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Dorota Kotas, Pustostany, Niebieska Studnia, Warszawa 2019, Str. 182

2020, Kwartalnik Neofilologiczny

https://doi.org/10.24425/kn.2020.135206
KWARTALNIK NEOFILOLOGICZNY, LXVII, 4/2020 DOI 10.24425/kn.2020.135206 DOROTA KOTAS, PUSTOSTANY, NIEBIESKA STUDNIA, WARSZAWA 2019, STR. 182 “Stamattina sono stata al mercato. Ho comprato un burger di zucca e un burger di cavolfiore. Mentre tornavo a casa, accanto al chiosco coi krapfen ho incontrato un signore con un giubbotto coloratissimo che stava comprando un gelato. Teneva al guinzaglio un carlino che mi si è precipitato contro per farmi le feste. Al signore è caduto il gelato sulla manica. Dopodiché lui è salito sull’autobus col gelato sulla manica perché non aveva di che pulirsi, mentre io sono scappata dal luogo dell’incidente. Quello stesso giorno avevo letto un racconto ceco su una donna che desiderava essere pericolosamente bella. Al punto che gli uomini sarebbero caduti dalle bici, si sarebbero fatti cascare qualcosa di pesante sul piede, sarebbero inciampati per la strada. Poi si mise nuda davanti alla finestra e dirimpetto il vicino lavava i vetri. Lo salutò, poi si vergognò e andò a nascondersi in fondo all’appartamento. Quando tornò alla finestra scorse un nastro rosso e un secchio rovesciato, perché probabilmente il dirimpettaio era caduto giù. E oggi mi è successa esattamente la stessa cosa. Per questo forse non riuscirò mai più a leggere nient’altro su omicidi o catastrofi, e se scriverò un libro, sarà forse una love story - perché a nessuno capiti mai più nulla di male e perché nessuno per causa mia ci debba rimettere il dessert. Ho riflettuto per tutto il pomeriggio, ma l’unico protagonista adatto al genere che mi sia venuto in mente era un bastardino innamorato. Senza smettere di pensarci ho mangiato i due burger vegetariani. Purtroppo avevano entrambi lo stesso sapore. Un’analogia sorprendente. Tutto quello che è successo oggi mi ha deluso talmente tanto che ho deciso che non uscirò mai più di casa, almeno fino a nuovo ordine, e magari con l’occasione scriverò un libro [pp. 154–155, tutte le citazioni in traduzione tratte dall’opera sono mie]”. A volersi fingere per un attimo lettori ingenui e del tutto ignari dell’esistenza di un confine, certo di volta in volta più o meno labile, tra realtà e finzione letteraria, non si fatica troppo ad assumere che quella appena letta sia una descrizione verosimile delle circostanze che hanno accompagnato la genesi di Pustostany. Quartiere Praga a Varsavia: una ragazza precaria che è solita ridurre al minimo l’interazione con gli altri esseri umani e che di contro conduce una fervida vita interiore condividendo col suo cane un appartamento abbandonato (in polacco un pustostan, appunto, e anche di qui il titolo dell’opera), sopraffatta da una serie di eventi apparentemente insignificanti che muteranno per sempre il suo stato d’animo, decide di scrivere un libro. E in questo libro vediamo narrate dalla protagonista le proprie giornate, la maggioranza delle quali faticose sebbene vissute come a ridotto DOROTA KOTAS, PUSTOSTANY, NIEBIESKA STUDNIA... 595 consumo energetico, giornate durante le quali sembra invero succedere poco e di cui il poco che accade sembra non avere una rilevanza tale da essere raccontato: l’impacciata ricerca di un lavoro in un mondo fatto di elenchi preconfezionati di skills difficili da possedere per intero (un lavoro, purché non sia troppo stabile e basti appena per sopravvivere, giacché l’obiettivo della protagonista è quello, appunto, di diventare una scrittrice); un giro al mercato sotto casa (più per osservarne gli avventori e i venditori che per reale necessità); gli incontri, invero spesso evitati, con i passanti (eppure l’ansia sociale che emerge da queste situazioni rende paradossalmente più autentici i contatti umani); il riverbero lasciato dietro di sé da chi un tempo condivideva la casa con lei o i rumori dei vicini (vivi o in sembianza di spiriti, poco importa); il procacciamento di vecchi abiti appartenuti agli inquilini ormai defunti dello stabile in cui abita (combinando abilmente i quali si può addirittura fingere di curare particolarmente lo stile e paventare un’inesistente sicurezza di sé); l’accurata selezione del cibo ormai scaduto da anni proveniente dalle cantine della casa; ancora, singoli eventi come la strampalata festa durante la quale in cortile viene dato fuoco al divano letto della protagonista perché agli invitati “sembra che qualcuno ci sia morto sopra” [p. 178]. Si può assumere, dicevo all’inizio, che Pustostany debba la sua genesi alla serie di piccole disavventure di cui sopra, e addirittura si potrebbe dedurre che esso sia in fondo il resoconto di uno spaccato di vita nemmeno troppo straordinario per farne della letteratura. Ne è consapevole persino l’io narrante, che riflette: “Tutto questo mi sembra estremamente importante perché non lo è affatto” [p. 152]. L’autrice è altresì conscia che il romanzo che teniamo in mano potrebbe realisticamente non vedere mai la luce: potrebbe mancare il tempo per scriverlo, potrebbe non esserci nessun editore disposto a pubblicarlo, potrebbe non destare l’interesse di nessuno. Eppure, il libro ha visto la luce (come affermato in un’intervista, l’autrice ha destinato alla sua stesura il tempo che avrebbe dovuto dedicare alla redazione della sua tesi di laurea magistrale). Una piccola casa editrice, Niebieska Studnia, ha deciso di pubblicarlo, e Pustostany ha destato l’interesse di più di qualcuno, tanto da essere annoverato tra i debutti letterari finalisti del Premio Gombrowicz 2020 (Nagroda Literacka im. Witolda Gombrowicza), vincere il Conrad Festival e aggiudicarsi il Premio Gdynia 2020 (Nagroda Literacka Gdynia, NLG) nella categoria riguardante la prosa, per il suo “impeccabile senso dell’umorismo che non è altro che l’altra faccia del senso del tragico, per l’ironico inno al precariato”. Opera di esordio di Dorota Kotas, classe 1994, Pustostany è composto da diciannove capitoli indipendenti l’uno dall’altro, e ciò rende possibile la loro lettura anche in forma di racconti brevi. Il testo è caratterizzato da riprese ossessive, quasi dei ritornelli (“mia nonna dice che abito al mercato”; “ho il mercato sotto la finestra della cucina, per questo mia nonna dice “Abiti al mercato”, pp. 13–55) e concetti ricorrenti (come l’idée fixe di scrivere un libro), mentre la costruzione del periodo è perlopiù paratattica e il registro medio-basso. La magia un po’ onirica e la descrizione volutamente naïf di certe situazioni rendono la protagonista di Pustostany un’antieroina per certi versi simile a una sorta di Amélie degli slum della capitale 596 LIDIA MAFRICA polacca. Anch’essa, come la giovane della celebre pellicola francese, vive emozioni iperboleggiate, esperisce la realtà sensoriale con particolare intensità, dedica del tempo a coloro che gli altri rifuggono (senza intenti filantropici o una forte coscienza solidale, ma perché sprovvista dei filtri che inibiscono la maggioranza); è cortese ma schiva, mescola la dimensione reale a quella surreale, è solita immaginare la propria morte, o ancora, mediante gli oggetti che ritrova nelle case abbandonante che abita, ricostruisce la vita di sconosciuti e si mette sulle loro tracce o di chi li conobbe. L’instabilità economica e lavorativa dei giovani nella Polonia odierna è solo uno dei tanti temi attuali che il lettore incontra in Pustostany. Accanto ad esso trovano infatti spazio la poco poetica solitudine della vecchiaia, la piaga dell’alcolismo, un certo, noto, nazionalismo violento e triviale, lo stridere tra vita sociale e vita social, il corpo della donna come oggetto pubblico di molestie sessuali, la ridicola smania di accumulare inutili acquisti, o ancora la lotta alla sopravvivenza contro il suo simile da parte del cittadino nella giungla degli uffici e della burocrazia. Ognuna di queste tematiche assume, nell’opera, la forma di una breve scena di genere. Seguiamo ad esempio l’autrice nell’ufficio postale vicino casa: “La posta è sempre uguale. È come una Polonia in miniatura. Un modellino coi simboli più importanti e un miscuglio dei principali miti nazionali […] Ovviamente voglio avere tutto. Guardo i maialini di plastica, i portafogli in vernice con la chiusura a strappo, gli istruttivi libri sulla storia di Mieszko, mi addentro nella lettura di La vita a caldo, ed eccomi impegnata per tutta la sera. In fila prima di me ci sono ancora solo trentotto persone. Ma il sistema di servizio ai clienti è furbo e funziona in modo che in pochi riescono a resistere fino alla fine, dunque ha luogo una selezione naturale. […] Le donne si fanno prestare dei bambini per strada, gli uomini si fanno prestare delle donne che si fanno prestare dei bambini, per fare compassione e passare in testa alla fila. […] Gli esperti dell’attesa si portano brande e piccoli televisori. Alcuni arrivano addirittura con i fornelli da campeggio e nella sala d’attesa cucinano il brodo. Invece le persone più deboli svengono e rimangono in posta per sempre. […] Quando non si conoscono le regole e cala la soglia dell’attenzione guardando gli scaffali iper forniti, si può cadere vittime di furto, violenza, omicidio, scasso, suicidio oppure di tutte queste cose insieme, dipende dalla fortuna e dal numerino. Di solito quando arrivo in posta sono talmente scossa che mi dimentico che cosa ci sia venuta a fare. Cerco alla svelta di ricordarmelo, ma ci riesco solo una volta tornata a casa. Il più delle volte rinuncio ugualmente, tutto d’un tratto cambio i miei piani. Proprio quando sta per arrivare il mio turno mi ritiro. Una serena rassegnazione. Questo dona alla mia vita un po’ di perversione e di gusto. Adoro farlo, perché davanti a delle piccole scelte sconsiderate tutto il resto acquista improvvisamente senso. La gente mi guarda incredula, e io con nonchalance apro la porta ed esco. Mi sento padrona della mia vita e ho uno scopo nella vita, perché in quel momento vivo per uscire in fretta dalla posta e andare a casa. Allora posso starmene coricata e pentirmi. Oppure starmene coricata e rallegrarmi di avere risparmiato dei minuti preziosi, stupendi, perché sono tornata prima rispetto a ogni previsione e per di più non ho dovuto parlare con la gente, né guardare, né ascoltare nessuno, né usare nessuna parola [p. 36–38]”. DOROTA KOTAS, PUSTOSTANY, NIEBIESKA STUDNIA... 597 L’altra faccia di una misantropia insistente, causata sia da agenti esterni che hanno un effetto negativo sull’autrice (una cattiva azione osservata o subita per strada, convenzioni dell’interagire sociale che le provocano disagio, stimoli uditivi troppo intensi), sia da un’estrema sensibilità che rende amplificata ogni percezione, a un livello sensoriale come emotivo, è quella di un male di vivere interiore e sovente somatizzato, procurato soprattutto dalla sensazione di disagio e di non appartenenza al resto dell’umanità. Non basta allora scappare da un luogo affollato. La narratrice si barrica in casa per fuggire da ogni contatto diretto col mondo di fuori, nel tentativo di soffocare il proprio malessere: “Mi metto davanti alla finestra e guardo l’oceanarium, quasi senza piante, ma pieno di complesse decorazioni di cemento. Ha parecchi giocattoli, come ad esempio soldi e macchine, e il movimento è tale da fare ondeggiare la città, farla riversare e scorrere fuori dalle proprie fenditure. Le persone oltre la finestra (i miei animali preferiti) aprono e chiudono la loro bocche, che non emettono alcun suono. Si muovono in maniera poco coordinata, ma con simulata sensatezza, quasi sapessero perfettamente cosa facciano nel proprio acquario e come se vi fossero abituati. Ed è per questo che li ammiro. A lungo non riesco a staccare gli occhi dallo schermo oltre il quale vivono tante specie (perché ogni esemplare è di un’altra specie, anche nel caso in cui ci siano vincoli o legami sanguigni). […] Penso allora a quanto bene riescano a cavarsela, tutti questi pesci. […] Li lodo nella mente o ad alta voce, dopodiché mi sento a pezzi. Inizio a paragonarmi a loro e voglio subito smettere di vivere. In giorni come questi non esco di casa. Almeno per un po’, e di sicuro non lo faccio con piacere. […] Quando la mia tristezza raggiunge un livello tale da provocarmi il mal di pancia, allora per non pensarci mi verso dell’acqua ossigenata nell’orecchio. E così spariscono quasi tutti i pensieri e le emozioni; dentro la testa inizia un ronzio, ed è un’esperienza acustica così profonda che non rimane spazio per altre sensazioni [pp. 40–41]”. Così si manifestano gli stati di vuoto sperimentati dalla protagonista (pustostany, come neologismo e paraetimologico gioco di parole, in polacco può significare proprio questo, e anche di qui il titolo dell’opera), in cui il dolore non scompare ma scricchiola, galleggia, rimbomba, e il sentire diviene più sottile. Visto il continuo alternarsi di realtà e di immaginazione, di esperienza vissuta e sognata, il lettore smette presto di porsi la domanda circa quanto vi sia negli eventi narrati in Pustostany di autobiografico, e quanto invece corrisponda a finzione letteraria. A lettura terminata si rimane con la percezione di essere stati testimoni di un patrimonio dell’animo ora dolente, ora entusiasta, sempre autentico. LIDIA MAFRICA