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Introduzione alla linguistica moderna

2020, Introduzione alla linguistica moderna

Introduzione alla linguistica generale in chiave strutturalista

Introduzione alla linguistica moderna Andrea Monti INDEX I. Lingua, linguaggio e linguitica 1.1 Cosa studia la linguistica? 1.2 Il problema metalinguistico 1.3 Langue e parole 1.4 Approccio sincronico e diacronico 1.5 Approccio prescrittivo e descrittivo II. Cenni di semiotica 2.1 Il segno e la semiotica 2.2 La biplanarità 2.3 L’arbitrarietà totale dei segni linguistici 2.4 La trasponibilità di mezzo 2.5 Altre caratteristiche della lingua 2.6 La lingua come mezzo onnipotente III. La lingua come suono 2.1 Suoni e classi di suoni 2.2 La classificazione fonetica 2.3 La classificazione fonologica 2.4 Fatti soprasegmentali e tipologici IV. Morfologia 4.1 Il morfema come unità di prima articolazione 4.2 Morfemi lessicali e grammaticali 4.3 Morfemi grammaticali: come classificarli? 4.4 Fatti morfologici di importanza rilevante 4.5 Fatti tipologici V. Sintassi 5.1 La frase come unità comunicativa complessa 5.2 L’analisi logica come metodo elementare 5.3 La prospettiva configurazionale 5.4 Approfondimenti sulla prospettiva configurazionale 5.5 La prospettiva interna 5.6 Il verbo come centro della frase? 5.7 Modelli pragmatici per l’analisi sintattica 5.8 Fatti tipologici VI. Semantica 6.1 Definire il significato linguistico 6.2 L’approccio cognitivista 6.3 Lessema come unità di base della semantica 6.4 Rapporti fra lessemi 6.5 Il significato implicito, il testo e altri fatti semantici 6.6 Fatti tipologici VII. Fondamenti di glottologia 7.1 Basi fonologiche e morfosintattiche del latino 7.2 La parentela linguistica 7.3 Principali mutamenti fonetici 7.4 Mutamenti morfo-sintattici e semantici 7.5 Curiosità e casi particolari Ι. LINGUA, LINGUAGGIO E LINGUISTICA 1.1 Cosa studia la linguistica? La linguistica ha come oggetto di studio le lingue storico-naturali. Queste non sono che realizzazioni del linguaggio verbale umano, generale facoltà di noi umani di comunicare attraverso un canale (si ipotizza) esclusivamente nostro. Ma come, in concreto, una lingua realizza questa facoltà? La lingua si pone come codice: codifica in quale modo la capacità umana di servirsi di un apparato fonatorio (la linguistica dà assoluta preminenza allo studio della lingua parlata su quella scritta) può realizzare la comunicazione. Questo è ciò che si intende per «lingua», quantomeno nella concezione del padre della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure (Ginevra, 1857/1913). Questi, nel suo capolavoro, il volume postumo “Corso di linguistica generale” (1917 – qui abbreviato come Cdlg) dedica un’ampia precisazione alla descrizione di cosa sia oggetto della linguistica (cosa sia dunque lingua) e cosa non lo sia. Lo studioso ginevrino conclude che la lingua sia il «principio classificatore» del linguaggio, che ne sia dunque la norma (cfr. cap. III del Cdlg). Il linguaggio, infatti, è per Saussure «multiforme ed eteroclito»: sfugge a ogni principio di classificazione, essendo una somma di fatti fisici, fisiologici, psichici, sociali etc… Ma la lingua no: la lingua è proprio ciò che permette di codificare il linguaggio. La lingua è, quindi, ciò che sarà analizzato. Esempio in merito: Luigi si serve del proprio apparato fonatorio per dire «ti amo» a Marta. È grazie alla facoltà del linguaggio che Luigi comprende di doversi servire del proprio apparato fonatorio per comunicare un sentimento. Ma solo una conoscenza e un impiego della lingua gli permettono di scegliere due parole (termine non usato in modo tecnico qui, lo si prenda per “sequenze di suoni”) precise per esprimersi. Ed è sempre una conoscenza della lingua ciò che permette a Marta di decodificare il pronome ti e il verbo amo, di associarli, di afferrare il significato dell’enunciato e quindi di reagire in maniera coerente. 1.2 Il problema metalinguistico Mantenendoci nella galassia della linguistica strutturalista (la concezione di Saussure, sul perché di questo nome vedi più avanti), prima di procedere nello studio della lingua, è bene avere chiari alcuni concetti che Saussure espone nel summenzionato Cdlg (e che sono adottati da gran parte della manualistica attuale) e che costituiranno il lessico operativo o metalinguistico che è necessario adottare quando si parla di lingua. La prima definizione sarà proprio inerente a quest’ultimo concetto: il lessico operativo o metalinguistico. Prima di definirlo, bisogna avere chiaro l’enorme imbarazzo che investe il linguista ogni volta che si proporne di «parlare della lingua». Per fare quest’ultima azione, che è un’azione comunicativa, infatti, dovrebbe far coincidere il mezzo di comunicazione (la lingua) con l’oggetto della comunicazione (di nuovo, la lingua). Chi sta leggendo questo testo si è già imbattuto in un uso di lessico metalinguistico. Sin dalla prima riga, invero: affermare la non identità fra lingua e linguaggio è straniante per il parlante comune, abituato a utilizzarli in maniera indistinta. Infatti lingua e linguaggio, intesi rispettivamente come “norma del linguaggio” e “generale facoltà di comunicare che sfugge a un principio di classificazione”, sono due esempi di uso di lessico metalinguistico: i loro significati interni al discorso linguistico sono infatti differenti da quelli esterni da esso. I loro significati interni al discorso linguistico, infatti, sono operativi, convenzionali, adoperati in modo da non suscitare ambiguità; sono anche metalinguistici: si spingono oltre al loro ruolo nella lingua. 1.3 Langue e parole Due termini che è necessario contestualizzare sono langue e parole. Essi provengono dal francese, essendo prestiti dal Cdlg, scritto appunto in tal lingua. Si considerino anzitutto questi emblematici passaggi della detta opera: 1) «la langue è […] esterna all’individuo, che da solo non può crearla né modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto fra i membri della comunità. D’altra parte, l’individuo ha bisogno d’un addestramento per conoscerne il gioco […]. Essa è a tal punto una cosa distinta che un uomo, privato dell’uso della parole, conserva la langue, purché ne comprenda i segni vocali che ascolta». (Cap III) 2) «la langue è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca i suoi effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca». (Cap. IV) Interpretando Saussure, con langue si intende il carattere sociale e astratto della lingua, tutto ciò, dunque, che sia determinato e immodificabile dal singolo parlante. Ciò che, al contrario, è suscettibile dell’azione di quest’ultimo, è la parole. La parole, anzi, è ciò che il parlante genera con ogni singolo atto comunicativo concreto. Vi è, fra gli studiosi di linguistica, chi, a un’impostazione del genere, ne contrappone una personalmente elaborata. Due esempi celebri sono Eugenio Coseriu e Noam Chomsky: entrambi con una formazione filosofica di altissimo livello, il primo più orientato verso un’ottica strutturalista (≈ saussuriana), il secondo, padre della corrente linguistica del generativismo, più influenzato da studi di carattere logico-matematico e psicologico. Coseriu afferma che la dicotomia langue-parole sia manchevole, e che vada integrata con il concetto di norma, che media fra la componente sociale e astratta e quella concreta e individuale: essa ha infatti i caratteri di concretezza e socialità, constando nella realizzazione media (intesa come parole) di una possibilità potenziale di langue. Per Chomsky, invece, l’oggetto della linguistica è un prodotto esclusivamente individuale. Perciò lo studioso americano distingue semplicemente fra la competenza del singolo parlante, che é astratta, innata, mentale e inconscia, e che consta della «grammatica universale» (principi generali comuni a ogni parlante che codificano la comunicazione verbale), ed esecuzione, di nuovo propria del singolo individuo, ma concreta e volontaria. Con esecuzione, infatti, Chomsky intende ogni singolo diverso atto fonatorio teso a comunicare. 1.4 Approccio sincronico e diacronico Come rilevò lo stesso Saussure, si può approcciare allo studio della lingua in due modi: si può compiere un’analisi del cambiamento linguistico che interessa una certa varietà linguistica (ex: l’italiano, il francese ecc.) in un dato arco di tempo, ma si può anche studiare una certa varietà linguistica nella sua conformazione strutturale in un dato momento (che può essere il giorno d’oggi, dieci anni fa, cento anni fa, cinquecento anni fa ecc.). Il primo approccio è detto diacronico, il secondo sincronico. Essi, secondo Saussure, sono da tenere separati durante la fase di elaborazione dello studio linguistico, ma i risultati di uno studio diacronico e uno sincronico possono essere messi a confronto e integrati, così da poter aiutare il linguista ad avere un quadro della situazione il più completo possibile. N.B.: spesso lo studio linguistico, diacronico o sincronico che sia, è volto a comparare più varietà linguistiche. Si parla in questo caso di dialettologia o, senza sollevare ambiguità, linguistica comparata. Per designare lo studio diacronico, invece si usano i termini glottologia, linguistica storica o, con un’accezione saussurriana, «approccio filologico». 1.5 Approccio prescrittivo e descrittivo Un punto cardine della dottrina di Saussure, enunciato in apertura del Cdlg, e divenuto pietra miliare per la linguistica, è la distinzione fra approccio prescrittivo e descrittivo. Con il primo ci si riferisce all’attitudine di imporre regole, tesa a normare la produzione individuale della lingua, tipica di una parte della linguistica ottocentesca e della “grammatica” che viene insegnata nelle scuole inferiori. Un approccio descrittivo, al contrario, concepisce l’opera del linguista come quella di mero “registratore” dei fenomeni linguistici che interessano una o più varietà linguistiche in un asse temporale (approccio diacronico) o in un determinato momento storico (approccio sincronico). II. CENNI DI SEMIOTICA 2.1 Il segno e la semiotica Entrare nello studio linguistico presuppone una chiara definizione del concetto di lingua e una sicura conoscenza di come essa assolva alla sua funzione comunicativa in relazione ad altri codici di comunicazione. Per questo motivo, nella descrizione della lingua, ci si fa aiutare alla semiotica, disciplina di ordine filosofico che studia i segni nella loro totalità. Con segno la semiotica intende “qualcosa che sta per qualcos’altro”, e dunque ogni manifestazione di un rapporto di significazione. Per esempio, la semiotica considera segno una parola, una frase, un cartello stradale, una manifestazione artistica ecc. La linguistica, all’interno del vasto campo di studi della semiotica, distingue i segni in 5 categorie: -sintomi: segni che hanno una motivazione naturale e non sono intenzionali. Un esempio di sintomo può essere un colpo di tosse: indica naturalmente un indisposizione e che chi tossisce non lo fa in maniera intenzionale; -segnali: segni motivati naturalmente, ma usati intenzionalmente. Un esempio di segnale può essere il seguente: in tempo di Coronavirus, io tossisco. In realtà non tossisco perché sto male, ma perché voglio starmene in pace: mi sforzo di tossire in modo che la gente, spaventata, se ne vada via. Uso intenzionalmente (volendo starmene per i fatti miei) una motivazione naturale (la tosse, che sta per Coronavirus); -icone: raffigurazioni. Hanno una motivazione semi-naturale e sono usate intenzionalmente. Afferiscono a questa categoria tutti i cartelli stradali che, con una semplice ma efficace illustrazione di una situazione o di una prescrizione, raffigurano la realtà in maniera oggettiva e il più aderente possibile. Un esempio ne é il cartello stradale “banchina sdrucciolevole”. -simboli: segni con una motivazione di tipo culturale e usati intenzionalmente. Talvolta i colori sono simboli: il rosso, per esempio, in ambito stradale sta per “pericolo/divieto”, e in ambito e motivo sta per “passione”; -segni propriamente detti: segni in un senso «stretto», proprio della linguistica. Sono segni (in senso «largo», semiotico) totalmente immotivati e usati con intenzione. Una parola, per esempio, è un segno propriamente detto. Per quanto riguarda i segni propriamente detti, è necessario un codice che permetta di codificare e decodificare il messaggio ogni volta che lo si manda o riceve. Nel caso dei segni linguistici, il codice è la lingua stessa. Celebre è l’espressione di Eco (in Trattato di Semiotica generale): «la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire». Con essa, l’eminente studioso alessandrino voleva porre l’accento su come simboli e segni, avendo una motivazione culturale sostanzialmente arbitraria, siano suscettibili di un uso teso alla deformazione della verità, che, del resto, non rappresentano mimeticamente. 2.2 La biplanarità Per spiegare cosa s’intenda per «biplanarità» dei segni linguistici occorre affidarsi a una serie riflessioni scaturente da osservazioni della lingua compiute nel corso della storia, specialmente da filosofi (da Diogene a Umberto Eco): i segni linguistici presentano «due facce», quella del significato (ciò a cui rinviano, usando un termine di Eco) e quella del significante (la materia percepibile di cui i segni sono composti, in concreto la materia fonica). Bisogna essere precisi nel designare il significato, ricordando che esso è parte del segno linguistico, e non è ciò a cui in concreto il segno si riferisce. Due teorie hanno avuto particolare successo nel chiarire questo passaggio: quella strutturalista di Saussure, secondo cui un segno, dotato di significante e significato, rinvia un referente concreto, che identifica ciò che davvero il parlante vuole indicare con il suo singolare atto di parole. Il significato per Saussure assume i connotati dell’idea astratta platonica, e non è che un gradino intermedio di un rapporto di significazione. Esso non è reale ma è fatto di «sostanza concettualizzabile» (Cdlg, III). Il matematico e linguista americano Charles Sanders Peirce, padre della semiotica moderna e ispiratore di Umberto Eco, invece, dà i concetti di segno, interpretante e oggetto. Con il primo termine si intende «qualsiasi cosa susciti un'interpretazione»; con il secondo si intende il segno mentale, incostante e differente in ciascuno, variabile in ogni momento, che genera il segno; con il terzo si intende ciò a cui il segno si riferisce. Esempio in merito: Io dico «mamma». La successione fonica (per il concetto di fono cfr. Cap. III) [‘mam:a] è il significante; l’idea di ‘mammità’ è il significato secondo Saussure; mia madre, a cui mi rivolgo per salutarla, è il referente. Per Peirce, invece, l’idea di ‘mammità’ viene sostituita da una mia singolare e personale idea di mamma, che può corrispondere direttamente a mia madre. 2.3 L’arbitrarietà totale dei segni linguistici Capita a tutti, prima o poi, di chiedersi se vi sia una ragione per cui un significante sia associato a un determinato significato. Sono limitate le circostanze in cui la risposta può essere semplice: per lo più nei casi di onomatopee. Ma perché «gelato» (significato) si dice «g-e-l-a-t-o» (significante)? Saussure fornisce una risposta netta e decisa: non c’è un motivo. «I segni linguistici sono arbitrari», afferma statuario lo studioso ginevrino (Cdlg, II di Parte I). Con «arbitrari», precisa Saussure, non si intende che ogni parlante può servirsi di una casuale catena fonica (significante) per designare un concetto (significato) che a sua volta rinvia a un referente concreto. Si intende, invece, che vi è un tacito accordo fra i parlanti di una determinata varietà linguistica nel deliberare, senza alcuna ragione oggettiva, che a una successione fonica corrisponda un significato. È dunque un caso che al dolce fresco fatto di latte e frutta corrisponda il significante «g-e-l-a-t-o». Vi sono tuttavia, come si notava prima, alcune precisazioni da fare. Un segno linguistico non gode di totale arbitrarietà qualora esso sia un’onomatopea («parola che tenta di riprodurre un suono in modo grammaticale» ex: ticchettio), un ideofono («trasposizione in lingua di suoni e rumori naturali» ex: tic-tac») o un’esclamazione (poiché le esclamazioni sono «espressioni naturali e spontanee, per così dire di natura» [Cdlg, II di Parte I]). Spingendoci avanti nella storia della linguistica, si nota che il tema dell’arbitrarietà ha goduto di un’elevata rilevanza negli studi. Uno studioso di grande fama, Louis Hjelmslev, ha definito quattro tipi di arbitrarietà da riferirsi ai segni linguistici: -fra significato e significante; -fra segno linguistico (composto di significato e significante) e referente; -fra forma e sostanza del significato; -fra forma e sostanza del significante. Se i primi due punti della teoria di Hjelmslev risultano intuitivi, gli ultimi due necessitano di spiegazione per essere chiari anche al neofito alla linguistica. Non volendo aprire una discussione filosofica che rimanderebbe ad Aristotele, in questa sede ci si limita a definire l’uso metalinguistico di forma e sostanza. Con forma si intenda l’organizzazione di tipo semantico (nel caso del significato) o fonologico (nel caso del significante), che si danno i vari componenti di una varietà linguistica. Con sostanza si intenda ciò di cui sono composti concretamente significato e significante: rispettivamente materia concettualizzabile e materia fonica. Per meglio comprendere in che senso si configura l’arbitrarietà fra forma e sostanza, sia nel caso del significato che del significante, si provi a fare un esperimento. Si inizi con il significato. Si prenda ora una data “parola” di una lingua diversa dall’italiano (ex: il francese bois). Si analizzi lo spazio semantico che essa ricopre in italiano (bois vale per il concetto italiano di bosco, ma anche per quelli di legna e legno). Come si nota, non vi è un’organizzazione semantica (forma del significato) precisa che delimita spazi precisi fra i concetti (materia del significato). Questa è l’arbitrarietà fra forma e sostanza del significato di cui si accennava prima. Ma si passi ora al significante. Il caso dell’arbitrarietà fra forma e sostanza del significante è più complesso, o per lo meno può risultare tale a chi ignora le basi della fonetica e della fonematica. Perciò, prima di continuare, si rinvia il lettore poco esperto al capitolo seguente, e precisamente alle definizioni di fono e fonema (il primo paragrafo). Con in testa le definizioni di fono («suono concreto prodotto dal parlante e utilizzato nella comunicazione linguistica») e fonema («classe astratta di foni la quale è in grado di opporsi ad altre classi astratte nella realizzazione di parole»), notiamo un fatto curioso. Prendiamo il caso del latino e dell’italiano. Nella prima lingua, da cui la seconda deriva, la cosiddetta «lunghezza vocalica», ossia la durata di emissione delle vocali, aveva valore fonematico, riuscendo a opporre fra loro significati diversi. Ne è esempio la celebre differenza fra nominativo e ablativo della prima declinazione (chi non avesse confidenza con il latino sappia che esso, in assenza – si banalizza – di preposizioni, si serve di un sistema di casi per designare i vari «complementi»: i nomi differiscono nelle loro terminazioni portando il valore, per esempio, di soggetto [nominativo], complemento oggetto [accusativo], complemento di compagnia, mezzo e modo [ablativo] e altri ancora). Il latino ros-ă (dove con ă si intende una /a/ con lunghezza vocalica breve) rappresenta il nominativo, mentre ros-ā (dove con ā si intende una /a/ di lunghezza vocalica lunga) rappresenta l’ablativo. La differenza di significato (la rosa soggetto vs ≈con la rosa) è veicolata unicamente dalla lunghezza vocalica. Ci accorgiamo facilmente che in italiano la lunghezza vocalica non ha valore fonematico, potendo una vocale essere lunga solo in rapporto al contesto fonetico in cui si trova (penultima sillaba aperta di una parola “piana”). L’esempio fatto chiarifica come si configura l’arbitrarietà tra forma e sostanza del significante: lo spazio che ogni lingua assegna a un determinato fonema è assolutamente arbitrario e non corrisponde a schemi fissi e pervasivi. 2.4 Scritto e parlato: la trasponibilità di mezzo della lingua È interessante notare come la lingua abbia la peculiarità esclusiva di fungere da codice di comunicazione servendosi di due canali: quello fono-acustico (il “parlato”) e quello visivo-grafico (lo “scritto”). Vi sarebbe poi da considerare anche il canale tattile (braille), ma per semplicità di esposizione qui non se ne parlerà. Si sappia che l’oggetto privilegiato della linguistica (se non in alcuni casi limite) è la lingua parlata. Ciò poiché al parlato è riconosciuta una priorità di carattere individuale (priorità omogenetica: il bambino impara prima a parlare che a leggere/scrivere), ma anche sociale (priorità filogenetica: le comunità umane, storicamente, hanno scoperto la scrittura dopo aver consolidato sistemi linguistici esclusivamente parlati) e antropologica (qualsiasi comunità che utilizza la scrittura per comunicare, si serve anche del parlato. Non è vero il contrario). È tuttavia da tenere a mente che, in un’epoca come la nostra, con un tasso di analfabetismo che (nel mondo occidentale) rasenta lo 0, lo scritto ha ora un’enorme importanza, importanza che matura ancor di più a causa dell’uso sempre più massiccio dei social network, in cui gli utenti comunicano prevalentemente scambiando messaggi di testo o post. 2.5 Altre caratteristiche della lingua Quali sono, oltre all’arbitrarietà sviluppata a tutti i livelli, alla biplanarità e alla trasponibilità di mezzo, le principali caratteristiche della lingua? Lungi dal voler esaurire tutta la discussione semiotico-linguistica, se ne elencano alcune che possono aiutare a comprendere meglio i capitoli successivi: -linearità: con linearità si intende che la codificazione e la decodifica di un segno linguistico si realizza in un determinato tempo (e nel caso dello scritto, in un determinato spazio). Ne consegue che per una corretta comprensione di un segno si debba aspettarne la completa realizzazione – e si badi di intendere il segno anche in una prospettiva semiotica, più ampia, per cui un intero libro, per esempio La Divina Commedia di Dante, va considerato un (in questo caso supremo) segno linguistico che si sviluppa linearmente; -discretezza: la lingua è un codice discreto nel senso che i componenti minimi della lingua (fonemi, cfr 2.3 e capitolo III) non costituiscono un insieme continuo, ma si oppongono nettamente gli uni agli altri senza riguardo a vicinanze da un punto di vista articolatorio o percettivo (ex: pasta e basta, realizzazioni foneticamente molto vicine, sono semanticamente totalmente estranee); -trasmissibilità culturale: il codice lingua, vale a dire l’insieme dei segni biplanari che ci permette la comunicazione, è trasmissibile da un individuo all’altro, nella misura in cui un parlante X può istruire un non-parlante Y a parlare propria la lingua. Quanto alla facoltà generale di comunicarsi servendosi del mezzo lingua, la si ritiene di tipo innato – ma non è questa la sede per una discussione sulla sua natura; -produttività e ricorsività: strettamente correlate, sono le proprietà della lingua che rendono conto del fatto che una lingua, a partire da un numero limitato di elementi minimi (di nuovo, fonemi), possa produrre un numero altissimo di segni linguistici differenti utilizzando procedimenti ricorsivi (esempio ne è il celebre caso di petaloso, parola formata utilizzando un procedimento suffissale attestato nell’italiano); -libertà da stimoli: proprietà che dà conto del fatto che i segni linguistici non servono unicamente a comunicare un determinato stato dell’emittente. Essi infatti, possono riferirsi a concetti estranei al parlante che li emette, distanti nel tempo e nello spazio, o persino immaginari; -equivocità: è indubbio che la lingua sia un codice equivoco, tanto nella sua realizzazione fono-acustica che in quella scritta. Si pensi per esempio ai casi di omonimia (uno stesso significante per due significati differenti), alla complessità sintattica, che può inficiare la comprensione di un messaggio linguistico o, nel caso dello scritto, alle convenzioni (per esempio, e se ne tratterà più diffusamente nel Cap. III) di rappresentazione dei foni per mezzo di diversi sistemi di scrittura. 2.6 La lingua come mezzo onnipotente Il lettore, anche se neofito alle scienze linguistiche, si sarà sicuramente accorto di come la lingua possa essere impiegata per comunicare cose afferenti a ogni campo. Essa può essere usata per raccontare un avvenimento, per descrivere qualcosa o qualcuno, per esplicitare un ragionamento matematico, per avvertire qualcuno di un pericolo, per supplicare un aiuto, per pregare… Schematizzando le funzioni della lingua (che veniva definita «onnipotente», termine a cui oggi si preferisce il più sobrio «plurifunzionale»), lo studioso russo-americano Roman Jackobson ne riconosce sei principali. Egli, nel realizzare il suo schema, si serve dell’elementare cognizione «il mittente manda un messaggio linguistico al destinatario» per poi approfondire degli aspetti che fino ad allora erano sfuggiti al dibattito linguistico e semiotico: -se la funzione del messaggio linguistico quella ad ottenere qualcosa di preciso dal ricevente, essa viene definita conativa; -se il messaggio linguistico è utilizzato per esprimere uno stato del mittente, ha invece funzione emotiva; -se, ancora, il messaggio linguistico è incentrato sul messaggio linguistico in sé, per Jackobson si configura la funzione poetica della lingua; -se poi la lingua viene utilizzata per fornire informazioni sulla realtà esterna, si parla di funzione referenziale; -se, al contrario, la lingua è utilizzata per descrivere la lingua stessa, essa utilizza la propria funzione metalinguistica; -se, infine, la lingua è impiegata senza un particolare scopo, tutt’al più per accertarsi che il canale utilizzato funzioni (emblematico il «pronto?» telefonico), per Jackobson si parla di funzione fàtica. Conclusa questa breve panoramica sulla lingua, si va ora a sviscerarla a ogni livello: si analizzeranno, nei capitoli seguenti, la composizione concreta dei significanti (fonologia/fonetica), la combinazione di unità minime dotate di significato o valore grammaticale che formano le parole (morfologia), la combinazione di parole che formano frasi (sintassi), e quindi si tratteggerà lo studio dei significati (semantica). Si faranno quindi brevi cenni alla variazione linguistica diacronica (con particolare riferimento al passaggio latino>italiano) e sincronica (tipologia linguistica). III. LA LINGUA COME SUONO 3.1 Suoni e classi di suoni Poiché la lingua parlata è il vero oggetto di analisi della linguistica (cfr 2.4), anzitutto va spiegato in quale modo e secondo quali parametri avviene l’analisi della lingua come successione di suoni. Il singolo suono concreto di cui si serve il parlante per realizzare espressioni di lingua è detto fono. La linguistica, per dare ordine a suddette realizzazioni concrete di suoni, organizza le stesse in classi astratte, dette fonemi, dotate di valore distintivo, vale a dire in grado di opporsi l’una all’altra nella realizzazione di significati. I foni convenzionalmente si rappresentano fra parentesi quadre [], servendosi della grafia IPA; i fonemi, invece, si rappresentano entro barre oblique //, utilizzando la grafia IPA della realizzazione fonica più comune del determinato fonema. Esempio in merito: il parlante A pronuncia la parola «caro», realizzandola in un corretto italiano standard: [ˈkaro]; il parlante B, di origine francese, ha la cosiddetta “erre moscia”: la sua realizzazione della parola «caro» differirà dunque da quella del parlante A per il fono [r], che B realizza come [ʁ] (la stessa ʁ di «Pa[ʁ]is»). I foni [r] e [ʁ], per quanto siano differenti a livello articolatorio e percettivo, non riescono a opporre il significato di [ˈkaro] a quello di [ˈkaʁo], dunque sono due realizzazioni concrete di uno stesso fonema indicato come /r/. Altro esempio in merito: il parlante A pronuncia la parola «caro», articolandola in italiano strandard [ˈkaro]. La inserisce nella frase «mio caro amico, ti sono grato»; il parlante B, invece, si trova in un negozio di vestiti e sta provando un maglione. Sbuffa, in un italiano corretto limitatamente alla pronuncia: «se non calo di due kili, non posso comprare questo maglione». Si nota che le realizzazioni di [ˈkaro] («caro») e [ˈkalo] («calo») differiscono per un fono. Il fono [l], sostituito al posto di [r], riesce a opporre due parole con significati differenti. Si conviene, dunque, che /r/ e /l/ abbian0 un valore distintivo e che siano perciò da considerare fonemi. Nel primo esempio si è osservato un caso di allofonia. Allofoni sono due foni che realizzano concretamente uno stesso fonema. Nel secondo caso, invece, ci si è trovati davanti a una coppia minima ([ˈkaro] vs [ˈkalo]), ossia a una coppia di parole con significato diverso, le quali differiscono per un unico suono. Ne consegue che il suono che oppone i significati di una coppia minima ha valore fonematico. 3.2 Classificazione dei foni I foni sono l’oggetto di studio della fonetica, branca della linguistica che si compone a sua volta di tre sotto-branche, le quali studiano i foni: -in base a come sono articolati (fonetica articolatoria); -in base alla loro consistenza fisica di onde sonore (fonetica acustica); -in base alla percezione degli stessi (fonetica percettiva o uditiva). In questa trattazione ci si soffermerà nello studio fonetico dal punto di vista articolatorio. Prima di partire con la classificazione dei foni, è bene ricordare come avvenga l’emissione di suono da un punto di vista anatomico. Si sappia che essa si origina grazie a un flusso d’aria tendenzialmente egressivo (in uscita dai polmoni), il quale risale la trachea e incontra, in corrispondenza della laringe, le corde vocali, piccole pieghe della mucosa laringea, le quali – normalmente rilassate e separate –, nella fonazione si accostano e discostano in rapidissimi cicli di aperture. È a questa loro vibrazione che si deve una fondamentale emissione di suono. Quest’ultimo viene definito (in modo da essere percepito come un suono o un altro) in base alla conformazione che il parlante dà agli organi che compongono il canale fonatorio. Essi sono fondamentalmente la lingua, il palato molle (la parte più arretrata) e duro (quella più avanzata), i denti e le labbra. Si distinguono suoni (foni) vocalici e consonantici. Con suono vocalico s’intende il suono emesso senza frapposizioni di ostacoli a creare una perturbazione del flusso d’aria; con suono consonantico s’intende il suono derivante da una particolare configurazione degli organi coinvolti nella fonazione, i quali bloccano (totalmente o parzialmente) il flusso d’aria egressivo. 3.2.1 I suoni consonantici Si sappia che fra i suoni consonantici ne sono compresi alcuni in cui non vi è vibrazione di corde vocali, definiti sordi (in contrapposizione a sonori): per comprendere concretamente, il lettore provi a eseguire la fonazione della “s” di «massimo» e della “s” di «sbagliato» e a mettersi una mano poco sopra alla fossa giugulare. Avvertirà, pronunziando correttamente la “s” di “sbagliato”, una vibrazione. Vibrazione che non ci sarà invece nella pronunzia della “s” di “massimo”. Si definiscono dunque, due differenti foni: il fono [s], sordo, proprio di [ˈmassimo] e il fono [z], sonoro, proprio di [zbaʎˈʎato] («sbagliato»). Si osserva, a partire da detto esempio, come la grafia IPA usata nelle trascrizioni fonetiche sia da considerarsi indipendente da quella alfabetica adottata nell’italiano, pur con alcune convergenze da ritenersi tuttavia abbastanza aleatorie. Segue una classificazione dei soni consonantici, sordi e sonori, in base alle loro caratteristiche articolatorie. All’interno dell’ampia gamma dei suoni consonantici distinguiamo anzitutto fra quelli che comportano una blocco totale (ovviamente momentaneo) dell’aria in uscita e quelli che sono originati da un avvicinamento degli organi articolatori che però non blocca del tutto il flusso d’aria. In base a detta distinzione, abbiamo consonanti plosive (o occlusive) e fricative (o continue). Ne sono esempi, rispettivamente, la [p] di [stɔp] («stop»), e le [f] di [farˈfalla] («farfalla»). Vi sono poi consonanti composte da una sequenza del tipo: occlusione del canale fonatorio-liberazione del canale fonatorio-eventuale nuova occlusione del canale fonatorio. Esse sono dette affricate. Si indicano, in IPA, con la sequenza dei foni (occlusivo prima, fricativo poi) da cui si originano. Esempio in merito: si consideri la parola «garage», realizzata come [ˈɡarɑːʒ]. La sequenza grafica finale «ge» realizza il fono fricativo indicato come [ʒ]. Si prenda ora la parola onomastica «Giulietto». Notiamo che la lettera «G»(ci si perdoni la poca precisione linguistica) segna un suono diverso sia dalla «g» iniziale di garage [ɡ], sia dalla sequenza grafica «ge» che realizza il fono [ʒ]. Per capire che tipo di suono sia quello della «G» di «Giulietto», sembra strano, occorre partire dalla parola «duro», foneticamente [ˈduro]. Ci accorgiamo che la «G» di «Giulietto» è originata dall’incontro della [d] di [ˈduro] con la [ʒ] di [ˈɡarɑːʒ]. Arriviamo dunque alla conclusione che la «G» di «Giulietto», definita finora in modo aberrante per il linguista, corrisponda a un fono consonantico affricato che si rappresenta con [dʒ]. Oltre a occlusive e fricative, si distinguono altre categorie di consonanti in base al modo di articolazione: le laterali, nelle cui realizzazioni l’aria passa ai lati della lingua; le vibranti, nelle cui realizzazioni la lingua vibra contro un altro organo articolatorio; le nasali, nelle cui realizzazioni vi è passaggio dell’aria anche nella cavità nasale. Considerando invece il luogo di articolazione, vale a dire il sito in cui l’aria in uscita dai polmoni incontra l’ostacolo che la definisce come suono, distinguiamo in consonanti: bilabiali (articolate con le labbra); labiodentali (articolate con l’arcata dentale superiore e il labbro inferiore); dentali (articolate a livello dei denti e degli alveoli – in quest’ultimo caso in fonetica specialistica si parlerebbe di alveolari –); palatali (prodotte dalla lingua che colpisce il palato duro postalveolare); retroflesse (quando la lingua si arrotola su sé stessa a colpire il palato medio); velari (articolate a livello del velo palatale, o palato molle); uvulari (articolate a livello dell’ugola); quindi, nel caso di suoni definiti «gutturali» (non appartenenti alla gamma fonica dell’italiano), si distinguono faringali e glottidali, in posizione crescentemente arretrata. ʒ Si fornisce di seguito una tabella dei principali foni consonantici della lingua italiana, classificati per modo e luogo di articolazione. 3.2.2 I suoni vocalici Risulterebbe, al linguista inesperto, che i suoni vocalici siano pochi. Sicuramente meno di quelli consonantici, si dirà. In verità un minimo approfondimento sui meccanismi articolatori e sulla gamma fonica vocalica lascia intravedere un’enorme quantità di suoni differenti. Si pensi, banalizzando molto la questione, al fatto che il grafo “o” rappresenta almeno due varianti attestate nella lingua italiana: la cosiddetta “o chiusa” di «stoltamente» [stoltaˈmente] e la cosiddetta “o aperta” di «buona» [ˈbwɔna]. Si noti inoltre la differenza fra la “i” di «siccome» [sikˈkome] e quella di «aiuola» [aˈjwɔla]. Ambedue gli esempi proposti danno conto di quanto sia complessa la catalogazione delle vocali. Senza abbatterci, tuttavia, proponiamo due parametri per la classificazione vocalica. Il primo dà conto di quanto la lingua arretri nella fonazione di un elemento vocalico. Il secondo nota, invece, l’altezza della lingua rispetto alla sua posizione a riposo. Assumendo il primo dei due parametri come base, distinguiamo in vocali: anteriori, centrali e posteriori. Affinando la ricerca sul grado di avanzatezza o arretratezza, riusciamo a distinguere ulteriormente e a definire le categorie di vocali semi-anteriori e semi-posteriori. Prendendo come riferimento l’altezza della lingua durante la fonazione vocalica, invece, riusciamo a catalogare vocali alte, medio-alte, medie, medio-basse e basse. Il lettore si accorgerà, provando ad articolare [o] (la cosiddetta “o chiusa”) e [ɔ] (la cosiddetta “o aperta”), che il grado di “apertura” è legato in realtà all’altezza della lingua durante la fonazione. Per darsi conto dell’esistenza di suoni vocalici i quali non fungono da nucleo sillabico (per chi non conoscesse le basi della sillabazione si consiglia una rapida scorsa al cap. 3.4), la linguistica introduce il concetto di approssimanti o semi-vocali. In questa categoria rientrano foni assimilabili a quelli vocalici dal punto di vista articolatorio, i quali necessitano tuttavia di legarsi a un altro suono vocalico. Ne è esempio la [j] di [ˈpjɛno] («pieno»). Un problema tipico dell’italiano, che non pertiene strettamente alla classificazione fonetica delle vocali, ma che vi è indissolubilmente legato, è la diversa pronuncia delle vocali che si registra nelle varie aree del bel Paese, la quale insedierà il linguista nella designazione o meno di classi fonematiche. L’ultimo esempio fatto, quello dell’articolazione di «pieno», ne è fulgido esempio: mentre il parlante italiano standard realizza [ˈpjɛno], il parlante veneto o friulano realizza normalmente [ˈpjeno]. Si potrebbe concludere dunque che [ɛ] ed [e] siano due realizzazioni foniche di uno stesso fonema. Tuttavia vi sono casi in cui, in italiano standard, i suddetti foni possono opporre due singnificati. Emblematico il caso di [ˈpɛska] (il frutto), che si distingue da [ˈpeska] (l’attività sportiva o lavorativa del pescare). A quest’ultimo esempio, però, il parlante veneto avrebbe da obiettare: per lui sia l’attività del pescare che il frutto succoso si realizzano come [ˈpeska], e il valore semantico si evince solo dal contesto. Poiché la linguistica non si pone come scienza normativa, ma descrittiva (cfr 1.5), non è compito di questa trattazione l’imposizione della corretta pronuncia dell’italiano standard. La linguistica si limita a registrare gli avvenimenti e, in quest’ottica, distingue fra una variante di italiano standard (che non significa «più corretta») e molte varianti locali, le quali non vanno fatte bersaglio di critiche, ma anzi valorizzate nella loro pluralità. Si converrà, tuttavia, che in questa sede si debba accordare una preferenza all’italiano standard; perciò gli esempi che verranno fatti non terranno conto di pronunce particolari, se non quando esplicitato. Un ultimo aspetto di cui tenere conto nella classificazione dei foni vocalici è l’arrotondamento. Si definisce arrotondata la vocale articolata con le labbra protruse (ad esempio la [u] di [puˈnire]); quando non vi è protrusione delle labbra, si hanno vocali dette «non arrotondante» (ad esempio la [i] di [pu ˈnire]. Segue una tabella di classificazione dei suoni vocalici e semivocalici, trascritti secondo la grafia IPA: 3.3 Classificazione di fonemi In quanto unità astratte pertinenti esclusivamente a livello di studio linguistico, i fonemi si prefigurano difficili da classificare. Già la loro rappresentazione grafica (si ricorda che viene messo fra barre oblique il fono più rappresentativo del dato fonema) è frutto di una non felicissima convenzione. Quanto alla classificazione dei fonemi, si ricorre, seguendo le orme di Jackobson e Chomsky, a una serie di tratti (caratteristiche) binari, di cui si indica l’assenza o la presenza in un determinato fonema. Risulta, grazie al sistema messo a punto dai due summenzionati studiosi, che ogni fonema abbia una propria configurazione differente da ogni altro. La possibile critica a questo tipo di sistema è che esso non si può applicare a tutte le lingue indifferentemente. E del resto questa è una delle quattro arbitrarietà semiotiche definite da Hjelmslev: ogni lingua organizza i foni in fonemi secondo schemi arbitrari. Altro problema del detto sistema di classificazione è la quasi mimeticità con la catalogazione dei foni IPA. In ogni caso, al linguista in erba conviene conoscere la teoria dei tratti e la struttura della stessa. Sono definite di seguito i quattordici tratti binari in base ai quali sono catalogati i fonemi: -vocalico (elemento che può costituire una sillaba da solo. In italiano solo le vocali); -consonantico (elemento che non può costituire una sillaba da solo. In italiano approssimanti e consonanti); -sonoro (elemento per la cui fonazione ci si serve delle corde vocali); -sonorante (elemento sonoro privo di un corrispondente sordo); -nasale (elemento prodotto con un flusso d’aria che coinvolge la cavità nasale); -continuo (elemento che non ha occlusione totale nell’articolazione); -rilascio ritardato (elemento la cui fonazione prevede un’inizio occlusivo e una fine continua); -laterale (elemento prodotto con flusso d’aria laterale alla lingua); -arretrato (elemento prodotto con la lingua in posizione più arretrata rispetto allo standard a risposo); -anteriore (elemento prodotto con la lingua in posizione più avanzata rispetto allo standard a riposo); -coronale (elemento nella cui fonazione sono coinvolti i denti); Solo vocalici: -alto -basso -arrotondato Si descriveranno di seguito alcuni fonemi facendo riferimento ai tratti sopra elencati: /t/ (ex: /tenda/) /dʒ/ (ex: /dʒusto/) /z/ (ex: /zmontare/) Vocalico - - - Consonantico + + + Sonorante - - - Sonoro - + + Rilascio rit. - + - Laterale - - - Continuo - + + Nasale - - - Arretrato - + - Avanzato - - - Coronale + - + ALTO / / / MEDIO / / / BASSO / / / Nell’analisi fonologica si pone, come accennato precedentemente, il problema di status fonematico di alcuni suoni. Qualcuno potrebbe obiettare che /z/ non ha valore fonematico, facendo rientrare [z] e [s] in uno stesso fonema /s/. Eppure va ricordata la coppia minima presente in italiano standard che oppone [ˈkjeze] (luogo di culto) a [ˈkjese] (passato remoto del verbo «chiedere»). È tuttavia comune che i parlanti settentrionali, che tendono a sonorizzare, realizzino sempre [ˈkjeze]. 3.4 Fatti prosodici e tipologici Con fatti prosodici s’intendono tutti quei fenomeni che coinvolgono la catena fonica di un’intera parola o gruppo tonale (frutto di un’unica emissione d’aria), e che agiscono dunque a un livello superiore rispetto ai singoli foni/fonemi. Essi sono principalmente l’intonazione, il tono e la lunghezza vocalica. Con tono è da intendersi l’altezza di emissione un fono. Essa, in alcune lingue dette tonali, può avere pertinenza fonologica. In cinese mandarino, ad esempio, si distinguono quattro toni contrassegnati da una combinazione di numeri che indicano l’andamento melodico della fonazione (un numero alto corrisponde a un suono acuto, un numero basso ad uno grave): Valore numerico Classificazione Esempio Tono I 5-5 Alto costante [i] («yī»): «abito» Tono II 3-5 Tono ascendente [i] («yí»): «sospettare» Tono III 2-1-4 Tono basso [i] («yǐ»): «sedia» discendente-ascendente Tono IV 5-1 Tono discendente [i] («yì»): «significato Intonazione è invece l’andamento melodico di un’unità composta di almeno un gruppo tonale. In italiano essa ha valore pragmatico, ossia in grado di fornire all’ascoltatore informazioni sull’intenzione del parlante. Si provi a comprendere la differenza pragmatica data dall’intonazione dicendo prima «Se non ci fossi tu, non saprei cosa fare» e poi «Cosa fare?». La lunghezza vocalica, non pertinente a livello fonologico nell’italiano, indica la durata di emissione di una determinata vocale. Essa aveva valore fonematico in latino (cfr 2.3), riuscendo ad opporre sognificati non solo a livello di terminazioni, ma anche radicale. È esempio di quest’ultima circostanza la differenza di significato veicolata dalla lunghezza della [a] nella radice di «malus». Mālus, (a “lunga”) infatti significa «melo»; mălus (a “breve”), invece significa «persona malvagia». Vi è, tra i fatti soprasegmentali, da annoverare la sillabazione delle parole. Con sillaba intendiamo un complesso di suoni che si pronuncia unito con una sola emissione di voce. Una sillaba è costruita attorno a una vocale (mai da un’approssimante), la quale funge da nucleo. Il numero massimo e minimo di vocali in una sillaba è uno. Il nucleo, insieme all’/e eventuale/i consonante/i che segue/ono (detta/e coda), costituisce la rima; l’/le eventuale/i consonanti/i che precede/ono il nucleo è/sono invece detta/e attacco. In caso di sillabe che contengano una vocale e un’approssimante, si parlerà di dittonghi (ex: [pja-no]). Qualora invece le approssimanti fossero più d’una, di trittonghi (ex: [ma-rjwɔ-lo]). Il criterio di base per la scomposizione sillabica in italiano è che due consonanti contigue sono assegnate entrambe alla stessa sillaba (quella che segue) se compaiono unite a inizio di parola (ex: ma-[gr]e-zza; [gr]idare); sono invece divise fra la sillaba che precede e quella che segue se non compaiono a inizio di parola (ex: mo[l-t]o; non esistono, in italiano, parole che comincino con [lt]). Bibliografia: ALBANO LEONI, MATURI, “Manuale di fonetica”, Carocci, 2018; BERRUTO, CERRUTI “La linguistica. Un corso introduttivo”, 2017, UTET; CINEPARI, “L’intonazione. Linguistica e paralinguistica”, Liguori, 1985; CHOMSKY, “Riflessioni sul lignguaggio”, Einaudi, 1981 – “The Minimalist Program”, MIT Press, 1995; COSERIU, “Teoria del linguaggio e linguistica generale”, Laterza, 1971; DURANTE, La linguistica sincronica, Bollati-Boringheri, 1975; ECO, “Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975; FANCIULLO, “Introduzione alla linguistica storica”, Il Mulino, 2007; HYMAN, “Tone sistems”, in HASPELMATH et alii, “Language universals”; IANNACCARO, “La parola scritta. Appunti per una teoria dell’alfabeto fonografico vocalico”, Metis, 2000; JACKOBSON, “Saggi di linguistica generale”, Feltrinelli, 1966; MIONI, “Fonologia” in CROATTO (a cura di), “Trattato di foniatria e logopedia II”, La Garangola, 1983; PEIRCE, BUCHLER (a cura di) “Philosophical Writings”, Dover Inc., 1955; SAUSSURE, DE MAURO (a cura di), Corso di linguistica generale, Laterza, 1968; SOUTET, “Manuale di linguistica”, Il Mulino, 1998; TRUBECKOJ, “Fondamenti di fonologia”, Einaudi, 1971; WAUGH, “La forma fonica della lingua”, il Saggiatore, 1984.