio della Biblioteca può considerarsi Fig. 3 - La parete orientale della Biblioteca con l’atomo, simbolo della modernità (foto di Adlai Pulido). 155 Fig. 4 - La torre dei libri, rivestita su tutte le pareti da mural, poggia sul volume orizzontale che contiene le sale di lettura, vetrato nella parte bassa di attacco al suolo (foto di Adlai Pulido). Fig. 5 - La Biblioteca Central punto di riferimento nel Campus UNAM, qui vista dalla Facultad de Filosofia y Letras (foto di Adlai Pulido). un’interpretazione estrema del muralismo come modo di fare arte, nel senso che mural e volume costruito coincidono, in quanto sono concepiti insieme, come un’unica idea. O’Gorman La Central Biblioteca si può leggere come l’esito di una contaminazione del razionalismo in architettura con il muralismo. L’edificio, in un certo senso originale, se non poco ortodosso nell’ambito della figurazione architettonica del suo tempo, trova le sue ragioni nella complessa biografia umana e artistica del suo autore, Juan O’Gorman (10). Nato in una famiglia culturalmente mista, da madre messicana e padre irlandese, architetto pittore, intellettuale, si forma come persona di cultura ibrida e diverrà ideatore di linguaggi ibridi. L’ambiente culturale nel quale si forma il giovane Juan è quanto mai vivo e cosmopolita. Le ricerche delle correnti artistiche nate nel vecchio continente si incrociano con quelle autoctone, sviluppatesi soprattutto a seguito della rivoluzione zapatista. Lo scrittore Pino Cacucci, nella biografia della fotografa italiana Tina Modotti, compone un affresco del fertile clima culturale che si viveva in quegli anni nel Paese mesoamericano (11). O’Gorman, al centro di relazioni umane di grande intensità, fu amico fraterno di Frida Kahlo e Diego Rivera, per il quale costruì la casa studio, e fu il traduttore di Lev 156 Trotsky nelle sua permanenza, conclusasi tragicamente, in Messico. Nel 1929 l’architetto costruisce una piccola casa studio per sé, in puro stile razionalista. È l’esordio di O’Gorman, che guarda a Josè Villagran Garcia e agli altri razionalisti messicani, di qualche anno più anziani di lui (12). Appena due anni dopo Diego Rivera, colpito dall’architettura del manufatto, commissiona al giovane amico una nuova casa studio per sé e Frida Kahlo. O’Gorman propone una originale tipologia a volume doppio; le due parti sono collegate da una passerella aerea tra le coperture (13). L’esplorazione del razionalismo da parte dell’architetto prosegue, principalmente attraverso il grande impegno richiesto dal disegno e la realizzazione, dal 1932 in pochi anni, di oltre trenta complessi scolastici in diverse aree del Paese (14). Intanto il rapporto con la coppia di amici Diego Rivera e Frida Kahlo è sempre vivo e fertile, tanto che l’architetto affiancherà il muralista nella realizzazione di un nuovo edificio, un personale studio-museo, dove lavorare e anche conservare l’enorme collezione di oggetti d’arte precolombiana che Diego andava componendo da anni. Rivera volle chiamare l’edificio Anahuacalli (ovvero casa dell’energia). Anahuacalli, che aprirà solo nel 1964, è costruito interamente con la scura pietra vulcanica del sito, e rilegge, in forme piuttosto mimetiche, i monumenti precolombiani (15). Lo spazio interno, che sembra scavato nella massa lapidea, proprio come negli antichi monumenti, è decorato con grandi superfici a mosaico in pietra. Quest’opera costituirà una sorta di laboratorio per sperimentare quelle soluzioni artistiche e tecniche che O’Gorman attuerà nel mural della Biblioteca. In quegli stessi anni, dal 1942 al 1948, O’Gorman dipinge molto, si dedica quasi esclusivamente alla pittura, ricercando un linguaggio proprio, di cui l’autoritratto del 1950 è una sorta di punto d’arrivo (16). L’accelerazione del linguaggio architettonico di O’Gorman nella direzione presa con l’Anahuacalli, unito alla libertà immaginativa sperimentata con la pittura, può dare indizi per spiegare la casa dell’architetto sulla Avenida San Jeronimo, iniziata sul finire degli anni Cinquanta (17). La casa, detta la Cueva, la grotta, è un’immaginifica costruzione che prolunga una cavità naturale del suolo vulcanico. L’edificio potrebbe sembrare un’originale trasposizione mesoamericana dell’opera di Antoni Gaudì. Cultura come confluenza di culture L’edificio della Biblioteca Central è un’opera che raduna significati. L’opera si può interpretare come potente sintesi del percorso artistico di O’Gorman (18). Fig. 6 - La parete occidentale della Biblioteca Central con lo scudo, simbolo della UNAM (foto di Adlai Pulido). Nel progetto della Biblioteca, le passate esperienze razionaliste permetteranno all’architetto di superare sia l’estremismo figurativo della casa di San Jeronimo che il mimetismo insito nell’Anahuacalli, ispirato da Rivera. Anche se di Rivera certamente è evidente l’influenza sulla scelta di costruire un edificio coincidente con un mural. La Biblioteca, in un certo senso, si pone come una sorta di quintessenza del progetto culturale che la UNAM proponeva al Messico, ma pure agli altri Paesi dell’America Latina e, in definitiva, al mondo intero: vedere, sentire la cultura di un Paese come prodotto del suo passato e delle culture diverse che lo hanno attraversato, e ancora lo attraversano nel presente. Nella primavera del 2006 gli zapatisti del Chiapas ritornano a Città del Messico cinque anni dopo la storica entrata nella capitale del 2001. I rappresentanti degli indijenas, della parte più fragile del pueblo mestizo, per continuare a rivendicare la presenza nella cultura e nella società del Messico attuale, scelgono (19) Plaza de las Tres Culturas e lo spazio antistante la Biblioteca della Ciudad Universitaria per far parlare il loro portavoce Marcos a studenti e docenti (20). L’edificio farà da sfondo anche simbolico all’incontro. Ancora una volta, si riannoda il filo che unisce gli studenti della UNAM alle «tre culture» del pueblo mestizo. 157 Le vicende della Biblioteca Central, e della stessa Ciudad Universitaria, offrono la possibilità di comprendere il ruolo centrale che l’università pubblica ha avuto in quel Paese, quanto quel ruolo fosse sentito dagli studenti, dai docenti, dagli intellettuali e dagli artisti (figg. 5-6). L’architettura, nella fisicità concreta di un edificio, la Biblioteca Central, è stata chiamata a testimoniare, a interpretare le ragioni culturali profonde di un’intera società, il suo necessario fondarsi sul metissage. Il riconoscimento del valore, e quindi dell’importanza, delle «culture ibride» è stato tema rilevante nella riflessione novecentesca in America Latina (21). Studiare, attraverso l’architettura e le arti, quel ricchissimo bagaglio di pensieri ed esperienze concrete sembra utile oggi, tempo di confronti, giustapposizioni, scontri, tra le culture diverse che abitano il pianeta. Umberto Eco ha scritto: “Quando entra in scena l’altro nasce l’etica” (22). Nelle Americhe «l’altro» è stato paradossalmente il nativo, l’originario. Con il racconto scritto dalle immagini sulle pareti della Biblioteca Central della UNAM l’altro «entra in scena». Quel racconto dice che non c’è vera evoluzione di una cultura, e quindi di una società, senza ibridazione con l’«altro», se non c’è integrazione possibile tra uomini, per natura tra loro diversi, quindi reciprocamente «altri». Allora forse, il monumento alle culture ibride di Juan O’Gorman, è da interpretarsi come Monumento alle Culture, a tutte le culture. (1) [Non fu trionfo né sconfitta fu la nascita dolorosa del popolo meticcio che è il Messico di oggi]. (2) Sui tragici fatti dell’ottobre 1968, si veda il resoconto di Oriana Fallaci, al tempo giornalista inviata in Messico, Fallaci 1968. Per un inquadramento generale di quegli eventi, in relazione a movimenti politici in altre parti del mondo: Kurlansky 2005. La memoria di quell’eccidio è ancora molto viva anche nelle nuove generazioni di studenti della UNAM, che in occasione del 50° anniversario hanno partecipato a una grande manifestazione nella piazza, come per ribadire il grande valore simbolico di quello spazio; al riguardo si veda UNAM conmemora 2018. (3) Lizárraga Sánchez 2014. (4) Sul progetto, la costruzione e gli aspetti linguistici delle architetture del Campus: Pani, del Moral 1979, Rojas 1979, Lazo 1983. (5) Mario Pani è stato figura centrale dell’architettura moderna messicana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, cfr. Adriá 2005. (6) La Biblioteca è certamente l’edificio più studiato del Campus UNAM e, in assoluto, tra quelli più pubblicati dell’architettura messicana del Novecento, spesso in testi interessanti anche se a diffusione piuttosto limitata, come Haupt 2001, pp. 44-46, e Prior 2005. (7) In Solís Ávila 2001, pp. 35-43, un ampio e documentato articolo ricostruisce le varie fasi della vita dell’edificio, dalla sua costruzione alle varie trasformazioni e adattamenti avvenuti nel corso del tempo. (8) Per una documentazione visiva dell’area del Pedregal si veda il libro fotografico Portugal 2006. 158 (9) La parte più interessante dell’articolo Morales Quezada 2008 riguarda la realizzazione del mural, dove si sottolinea il grande contributo dato dal lavoro artigiano al compimento dell’opera. Il mural è espressione artistica tipica della cultura messicana del Novecento. I più influenti artisti del Paese hanno prodotto importanti opere in questo campo. Al riguardo si veda: Pellicer 1960, Linares 1967, Torres Escalona 2004 e Comisarenco Mirkin, Neruda, Trueba Lara,Villaurrutia 2013. (10) Cfr. O’Gorman, Rodríguez Prampolini, Sáenz, Fuentes Rojas 1983; Rodríguez Prampolini 1983; Rodríguez Prampolini, Jiménez, Poniatowska 1999; O´Gorman 2007. Tra le diverse risorse in rete su O’Gorman risultano particolarmente interessanti il video Con los Ojos de Juan O’Gorman, in https://www.youtube.com/watch?v=K1IWiQLfHt0 e l’articolo di Victor Jimenez, O’Gorman dibujante, in http://www. difusioncultural.uam.mx/revista/abr2005/victorjimenez.html), ma soprattutto il documentario Como una pintura nos iremos borrando (https://www.youtube.com/watch?v=tYT44e3gAfE )realizzato sulla base di una lunga intervista, l’ultima, a Juan O’Gorman, oramai in età avanzata. Per una visione storico-critica complessiva delle arti nel Messico moderno, cfr. Fernández 1994. (11) Cacucci 1991. (12) Max Cetto, architetto militante e protagonista egli stesso dell’architettura moderna messicana, è stato tra i più efficaci divulgatori delle vicende del razionalismo messicano, soprattutto con il suo volume Cetto 1961. (13) Oltre alle pagine sulla casa nei volumi già citati che riguardano l’opera di O’Gorman, in rete, tra le molte risorse disponibili sull’edificio, risultano particolarmente utili il sito web del Museo Casa Estudio Rivera Kahlo: https://estudiodiegorivera.bellasartes. gob.mx/, ospitato in quella che fu la residenza dei due artisti e, per l’efficacia delle presentazioni da parte di studiosi e delle immagini contenute, i video Artes - Museo Casa Estudio Diego Rivera y Frida Kahlo (https://www.youtube.com/watch?v=zcyz-0nq-k4) e Firma de Juan O´Gorman. Museo Casa Estudio Diego Rivera y Frida Kahlo (https://www.youtube.com/watch?v=vXnvHCWphLU). Una lettura della casa è in Giardiello 2010, pp. 170-172. (14) Si veda lo studio Busqued Navarro 2015. (15) Su Anahuacalli Novo 1970. (16) O’Gorman pittore è stato studiato per lo più negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si vedano ad esempio Rodríguez Prampolini 1969, pp. 81-84 e Luna Arroyo 1973. Per un più ampio sguardo sull’arte messicana del Novecento si veda Borghese, Corzo 1997, catalogo della grande mostra tenuta in Castel dell’Ovo a Napoli, nel 1997. Lo scrittore Pino Cacucci, in un volume che raccoglie scritti sul Messico contemporaneo, descrive le vicende della realizzazione del mural intitolato La Historia de Michoacán realizzato all’interno della Biblioteca Pública Gertrudis Bocanegra di Pátzcuaro; cfr. Cacucci 1992, p. 75. (17) I due studi post-lauream Pérez García 2011 e Arellano 2016 sono significativi del recente accresciuto interesse in ambiti accademici per la casa in Avenida San Jeronimo, che O’Gorman aveva costruito per sé. (18) Catherine Nixon Cooke nel suo libro sul mural a mosaico intitolato Confluence of Civilizations in the Americas, realizzato a San Antonio in Texas, coglie aspetti fondamentali del pensiero sull’arte di O’Gorman, v. Nixon Cooke 2016. (19) Sullo storico evento del 2001 si veda: Red. 2001 e, per le immagini dell’incontro del 2006 sul piazzale antistante la Biblioteca, Red., Con los Estudiantes en el D.F., 2 de mayo (http:// enlacezapatista.ezln.org.mx/2006/05/03/con-los-estudiantes-en-eldf-2-de-mayo/#uam). (20) I testi dei discorsi contenuti in Subcomandante Marcos 1996, interessano qui in quanto costituiscono un notevole esempio di feconda, riuscita contaminazione di forme scritte di espressione moderna e forme del pensiero indigeno, fondato su concatenazioni di immagini. (21) Garcia Canclini 1990. (22) Eco 2014, p. 69. Bibliografia Adriá 2005 M. Adriá, Mario Pani. La Construcción De La Modernidad, México 2005. Lazo 1983 C. Lazo, Pensamiento y destino de la Ciudad Universitaria de México, México 1983. Arellano 2016 I. Arellano, Casa O’Gorman: habitando la cueva (1949-1969) Tesi doctoral, Universitat Politècnica de Catalunya, Departament de Projectes Arquitectònics, Barcelona 2016. Linares 1967 M. 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From the very beginning, the building was conceived as a highly symbolic landmark. The book tower, a huge blind parallelepiped, is completely covered with a mural made with a mosaic of stones from all regions of the nation. Considered a masterpiece of modern American architecture, it shows a unity of architecture and art. The recognition of the value, and therefore the importance, of “hybrid cultures” is a relevant theme in Latin American twentieth-century thought. Studying that wealth of thoughts and concrete experiences through architecture and the arts is useful today, at this time of comparisons, juxtapositions and clashes between the different cultures of the planet. 160 L’UNIVERSITÀ DEL CARDINALE CISNEROS, MODELLO DELL’ETÀ MODERNA DICHIARATO PATRIMONIO MONDIALE Javier Rivera Blanco La città di Alcalá, per la sua origine preromana e – soprattutto – per la sua struttura medioevale, per la sua università e per la sua evoluzione fino al presente, ha generato un importante patrimonio (1). Nacque nel territorio romano di Complutum, da cui si trasferì in epoca musulmana verso la collina e acquisì il suo nome attuale. Più tardi fu ricollocata nel luogo dove, secondo la tradizione, furono martirizzati i santi Giusto e Pastore, venendosi a formare intorno alla loro cappella un quartiere cristiano e intorno alla via maggiore altri due, uno ebreo e uno islamico, con un grande spazio al di fuori delle mura per svolgere i mercati, dove in seguito sarebbe sorta la piazza maggiore. La popolazione ha potuto confidare sugli Studi Generali (l’università originaria) dal 1293, poi rinnovati nel secolo XV dall’arcivescovo Carrillo e rifondati dal cardinale Cisneros. Quest’università fu dichiarata “Patrimonio Mondiale” nel 1998, facendo così parte delle cinque che vantano questo titolo nel mondo: l’Università della Virginia (USA), l’Università Centrale del Venezuela (Caracas), l’Università Autonoma del Messico (UNAM) e l’Università di Coimbra (Portogallo) (fig. 1). Il cardinale Cisneros (2) Tra i numerosi meriti di Francisco Jiménez, cardinale Cisneros (fig. 2) spicca la creazione dello stato moderno spagnolo; difatti, egli pianificò con insistenza e ottenne l’unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona sotto il casato della dinastia austriaca degli Asburgo. Nonostante fosse nato a Torrelaguna (Madrid, 1436), in diversi documenti posteriori viene descritto come nativo della villa di Cisneros (Palencia) (3), dalla quale prese il suo cognome da francescano, momento nel quale inoltre cambiò il suo nome, da Gonzalo a Francesco. Morì a Roa, Burgos (l’8 novembre del 1517, a 81 anni d’età), mentre andava a formalizzare il passaggio all’imperatore Carlo V dei poteri che aveva detenuto come Reggente dalla morte di Fernando II d’Aragona (dal 23 gennaio del 1506 all’8 novembre 1517). In precedenza, era già stato Reggente di Spagna, dopo la morte di Felipe I – re di Castiglia – dal 25 settembre del 1506 fino al 17 agosto del 1507. In virtù di un suo esplicito desiderio fu sepolto nella cappella dell’Università di Alcalá (figg. 3-4), nella quale si conserva il suo stupendo sepolcro in marmo di Carrara, realizzato dai migliori scultori italiani e spagnoli del Rinascimento. Tuttavia, dal secolo XIX i suoi resti riposano nella cattedrale Magistrale di Alcalá. Trascorse la sua infanzia a Cisneros studiando latino con suo zio don Alvaro (seppellito in un importante sepolcro nella chiesa locale di San Pedro), che fu un chierico in questo borgo della Tierra de Campos palentina. Studiò grammatica ad Alcalá e diritto civile ed ecclesiastico nella scuola di San Bartolomé di Salamanca. In seguito, prese gli ordini sacerdotali a Roma. L’arcivescovo di Toledo Don Alonso Carrillo e il nostro personaggio si scontrarono per l’arcipretura di Uceda. A tal proposito il prelato lo incarcerò per diversi anni, nella torre di Uceda e nel castello di Santocraz. A partire dal 1477 ottenne in permuta la Cappellania Maggiore del Capitolo della cattedrale di Sigüenza, dove strinse una proficua relazione con il vescovo don Pedro González di Mendoza, il quale arrivò a contare su di lui in qualità di Vicario Generale della diocesi. Nel 1480 entrò nell’Ordine dei PP. Francescani, con il nome di frà Francesco (in onore del santo di Assisi) e si ritirò per un periodo nel convento di La Salceda, in seguito presso quello di San Juan de los Reyes e nel El Castañar. Sarebbe inoltre divenuto Provinciale dell’ordine dei Francescani in Castiglia promuovendo la sua riforma. Il suo mentore, il cardinale González di Mendoza, riuscì a farlo nominare confessore della Regina Isabella la Cattolica nel 1492, e alla sua morte nel 1495 gli successe nell’Arcivescovato di Toledo, prendendo possesso del convento francescano di Tarazona di fronte agli stessi Re Cattolici. A questo punto era uno degli uomini più potenti del regno e detenne l’incarico di cardinale della Santa Chiesa Romana e Primate di Spagna. Dedicò molti sforzi alla ristrutturazione prima dell’Ordine Francescano e poi del clero spagnolo, che viveva momenti di grande miseria e declino, così come di grande decadenza intellettuale. Di vitale importanza per la Spagna dell’Età Moderna fu la fondazione dell’Università di Alcalá con Bolla Pontificia del 1499: un’istituzione che già esisteva dal secolo XIII ma che si trovava in una situazione di piena decadenza. La nuova organizzazione serviva a migliorare la formazione del clero, anch’esso in grave degrado, e anche ad importare nel paese tutte le innovazioni che stavano nascendo in quel momento nel resto d’Europa sotto l’egida dell’Umanesimo e del Rinascimento. Fu d’esempio alla creazione di altre università nell’America spagnola e nelle sue aule si formarono – oltre a sacerdoti, frati e mo- 161 Fig. 1 – Facciata dell’università di Alcalá de Harenares, XVI secolo (Archivio UAH). naci – anche numerose personalità dell’amministrazione che si riversarono in Spagna e verso le nuove istituzioni americane, rendendo possibile l’esportazione del modello di stato moderno nel Nuovo Mondo. Cisneros istituì un’università che vantava i migliori architetti e artisti dell’epoca, come Pedro Gumiel ed Enrique de Egas, i quali disegnarono un piano classico in quadrettatura per il collegio maggiore (di San Ildefonso), 12 collegi minori e poi altri sei ancora (1 Cristo+12 Apostoli+6 discepoli preferiti), costituendo una Città del Sapere, unica al mondo, la Città di Dio e la Città biblica per eccellenza. Divenne il centro più importante della Spagna rinascimentale e barocca, insieme all’Università di Salamanca, del cui collegio fecero parte professori e alunni del calibro del principe Carlo, il ministro Antonio Pérez, l’archeologo, cronista e geografo Ambosio de Morales, il medico Valles il Divino, gli scrittori Mateo Alemán, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de Molina, santi come San Giovanni della Croce, San Giuseppe Calasanzio, Sant’Ignazio di Loyola, San Tommaso di Villanueva, San Giovanni d’Ávila, il Beato Palafóx, il matematico e geometra Juan Caramuel, il grammatico Elio Antonio de Nebrija: il fiore all’occhiello del Secolo d’Oro spagnolo. In seguito, anche ministri e scrittori diedero lustro a questo centro universitario, come Gaspar Melchor de Jovellanos o la seconda Dottoressa al mondo donna María Isidra Quintila de Guzmán, all’inizio del secolo XIX. Tra i progetti che Cisneros finanziò e sponsorizzò è bene menzionare la pubblicazione ad Alcalá della Bibbia Poliglotta Complutense. Fu una delle imprese di maggior valore della sua epoca, “un’opera come per miracolo” così definita dal biografo del cardinale Albar Gómez di Castro, davvero rivoluzionaria poiché favorì la diffusione 162 della stampa e del testo sacro in tutta Europa e America. Fece da base alle famose bibbie di Anversa (1568-1572), Heidelberg (1586), Parigi (1624-1645) e Londra (16541669). Fu approvata parimenti da Papa Leone X. Fig. 2 – Francisco Jiménez de Cisneros ritratto come cardinale, generale e reggente di Spagna (Archivio UAH). Fig. 3 – Cappella de Cisneros, XVI secolo, stato attuale (Archivio UAH). Allo stesso modo va menzionata la costruzione della sua università dal punto di vista urbanistico e architettonico. Per quanto riguarda il primo punto essa influì pesantemente sulle nuove piante delle città spagnole in America attraverso la pianta a scacchiera o a reticolo, mentre dal punto di vista architettonico istituì la Città del Sapere di maggior compiutezza fino ad allora mai stata realizzata, nella quale nel corso dei secoli lavorarono i più grandi architetti e artisti spagnoli, come Pedro Gumiel, Rodrigo Gil de Hontañón, Sopeña, Juan Gómez de Mora, Francisco Moradillo, Ventura Rodríguez, Bartolomé Ordóñez, Domenico Fancelli, Juan de Flandes, Francisco Moradillo. Grazie a grandi artisti rinnovò completamente la cattedrale Magistrale di Alcalá de Henares, che condivide questo titolo con la Magistrale di Lovanio, essendo i canonici del suo capitolo dei magister, ossia, contemporaneamente professori dell’università. Ebbe anche l’onore politico e militare di dirigere le truppe del regno alla conquista di Orano. Peraltro, aveva già partecipato in modo ragguardevole alla conquista di Granada con la Regina Isabella. Proprio della regina fu valido consigliere fino alla sua morte e quando venne a mancare Fernando I il Cattolico si occupò di governare la Spagna con destrezza e mantenendo in riga i nobili che si scontravano per mettere al potere Fernando, fratello del Re defunto, o per istigare la nobiltà a recuperare i propri antichi privilegi dinanzi alla monarchia appoggiando la regina Giovanna. Reggente per desiderio del proprio Re, mantenne il potere fino all’arrivo del giovane Imperatore Re Carlo V e I di Spagna, nonostante per questione di ore non poté ricon- segnarglielo di persona a causa della morte che sopraggiunse proprio allora. L’epitaffio sul suo sepolcro originale conteneva questo testo: “Io, Francesco, che ho fatto edificare alle Muse un Collegio Maggiore,/ Giaccio ora in questo piccolo sarcofago./ Ho unito la porpora al saio,/ l’elmo al cappello,/ Frate, Comandante, Ministro, Cardinale,/ Ho congiunto senza meritarlo la corona alla tonaca/ Quando la Spagna mi obbediva come a un re”. Un’università storica con un importante patrimonio La sua origine storica (4) colloca l’Università di Alcalá al quarto posto tra quelle create in Spagna, dopo quella di Palencia (1212), sparita molto presto, quella di Salamanca (1218) e quella di Valladolid (1241). Gli Studi Generali superiori di Alcalá de Henares furono creati il 20 maggio del 1293 dall’arcivescovo di Toledo Pedro Pérez Gudiel e dal re don Sancho IV il Coraggioso e, secondo quanto risulta dal documento del privilegio reale, con “tutte quelle schiettezze che possiede lo studio di Valladolid”. Il suo prototipo fu modello per gli istituti di Parigi e di Salamanca, suggerendo spunti per quelli di Bologna e Lovanio (5). Nel 1459 l’arcivescovo di Toledo e Signore di Alcalá Alonso Carrillo de Acuña creò le cattedre di Grammatica, Filosofia e Logica grazie alle quali fu notevolmente modernizzata e migliorata, e nel 1473 passò sotto la gestione del guardiano del convento francescano di Santa Maria di Gesù (poi chiamato di San Diego). Una nuova cattedra fu promossa dal cardinale Pedro González di Mendoza 163 Fig. 4 – Cappella de Cisneros secondo l’incisione di Jenaro Pérez Villaamil, 1842 (Archivio UAH). il 27 marzo del 1497. Tuttavia, un momento cruciale per la struttura fisica dell’università attuale ebbe luogo a partire dal 13 aprile del 1499, data in cui il cardinale Cisneros ottenne da papa Alessandro VI la bolla con la quale si rielaborava l’università secondo la nuova visione riformista, rinascimentale ed umanista. I suoi statuti furono approvati nel 1513. Era composta dalle facoltà di Teologia, Arte, Diritto Canonico e Medicina. In questi anni in Europa stava nascendo il modello di collegio maggiore universitario con la creazione del Collegio degli Spagnoli di Bologna, fondato nel 1367 da don Gil di Albornoz; seguendo lo stesso modello fu creato il Collegio di San Bartolomé di Salamanca, da Don Diego di Anaya. Intorno alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI furono fondati i più rilevanti istituti della Spagna; quello di Santa Cruz di Valladolid, quello di Cuenca a Salamanca, San Ildefonso di Alcalá e poi San Salvador di Oviedo e quello di Fonseca di Salamanca, oltre a quello dell’Università di Sigüenza, antenata diretta di quella complutense. Infatti il 14 marzo 1499 venne posta la prima pietra del Collegio Maggiore di San Ildefonso, iniziando le opere che si sarebbero concluse nel 1508, anno di inaugurazione e vennero create le facoltà di Arte e quella di Canoni e Teologia (quella di medicina sarebbe stata 164 creata nel 1514). A questo punto il cardinale aveva già totalmente configurato la sua idea di città universitaria a partire dal lato orientale della città medievale, fondando così ex professo ed ex novo, probabilmente con il suo architetto Pedro Guimel, la prima città universitaria progettata d’occidente, la cui planimetria generale del 1564 è conosciuta attraverso quella realizzata dal visitatore don Juan de Ovando nella sua ricostruzione del secolo XVIII. Con Cisneros viene progettato un collegio universitario maggiore (San Ildefonso) e altri dodici di istruzione inferiore (in memoria dei dodici apostoli, e più tardi altri in ricordo dei discepoli) che occuparono tutto il nuovo spazio dell’espansione risalente al Cinquecento e alcuni appezzamenti e terreni della città antica. Durante i secoli XVI, XVII e XVIII vennero edificati tutti quanti, alcuni cambiando ubicazione, altri rielaborando i propri edifici e modernizzandosi. Tuttavia, nell’ultimo secolo menzionato l’università spagnola sperimentò un’evidente declino e con essa la città universitaria di Alcalá. La struttura architettonica si era però consolidata e di lì in poi ebbero luogo diversi avvenimenti che portarono a cambi sostanziali che condussero fino alla configurazione attuale. Nel 1770 venne emanato l’ordine di dismettere i collegi di istruzione minore: ciò presuppose l’abbandono del patrimonio edificato, in altri casi la rovina o il cambio d’uso; molti furono convertiti in abitazioni o destinati ad ulteriori scopi d’uso diversi (6). Per l’università di Alcalá de Henares il secolo XIX si rivelò catastrofico; difatti la corte desiderava avere un’università a Madrid, di cui era priva, pertanto nel 1821 fu istituita l’Università Centrale. L’edificio cisneriano venne così mantenuto fino all’anno 1836, quando fu applicato il decreto di alienazione di Mendizábal (1835), che soppresse i conventi, i collegi e le istituzioni religiose degli uomini in tutta la Spagna e abolì altresì l’Università di Alcalá. Amministrativamente e organicamente si spostò a Madrid, e si vendettero tutti i suoi possedimenti per pagare i debiti dello Stato. Alcuni dei suoi beni mobili vennero trasportati alla nuova istituzione, ma la maggior parte furono venduti, così come gli edifici che sorsero dopo la riforma di Cisneros. Quello che conosciamo come l’isolato cisneriano o nucleo originale rinascimentale (fig. 5) venne messo all’asta nel 1846 e comprato da privati, come l’aristocratico Javier de Quinto, ma prima dell’abbandono del posto e della confisca dei suoi oggetti, soprattutto quelli della cappella, nel 1850 accadde un caso insolito nella storia della Spagna: un folto gruppo di residenti di Alcalá de Henares si unirono e crearono la “ Società di Comproprietari degli Edifici che costituirono l’Università”, i quali acquistarono il complesso nell’attesa del ritorno dell’istituzione. Da quel momento partirono cessioni o affitti, a seconda dei casi, da parte degli stessi a beneficio di varie istituzioni e privati a condizione di preservarli per poterne ricavare nel futuro un riutilizzo Fig. 5 – Isolato fondazionale de Cisneros (Archivio UAH). Fig. 6 – La città universitaria de Cisneros secondo il progetto redatto nel XVI secolo e copiato nel 1768 (Archivio UAH). 165 per l’Università. Così, questi immobili dei collegi furono trasformati in caserme e sedi militari, collegi religiosi e pubblici, abitazioni, sedi di gruppi culturali e sportivi, strutture alberghiere, ecc. Per questo motivo conobbero importanti trasformazioni e rinnovamenti al fine di adattarli ai nuovi usi e, soprattutto, riuscire ad evitare il loro deterioramento. Nel corso de secolo XX avrà luogo un’epoca di rivalorizzazione come patrimonio collettivo della nazione. Infatti, nel 1914 il Collegio di San Ildefonso e la sua facciata vennero dichiarati Monumento Storico Nazionale. Tutto l’isolato Cisneriano attraversò momenti molto delicati durante la Guerra Civile, giacché per diversi mesi fra il 1937 e il 1938 venne bombardato dall’aviazione tedesca e italiana, fatto che istigò parole di collera di Antonio Machado (7). Molti edifici furono direttamente danneggiati, come il patio di San Ildefonso e il patio del Trilingue. Dopo il conflitto fu destinato a diverse occupazioni: ad esempio, fu sede dell’Istituto Nazionale dell’Amministrazione Pubblica, Istituto di Scuola Media, Collegio degli Escolapios, ecc. Durante gli anni Settanta e Ottanta, la Spagna sperimentò un’importante espansione universitaria, assistendo all’apertura di facoltà e collegi universitari oltre alle università tradizionali. Così, la neo denominata Università Complutense di Madrid inaugurò in alcune succursali della città di Alcalá degli studi subordinati alle facoltà di Medicina, Scienza, Farmacia ed Economia durante gli anni 1975 e 1976. Nell’anno 1968 il centro storico di Alcalá venne dichiarato complesso storico, cosa che lo salvò dalla speculazione e dai disordini urbanistici che, ad ogni modo, ebbero luogo per molti anni al suo interno. Fu nel 1977 che venne fondata la “Università Alcalá de Henares”, già completamente indipendente nel 1978. In questi primi anni gli insegnamenti si impartirono sia nel campus “esterno”, che era stato realizzato negli spazi dell’antico aerodromo “Barberán e Collar” nella periferia della città (sulla strada in direzione Meco), sia negli edifici storici acquistati e affittati alla Società dei Comproprietari come il Collegio di San Ildefonso. Nel 1979 venne inglobata la Scuola di Magistero di Guadalajara, nascendo così un terzo campus, quello di questa città, che si sommava a quello esterno e a quello della città storica, il quale si sarebbe ampliato con gli stabili comprati dall’Università a Pastrana (Palazzo di Eboli) e a Sigüenza (Porta Coeli e Casa del Doncel). Un complesso costruito secondo le raccomandazioni di Alfonso X: la creazione della struttura urbana della città universitaria nell’età moderna Mentre in Europa le università si organizzavano all’interno dei centri storici con i loro edifici sparsi attorno agli 166 storici conventi religiosi, ad Alcalá successe lo stesso, con l’ufficio generale ubicato nei pressi de los Santos Niños. Tuttavia, Carrillo e Cisneros si ispirarono al modello di campus esterno raccomandato dal re Alfonso X il Sapiente – che fu adottato nei paesi anglosassoni in Europa e in America – presso le uscite della città e lontano dal centro urbano. Questo monarca nelle sue Sette Parti, nel Titolo XXXI della Terza Parte, dedicato “á los estudios en que se aprenden los saberes y de los maestros y los escolares”, definisce “qué cosa es estudio y cuantas maneras son del”, distinguendo tra “Studio Genrale” (l’università) e “particolare” (la scuola), segnalando che nel primo “ay maestros de las artes assí como de gramatica y de la logica y de rretorica y de aritmetica y de geometria y de musica y de astrologia. E otrosi en que ay maestros de decretos e señores de leyes. Es este estudio deue ser establecido del papa o del emperador o del rey”. Mentre le Scuole particolari sarebbero state fondate da prelati o consiglieri e avrebbero avuto pochi scolari. La seconda Legge indicava “en que logar deue ser establecido el estudio e como deuen ser seguros”. Perciò saranno ubicati in luoghi con “buen ayre e de foermosas salidas deue ser la villa do quisiere establecer el estudio porque los maestros que muestran los saberes e los escolares que los aprenden biuan sanos en el e puedan folgar e reçebir plazer en la tarde quando se leuantaren cansados del estudio. Otrosi deue ser abondada de pan e de vino e de buenas posadas en que pueda morar e pasar su tiempo sin grand cosa”. Specificava inoltre che i diversi collegi (scuole) “deuen ser en un logar apartado de la villa las vnas çercas de las otras por que los escolares que ouieren sabor de aprender ayna puedan tomar dos liçiones o más e si en las cosas que dubdaren pudieren en diuersas maneras e otras que puedan preguntar los vnos a los otros en las cosas que dubdaren. Pero deuen ser los escolares tan apartados de los amestros que los maestros no se enbarguen oyendo los vnos lo que leen los otros”. Allo stesso modo il re segnalava la funzione del “Bedel” (messaggero) e la necessità dell’esistenza della Via dei “Libreros” (con librerie adibite alla vendita di libri) (Legge XI). Nella stessa bolla papale approvata da Alessandro VI (1499) si insisteva del resto su un luogo sano da scegliere per la fondazione del Collegio Maggiore di San Ildefonso: “et victualium abundantia, ac aeris salubritas vigent”. Sebbene non fosse del tutto certo, il docente universitario Nebrija si lamentava che molti alunni facessero “assenze” per la cattiva salute del posto, cosa che obbligò a costruire un ospedale nel 1540 affinché “cesare o se olvidare el mal renombre que esta universidad ha cobrado a causa de los muchos estudiantes que se murieron” (8). Cisneros sviluppò la nuova istituzione universitaria a partire dalla piazza del Mercato (attuale Piazza Mayor o di Cervantes) fino ad est, occupando gli spazi vuoti che c’erano all’interno del recinto allargato del vescovo Carrillo. Il progetto congiungeva la via Mayor con quella dei Libreros e la via Escritorios con via Roma, ampliando- le in larghezza e chiudendole a ridosso degli ingressi di Guadalajara e Aguadores. Da questa fondazione edificò un collegio maggiore e dodici collegi minori, religiosi e secolari, senza che ci fosse grande differenza circa la loro natura (fino al secolo XVI inoltrato non si fece distinzione tra maggiori e minori). Come evidenzia Carabias Torres, i collegi maggiori erano: “Un centro educativo, in regime di internato, che si caratterizza per l’importanza dei privilegi di cui si gode, per essere accolti a protezione reale e per richiedere specifiche condizioni fisiche (età, salute), intellettuali (essere preparato al meno in una delle facoltà maggiori), economiche (povertà), morali (vita ineccepibile e purezza di sangue) e una determinata provenienza regionale dei propri iscritti” (9). La Universitatis Complutensis nella mente di Cisneros consisteva nell’apprestare i centri a riformare alcuni usi e costumi religiosi, migliorare la formazione del clero e a fare in modo che le persone più umili avessero accesso all’educazione. Si trattava di costruire una specie di Città di Dio nella quale, insieme al collegio maggiore del santo protettore della diocesi di Toledo, San Ildefonso, sarebbero sorti dodici collegi minori, in onore dei dodici apostoli e altri sei, in totale diciotto, in onore dei discepoli del Signore (10) e il resto sarebbero poi sorti durante il secolo XVII. Questi primi collegi minori fondati nel 1510 furono quelli: di San Pietro e Paolo, della Madre di Dio, di Santa Balbina, di Sant’ Eugenio e Sant’Isidoro e di Santa Catalina. Più tardi, fecero comparsa nello stesso secolo XVI: il Collegio Trilingue (1528), il Collegio di San Leandro per grammatici (1538), l’Ospedale di San Luca (1540-1547). A ognuno dei collegi corrispondeva una dedica a un apostolo o a un santo: San Pietro e Paolo, Giacomo il Maggiore, Sant’Andrea, San Giovanni Evangelista, San Filippo, San Bartolomeo, San Matteo, San Tommaso, Giacomo il Minore, San Taddeo, San Simone il Cananeo e San Mattia. Tutti questi furono collegi in virtù dello Statuto firmato da Cisneros il 23 marzo del 1510. Una volta che egli morì, negli Statuti del 1517 venne ordinata la creazione di altri sei collegi minori più adatti agli studenti di grammatica: San Luca, San Marco, Santo Stefano Protomartire, San Barnaba, Sant’Eugenio e Santi Giusto e Pastore, tutti dipendenti da San Ildefonso. In questo modo, nonostante ci fosse un po’ di confusione per via dell’uso di nomi simili o una modifica degli stessi, furono presenti: 1. collegio maggiore e collegi minori cisneriani 2. collegi minori secolari 3. collegi ordinari e conventi (11). Per quanto riguarda i primi si riuscì a crearne undici, per i secondi sedici e per gli ultimi altri quindici, per un totale di quarantadue collegi. A questi edifici si sarebbero sommati dall’inizio una fornace e un carcere universitario, così come per gli studenti il già citato Collegio Ospedale di San Luca e San Nicola e una stamperia. Si conserva un progetto del recinto universitario che, seppur datato all’anno 1768, si basa sulle dichiarazioni del visitatore reale Juan di Ovando del 1564, dalle quali si percepisce tutta l’organizzazione urbanistica della città universitaria, nel settore est della città di Alcalá, con una grande diagonale disegnata nella piazza del Mercato e le 18 yslas (isole) universitarie all’interno dello spazio di ampliamento della città rinascimentale (fig. 6). Ovando ordina una configurazione migliore delle opere, portandole gradualmente alla loro esecuzione. In questo disegno, realizzato nel secolo XVIII (12), si può apprezzare la conformazione quasi reticolare, molto regolare, uniforme e ortogonale della città universitaria, con il collegio di San Ildefonso che occupa il cuore e l’isolato cisneriano e con tutti gli altri collegi che si articolano intorno ad esso. Col tempo altri collegi sarebbero stati ubicati in altri luoghi lontani da quelli segnati in questo progetto, nei pressi della parte medievale della città, non essendoci spazi sufficienti nella città rinascimentale e barocca (13). I collegi furono edificati con una tipologia di architettura simile: uno o più porticati a seconda dell’importanza (con ricevimento, aule e stanze), su un lato la chiesa o la cappella, sempre con la facciata verso la strada per permettere l’accesso anche al vicinato. Il collegio maggiore era dotato di infrastrutture superiori e più complesse, come il teatro o l’aula magna (fig. 7), il reclusorio, la biblioteca. Probabilmente in tale pianificazione giocò un ruolo determinante l’architetto di Alcalá de Henares Pedro Gumiel; difatti in diversi documenti, come le lettere del 1511, 1513 e 1514 indirizzate al cardinale, si parla di aprire delle strade tra San Ildefonso e il Collegio di San Pietro e San Paolo (Strada nuova, poi inglobata nello stesso collegio), tra il monastero di Santa Maria di Gesù e via Libreros e piazza Mayor. Contemporaneamente si realizzavano fognature e pavimentazioni nella maggior parte delle vie. La zona fu dotata di abitazioni semplici per studenti e professori e nella zona sud fu inaugurata la Porta Nuova nelle mura. Fu importante la trasformazione intrapresa sulla facciata e sul corridoio anteriore del Collegio Maggiore di San Ildefonso nel 1537 con la quale Rodrigo Gil de Hontañón progettò e costruì quella che oggi si conserva in prossimità dell’antica fabbrica di terra e mattoni, materiali che sono stati scovati nella struttura di tutto il complesso durante i restauri più recenti, confermando la tradizione che il primo edificio fu molto misero e in muratura d’argilla. Nel 1602 si realizzò il rinnovamento urbano successivo della facciata di San Ildefonso migliorando le sue condizioni visive e spaziali, e demolendo diverse abitazioni private e il Collegio Trilingue, creando la piazza oggi chiamata di San Diego nei pressi del convento di Santa Maria. Fu programmata dal capo costruttore del collegio, Juan Montero, sebbene non come desiderava all’inizio: infatti progettò dei portici che rimasero incompiuti. Tutta questa organizzazione e questo scenario sono a tutti gli effetti rinascimentali, benché i prospetti non rispondano a una città classicista spagnola tipicamente 167 Fig. 7 – Paraninfo de Cisneros, XVI secolo (Archivio UAH) controriformista nella quale predominano gli elementi postclassici della scuola “escurialense”. Inoltre, ad Alcalá, con mura a base di concio sollevate nella maggior parte dei casi con i mattoncini e un solaio in pietra, con gli intonaci sopra, come corrisponde a tutta questa zona geografica, in misura minore si usò la pietra sabbiosa o il granito per alcune facciate. Il complesso dell’isolato cisneriano si sarebbe trasformato notevolmente, così come la piazza del Mercado, se nel secolo XVIII si fosse costruita la chiesa barocca progettata da Francisco Moradillo (1745) o quella decisamente barocco-classicista progettata dall’architetto cortigiano Ventura Rodríguez (1762), la cui facciata principale si sarebbe orientata verso quella che oggi è piazza di Cervantes (14). Nel secolo XIX il conte di Quinto demolì il balcone da cui il rettore seguiva le vicende della piazza Mayor. Le immagini dell’università prima dei danni causati dalla messa in vendita dei beni si possono apprezzare attraverso i magnifici disegni della facciata e di San Diego che realizzò Valentín Carderera e che vengono conservati nel Museo Lázaro Galdeano di Madrid. Nella seconda metà del secolo XIX tutta Alcalá passò da città universitaria a città militare,con caserme e prigioni che occuparono gli antichi spazi accademici. Il 168 Collegio di San Ildefonso fece i conti con diverse vicissitudini, come quella del 1844 quando si progettò di adattare il complesso a “Collegio Generale di tutte le Armi, con la capienza di 700 cadetti”, secondo quanto si evince dal progetto firmato da Antonio de la Iglesias il 24 agosto, nel quale era prevista la demolizione della cappella e la modifica e regolarizzazione dei vari cortili. Tuttavia il piano fu modificato, al fine di convertire il Collegio della compagnia di Gesù in caserma ed edificare ex novo le caserme del Principe e di Lepanto (dal 1864) sulle aree del Convento di Santa Maria e altri collegi minori (15). Nel secolo XX vi fu la conversione in Scuole Pie, poi nell’ente dell’Istituto Nazionale delle Amministrazioni Pubbliche e – definitivamente – nel Rettorato dell’Università di Alcalá. Significato simbolico della nuova città universitaria di Alcalá: la città biblica Il simbolismo della città universitaria di Alcalá è stato legato nella stessa dichiarazione dell’UNESCO alla Città di Dio per via del fatto che accoglie collegi e conventi di numerosi ordini religiosi. Allo stesso modo e per gli stessi motivi è stato considerata una Nuova Roma. Nonostante Cisneros rappresentasse il grande tempio della sapienza, la Casa del Sapere, attraverso l’immagine di Gesù (San Ildefonso) nel collegio maggiore, con i dodici apostoli nei primi dodici collegi minori e negli altri collegi e conventi con i discepoli di Cristo, la rappresentazione più adeguata sta nel Collegio Apostolico con il Salvatore, ossia, la “città biblica del Nuovo Testamento”. Dunque, tutta l’ideologia di Cisneros con la sua università ricerca il riformismo e le nuove idee europee della spiritualità, rompendo con una Scolastica arretrata per fare ritorno alla sorgente, alla Bibbia, allo scritto, agli atti degli apostoli, dove risiedeva la Verità. Per questo motivo stampò le bibbie (non solo la Poliglotta). I nuovi insegnamenti che saranno erogati, i professori specializzati e i collegi, tutto sarà ricondotto alla conoscenza, verso questa Città del Sapere che ritorna costantemente a fare riferimento al Libro Sacro (il Levitico). D’altro canto lo sviluppo funzionale della pianificazione urbana, la coincidenza nelle date con la celebrazione del Concilio di Trento, la presenza di professori di Alcalá de Henares nelle sedute della città italiana, insieme allo sviluppo dell’architettura e all’urbanistica pianificata e che si adattava ai cambi e alle influenze del Escorial e la scuola classicista herreriana e dei suoi discepoli, fecero della città universitaria non solo una città rinascimentale e barocca, ma anche il miglior prototipo spagnolo di città controriformista. Inoltre, come succedeva nella maggior parte delle città di rilievo spagnole durante i secoli XVI e XVII come Toledo, Valladolid, Siviglia, ecc., Alcalá si trasformò anch’essa in un’autentica città conventuale, con il tipo usuale di facciata del tempo con ordini classici e segmenti più monumentali, la casa convento o collegio e i muretti dei terreni, in un’immagine caratteristica delle città spagnole del Secolo d’Oro che durerà per vari secoli. Per capire il significato simbolico è necessario ricordare che con l’Università e i suoi insegnamenti teologici, fondamentalmente, si unì il valore della stampa a due opere di enorme valore come i quattro volumi della Vita Christi Cartuxano romançado di frate Ambrosio (Alcalá de Henares, 1502-1503) e la Bibbia Poliglotta (1514-1517): la prima sulla vita di Cristo e la seconda sui fondamenti del cristianesimo, attività che secondo gli impiegati della tesoreria dell’Università era “opera del cardinale”. Come ultimo aspetto della figura del cardinale è interessante notare il suo interesse nel manifestare la sua militanza francescana: l’umiltà e la povertà appaiono riflessi nel primo impianto di blocchi in muratura, pareti e gessi, e nella sua sepoltura, che seppur all’interno di un sepolcro sontuoso, scelto dai suoi successori, fu elevata intesa come un cenotafio al centro della cappella che, circondato dalla sepoltura di tutti i docenti e professori, lo rappresentava come un principe del sapere e dei significati, della conoscenza, emulando la sepoltura degli stessi Re Cattolici nella Cappella Reale di Granada, rappresentati con i loro poteri come monarchi del nuovo impero. Da un punto di vista ideologico la riforma cisneriana favorì la partecipazione attiva nella creazione della tappa più considerevole delle scienze e della scrittura in Spagna, il Secolo d’Oro, che impostò in parte la riforma della chiesa, l’incontestabile miglioramento delle arti e delle scienze e il miglioramento delle amministrazioni e della burocrazia, con una competenza straordinaria nello scegliere i territori, la giurisprudenza, ecc., della Monarchia ispanica. Nelle sue aule i più illustri spagnoli di questo secolo furono professori e alunni come Juan Valdés, il dottor Carranza, san Tommaso di Villanueva, san Giuseppe d Calasanz, san Giovanni de la Cruz, san Giovanni de Ávila, Benito Arias Montano, il padre Juan de Mariana, Juan de Austria, il principe Carlos, Antonio Pérez, Francisco Suárez, Mateo Alemán, Lope de Vega, Quevedo, Calderón de la Barca, Francisco Valles de Covarrubias, Ginés de Sepúlveda, Ambrosio de Morales, Nebrija, San Ignazio de Loyola, Alejandro Farnesio, Juan Caramuel, Palafox, Gaspar de Jovellanos. Altresì qui affiorò la prima dottoressa spagnola in Filosofia, María Isidra de Guzmán y de la Cerda. Inoltre si rileva che numerose università dell’America spagnola furono fondate a immagine e somiglianza di quella di Alcalá, seguendo le sue Costituzioni e il modello educativo, come le università di Santo Domingo, quella Javeriana della Colombia, quella di Caracas, L’Havana, Bogotá e Quito. Allo stesso modo bisogna far notare che gli esperti giuristi di Alcalá produssero nel 1542 le Nuove Leggi delle Indie di cui Filippo II fornì il Nuovo Mondo; in esse è inclusa tutta la nuova pianificazione urbana delle città da erigere, con il predominio assoluto dei disegni del reticolato e dell’ortogonale, qualcosa che in parte era stato analizzato nel progetto di Cisneros. Insieme alla simbologia del complesso sarebbe corretto aggiungere anche il valore simbolico della facciata di Rodrigo Gil de Hontañón, del Tempio del Sapere, omaggio all’Imperatore e alla Chiesa, e agli insegnamenti che si sarebbero impartiti nella Universitas Complutensis (16). Le trasformazioni della fine del secolo XX e l’inizio del secolo XXI: Alcalá restaurata e dichiarata Patrimonio mondiale dell’UNESCO (1998) Negli anni Settanta in Spagna ebbero luogo importanti trasformazioni sociali, economiche e politiche. Per alleggerire la mole di studenti all’Università Complutense di Madrid furono creati alcuni indirizzi di studio ad Alcalá nell’anno 1975. Nel 1977 viene creata l’Università di Alcalá negli stessi edifici che sorsero con la pianificazione del cardinale Cisneros. A partire da questo momento, con l’aiuto del comune, del governo centrale e di quello regionale si è incominciato a recuperare e restaurare gli antichi edifici universitari (caserme, prigioni, 169 ecc.) così da ricreare il campus storico nel centro della città, mentre alcuni campus a carattere scientifico tecnologico si sono sviluppati parallelamente verso l’esterno nei terreni che furono dell’antico aerodromo militare (17). In questo modo, l’università esemplare costruita nella periferia della città come da raccomandazioni di Alfonso X, secondo un modello che i campus anglosassoni avrebbero copiato, adesso avrebbe avuto il suo campus umanistico nel centro storico, come le università latine, con gli edifici sparpagliati, mentre nel campus esterno si sarebbero riuniti in edifici comunicanti le specializzazioni scientifiche e tecnologiche. Un gruppo di studiosi e discreti conoscitori della città, formato fondamentalmente da membri del comune e dell’università redassero la documentazione necessaria, con l’aiuto del International Council of Monuments and Sites (ICOMOS), che venne presentata all’UNESCO come candidatura dell’Università e della Città di Alcalá a essere dichiarata Patrimonio Mondiale, o Patrimonio dell’Umanità come si preferisce definirlo in Spagna, per via del suo effetto enfatico sulla popolazione. Nell’incontro tenutosi a Tokyo, il 2 dicembre del 1998 il Comitato del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO prese la sua decisione dichiarando “l’Università e la zona storica della Città di Alcalá” Patrimonio dell’Umanità. I fattori che sono stati espressamente riconosciuti furono il fatto che l’Università di Alcalá fosse stata la prima università organizzata dell’Età Moderna. In merito a questo punto si considerò il secondo, che si riferiva al fatto che, grazie a questo Alcalá fu una città del sapere con grandi vantaggi culturali, ai quali si aggiungono opere molto importanti, come la Bibbia Poliglotta o le opere di Nebrija. Affermarono inoltre che Alcalá rappresentò la grande città del Secolo d’Oro e aveva dato i natali allo scrittore universale castigliano Miguel de Cervantes Saavedra, che fu battezzato nella parrocchia di Santa Maria nel 1547. Di conseguenza, l’università è diventata il prototipo della “Città della Cultura, delle Arti e della Scrittura”, centro di influenza sul sapere e sulla lingua. L’incorporazione nella lista fu giustificata da tre dei criteri UNESCO: “Criterio II. Alcalá de Henares è la prima città progettata e costruita specificatamente come sede di un’università, e questo progetto avrebbe fatto da modello ad altri centri d’istruzione in Europa e America. Criterio IV. Il concetto di città ideale, la Città di Dio (Civitas Dei), comparve per la prima volta ad Alcalá de Henares, da dove si allargò al mondo intero. Criterio VI. Il contributo di Alcalá de Henares alla crescita intellettuale dell’umanità si osserva nella materializzazione della Civitas Dei, nei progressi linguistici che ebbero luogo nella città, in particolare per quanto concerne la lingua spagnola, e attraverso il lavoro del suo figlio più illustre, Miguel de Cervantes Saavedra, e la sua opera maestra il don Quijote”. 170 Oggi l’Università di Alcalá continua a rafforzare i suoi valori immobili ed artistici, nonché i suoi valori patrimoniali che la rappresentano nella sua unicità a livello universale. A proposito dei suoi preziosi significati, nel Secolo d’Oro ha creato oggi grandi esperti di letteratura in spagnolo e nella sua aula magna ogni anno vengono consegnati dai re di Spagna o dai principi delle Asturie i Premi Cervantes, i più importanti in lingua spagnola. Allo stesso modo i suoi rettori da Manuel Gala, passando per Virgilio Zapatero fino all’attuale, Fernando Galván, continuano a recuperare e ad ampliare il patrimonio. In questo modo sono stati restaurati per l’Università ventitré dei suoi collegi ed edifici e tale lavoro prosegue con la riabilitazione del Collegio Trinitario (antico San Bernardino) o con la conversione di parte delle Caserme del Principe e di Lepanto in Biblioteca delle Scienze Umane e in Museo, mentre vengono fatti sforzi notevoli per adattare l’università allo Spazio Europeo Superiore e a un nuovo assetto dovuto al necessario adattamento dell’istituzione universitaria alle caratteristiche sociali ed economiche dei nuovi tempi. Più di 185.000 m² sono stati recuperati per l’Università: un’operazione per la quale ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali come i premi Europa Nostra (1987, 1993), del Consiglio d’Europa, Hispania Nostra, Accademia Reale delle Belle Arti di San Fernando, e altri internazionali, nazionali e locali. L’Università di Alcalá, che perse tutto il suo patrimonio nel secolo XIX, poco a poco sta sviluppando o comprando, attraverso cessione o donazione o compravendita, diverse collezioni importanti di libri antichi, arte africana, mobili, utensili scientifici, disegni e rappresentazioni di vignette umoristiche, arte asiatica, sculture e dipinti, arte moderna come quella della Collezione González Robles, ecc., che costituiscono già un importante patrimonio materiale, al quale si va aggiungendo grazie alla laboriosità dei vari rettori il recupero del patrimonio immateriale, come la liturgia (18), gli atti e i costumi (Annua Conmemoratio, inaugurazione del corso), le pubblicazioni e così via, che insieme al suo patrimonio immobile la rendono un’università unica nel mondo. (1) Le pubblicazioni più recenti sono: Alvar 2010; Rivera Blanco 2012; Casado Arbonés, Díez Torre, Rodríguez 2013. Per gli oggetti mobili e i documenti che furono dell’Università Complutense: Martín González 1994; González Ramos 2007; Rivera Blanco 2013. (2) Bibliografia di base: Fernández Marcos 2012; García Oro 2005; Pérez 1995; Rivera Blanco 2013; Contreras et alii 1999; Carretero Zamora et alii 2013. (3) A. García Castro, Un documento afirma que el Cardenal Cisneros nación en la villa palentina (visitabile alla pagina internet: http:// www.diariopalentino.es/noticia.cfm/Provincia/20100914/documento/afirma/cardenal/cisneros/ncio/villa/palentina/0C37EA65B8D8-57AO-FBC860634F801CB9). Questo storico venezuelano, mentre preparava il suo libro riguardo de “La villa de Cisneros de Campos”, ritrovò un documento risalente al 1595 nel quale si afferma la provenienza del Cardinale da Cisneros. Il documento appartiene alle risorse conservate nello stesso luogo proprietà privata di Fidalgo Velasco, proprietario dell’archivio e della casa che era della famiglia Bravo Acuña, antenati del cardinale. Si tratta di una copia del secolo XVII nella quale si celebrano dei patti con il convento di Santa Catalina, e specifica che la “villa di Cisneros, dove nacque il Reverentissimo Cardinale”. Più perentorio su questi argomenti García-Castro 2017. (4) Rivera Blanco 2012. (5) Per lo studio sul complesso edificato della città universitaria di Alcalá: Alonso Marañón et alii 1997. (6) Casa et alii 2013. (7) Machado 2012. (8) Historia de la Universidad 1971, p. 97; Bonet Correa 1990, p. 111; Castillo Oreja 1980, p. 38; Rivera Blanco 1992, p. 77. (9) Carabias Torres 1982, p. 369. (10) Alonso Maraňon 2012, p. 240. Si consulti un’altra classificazione dei collegi nelle loro tipologie in Gil Garcia 2012, p. 341. (11) Ivi, p. 240. (12) É composto dal seguente testo esplicativo: “Spiegazione dell’accuratezza della maggior parte della pianta allegata, che è conforme alla pianta concepita dal Sig. Ldo. Don Juan de Ovando, Visitatore e Riformatore, che si trovò in questa università nell’anno 1564, regolarizzò la pianta che conteneva parte dei collegi e dell’università. 1. Torre della Parrocchia di Sta. Maria, la quale si protrae verso il Nord, e Mezzogiorno la linea retta, che divide la proprietà del Collegio e dell’Università dal resto della sopracitata. Città di Alcalá; 2. Linea retta, che divide tale proprietà; 3. Territorio di tale proprietà, che si divide in 18 isole, isolati o quartieri: e ognuno in vari raggruppamenti di case; 4. Collegio Maggiore di San Ildefonso, nel cui perimetro si trovano quello dei Santi Pietro e Paolo, quello Teologo e quello Trilingue, il gran Patio delle Scuole, quello dei Continuos, e quello del Teatro: e tutti sono accerchiati da Aule delle Facoltà; 5. Porta principale del Collegio e del Patio delle Scuole; 6. Porta della chiesa di tale Collegio; 7. Arco e Balcone, che si trovano sulla strada, che va dal Mercato, passando per la porta di tale chiesa e dalla facciata principale del Collegio, alla Piazzetta e al Convento di San Francesco; 8. Angolo dove si trova la Fonte, e da dove comincia la Piazza del Mercato; 9. Case della Settima isola davanti alla Piazza e tutte pagano un’imposta al Collegio; 10. Vicolo nuovo, che aprì al collegio nell’anno 1514; il suo territorio era occupato da case proprie del Collegio. Si chiama oggi Callejuela del Toril: e tutte le case, a seconda di come sono fatte, pagano l’imposta al Collegio; 11. Case dell’ottava isola davanti a tale Piazza del Mercato, e tutte pagano l’imposta al Collegio; 12. Casale de Collegio, Carcere e Ostello, tutto davanti a tale piazza; 13. Strade, le quali aprirono il Collegio per facilitare l’entrata al patio e alle Scuole; 14. Incrocio, che formavano queste Quattro Strade; 15. Convento di San Francesco; 16. Piazzetta del summenzionato Convento, che finì per essere rovinato, e demoliti gli edifici dentro di esso; 17. Porta di Guadalajara, o dei Martiri, si tratta di una delle principali di questa città; 18. Via Mayor, di Guadalajara oppure de los Libreros; 19. Porta di Santiago; 20. Porta delle concerie, oggi degli Acquari; 21. Via de las Tenerías, o dei Monasterios, oggi di Roma. Nella parte del Mezzogiorno è tutta composta da Collegi, tanto Secolari, quanto Regolari, e tutti pagano l’imposta al Collegio. Per la parte Nord tutte sono case del vicinato, che pagano l’imposta al Collegio; eccezione per il collegio degli Ordinari della Compagnia, quello dei Verdi, quello del Re, e quello di Sant’Ambrosio degli Artisti. Alcalá 14 giugno 1768”. (13) A proposito dei riferimenti urbanistici si rimanda a Peňa y Montes de Oca 2012. (14) Castillo Oreja 1980, pp. 113-118 e Tovar Martin 1982. (15) Cantera Montenegro 2008, p. 145. (16) Castillo Oreja 1982. (17) Morilla Critz 1999. (18) Marchamalo Sanchez 2009; Cabaňas Gonzalez 2010. Bibliografia Alonso Maraňon et alii 1997 P.M. Alonso Maraňon et alii, Alcalá de Henares y los valores del Patrimonio de la Humanidad, Alcalá de Henares 1997. Alonso Maraňon 2012 P.M. Alonso Maraňon, Pedagogía Colegial Universitaria. El caso del Colegio de León, in J.L. Valle Martin (a cura di), Colegios Menores Seculares de la Universidad de Alcalá, Alcalá dee Harenares 2012, pp. 233-264. Alvar 2010 A. Alvar (a cura di), Historia de la Universidad de Alcalá, Alcalá de Henares 2010. Bonet Correa 1990 A. Bonet Correa, Arquitectura y urbanismo: La Universidad como «Palacio de las Musas» e «Ciudad del Saber» con el Apéndice «Diálogo sobre la Universidad de México en 1554, por Francisco Cervantes Salazar», in AA. VV., La Universidad de Alcalá, Madrid 1990, II, pp. 91-131. Cabaňas Gonzalez 2010 M.D. Cabaňas Gonzalez (a cura di), Constituciones de la Universidad de Alcalá 1510, Alcalá de Henares 2010. Cantera Montenegro 2008 J. 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Valle Martin (a cura di), Colegios Menores Seculares de la Universidad de Alcalá, Alcalá 2012. CARDINAL CISNEROS’ UNIVERSITY OF ALCALÁ: A MODEL OF MODERN ARCHITECTURE AND A WORLD HERITAGE SITE The remarkable history and cultural heritage of the city of Alcalá, which dates back to the pre-Roman era and flowered in the Middle Ages, includes its university. Founded in the Roman city of Complutum, it was moved to a nearby hill, where it acquired its current name, in the Islamic period. Subsequently, it was moved again, to the spot where, tradition holds, the saints Juste and Pastor were martyred; a chapel would be built and a Christian quarter sprang up around it. As early as 1293, when the Studi Generali were founded, the city could boast its first university complex, later restyled by Carrillo in the 15th century and then refounded by Cardinal Cisneros. The University of Alcalà became a World Heritage site in 1998, one of just five seats of higher learning to be honored with this designation: the University of Virginia (USA), the Central University of Venezuela (Caracas), the National Autonomous University of Mexico (UNAM), and the University of Coimbra (Portugal). 172 LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI MADRID, 1927-2017: 90 ANNI DI STORIA Pilar Chías Navarro Il regno di Alfonso XIII (1902-1931) si trovò oppresso da secoli di decadenza della Spagna. L’industrializzazione tardiva, alcune erronee comunicazioni interne secolari, i servizi disorganizzati e mal assistiti, le costanti guerre – alcune di esse di carattere interno – e la somma di errori politici e tattici, avevano condotto il Paese in una situazione di arretratezza e povertà rispetto all’Europa. D’altra parte, la consapevolezza della perdita degli ultimi residui dell’Impero aveva lasciato la Nazione scossa. Lo stesso Re avrebbe ammesso nel 1902 nel suo diario: “ io mi ritrovo il Paese falcidiato dalle nostre guerre passate, che spera in qualcuno che lo tolga da questa situazione” (1). Dunque sebbene la Nazione fosse capace di produrre scienziati, professionisti, pensatori, letterati e artisti di altissimo livello, come Santiago Ramón y Cajal, Leonardo Torres Quevedo, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, o Joaquín Sorolla, per citarne solo alcuni, le carenze e i difetti strutturali erano evidenti in molti aspetti, e a questi si aggiungevano gli ambiti assistenziale ed educativo. Le città universitarie storiche, come Salamanca, Santiago, Siviglia o Alcalá, avevano plasmato un modello di università frammentata, i cui edifici, in molti casi di grande valore patrimoniale, si trovavano disseminati nel centro storico occupando una parte importante della sua superficie (2). Al fine di rimediare a questa carenza, furono costruiti vari edifici ecclesiastici a ridosso del perimetro edificato della città, tra i quali i padiglioni prefabbricati tipo Docker, ubicati al confine con la proprietà reale de La Moncloa al nordest di Madrid, sulla collina che anni dopo avrebbe occupato l’Ospedale Clinico (3). La scelta del luogo non fu casuale, difatti si approfittò della vicinanza di un piccolo nucleo di costruzioni benefico-assistenzialiste che prefigurò una “zona universitaria” nella contemporanea progettazione urbana di Madrid. Nonostante non ci sia dubbio che il prestigio e l’immagine della monarchia abbiano giocato un ruolo importante nel rinnovamento dell’istituzione universitaria, i diversi incentivi reali furono precoci, come spiegò lo stesso Alfonso XIII nel 1924 a un gruppo di assistenti riuniti a Santander in occasione del ‘Congresso Nazionale degli Architetti’, descrivendo quella che pensava sarebbe stata “l’opera del suo regno”. Il Re spiega che: “Gli edifici universitari sono vecchi e inadeguati se paragonati a quelli che ho visto i altri paesi … Io ho pensato alla necessità di intraprendere la costruzione degli edifici di una grande università che non sia solamente nazionale ma ispano-americana, offrendo a quelli studenti che oggi se ne vanno a Parigi e in Nord America la possibilità di una formazione scientifica e culturale nitidamente spagnola, e per la quale si dovrà, naturalmente, migliorare i metodi e incrementare le dotazioni di materiale e cattedre” (4). La realizzazione di questo ‘Piano’ sembrava essere imminente tra il 1919 e il 1929, con segnali positivi come la creazione di due commissioni per esaminarne l’ubicazione, definire un programma con la redazione di una serie di ordini reali, piani e rapporti, e nel 1923 la presentazione di un progetto di legge alla Giunta (5). Il progetto non decadde e fu approvato da diversi settori dell’opinione pubblica, ansiosi di prenderne parte con proposte legate alla riforma degli insegnamenti, alle possibilità di finanziamento e gestione, o alla scelta dell’ubicazione e alla tipologia di edificio (6). L’occasione di mettere in atto il Piano si presentò il 17 maggio del 1927 in concomitanza con il XXV anniversario del giuramento del Re sulla Costituzione. Fu allora che si creò la Commissione della Città Universitaria, che, a carattere autonomo e autosufficiente, avrebbe dovuto agevolare il rapido sviluppo del progetto (7). La Commissione fu organizzata in diverse ‘Delegazioni Speciali’, il cui compito consisteva nel gestire celermente le singole e diverse componenti del progetto. D’altra parte, i contatti stabiliti dai suoi membri negli Stati Uniti, contemporaneamente all’arrivo in Spagna delle prime multinazionali, erano riusciti a suscitare l’interesse di istituzioni come la Fondazione Rockefeller, che aveva emesso un bando per la realizzazione dell’Istituto di Fisica e Chimica nella via Serrano di Madrid, o Carnegie (8). La Città Universitaria beneficiò del loro supporto, ma in cambio della firma di accordi a compensazione di tale aiuto. L’ambito spaziale: caratteristiche della proprietà de La Moncloa La proprietà de La Moncloa fu l’area scelta per costruire la Città Universitaria approfittando di quel primo nucleo educativo-assistenziale che si era andato a formare ai suoi confini dalla seconda metà del secolo XIX. La proprietà si trovava al nordovest della periferia madrilena, sulla sponda sinistra del fiume Manzanares. I suoi terreni erano arrivati a essere proprietà della Corona in due fasi consecutive: nel 1722, quando la Principessa Pio le aveva venduto il palazzo, i giardini e i frutteti della Florida, e nel 1795, quando il Duca di Alcudia aveva ceduto il frutteto della Moncloa, prima conosciuto come Sorgente del Sole (9). In seguito alla successiva cessione della proprietà allo 173 Fig. 1- Commissione dei Lavori della Città Universitaria di Madrid, dicembre 1928: prospettiva ideale della Città Universitaria. La nuova università-giardino doveva alleggerire la densità della capitale e fungere da filtro tra essa e il Campo (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 78). Stato nel 1886, il suo usufrutto fu reso popolare, in particolar modo nelle zone di confine, dove incominciarono a proliferare stabilimenti per l’ozio e per l’assistenza. Tuttavia, la superficie dei terreni, presto risultò insufficiente a sviluppare un progetto di sempre maggior ampiezza, cosicché dai quindici ettari della prima proprietà si passò, per mezzo di successive acquisizioni, ai trentacinque definitivi, nei quali nel tempo si andavano aggiungendo altri usi, estranei all’Università come l’Istituto di Igiene Alfonso XIII, la Casa di Velázquez, la Scuola degli Ingegneri Agronomi e l’Istituto Principe delle Asturie. Il primo progetto della Città Universitaria di Madrid (10) Un’adeguata proposta della Fondazione Rockefeller per l’organizzazione di una visita ai principali centri uni- 174 versitari di Europa e Nord America, cambiò all’improvviso il ritmo e le direttrici del progetto. Al ritorno, nel novembre del 1927, López Otero pubblicò in «Diario ABC» interessanti riflessioni sul suo diario di viaggio come questa: “La maggiore perfezione la trovammo in Nord America, nel costruire vere città, non solo università o residenze isolate” (11). Di conseguenza, nei primi giorni di dicembre la Commissione decise di dare una svolta radicale alle questioni ancora non definite e di ampliare il modesto programma iniziale di costruzioni assistenziali ed educative. I criteri (12) di riferimento per il modello principale di urbanizzazione del complesso furono la creazione di una ‘Università giardino’ che rivisitava il concetto di campus nordamericano (13). In un primo gruppo di costruzioni ‘essenziali’ furono incluse le facoltà di Medicina, Farmacia, Scienze, l’Ospedale Clinico con una capacità di Fig. 2 - Ufficio dei Lavori, 1929: bozza del primo progetto della Città Universitaria di Madrid (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 110). Fig. 3 - Movimento dei terreni nella Città Universitaria di Madrid, 1929-1936 (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 114). 175 millecinquecento letti, le facoltà di Lettere e Filosofia e quella di Diritto, la grande Biblioteca universitaria, le residenze degli studenti e dei professori, la zona Sport, gli edifici di rappresentanza del Governo, una Scuola Militare Universitaria e i servizi dell’università. In una seconda fase si sarebbero costruite le Scuole di Belle Arti, di Architettura e quella Straordinaria di Pittura, Scultura e Incisione; nello stesso tempo si sarebbe ampliata la già esistente scuola di Ingegneri Agronomi. In una terza ed ultima fase si sarebbe intrapresa la costruzione delle scuole di Ingegneri Industriali e Ingegneri Stradali, così come quelle Superiori di Commercio e Magistero. Nemmeno questo programma fu quello definitivo. Difatti, durante la prima fase vennero già integrate la Scuola di Architettura e quella di Odontoiatria, che vantavano illustri rappresentanti nel Consiglio (fig. 1). Gli architetti e gli ingegneri della prima Città Universitaria Nonostante la sua inclinazione eclettica come architetto, López Otero seppe circondarsi di molti dei migliori architetti spagnoli della cosiddetta “Generazione del ‘25”. Seguendo questo criterio, nella sua squadra furono inseriti Luis Lacasa e Miguel Sánchez Arcas, recenti vincitori del concorso della Fondazione Rockefeller a Madrid (14). Alcuni di essi, in seguito, sarebbero divenuti membri attivi del Gruppo degli Artisti e Tecnici Spagnoli per il Progresso dell’Architettura Contemporanea (GATEPAC). Altri brillanti architetti come Rafael Bergamín e Luis Blanco Soler istaurarono delle efficaci collaborazioni con l’Ufficio Tecnico, in veste di tecnici designati dalle differenti istituzioni che andavano popolando la Città Universitaria. Tra gli ingegneri che furono chiamati a collaborare al progetto si distinguevano Eduardo Torroja Miret e Carlos Fernández Casado, due degli ingegneri civili spagnoli più brillanti del XX secolo. Il primo dei due fu raccomandato a López Otero dal direttore della Scuola di Ingegneri Stradali, mentre il secondo fu proposto come tecnico al servizio dell’Impresa costruttrice Huarte e Cia; ad essi si devono le principali innovazioni strutturali degli edifici della Città Universitaria (15). Sebbene il successivo avvento della Seconda Repubblica nel 1931, abbia comportato un certo cambio di linguaggio architettonico in favore di posizioni più progressiste (16), le ripercussioni sulla Città Universitaria furono molto limitate, visto che la maggior parte dei progetti erano stati già definiti nella fase precedente. Lo sviluppo urbanistico tra il 1928 e il 1936 Nonostante la dichiarazione d’intenti della Commissione per l’Università giardino, che doveva costruire il nuovo campus, ci furono diversi errori importanti che ne 176 compromisero l’elaborazione. Per esempio, ci fu un’interpretazione sbagliata di quelli che dovevano essere i rapporti tra i futuri utenti e la città di Madrid. Infatti fu affidata al settore dell’edilizia la realizzazione dei necessari collegamenti con la città, anziché demandare questo compito a un vero studio urbanistico. Quindi la proposta progettuale in vari aspetti peccò d’ingenuità. Per esempio, la sottovalutazione delle distanze che si sarebbero dovute percorrere a piedi, che nei casi peggiori superavano i 2 km (17). Un’altra delle principali questioni che furono trattate, fu quella dell’opportunità di isolarsi da Madrid e dei suoi possibili vantaggi (18). Le conseguenze determinate dall’idea di alienare qualsiasi impresa o esercizio commerciale dal campus, si sono protratte fino ad anni molto recenti. Un altro aspetto interessante fu l’applicazione dei criteri di suddivisione in zone in accordo con le discipline scientifiche, avanzando un’organizzazione multicentrica secondo uno schema funzionale-razionale composto dai seguenti gruppi (fig. 2): I. I. Gruppo principale, formato da Rettorato, l’Aula Magna e la grande Biblioteca Universitaria, è fiancheggiato dagli edifici di Filosofia e Scienze. II. Gruppo medico, integrato dalle facoltà di Medicina (preclinica), Farmacia e la Scuola di Odontoiatria, posto direttamente in contatto con l’Ospedale Clinico, con l’accesso pubblico indipendente dalla zona universitaria, e ben disposto rispetto alle vie più importanti della città. III. Gruppo delle Belle Arti, nel quale saranno comprese la Scuola di Architettura e quella di Pittura, Scultura e Incisione, oltre che il progetto del Conservatorio di Musica e Recitazione. IV. Gruppo di residenze e attività sportive, le prime previste per 1.500 studenti, nei pressi dei campi di gioco […] completi e organizzati nel rispetto dei regolamenti internazionali. V. Altri edifici “ubicati in punti rilevanti” sarebbero stati costruiti in aggiunta, essendo “collegati al complesso dalla strada.” (19) Come si può constatare dalle bozze allegate, durante la sua realizzazione fu assolutamente ignorata l’importanza della topografia, che avrebbe obbligato a costruire delle grandi fondazioni. Ciò richiese l’effettuazione di un importante movimentazione di terreno con la costruzione di un gran numero di infrastrutture come muri di sostegno, cementazioni particolari e viadotti per proteggere i fondivalle (fig. 3). Questa previsione si avvicinava al modello delle Esposizioni Universali contemporanee, (20) ed effettivamente, ibrido risultò il progetto del complesso, nel quale convivevano la tradizione compositiva delle Beaux-Arts e il monumentalismo scenografico, portando al limite l’enfasi sui bilanciamenti dei volumi nelle ampie prospettive, molto frequenti nei grandi centri amministrativi Fig. 4 - Madrid, vista a volo d’uccello a ridosso del gruppo così composto: campus medico, l’Ospedale Clinico e il vecchio Santuario di Santa Cristina, ca. 1936 (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 150). nordamericani (21), e l’organizzazione gerarchica delle strade (22). Tuttavia il campus nordamericano vantava la grande qualità di raggruppare in un perimetro più o meno regolare la totalità delle attività studentesche, favorendo gli scambi tra discipline e arricchendo l’ambiente educativo. Aumentando in maniera rilevante la portata del progetto, l’interpretazione spagnola perse di vista le reali dimensioni del progetto con le relative potenzialità. Così i quattro grandi gruppi o campus assunsero l’aspetto di grandi piazze simmetriche con edifici dall’aspetto amministrativo, rinunciando a de- terminare ampi spazi di relazione considerando anche la carenza delle necessarie attrezzature, con l’eccezione della principale arteria stradale. Nemmeno gli spazi esterni sfuggirono all’imposizione dei criteri di monumentalità (23) (fig. 4). Gli effetti della Guerra Civile: 1936-1939 Nonostante la capitale avesse perso gran parte del suo interesse strategico, tra il novembre del 1936 e la 177 Fig. 5 - Il nuovo progetto del complesso del 1943 (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 176). Fig. 6 - Progetto del complesso universitario nel 1975 (da CHÍAS NAVARRO 1986, p. 246). fine della Guerra Civile (1° aprile 1939), il fronte si mantenne più o meno attivo nella Città Universitaria, causando ingenti danni ai nuovi edifici – la cui struttura era di cemento armato – e la rovina totale di quelli antichi (24). Alla fine della Guerra Civile il bilancio fu disastroso. Edifici distrutti, altri gravemente danneggiati. La sorte peggiore toccò a quegli edifici che erano già stati inaugurati, come la Facoltà di Filosofia, o a quelli che, prima del luglio del 1936 erano prossimi a esserlo, come la Scuola di Architettura. Considerato che molti materiali provenienti dalle biblioteche storiche, i materiali da laboratorio, i mobili ed altro erano già stati immagazzinati in quegli edifici, ci furono perdite irreparabili (25). sua ricostruzione. Il 10 febbraio del 1940 fu creata la nuova Commissione incaricata della “costruzione della Città Universitaria”, questa volta presieduta da Franco, sebbene con diverse facce note come quella di Modesto López Otero, che si trovava di nuovo alla testa del riorganizzato Ufficio Tecnico. Dunque si optò per la redazione di un progetto di ricostruzione urgente al fine di mettere in funzione le facoltà e le residenze “con criteri di austera efficacia” e, allo stesso tempo, una volta rivisti i progetti precedenti, la formulazione di un nuovo progetto che fosse concorde con le circostanze e l’ideologia politica (fig. 5). Il nuovo concetto di università, definito dalla legge del Riordinamento Universitario del 29 giugno del 1943 fu innestato sul tracciato del campus ricostruito (27). Lo Stato riconosceva in ambito universitario i diritti educativi della Chiesa cattolica, la cui presenza attiva fu evidente attraverso i simboli e le proposte di costruzione di templi e di cappelle in tutti i centri. Tuttavia, secondo la legislazione, la nuova Università era tenuta ad adattare “i suoi insegnamenti e i compiti educativi ai punti del programma del Movimento Nazionale, e in accordo con essi disporre l’educazione fisica e politica della gioventù.” Una delle conseguenze fu che le residenze abbracciarono il concetto tradizionale di Collegio Maggiore, la cui natura educatrice integrale garantiva “alla Patria l’unità spirituale degli spagnoli del futuro”. Inoltre, all’interno del campus si introdussero simboli della dittatura, realizzando strategicamente un itinerario didattico definito dalla realizzazione di elementi simbolici in luoghi rilevanti, come l’Arco della Vittoria alla Moncloa, posto all’inizio della strada de La Coruña, e il Collegio Maggiore José Antonio dedicato alla memoria del fondatore della Falange. Alla fine, il Ricostruzione nel Dopoguerra Dinanzi al desolante panorama postbellico, coloro che istaurarono il ‘nuovo ordine’ ebbero la tentazione di conservare le rovine “come emblema della memoria eterna di un regime che nasceva e si costituiva come una crociata”. Come disse Bonet Correa: “Il morbo archeologico di queste rovine aveva molto a che vedere con l’obiettivo della determinazione di una temporalità bellica che negava il futuro come realtà, e si compiaceva nella rappresentazione del passato a scapito del presente. Le rovine arrivavano a rappresentare, in tal modo, un inesauribile poema di violenza.” (26). Fortunatamente, il regime franchista non cedette al ‘fascino’ delle rovine, neppure di fronte alla proposta di un ritorno all’Università di Alcalá con lo scopo di allontanare la sempre ostile massa studentesca dalla capitale; cosicché, trascorsi alcuni mesi, fu accordata la 178 nuovo regime recuperò anche il vecchio pallino dello spirito panispanico dei governi precedenti alla Guerra (28). Le prime inaugurazioni si susseguirono nel 1943 e nel 1945 (29), con un mix di “arte cerimoniale e liturgia di massa”, con lo sfondo di monumentali ed effimere architetture (30). Il Campus di Agramante: dalla perdita dell’unità concettuale alla necessità di protezione patrimoniale L’ultimo progetto del complesso che precedette la recente redazione del Progetto Speciale di Riforma Interna (PERI) tra il 1980 e il 1990, fu disposto nel 1948. Fu un progetto esposto a imprevisti, con cui si perse l’ultima possibilità di una composizione del complesso secondo criteri unitari, visto che si susseguirono anni durante i quali la Città Universitaria diventò un luogo periferico di Madrid nel quale erano disponibili lotti da destinare ad una grande varietà di funzioni extra-universitarie. La Commissione dei Lavori non poteva più agire in maniera totalmente indipendente. Per esempio, nel proporre il tracciato della strada di collegamento, la Direzione dei Lavori Pubblici di Madrid aveva giurisdizione su gran parte di esso. Allo stesso modo, la Direzione dell’Urbanistica del Comune iniziò a intervenire sul design degli spazi pubblici e del profilo delle strade, mentre il Progetto della Risistemazione di Madrid del 1946, dava una priorità all’accesso alla capitale da Viale Puerta de Hierro. Per questo motivo, questo fu l’inizio di un processo irreversibile; un’ultima proposta progettuale formulata da una squadra che era già consapevole di non avere più il controllo della situazione, scettica sulla coerenza compositiva del complesso universitario, di cui era possibile constatarne la perdita a vista d’occhio. Emerse quindi un nuovo criterio di orientamento della pianificazione urbana della Città Universitaria: quello dell’individualismo di ogni entità presente e quello delle azioni tanto transitorie quanto i politici che le incoraggiavano (31). A ogni modo, quello che per l’urbanistica risultò essere un campus di Agramante (32), per l’architettura universitaria comportò un beneficio, visto che molti dei nuovi edifici o progetti erano di grande interesse (fig. 6). Architetti molto importanti come López de Asiaín, Asís Cabrero, Vázquez Molezún, de la Mata, Blanco Soler, Fisac, Higueras o Miró, proposero edifici che ancora oggi continuano a essere un riferimento dell’architettura spagnola dell’ultimo trentennio del secolo XX. Oggi rimangono lontani questi tempi di disordine, quando il veicolo privato invadeva tutto e le aule erano straripanti. Quando né il complesso né gli edifici erano protetti contro alcuna riforma o ampliamento realizzati senza criterio. Fortunatamente il campus dal 1999 gode della dovuta protezione giacché è considerato ‘Bene di Interesse Culturale’ sotto l’etichetta di ‘Complesso Storico’. La metropolitana è arrivata nel cuore della Città Universitaria e con essa la regolamentazione del traffico e dei parcheggi. Nel campus sono state inserite succursali bancarie e altre attività, grazie alle quali la città universitaria resta attiva anche di notte. In fin dei conti, la Città Universitaria è integrata nella città di Madrid, e la pianificazione prevede proprio questo. Ricordando Fernando Ramón, “una città non ammette enclave, né cities, né vaticani, né città universitarie” (33). (1) Diario di Alfonso XIII, 1° gennaio 1902, citato in Tusell, Queipo de Llano 2001, p. 129. (2) Castillo 1982, pp. 727-748. (3) Chías Navarro 1986, pp. 29, 67-68. (4) Ivi, p. 29. (5) Luque 1931. (6) Chías Navarro 1986, pp. 34-35. (7) López Otero 1959. (8) El Concurso del Instituto 1932, pp. 15-38. (9) Winthuysen 1930, 82-103. (10) López Otero 1959. (11) López Otero 1927, p. 15. (12) Chías Navarro 1986, pp. 51-53. (13) Ibidem. (14) Chías Navarro 2017, pp. 9-24. (15) Chías Navarro, Abad Balboa 2005, pp. 64-69. (16) Bohigas 1973, p. 71. (17) López Otero in Chías Navarro 1986, p. 79. (18) Chías Navarro 1986, pp. 34-35. (19) López Otero 1941, pp. 38-56. (20) Solá-Morales 1980, pp. 90-95. (21) Hegemann 1925, p. 219. (22) Castro 1972, pp. 52-67. (23) López Otero c. 1950, in Chías Navarro 1986, p. 95. (24) Martínez Bande 1982, p. 115. (25) López Otero 1943, in Chías Navarro 1986, pp. 167 e 169. (26) Bonet Correa 1981, p. 36. (27) Franco 1943. (28) Ibáñez Martín 1950, p. 346. (29) Bonet Correa 1981, pp. 11-46. (30) Ivi, p. 17. (31) Moya 1972, pp. 58-67. (32) Chías Navarro 1981, pp. 42-47. (33) Ramón 1980, p. 29. 179 Bibliografia Bohigas 1973 O. Bohigas, Arquitectura española de la Segunda República, Barcelona 1973. Ibáñez Martín 1950 J. Ibáñez Martín, Diez años de servicio a la cultura española, 1939-1949, Madrid 1950. Bonet Correa 1981 A. Bonet Correa, Espacios arquitectónicos para un nuevo orden, in A. Bonet Correa (a cura di), Arte del franquismo, Madrid 1981, pp. 11-46. Castillo 1982 M.A. Castillo Oreja, Alcalá de Henares, ciudad de la Reforma, in A. Bonet Correa (a cura di), Actas del II Simposio de Urbanismo e Historia Urbana en el mundo hispano, Madrid 1982, pp. 727-748. Chías Navarro 1981 P. 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Traces that can still be tracked as essential components of the education provided almost without interruption since 1935. 180 LA CITTÀ UNIVERSITARIA DI MADRID E LA “GENERAZIONE DEL 1925”: UN LABORATORIO DI SPERIMENTAZIONE MODERNA Raffaella Russo Spena Campus vs Studium Urbis Agli albori del XX secolo le principali tipologie dell’edilizia universitaria presenti in Europa erano rappresentati dal modello di College britannico che comprendeva edifici didattici e residenze per professori ed allievi, dal modello di università francese ad elevata qualità didattica e dall’università tedesca che privilegiava la ricerca rispetto alla didattica. A queste tipologie tradizionali si era aggiunto il modello caratteristico delle università statunitensi: la cosiddetta “città universitaria” basata sul campus, microstruttura urbanistica separata tanto dalla città quanto dalla campagna, dotata di tutte le infrastrutture e le strutture necessarie per ospitare le residenze di docenti ed allievi. Il “modello americano” era stato introdotto al termine del XIX secolo proprio nell’epoca in cui nei paesi europei si faceva strada una nuova concezione della città e dell’architettura. A valle della Grande Guerra, allorché durante gli anni Venti i diversi paesi, in un’Europa profondamente trasformata sotto il profilo geopolitico, iniziarono a confrontarsi con la necessità di riformare e riorganizzare le proprie università, il più opportuno modello tipologico da adottare sembrava essere quello della “città del sapere”: di una City of Learning organizzata in dipartimenti, facoltà, centri di ricerca, uffici amministrativi e residenze. Si riteneva anche che il “sistema architettonico” di impostazione Beaux-Arts, organizzando ed agevolando la pianificazione su ampia scala dimensionale, e integrando i diversi edifici all’interno di una composizione unitaria, fosse il più idoneo per dar corpo a quella concezione astratta. D’altra parte, sotto il profilo accademico si riteneva di poter attingere a diversi modelli di percorsi formativi: dal College britannico impostato sull’educazione civile e sulla formazione personale dell’allievo; dall’università tedesca basata sul rigore scientifico, sulla ricerca e sulla combinazione armonica tra seminari teorici e laboratori sperimentali; dall’università napoleonica fondata sull’unitarietà dei saperi, sulla gerarchia amministrativa e sull’uniformità del metodo di insegnamento, integrati dalla diffusione della cultura, dalla formazione professionale e dalla ricerca. Peraltro giova segnalare che in quegli anni a Parigi si progettava e realizzava la Cité Intérnationale Universitaire come affermazione dei valori associati alla convivenza civile e pacifica dei popoli gravemente compromessa dal primo conflitto mondiale. Indipendentemente dalle opzioni teoriche adottate, in tutte le prin- cipali capitali europee si cercavano nuovi modelli urbanistici che avrebbero dato luogo a grandi complessi o città universitarie nel corso degli anni Trenta. Di fatto allorché si progettano le città universitarie di Madrid – alla fine del regno di Alfonso XIII di Borbone – e di Roma – durante la dittatura di Benito Mussolini – era in pieno corso di svolgimento il dibattito tra quanti ritenevano che una città universitaria dovesse essere costituita da un insieme compatto di edifici racchiusi all’interno di un recinto localizzato in un quartiere periferico della città e coloro che optavano per un modello “campus” di un insieme di blocchi di edifici dispersi su un’area non urbanizzata non lontana dal perimetro urbano, ma nettamente separata da esso. A Roma Marcello Piacentini decideva di orientarsi verso lo Studium Urbis, il modello della tradizione del Rinascimento italiano sottoposto ad una rilettura d’impronta razionalista, mentre a Madrid Modesto López Otero optava per il modello “campus” nordamericano non rinunciando, tuttavia, a citazioni del monumentalismo herreriano. Peraltro non si può non rilevare che in quegli stessi anni, l’architetto tedesco Leopold Rother progettava a Bogotà la nuova Ciudad Universitaria della capitale colombiana, configurandola come involucro ovale, al cui interno erano racchiusi edifici, campi sportivi e tutta una varietà di servizi culturali e residenze per docenti e studenti: la città universitaria di Rother era di fatto una “città separata”, la cui architettura rivelava la chiara derivazione dall’impostazione del Bauhaus di Weimar e Dessau. Ancora in quegli stessi anni Le Corbusier e i suoi colleghi brasiliani, dopo l’intervento di Piacentini, progettavano la Cidade Universitária de Rio de Janeiro. Per la sua localizzazione fu scelta un’isola al largo della costa distante dal centro urbano di Rio. Con le sue architetture di volumi prismatici, questa città universitaria d’avanguardia, modificata nel corso degli anni, ha rappresentato il punto più alto della realizzazione della vocazione dell’utopia universitaria. La Ciudad Universitaria di Madrid e la “Generación del ’25” Il progetto del complesso universitario madrileno fu definito nei mesi conclusivi del 1928, in esecuzione del “Real Decreto” del 17 maggio 1927 che aveva istituito una “Junta Constructora de la Ciudad Universitaria” (1), con l’obiettivo di modernizzare e raggruppare le diver- 181 Fig. 1 - Città Universitaria di Madrid in costruzione, 1931. Fig. 2 - Manuel Sánchez Arcas, Centrale Termica, 1932. se Scuole, Facoltà, Cliniche e Sedi amministrative in un complesso urbanistico unitario e autonomo rispetto al sistema infrastrutturale della capitale. La “Junta” – presieduta da Alfonso XIII e composta da due vicepresidenti 182 e dodici membri di nomina reale – disponeva di una notevole autonomia di gestione non soltanto sotto il profilo strettamente accademico, ma anche dell’organizzazione amministrativa, della localizzazione, della progettazione Fig. 3 - Agustín Aguirre López, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1933. e della costruzione del nuovo complesso universitario (2). Un ruolo importante fu svolto da Florestán Aguilar y Rodríguez, uno dei componenti della “Junta”, famoso odontoiatra e molto vicino agli ambienti della corte borbonica, che si rivelò un sostenitore entusiasta della nuova Ciudad Universitaria. Professore di Stomatologia presso la Facoltà madrilena, il dottor Aguilar si recava spesso all’estero anche per ragioni professionali: frequentatore assiduo degli Stati Uniti, aveva stabilito contatti con istituzioni quali la Rockefeller e la Carnegie Foundations, sperando di coinvolgerle nella realizzazione dell’università di Madrid. La Fondazione Rockefeller aveva già bandito un concorso per la progettazione di un Istituto di Fisica e Chimica a Madrid (3) ed era ovvio che il suo interesse per la Spagna fosse dettato da esigenze economiche. Le opere di costruzione dell’Università madrilena ottennero infatti il sostegno finanziario degli Stati Uniti, a fronte di accordi di vario genere come, ad esempio, la condizione che i mobili dei laboratori fossero costruiti in Spagna utilizzando modelli e brevetti americani. La proposta di compiere un viaggio di studi avanzata e finanziata dalla Fondazione Rockefeller fu accolta prontamente. Il 25 aprile 1928, in sessione straordinaria e alla presenza di S.M. il re, Modesto López Otero fu nominato architetto-direttore della città universitaria. La designazione dell’architetto madrileno suscitò non poche polemiche all’interno dell’associazione professionale che avrebbe preferito che la nomina fosse avvenuta a seguito di un concorso di progettazione. Il passo successivo fu la selezione del gruppo dei progettisti. López Otero, in qualità di architetto direttore, scelse personalmente il gruppo dei giovani architetti che si erano già distinti per la loro brillantezza accademica e avevano una certa esperienza in materie simili, sebbene fossero ancora poco conosciuti al di fuori del campo professionale. Tali erano Miguel de Los Santos, Agustín Aguirre, Luis Lacasa, e Manuel Sánchez Arcas, questi ultimi rispettivamente secondo e primo premio del concorso Rokefeller Istituzione di Madrid e titolari di un brillante curriculum. Partecipavano al gruppo di progettisti anche l’architetto Pascual Bravo e l’ingegnere Eduardo Torroja, quest’ultimo segnalato dal direttore della Scuola de Caminos come allievo eccellente di quella Facoltà. Nel mese di settembre del 1928 si istituiva una Commissione composta da José Casares, Antonio Simonena, Julio Palacios, Florestán Aguilar e Modesto López Otero. Per circa due mesi i commissari visitarono le università europee e nordamericane e, al termine del viaggio negli ultimi giorni di novembre, López Otero commentava: “la realizzazione più perfetta si trova in Nord America perché li sono vere città, non solo università o residenze isolate”. Il diario di viaggio di López Otero prendeva nota delle caratteristiche delle università riferite principalmente alla “localizzazione, urbanizzazione, servizi generali, raggruppamento degli edifici e altri dettagli che influenzano la loro caratteristica costruttiva” (4). Dopo avere chiesto l’opinione del direttore della “Escuela de Ingenieros de Caminos”, López Otero assegnava l’incarico del progetto degli elementi strutturali ed infrastrutturali, all’ingegnere Eduardo Torroja Miret, laureato a Madrid nel 1923. La sua collaborazione con gli architetti della “Ciudad Universitaria” contribuì ad un ulteriore avanzamento delle tecniche costruttive in cemento armato, adottando sperimentazioni strutturali caratterizzate dalla ripetibilità: “Vivian [los arquitectos de 1875 a 1910] un ambiente densamente histórico; reñían el alma plena de tradición, a lo que debe añadirse su formación académica y el peso de la opinión local, tan arraigada en nuestros viejos escenarios urbanos, lo que explica su cautela ante cualquier novedad. Tales arquitec- 183 Fig. 4 - Miguel de Los Santos, Facoltà di Medicina, 1932. tos, que pueden clasificarse como eclécticos en cuanto al estilo, poseedores de las novedades técnicas, diestros en la práctica profesional, buenos dibujantes, y con un especial equilibrio entre sus acopios científicos y su sensibilidad artística, dominada por una entrañable adhesión a su arquitectura original y a sus características monumentos, a los que amaban apasionadamente” (5). Un altro dei passi importanti compiuti da Aguilar è rappresentato dalla ricerca del supporto finanziario necessario per consentire l’avvio del progetto. Nel corso del viaggio conoscitivo si recò da solo a Washington per incontrare Gregorio del Amo, un facoltoso spagnolo nativo di Santander residente nella capitale degli Stati Uniti, che si era dichiarato disponibile a sostenere l’ambizioso progetto. In quella occasione Aguilar aveva invitato del Amo a recarsi a Madrid per prendere visione del progetto in situ, ottenendo un cospicuo contributo finanziario. Il tour americano del Comitato impegnò i mesi di settembre, ottobre e novembre 1928. In quel lungo viaggio all’estero i commissari visitarono le università di Boston, Chicago e New York maturando l’opinione che fosse necessario apportare modifiche al progetto preliminare proposto dalla Junta Constructora. Si rinunciò pertanto all’idea di aprire 184 un concorso di progettazione e si decise di estendere il progetto iniziale includendo altre facoltà che sarebbero state costruite in tre fasi consecutive. Le risorse finanziarie necessarie furono ottenute mediante sottoscrizioni pubbliche e fu istituita, con il R. D. del 25 luglio 1928, una “Lotería Universitaria”, da celebrarsi il 27 maggio con cadenza annuale, che avrebbe assicurato un incasso di circa 8 milioni di pesetas all’anno. Con la fine della “Dictadura” di Primo de Rivera, della successiva “Dictablanda” di Dámaso Berenguer, e con la proclamazione della “Segunda República” (6), il 22 ottobre 1931, fu promulgata la “Ley de la Ciudad Universitaria” che riconfermava il decreto istitutivo della Giunta del 1927 e tutto il gruppo di dirigenti tecnici, sollevando da ogni incarico i soli componenti di nomina politica. I lavori continuarono senza subire grandi cambiamenti dal punto di vista tecnico, e la data di inaugurazione delle facoltà di Lettere e Filosofia, di Farmacia, della Scuola di Architettura, di alcune attrezzature sportive e residenze studentesche fu fissata nel mese di ottobre del fatidico (7) 1936, centenario del trasferimento della sede storica della “Universidad Complutense” da Alcalá de Henares a Madrid (8). Il progetto si articolava in base ad una distribuzione tripolare. Il primo polo era costituito dalle singole scuole e facoltà accademiche raggruppate in accordo alle specifiche specializzazioni; il secondo comprendeva gli edifici di gestione amministrativa e di rappresentanza quali il rettorato, le segreterie amministrative, le biblioteche. Il terzo polo accoglieva gli edifici residenziali destinati al corpo docente, i collegi studenteschi e le attrezzature sportive (fig. 1). Il cronoprogramma dei lavori presentava un’importante novità giacché prevedeva che la prima costruzione da realizzare fosse la centrale termica (fig. 2) del cui progetto furono incaricati nel 1932 l’architetto Manuel Sánchez Arcas e l’ingegnere Eduardo Torroja Miret, gli stessi tecnici che avevano realizzato l’edificio sede della “Junta Constructora” nel 1930, nonché la Facoltà di Lettere e Filosofia (fig. 3) e la Clinica Universitaria (fig. 4). Sánchez Arcas apparteneva a quel gruppo di architetti “moderni” cui Carlos Flores López (9) ha attribuito la denominazione di “Generación del 25” (10). Di questo gruppo facevano parte gli architetti Miguel de los Santos (11), Agustín Aguirre López (12), Luis Blanco-Soler Pérez, Rafael Bergamín Gutiérrez (13) e Luis Lacasa Navarro (14). Questi architetti si caratterizzavano per un intenso filo-europeismo in netta opposizione al provincialismo spagnolo. Compagni di studio e sostenitori del lavoro di gruppo, cercavano di assimilare le nuove correnti architettoniche, ancorché il loro interesse per la “Neue Sachlichkeit” si fermasse ad un livello intuitivo e formale, ispirato da un funzionalismo superficiale ovvero da una malintesa istanza igienista (15). Erano tuttavia esponenti di una rottura formale, tanto con la tradizione classica quanto con il revivalismo regionalista utilizzato dalla generazione precedente – quella di López Otero del 1910 – per assecondare il gusto e gli stili di vita dell’aristocrazia e della borghesia agiata. La svolta repubblicana del 1931 avrebbe considerato questo cambiamento di linguaggio architettonico come elemento di rottura con il regime monarchico – come era avvenuto un decennio addietro in Germania con la Repubblica di Weimar fondata sulle ceneri del II Reich – e avrebbe altresì cercato di conseguire l’integrazione dell’architettura spagnola nel “Movimento Moderno” attraverso la creazione del GATEPAC (16). Ancorché l’orgoglio repubblicano avrebbe indotto alcuni storici e critici dell’architettura spagnola ad affermare che la Ciudad Universitaria “fué un ejemplo de oficialización por parte de la República de las actividades progresivas y de relativa vanguardia” (17), non si può tuttavia non prendere atto che molti degli edifici della città universitaria furono ultimati dagli esponenti del regime monarchico e che anche personalità eminenti della Repubblica condividessero l’avversione dei loro omologhi predecessori nei confronti delle nuove tendenze europee. La convivenza tra le generazioni di architetti del 1910 e del 1925 fu occasionalmente poco conflittuale, come te- stimonia la composizione del comitato di redazione della rivista Arquitectura che associava López Otero con Luis Lacasa e Sánchez Arcas. Era tuttavia evidente la diversità di opinioni tra i due gruppi: “[en Europa] Se había declarado la oposición, intolerante hasta lo negativo, a esas formas históricas y a toda clase de ornamentación. Comenzaba a predicarse el racionalismo, es decir, la expresión pura y claramente geométrica de la estructura y de la función, como fundamentos de la arquitectura, con el peligro en sus inicios del predominio de la razón sobre la sensibilidad y la libertad imaginativa [...] En España casi nada de esto tenía estado de realidad interesante. Las formas tradicionales o los híbridos y estériles modernismos de importación francesa o alemana y aún italiana, seguían preferidos, y lo poco que de las nuevas corrientes se conocía, por otro lado mezquinas y mal interpretadas, sólo lograba una fuerte y airada oposición pública, con más virulencia en las capas sociales elevadas, incluso entre los intelectuales” (18). Tuttavia il laboratorio di sperimentazione della Città Universitaria di Madrid avrebbe indiscutibilmente trasfromato l’architettura spagnola come sarebbe risultato evidente nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso che videro all’opera personalità del GATEPAC quali Jose Lluís Sert, Fernando García Mercadal e Antoni Bonet Castellana. (1) La data coincideva con il venticinquesimo anniversario della incoronazione de iure di Alfonso XII a re di Spagna, in seguito alla reggenza di sua madre Maria Cristina di Asburgo-Lorena. (2) Dieguez Patao 1997. (3) Notizie del concorso aperto dalla Fondazione Rockefeller e sulla realizzazione sono variamente pubblicate, ad es. in “Revista Obras”, n. 7, aprile 1932. (4) Chías Navarro 1986, p. 208. (5) Brano tratto dalla conferenza di López Otero nella sessione inaugurale della “Cátedra Ricardo Magdalena”, tenuta a Saragozza nel 1960. (6) Si veda Bohigas 1970. (7) Anno iniziale della Guerra Civile spagnola (1936-1939). (8) Si veda Flores López 1988. (9) Flores López 1967, p. 32. (10) Santiago 1962, pp. 187-189. (11) Progettista della Scuola di Stomatologia, della Facoltà di Medicina e della Facoltà di Scienze. (12) Progettista della Facoltà di Lettere e Facoltà di Scienze negli anni 1932-1935. (13) Responsabili del progetto e della direzione dei lavori del Collegio “Jaime del Amo” (1928-1930). (14) Progettista della Casa dello Studente. (15) Cortés 1992. (16) Acronimo di “Grupo de Artistas y Técnicos Españoles para el Progreso de la Arquitectura Contemporánea”, istituito il 30 ottobre 1930 a Saragozza come sezione spagnola del CIAM. I principali promotori dell’iniziativa furono José Manuel Aizpurúa, Antoni Bonet i 185 Castellana, Fernando García Mercadal, Josep Lluís Sert e Josep Torres Clavé. Il GATEPAC pubblicò la rivista “A. C. Documentos de Actividad Contemporánea”, che rappresentò un punto di riferimento importante per il movimento moderno spagnolo. L’associazione fu sciolta alla conclusione della Guerra Civile. Si veda Donato 1971, pp. 45-59. (17) Chías Navarro 1986, p. 198. (18) Citazione in “Alfonso XIII, Santander y la Ciudad Universitaria deMadrid”, conferenza tenuta da Modesto López Otero il 22 aprile 1959 presso la “Delegación de Santander del Colegio Oficial de Arquitectos”. Bibliografia Bohigas 1970 O. Bohigas, La arquitectura española de la II República, Barcellona 1970. Chías Navarro 1986 P. Chías Navarro, La Ciudad Universitaria de Madrid. Génesis y realización, Madrid 1986. Cortés 1992 J. A. Cortés, El racionalismo madrileño, Madrid 1992. Diéguez Patao 1997 S. Diéguez Patao, La generación del 25. Primera arquitectura moderna en Madrid, Madrid 1997. Donato 1971 E. Donato, El GATEPAC: entre el olvido y la desmitificación, in «Ciudad y Territorio», 1971, 1. Flores López 1967 C. Flores López, 1927: Primera Arquitectura en España, in «Hogar y Arquitectura», mag.-giu. 1967, 70. Flores López 1988 C. Flores López, La primera fase de la Ciudad Universitaria de Madrid. Ambiente cultural y obra realizada in La Ciudad Universitaria de Madrid, vol. I, Madrid 1988. Santiago 1962 M. Santiago (J. M. Richards), The Spain of Carlos Flores, in «The Architectural Review», 1962, 781. THE UNIVERSITY CITY OF MADRID CAMPUS AND THE “GENERATION OF 1925”: A HOTHOUSE OF MODERN EXPERIMENTATION The design and construction of the “Ciudad Universitaria”, or university campus, of Madrid represents the final stage of an intense political, social and cultural debate that started at the end of the first decade of the twentieth century and centered on the need to upgrade the University of Madrid to the level of the most prestigious academic institutions in European and North American countries. The plan for the university complex was firmed up in the final months of 1928, with the implementation of the “Royal Act” of May 17, 1927, which established a “Junta Constructora de la Ciudad Universitaria” with the aim of modernizing and grouping the different schools, faculties, clinics and administrative offices together in a unitary and autonomous urban complex with respect to the infrastructure system of Madrid. The realization of the project and its construction was entrusted to the group of “modern” architects whom Carlos Flores had dubbed the “Generación del 1925”. These architects shared an intense pro-Europeanism diametrically opposed to the provincialism of Spain at the time. They were exponents of a formal break with the classical and academic tradition, as well as the regionalist “revivals” embraced by the previous generation. 186 SIMILITUDINI E DIFFERENZE: CIUDAD UNIVERSITARIA DE MADRID E LA NUOVA CITTÀ UNIVERSITARIA DI ROMA Calogero Bellanca Questa riflessione trae origine e stimolo dall’accordo quadro siglato tra la nostra Università e il Politecnico di Madrid nel 2016 e da alcune successive tesi di laurea effettuate sulla realtà architettonica della Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Madrid. I riferimenti architettonici tra la città Universitaria di Madrid e la nostra Sapienza sono molteplici. Questi si colgono dalla lettura degli organismi architettonici e si può affermare che molte motivazioni iniziali dipendono dallo stesso Marcello Piacentini. Infatti appena egli riceve l’incarico per la progettazione della nuova città universitaria romana chiama alcuni giovani architetti italiani scelti tra i migliori del tempo e insieme a loro costituisce un ufficio tecnico appositamente istituito per iniziare una serie di ricerche inerenti ai singoli temi architettonici. Così, sin dall’aprile del 1932, esorta a visitare e studiare i principali centri universitari dell’Europa. Egli scrive: “Perché i più perfetti sistemi costruttivi e i più moderni servizi potessero corrispondere alle esigenze particolari dell’insegnamento … sono stati oggetto di particolare ricerca l’acustica architettonica, i sistemi di riscaldamento, di ventilazione, di isolamento, gli impianti per i gabinetti scientifici, l’arredamento delle aule e degli Istituti Superiori […]”(1). Quindi i componenti del gruppo visitano le nuove università di Madrid, Zurigo, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, L’Aia, Monaco, Lipsia e ancora specifici studi sono condotti sui grandi centri universitari nord americani. Ancora Piacentini scrive: “… ho voluto riprendere e sviluppare il tema antichissimo e tipicamente italiano di comporre, con le varie costruzioni, una piazza definita architettonicamente e volumetricamente. Ho voluto, così, riprendere in un tema modernissimo il concetto della migliore tradizione urbanistica a noi derivata dall’antichità greco-romana e dal nostro Rinascimento. […] Così questa Città Universitaria di Roma, nata su uno schema di pianta basilicale a transetto trae tutta la sua grandiosità dall’ordine e dalla simmetria basamentale: i vari edifici però che si prospettano sono formati da masse che si bilanciano, ma non sono affatto uguali tra loro”(2). A Madrid invece la Città Universitaria si trova sparsa su un territorio molto vasto nel distretto di Moncloa, con raggruppamenti per ciascuna delle varie facoltà a differenza della disposizione lineare seguita in altri casi. Nonostante la differenza tra l’università spagnola e quella romana, si può parlare di una vera e propria città universitaria organica con 42 ettari per Madrid e solo 220.000 m2 per Roma. Ma prima di avviare questo progressivo avvicinamento alle realtà architettoniche o ai diversi organismi, occorre ripercorrere alcune affinità che si sono manifestate. Si ritiene ribadire i comuni riferimenti architettonici, i protagonisti delle realizzazioni, ovvero i gruppi di architetti, i cantieri e infine i simili problemi per le vicende belliche anche se in anni leggermente diversi. Il cantiere in costruzione a Madrid Dal 1928 al 1932 si realizza la pianificazione urbana in tutta l’area con i primi edifici. L’asse principale è costituito dalle architetture di Medicina, Farmacia, Odontoiatria, Botanica, quindi Chimica, Fisica, Scienze Naturali e Matematica mentre perpendicolarmente si realizza un asse con Lettere-Filosofia, Diritto e alcuni musei. Gli edifici di Architettura e Agraria, sono ubicati sulla destra, con una diffusa presenza del verde in tutto il campus (3). Alcuni degli edifici di Madrid, in particolare quelli di Medicina, echeggiano l’impianto volumetrico della Biblioteca dell’Università di Vienna di Otto Wagner, ma dal 1932 i progettisti lasciano i riferimenti eclettici e avviano un Racionalismo templado o Racionalismo al margen. Infatti l’architettura dei blocchi aperti integrati in un tutto che definisce uno spazio in connessione con altri e risulta uno dei caratteri fondanti della Città Universitaria di Madrid deriva in parte dai campus americani. Le planimetrie risentono di una impostazione classica, mentre il linguaggio dei dettagli è moderno con assenze di ornamentazioni, nelle proporzioni delle finestre, l’impiego di materiali come la pietra e il laterizio. L’idea architettonica risulta funzionalista con influenze dell’espressionismo tedesco e del razionalismo. I protagonisti Il capogruppo della compagine spagnola è Modesto López Otero, architetto laureato nel 1910. Nel 1927 è nominato capo della Junta Constructora della Città Universitaria di Madrid e con alcuni giovani colleghi effettua un viaggio di studio negli Stati Uniti, visitando Yale, Harvard, Princeton e l’Istituto Tecnologico del Massachusetts (4). Tra il 1927 e il 1928 i membri della Junta viaggiano in Olanda e colgono le nuove espressioni costruttive e figurative del laterizio. La Escuela Tecnica Superior de Arquitectura sarà disegnata da Pascual Bravo Sanfeliù (5) con la struttura di Eduardo Torroja Miret (6) (fig. 1). Nella Città Universitaria di Madrid, la prima facoltà costruita e inaugurata sarà quella di Lettere 187 Fig. 1 - Foto aerea del Bauhaus di Dessau del 1926 (da Campos Calvo-Sotelo 2004) e modello tridimensionale della ETSAM, UPM (dalla Tesi di Laurea di F. Paparo 2016). e Filosofia il 20 luglio del 1932 su progetto di Agustin Aguirre (7). Questo progetto influenzerà Robert Atkinson per il nuovo campus di Cambridge del 1932. Questo edificio assume un significato rilevante, un avvio ad una nuova epoca, un luogo tranquillo, grandi spazi pieni di luce, la biblioteca, il bar, e la sala da pranzo con il primo self-service in un edificio di questo genere in Spagna. A questi vorrei aggiungere altri architetti, forse poco noti tra di noi, autori della Facoltà di Medicina, dell’Ospedale Clinico, della Centrale Termica e della Residenza degli studenti: Manuel Sánchez Arcas, Miguel de los Santos (8), e due esponenti del razionalismo spagnolo, Luis Blanco Soler e Rafael Bergamín. Questo gruppo di lavoro entra nella storia dell’architettura, ed è noto come la “generazione del 1920-1925”, perché laureati in quel periodo (9). Tra i diretti riferimenti architettonici appare naturale la filiazione comune con la Bauhaus di Dessau del 1926, un po’ meno con il palazzo delle Nazioni di Le Corbusier. Ma non è questa la sede per approfondire sulle partecipazioni ai CIAM e al Congresso di Atene (10). Dagli studi effettuati in situ per le due realtà, si coglie l’analogia tra le due Scuole di Architettura di Madrid e di Roma. Ma soprattutto dai documenti rintracciati nell’Archivio del Consorzio Edilizio della Regia Università di Roma (CERUR) si possono ritrovare i primi diretti contatti (11). I documenti romani Nell’ambito dello studio dei rapporti tra le due città universitarie emerge la figura di Francesco Guidi che collabora con Piacentini dal 1927 al 1950, più in particolare per gli aspetti tecnici ed esecutivi dei progetti. Da una prima relazione si ritrova la descrizione del 188 sito. Si nota come Guidi riceve l’incarico di coordinare l’attività di rilevazione, catalogo, ricerca dei più perfetti sistemi costruttivi e i servizi più moderni. Dalla relazione dell’ottobre del 1934, presentata al comitato esecutivo del Consorzio, sulla visita di studio a Madrid, egli aveva scritto che si era recato in Spagna a studiare anche i vari impianti e i particolari costruttivi. Infatti nonostante la dimensione diversa, a Madrid la consistenza urbanistica evidenzia un viale di 3 km e largo 40 m, mentre nella costruenda Città Universitaria della Sapienza questo è quindici volte inferiore, ma è possibile cogliere la stessa struttura organizzativa. L’ufficio tecnico auspica l’adozione di nuovi materiali da costruzione o di particolari metodi e tipologie. Piacentini afferma che nessuna concessione è stata fatta alle tendenze ultrarazionaliste. Si è cercato di costruire edifici non di moda ma che abbiano le qualità della essenzialità. L’aspetto architettonico è semplice e appropriato con una sincera applicazione dei materiali di rivestimento anche di colore intonato “al tipico rosso-bruno di Roma” con le variazioni alle varie qualità dei mattoni e travertino (12). Diverse sono state le finalità delle missioni organizzate dai due uffici tecnici, quello di Madrid, prima dell’avvio della realizzazione, mentre il gruppo di Roma effettua numerosi viaggi di aggiornamento durante la progettazione e la realizzazione. A tal fine si rammenta che Giuseppe Capponi si reca in Germania per lo studio dei più recenti istituti affini a quello di Botanica. E ancora per il tema delle vetrate si impone uno studio particolare per le serre e per il sistema bioclimatico. Guidi viene inviato ancora nel 1935 a Zurigo, Monaco e Berlino per alcuni particolari istituti di Fisica e Chimica. Ma in riferimento alla descrizione che riporta Francesco Guidi della Città Universitaria di Madrid è importante sottolineare che: “la posizione del terreno è felice, non troppo lontano dal Fig. 2 - Facciata della ETSAM di Madrid e l’Istituto di Odontoiatria Eastman di Roma (foto di S. Mora e C. Bellanca). centro, la natura collinosa del sito si presta a diverse sistemazioni […] in generale ogni facoltà è costituita dall’aggruppamento simmetrico di vari corpi di fabbrica intorno a spazi. L’architettura è in generale moderna, semplice senza enfasi, il carattere di modernità è più accentuato nell’Ospedale meno nelle Facoltà di Medicina e Farmacia. I fabbricati sono rivestiti con cortina di mattoni di un rosso vivo, interrotta da piccole cornici di granito. Per l’isolamento dei rumori fra i diversi piani è usato il sughero” (13). A tal fine sembra opportuno evidenziare i confronti con alcune singole realtà. I caratteri costruttivi La facciata della Scuola di Architettura di Madrid è impostata su una ampia scalinata, un ordine gigante la delimita centralmente, e al piano terra le tre aperture immettono all’interno. L’edificio superiormente è delimitato da una lineare cornice di coronamento. Il rivestimento esterno è in lastre di pietra locale. A Roma, l’organismo architettonico che più si accosta è quello di Odontoiatria. Qui il prospetto è più articolato ma si ritrova una composizione architettonica simile con un basamento, un ordine gigante e una cornice che delimita infine un lineare attico terminale (fig. 2). Così avvicinandoci alla lettura di alcuni particolari, ad esempio nel capitello inserito nel portale centrale della facciata della nostra Facoltà di Architettura, sede Valle Giulia, prevale una forma semplificata di capitello ionico incassato rispetto a quello di Madrid con un ornato. Gli edifici dei rettorati invece sono profondamente diversi. A Roma prevale una nitida stesura dell’impagina- to prospettico, ritmata dalle finestre e dalla trasparenza dei propilei, con una lineare cornice, mentre il progettato Rettorato di Madrid il cosiddetto “Paraninfo”, non realizzato, esprimeva un linguaggio classico. Questo era inteso come l’edificio più rappresentativo dell’Università, ubicato alla fine del viale principale con sullo sfondo la Sierra e presenta un frontone neoclassico. Era prevista anche la realizzazione di una cappella dedicata a S. Tommaso (14). Altre analogie si ritrovano tra l’edificio di Pagano costruito per la Facoltà di Fisica e la Centrale Termica di Madrid, e ancora con la Facoltà di Filosofia, in particolare nell’inserzione della pensilina circolare (fig. 3). A tal fine si nota come siano recepiti i progetti di Tony Garnier ad esempio quello per la stazione ferroviaria del 1903. In sintesi si nota come si sia trovato un dialogo tra la forma plastica dei volumi schietti e puliti con alcune superfici curve. Sempre sul tema delle superfici curve con esili pensiline e finestre a nastro si ritrovano similitudini tra la Facoltà di Filosofia di Madrid e il prospetto posteriore della Scuola di Matematica di Roma. Un altro tema ricorrente è quello delle stesure limpide con vetrate centrali ancora tra la Facoltà di Filosofia di Madrid, quasi un involucro vetrato emergente, con la nostra Scuola di Matematica che mostra una vetrata incassata. Indubbiamente in queste architetture si sente uno spirito e/o un linguaggio della Bauhaus che giunge attraverso l’adozione di blocchi che si compenetrano, con volumi di muratura nel quale si ritagliano le diverse aperture (15). Mentre tra le realizzazioni architettoniche di Medicina di Madrid e Antropologia e Psicologia di Roma si colgono i temi dell’alternanza mattone e travertino con corpo aggettante centrale. E ancora tra il corpo di fabbrica di Medicina di Madrid 189 Fig. 3 - La Facoltà di Filosofia di Madrid (da Campos CalvoSotelo 2004) e quella di Fisica di Roma (foto di C. Bellanca). Si noti la somiglianza nella soluzione utilizzata per le pensiline. Fig. 4 - Prospetto laterale della Facoltà di Medicina di Madrid e vista laterale dell’Istituto di Odontoiatria Eastman di Roma (foto di S. Mora e C. Bellanca). e quello di Odontoiatria di Roma (fig. 4), nella lettura dell’impaginato prospettico si leggono le differenze nel numero di piani e nel trattamento della soluzione angolare. Per gli interni si ritrovano numerose altre analogie e differenze. Sembra opportuno affrontare il tema degli accessi e in particolare quello degli atri e delle scale (fig. 5). 190 Ad esempio l’atrio del Rettorato della Città Universitaria di Roma evidenzia uno zoccolo in marmo verde, con balaustra in bronzo, porte in legno di noce e lapide in giallo di Siena. Mentre per gli infissi si passa dall’impiego del legno e vetro al metallo e vetro con diverse varianti. Si possono distinguere le scale della Scuola di Fig. 5 - Foto di dettaglio dei mancorrenti nella ETSAM a Madrid e nella Facoltà di Antropologia e Psicologia di Roma (foto di S. Mora e C. Bellanca). Architettura di Madrid e quelle di Odontoiatria e Antropologia a Roma. In questa ultima si ritrova una similitudine, con qualche materiale diverso ma la forma è identica. Ad esempio alcune porte nella Scuola di Architettura di Madrid sono incassate con cornice, mentre a Roma in Matematica sono emergenti con un balcone superiore. Fra gli altri elementi costitutivi emergono le vetrate. La più significativa rimane quella per la Facoltà di Filosofia di Madrid che aveva un programma iconografico relativo ad una allegoria umanistica di 10.27 m di altezza per 8.70 di larghezza. Questa è stata realizzata nel 1935 e da un documento del 4 giugno del 1935 si legge: “con vidrios impresos, vidrios antiguos, para doblar y obtener efectos de color, … emplomada con plomo grueso especial para acusar formay dibujar con ellos”. L’autore Alberto Martorell realizza anche quella della Escuela Tecnica Superior de Arquitectura con una allegoria delle diverse fasi costruttive dalla preistoria all’architettura greca e romana, islamica e iberica (16) (fig. 6). A Roma la vetrata di Gio Ponti realizzata tra il 1935 e il 1937, ampiamente pubblicata su «Domus», nel febbraio del 1936, evidenziava un angelo che occupa una posizione strategica, in basso una figura femminile ieratica, identificabile con la Geometria, la Razionalità o la Scienza e un gruppo di discepoli. Nella composizione dominano il silenzio e la contemplazione. La dimensione era di 10.58 m di altezza e 4.56 di larghezza. Questa vetrata, purtroppo è andata distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale nei giorni del bombardamento di Roma del 19 luglio 1943. Essa aveva una intelaiatura di profilati in allumino che assemblava 30 pannelli istoriati con vetri policromi (17). Tra le numerose analogie delle due sedi universitarie emergono altri particolari e si ritiene di ricordare dalle diverse insegne indicative delle sedi, composte da singole lettere, ad alcuni episodi di arredo urbano con panche in travertino e fontanelle per l’acqua, così le stesse luci e arredi degli ambienti interni. Infine sembra doveroso accennare ai problemi comuni degli ultimi anni relativi alle aggiunte architettoniche e alle diverse tematiche della conservazione, sia dell’insieme che delle finiture esterne. Considerazioni conclusive In una dimensione europea, si possono vedere questi continui studi, ricerche, approfondimenti, oggi resi più semplici rispetto ad alcuni anni addietro. Tuttavia, sembra opportuno rammentare che in entrambe le sedi si affrontano continuamente i problemi della conservazione e del restauro. Giovanni Carbonara nel 1997 scriveva che “in un lungo processo di affinamento concettuale si è presa progressivamente coscienza che solo tramite la conservazione materiale si potevano tutelare e trasmettere, nella loro autenticità significati e valori spirituali, ivi compresi quelli artistici” (18). Sul restauro del Moderno, pur considerando le differenze tecnologiche e prestazionali dei sistemi costruttivi e del calcestruzzo armato come materiale innovativo, l’attuale dibattito sul restauro non scandisce una differenza dottrinaria di comportamenti tra antico e moderno. La metodologia ri- 191 Fig. 6 - Dettaglio della vetrata di Alberto Martorell Portas nel Salón de Actos nella ETSAM, UPM (foto S. Mora) e della vetrata di Gio Ponti nella Scuola di Matematica di Roma, distrutta durante i bombardamenti (da «Domus», febbraio 1936). mane unitaria. Il restauro muove dal riconoscimento del valore artistico e/o storico del bene. Infine deve prevalere il concetto della reintegrazione dell’immagine non in termini imitativi ma di riaccostamento alla struttura formale. (1) Piacentini 1935, p. 2. (2) Ivi, pp. 4-6. (3) Per l’insieme della Città Universitaria di Madrid si vedano: de Legue 1931, López Otero 1943, Flores 1967, Bohigas 1970, Jiménez 1971. Riferimenti generali restano sempre: Chueca Goitia 1974, Campo Baeza 1982, Chias Navarro 1986, Chueca Goitia 2001, Bonet et alii 1988; sino al più recente volume di P. Campos Calvo-Sotelo dedicato ai primi 75 anni della Città universitaria madrilena (Campos Calvo-Sotelo 2004). Si veda anche Azzaro 2012, pp. 9-31. 192 (4) Su Modesto López Otero esiste un’ampia rassegna bibliografica; tuttavia sembra opportuno rammentare che è stato professore di progettazione architettonica e direttore della Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Madrid (ETSAM). Nato a Valladolid il 24 febbraio del 1885, scompare a Madrid il 23 dicembre del 1962. Da giovane aveva partecipato al Terzo Congresso Nazionale di Architettura nel 1903, ed era stato borsista a Vienna studiando da Otto Wagner quindi con Hans Peschl ed era entrato in contatto con Berlage, e Behrens. In questo studio si è avuto modo di verificare la sua presenza ad Atene nella Conferenza sulla Conservazione dei Monumenti, nel ruolo di componente della delegazione spagnola. Egli aveva continuato il restauro alla cattedrale di Cuenca iniziato da Vicente Lampérez y Romea. Nel 1928 effettua un viaggio negli Stati Uniti e Canada per studiare i campus americani, in particolare Harvard e Princeton con Sánchez Arcas, Bergamín e De los Santos. E ancora nel 1932 presenta una conferenza su “La Tecnica Moderna en la Conservacion de Monumentos”. È anche progettista del Viaducto del Aire e del Viaducto de Quince Ojos. Dirige il piano urbanistico e architettonico della Città Universitaria di Madrid che si inizia nel 1927. Dal 1923 al 1943 è direttore dell’ETSAM. Tra i suoi scritti si ricordano tra l’altro: Pasado y porvenir de la ensenanza de la Arquitectura, R.N.A., 38, 1945; La nueva Arquitectura, R.N.A., 169, 1957; El Hormigon Armado en la creacion arquitectonica, Instituto Tecnico de la Construccion, Madrid 1952. Su Otero si rinvia a Mora Alonso Muñoyerro 2002 e Sánchez de Lerín García 2000. (5) Su Pascual Bravo Sanfeliù, l’architetto progettista della Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Madrid (ETSAM), sembra opportuno rammentare che negli anni giovanili aveva collaborato con Antonio Palacios alla realizzazione del Padiglione della Spagna all’Exposición de Artes Decorativas e Industriales a Parigi nel 1925, architetto dell’ETSAM (1926-32), quindi viene nominato membro della Real Academia di San Fernando nel 1954 e architetto diocesano di Zaragoza. Un profilo si trova in Martinez Verón 1993. (6) Sulla figura e l’opera di Eduardo Torroja e la sua poliedrica attività dedicata alla ricerca, alla didattica e alla realizzazione di fondamentali strutture in cemento armato e in particolare le strutture a guscio, nella prima metà del XX secolo la bibliografia è sconfinata. Fondamentale Torroja 1957, tuttavia si veda anche il recente Cassinello 2016. Si rammenta altresì che Torroja ha regolamentato la normativa tecnica per gli ascensori continui, il cosiddetto Paternoster realizzato dalla ditta Schneider per due persone. (7) Agustin Aguirre López (1896-1985) si laurea a Madrid nel 1920 e inizia a collaborare con Miguel de los Santos al concorso per la sede della Telefonica di Barcellona. Egli viene chiamato da López Otero come componente del gruppo di progettazione della Città Universitaria e progetta la Facoltà di Lettere e Filosofia e quella di Diritto nel periodo precedente la Guerra Civile. Nel periodo successivo avvia la ricostruzione della Facoltà di Filosofia e con la collaborazione di Miguel de los Santos dell’Ospedale Clinico. (8) M. Sánchez Arcas progetta l’Ospedale Clinico tra il 1934 e il 1936 e soprattutto la Centrale Termica del 1933. Pubblica un breve saggio: Notas de un viaje por Holanda, in «Arquitectura», marzo 1926, p. 107. Marcelo de los Santos si forma come un collaboratore di Otero nei progetti dell’Hotel sulla Gran Via e Hotel Nacional e progetta tra il 1934 e il 1936 gli edifici delle Facoltà di Medicina e Scienze. (9) Luis Blanco Soler inizia la sua attività con Antonio Palacios, a Parigi collabora con Perret, al rientro a Madrid nel 1929 insieme a Rafael Bergamín realizza il quartiere del Movimento Moderno a Madrid, la cosiddetta Colonia El Viso. Tra le altre realizzazioni si ritiene di segnalare la sede dell’ambasciata Britannica e Hotel Wellington, sempre a Madrid, oltre ad aggiunte su interessanti preesistenze residenziali nel centro di Madrid, in particolare nel Barrio di Salamanca. Egli è anche autore di un saggio su Erich Mendelsohn, in «Arquitectura», novembre 1924, pp. 318319. Su Rafael Bergamín basta ricordare che studia Dudok ad Hilversum mentre pubblica tra l’altro Los trabajos de extension del Municipio de Hilversum, in «Arquitectura», 1925, p.18, e ancora Exposicion de Artes Decorativas de Paris: impressiones de un turista, in «Arquitectura», 1925, p. 236. (10) È interessante notare la presenza di Walter Gropius a Madrid che nel 1931 tiene una conferenza nella Residencia de Estudiantes e pubblica nella rivista «Arquitectura funcional», 1931, pp. 51-62. (11) Per il fondo CERUR in AS Sapienza, si veda in particolare b. 45, fasc. 375, febbraio 1935. (12) Piacentini 1935, p. 6. (13) Guidi 1934, pp. 584-591. (14) Sul “Paraninfo” si veda Barreiro 1983. (15) Sul neoplasticismo la bibliografia è sconfinata; si rinvia ad alcuni testi italiani: Benevolo 1971; De Fusco 1974. (16) Di Alberto Martorell Portas, artista delle vetrate, è nota la data di nascita, il 1890; nel 1915 vince un concorso del Ministero di Istruzione Pubblica come professore. Pubblica alcuni dei suoi disegni nella rivista «Campana Catalana» e «Esfera». Si conosce la realizzazione di molte vetrate per la ditta Maumejean di Parigi, per la Scuola di Architettura di Madrid e, si crede, per la sede del Banco di Spagna. Infine dopo la Guerra Civile si trasferisce in Sud America e realizza le vetrate della cattedrale di Manizales. (17) Per la vetrata di Gio Ponti, si veda il recente Catucci, Garroni, Salvo 2017, con ampia bibliografia e citazioni delle fonti. (18) Carbonara 1997, pp. 581-606. Bibliografia Azzaro 2012 B. Azzaro, La Città Universitaria della Sapienza di Roma e le sedi esterne 1907-1932, Roma 2012. 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Although the extension is quite different, 42 ha in Madrid and 220.000 mq in Rome, the urban planning shows some analogies that I will like to explain. There are also so many similitudes in the architecture of the buildings and the importance given to the construction and technologic problems. For the planning of both of them, there were formed two groups of young modern architects. The Italian group was directed by Marcello Piacentini and the Spanish group by Modesto Lopez Otero. And also the problems caused by the war were similar in the construction of both of these complexes. 194 AFTER “ITALIA LA BELLA”. INTERACTION BETWEEN ITALIAN AND FINNISH ARCHITECTURE IN THE 1930S IN THE LIGHT OF THE JOURNAL «ARKKITEHTI» Minna Kulojärvi (1) Introduction This article focuses on a few Finnish architects, each of whom was an important proponent of Functionalism, and whose works were presented in the journal «Arkkitehti» (published by the Finnish Association of Architects, SAFA): Erik Bryggman (1891-1955), Hilding Ekelund (1893-1984), Martti Välikangas (1893-1973), Väinö Vähäkallio (1886-1959), Otto Flodin (1903-1969), and Erkki Huttunen (1901-1956) (2). Most of them had graduated in the 1910s or 1920s. Another thing they had in common is that they all made one or more journeys to Italy in the 1920s and 1930s. Many diverse factors together stimulated Finnish architects to travel to Italy. Not only early Italian Renaissance but also both Finnish and Italian vernacular architecture were emphasized in the teaching of architecture history in Helsinki in the early 20th century (3). In fact, the lectures of Professor Armas Lindgren (18741929) were said to arouse an “Italy-fever” (4). Part of the influence came via Sweden, as many Swedish architects, such as Gunnar Asplund, had already been travelling in Italy earlier. Hence, the journeys of the 1920s and 1930s did not lead to a new orientation for Finnish architects but confirmed their already established direction (5). In 1923, following his first journey to Italy, Hilding Ekelund published a report along with some of his and Erik Bryggman’s sketches in «Arkkitehti» with the title “Italia la Bella”. A quotation from the section about Vicenza implies that vernacular architecture was one of his main interests: “Palladio, Palladio in dress uniform on every street corner, with columns, architraves, cornices and the whole arsenal of forms. Impressive, but boring. – Between them plain, simple houses, just walls and apertures, but with distinct, harmonious proportions” (6). It has been suggested that the greatest contribution of the Finnish architects to Modern architecture was the development of Functionalism in a freer and more experimental direction (7). It has also been claimed that, from the perspective of Modernism, the interest the architects showed in anonymous architettura minore proved to be more important than the objects of Roman Antiquity or the Renaissance (8). Later in the 1930s, some traits of vernacular architecture seem to have reappeared in the works of Finnish architects, but in a transformed way. The Grand Tours of Nordic architects to the south of Europe and especially Alvar Aalto’s (1898-1976) relationship with Italy have been researched widely. Thus, instead, I have a look at what happened when Finland welcomed Functionalism. The change to Functionalism The years between 1928 and 1932 in Finland have been called a period of reduced classicism (9) during which the characteristics of buildings gradually became plainer. In roofs, a more low-rise style was favoured emphasizing the cubic form, walls became smooth and light coloured, decorations were gradually reduced, and exceptions from symmetry were taken. Thus, the breakthrough of Functionalism was not a revolution, but a step on a path already started (10). This gradual change can be perceived in many architectural projects. The small funerary chapel of Parainen, architect Erik Bryggman’s first sacral building, was constructed between 1929 and 1930 (fig. 1). In addition to the features that it shares with the Chapel of Resurrection by Sigurd Lewerentz in the Skogskyrkogården cemetery in Stockholm (1925), it bears many similarities to Bryggman’s sketches from Italy in the 1920s. Before this project, Bryggman travelled in Italy twice: in 1920 and in 1927. There he was interested in the different roof structures of churches – beam, coffered and vaulted roofs – and he produced various studies, also observing the colours. He also had a great enthusiasm for analysing Italian piazzas in depth by measuring them with footsteps (11). Obviously, several features of the Parainen chapel reflect his studies on architettura minore and Italian churches. Resemblances can be seen in the proportions of the façade, the low-pitched roof with the projecting thin eaves and the wooden beam structure, as well as in the details of the window and door openings and the colours (12). The chapel has plastered white walls, a marble frame around the entrance, and a long, narrow-bodied hall which is typical of Bryggman’s church architecture. The chapel is today reviewed as one of the best examples of Nordic Modernism and it has been included in the register of the Finnish organization of the international committee for Documentation and Conservation 195 Fig. 1 - On the left: Erik Bryggman, sketch of a church in Orvieto, 1920s. (Carin Bryggman’s collection. From SCHILDT 1991b, p. 91). On the right: Erik Bryggman, chapel of Parainen («Arkkitehti», 11, 1931, p. 9). of Buildings, Sites and Neighbourhoods of the Modern Movement (Do.Co.Mo.Mo.). Italian journals in Finland and contacts with Italian colleagues Martti Välikangas had been the editor-in-chief of «Arkkitehti» between 1928 and 1930 and Functionalism had gained more exposure in the journal during this period. Välikangas passed the editorship to Hilding Ekelund, who held it from 1931 until 1934 (13). Thus, the journal was under Ekelund’s leadership during the upswing of Functionalism (14). Ekelund had been one of the first architects to move to Functionalism, and he now became known as an active polemist whose writings were often also published in international journals. During the directorship of Välikangas, «Arkkitehti» had started to publish a list of the international journals received by SAFA. They were accessible to architects in the library of SAFA in Helsinki. These journals give us an opportunity to speculate on where new thoughts came from, what architects were interested in and when certain phenomena were introduced in Finland (15). Between the year 1920 and 1935 SAFA received magazines from 22 countries, most of them from Germany, Britain, Netherlands, and Italy. In 1934, Italy was represented by six different journals: «Architettura», «L’architettura Italiana», 196 «Casabella», «Case d’oggi», «Edilizia Moderna», and «Rassegna di Architettura» (16). The projects presented in these journals broadly represented the competing architectural tendencies of the 1930s in Italy, among the most prominent works being, the Sapienza University campus (1932-1935), the new city of Sabaudia (1934), and the railway station of Florence (1935). Likewise, some projects of Finnish architects were noted in Italian journals, which suggests that the interest between Finland and Italy was reciprocal. Among the contacts of Finnish architects with Italian colleagues, those of Alvar Aalto were probably the most significant, among them being the rationalist architects Ignazio Gardella (1905-1999) and Ernesto Rogers (19091969). Giovanni “Gio” Ponti (1891-1979), the founder of the journal «Domus» and the architect of the School of Mathematics of Sapienza (1935), was in correspondence with Aalto. In addition, some Italian architects, such as Leonardo Mosso, later worked in Aalto’s office (17). Aalto also kept in touch with Giuseppe Pagano (1896-1945), the director of the journal «Casabella» and the architect of the Institute of Physics of Sapienza (1935). Like Pagano in the late 1930s, Aalto also had some reputation as a left-wing radical, which probably made him closer to the thinking of Pagano (18). In 1939, Pagano was invited to Scandinavia by the Nordic Associations of Architects, and during the visit he gave a lecture with the title “Moderne Architektur in Italien” to an audience of about 60 members of SAFA in Helsinki, presenting contemporary architectural projects in Italy. In his lecture, Pagano also mentioned the difficult political situation of rationalist architecture in Italy. Also present was the architect Gardella (19). Concurrent architectural projects The architectural idioms were in fact not that far apart in Italy and in Finland, also in consequence of the inspiration of the International Style and the migration of architectural ideas in Europe. To illustrate this, two concurrent projects in both countries in the 1930s are presented. In 1932, the competition for the Santa Maria Novella railway station in Florence was announced. The suggested entries for the competition were presented in April 1933 in «Architettura» (20) and «Rassegna di Architettura» (21), which were two of the journals SAFA received (fig. 2). Gruppo Toscano: architects Giovanni Michelucci, Pier Niccolò Berardi, Nello Baroni, Italo Gamberini, Sarre Guarnieri, and Leonardo Lusanna won first prize. The station was completed in 1935 and received immediate appreciation (22). Shortly after the Florentine competition, in autumn 1933, a competition for the façade of the railway sta- tion in Tampere, central Finland, was announced. Sixtyseven entries were received by 10 January 1934 (fig. 3). Both Hilding Ekelund and Alvar Aalto took part in the competition but were not successful. The railway station was finally constructed (mainly between 1935 and 1936) according to the plans of architects Otto Flodin (19031969) and Eero Seppälä (1902-1941) whose competition entry was esteemed by the jury (23). Comparing the entries for these two competitions, similar themes can be noted, especially in the long horizontal form, in the rows of windows, and in the large windows of the entrance. Neither of the projects on which the completed stations were based originally included a tower. It was added in a later phase to the drawings of the railway station of Tampere, despite the opposition of the architects. In April 1935, the rationalist buildings of the new town of Sabaudia, designed by the architects Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato and Alfredo Scalpelli, were presented in the journal «Architettura». Among them was also the church of Sabaudia (fig. 4). Meanwhile, in Finland the debates about Traditionalism and Functionalism continued in church architecture. Following those discussions, one of the first truly moder- Fig. 2 - The competition entries for the railway station of Florence. From top: Gruppo Toscano, first prize; arch. Ettore Sotsas, second prize; arch. G.B. Ceas («Architettura», fasc. IV, 1933, pp. 203, 207, 226). 197 Fig. 3 - The competition entries for the railway station of Tampere, Finland. From top: arch. K.N. Borg, shared second prize; architects A. Hytönen and R.V. Luukkonen, third prize; arch. O. Flodin and E. Seppälä, redemption («Arkkitehti», 2, 1934, pp. 26-28). nist churches was the Nakkila church in western Finland, designed by architect Erkki Huttunen (1901-1956). He won the invitational competition announced in February 1935 (24). The church was constructed between 1936 and 1937. These two churches share idioms of the same kind, such as the semi-circular apse with encircling windows and a tall window to light the altar, the low-pitched roof with thin and short eaves, and a slender campanile attached to the church by a short corridor. Both the churches still feature something reminiscent of traditional buttresses on the sides, with tall and narrow windows between them. The reception of the Nakkila church among the local populace was divided, and its appearance was compared to an industrial building. Among colleagues, it was received with appreciation. The church is now included in the register of Do.Co.Mo.Mo. 198 The many variations of Modernism White and pure Functionalism received the leading role in the historiography of Modernism, and there has long existed a common image of the uniformity of the Finnish architecture of the 1930s. However, as in Italy, there were a variety of different competing stylistic features. After Finland had started recovering from the recession of the early 1930s, there also emerged a more moderate form of Modernism, adopted from Italy and Germany – one that still contained something of classicism. The typical features included a more traditional manner in the disposition of façades by setting windows individually in the smooth and even walls instead of continuous windows. In Finland, this tendency was visible particularly in commercial buildings, especially those by architects J.S. Siren and Bertel and Valter Jung (25). A Fig. 4 - On the left: Church of Sabaudia («Architettura», fasc. IV, 1935, p. 516). On the right: Erkki Huttunen, Church of Nakkila, Finland («Arkkitehti», 5, 1938, p. 76). Fig. 5 - On the left: Väinö Vähäkallio, Kansallisosakepankki at Hyvinkää, Finland (Hyvinkää City Museum). On the right: Väinö Vähäkallio, the factory and head office of Alko, Helsinki («Arkkitehti», 3, 1941, p. 34). somewhat similar spirit can be distinguished in some of the new buildings of La Sapienza University. The same has been argued about the Functionalistic architecture of Väinö Vähäkallio (1886-1959). His career can be regarded as an excellent example of the many parallel manifestations of Modernism, enhanced by his responsiveness to the changing tastes of different clients. Certain features in Vähäkallio’s bank buildings have been claimed to resemble some examples of Italian architecture of the 1930s, such as the rows of vertical separate windows, the stone frames for windows and doors, and the decorative sculptures in the façades (26). 199 Fig. 6 - On the left: Hilding Ekelund, a sketch of stairs to Monte Caprino, Rome, 1921 (MFA). This sketch seems to have been important to Ekelund as he also showed it in his inaugural lecture as professor at the University of Technology in Helsinki in 1950. (EKELUND 1997, p. 253). On the right: H. Ekelund and M. Välikangas, the Olympic Village, Helsinki, 1939-1941 («Arkkitehti», 6, 1948, p. 63). One of these bank buildings is Kansallisosakepankki that was constructed at Hyvinkää in southern Finland in 1936 (fig. 5). It has a row of narrow windows set deep in the white plastered wall. The entrance is framed with light-coloured granite and local gabro stone also called “black granite” (27). The same features can also be seen in the factory and head office complex of Alko, the Finnish alcohol monopoly company in Helsinki, designed by Vähäkallio and completed in 1940. The façade is red brick, and it contains narrative relief decorations and granite frames around the head office entrance and the windows. The styles differing from pure Functionalism that was declared as the Modernist ideal were usually forgotten and neglected in the later histories of Finnish architecture. This also happened to Vähäkallio’s architecture (28). Accordingly, his buildings cannot be found in the Do.Co. Mo.Mo. register although they were appreciated and widely presented in «Arkkitehti» and Vähäkallio held a central position in community (29). Modernism transforms The first symptoms of Functionalism becoming softer, more humane, and closer to nature as a response to strict rationality can be seen already before the Second World War. Changes happened gradually: forms became freer, continuous windows and flat roofs were given up, and organic materials such as wood and natural stone were used. The Olympic Village housing area in Helsinki by architects Välikangas and Ekelund has been called a central example of these changes (30) (fig. 6). The construction of this first uniform residen- 200 tial area designed in an urban environment in Finland was started in 1939. It has been argued that with the light plastered walls, simple window openings free of symmetry, and the light and thin eaves, the Olympic Village refers as well to the ideals of the architettura minore as to international Modernism (31). The same themes that Ekelund studied in his sketches in Italy reappeared now in his works in a different form. This can be seen, for example, in his skill in fitting the buildings to the contours of the hillside and in utilizing small differences in altitude (32). Some of the things that Ekelund studied on his Italian trips in the 1920s were streets formed of stairs and stepped houses, as well as the relation of a plastered wall and a simple window opening and the broad and delicate eaves of Tuscany houses. Indeed, Ekelund has been called, probably rightly, the one with the most enthusiasm for Italian vernacular architecture among Finnish architects of the 1920s (33). Conclusion The aim of this article has been to show that the influence and interaction between Italian and Finnish architecture did not break off after Nordic Classicism but continued through the 1930s and beyond. After the Second World War, many of the Finnish architects’ connections with their Italian colleagues were resumed and they lasted over the reconstruction period. The CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) 1947 assembly was an occasion of reunion for them (34). Subsequently, in the 1940s and 1950s, European architects actively followed the achievements of one another in reconstruction architecture. A similar spirit has been noted, for instance, in the post-war architecture of Ekelund and contemporary Italian neo-realistic residential projects, such as those of Mario Ridolfi for INA-Casa (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) (35). (1) I am grateful to the Museum of Finnish Architecture for the access to the archives. My research for this article has generously been funded by the Jenny and Antti Wihuri Foundation. (2) Many of them were the chief editors of the journal «Arkkitehti» or the directors of SAFA or held another important position in the Finnish society in the 1930s. (3) Interest in vernacular architecture was also shared with architects such as Le Corbusier and Frank Lloyd Wright. (4) Schildt 1985, p. 106. (5) Schildt 1984, p. 168. (6) Ekelund 1923, p. 18 (translation Paavilainen 1979, p. 103). (7) Helander 2008, p. 107. (8) Heinonen 1986, p. 32. It has been typical in the Finnish discourse to emphasize the importance of architettura minore in the formation of the reduced idiom of Functionalism. Riitta Nikula, however, remarked that the history of Modernism in Finland had been written quite selectively (Nikula 1981, p. 14). Later, the research has become more polyphonic. (9) Nikula 1981, p. 72. (10) Mikkola 1985, p. 71. (11) Schildt 1991b, pp. 83-91. (12) Ivi, pp. 93-95. (13) In 1936, Välikangas became the director of SAFA. (14) Ekelund also called this new style “ratsionalismi” in Finnish (Niskanen 2005, p. 303). (15) Shortly before World War II, private individual travel to southern Europe became rarer and most of the information from abroad was received through journals and correspondence with colleagues. Despite this, quite a number of Finnish architects and students travelled to Italy as late as 1939 (Jetsonen 2008, p. 186). (16) Heinonen 1976, p. 28. Some Finnish architects also followed news about Italian architecture in newspapers. Architect Välikangas’s personal archive shows that he had saved a newspaper clipping, for instance, about “Mostra della Rivoluzione Fascista” organized in Rome («Hufvudstadsbladet» 1933, p. 11). The marty- rium designed by architects Libera and Valente especially received praise in the newspaper article (The archive of the Museum of Finnish Architecture (henceforth MFA), Martti Välikangas, Folder 4). (17) Schildt 1991a, pp. 216-217. Aalto had made his first journey to Italy in 1924. (18) Mikkola 1979, p. 144 (19) «Arkkitehti» 1939, pp. 2-3. The lecture was given on 30 January 1939. Arkkitehti published a summary of this lecture and a picture of Pagano’s residential project “Milano Verde”. In February 1939 Pagano also wrote about his journey in his own journal «Casabella-Costruzioni» (Pagano 1939, pp. 2-3). (20) Il concorso 1933, pp. 201-230. (21) Il concorso nazionale 1933, pp. 277-285. (22) The completed station, together with La Sapienza University and Sabaudia, was presented in Pagano 1935, pp. 2-7, and in Pica 1936, pp. 133-140. (23) The completed station was presented in «Arkkitehti» 1937, pp. 97-103. Flodin belonged to a younger generation of architects and had graduated in 1927. He had just been travelling in Italy in 1932. After that, in 1933 he became an architect in the National Board of Public Construction (MFA, http://www.mfa.fi, 10 November 2017). (24) Huttunen had also graduated in 1927 and had been travelling in Italy (MFA, http://www.mfa.fi, 10 November 2017). (25) Nikula 2000, pp. 324-325 (26) Niskanen 2008, pp. 199-205. Vähäkallio had made a journey to southern Europe, including Italy, already in 1910 after graduating in 1909. (27) Niskanen 2005, p. 131. Vähäkallio also used gabro stone in the adjacent Rural Savings Bank that was completed in 1934 and was presented in «Arkkitehti» 1935, pp. 56-57. (28) Ivi, p. 207. (29) In 1936 he became the director of the National Board of Public Construction of Finland. (30) Helander 1997, p. 20. Both of the architects had made two trips in Italy: Ekelund in 1921-1922 and in 1926-1927, and Välikangas in 1921 and in 1925. (31) Ivi, p. 20. (32) Ivi, p. 30. (33) Ivi, pp. 30-31. (34) Schildt 1991a, p. 215. (35) Helander 1997, p. 31. Bibliografia «Arkkitehti» 1931 E. Bryggman, Paraisten hautauskappeli, in «Arkkitehti», 11, 1931, pp. 8-10. «Arkkitehti» 1939 N.E. Wickberg, Arkkitehti Paganon esitelmä, in «Arkkitehti», 1, 1939, suppl., pp. 2-3. «Arkkitehti» 1934 Tampereen asemarakennus, julkisivukilpailu, in «Arkkitehti», 2, 1934, pp. 25-29. «Arkkitehti» 1941 V. Vähäkallio, Oy Alkoholiliike Ab:n uutisrakennus Salmisaaressa Helsingissä, in «Arkkitehti», 3, 1941, pp. 33-37. «Arkkitehti» 1948 H. Ekelund, Helsingin Olympiakylä, in «Arkkitehti», 6, 1948, pp. 61-76. Ekelund 1923 H. 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Schildt, Erik Bryggman in Italy, in Erik Bryggman 18911955 Architect, Helsinki 1991, pp. 81-108. AFTER ‘ITALIA LA BELLA’ – INTERACTION BETWEEN ITALIAN AND FINNISH ARCHITECTURE IN THE 1930S IN THE LIGHT OF THE JOURNAL ARKKITEHTI Scandinavian architects’ travels to Italy in the first decades of the 20th century are known to have greatly influenced Nordic Classicism. In the 1930s, the interest in Italian architecture continued. In Finland, several Italian architectural journals were followed, and contacts with Italian colleagues were maintained. Among them were Gio Ponti and Giuseppe Pagano, who contributed, for instance, to the execution of La Sapienza University campus in Rome. This article uses selected projects presented in the Finnish journal «Arkkitehti» to illuminate how similar features appeared in the Finnish and Italian architecture of the 1930s. In addition, the article shows how the architectural interaction between the two countries continued through the interwar period and beyond. 202 I CAMPUS UNIVERSITARI DI VILNIUS E KAUNAS IN LITUANIA: IL MODERNISMO BALTICO DEL PERIODO SOVIETICO Donatella Scatena I due Campus Universitari di Vilnius e Kaunas rappresentano oggi un tipico servizio pubblico dell’architettura del Baltico Sovietico. Costruiti a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo, essi si inquadrano nell’estetica modernista e testimoniano, insieme a molti altri complessi edilizi costruiti in quegli anni, del cambiamento avvenuto a partire dalla fine degli anni ’50 del ’900 nella società sovietica, dello sviluppo del welfare e del maggior interesse, dell’attenzione e degli sforzi profusi nella edificazione di strutture per la salute, l’istruzione, lo svago e il tempo libero per il lavoratore sovietico. Per quanto riguarda le repubbliche baltiche e la Lituania in particolare, stanno anche a dimostrare una particolare propensione verso la cultura occidentale che ha sempre distinto queste zone. Con il loro desiderio antelitteram di adesione all’Europa, esse rappresentano, oggi, un baluardo alla forte crisi identitaria europea, e veicolano forse verso una diversa idea di unità trans-nazionale non basata solo sulle politiche monetarie ed economiche, ma sulle scelte culturali e su una weltanschauung fortemente voluta e condivisa. Il paesaggio urbano del periodo sovietico nelle repubbliche baltiche Prima di entrare nel merito dei campus universitari lituani bisogna ricordare come le politiche edilizie e costruttive sovietiche determinarono una grande trasformazione dei paesaggi urbani. La Lituania, la Lettonia e l’Estonia entrarono nell’Unione Sovietica nel 1940. Dal 1940 al 1990, gli anni della dominazione sovietica, anche l’architettura subì grandi cambiamenti di pari passo con la politica, l’economia e le politiche sociali. Il paesaggio urbano, a sua volta, si trasformò radicalmente a causa dell’intensificarsi della progettazione a grande scala e dello sviluppo della prefabbricazione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la storica lituana Marja Drėmaitė scrive che per la ricostruzione di Vilnius e Kaunas, fu ricondotto in patria uno sparuto gruppo di architetti lituani dalla Polonia, deportati negli anni precedenti, ma per la maggior parte dei lavori la Russia inviò i suoi professionisti, in particolare da Leningrad e da Mosca; furono proprio questi a forgiare nello stile Neoclassico sontuoso e monumentale, simbolo del regime totalitario stalinista, la nuova Lituania. Il disgelo di Khrushchev e l’inizio del Modernismo Sovietico Bisogna aspettare Nikita Khrushchev e il conseguente “disgelo” per vedere il primo attacco all’estetica Neoclassica di maniera. Il decreto sull’industrializzazione incentivò l’apertura di fabbriche di cemento armato nei sobborghi delle grandi città baltiche, incoraggiando la prefabbricazione edilizia e l’uso massiccio di materiali come calcestruzzo, vetro e metallo. Questo segnò l’inizio di quel Modernismo Internazionale come lo conosciamo oggi, che va dal 1950 al 1990 circa, che attualmente sta incontrando una fase di interesse e di revisione, non solo in ambito accademico. Fu la stessa Unione Sovietica a veicolare all’epoca la sua immagine nel resto del mondo (1), grazie alla rivista francese L’Architecture d’Aujourd’hui (2), che nel 1969, dopo un lungo lavoro di ricerca sui materiali disponibili, dedicò un’edizione speciale all’architettura Sovietica, mostrando quel “socialismo dal volto umano”, risultato di una immagine abilmente costruita a tavolino, ma frutto anche del disgelo attuato da più di un decennio nelle relazioni internazionali. Che cosa conteneva, in sintesi, questa monografia? La presentazione era affidata alla Prospettiva Kalinin a Mosca. Nelle pagine a seguire, trovavano posto mega-musei ed enormi stadi, come il campo ricreativo Skalny per la gioventù in Crimea di 1200 posti e poi strutture per le vacanze, case del cinema, planetari, acquari. Nel suo complesso, tutte le architetture e i luoghi rappresentati su L’Architecture d’Aujourd’hui, caratterizzati dall’estetica architettonica modernista, sottolineavano in modo trionfalistico il nuovo stile di vita del popolo sovietico. Eccezione fatta per le architetture delle tre regioni baltiche. Qui si scelse di mostrare un’architettura di piccole dimensioni, “intima e accogliente e caratterizzata da espressioni regionali” (3): per l’ Estonia un campeggio di legno a Tallin, una piccola edicola per i fiori o l’ufficio amministrativo di un allevamento sperimentale di pollame e un quartiere disposto intorno ad uno stagno dal quale prende la sua forma ovale compatta, il Väike-Õismäe di Tallin. Per la Lituania, in particolare Vilnius, il quartiere Žirmūnai, dove le abitazioni a torri appaiono garbatamente sistemate in mezzo a boschi e zone verdi. Ma questa differenza di scala sottolineata dalla rivista francese corrispondeva davvero ad una diversa realtà? La Drėmaitė, che porta avanti studi sul tema scrive: “Ad un più attento esame di una copia della suddetta edizione speciale de L’Architecture d’Aujourd’hui, trovata nella biblioteca personale dell’architetto moder- 203 Fig. 1 - Pensilina monumentale dell’Istituto di Ingegneria e Costruzione del campus universitario di Vilnius (foto dell’A.). Fig. 2 - Edifici delle facoltà di legge, economia e altre discipline del campus universitario di Vilnius (foto dell’A.). nista lituano Vytautas Edmundas Čekanauskas, abbiamo notato che sulla copertina (che mostra le bandiere delle 16 federazioni che formavano l’USSR N.d.A.) le tre bandiere delle repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) erano state cancellate con una croce, come a sottolineare: ‘Noi non siamo sovietici’ ” (4). Un gesto che la storica definisce sintomatico di un’intera generazione di architetti, riconosciuti in seguito come scuola lituana di architettura; e che ella avrà potuto sicuramente verificare direttamente da suo padre, l’architetto Zvaigdras Drema (1943-2009). In effetti la regione baltica fu denominata 204 “occidente sovietico” e la vicinanza ad un modello più europeo fece dire allo storico e critico Yuri Gerchuk che esse avevano “attivamente contribuito alla trasformazione del milieu estetico della vita quotidiana sovietica e alla formazione di un nuovo stile. Annesse all’Unione Sovietica solo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, (le repubbliche baltiche) hanno avuto poco tempo per sottomettersi alle politiche di perequazione della cultura ufficiale e, durante l’era Khrushchev, hanno recuperato più velocemente rispetto a quelle regioni dell’est che sono state sotto l’Unione Sovietica sin dall’inizio. Per noi, i prodotti provenienti dal Baltico portavano l’inconfondibile marchio della cultura europea che noi desideravamo così tanto” (5). Welfare e stato sociale a servizio della società sovietica Il cambiamento dal realismo sociale stalinista verso la “modernità”, è avvenuto, comunque sia, meno in termini estetici e molto più in termini ideologici con riflessi sulle risoluzioni organizzative e abitative. Ciò si è verificato nel decennio conosciuto come il disgelo Khrushchev (19541964) che, sebbene sia stato inteso come un attacco diretto all’architettura, in realtà, aveva lo scopo di dare impulso al progresso tecnologico al fine più grande di creare un vero e proprio programma di welfare. Il discorso che Khrushchev tenne il 7 dicembre 1954 alla Conferenza dell’Unione dei Costruttori, degli Architetti e dei Lavoratori Sovietici (6) divenne famoso, appunto, per il decreto Sulla eliminazione degli eccessi in Architetture ed Edilizia. Ma il vero messaggio era contenuto nell’altro decreto, Sullo sviluppo di migliorare, industrializzare e ridurre i costi delle Costruzioni, che mirava a velocizzare e rendere più economico il processo edilizio favorendo la prefabbricazione e l’aumento di case nuove, salubri, moderne, per tutti i lavoratori. Grande attenzione fu prestata ai nuovi stili di vita e al benessere che ne conseguiva per i cittadini, con la pianificazione dei servizi sociali verso gli anni ’60, quando sorgono anche i campus di Kaunas e Vilnius. Dopo la costruzione dei centri abitati ed industriali e dopo l’incremento delle fabbriche fu la volta delle strutture educative e sanitarie ritenute di importanza capitale. Nel programma del partito comunista (1961) si legge che “il tempo libero degli uomini sarà prevalentemente dedicato alle attività sociali, all’interazione culturale, allo sviluppo mentale e fisico e alle ricerche creative, scientifiche, tecniche ed artistiche” (7) e nel 1967 il numero dei giorni lavorativi passerà da sei a cinque. La pianificazione urbanistica fu suddivisa in quattro livelli gerarchici: nel primo livello i servizi educativi e culturali con piccoli locali molto vicini alle abitazioni e comunque raggiungibili a piedi. Nel secondo livello i servizi per interi quartieri o regioni con possibilità di 600, 800, 1000 e 1200 posti. Poiché spesso tutte le attività venivano poste insieme in uno stesso manufatto edilizio molto capiente, si optava per lo più per edifici a grande scala, standardizzati e inespressivi. Mentre i manufatti del primo e secondo livello sono descritti solo in termini di organizzazione e funzionalità in quelli del terzo livello compaiono i termini “architettura”, “facciata”, “immagine”, “forma”. Nel terzo livello troviamo istituzioni culturali molto grandi che servivano interi distretti. Tra loro strutture riservate alla Lega giovanile del Partito Comunista, i Pioneers e mega-sale di 6000 posti per grandi riunioni pubbliche. Infine il quarto livello comprendeva servizi che potevano estendersi per intere zone o aree extraurbane o suburbane, come centri turistici, grandi campeggi per la lega giovanile, sanatori e cittadelle universitarie. I frutti di uno stile di vita migliore e di una minore pressione lavorativa portarono anche nell’USSR una domanda di istruzione e così, agli inizi degli anni ’60, si verificò una richiesta forte di aule universitarie, di laboratori e di centri per la ricerca. Inoltre la fiducia nel futuro suggeriva di scegliere aree per eventuali espansioni; le strutture sanitarie, gli ospedali e i campus universitari furono dislocati fuori del centro urbano, in zone aperte e verdi. L’istituto di pianificazione statale consigliava di optare per terreni che potessero contare almeno su 10-15 ettari liberi. Il Campus universitario sovietico a Kaunas L’Istituto Politecnico di Kaunas (oggi Università Tecnica di Kaunas), progettato da Vytautas Jurgis Dičius tra il 1960 e il 1970, fu il primo ad introdurre in Lituania i criteri di una università moderna. Una volta individuato un terreno lontano dal flusso intensivo del traffico cittadino di Kaunas, nel 1961 cominciò la costruzione del complesso universitario composta da quattro dipartimenti, una mensa, dormitori per gli studenti, uno stadio con area sportiva. Il primo edificio innalzato fu il Dipartimento di Costruzioni, basato sulle indicazioni standard ordinate dal Giprovuz, l’istituto di pianificazione sovietica. Il procedimento compositivo adottato si basava sul principio del piano libero, con assemblaggio di vari elementi. Inoltre una tarda adesione all’estetica del Bauhaus determinò l’uso di forme rettangolari pure e l’utilizzo di grandi vetrate e dei colori bianco e nero. Sebbene questo sia poi diventato il gusto preminente di tutto il Modernismo Sovietico per l’immagine degli edifici pubblici, quello di Kaunas è uno dei primi tentativi di superare lo stile stalinista, aderendo ai canoni dell’International Style. Il Campus universitario sovietico a Vilnius Vilnius aveva una antica università nel centro storico costruita dai Gesuiti ma la richiesta di maggiori spazi per l’educazione superiore determinò lo spostamento del nuovo centro universitario all’esterno della città. Fu individuata un’area enorme a Saulėtikis, a nord del centro abitato, e nel 1963 la lega degli architetti lituani bandì un concorso vinto da Rimantas Dičius, Zigmas Jonas Daunora e Julius Jurgelionis, che curarono tutto il vasto impianto planimetrico del campus. L’area fu divisa in tre parti: un distretto didattico con i vari dipartimenti dell’Università, una zona con centro sportivo e caffetteria di 600 posti e, un po’ più distaccati, i dormitori per studenti e docenti. 205 Fig. 3 - Entrata della Facoltà di Giurisprudenza nel campus universitario di Vilnius (foto dell’A.). L’Istituto di Ingegneria e Costruzione di Vilnius, del 1966 fu il primo edificio del Campus, costruito secondo i principi del Funzionalismo. Oggi l’edificio è diventato parte della GVTU, Vilnius Gediminas Technical University: la sua facciata è caratterizzata da una scala sporgente, verticale, ai lati della quale le due ali del prisma puro presentano l’alternarsi di fasce orizzontali di muro pieno grigio e fasce di finestre a nastro e vetrate. Il ritmo regolare è rotto da una pensilina plastica e monumentale (fig. 1). All’interno il grande foyer è in connessione con l’esterno attraverso la vetrata. L’ala dell’auditorium, in mattoni rossi, è stata aggiunta nel 1970, su progetto dell’architetto J. Jurgelionis. Nel 1970 furono costruiti i nuovi edifici per le facoltà di legge, economia e altre discipline, a opera di R. Dičius. Il complesso è formato da edifici scatolari di otto piani, paralleli tra loro, utilizzati per la didattica e caratterizzati da facciate piatte (fig. 2), collegati, sul retro, a una costruzione bassa e inespressiva in mattoni rossi a due piani con locali per il trattamento dati e sale di lettura. Ogni edificio presenta degli elementi decorativi all’esterno tipici del Funzionalismo mentre gli interni si differenziano e sono più originali (fig. 5). Sul fronte principale gli attacchi a terra dei tre parallelepipedi sono svuotati, con entrate rialzate su scalini e alleggerite attraverso lo scavo e il fronte vetrato. I grandi pilastri strutturali (fig. 3) che creano il varco sono massivi, in cemento armato e creano il vero mood dell’estetica del brutalismo molto presente in tutto il campus (fig. 4). A ovest del lungo viale Saulėtikio nel 1974 sono sorti gli ostelli per gli studenti, opera di B. Krūminis. I sei 206 dormitori di sedici piani ognuno presentano uno scheletro a telaio di cemento armato e tamponature, piani e corpi-scala prefabbricati. L’immagine plastica dei fronti è ottenuta grazie a un ritmo molto cadenzato dei balconi e il particolare skyline delle torri così vicine ha fatto ribattezzare la zona “New York” e ha creato un modello per i successivi blocchi multipiano dei quartieri residenziali che sorgeranno di lì a poco in tutta l’area perimetrale di Vilnius. Fig. 4 - Interno del piano terra della Facoltà di Economia nel campus universitario di Vilnius (foto dell’A.). Fig. 5 - Interno del piano terra della Facoltà di Economia del campus universitario di Vilnius (foto dell’A.). I grandi complessi ospedalieri collegati al campus di Vilnius. Dal 1960 al 1966, nello storico suburbio di Antakalnis di Vilnius, sulla strada che porta al campus universitario, Eduardas Chlomauskas e Zigmantas Liandzbergis progettarono due ospedali universitari basandosi sui principi razionali e funzionali. Vere e proprie fabbriche della salute, sia ideologicamente sia esteticamente, esse dovevano evocare anche nella pianta libera, nella facciata libera e nell’uso del cemento armato il benessere e l’igiene del popolo sovietico. Trattandosi di ospedali di livello nazionale, gli architetti, come da regolamento, dovevano riferirsi all’Istituto di Costruzione e Progetto Urbano ed avevano una limitata possibilità di elaborare una progettazione sperimentale e personale. Il Quarto Ospedale Statale per il Direttorio, come fu denominato, costruito il 1960, il 1966 e il 1973, era riservato alla nomenklatura sovietica. Posato su una vasta area verde, un tempo giardino botanico, si compone di volumi di quattro livelli ordinatamente disposti su un piano libero, seguendo lo stesso principio compositivo che gli architetti avevano usato nel campus universitario. I reparti si affacciano a sud lontani dalla strada, la clinica collegata è più in baso e la connessione tra i corpi è fatta da ali a un piano. Per ingentilire un po’ la composizione i balconi della parte del sanatorio hanno delle mattonelle in legno. La parte a sud che affacciata sulla collina aveva una serie di terrazze fiorite digradanti e anche il cortile interno per le visite era configurato come un giardino. Ma ciò che all’epoca della sua costruzione caratte- rizzò questo ospedale fu il livello della privacy: “quasi tutti gli ospedali sovietici aderivano alla norma di avere stanze con quattro fino ad otto letti ognuna, ma il Quarto Ospedale per il Direttorio poté avere stanze di soli due letti” (8). Nell’Ospedale Universitario su viale Antakalnio, 57 del 1966 il rapporto con il luogo ha un ruolo fondamentale e anche qui la collina di Antakalnis è servita da fondale naturale. L’ospedale, secondo i temi della progettazione moderna, non si mimetizza però con il paesaggio e si pone con i suoi volumi definiti e stereometrici in antitesi. Due blocchi di nove piani con 1000 posti letto, una clinica di sette piani, una clinica oncologica con 450 posti letto e un collegamento attraverso una serie di tunnel con i servizi. Poco più avanti sulla strada principale, la Clinica pediatrica di Antakalnis di 300 posti letto, progetto dall’architetta Regina Masilionytė, del 1984; all’edificio semplice, rettangolare in mattoni gialli è giustapposto un volume con muro circolare che contiene una piscina (oggi in restauro) e un colonnato sempre semicircolare che indirizza verso l’entrata. Il complesso di servizi ospedalieri del periodo sovietico si conclude con il Policlinico anche questo del 1984, una delle ultime opere di Liandzbergis che probabilmente è stato uno dei più importanti architetti per ciò che riguarda le istituzioni pubbliche lituane. Il policlinico, posto ad angolo sul viale Antakalnio, si impone per la mole dei suoi due volumi, uno orizzontale e più basso, sempre in mattoni gialli, sollevato su pilastri massicci e un rettangolo alto e vetrato per i laboratori di esami. Nei due corpi di fabbrica 207 Fig. 6 - Interno della Biblioteca Universitaria di Vilnius (foto dell’A.). che presentano un linguaggio architettonico appartenente alla stessa ideologia moderna, ma differenti fra loro, Liandzbergis sembra aver voluto riassumere le istanze espressioniste e funzionaliste della cultura sovietico-baltica. I centri direzionali nel Campus Universitario di Vilnius del ventunesimo secolo Il piano aperto fu interpretato dagli architetti e urbanisti lituani come progetto dinamico nel quale i servizi e le residenze avrebbero potuto espandersi liberamente. Ma questa utopia non si è avverata, come il resto della speranza socialista ed entrambe le costose università di Kaunas e Vilnius sono state completate solo in parte. Il terzo millennio vede una ripresa dei lavori a Vilnius con la Sede centrale della Valle della Scienza Sunrise e del Parco Tecnologico e la Sede centrale della VGTU nella vasta area di Saulėtikio. La prima (9) del 2008, segna oggi l’entrata a nord del campus aperto. La seconda (10), con la sua forma ad arco trionfale rettangolare e l’uso di metallo, vetro e acciaio, marca volontariamente il distacco dal resto dell’architettura sovietica. Infine la Biblioteca Universitaria di Vilnius con il Centro di informazione e comunicazione del 2011 è un progetto di uno dei più noti architetti lituani contemporanei Rolandas Palekas (11). La biblioteca contiene la ricca e antica raccolta di testi accademici dell’Europa centrale e dell’Est ed è stata costruita nell’area boscosa lungo il viale pedonale principale del campus universitario, che la collega anche visivamente ai grandi palazzi sovietici. Organica ed espressionista si rivolge verso il bosco (fig. 6) a confermare quel rapporto privilegiato che la modernità e, in particolare l’architettura lituana, ha sempre avuto con la natura. (1) Per uno studio più approfondito dell’architettura modernista baltica rimandiamo a Drėmaitė 2017. Per un primo approccio all’architettura e alla città sovietica si rimanda agli studi di Vieri Quilici. (2) Drėmaitė 2017, pp. 13-16 (trad. dell’Autrice). (3) Ivi, p. 14. (4) Ivi, p. 16. (5) Ivi, p. 10. (6) Ivi, p. 17. (7) Ivi, p. 217. (8) Ivi 2017, p. 241. (9) Progetto di A. Pliučas, E. Petkevičius, D. Pauliukonienė, E. Kirdulienė, E. Valevičiūtė; strutturisti L. Stikleris, T. Rumbutis. (10) Progetto di S. Kuncevičiaus. (11) ARCH Studio di R. Palekas. Bibliografia Architecture Sovietique 1970 «L’Architecture d’Aujourd’hui», numero speciale Architecture Sovietique, n. 47 (Dicembre 1969/Gennaio 1970). Dremaitė, Leitanaitė, Reklaitė 2013 M. Dremaitė, R. Leitanaitė, J. Reklaitė, Vilinius 19002013. 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The Soviet government decree “Regarding the Relinquishment of Excess in Construction and Architecture” decried Neoclassical excesses but above all it promoved a new form of industrialisation. There was a development of housing, factories, schools and a greater demand of public buildings for a high level education. The University Campus of Vilnius (and Kaunas) was built in a beautiful suburban area of 175 ha. It was divided into three zones: an educational district; a sports area; a residential part with dormitory buildings. The open plan of the university was surronding by a urban forest and its academic and educational buildings develop a constant dialogue with the nature and the landscape. 208 IL CAMPUS UNIVERSITETSUNDERVISNINGEN DI ÅRHUS IN DANIMARCA. DISEGNO URBANO, ARCHITETTURA E DESIGN NELLA LEZIONE DI KAY FISKER, C.F. MØLLERE POVL STEGMANN. Elena Manzo L’Università di Århus, fondata l’11 settembre 1928 come Universitetsundervisningen, cioè “Università Tecnica” dello Jutland, ha assunto l’attuale denominazione nel 1933 ed è, oggi, un vasto e modernissimo campus in continuo ampliamento, reputato il secondo Ateneo della Danimarca dopo quello di Copenaghen e tra i primi 100 nel Mondo (1) (fig. 1). Nel 2007, quando il Ministero della Cultura della Danimarca pubblicò il Canon of Danish Art and Culture, la struttura generale, comprensiva dei suoi numerosissimi edifici e del vasto parco circostante, è stata inclusa tra le 12 opere più importanti e rappresentative della Nazione. L’attuale sede, infatti, è stata considerata una delle architetture più significative del Funzionalismo danese e dell’architettura contemporanea scandinava, poiché esprime appieno le istanze del Movimento Moderno in una declinazione chiaramente regionale, dove trovano posto i principali temi della tradizione costruttiva autoctona: i materiali, la luce e il paesaggio (2). Protagonista è il vasto parco, in cui sono immersi i differenti corpi di fabbrica, dislocati liberamente soprattutto lungo il perimetro esterno del campus e in modo da accompagnare il naturale andamento orografico del terreno: un lotto dalla irregolare forma trapezoidale, delimitato da quattro arterie stradali e attraversato dal lungo asse di Vestre Ringgade fino a Norde Ringgade, su cui prospettano gli uffici amministrativi, il Centro conferenze e, frontalmente, il cosiddetto Main Building, l’imponente edificio principale, icona dell’intero complesso universitario. Questo, caratterizzato dall’omogeneo paramento in muratura dal tipico colore giallo del mattone locale − comune denominatore dell’intero campus, sotto cui si uniformano con organicità e coerenza i numerosi e successivi interventi ancora in atto − si distingue dall’austera stereometria della restante struttura, emergendo con la sua altezza e l’ampia vetrata aperta sul parco. L’Università di Århus, per l’appunto, è il risultato di un lungo iter concorsuale, intrapreso agli inizi degli anni Trenta, le cui vicende sono sintomatiche del vivace clima culturale che il Paese stava vivendo in quel periodo, quando, prima, l’Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali di Parigi nel 1925, poi, la Fiera Campionaria di Turku nel 1929 e, soprattutto, nel 1930, l’Esposizione di Stoccolma avevano portato alla ribalta della scena internazionale la produzione delle regioni bal- tiche, ormai affrancate dalle ultime trecce di un linguaggio nazional-romantico e dal Classicismo nordico (3). Tuttavia, erano state soprattutto le opere di Erik Gunnar Asplund, Sven Markelius, Arne Korsmo a conquistare la scena mondiale con una produzione ricca di vitalità, innovazione, varietà, rigore stilistico e alto livello tecnologico; mentre minore attenzione era stata rivolta alla produzione danese. Anche la Danimarca, però, stava conducendo il suo percorso di adesione alle nuove istanze grazie a una costante ricerca formale, da cui trapelava un’innata inclinazione a usare la storia in modo disinvolto, con un coerente processo di elaborazione dei temi della tradizione e un raffinato gusto per il landscape, pur legandosi indiscutibilmente al rigore razionalista e a un Funzionalismo di matrice sociale (4). Scrive infatti Stefano Ray: “qualora si identifichi l’architettura moderna con quella sua particolare accezione che si è convenuto chiamare razionalismo, … è indiscutibile che il lessico … venga adottato nei paesi scandinavi … intorno al ’30, e che prima di allora non si diano fenomeni la cui portata possa suggerire il paragone con quanto contemporaneamente accade in altre nazioni, in Germania, soprattutto, e in Francia, in Inghilterra, in Olanda. Se dicendo ‘movimento moderno’, tuttavia, si intende non solo il razionalismo … ma l’intero complesso di operazioni attraverso le quali, in un periodo di circa centocinquanta anni, la cultura architettonica ha elaborato una nuova metodologia, per aderire ai nuovi contenuti posti in evidenza dalla società industriale, anche i paesi scandinavi, nei limiti di tempo e secondo i modi delle rispettive evoluzioni tecnologiche, sociali e culturali, appariranno inseriti nel medesimo processo di modificazione dell’ambiente umano” (5). Protagonista di questa stagione di trapasso e caposcuola del modernismo danese fu appunto Kay Fisker, il quale si era già imposto all’attenzione della cultura architettonica e del design proprio con il padiglione presentato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1925 (6). Fu questo il singolare clima culturale che, ad Århus, quando si intraprese la costruzione del nuovo e più ampio edificio per gli studi universitari, portò al superamento del progetto redatto da una commissione interna di accademici e, successivamente, sei anni più tardi, all’approvazione di quella soluzione avanzata dagli architetti Kay Fisker, C.F. Møller, Povl Stegmann (che lavorò fino al 1937) e dal paesaggista Carl Theodor Sørensen (7). 209 Fig. 1 - Århus, campus dell’Università. Vista generale dall’alto. L’occasione, in realtà, si era presentata proprio nel 1925, allorché, l’Universitets-Samvirket, cioè l’Associazione Universitaria di Århus, fondata nel 1921 da un ampio numero di cittadini e dal Consiglio Comunale, era riuscita a diventare sede universitaria dello Jutland. Ottenuta una vasta area pubblica dalle autorità locali, conseguentemente, erano state avanzate diverse proposte, tutte orientate verso una struttura predisposta a future prospettive di sviluppo. Tra queste, nel 1926, rispondendo alle richieste del Ministero dell’Educazione, l’architetto Martin Borch aveva elaborato un progetto, che, sebbene rispondesse pienamente alle esigenze funzionali richieste e fosse aderente al linguaggio ufficiale del Classicismo nordico, non fu accettato perché ritenuto formalmente troppo rigido per il carattere del sito in dolce declivio (8). Basato su un impianto planimetrico dal consueto schema simmetrico rispetto ad un asse, infatti, si componeva di un edificio principale, il quale, generato da rigorose costruzioni geometriche estranee alle linee orografiche del luogo, se realizzato, avrebbe dominato il contesto paesaggistico al punto che Borch aveva previsto anche un intervento di alterazione della conformazione naturale, colmando l’avvallamento e sbancando un piccolo colle, per adattarne la pendenza all’impianto (fig. 2). Benché scartata, la proposta fu l’occasione perché il Ministero si orientasse verso un impianto più complesso, 210 dove non solo fossero contemplate strutture amministrative e didattiche, residenze studentesche e aree ricreative, ma si favorisse la stretta collaborazione e frequentazione quotidiana tra docenti e discenti. Fu quindi indetto un primo concorso al seguito del quale, nel 1927, Fritz Schlegels ebbe la medaglia d’oro per una soluzione non dissimile da quella di Borch. Finché, nel 1928, con la fondazione dell’Università Tecnica dello Jutland, si decise di spostare la sede altrove e, individuata una area più vasta dove realizzarla, si bandì una nuova gara nel 1931. Si richiese il disegno del master plan generale e di un edificio in cui fossero previsti l’Istituto di Chimica, Fisica e Anatomia, il Gabinetto di Anatomia e sale per lo studio delle lingue. Tra i progetti presentati, emersero due proposte indubbiamente rivoluzionarie per quei tempi di trapasso espressivo. Entrambe redatte da Fisker, C.F. Møller e Stegmann, a dispetto della reazionaria cultura accademica danese, guardavano alle coeve innovative interpretazioni del campus universitario. Inoltre, fondate sul decentramento e sulla diversificazione dei corpi di fabbrica, grazie anche all’apporto dell’architetto paesaggista C.Th. Sørensen, rispondevano, con una sorprendente integrazione di modernità e di tradizione, alle sollecitazioni dell’ambiente circostante in cui si sarebbero dovute inserire, fino a enfatizzare le peculiarità naturali del luogo. Tali caratte- Fig. 2 - Progetti per il campus dell’Università di Århus: a) Martin Borch, 1926; b) Fritz Schlegels, 1927 (da MØLLER 1978, pp. 13-14). ristiche furono acutamente percepite da parte della critica architettonica italiana del tempo, così come testimoniano alcuni articoli pubblicati in quegli anni da «Casabella» e, in particolare, quello di Riccardo Rothschild, il quale, nel 1934, affiancando l’originale concezione del master plan di Århus alla più nota Cité degli studi pianificata a Parigi da Dudok e Le Corbusier, osservò quanto, nel progetto danese, “l’architettura non sembra più imposta al paesaggio ma cresciuta in esso” (9) (fig. 3). Per quanto attiene al modello formale, come dichiarò lo stesso C.F. Møller, un esplicito riferimento culturale fu la pressoché coeva Bundesschule ADGB di Barnau bei Berlin, realizzata tra il 1928 e il 1930 da Hannes Meyer con il suo partner Hans Wittwer, ma introducendo quegli elementi della tradizione ricordati in precedenza, quali il tetto a falda e il ricorso al mattone giallo, peculiare della cultura rurale danese. Il progetto finale, quello approvato e reso esecutivo tra il 1932 e il 1933, per rispondere a richieste esplicitamente avanzate dalla committenza, però, prese maggiori distanze dalla radicale espressività del maestro della Bauhaus. D’altra parte, Kay Fisker, laureatosi alla Royal Danish Academy of Fine Art, aveva studiato presso alcuni dei più noti architetti del Movimento Moderno scandinavo e, in particolare, con Anthon Rosen, Sigurd Lewerentz, Hack Kampmann e Erik Gunnar Asplund, cui pagava un indiscutibile debito formativo. Indicato dalla storiografia come il caposcuola del Funzionalismo sociale della Danimarca, Fisker ad Århus nel 1928 aveva costituito uno studio professionale con C.F. Møller, con cui lavorò fino al 1942, contribuendo in modo decisivo a imprimere la svolta culturale e figurativa del paese, grazie a un’operazione intellettuale di rivisitazione dei consueti schemi abitativi, piuttosto che introducendo nuove tipologie (10). Tra il 1922 e il 1923, infatti, a Copenaghen, nel quartiere popolare di Nørrebro, aveva proposto un interessante complesso edilizio a blocco, da cui erano proseguite le sue ricerche al riguardo, fino a quello di Voldparken e al più noto Dronningegård, realizzati nel dopoguerra (11). La premessa di queste architetture erano stati gli studi di Povl Baumann sulla reinterpretazione in chiave contemporanea degli impianti residenziali regionali. Il suo apporto, però, era stato determinante nell’introduzione di elementi costruttivi in uso dalla cultura architettonica del Moderno, fino ad allora assolutamente estranei in Danimarca, come l’uso della scala all’interno degli edifici e il ricorso al balcone per caratterizzare cromaticamente e formalmente la scansione delle facciate. Elemento, quest’ultimo, ricorrente anche nelle residenze studentesche dell’Università di Århus. Il sodalizio con C.F. Møller, poi, era stato particolarmente fecondo in tal senso e aveva prodotto opere quali le raffinate e colte residenze funzionaliste nel quartiere di Vestersøhus a Copenaghen (1935-39) oppure l’imponente edificio sul- 211 Fig. 3 - Århus, campus dell’Università. K. Fisker, P. Stegman, C.F. Møller con C.Th. Sørensen, la Facoltà di Chimica, Fisica e Anatomia in una foto degli anni ’50 (da MØLLER 1978, p. 24). la Vodroffsevj, nella municipalità di Frederiksberg, in cui si individuano espliciti riferimenti linguistici legati agli insegnamenti di Walter Gropius; mentre, ad Århus, è da ricordare l’ospedale comunale (1933-35) (12). Il Campus universitario, tuttavia, resta la sua opera più nota, anche se, sciolto il sodalizio con C.F. Møller, quest’ultimo ne diventò l’unico progettista dal 1942 e, fondato un nuovo studio professionale, ne seguì il lavoro fino alla sua morte. In seguito, i numerosi soci – tra i quali ricordiamo Henning Jensen, David Birnbaum, Jørn Bisgaard, Poul Zacho Rath, il figlio Mads, Lars Kirkegaard, Anna Maria Indrio, Klaus Toustrup – hanno continuato fino ad oggi a realizzarvi nuovi dipartimenti, ulteriori strutture, abitazioni e alloggi. Del progetto originario, quello che risultò vincitore al concorso bandito nel 1931, essi ne stanno preservando l’uniformità e l’omogeneità formale delle sue architetture, l’integrità del disegno del parco e le qualità relazionali tra natura e artefatto. All’interno del perimetro trapezoidale, tracciato su un terreno morenico dalle differenti pendenze, trovano posto differenti edifici, distinti nelle scale volumetriche, ma dalle medesime caratteristiche prismatiche esplicitamente mutuate dalle tradizionali antiche case rurali danesi, con tetto a falde in tegole gialle e murature in filari di mattoni anch’essi gialli. É però nel trattamento delle facciate, prive di aggetti e con regolari aperture a nastro o ampie vetrate, che Fisker, C.F. Møller e Stegmann introdussero alcuni dei principali elementi innovativi, così da connettersi alle esperienze del Movimento Moderno. Dislocati soprattutto lungo il perimetro del campus per lasciare ampie aree verdi al suo interno, gli edifici furono affiancati tra loro in una composizione a “L” – oppure ad “ala” – e furono disposti liberamente nel parco per accompagnarne i morbidi declivi, fino a enfatizzarne le peculiarità naturali in una completa osmosi con il paesaggio circostante e in un gioco di curve e piani traslati, che trova rimandi negli Fig. 4 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale con l’Aula Magna e il teatro all’aperto. Pianta del primo livello (da MØLLER 1978, p. 62). 212 Fig. 5 - Århus, campus dell’Università. Planimetria generale nel 1978 (a sinistra) e schema con la cronologia delle maggiori fasi di ampliamento avvenute tra il 1929 e il 1978 (a destra) (da MØLLER 1978, pp. 183; 181). arredi interni, segnatamente, in quelli dell’Aula Magna. Con la precisione, sia nelle indicazioni delle linee guida redatte nel 1988, sia nel del master plan del 2001, C.F. Møller associò il segno planimetrico di questi edifici nel contesto del verde all’immagine di gabbiani che si preparavano a spiccare il volo direttamente dal suolo. Per quanto attiene l’organizzazione gerarchica delle parti che compongono il campus, il blocco compatto delle residenze degli studenti e del Main Building, l’Aula Magna, l’Auditorium e la biblioteca furono concentrati lungo la strada anulare di Nordre Ringgade, mentre i dipartimenti e le facoltà si sarebbero dovuti sviluppare verso i limiti meridionali del perimetro. I lavori iniziarono già nel 1932 nella parte nord, dove, in posizione dominante, fu realizzata la Facoltà di Chimica, Fisica e Anatomia; nel 1935 fu completato il primo blocco delle residenze studentesche e, due anni dopo, gli istituti di Biochimica e Fisiologia. Nel 1938 fu avviata la costruzione del Museo di Storia Naturale, inaugurato nel 1941, quando fu terminato anche l’Edificio Principale, su progetto di C.F. Møller, per ospitare l’Aula Magna, le facoltà di Arte, di Economia e di Legge e la biblioteca; mentre, all’esterno, fu realizzato frontalmente il teatro all’aperto con la gradonata degli spalti disposti ad arena. Considerato dall’architetto e critico Nils-Ole-Lund il più significativo esempio della monumentalità modernista danese insieme all’auditorium, durante la sua costruzione, nel 1944, fu distrutto da una bomba e inaugurò solo due anni più tardi (13). Impostato su una pianta esagonale, il compatto e tettonico volume dell’Aula Magna, conclusa da una copertura a falde, si erge in posizione dominante rispetto al parco prospiciente (fig. 4). Tuttavia, alla grevità del suo involucro si contrappone l’ampia vetrata della facciata principale. Aperta sulla costruzione del paesaggio circostante sapientemente disegnato da Sørensen e sul teatro, essa instaura quel serrato dialogo tra architettura e natura, tra interno ed esterno, che ancora una volta richiama ai temi vernacolari danesi dell’abitare. 213 Fig. 6 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale e teatro all’aperto. Vista dal retro (da MANZO 2004, p. 137). La sua vasta sala a doppia altezza, che raggiunge 19 metri, richiese speciali studi di acustica, come, per esempio, i cosiddetti “silenziatori”, cioè piccoli fori che possono essere chiusi e aperti per regolare l’acustica e altri più grandi dalla forma ovale, costruiti a mano, pensati per favorire la ventilazione della stanza. Dal fondo, le pareti in tessitura di mattoni definiscono in modo netto il cannocchiale prospettico verso il parco e, ancor più, sull’arena del teatro all’aperto, ponendosi come uno squarcio nella massa muraria, così da connotarla di una leggerezza inaspettata e suggestiva. Anche all’interno, dunque, il risultato è sintesi di modernità e tradizione, enfatizzata e sottolineata dalle slanciate nervature in cemento armato, che introducono una chiara nota innovativa sulla consueta cromia del laterizio giallo, traccia marcata di un passato costruttivo autoctono. Tutto è poi ricondotto a quella calda intima atmosfera degli ambienti scandinavi, accompagnata dagli imponenti lampadari a spirale disegnati da Poul Henningsen e, qui, riproposta grazie all’uso del legno per gli arredi e i rivestimenti, così come avviene anche nelle altre sale comuni e negli alloggi. La pregnante valenza simbolica di questa architettura, parimenti a quel suo tono sommessamente domestico e identitario, con cui dialoga con il contesto naturale e con cui esplicita quei temi della rogeriani “misura umana”, ritrovata dai nostri professionisti nell’opera dei Maestri del Nord Europa, ha costituito un modello per molti del secondo dopoguerra; basti pensare all’Aula Magna realizzata tra il 1950 e il 1957 da Giuseppe Nicolosi a Perugia per l’Ateneo umbro (14). Il resto del campus di Århus si è sviluppato gradualmente, sebbene un forte incremento si ebbe soprattutto negli anni ’60, periodo particolarmente florido per l’economia danese, durante il quale furono acquistati lot- 214 ti limitrofi per l’espansione verso ovest. Tra il 1961 e il 1966, infatti, furono terminati, prima, la Scuola di Odontoiatria e, poi, il Museo delle Arti; nel 1963 fu costruita la Biblioteca e, nel 1964, l’edificio per gli uffici amministrativi, nell’area periferica a nord del parco. Recentemente, tra il 1979 e il 2001, l’Università è cresciuta del 75%, espandendosi anche oltre il perimetro incluso nel master plan del 2001 (fig. 5). Dal 1999, i dipartimenti di scienze umane sono stati collocati in un campus satellite, detto Nobel Park, situato proprio frontalmente, caratterizzato dall’addensamento di edifici per così dire “cuboidi” in mattonelle rosse e scale in vetro. Ciò, purtroppo, determina uno stridente contrasto con l’uniformità cromatica e con la quiete atmosfera, volute da C.F. Møller. Sono stati inoltre previsti uno spazio per eventi, un’area di apprendimento interdisciplinare e sale per riunioni sociali. Nel 2001 è stato terminato l’Auditorium e nel 2009, su progetto di Frank O. Gehry, poco distante, esternamente alla propaggine meridionale del recinto trapezoidale, è stato inaugurato il Cancer Society Counseling Center, noto come Hejmdal o Cancer Patients House. Ispirato ai Centri Maggi del Regno Unito, nasce dalla trasformazione di un preesistente edificio del 1908, progettato dall’architetto danese Rudolf Clausen, che fungeva da gateway all’ospedale di Århus. Di questo, è stato conservato l’involucro e le bucature originarie, ma, all’interno, sono stati inseriti due nuovi livelli a partire da quello della casa. Questi, supportati indipendentemente dalle pareti esterne, creano uno spazio ininterrotto, permettendo alla luce naturale del nuovo tetto di vetro di raggiungere tutti i livelli della casa (15). Sebbene, dunque, si possa pensare che il notevole incremento edilizio, oggi, abbia fatto parzialmente perdere all’Università quell’idea di vasto parco impressa da Sørensen, essa non è mai stata compromessa all’interno dell’ori- Fig. 7 - Århus, campus dell’Università. Edificio principale con l’Aula Magna, il teatro all’aperto e il parco. Vista dall’alto (da MANZO 2004, p. 135). ginario recinto del Campus, così che il suo verde è diventato un importante polmone per la città di Århus. Sono state preservate anche l’omogeneità formale e la qualità degli standard del progetto architettonico di C.F. Møller, il cui studio associato, come si è detto all’inizio, continua a sovrintendere allo sviluppo del suo master plan. In conclusione, al di là degli indiscutibili valori ambientali e degli altissimi standard di vivibilità del campus, l’Università di Århus non può non essere considerata una delle icone più rappresentative dell’architettura danese contemporanea, restando ancora oggi unica nel suo genere. Comune denominatore di questi ottant’anni di sviluppo architettonico è la tessitura in mattoni gialli, con cui ci si continua ad esprimere sempre nell’attualità di un linguaggio coevo, pur conservando un forte legame con la tradizione. Qualità, queste, tali da rendere il campus un’opera atemporale e con una forte carica identitaria (figg. 6-7). (1) https://www.topuniversities.com/university-rankings/worlduniversity-rankings/2018. (2) Henningsen 1927; Jørgensen 1982; Manzo 2004. (3) Manzo 2004. (4) Sui temi del Funzionalismo, si legga quanto scrive lo stesso Kay Fisker: Fisker 1947, poi pubblicato anche in Fisker 1950. (5) Ray 1965, pp. 19-20. (6) Per approfondimenti su Kay Fisker si vedano Tintori 1960; Faber 1995. Sul ruolo da lui esercitato nella svolta della Danimarca dal Classicismo nordico al Funzionalismo si rimanda a Jørgensen 1982. (7) Faber 1946; Aleck, Kreb, Illum 1978. 215 (8) Møller 1978. (9) Rothschild 1934, p.13; si veda anche Skriver 1991. (10) Modern Architecture 1925; Faber 1963; Asgaard Andersen 2008. (11) Manzo 2012. (12) Ibidem. (13) Lund 1991. (14) Manzo 2010. (15) Coulson, Roberts, Taylor 2015, pp. 189-194. Bibliografia Aleck, Kreb, Illum 1978 G. Aleck, C. Kreb, K. Illum, Århus Universitet 1928-1978, Århus 1978 Asgaard Andersen 2008 M. Asgaard Andersen (a cura di), Nordic Architects Write. A documentary anthology, New York 2008 Coulson, Roberts, Taylor 2015 J. Coulson, P. Roberts, I. Taylor, University Planning and Architecture: The Search for Perfection, London-New York 2015. Faber 1946 K. Faber, Opbygningen af Århus Universitet, Copenhagen 1946 Faber 1963 T. Faber, Dansk Arkitektur, Copenhagen 1963 Faber 1995 T. Faber, Architect Kay Fisker, Copenhagen 1995 Fisker 1947 K. Fisker, Funktionaliismens Moral, in «A5», 1947, 4, pp. 7-14 Fisker 1950 K. Fisker, The Moral of Functionalism, in «Magazine of Art», 1950, 2, pp. 62-67 Henningsen 1927 P. Henningsen, Tradition og Modernisme, in «Kritisk Revy», 1927, 3, pp. 30-46 Jørgensen 1982 L.B. Jørgensen, Tradizione e classicismo in Danimarca, in Classicismo nordico. Architettura nei paesi scandinavi 1919-1930, Milano 1982, pp. 25-52 Lund 1991 N.-O. Lund, Nordisk arkitecktur, Copenhagen 1991 Manzo 2004 E. Manzo, Architettura danese contemporanea, Napoli 2004 Manzo 2010 E. Manzo, I “chierici” del Moderno. L’Italia della continuità in provincia: l’Umbria e Perugia, in A. Giannetti, L. Molinari (a cura di), Continuità e crisi. Ernesto Nathan Rogers e la cultura architettonica italiana del secondo dopoguerra, Firenze 2010, pp. 153-168 Manzo 2012 E. Manzo, L’housing a Copenhagen tra tradizione e modernismo, in «Palladio», luglio-dicembre 2012, 50, pp. 81-86. Modern Architecture 1925 Modern Architecture in Denmark, Copenhagen 1925 Møller 1978 C.F. Møller, Århus Universitets bygninger, Århus 1978 Ray 1965 S. Ray, L’architettura moderna dei paesi scandinavi, Bologna 1965 Rothschild 1934 R. Rothschild, Istituto di Chimica Fisica e Anatomia all’Università di Århus, in «Casabella», maggio 1934, 77, pp. 12-19 Skriver 1991 P.E. Skriver, L’Università di Århus: un progetto di lunga durata, in «Casabella», 1991, nn. 584-585, pp. 46-63 Tintori 1960 S. Tintori, Kay Fisker, architetto danese, in «Casabella-Continuità», maggio 1960, 239, pp.4-21 THE ÅRHUS UNIVERSITETSUNDERVISNINGEN CAMPUS IN DENMARK: URBAN PLANNING, ARCHITECTURE AND DESIGN AS EXPLAINED BY KAY FISKER, C.F. MØLLER AND POVL STEGMANN The campus Universitetsundervisningen in Århus was designed by K. Fisker, C.F. Møller and P. Stegmann, winners of the 1931 architecture competition, and by landscape architect C. Th. Sørensen. Since then, it has been preserving the consistency of the architectural language and the homogeneity of shapes. It lies mostly on a trapezoidal area and it is characterized by yellow-brick buildings spread out in a 580,000 m2 park. The plan was very innovative both because of such dispersed layout, based on the different functions of each building, and for its design pattern, which is a fluid integration of architecture and landscape, tradition and modernism. For this reasons Aarhus University is the most representative example of Danish Functionalism and in 2007 it was included in the Canon of Danish Art and Culture as one of the 12 most important architectural works. The essay investigates from a new critical point of view the Aarhus University’s long architectural evolution up to the present day. 216 L’ETH DI ZURIGO: DAL ‘COLLEGIO’ ALLA CITTÀ UNIVERSITARIA Andrea Maglio La storia del Politecnico di Zurigo comincia nel 1854, quando con apposita legge il parlamento svizzero istituisce una ‘scuola politecnica federale’ per lo studio delle scienze esatte, politiche e umanistiche. Nell’ottobre del 1855, ancora in assenza di una sua sede, la nuova struttura inizia la propria attività occupando alcuni spazi in edifici zurighesi preesistenti. Tale vicenda si lega a quella del nuovo ordinamento della nazione, poiché solo nel 1848 era stata fondata la Confederazione Elvetica in sostituzione della precedente confederazione di cantoni. Nel 1850 era quindi stato bandito il concorso per la costruzione della sede del parlamento a Berna, primo atto di una storia lunga e tormentata che si concluderà con l’inaugurazione ufficiale solo nel 1902. Si tratta quindi di anni decisivi per la costruzione di edifici di alto valore simbolico e rappresentativo, capaci di riflettere aspirazioni e visioni del nuovo stato. In questo contesto culturale e politico si situa anche la fondazione del Politecnico, la cui sede riveste un carattere decisivo, dovendo rappresentare il progresso culturale della nazione e in qualche modo giocare un ruolo nel processo di costruzione dell’identità nazionale. La nascita di tale sede è legata alla figura di Gottfried Semper che, grazie all’intervento di Richard Wagner, diviene docente presso il Politecnico di Zurigo nel 1855, proprio nell’anno della sua inaugurazione. Per fondare una scuola di architettura, quella che è destinata a divenire la struttura universitaria più importante della Confederazione Elvetica e una delle più importanti al mondo ricorre a un assoluto protagonista del dibattito disciplinare degli ultimi decenni. Negli anni precedenti, anche in relazione al suo ‘passaggio’ a Londra, Semper ha pubblicato prima, nel 1851, Die vier Elemente der Baukunst, e poi, l’anno successivo, il celebre Wissenschaft, Industrie und Kunst, con tutti i rimandi alla Greater London Exhibition tenutasi nell’estate del 1851 nella capitale britannica. Sebbene non abbia quindi ancora pubblicato il suo lavoro teorico di maggiore notorietà, ossia Der Stil, la sua produzione gli assicura una visibilità amplissima. L’amburghese è però anche l’autore di edifici in grado di assicurargli una fama internazionale, come soprattutto lo Hoftheater di Dresda (1838-41) (1). A Zurigo è quindi invitata una sorta di archistar dell’epoca, a cui è affidata non solo una cattedra, con l’idea di fondare una ‘scuola’ di architettura ma, dopo alterne vicende, anche il delicato incarico di realizzare la sede della nuova struttura universitaria. A conferma del prestigio di cui già gode all’arrivo nella città svizzera, sempre nel 1855 Semper è nominato ‘professore a vita’ per volontà del Bundesrat. D’altro canto, impossibilitato a costruire edifici rilevanti per diversi anni nel corso dei suoi soggiorni parigino e londinese, l’architetto amburghese ha adesso la possibilità di riversare nella pratica il suo complesso impianto teorico cimentandosi in particolare, ma non solo, nel campo dell’architettura universitaria. L’edificio principale del Politecnico Quello che oggi è chiamato Hauptgebäude, o ‘sede centrale’, per distinguerlo dai numerosi edifici successivi, è realizzato tra il 1858 e il 1864 da Semper insieme a Caspar Wolff, ispettore edilizio cantonale, responsabile in particolare della direzione dei lavori. Inizialmente il ruolo di Semper è più marginale, poiché è solamente membro della giuria in un concorso bandito nel dicembre del 1857, con scadenza nella primavera dell’anno successivo (2). Il concorso si conclude senza vincitori e tale esito non è probabilmente casuale se dopo solo due mesi, a seguito di un esame dell’ordine degli ingegneri e di quello degli architetti e dopo il giudizio di Wolff, il governo cantonale affida l’incarico direttamente a Semper e a Wolff stesso. Semper si discosta dal programma iniziale del bando, riunendo in un unico edificio gli spazi per le aule e i laboratori con quelli espositivi, lasciando separato solo lo Chemiegebäude, ossia l’Istituto di Chimica (3). Lungo 125 metri e largo 75, l’edificio si articola su due corti interne, separate da un braccio contenente l’Antikensaal (4), da Semper chiamata anche Vestibulum, una vasta sala espositiva per calchi in gesso concepita come perno del sistema dei percorsi (5). La suddivisione delle funzioni avviene accorpandole per ogni tratto, in verticale, con corpi scala separati: il braccio meridionale è occupato dagli spazi per l’università – distinta dal Politecnico –, quello settentrionale dalle aule da disegno, quello orientale dalle sale espositive e quello occidentale dagli uffici e dalle sale conferenza. I quattro prospetti sono tutti caratterizzati da un avancorpo centrale, ma i due principali, ossia quello occidentale e quello orientale, presentano anche avancorpi angolari e un linguaggio più aulico nel blocco centrale (figg. 1-2). In realtà, seppur unificati da un livello basamentale uniforme, i quattro prospetti sono differenti uno dall’altro e quello settentrionale, corrispondente agli spazi per il disegno, ai due livelli superiori è rivestito di intonaco con la tecnica del- 217 Fig. 1 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude, 1858-64: pianta del piano terra (da OECHSLIN 2005). lo ‘sgraffito’, realizzato nel 1863 dagli artisti di Dresda Adolf Wilhelm Walther e Karl Gottlob Schönherr (fig. 3). Tipica del tardo medioevo e del rinascimento italiano – soprattutto toscano –, bavarese e svizzero, e già descritta anche da Vasari, questa tecnica trova nuova diffusione anche nel secondo Ottocento e non è un caso se sia recuperata da Semper, appassionato cultore del rinascimento (6). Già in una conferenza a Dresda di oltre quindici prima Semper aveva sostenuto che la forma migliore per gli edifici per l’istruzione dovesse rimandare al tipo conventuale (7). Al centro dell’impianto, in posizione dominante, invece della chiesa, egli inserisce l’Antikensaal, mentre nel corpo centrale della facciata principale, al secondo piano e non al ‘piano nobile’, l’Aula Magna, pensata per lo svolgimento di feste e cerimonie (8). Tale posizione è abbastanza anomala, ma al piano terra Semper non intende interrompere l’asse corrispondente all’ingresso principale che prosegue nell’area museale, tanto da disporre anche le scale in posizione laterale. 218 Alcune scelte nei riferimenti adottati, come ad esempio l’assenza del motivo dell’arco trionfale, rispecchiano un contenuto politico, con l’obiettivo di rappresentare un ideale repubblicano e non assolutistico (9). In realtà, sebbene quello del ‘tipo’ sia uno dei temi privilegiati della cultura ottocentesca, a cominciare dal trattato di Durand (10), quello dell’edificio universitario non è ancora codificato e pochi sono i possibili esempi di riferimento. Nel 1836 erano stati completati due celebri edifici, quali la Bauakademie berlinese di Karl Friedrich Schinkel e il Politecnico di Karlsruhe di Heinrich Hübsch (11): soprattutto sul piano tipologico, quello zurighese differisce sensibilmente dai due esempi tedeschi, laddove il primo assume la forma di un blocco cubico compatto con una stretta corte, mentre il secondo presenta uno sviluppo longitudinale senza corte. Inoltre, nel 1840 era stato completato da Friedrich von Gärtner l’edificio per l’università di Monaco su Ludwigstrasse, dove l’Aula Magna, a differenza degli altri casi, è in posizione decentrata. Invece, il progetto semperiano si relaziona ad un altro edificio ben noto, terminato nel 1849, ossia il Fig. 2 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude, 1858-64: veduta, ca. 1900 (da HASSLER, KAINZ 2016). Museo di Basilea di Melchior Berri, l’attuale Museum für Natur- und Völkerkunde. L’edificio sorge sul posto di un precedente convento agostiniano e deve inizialmente avere una funzione mista di museo e università, fondendo così i due poli relativi ad ‘arte’ e ‘scienza’. Formatosi presso Weinbrenner a Karlsruhe e poi a Parigi, autore di un interessante soggiorno italiano condotto per lo più insieme a Karl Joseph Berckmüller (12), Berri si richiama a sua volta proprio al prototipo schinkeliano della Bauakademie. Semper va chiaramente oltre il riferimento conventuale, nella consapevolezza che un edificio universitario, per di più di strategica importanza, non può essere posto sullo stesso piano di un qualunque edificio scolastico. È stato osservato come possibili riferimenti del progetto semperiano siano la tradizione del ‘collegio’, specialmente esempi italiani, come quelli di Roma e Bologna, nonché quella del college inglese (13). Ci sembra di poter aggiungere che altro possibile modello possa essere costituito dal Museo Borbonico di Napoli, peraltro già sede dell’università dal 1616 al 1777, articolato su due corti con un braccio intermedio di altezza maggiore e da Semper visitato già nel corso del suo primo soggiorno a Napoli nel 1831 (14). Le trasformazioni dello Hauptgebäude Sebbene rivesta un ruolo simbolico decisivo per la città e per l’intera Confederazione, e nonostante il prestigio del suo autore, l’edificio principale del Politecnico, nella configurazione semperiana, ha una vita relativamente breve e meno di cinquanta anni dopo la sua inaugurazione viene radicalmente modificato. Infatti, in seguito al trasferimento dell’università in un’altra sede, l’ala orientale è messa a disposizione del Politecnico finché, dopo aver vinto un concorso nel 1908, Gustav Gull ottiene l’incarico di ripensare radicalmente l’assetto dell’intero edificio (15). I lavori, eseguiti tra il 1915 e il 1925, prevedono l’abbattimento dell’Istituto di Chimica, e di conseguenza una ricostruzione del prospetto orientale che fronteggiava l’istituto (figg. 4-5): Gull ribalta l’ingresso principale, trasferendolo 219 ciate semperiane in maniera pedissequa sia quelli che non tengono in alcun conto la preesistenza. L’idea della nuova sala passante a quattro livelli nel braccio tra le due corti reinterpreta il precedente di Semper, pur volgendo la nuova facciata monumentale dal lato di quello che era il prospetto posteriore, che nel corso degli anni ha però visto sorgere diversi edifici universitari: seppur non esente da critiche (17), proprio in un’ottica di ‘rivalità’ con la sede dell’università, la monumentale cupola del fronte orientale assume una funzione decisiva nel nuovo Politecnico. Le trasformazioni dell’edificio continuano anche nella seconda metà del Novecento. Riprendendo una precedente proposta di Hans Hofmann, tra il 1966 e il 1978 Alfred Roth e Charles-Edouard Geisendorf realizzano una serie di modifiche, di cui la più significativa riguarda le due corti dell’edificio, ora coperte da strutture vetrate, in cui sono realizzati due auditorium speculari (18). Attualmente sono previste nuove modifiche, in special modo per quanto riguarda l’area edificata da Gull (19). La cittadella universitaria Fig. 3 - Gottfried Semper, Politecnico di Zurigo, Hauptgebäude, 1858-64: facciata nord con lo sgraffito, 1920 (da HASSLER, KAINZ 2016). sul prospetto orientale, dove aggiunge due ali ortogonalmente al prospetto e sostituisce il corpo scale centrale con un corpo semicilindrico coperto da cupola, contenente un vasto auditorium e prospiciente una sorta di cour d’honneur; tale corpo semicilindrico costituisce l’elemento terminale dell’asse centrale che passa per il braccio tra le due corti, dove un’ampia sala, alta tre piani, sostituisce l’Antikensaal di Semper, distrutta senza alcun riguardo. Concepito alle soglie della stagione delle avanguardie ma ancora con un’ottica ottocentesca, tale intervento è giudicato come ‘reazionario’ dalla cultura architettonica più radicale, in particolare da figure come quella di Sigfried Giedion (16). D’altronde Gull ha terminato nel 1901 la costruzione dello Stadthaus zurighese, un edificio neogotico per l’amministrazione della città, fortemente legato ai temi dell’eclettismo ottocentesco. La giuria del concorso per il Politecnico premia tuttavia proprio tale soluzione ‘intermedia’, eliminando sia i progetti che imitano le fac- 220 Il terzo edificio realizzato per il Politecnico è quello della Sternwarte (l’Osservatorio), realizzato da Semper nel 1864, a cui segue la Land- und Forstwirtschaftliche Schule (Istituto di scienze agricole e forestali), realizzato da Otto Weber e terminato nel 1874. Poiché il Politecnico si espande in maniera abbastanza rapida, tra gli ultimi decenni del XIX secolo e l’inizio del successivo sono realizzati diversi altri edifici. Negli anni Trenta Otto Rudolf Salvisberg, architetto svizzero ma molto attivo in Germania, realizza una delle architetture più interessanti della fase ‘modernista’ con pianta libera, largo uso del vetro e tetto-giardino. Si tratta della ristrutturazione e dell’ampliamento del Maschinenlaboratorium, insieme al Fernheizkraftwerk (1930-1935). A differenza di Gull, Salvisberg non nasconde le parti infrastrutturali, soprattutto nella centrale per il riscaldamento, applicando l’approccio tipico del Neues Bauen tedesco e rifacendosi a un’estetica sachlich (20). All’architettura monumentale e isolata del primo edificio del Politecnico si è evidentemente sostituita una logica fondata sull’accostamento di elementi eterogenei ma gerarchicamente di pari grado. La costruzione di una lunga serie di edifici per il Politecnico si somma alle sedi della Universität Zürich – fondata nel 1833 e ospitata per un periodo, a partire dal 1864, nello Hauptgebäude del Politecnico – tanto da formare una sorta di ‘cittadella’ dello studio. Il Campus di Hönggerberg Tale crescita delle strutture, che corrisponde a quella del numero degli iscritti e quindi dell’offerta formativa, Fig. 4 - Gustav Gull, Politecnico di Zurigo, ampliamento dello Hauptgebäude, 1915-25: pianta, 1918 (da OECHSLIN 2005). spinge a realizzare una vera e propria città universitaria in un’area esterna al centro cittadino. L’incarico di redigere il piano originario è affidato a Albert Heinrich Steiner, Stadtbaumeister dal 1943 al 1957 e titolare dell’insegnamento di Teoria e prassi urbanistica zurighese allo stesso Politecnico. La prima idea di Steiner, del 1959, si fonda su una sorta di ‘foro’ centrale, articolato su una piazza al termine di un percorso assiale e contornato da edifici in linea e a corte. Nel 1957 Steiner aveva partecipato al concorso per Hauptstadt Berlin, con una proposta affine a quella Fig. 5 - Gustav Gull, Politecnico di Zurigo, ampliamento dello Hauptgebäude, 1915-25: veduta, ca. 1925 (da OECHSLIN 2005). 221 Fig. 6 - Albert Heinrich Steiner, Politecnico di Zurigo, Campus di Hönggerberg, 1961-79: planimetria, 1960-61 (da OECHSLIN 2005). degli Smithson e che presenta palesi affinità con il piano per la città universitaria zurighese. Steiner modifica lo schema finché, nel 1960, presenta un progetto basato su tre nuclei distinti, ognuno contrassegnato da alcune torri, alte tra i 40 e i 50 metri, circondate da edifici bassi (21). La proposta riceve molte critiche per la modifica del profilo della città dal lato delle colline e il dibattito investe la sfera politica, sicché viene presto abbandonata. Steiner guarda alle novità europee nell’ambito delle architetture universitarie, in particolare ai casi inglesi e tedeschi: l’episodio più celebre è quello della Ruhr-Universität di Bochum, la prima struttura universitaria fondata nella Repubblica Federale Tedesca, finanziata con oltre tre miliardi di marchi, per la quale è bandito nel 1962 il concor- 222 so vinto da Helmut Hentrich e Hubert Petchnigg; il più grande cantiere tedesco di quegli anni – come sottolinea «Der Spiegel» – si ispira a sua volta, come nel caso di Heidelberg, al modello del campus americano (22). Il progetto definitivo per la città universitaria di Hönggerberg, il cui primo nucleo è costruito tra il 1961 e il 1979, si fonda su una maglia ortogonale, sempre ideata da Steiner, memore di alcuni schemi urbani tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, con ampi spazi verdi e l’edificio a pianta esagonale dell’aulario quale rottura della geometria dominante (fig. 6). Nel 1962, su proposta di Alfred Roth, docente a Harvard, viene suggerito che Le Corbusier possa costruire le residenze studentesche del nuovo campus, ma l’architetto si Fig. 7 - Politecnico di Zurigo, Campus di Hönggerberg, veduta attuale (www.phys.ethz.chthe-department.html). dichiara indisponibile a causa del mancato pagamento, da parte del governo svizzero, dell’arazzo realizzato nel 1956 sulla base di un suo cartone e destinato alla sala ‘svizzera’ dell’ala conferenze della sede dell’Unesco (23). Dopo la costruzione del dipartimento di architettura da parte di Max Ziegler ed Erik Lanter negli anni Settanta, nel 1996 inizia la realizzazione dell’edificio per i Dipartimenti di Chimica, Farmacia e Microbiologia, terminata nel 2004 su progetto degli architetti svizzeri Mario Campi e Franco Pessina, con una pianta a pettine che forse rimanda anche al Politecnico di Otaniemi di Alvar Aalto. Si tratta di una megastruttura che si integra solo in parte con la città-giardino pensata da Steiner. L’ampliamento del campus non si è arrestato nemmeno in anni recenti e tra il 2005 e il 2010 è stato realizzato lo eScienceLab (HIT Gebäude), al margine nord-occidentale del campus, su progetto di Carlo Baumschlager e Dietmar Eberle. Costato 6,3 milioni di franchi svizzeri, l’edificio a corte ospita sale conferenze, postazioni di studio per studenti e professori, caffè, nonché Istituti come quello di Fisica teoretica e quello di Teoria dei materiali e strutture del Dipartimento di Architettura, ma la divisione degli ambienti è concepita per essere flessibile e indipendente dalla posizione delle aperture esterne (24). Attualmente sono in corso progetti per rendere il campus di Hönggerberg una Science city che migliori l’offerta di servizi e la qualità di ricerca e insegnamento. Viene evocato il modello nordamericano in cui si svolge gran parte della vita di quanti vi studiano o vi lavorano: a tal fine è prevista la realizzazione di attrezzature sportive, ristoranti e attività commerciali. Per le strategie di sviluppo future, nel 2004 è stato scelto il piano di Kees Christiaanse, che si propone di riconnettere le diverse idee urbane alla base degli interventi già realizzati, incrementando la mixité funzionale, le reti di collegamento e la densificazione. Proprio la densificazione è alla base del Masterplan Campus Hönggerberg 2040, approvato dall’amministrazione comunale nel 2016, con cui si prevede la costruzione di diversi nuovi edifici, anche in sostituzione di alcuni esistenti, in tre fasi cronologiche differenti. In tal modo, 223 in previsione di un aumento del numero di studenti e di docenti, si intendono preservare le aree verdi che circondano il complesso universitario (fig. 7). Conclusioni La complessa storia delle sedi del Politecnico zurighese nel corso di oltre un secolo e mezzo rimanda al passaggio dall’idea di un’istruzione elitaria a quella dell’università di massa, già prima ma in particolare nel secondo dopoguerra, negli anni della maggiore crescita economica e di una generalizzata esaltazione per il progresso scientifico. L’ampia gamma di strutture riflette tutta l’evoluzione del concetto di edificio universitario, dai prototipi ottocenteschi onnicomprensivi all’idea della città universitaria quale frammento urbano teoricamente autonomo e separato dal resto della città. Queste trasformazioni, soprattutto negli anni Sessanta, comportano soluzioni drastiche, anche violente, adottate per adeguare a nuove esigenze le strutture preesistenti, e specialmente il primo nucleo semperiano, un presidio culturale concepito per essere allo stesso tempo università e museo; l’edificio originario, testimonianza di una sperimentazione in un ambito tipologico non ancora codificato e quindi con un valore idealtipico, cede il passo ad una cittadella composta da blocchi sommatisi gradualmente al primo e infine all’idea anglosassone del campus e della Science city. In ogni caso, la parcellizzazione degli ambiti scientifici e formativi sarebbe stata incompatibile con l’idea semperiana della ‘unitarietà’, dall’amburghese difesa già in sede di commissione di concorso per il Politecnico insieme all’idea di ‘mutualità’ dell’insegnamento, con riferimento all’interazione tra diverse discipline e tra trasmissione del sapere e funzione espositiva (25). (1) Della vasta letteratura sulla figura di Semper, si veda in particolare: Mallgrave 1996; Nerdinger, Oechslin 2003; Karge 2007; Hildebrand 2020. (2) Della giuria fanno parte anche: Friedrich Bürklein, da Monaco; Friedrich Theodor Fischer, da Karlsruhe; Johann Christoph Kunkler, da Sankt Gallen; Amadeus Merian, da Basilea. Le motivazioni per la mancata scelta di un vincitore starebbero nell’assenza di coerenza, in ogni progetto, tra gli alzati e la pianta, che non sarebbe fondata su un impianto distributivo funzionale: Altmann et alii 2003, p. 344. (3) A detta del figlio di Semper, Manfred, che esegue molti dei disegni del progetto, l’Istituto di Chimica sarebbe stato concepito solo da Johann Caspar Wolff, anche se la letteratura recente dubita che sia stato possibile: Altmann et alii 2003, p. 347. (4) In una prima soluzione Semper pensa di inserire nel corpo tra i due cortili sia la sala con le antichità che un grande auditorium, due requisiti che aveva già considerato decisivi in sede di giudizio dei progetti di concorso, mentre nella soluzione definitiva il braccio intermedio è abbassato di un piano e contiene solo l’Antikensaal: Altmann et alii, p. 346. 224 (5) Wilkening-Aumann, von Kienlin 2014; Hassler, Kainz 2016, pp. 166-167. (6) Lo ‘sgraffito’ consiste in una sovrapposizione di due strati di intonaco di colore contrastante, graffiando poi lo strato superiore e lasciando a vista quello sottostante nei punti desiderati. Si veda Pellegrino 2014. Semper utilizza tale tecnica anche in altri edifici, come ad esempio al Kunsthistorisches Museum di Vienna: Hassler, Kainz 2016, pp. 9, 215-217. (7) Altmann et alii 2003, p. 345. (8) Hassler, Kainz 2016, pp. 185-187. (9) In altri casi, come a Vienna o a Dresda, Semper agisce diversamente, evidentemente conciliando la rappresentazione del potere assoluto con richiami alle signorie rinascimentali o alla Roma imperiale: si veda Tönnesmann 2005, pp. 74-76. (10) Hassler, Kainz 2016, pp. 14-16. (11) Marschall 1993; Lippert 2003. (12) Maglio 2009, pp. 169-180; Schulte-Wülwer 2009, pp. 198-204; Maglio 2019. (13) Ci si riferisce in particolare al bolognese Collegio di Spagna, di Matteo Gattaponi, e al complesso romano de La Sapienza, di Giacomo Della Porta e Francesco Borromini; gli esempi inglesi sono probabilmente noti a Semper grazie al suo esilio londinese tra il 1850 e il 1855: Kiene 1983; Tönnesmann 2005. (14) Il braccio intermedio contiene al piano inferiore una galleria, conclusa dalla scala, e al piano superiore un ampio salone, la sala della Meridiana. Anche nel caso napoletano l’accesso avviene tramite una terrazza a quota superiore rispetto alla strada, anche se già alla stessa quota del vestibolo interno. (15) Architetto zurighese, Gustav Gull (1858-1942) si forma proprio presso il Politecnico della sua città, dove nel 1929 otterrà una cattedra; tra i suoi progetti, vi sono la posta centrale di Lucerna (1887, con Conrad von Muralt), lo Schweizerisches Landesmuseum (1892-98) e lo Stadthaus di Zurigo (1898-1901): Hochbaudepartement 2004. (16) Giedion 1928; Hildebrand 2005, p. 89. (17) Hildebrand 2005, p. 91. Nel progetto di concorso, peraltro, invece della cupola Gull prevedeva per il corpo cilindrico una copertura conica: Weidmann 2005, p. 143. (18) Geisendorf 1969. (19) Hassler 2019. Il volume segue i primi due dedicati dalla stessa autrice, con Korbinian Kainz, al Politecnico zurighese. (20) Gürtler Berger 2005; Hildebrand 2005. (21) Maurer 2005, p. 117. (22) Il modello americano è parzialmente ripreso anche nell’organizzazione amministrativa e nella suddivisione in dipartimenti, mentre persiste il richiamo ad Alexander von Humboldt circa l’integrazione tra insegnamento e ricerca; il caso di Bochum è celebrato dalla stampa dell’epoca come un segno di enorme rinnovamento sociale: «Der Spiegel» 1965. Si veda Stallmann 2004. (23) L’arredo per la sala, dono del governo federale svizzero all’Unesco, è progettato dallo studio zurighese Haussmann und Haussmann: «Das Werk» 1959. (24) Hanak 2005. Si veda anche: https://www.wirthensohn.ch/ index.php/referenzen/schulen-und-oeffentliche-verwaltung/113-esciencelab-gebaeude-hit-eth-hoenggerberg-zuerich. (25) Semper 1858. Bibliografia Altmann et alii 2003 B. Altmann, A. Hauser, H. Laudel, D. Weidmann, Eidgenössisches Polytechnikum in Zürich, in W. Nerdinger, W. Oechslin (herausgegeben von), Gottfried Semper 1803-1879. 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These transformations, especially in the Sixties, entail drastic, even violent, decisions made to adapt the existing structures to new needs: especially the first Semper building, conceived to be at the same time university and museum, being also an experimentation of a not yet codified typology and therefore with an ideal value, gives way before to an aggregation of blocks gradually added to the first one and finally to the Anglo-Saxon idea of a separated campus. 226 IL PERIODO FRA LE DUE GUERRE: IDEOLOGIE AFFINI, LE CITTÀ UNIVERSITARIE DI ROMA E TEHERAN (1932-1935) Aban Tahmasebi Durante il primo Novecento iraniano (1905-1940) si assiste in Persia a radicali cambiamenti culturali e architettonici, settori fino ad allora legati alle proprie millenarie tradizioni. Mutamenti che ancora oggi identificano ampiamente le tematiche architettoniche e urbanistiche integrate profondamente nell’ideazione formale e progettuale che si presentano ai nostri occhi in forma distintamente riconoscibile, seppur implicitamente tendente a una conservatività allusiva verso le sue radici culturali. Radici robuste di poeti millenari come Firdusi (1), le vetuste religioni e la continuità storica territoriale che origina – per mezzo di prove sicure – la presenza di un popolo antico composto da diversi gruppi etnici e tribali i quali mettono in luce il proposito di affermarsi autenticamente fra i paesi del mondo attraverso la cultura, la politica e l’architettura. La prima metà del XX secolo persiano si manifesta come iniziativa nazionale di un certo livello che ridipinge lo scenario culturale seguendo la tradizione instaurata che si approccia incessantemente alle simultanee opinioni architettoniche moderniste in occidente quali il futurismo, il razionalismo, l’Art déco, l’Art Nouveau e l’espressionismo tedesco. L’incontro di due ideologie affini, 1931 Fu attraverso una scrupolosa attenzione rivolta verso l’Italia fascista che la Persia da poco formatasi come nation-state (1906), riorganizza la struttura operativa delle proprie forze armate. Inoltre, grazie all’avvicinamento fra i due paesi, vennero realizzati nel territorio iraniano diversi progetti infrastrutturali sotto l’azione esercitata dalla moderna ingegneria italiana. Il sistema nazionale iraniano, frutto di un colpo di stato nel 1921, ebbe tendenze affini ai risultati degli avvenimenti del 1922 in Italia. Gli artefici della rivolta, ideologicamente, videro Italia come l’orizzonte della modernità europea. Abd Al Hossein Teymourtache (1883-1933) (2) è uno degli uomini più influenti del monarca persiano Reza Shah (1878-1944) che, alla vigilia dell’istituzione della Dinastia Pahlavi nel 1925, in veste di Ministro di Corte Imperiale fece una visita in Italia incontrando Benito Mussolini (fig. 1). Egli aspirava a creare in Iran un partito radicale che nel 1927 assunse il nome di Partito Progressista dell’Iran e seguiva le linee guida del Partito Nazionale Fascista. In più, Teymourtache – insieme al re persiano e a Isa Sadiq (1894-1978) – ideò il progetto della Città Universitaria di Teheran. La seconda visita in terra italiana del Ministro iraniano – insieme a una delegazione inviata dal re persiano (3) costituita da fiduciari del re e addirittura dal dodicenne principe ereditario Mohammad Reza Shah (1919-1980) che avrebbe continuato i suoi studi in Europa – si tenne nel 1931 (4), organizzata dal Ministero degli Affari Esteri italiano in collaborazione con la legazione fascista di Teheran. Dalle analisi dei documenti conservati presso il Ministero degli Affari Esteri italiano si potrebbe desumere che l’Italia del ventennio (5) in numerose occasioni mostrò particolare interesse a far proseguire gli studi al principe ereditario persiano in Italia, in specie nel 1931. Questo avrebbe dato la possibilità all’Italia di formare il prossimo monarca persiano in conformità con l’ideologia del potere in Italia fra le due guerre – cosa che avrebbe procurato elevati vantaggi geopolitici nella propagazione del fascismo nel Medio Oriente. La visita del Ministro di Corte Imperiale può considerarsi quindi come l’iniziazione dell’impero novecentesco persiano a commisurarsi con i poteri europei attraverso progetti su scala nazionale (6). Uno dei più importanti progetti fu quello della Città Universitaria di Teheran del 1934, in concomitanza ideologica con il progetto della Città Universitaria di Roma, inaugurata nel 1935 (7). Tornando alla visita del ministro persiano, il materiale in merito – archiviato presso il Ministero degli Affari Esteri italiano – è catalogato come Visita progettata di Teymourtache in Italia: il programma prevedeva una serie di visite a diverse infrastrutture industriali, urbane e militari alle quali il Ministro iraniano avrebbe dovuto partecipare. Fu da questo momento storico in poi che – in particolar modo – i rapporti militari fra i due paesi si intensificarono; furono conseguentemente stipulati sia patti d’amicizia fra le due nazioni che approvati copiosi documenti di assegnazione d’incarichi da parte del Governo fascista a ingegneri italiani, allo scopo di eseguire lavori d’infrastruttura militare e urbanistica sul suolo persiano (8). L’analisi di queste relazioni aiuta a definire i propositi e gli esiti dell’ideazione del progetto della Città Universitaria di Teheran, insieme al suo processo progettuale. 227 Fig. 1 - Anonimo, l’incontro tra Teymourtache e Mussolini, 1925 (archivio dell’A). Città Universitarie L’Italia è sempre stato un paese indubbiamente strategico all’interno del panorama storico-culturale dell’Europa (9) e di conseguenza la sua tradizione storica e il suo peculiare patrimonio archeologico sono sempre stati strumenti innovatori e archetipici dell’istituzionalizzazione dell’architettura moderna – prevalentemente in Europa – e successivamente in vari contesti universalmente commisurabili alle influenze culturali della storia e dell’arte italiana. Quest’eredità storica diede forma nuova alle città italiane nel periodo fra le due guerre: le morfologie architettoniche e gli insediamenti urbanistici oltre a risultare innovativi, furono rappresentativi di un potere (nationstate) che si fece erede delle grandezze della Roma antica (10). Attraverso questo processo innovativo, il complesso universitario unitario (fig. 2) denotò un cambiamento nella comprensione del sistema istruttivo e accademico, che inglobò sparsi nuclei e originò la formazione di un organismo integralmente e ideologicamente rappresentativo – tale è la Città Universitaria di Roma – concepito 228 come una peculiare porzione della città moderna adibita esclusivamente a studi universitari. In questo nuovo complesso, intere considerazioni progettuali sono finalizzate a una centralità dell’ideazione, esaltata in termini di architettura rappresentativa di cultura e potere per cui, al di là di polemiche stilistiche vigenti fra le correnti di architettura in Italia agli inizi degli anni trenta (RAMI e MIAR), se si potesse dare una breve definizione al repertorio architettonico privilegiato dal potere allora vigente si potrebbe desumere che si trattò di un’architettura legata al senso della rinascita di un antico/tradizionale/ barocco (11), modernizzato e coinvolto prevalentemente nelle tematiche della rappresentazione classicista del potere che – parallelamente – tentò di riconciliare il modernismo nord europeo con un classicismo monumentale e tradizionalista (12). Per rendere concreto ciò, si compose così un linguaggio bilanciato in conformità con una lettura innovativa nazionale del Razionalismo (13). Contrariamente, la Persia fu un paese mediorientale dove il percorso e lo sviluppo storico-civile verso la modernità seguirono – secondo la tradizione – un itinerario espressamente diverso da quello europeo. Il Primo Novecento persiano e le sue vicende furono tratteggiati e distinti da una turbolenta rivolta popolare, la Rivoluzione Costituzionale (1906) che, nei successivi decenni del XX secolo, condusse gran parte degli eventi storici verso un accelerato avvicinamento all’Occidente (14). Quest’accostamento si rivelò di sorprendente efficacia per la trasformazione folgorante prima della quotidianità e della politica e poi dell’architettura persiana. Sulla base degli improvvisi stravolgimenti inevitabilmente implicati dalla Rivoluzione Costituzionale, unitamente alla volontà di riacquisizione di un’identità tradizionale – pur quest’ultima rimandando alla modernità – occorse una fondamentale assunzione dei significati nel modo di vedere la società: i persiani tentarono di insediare e concretizzare un sistema politico-governativo moderno, che avesse come prerogativa la specifica dualità dell’essere moderno e al tempo stesso richiamare la tradizione. Un sistema dunque dotato di un Parlamento portavoce della volontà del popolo e dei suoi intellettuali (15). In questi anni i persiani, nel tentativo di avvicinarsi al mondo europeo come ricerca verso l’innovamento della propria società tradizionale, si servirono dell’esperienza europea e attraverso la trasformazione delle tradizionali istituzioni in distinti organismi moderni, intuirono la necessità di far educare, istruire e formare accademicamente i giovani persiani in Europa (16). Al loro ritorno in patria, questi nuovi professionisti, appena laureati in materie sia tecniche sia scientifiche, trovarono terreno fertile per condividere con il proprio paese le esperienze e i connotati della modernità. Nel periodo tra le due guerre mondiali, gli architetti persiani – allo stesso modo dei contemporanei italiani – cercarono di sintetizzare tra “le esigenze di rappresenta- Fig. 2 - Veduta aerea della Città Universitaria di Roma, 1935 (da La Città Universitaria 1935, p. 5). tività dell’architettura e quelle di funzionalità finalizzata alla modernizzazione del paese” (17). In aggiunta a ciò, la presenza di archeologi occidentali (nel comparto amministrativo di questa fabbrica d’innovazione) venendo offerto un ruolo di artefici tecnici di un sentimento di risveglio della nazione, contribuisce a formare l’apparato essenziale storicistico dell’ammodernamento della società (18). Analisi accurate sull’ideazione della Città Universitaria di Teheran (fig. 3) conducono alle ricerche svolte da Issa Khan Sadiq, esponente di spicco nella formazione dell’ideologia modernista del nuovo sistema. Egli, insieme a Abd Al Hossein Teymourtache, Ali Akbar Daavar (19) e altri, organizzò i punti fondamentali di riforme in vari ambiti culturali. Issa Sadiq fu uno dei personaggi cardine della dinastia Pahlavi e fu commissionato di importantissimi incarichi ministeriali e accademici (20). E finalmente, nel marzo del 1931 Teymourtache, Ministro di Corte persiana, su ordine dell’Imperatore venne incaricato di pianificare la fondazione di una città universitaria; fu egli stesso, in una lettera, a delegare Issa Sadiq l’incarico di indagare sulla piattaforma di una struttura universitaria che offrisse pedagogia, medicina e ingegneria civile (21). In quel periodo Sadiq si trovava già negli Stati Uniti per svolgere una ricerca di dottorato presso la Columbia University, intitolata Analisi storiche e ammodernamento del sistema di istruzione in Iran (22). Occorre ricordare che Sadiq e Teymourtache – con il Partito Progressista – appartenevano alla categoria di politici e intellettuali inclini alla modernita’ italiana degli anni Trenta; si trovano testimonianze e documenti storici che riportano informazioni circa un loro tentativo di avvicinare l’Iran al fascismo: la sintesi e gli esiti delle loro azioni dimostrano questa teoria (23). Analogamente all’Italia, anche in Persia, questo complesso unitario universitario tende a inglobare i nuclei sparsi di vecchie istituzioni che vengono portate ad avvicinarsi a un modello di lettura articolata del senso modernistico realizzato in una porzione di città del Novecento persiano. Una porzione nobile che rappresenta una totale dedizione allo studio; porzione rappresentativa del sapere che raffigura un ‘Iran Nuovo’ (24). I persiani, a causa degli eventi storici – o soppressioni storiche – e di una predisposizione culturale ad assorbire e accettare i modelli nazionalistici di stato, furono più propensi a utilizzare come riferimento modelli articolati di nazioni europee tendenti al nazionalismo (25). Una nazione ormai chiamata non più Persia bensì ‘Iran’ (26) si sforzò nella disperata ricerca di un’identità smarrita 229 Fig. 3 - Veduta aerea della Città Universitaria di Teheran, 1941 (archivio dell’A). di avvicinarsi ai fulcri culturalmente innovatori dell’ambivalenza del vecchio e nuovo, come erano l’Italia e la Germania. La concomitanza ideologica fra queste realtà lontane e vicine determinò la strada della futura ricerca sulle analisi storiografiche dell’essenza del nation-state in varie zone del globo. (1) La traslitterazione del nome del poeta secondo il sistema alfabetico latino può avere delle varianti come segue: “Firdusi” (nella maggior parte dei testi e documentazioni archiviate presso l’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Affari Politici, 1934; “Ferdowsi” ovvero “Ferdawsi” o anche “Ferdosi” (nella maggior parte dei testi anglosassoni) per cui, la medesima traslitterazione può variare secondo le referenze utilizzate nella tesi ed ogni volta viene affidata alla medesima origine al quale viene riferito. (2) Il sostegno politico e sociale di Teymourtache al consolidamento della dinastia regnante in Iran (dal 1924 fino al 1932) può essere meglio compreso attraverso l’influenza di personaggi italiani degli anni Venti e Trenta, in chiave comparativa con il fascismo. Carlo Delcroix (1896-1977), per la sua attività politica – in primo luogo discorsi e celebrazioni dello spirito nazionalistico presente in Italia dopo la Prima guerra mondiale – è da con- 230 siderarsi come un esponente ideologico prominente del regime. Fu militare e deputato, membro del Consiglio Nazionale delle Corporazioni e nel 1928 autore di una biografia su Mussolini, Un uomo, un popolo. (3) Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari Politici, Direzione Generale America, Asia e Australia – Militari esteri nelle Regie Scuole, Principe imperiale della Persia, ammissione all’Accademia Navale, b. 2, fasc. 6, 1931. (4) Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari Politici, Serie Affari Politici 1931-1945 – Progetto di Visita a Roma di S.E. Teymourtache, b. 1, fasc. 1. (5) Per approfondire la conoscenza del clima ideologico nell’Italia degli anni Trenta si veda Piacentini 1947, pp. 18-23. (6) Il 22 Ottobre 1931, a Losanna, Teymourtache riconferma che il Governo persiano ha sempre avuto più intima e fattiva collaborazione italiana e dà i seguenti affidamenti: l’intera organizzazione della Marina persiana resterà nelle mani degli italiani e si studierà l’opportunità di affidargli anche l’organizzazione dell’Aviazione militare e dell’Idro-aviazione. Il Ministro di Corte si dichiara disposto a facilitare l’importazione italiane entro i limiti della legge del Monopolio commercio e soprattutto macchine industriali nonché l’appoggio di esperti italiani e ingegneri purché siano di primissimo ordine. Senza avanzare un invito ufficiale a Teymourtache, l’incaricato della legazione fascista a Teheran ribadisce al Ministero degli Affari Esteri a Roma: “parermi utile ripetesse tali affidamenti personalmente a S. E., Sua Eccellenza, Capo di Governo e a V. E. Teymourtache mi ha dichiarato aver chiesto telegraficamente allo Shah autorizzazione recarsi a Roma e mi ha pregato attendere a Parigi” (Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari Politici, Direzione Generale America, Asia e Australia – Militari esteri nelle Regie Scuole, Principe imperiale della Persia, ammissione all’accademia navale, b. 2, fasc. 6, doc. 3355R, 1931). (7) Spano 1933, pp. 41-62; Pagano 1933, pp. 39-41; Caniggia 1959, pp. 272-299; Azzaro 2012. (8) Si rimanda all’appendice Marina Militare della tesi di dottorato di Tahmasebi 2018, pp. 281-301 e alla appendice del Viaggio di Teymourtache, pp. 260-280 (Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari Politici, Serie Affari Politici 1931-1945 – Progetto di Visita a Roma di S.E. Teymourtache, b. 1, fasc. 1). (9) Rivoira 1901. (10) Calza 1923-24, pp. 3-18; Marconi 1931, pp. 761-816. (11) Dal 1911 al 1940, si trovano numerose trattazioni sul barocco a Roma e sull’architettura minore, tra cui si evidenzia Magni 1911-1913. (12) Questa descrizione trova la sua massiva validità in Marcello Piacentini, autore della Città Universitaria di Roma, architetto coordinatore per eccellenza del regime, il cui pensiero architettonico può essere esplicitato attraverso Piacentini 1930. (13) Ivi, pp. 527-540; Capponi 1931; Regni Sennato 1985, pp. 43-45. (14) Katouzian 2000, pp. 282-299. (15) Abrahamian 1982, pp. 120-123. (16) Sadiq 1931. (17) Coppo 2017, p. 73. (18) André Godard e Maxime Siroux furono due influenti architetti e archeologi, che progettarono la Facoltà di Medicina dell’Università di Teheran nel 1934; cfr. Gran Aymerich, Marefat 2001; Kiani 2004. (19) Ali Akbar Daavar, uno dei fondatori della Società per le Opere Nazionali (SNH), fondata nel 1921, è meglio conosciuto come l’architetto del nuovo sistema giudiziario iraniano che più tardi sarebbe diventato Ministro delle Finanze. Il suo ruolo è stato vitale per la sopravvivenza finanziaria della SNH fino al suo suicidio nel febbraio 1937. (20) Si rimanda a Tahmasebi 2018, capitolo 2. (21) Menashri 1992, p. 145. (22) Sadiq 1931. (23) In una lettera (promemoria) del 29 ottobre del 1931 l’incaricato d’affari di Persia comunica al Ministero Affari Esteri italiano di “essere sua impressione che Teymourtache venga in Italia, essendo il suo più desiderio prendere contatti con noi. Avendogli domandato se aveva avuto precise notizie in proposito, l’incaricato d’affari mi disse che due o tre giorni or sono egli era stato informato che il Ministro di Corte intendeva venire in Italia, prima di rientrare in Persia, ossia a Novembre dovendo ai primi di Dicembre recarsi a Mosca e verso il 10 di quel mese essere a Teheran. Aggiunse di ritenere indispensabili prendere con noi accordi sulle più importanti questioni dopo esauriente dissuasioni della medesima. Essere prossima la richiesta di ufficiali e sottoufficiali della regia marina circa 50 in tutto per formare i comandi delle 6 nuove unità marine costruite in Italia. Essere possibile che la Persia debba ordinare sei altre unità tipo esploratore, non è ancora deciso quale paese debba costruirle”. Altri documenti dello stesso fascicolo rivelano l’intenso interesse da parte dell’Italia che la visita progettata dall’Italia per il Ministro di Corte avesse inequivocabilmente luogo (telegramma del 26 ottobre 1931). Altri documenti che dimostrano indubbia importanza di intensificare i rapporti con la Persia attraverso il canale fiducioso Teymourtache, tant’è che addirittura la legazione fascista vorrebbe che il Ministro di Corte persiano sia ricevuto senza invito ufficiale dal Capo di Stato. Cfr. Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio degli Affari Politici, Direzione Generale America, Asia e Australia, Militari esteri nelle Regie Scuole – Principe imperiale della Persia, ammissione all’Accademia Navale, b. 2, fasc. 6, 1931. (24) Menashri 1992, pp. 143-155. (25) Archivio Storico Nazionale dell’Iran – Centro delle Documentazioni Nazionali dell’Iran (Markaze Asnaade Melli e Iran), Biblioteca Nazionale iraniana: documento n. 297030176, anno 1935, posizione 104, fasc. 02190079, oggetto: I nomi degli scienziati italiani e invitati alla celebrazione del millenario del poeta persiano Firdusi insieme al conferimento di direzione onorario della commemorazione a Benito Mussolini. Cfr. Ministero degli Affari Esteri Italiano, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri italiano, serie Affari Politici 1931-1945, b. 11, fasc. 7, posizione 58, Celebrazione del millenario del poeta persiano Firdusi (1935). (26) Ward-Perkins 1947. Bibliografia Abrahamian 1982 H. Abrahamian, Iran between two Revolutions, Princeton 1982. Azzaro 2012 B. Azzaro, La città universitaria della Sapienza di Roma e le sedi esterne 1907-1932, Roma 2012. Calza 1923-24 G. Calza, Le origini latine dell’abitazione moderna, in «Architettura e arti decorative», III, 1923-24, pp. 3-18. Caniggia 1959 G. Caniggia, Il clima architettonico romano e la città universitaria, in «La Casa», 6, 1959, pp. 272-299. Capponi 1931 G. Capponi, “Architettura razionale” e “Nuova architettura italiana”, in «Il Tevere», 22 aprile 1931. Coppo 2017 A. Coppo, Architettura e città nell’opera di Pietro Aschieri (18891952), tesi di dottorato, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Roma 2017. 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Ward-Perkins 1947 J.B. Ward-Perkins, The Italian Element in Late Roman and Early Medieval Architecture, in Proceedings of the British Academy, London 1947, pp. 163-194. BETWEEN THE WARS: KINDRED IDEOLOGIES FOR THE CAMPUSES OF THE UNIVERSITIES OF ROME AND TEHRAN (1932-1935) The early twentieth century of architecture in ideologically parallel contexts conveys concomitant understandings of an alternative modernity. This outlook is utterly deciphered by the cultural/nationalistic aspects of the nation-state scheme. Due to this, the interwar period in Italy and Iran contains affinities in urban design developments and architectonic modernizations. The glances of both nations are synchronized upon finding common fields in history revising to avoid the contingencies of the international modernity that outbursts through the daily life of both citizens and decision makers and might take over the traditional routine cultural process. In such atmosphere, the interwar period finds a strong rope to pack up all the elements in the same alignment store – dynamited by modernity - and the ideation of the two important university campuses play out a crucial role. The paper aims at shedding light on the essence of these affinities between the two near and distanced realities. 232