Introduzione alla linguistica moderna
Andrea Monti
INDEX
I. Lingua, linguaggio e linguitica
1.1 Cosa studia la linguistica?
1.2 Il problema metalinguistico
1.3 Langue e parole
1.4 Approccio sincronico e diacronico
1.5 Approccio prescrittivo e descrittivo
II. Cenni di semiotica
2.1 Il segno e la semiotica
2.2 La biplanarità
2.3 L’arbitrarietà totale dei segni linguistici
2.4 La trasponibilità di mezzo
2.5 Altre caratteristiche della lingua
2.6 La lingua come mezzo onnipotente
III. La lingua come suono
2.1 Suoni e classi di suoni
2.2 La classificazione fonetica
2.3 La classificazione fonologica
2.4 Fatti soprasegmentali e tipologici
IV. Morfologia
4.1 Il morfema come unità di prima articolazione
4.2 Morfemi lessicali e grammaticali
4.3 Morfemi grammaticali: come classificarli?
4.4 Fatti morfologici di importanza rilevante
4.5 Fatti tipologici
V. Sintassi
5.1 La frase come unità comunicativa complessa
5.2 L’analisi logica come metodo elementare
5.3 La prospettiva configurazionale
5.4 Approfondimenti sulla prospettiva configurazionale
5.5 La prospettiva interna
5.6 Il verbo come centro della frase?
5.7 Modelli pragmatici per l’analisi sintattica
5.8 Fatti tipologici
VI. Semantica
6.1 Definire il significato linguistico
6.2 L’approccio cognitivista
6.3 Lessema come unità di base della semantica
6.4 Rapporti fra lessemi
6.5 Il significato implicito, il testo e altri fatti semantici
6.6 Fatti tipologici
VII. Fondamenti di glottologia
7.1 Basi fonologiche e morfosintattiche del latino
7.2 La parentela linguistica
7.3 Principali mutamenti fonetici
7.4 Mutamenti morfo-sintattici e semantici
7.5 Curiosità e casi particolari
Ι. LINGUA, LINGUAGGIO E LINGUISTICA
1.1 Cosa studia la linguistica?
La linguistica ha come oggetto di studio le lingue storico-naturali. Queste
non sono che realizzazioni del linguaggio verbale umano, generale facoltà
di noi umani di comunicare attraverso un canale (si ipotizza) esclusivamente
nostro.
Ma come, in concreto, una lingua realizza questa facoltà?
La lingua si pone come codice: codifica in quale modo la capacità umana di
servirsi di un apparato fonatorio (la linguistica dà assoluta preminenza allo
studio della lingua parlata su quella scritta) può realizzare la comunicazione.
Questo è ciò che si intende per «lingua», quantomeno nella concezione del
padre della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure (Ginevra, 1857/1913).
Questi, nel suo capolavoro, il volume postumo “Corso di linguistica generale”
(1917 – qui abbreviato come Cdlg) dedica un’ampia precisazione alla
descrizione di cosa sia oggetto della linguistica (cosa sia dunque lingua) e
cosa non lo sia.
Lo studioso ginevrino conclude che la lingua sia il «principio
classificatore» del linguaggio, che ne sia dunque la norma (cfr. cap. III del
Cdlg). Il linguaggio, infatti, è per Saussure «multiforme ed eteroclito»: sfugge
a ogni principio di classificazione, essendo una somma di fatti fisici,
fisiologici, psichici, sociali etc… Ma la lingua no: la lingua è proprio ciò che
permette di codificare il linguaggio. La lingua è, quindi, ciò che sarà
analizzato.
Esempio in merito: Luigi si serve del proprio apparato fonatorio per dire «ti
amo» a Marta. È grazie alla facoltà del linguaggio che Luigi comprende di
doversi servire del proprio apparato fonatorio per comunicare un sentimento.
Ma solo una conoscenza e un impiego della lingua gli permettono di
scegliere due parole (termine non usato in modo tecnico qui, lo si prenda per
“sequenze di suoni”) precise per esprimersi. Ed è sempre una conoscenza
della lingua ciò che permette a Marta di decodificare il pronome ti e il verbo
amo, di associarli, di afferrare il significato dell’enunciato e quindi di reagire
in maniera coerente.
1.2 Il problema metalinguistico
Mantenendoci nella galassia della linguistica strutturalista (la concezione di
Saussure, sul perché di questo nome vedi più avanti), prima di procedere
nello studio della lingua, è bene avere chiari alcuni concetti che Saussure
espone nel summenzionato Cdlg (e che sono adottati da gran parte della
manualistica attuale) e che costituiranno il lessico operativo o
metalinguistico che è necessario adottare quando si parla di lingua.
La prima definizione sarà proprio inerente a quest’ultimo concetto: il lessico
operativo o metalinguistico. Prima di definirlo, bisogna avere chiaro
l’enorme imbarazzo che investe il linguista ogni volta che si proporne di
«parlare della lingua». Per fare quest’ultima azione, che è un’azione
comunicativa, infatti, dovrebbe far coincidere il mezzo di comunicazione
(la lingua) con l’oggetto della comunicazione (di nuovo, la lingua). Chi
sta leggendo questo testo si è già imbattuto in un uso di lessico
metalinguistico. Sin dalla prima riga, invero: affermare la non identità fra
lingua e linguaggio è straniante per il parlante comune, abituato a utilizzarli
in maniera indistinta. Infatti lingua e linguaggio, intesi rispettivamente come
“norma del linguaggio” e “generale facoltà di comunicare che sfugge a un
principio di classificazione”, sono due esempi di uso di lessico
metalinguistico: i loro significati interni al discorso linguistico sono infatti
differenti da quelli esterni da esso. I loro significati interni al discorso
linguistico, infatti, sono operativi, convenzionali, adoperati in modo da non
suscitare ambiguità; sono anche metalinguistici: si spingono oltre al loro
ruolo nella lingua.
1.3 Langue e parole
Due termini che è necessario contestualizzare sono langue e parole. Essi
provengono dal francese, essendo prestiti dal Cdlg, scritto appunto in tal
lingua. Si considerino anzitutto questi emblematici passaggi della detta opera:
1) «la langue è […] esterna all’individuo, che da solo non può crearla né
modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto fra i
membri della comunità. D’altra parte, l’individuo ha bisogno d’un
addestramento per conoscerne il gioco […]. Essa è a tal punto una cosa
distinta che un uomo, privato dell’uso della parole, conserva la langue,
purché ne comprenda i segni vocali che ascolta». (Cap III)
2) «la langue è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca i suoi
effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca». (Cap.
IV)
Interpretando Saussure, con langue si intende il carattere sociale e astratto
della lingua, tutto ciò, dunque, che sia determinato e immodificabile dal
singolo parlante. Ciò che, al contrario, è suscettibile dell’azione di
quest’ultimo, è la parole. La parole, anzi, è ciò che il parlante genera con ogni
singolo atto comunicativo concreto.
Vi è, fra gli studiosi di linguistica, chi, a un’impostazione del genere, ne
contrappone una personalmente elaborata. Due esempi celebri sono Eugenio
Coseriu e Noam Chomsky: entrambi con una formazione filosofica di
altissimo livello, il primo più orientato verso un’ottica strutturalista (≈
saussuriana), il secondo, padre della corrente linguistica del generativismo,
più influenzato da studi di carattere logico-matematico e psicologico. Coseriu
afferma che la dicotomia langue-parole sia manchevole, e che vada integrata
con il concetto di norma, che media fra la componente sociale e astratta e
quella concreta e individuale: essa ha infatti i caratteri di concretezza e
socialità, constando nella realizzazione media (intesa come parole) di una
possibilità potenziale di langue.
Per Chomsky, invece, l’oggetto della linguistica è un prodotto esclusivamente
individuale. Perciò lo studioso americano distingue semplicemente fra la
competenza del singolo parlante, che é astratta, innata, mentale e
inconscia, e che consta della «grammatica universale» (principi generali
comuni a ogni parlante che codificano la comunicazione verbale), ed
esecuzione, di nuovo propria del singolo individuo, ma concreta e
volontaria. Con esecuzione, infatti, Chomsky intende ogni singolo diverso
atto fonatorio teso a comunicare.
1.4 Approccio sincronico e diacronico
Come rilevò lo stesso Saussure, si può approcciare allo studio della lingua in
due modi: si può compiere un’analisi del cambiamento linguistico che
interessa una certa varietà linguistica (ex: l’italiano, il francese ecc.) in un
dato arco di tempo, ma si può anche studiare una certa varietà linguistica
nella sua conformazione strutturale in un dato momento (che può essere il
giorno d’oggi, dieci anni fa, cento anni fa, cinquecento anni fa ecc.). Il primo
approccio è detto diacronico, il secondo sincronico. Essi, secondo
Saussure, sono da tenere separati durante la fase di elaborazione dello
studio linguistico, ma i risultati di uno studio diacronico e uno sincronico
possono essere messi a confronto e integrati, così da poter aiutare il linguista
ad avere un quadro della situazione il più completo possibile.
N.B.: spesso lo studio linguistico, diacronico o sincronico che sia, è volto a
comparare più varietà linguistiche. Si parla in questo caso di dialettologia o,
senza sollevare ambiguità, linguistica comparata. Per designare lo studio
diacronico, invece si usano i termini glottologia, linguistica storica o, con
un’accezione saussurriana, «approccio filologico».
1.5 Approccio prescrittivo e descrittivo
Un punto cardine della dottrina di Saussure, enunciato in apertura del Cdlg, e
divenuto pietra miliare per la linguistica, è la distinzione fra approccio
prescrittivo e descrittivo. Con il primo ci si riferisce all’attitudine di
imporre regole, tesa a normare la produzione individuale della lingua,
tipica di una parte della linguistica ottocentesca e della “grammatica” che
viene insegnata nelle scuole inferiori. Un approccio descrittivo, al contrario,
concepisce l’opera del linguista come quella di mero “registratore” dei
fenomeni linguistici che interessano una o più varietà linguistiche in un
asse temporale (approccio diacronico) o in un determinato momento storico
(approccio sincronico).
II. CENNI DI SEMIOTICA
2.1 Il segno e la semiotica
Entrare nello studio linguistico presuppone una chiara definizione del
concetto di lingua e una sicura conoscenza di come essa assolva alla sua
funzione comunicativa in relazione ad altri codici di comunicazione. Per
questo motivo, nella descrizione della lingua, ci si fa aiutare alla semiotica,
disciplina di ordine filosofico che studia i segni nella loro totalità.
Con segno la semiotica intende “qualcosa che sta per qualcos’altro”, e
dunque ogni manifestazione di un rapporto di significazione. Per
esempio, la semiotica considera segno una parola, una frase, un cartello
stradale, una manifestazione artistica ecc.
La linguistica, all’interno del vasto campo di studi della semiotica, distingue i
segni in 5 categorie:
-sintomi: segni che hanno una motivazione naturale e non sono
intenzionali. Un esempio di sintomo può essere un colpo di tosse: indica
naturalmente un indisposizione e che chi tossisce non lo fa in maniera
intenzionale;
-segnali: segni motivati naturalmente, ma usati intenzionalmente. Un
esempio di segnale può essere il seguente: in tempo di Coronavirus, io
tossisco. In realtà non tossisco perché sto male, ma perché voglio starmene in
pace: mi sforzo di tossire in modo che la gente, spaventata, se ne vada via. Uso
intenzionalmente (volendo starmene per i fatti miei) una motivazione
naturale (la tosse, che sta per Coronavirus);
-icone: raffigurazioni. Hanno una motivazione semi-naturale e sono
usate intenzionalmente. Afferiscono a questa categoria tutti i cartelli
stradali che, con una semplice ma efficace illustrazione di una situazione o di
una prescrizione, raffigurano la realtà in maniera oggettiva e il più aderente
possibile. Un esempio ne é il cartello stradale “banchina sdrucciolevole”.
-simboli: segni con una motivazione di tipo culturale e usati
intenzionalmente. Talvolta i colori sono simboli: il rosso, per esempio, in
ambito stradale sta per “pericolo/divieto”, e in ambito e motivo sta per
“passione”;
-segni propriamente detti: segni in un senso «stretto», proprio della
linguistica. Sono segni (in senso «largo», semiotico) totalmente immotivati e
usati con intenzione. Una parola, per esempio, è un segno propriamente
detto.
Per quanto riguarda i segni propriamente detti, è necessario un codice che
permetta di codificare e decodificare il messaggio ogni volta che lo si
manda o riceve. Nel caso dei segni linguistici, il codice è la lingua stessa.
Celebre è l’espressione di Eco (in Trattato di Semiotica generale): «la
semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per
mentire». Con essa, l’eminente studioso alessandrino voleva porre l’accento
su come simboli e segni, avendo una motivazione culturale sostanzialmente
arbitraria, siano suscettibili di un uso teso alla deformazione della verità, che,
del resto, non rappresentano mimeticamente.
2.2 La biplanarità
Per spiegare cosa s’intenda per «biplanarità» dei segni linguistici occorre
affidarsi a una serie riflessioni scaturente da osservazioni della lingua
compiute nel corso della storia, specialmente da filosofi (da Diogene a
Umberto Eco): i segni linguistici presentano «due facce», quella del
significato (ciò a cui rinviano, usando un termine di Eco) e quella del
significante (la materia percepibile di cui i segni sono composti, in concreto
la materia fonica).
Bisogna essere precisi nel designare il significato, ricordando che esso è
parte del segno linguistico, e non è ciò a cui in concreto il segno si
riferisce. Due teorie hanno avuto particolare successo nel chiarire questo
passaggio: quella strutturalista di Saussure, secondo cui un segno, dotato di
significante e significato, rinvia un referente concreto, che identifica ciò
che davvero il parlante vuole indicare con il suo singolare atto di parole. Il
significato per Saussure assume i connotati dell’idea astratta platonica, e non
è che un gradino intermedio di un rapporto di significazione. Esso non è reale
ma è fatto di «sostanza concettualizzabile» (Cdlg, III). Il matematico e
linguista americano Charles Sanders Peirce, padre della semiotica moderna e
ispiratore di Umberto Eco, invece, dà i concetti di segno, interpretante e
oggetto. Con il primo termine si intende «qualsiasi cosa susciti
un'interpretazione»; con il secondo si intende il segno mentale, incostante e
differente in ciascuno, variabile in ogni momento, che genera il segno; con il
terzo si intende ciò a cui il segno si riferisce.
Esempio in merito: Io dico «mamma». La successione fonica (per il concetto
di fono cfr. Cap. III) [‘mam:a] è il significante; l’idea di ‘mammità’ è il
significato secondo Saussure; mia madre, a cui mi rivolgo per salutarla, è il
referente. Per Peirce, invece, l’idea di ‘mammità’ viene sostituita da una mia
singolare e personale idea di mamma, che può corrispondere direttamente a
mia madre.
2.3 L’arbitrarietà totale dei segni linguistici
Capita a tutti, prima o poi, di chiedersi se vi sia una ragione per cui un
significante sia associato a un determinato significato. Sono limitate le
circostanze in cui la risposta può essere semplice: per lo più nei casi di
onomatopee. Ma perché «gelato» (significato) si dice «g-e-l-a-t-o»
(significante)?
Saussure fornisce una risposta netta e decisa: non c’è un motivo. «I segni
linguistici sono arbitrari», afferma statuario lo studioso ginevrino (Cdlg, II di
Parte I). Con «arbitrari», precisa Saussure, non si intende che ogni parlante
può servirsi di una casuale catena fonica (significante) per designare un
concetto (significato) che a sua volta rinvia a un referente concreto. Si
intende, invece, che vi è un tacito accordo fra i parlanti di una determinata
varietà linguistica nel deliberare, senza alcuna ragione oggettiva, che a una
successione fonica corrisponda un significato. È dunque un caso che al dolce
fresco fatto di latte e frutta corrisponda il significante «g-e-l-a-t-o».
Vi sono tuttavia, come si notava prima, alcune precisazioni da fare. Un segno
linguistico non gode di totale arbitrarietà qualora esso sia un’onomatopea
(«parola che tenta di riprodurre un suono in modo grammaticale» ex:
ticchettio), un ideofono («trasposizione in lingua di suoni e rumori naturali»
ex: tic-tac») o un’esclamazione (poiché le esclamazioni sono «espressioni
naturali e spontanee, per così dire di natura» [Cdlg, II di Parte I]).
Spingendoci avanti nella storia della linguistica, si nota che il tema
dell’arbitrarietà ha goduto di un’elevata rilevanza negli studi. Uno studioso di
grande fama, Louis Hjelmslev, ha definito quattro tipi di arbitrarietà da
riferirsi ai segni linguistici:
-fra significato e significante;
-fra segno linguistico (composto di significato e significante) e referente;
-fra forma e sostanza del significato;
-fra forma e sostanza del significante.
Se i primi due punti della teoria di Hjelmslev risultano intuitivi, gli ultimi due
necessitano di spiegazione per essere chiari anche al neofito alla linguistica.
Non volendo aprire una discussione filosofica che rimanderebbe ad Aristotele,
in questa sede ci si limita a definire l’uso metalinguistico di forma e sostanza.
Con forma si intenda l’organizzazione di tipo semantico (nel caso del
significato) o fonologico (nel caso del significante), che si danno i vari
componenti di una varietà linguistica.
Con sostanza si intenda ciò di cui sono composti concretamente significato
e significante: rispettivamente materia concettualizzabile e materia fonica.
Per meglio comprendere in che senso si configura l’arbitrarietà fra forma e
sostanza, sia nel caso del significato che del significante, si provi a fare un
esperimento. Si inizi con il significato.
Si prenda ora una data “parola” di una lingua diversa dall’italiano (ex: il
francese bois). Si analizzi lo spazio semantico che essa ricopre in italiano (bois
vale per il concetto italiano di bosco, ma anche per quelli di legna e legno).
Come si nota, non vi è un’organizzazione semantica (forma del significato)
precisa che delimita spazi precisi fra i concetti (materia del significato).
Questa è l’arbitrarietà fra forma e sostanza del significato di cui si accennava
prima. Ma si passi ora al significante.
Il caso dell’arbitrarietà fra forma e sostanza del significante è più complesso,
o per lo meno può risultare tale a chi ignora le basi della fonetica e della
fonematica. Perciò, prima di continuare, si rinvia il lettore poco esperto al
capitolo seguente, e precisamente alle definizioni di fono e fonema (il primo
paragrafo).
Con in testa le definizioni di fono («suono concreto prodotto dal parlante e
utilizzato nella comunicazione linguistica») e fonema («classe astratta di foni
la quale è in grado di opporsi ad altre classi astratte nella realizzazione di
parole»), notiamo un fatto curioso.
Prendiamo il caso del latino e dell’italiano. Nella prima lingua, da cui la
seconda deriva, la cosiddetta «lunghezza vocalica», ossia la durata di
emissione delle vocali, aveva valore fonematico, riuscendo a opporre fra loro
significati diversi. Ne è esempio la celebre differenza fra nominativo e ablativo
della prima declinazione (chi non avesse confidenza con il latino sappia che
esso, in assenza – si banalizza – di preposizioni, si serve di un sistema di casi
per designare i vari «complementi»: i nomi differiscono nelle loro
terminazioni portando il valore, per esempio, di soggetto [nominativo],
complemento oggetto [accusativo], complemento di compagnia, mezzo e
modo [ablativo] e altri ancora).
Il latino ros-ă (dove con ă si intende una /a/ con lunghezza vocalica breve)
rappresenta il nominativo, mentre ros-ā (dove con ā si intende una /a/ di
lunghezza vocalica lunga) rappresenta l’ablativo. La differenza di significato
(la rosa soggetto vs ≈con la rosa) è veicolata unicamente dalla lunghezza
vocalica. Ci accorgiamo facilmente che in italiano la lunghezza vocalica non
ha valore fonematico, potendo una vocale essere lunga solo in rapporto al
contesto fonetico in cui si trova (penultima sillaba aperta di una parola
“piana”).
L’esempio fatto chiarifica come si configura l’arbitrarietà tra forma e sostanza
del significante: lo spazio che ogni lingua assegna a un determinato fonema è
assolutamente arbitrario e non corrisponde a schemi fissi e pervasivi.
2.4 Scritto e parlato: la trasponibilità di mezzo della lingua
È interessante notare come la lingua abbia la peculiarità esclusiva di fungere
da codice di comunicazione servendosi di due canali: quello fono-acustico
(il “parlato”) e quello visivo-grafico (lo “scritto”). Vi sarebbe poi da
considerare anche il canale tattile (braille), ma per semplicità di esposizione
qui non se ne parlerà.
Si sappia che l’oggetto privilegiato della linguistica (se non in alcuni casi
limite) è la lingua parlata. Ciò poiché al parlato è riconosciuta una priorità di
carattere individuale (priorità omogenetica: il bambino impara prima a
parlare che a leggere/scrivere), ma anche sociale (priorità filogenetica: le
comunità umane, storicamente, hanno scoperto la scrittura dopo aver
consolidato sistemi linguistici esclusivamente parlati) e antropologica
(qualsiasi comunità che utilizza la scrittura per comunicare, si serve anche del
parlato. Non è vero il contrario).
È tuttavia da tenere a mente che, in un’epoca come la nostra, con un tasso di
analfabetismo che (nel mondo occidentale) rasenta lo 0, lo scritto ha ora
un’enorme importanza, importanza che matura ancor di più a causa dell’uso
sempre più massiccio dei social network, in cui gli utenti comunicano
prevalentemente scambiando messaggi di testo o post.
2.5 Altre caratteristiche della lingua
Quali sono, oltre all’arbitrarietà sviluppata a tutti i livelli, alla biplanarità e
alla trasponibilità di mezzo, le principali caratteristiche della lingua?
Lungi dal voler esaurire tutta la discussione semiotico-linguistica, se ne
elencano alcune che possono aiutare a comprendere meglio i capitoli
successivi:
-linearità: con linearità si intende che la codificazione e la decodifica di un
segno linguistico si realizza in un determinato tempo (e nel caso dello scritto,
in un determinato spazio). Ne consegue che per una corretta comprensione di
un segno si debba aspettarne la completa realizzazione – e si badi di intendere
il segno anche in una prospettiva semiotica, più ampia, per cui un intero libro,
per esempio La Divina Commedia di Dante, va considerato un (in questo caso
supremo) segno linguistico che si sviluppa linearmente;
-discretezza: la lingua è un codice discreto nel senso che i componenti
minimi della lingua (fonemi, cfr 2.3 e capitolo III) non costituiscono un
insieme continuo, ma si oppongono nettamente gli uni agli altri senza
riguardo a vicinanze da un punto di vista articolatorio o percettivo (ex: pasta e
basta,
realizzazioni foneticamente molto vicine, sono semanticamente
totalmente estranee);
-trasmissibilità culturale: il codice lingua, vale a dire l’insieme dei segni
biplanari che ci permette la comunicazione, è trasmissibile da un individuo
all’altro, nella misura in cui un parlante X può istruire un non-parlante Y a
parlare propria la lingua. Quanto alla facoltà generale di comunicarsi
servendosi del mezzo lingua, la si ritiene di tipo innato – ma non è questa la
sede per una discussione sulla sua natura;
-produttività e ricorsività: strettamente correlate, sono le proprietà della
lingua che rendono conto del fatto che una lingua, a partire da un numero
limitato di elementi minimi (di nuovo, fonemi), possa produrre un
numero altissimo di segni linguistici differenti utilizzando procedimenti
ricorsivi (esempio ne è il celebre caso di petaloso, parola formata utilizzando
un procedimento suffissale attestato nell’italiano);
-libertà da stimoli: proprietà che dà conto del fatto che i segni linguistici
non servono unicamente a comunicare un determinato stato dell’emittente.
Essi infatti, possono riferirsi a concetti estranei al parlante che li emette,
distanti nel tempo e nello spazio, o persino immaginari;
-equivocità: è indubbio che la lingua sia un codice equivoco, tanto nella sua
realizzazione fono-acustica che in quella scritta. Si pensi per esempio ai casi di
omonimia (uno stesso significante per due significati differenti), alla
complessità sintattica, che può inficiare la comprensione di un messaggio
linguistico o, nel caso dello scritto, alle convenzioni (per esempio, e se ne
tratterà più diffusamente nel Cap. III) di rappresentazione dei foni per mezzo
di diversi sistemi di scrittura.
2.6 La lingua come mezzo onnipotente
Il lettore, anche se neofito alle scienze linguistiche, si sarà sicuramente
accorto di come la lingua possa essere impiegata per comunicare cose
afferenti a ogni campo. Essa può essere usata per raccontare un avvenimento,
per descrivere qualcosa o qualcuno, per esplicitare un ragionamento
matematico, per avvertire qualcuno di un pericolo, per supplicare un aiuto,
per pregare…
Schematizzando le funzioni della lingua (che veniva definita «onnipotente»,
termine a cui oggi si preferisce il più sobrio «plurifunzionale»), lo studioso
russo-americano Roman Jackobson ne riconosce sei principali. Egli, nel
realizzare il suo schema, si serve dell’elementare cognizione «il mittente
manda un messaggio linguistico al destinatario» per poi approfondire degli
aspetti che fino ad allora erano sfuggiti al dibattito linguistico e semiotico:
-se la funzione del messaggio linguistico quella ad ottenere qualcosa di
preciso dal ricevente, essa viene definita conativa;
-se il messaggio linguistico è utilizzato per esprimere uno stato del mittente,
ha invece funzione emotiva;
-se, ancora, il messaggio linguistico è incentrato sul messaggio linguistico
in sé, per Jackobson si configura la funzione poetica della lingua;
-se poi la lingua viene utilizzata per fornire informazioni sulla realtà
esterna, si parla di funzione referenziale;
-se, al contrario, la lingua è utilizzata per descrivere la lingua stessa, essa
utilizza la propria funzione metalinguistica;
-se, infine, la lingua è impiegata senza un particolare scopo, tutt’al più per
accertarsi che il canale utilizzato funzioni (emblematico il «pronto?»
telefonico), per Jackobson si parla di funzione fàtica.
Conclusa questa breve panoramica sulla lingua, si va ora a sviscerarla a ogni
livello: si analizzeranno, nei capitoli seguenti, la composizione concreta dei
significanti (fonologia/fonetica), la combinazione di unità minime dotate di
significato o valore grammaticale che formano le parole (morfologia), la
combinazione di parole che formano frasi (sintassi), e quindi si tratteggerà lo
studio dei significati (semantica).
Si faranno quindi brevi cenni alla variazione linguistica diacronica (con
particolare riferimento al passaggio latino>italiano) e sincronica (tipologia
linguistica).
III. LA LINGUA COME SUONO
3.1 Suoni e classi di suoni
Poiché la lingua parlata è il vero oggetto di analisi della linguistica (cfr 2.4),
anzitutto va spiegato in quale modo e secondo quali parametri avviene
l’analisi della lingua come successione di suoni.
Il singolo suono concreto di cui si serve il parlante per realizzare espressioni
di lingua è detto fono.
La linguistica, per dare ordine a suddette realizzazioni concrete di suoni,
organizza le stesse in classi astratte, dette fonemi, dotate di valore
distintivo, vale a dire in grado di opporsi l’una all’altra nella realizzazione di
significati.
I foni convenzionalmente si rappresentano fra parentesi quadre [], servendosi
della grafia IPA; i fonemi, invece, si rappresentano entro barre oblique //,
utilizzando la grafia IPA della realizzazione fonica più comune del
determinato fonema.
Esempio in merito: il parlante A pronuncia la parola «caro», realizzandola
in un corretto italiano standard: [ˈkaro]; il parlante B, di origine francese, ha
la cosiddetta “erre moscia”: la sua realizzazione della parola «caro» differirà
dunque da quella del parlante A per il fono [r], che B realizza come [ʁ] (la
stessa ʁ di «Pa[ʁ]is»). I foni [r] e [ʁ], per quanto siano differenti a livello
articolatorio e percettivo, non riescono a opporre il significato di [ˈkaro] a
quello di [ˈkaʁo], dunque sono due realizzazioni concrete di uno stesso
fonema indicato come /r/.
Altro esempio in merito: il parlante A pronuncia la parola «caro»,
articolandola in italiano strandard [ˈkaro]. La inserisce nella frase «mio caro
amico, ti sono grato»; il parlante B, invece, si trova in un negozio di vestiti e
sta provando un maglione. Sbuffa, in un italiano corretto limitatamente alla
pronuncia: «se non calo di due kili, non posso comprare questo maglione».
Si nota che le realizzazioni di [ˈkaro] («caro») e [ˈkalo] («calo») differiscono
per un fono. Il fono [l], sostituito al posto di [r], riesce a opporre due parole
con significati differenti. Si conviene, dunque, che /r/ e /l/ abbian0 un valore
distintivo e che siano perciò da considerare fonemi.
Nel primo esempio si è osservato un caso di allofonia. Allofoni sono due foni
che realizzano concretamente uno stesso fonema.
Nel secondo caso, invece, ci si è trovati davanti a una coppia minima
([ˈkaro] vs [ˈkalo]), ossia a una coppia di parole con significato diverso, le
quali differiscono per un unico suono. Ne consegue che il suono che oppone i
significati di una coppia minima ha valore fonematico.
3.2 Classificazione dei foni
I foni sono l’oggetto di studio della fonetica, branca della linguistica che si
compone a sua volta di tre sotto-branche, le quali studiano i foni:
-in base a come sono articolati (fonetica articolatoria);
-in base alla loro consistenza fisica di onde sonore (fonetica acustica);
-in base alla percezione degli stessi (fonetica percettiva o uditiva).
In questa trattazione ci si soffermerà nello studio fonetico dal punto di vista
articolatorio.
Prima di partire con la classificazione dei foni, è bene ricordare come avvenga
l’emissione di suono da un punto di vista anatomico. Si sappia che essa si
origina grazie a un flusso d’aria tendenzialmente egressivo (in uscita dai
polmoni), il quale risale la trachea e incontra, in corrispondenza della laringe,
le corde vocali, piccole pieghe della mucosa laringea, le quali –
normalmente rilassate e separate –, nella fonazione si accostano e discostano
in rapidissimi cicli di aperture. È a questa loro vibrazione che si deve una
fondamentale emissione di suono. Quest’ultimo viene definito (in modo da
essere percepito come un suono o un altro) in base alla conformazione che il
parlante dà agli organi che compongono il canale fonatorio. Essi sono
fondamentalmente la lingua, il palato molle (la parte più arretrata) e duro
(quella più avanzata), i denti e le labbra.
Si distinguono suoni (foni) vocalici e consonantici. Con suono vocalico
s’intende il suono emesso senza frapposizioni di ostacoli a creare una
perturbazione del flusso d’aria; con suono consonantico s’intende il suono
derivante da una particolare configurazione degli organi coinvolti nella
fonazione, i quali bloccano (totalmente o parzialmente) il flusso d’aria
egressivo.
3.2.1 I suoni consonantici
Si sappia che fra i suoni consonantici ne sono compresi alcuni in cui non vi è
vibrazione di corde vocali, definiti sordi (in contrapposizione a sonori): per
comprendere concretamente, il lettore provi a eseguire la fonazione della “s”
di «massimo» e della “s” di «sbagliato» e a mettersi una mano poco sopra alla
fossa giugulare. Avvertirà, pronunziando correttamente la “s” di “sbagliato”,
una vibrazione. Vibrazione che non ci sarà invece nella pronunzia della “s” di
“massimo”. Si definiscono dunque, due differenti foni: il fono [s], sordo,
proprio di [ˈmassimo] e il fono [z], sonoro, proprio di [zbaʎˈʎato]
(«sbagliato»).
Si osserva, a partire da detto esempio, come la grafia IPA usata nelle
trascrizioni fonetiche sia da considerarsi indipendente da quella alfabetica
adottata nell’italiano, pur con alcune convergenze da ritenersi tuttavia
abbastanza aleatorie.
Segue una classificazione dei soni consonantici, sordi e sonori, in base alle
loro caratteristiche articolatorie.
All’interno dell’ampia gamma dei suoni consonantici distinguiamo anzitutto
fra quelli che comportano una blocco totale (ovviamente momentaneo)
dell’aria in uscita e quelli che sono originati da un avvicinamento degli organi
articolatori che però non blocca del tutto il flusso d’aria.
In base a detta distinzione, abbiamo consonanti plosive (o occlusive) e
fricative (o continue). Ne sono esempi, rispettivamente, la [p] di [stɔp]
(«stop»), e le [f] di [farˈfalla] («farfalla»).
Vi sono poi consonanti composte da una sequenza del tipo: occlusione del
canale fonatorio-liberazione del canale fonatorio-eventuale nuova occlusione
del canale fonatorio. Esse sono dette affricate. Si indicano, in IPA, con la
sequenza dei foni (occlusivo prima, fricativo poi) da cui si originano.
Esempio in merito: si consideri la parola «garage», realizzata come
[ˈɡarɑːʒ]. La sequenza grafica finale «ge» realizza il fono fricativo indicato
come [ʒ].
Si prenda ora la parola onomastica «Giulietto». Notiamo che la lettera «G»(ci
si perdoni la poca precisione linguistica) segna un suono diverso sia dalla «g»
iniziale di garage [ɡ], sia dalla sequenza grafica «ge» che realizza il fono [ʒ].
Per capire che tipo di suono sia quello della «G» di «Giulietto», sembra
strano, occorre partire dalla parola «duro», foneticamente [ˈduro]. Ci
accorgiamo che la «G» di «Giulietto» è originata dall’incontro della [d] di
[ˈduro] con la [ʒ] di [ˈɡarɑːʒ]. Arriviamo dunque alla conclusione che la «G»
di «Giulietto», definita finora in modo aberrante per il linguista, corrisponda
a un fono consonantico affricato che si rappresenta con [dʒ].
Oltre a occlusive e fricative, si distinguono altre categorie di consonanti in
base al modo di articolazione: le laterali, nelle cui realizzazioni l’aria passa ai
lati della lingua; le vibranti, nelle cui realizzazioni la lingua vibra contro un
altro organo articolatorio; le nasali, nelle cui realizzazioni vi è passaggio
dell’aria anche nella cavità nasale.
Considerando invece il luogo di articolazione, vale a dire il sito in cui l’aria in
uscita dai polmoni incontra l’ostacolo che la definisce come suono,
distinguiamo in consonanti: bilabiali (articolate con le labbra);
labiodentali (articolate con l’arcata dentale superiore e il labbro inferiore);
dentali (articolate a livello dei denti e degli alveoli – in quest’ultimo caso in
fonetica specialistica si parlerebbe di alveolari –); palatali (prodotte dalla
lingua che colpisce il palato duro postalveolare); retroflesse (quando la
lingua si arrotola su sé stessa a colpire il palato medio); velari (articolate a
livello del velo palatale, o palato molle); uvulari (articolate a livello
dell’ugola); quindi, nel caso di suoni definiti «gutturali» (non appartenenti
alla gamma fonica dell’italiano), si distinguono faringali e glottidali, in
posizione crescentemente arretrata.
ʒ
Si fornisce di seguito una tabella dei principali foni consonantici della lingua
italiana, classificati per modo e luogo di articolazione.
3.2.2 I suoni vocalici
Risulterebbe, al linguista inesperto, che i suoni vocalici siano pochi.
Sicuramente meno di quelli consonantici, si dirà. In verità un minimo
approfondimento sui meccanismi articolatori e sulla gamma fonica vocalica
lascia intravedere un’enorme quantità di suoni differenti. Si pensi,
banalizzando molto la questione, al fatto che il grafo “o” rappresenta almeno
due varianti attestate nella lingua italiana: la cosiddetta “o chiusa” di
«stoltamente» [stoltaˈmente] e la cosiddetta “o aperta” di «buona» [ˈbwɔna].
Si noti inoltre la differenza fra la “i” di «siccome» [sikˈkome] e quella di
«aiuola» [aˈjwɔla].
Ambedue gli esempi proposti danno conto di quanto sia complessa la
catalogazione delle vocali. Senza abbatterci, tuttavia, proponiamo due
parametri per la classificazione vocalica. Il primo dà conto di quanto la
lingua arretri nella fonazione di un elemento vocalico. Il secondo nota,
invece, l’altezza della lingua rispetto alla sua posizione a riposo.
Assumendo il primo dei due parametri come base, distinguiamo in vocali:
anteriori, centrali e posteriori. Affinando la ricerca sul grado di
avanzatezza o arretratezza, riusciamo a distinguere ulteriormente e a definire
le categorie di vocali semi-anteriori e semi-posteriori.
Prendendo come riferimento l’altezza della lingua durante la fonazione
vocalica, invece, riusciamo a catalogare vocali alte, medio-alte, medie,
medio-basse e basse. Il lettore si accorgerà, provando ad articolare [o] (la
cosiddetta “o chiusa”) e [ɔ] (la cosiddetta “o aperta”), che il grado di
“apertura” è legato in realtà all’altezza della lingua durante la fonazione.
Per darsi conto dell’esistenza di suoni vocalici i quali non fungono da nucleo
sillabico (per chi non conoscesse le basi della sillabazione si consiglia una
rapida scorsa al cap. 3.4), la linguistica introduce il concetto di
approssimanti o semi-vocali. In questa categoria rientrano foni assimilabili
a quelli vocalici dal punto di vista articolatorio, i quali necessitano tuttavia di
legarsi a un altro suono vocalico. Ne è esempio la [j] di [ˈpjɛno] («pieno»).
Un problema tipico dell’italiano, che non pertiene strettamente alla
classificazione fonetica delle vocali, ma che vi è indissolubilmente legato, è la
diversa pronuncia delle vocali che si registra nelle varie aree del bel Paese, la
quale insedierà il linguista nella designazione o meno di classi fonematiche.
L’ultimo esempio fatto, quello dell’articolazione di «pieno», ne è fulgido
esempio: mentre il parlante italiano standard realizza [ˈpjɛno], il parlante
veneto o friulano realizza normalmente [ˈpjeno]. Si potrebbe concludere
dunque che [ɛ] ed [e] siano due realizzazioni foniche di uno stesso fonema.
Tuttavia vi sono casi in cui, in italiano standard, i suddetti foni possono
opporre due singnificati. Emblematico il caso di [ˈpɛska] (il frutto), che si
distingue da [ˈpeska] (l’attività sportiva o lavorativa del pescare). A
quest’ultimo esempio, però, il parlante veneto avrebbe da obiettare: per lui sia
l’attività del pescare che il frutto succoso si realizzano come [ˈpeska], e il
valore semantico si evince solo dal contesto.
Poiché la linguistica non si pone come scienza normativa, ma descrittiva (cfr
1.5), non è compito di questa trattazione l’imposizione della corretta
pronuncia dell’italiano standard. La linguistica si limita a registrare gli
avvenimenti e, in quest’ottica, distingue fra una variante di italiano standard
(che non significa «più corretta») e molte varianti locali, le quali non vanno
fatte bersaglio di critiche, ma anzi valorizzate nella loro pluralità. Si converrà,
tuttavia, che in questa sede si debba accordare una preferenza all’italiano
standard; perciò gli esempi che verranno fatti non terranno conto di pronunce
particolari, se non quando esplicitato.
Un ultimo aspetto di cui tenere conto nella classificazione dei foni vocalici è
l’arrotondamento. Si definisce arrotondata la vocale articolata con le labbra
protruse (ad esempio la [u] di [puˈnire]); quando non vi è protrusione delle
labbra, si hanno vocali dette «non arrotondante» (ad esempio la [i] di [pu
ˈnire].
Segue una tabella di classificazione dei suoni vocalici e semivocalici, trascritti
secondo la grafia IPA:
3.3 Classificazione di fonemi
In quanto unità astratte pertinenti esclusivamente a livello di studio
linguistico, i fonemi si prefigurano difficili da classificare. Già la loro
rappresentazione grafica (si ricorda che viene messo fra barre oblique il fono
più rappresentativo del dato fonema) è frutto di una non felicissima
convenzione.
Quanto alla classificazione dei fonemi, si ricorre, seguendo le orme di
Jackobson e Chomsky, a una serie di tratti (caratteristiche) binari, di cui si
indica l’assenza o la presenza in un determinato fonema.
Risulta, grazie al sistema messo a punto dai due summenzionati studiosi, che
ogni fonema abbia una propria configurazione differente da ogni altro. La
possibile critica a questo tipo di sistema è che esso non si può applicare a tutte
le lingue indifferentemente. E del resto questa è una delle quattro arbitrarietà
semiotiche definite da Hjelmslev: ogni lingua organizza i foni in fonemi
secondo schemi arbitrari. Altro problema del detto sistema di
classificazione è la quasi mimeticità con la catalogazione dei foni IPA.
In ogni caso, al linguista in erba conviene conoscere la teoria dei tratti e la
struttura della stessa.
Sono definite di seguito i quattordici tratti binari in base ai quali sono
catalogati i fonemi:
-vocalico (elemento che può costituire una sillaba da solo. In italiano solo le
vocali);
-consonantico (elemento che non può costituire una sillaba da solo. In
italiano approssimanti e consonanti);
-sonoro (elemento per la cui fonazione ci si serve delle corde vocali);
-sonorante (elemento sonoro privo di un corrispondente sordo);
-nasale (elemento prodotto con un flusso d’aria che coinvolge la cavità
nasale);
-continuo (elemento che non ha occlusione totale nell’articolazione);
-rilascio ritardato (elemento la cui fonazione prevede un’inizio occlusivo e una
fine continua);
-laterale (elemento prodotto con flusso d’aria laterale alla lingua);
-arretrato (elemento prodotto con la lingua in posizione più arretrata
rispetto allo standard a risposo);
-anteriore (elemento prodotto con la lingua in posizione più avanzata
rispetto allo standard a riposo);
-coronale (elemento nella cui fonazione sono coinvolti i denti);
Solo vocalici:
-alto
-basso
-arrotondato
Si descriveranno di seguito alcuni fonemi facendo riferimento ai tratti sopra
elencati:
/t/ (ex: /tenda/)
/dʒ/ (ex: /dʒusto/)
/z/ (ex: /zmontare/)
Vocalico
-
-
-
Consonantico
+
+
+
Sonorante
-
-
-
Sonoro
-
+
+
Rilascio rit.
-
+
-
Laterale
-
-
-
Continuo
-
+
+
Nasale
-
-
-
Arretrato
-
+
-
Avanzato
-
-
-
Coronale
+
-
+
ALTO
/
/
/
MEDIO
/
/
/
BASSO
/
/
/
Nell’analisi fonologica si pone, come accennato precedentemente, il problema
di status fonematico di alcuni suoni. Qualcuno potrebbe obiettare che /z/ non
ha valore fonematico, facendo rientrare [z] e [s] in uno stesso fonema /s/.
Eppure va ricordata la coppia minima presente in italiano standard che
oppone [ˈkjeze] (luogo di culto) a [ˈkjese] (passato remoto del verbo
«chiedere»). È tuttavia comune che i parlanti settentrionali, che tendono a
sonorizzare, realizzino sempre [ˈkjeze].
3.4 Fatti prosodici e tipologici
Con fatti prosodici s’intendono tutti quei fenomeni che coinvolgono la
catena fonica di un’intera parola o gruppo tonale (frutto di un’unica
emissione d’aria), e che agiscono dunque a un livello superiore rispetto ai
singoli foni/fonemi.
Essi sono principalmente l’intonazione, il tono e la lunghezza vocalica.
Con tono è da intendersi l’altezza di emissione un fono. Essa, in alcune
lingue dette tonali, può avere pertinenza fonologica. In cinese mandarino,
ad esempio, si distinguono quattro toni contrassegnati da una combinazione
di numeri che indicano l’andamento melodico della fonazione (un numero
alto corrisponde a un suono acuto, un numero basso ad uno grave):
Valore numerico
Classificazione
Esempio
Tono I
5-5
Alto costante
[i] («yī»): «abito»
Tono II
3-5
Tono ascendente
[i] («yí»): «sospettare»
Tono III
2-1-4
Tono basso
[i] («yǐ»): «sedia»
discendente-ascendente
Tono IV
5-1
Tono discendente
[i] («yì»): «significato
Intonazione è invece l’andamento melodico di un’unità composta di
almeno un gruppo tonale. In italiano essa ha valore pragmatico, ossia in
grado di fornire all’ascoltatore informazioni sull’intenzione del parlante. Si
provi a comprendere la differenza pragmatica data dall’intonazione dicendo
prima «Se non ci fossi tu, non saprei cosa fare» e poi «Cosa fare?».
La lunghezza vocalica, non pertinente a livello fonologico nell’italiano,
indica la durata di emissione di una determinata vocale. Essa aveva valore
fonematico in latino (cfr 2.3), riuscendo ad opporre sognificati non solo a
livello di terminazioni, ma anche radicale. È esempio di quest’ultima
circostanza la differenza di significato veicolata dalla lunghezza della [a] nella
radice di «malus». Mālus, (a “lunga”) infatti significa «melo»; mălus (a
“breve”), invece significa «persona malvagia».
Vi è, tra i fatti soprasegmentali, da annoverare la sillabazione delle parole.
Con sillaba intendiamo un complesso di suoni che si pronuncia unito con
una sola emissione di voce. Una sillaba è costruita attorno a una vocale
(mai da un’approssimante), la quale funge da nucleo. Il numero massimo e
minimo di vocali in una sillaba è uno. Il nucleo, insieme all’/e eventuale/i
consonante/i che segue/ono (detta/e coda), costituisce la rima; l’/le
eventuale/i consonanti/i che precede/ono il nucleo è/sono invece detta/e
attacco.
In caso di sillabe che contengano una vocale e un’approssimante, si parlerà di
dittonghi (ex: [pja-no]). Qualora invece le approssimanti fossero più d’una, di
trittonghi (ex: [ma-rjwɔ-lo]).
Il criterio di base per la scomposizione sillabica in italiano è che due
consonanti contigue sono assegnate entrambe alla stessa sillaba (quella che
segue) se compaiono unite a inizio di parola (ex: ma-[gr]e-zza; [gr]idare);
sono invece divise fra la sillaba che precede e quella che segue se non
compaiono a inizio di parola (ex: mo[l-t]o; non esistono, in italiano, parole
che comincino con [lt]).
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