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DONNE, GENDER, STEREOTIPI

In the present paper, I reflect on some oppositions between various ways in which stereotypes act on gender, or influence it, and thus limit the liberty of women. Of course, stereotypes make the life of many unconscious women simpler. However, are you really a human being, if you persist in living in your stereotyped education, or in an endeavor that do not consider your specific and peculiar sin-gularity and individuality? Without consciousness, especially as a woman, living in this strange gendered normative world means to be unhappy. But it also means not to be fully yourself and not to develop all your potential cognitive abilities. I address this question theoretically, without renouncing to appeal to some concrete scientific experiments. Moreover, I will briefly try to show that the very concept of gender might be stereotypical. In anni recenti, gli studenti risoluti a ottenere un Bachelor of Arts in filosofia negli Stati Uniti-titolo di studio comparabile a una laurea triennale italiana-hanno conseguito nel ragionamento verbale e nella scrittura analitica risultati alti, più alti rispetto a studenti di altre discipline , nonché i risultati più elevati nel ragionamento quantitativo nelle discipline umanistiche. Se vogliamo e dobbiamo paragonare su questo punto il genere femminile a quello maschile, sussistono precisi dati: in essi e con essi si attesta che, nei paesi anglosassoni, rimane, comunque, rispetto a quello femminile, il genere maschile a predominare, nel senso che vi troviamo più uomini laureati in filosofia. Nel nostro paese, ove invece gli uomini si dedicano in maggioranza a discipline «dure» (fisica e via dicendo), rimangono le donne a predominare sugli uomini nelle lauree in filoso-fia. Ciononostante, nella disciplina in questione, i professori ordinari di genere femminile costituiscono una rarità. Pare che la filosofia, al pari di altre discipline giudicate cognitivamente adatte a coloro che possiedono razionalità, non venga ben concessa al genere femminile. Come la filosofia, la pratica professionale delle scienze impone solide capacità logiche e razionali. Ma, benché in tal campo parec-chie scienziate si siano distinte per merito, anche ottenendo Nobel, il brutale senso comune stereotipato identifica le donne in una sorta di oggetto sessuale-sensuale, irrazionale, emotivo, illogico, di cui abusare. Le filosofie femministe rimangono presenti, forti, stabili a livello internazionale, nella riflessione su diversi settori intellettuali, con la vo-lontà di capire le cause della scarsa rappresentanza femminile in troppi settori scientifici. Questa volontà genera quella che Harding (1986) battezza the science question in feminism: si tratta dello studio delle norme e metodologie della ricerca scientifica secondo ottiche femmi-niste (per una riflessione sull'approccio femminista rispetto alle varie filosofie delle scienze, cfr. Amoretti & Vassallo 2016). Ma, oltre a ciò, vi è altro a caratterizzare le donne in senso stereotipato: le donne costi-tuirebbero i soggetti cognitivi migliori per dedicarsi all'etica della cura e non all'etica della giustizia (cfr. Gilligan 1982). Stando a Gilligan i ragionamenti e i verdetti morali delle don-ne dipendono da situazioni concrete in cui ogni soggetto cognitivo coinvolto conosce bene l'altro, e in cui a reggere sono impulsi e senti-menti di cura, nonché relazioni che si preservano nel tempo, mentre gli uomini seguono regole legate a una giustizia astratta. In questa tesi non si perpetuano, per l'appunto, stereotipi di matrice sessista? Anche perché è risaputo che le supposte e ipotizzate differenze, tra donne e uomini, per ciò che concerne il ragionamento

DONNE, GENDER, STEREOTIPI QUALCHE RILEVANTE OSSERVAZIONE Nicla Vassallo Abstract: In the present paper, I reflect on some oppositions between various ways in which stereotypes act on gender, or influence it, and thus limit the liberty of women. Of course, stereotypes make the life of many unconscious women simpler. However, are you really a human being, if you persist in living in your stereotyped education, or in an endeavor that do not consider your specific and peculiar sin-gularity and individuality? Without consciousness, especially as a woman, living in this strange gendered normative world means to be unhappy. But it also means not to be fully yourself and not to develop all your potential cognitive abilities. I address this question theoretically, without renouncing to appeal to some concrete scientific experiments. Moreover, I will briefly try to show that the very concept of gender might be stereotypical. Keywords: gender, stereotypes, women, cognition, sexism. In anni recenti, gli studenti risoluti a ottenere un Bachelor of Arts in filosofia negli Stati Uniti – titolo di studio comparabile a una laurea triennale italiana – hanno conseguito nel ragionamento verbale e nella scrittura analitica risultati alti, più alti rispetto a studenti di altre disci-pline, nonché i risultati più elevati nel ragionamento quantitativo nelle discipline umanistiche. Se vogliamo e dobbiamo paragonare su questo punto il genere femminile a quello maschile, sussistono precisi dati: in essi e con essi si attesta che, nei paesi anglosassoni, rimane, comunque, rispetto a quello femminile, il genere maschile a predominare, nel senso che vi troviamo più uomini laureati in filosofia. Nel nostro paese, ove invece gli uomini si dedicano in maggioranza a discipline «dure» (fisica e via dicendo), rimangono le donne a predominare sugli uomini nelle lauree in filoso-fia. Ciononostante, nella disciplina in questione, i professori ordinari di genere femminile costituiscono una rarità. Pare che la filosofia, al pari di altre discipline giudicate cognitivamente adatte a coloro che possiedono razionalità, non venga ben concessa al genere femminile. Come la filosofia, la pratica professionale delle scienze impone solide capacità logiche e razionali. Ma, benché in tal campo parec-chie scienziate si siano distinte per merito, anche ottenendo Nobel, il brutale senso comune stereotipato identifica le donne in una sorta di oggetto sessuale-sensuale, irrazionale, emotivo, illogico, di cui abusare. Le filosofie femministe rimangono presenti, forti, stabili a livello internazionale, nella riflessione su diversi settori intellettuali, con la vo-lontà di capire le cause della scarsa rappresentanza femminile in troppi settori scientifici. Questa volontà genera quella che Harding (1986) battezza the science question in feminism: si tratta dello studio delle norme e metodologie della ricerca scientifica secondo ottiche femministe (per una riflessione sull’approccio femminista rispetto alle varie filosofie delle scienze, cfr. Amoretti & Vassallo 2016). Ma, oltre a ciò, vi è altro a caratterizzare le donne in senso stereotipato: le donne costituirebbero i soggetti cognitivi migliori per dedicarsi all’etica della cura e non all’etica della giustizia (cfr. Gilligan 1982). Stando a Gilligan i ragionamenti e i verdetti morali delle don-ne dipendono da situazioni concrete in cui ogni soggetto cognitivo coinvolto conosce bene l’altro, e in cui a reggere sono impulsi e senti-menti di cura, nonché relazioni che si preservano nel tempo, mentre gli uomini seguono regole legate a una giustizia astratta. In questa tesi non si perpetuano, per l’appunto, stereotipi di matrice sessista? Anche perché è risaputo che le supposte e ipotizzate differenze, tra donne e uomini, per ciò che concerne il ragionamento morale non risultano significative e, per di più, disponiamo di solide prove storiche che tali norme morali mutino nel corso nel tempo, e a seconda delle situazioni, nonché dei luoghi del mondo, in cui ci si trova. Ancora, perché donne e uomini non si potrebbero dedicare al contempo all’essere giusti e al prendersi cura di altri? Con l’intento di riconoscere una più vasta conoscenza di tipo prettamente femminile, si giunge ad affermare che le donne dispon-gono di uno stile cognitivo di sperimentazione della realtà differen-te rispetto a quello posseduto dagli uomini (cfr. Hartsock 1983; Rose 1983). Questo stile non viene del tutto dissociato dalle capacità ripro-duttive femminili, nel senso che alla capacità di allevare viene associato un modo tipico di ragionare delle donne, in cui, per l’appunto, a dover importare permangono la cura degli altri, il mantenimento delle rela-zioni, la negoziazione, il confronto dialogico, piuttosto che processi ri-tenuti maschili, quali quelli deduttivi e induttivi. In altre parole, lo stile cognitivo di sperimentazione della realtà tipico delle donne sarebbe collegato alla sfera affettiva e, più in generale, a emotività, relazionali-tà, calore, in opposizione a uno stile cognitivo maschile che privilegia razionalità, dominio, aggressività (cfr. Harksock 1983). Affermare una differenza significativa tra uomini e donne a pro-posito dello stile cognitivo significa in effetti alimentare una via retro-grada, per apprezzare le vecchie e inconsistenti dicotomie di origine patriarcale che vogliono l’uomo razionale, attivo, oggettivo, e la don-na emotiva, passiva, soggettiva. Perché mai poi le donne dovrebbero ragionare come impongono vari stereotipi di tipo sessista (sui quali si basano discriminazioni penalizzanti, nonché valutazioni impari dei ruoli delle donne e degli uomini in ogni campo cognitivo) e perché mai le donne dovrebbero comunque ragionare tutte nello medesimo modo (cfr. Lloyd 1984)? Che lo stereotipo venga riportato a uno stile cognitivo o all’espe-rienza condivisa dell’emarginazione sociale e/o della procreazione, alla biologia o alla sociologia, si sminuisce il fatto che ogni donna possegga una sua propria peculiare identità, correndo così il rischio di assumere che sussista un’unica natura o essenza femminile (riproduttiva e cogni-tiva) (cfr. Harding 1986, 1991; Bar On 1993). Infatti, asserire che vi sono punti di vista, contenuti, stili esperienziali unicamente femminili significa da una parte ritenere che tutte le donne condividono carat-teristiche essenziali e dall’altra ignorare le differenze che intercorrono necessariamente tra le donne stesse e che possono condurre a rivedere ampiamente il concetto stesso di donna, anche per decostruirlo o ad-dirittura per «frantumarlo». Purtroppo, le opinioni dei filosofi hanno contribuito non poco a stereotipizzare il genere femminile. Per esempio, stando ad Aristotele le donne sono maschi menomati o mutilati in virtù del fatto che il loro essere femmine coincide con la passività femminile. Passività non solo sessuale, ma pure cognitiva. Donne, dunque, irrazionali. E, da quando Galileo Galilei ha sostenuto che il libro della natura è scritto in termini matematici, se far matematica presuppone un notevole grado di razio-nalità, se ne deve concludere che le donne quel libro non riescono a leggerlo e che di conseguenza non risultano in grado di conoscere il mondo esterno. In effetti, attraverso i secoli, le capacità cognitive, specie logico-matematiche, hanno spesso decretato il grado di razionalità del soggetto cognitivo, con un risultato vincolante, nonché un esito, ricolmo di stereotipi, stando a cui le donne debbono permanere soggetti irrazionali, mentre gli uomini soggetti razionali. Si impone maggior coscienziosità. Confinando l’attenzione al rapporto tra donne e matematica, quanto è corretto imputare a biolo-gia e genetica la supposta inettitudine delle donne rispetto agli uomi-ni? In proposito, stando a ricercatori canadesi della British Columbia, le competenze/prestazioni matematiche femminili si attestano minori nel caso in cui le donne osservate credono nella propria inferiorità biologico/genetica, mentre si attestano superiori quando esse imputano l’inferiorità a stereotipi di matrice socio-culturale. Un altro rilevante studio, condotto da ricercatori inglesi dell’U-niversità di Exeter, sottolinea quanto le competenze/prestazioni ma-tematiche mutino in base a un principio simile: se le donne vengono incluse in modo stereotipato in un genere cognitivamente inabile ri-spetto a determinati compiti, i loro risultati non si attestano affatto encomiabili, mentre se esse vengono categorizzate non in quanto «es-senzialmente» donne, bensì in quanto soggetti cognitivi di una certa tipologia (etnica, per esempio) capace rispetto ai medesimi compiti, l’eccellenza emerge. Al di là della possibile artificialità di tali esperimenti psicologici, artificialità però condivisa da ogni altro esperimento, questi rivelano condizioni del genere femminile mutevoli rispetto agli stereotipi che le esigono irrazionali. Rivelano, per esempio, che le donne asiatiche si attestano carenti in matematica, quando vengono identificate con la categoria «donne», mentre si mostrano brillanti, quando identificano loro stesse con la categoria «asiatici» – immedesimarsi nel genere fem-minile comporta identificarsi con coloro che vengono giudicati irrazio-nali e di conseguenza «cattivi matematici», mentre assimilarsi con gli asiatici significa collimare con coloro che vengono considerati «buoni matematici» – a torto o a ragione, ma ciò al presente poco importa. Se e quando (troppo spesso) si conducono esistenze stereotipate sul piano dell’appartenenza di genere, deve essere in quanto si crede che la categoria donne e la categoria uomini siano del tutto differenti. Si precipita in tal modo nell’errore del noto «double standard» e, per di più, per l’ennesima volta, nella dicotomia di genere, in cui gli stereotipi predominano con donne non solo giudicate irrazionali, ma anche, come alcuni studi etnografici testimoniano, questa loro suppo-sta inferiorità viene del tutto gestita dal genere maschile, un genere che tuttavia delega, specie in paesi involuti, la propria sopravvivenza al genere femminile, paesi in cui le donne subiscono ogni tipo di violen-za, paesi in cui la razionalità non viene coltivata e in cui, comunque, al genere femminile non deve appartenere. È il corpo a contare, coperto da svariati e innumerevoli veli. La razionalità risulta assimilata alla ragione. Se le donne vengo-no giudicate irrazionali, per non ricadere negli stereotipi, è possibile controbattere criticando il concetto stesso di ragione. Per esempio, alcune filosofie femministe prendono di mira il cosiddetto razionalismo cartesiano, che rappresenterebbe una mascolinizzazione della cono-scenza, nonché della cognizione (cfr. Bordo 1987). Benché non confidi affatto in alcune classificazioni (razionalismo, empirismo, idealismo, e via dicendo), che invece vanno per la maggiore in chi fa storia della filosofia, né creda si riesca a rintracciare in Cartesio una precisa elaborazione del concetto di ragione «pura», legata a un qualche tipo di logica (da quella sillogistica, in avanti), rimane a mio avviso vero che, da una parte, molte donne vorrebbero poter pronunciare l’«io sono, io esisto», mentre, dall’altra, Cartesio reclama idee chiare e distinte per ogni essere umano, senza nominare in alcun modo il sesso o il genere di appartenenza. Per di più, Cartesio si confronta sulle connessioni tra mente e corpo, connessioni senz’altro rilevanti per donne e uomini, in realtà maggiormente per le donne, donne troppo spesso «ridotte» a mero corpo. Più che criticare il concetto di razionalità, si suggerirebbe di rettificarlo, tra l’altro proponendosi l’obiettivo che i concetti di ra-zionalità e irrazionalità non consentano di simboleggiare in senso positivo gli uomini e in senso negativo le donne. Non so se, a tal proposito, sarebbe sufficiente o necessario vagliare la possibilità di una razionalità meno scissa dalla corporeità, di quanto abbia fatto finora la tradizione. Una tale razionalità non dovrebbe però finire col rappresentare l’ennesimo stereotipato divario tra il genere femminile e quello maschile, con uomini a cui viene attribuita più «mente», rispetto alle donne e, pertanto, con uomini che nutrono certe cre-denze sulla base di ragioni appropriate, a differenza di donne che hanno più «corpo» e, pertanto, nutrono certe credenze sulla base di emozioni, fedi folli, decisioni capricciose, impulsi azzardati, wishful– thinking, e via dicendo. Concedetemi però ancora qualche parola su Cartesio, poiché contro la sua impostazione filosofica si sono scagliati parecchi attac-chi femministi, che generano da sempre in me parecchie perplessità. Cartesio si attesta uno dei pochissimi filosofi a non denigrare le donne, anzi a ritenerle dotate di una ragione talmente elevata da non poter rinunciare ad accettare le loro obiezioni e a discorrere con loro. Basti rammentare la principessa Elisabetta di Boemia. Non solo Cartesio le dedica i Principia Philosophiae, opera in quattro volumi di filosofia e di fisica, giudicando palesemente la principessa capace ed erudita in entrambe le discipline, ma soprattutto egli intrattiene con lei una cor-rispondenza in cui mai sottovaluta le obiezioni di Elisabetta, sempre inappagata delle risposte del filosofo sul rapporto tra mente/corpo. Tale corrispondenza si erge alla base di Les passions de l’âme. Stando ai fatti, le circostanze personali di Cartesio, nonché il suo pensiero, paiono rispettare ben poco gli stereotipi che sul genere fem-minile predominavano all’epoca. Per di più occorre non dimenticare che alcune femministe non hanno ben compreso la lotta cartesiana contro l’autoritarismo. Non solo contro il memorizzare sillogismi, ma soprattutto contro la dipendenza epistemico-cognitiva da ogni auto-rità, autorità religiose incluse, spesso elargitrici di non pochi stereoti-pi: le sue Meditationes de Prima Philosophiae invitano a «revocare in dubbio tutte le opinioni ricevute fino allora» da ogni tipo di autorità, per impegnarsi in una serie di mediazioni e di esperimenti mentali che condurranno all’«io sono, io esisto». Ancora oggi vi sarebbero molte donne che vorrebbero o dovrebbero poter asserire proprio «io sono, io esisto». Cartesio può venire considerato un «sovversivo». Lo attesta tra l’altro la sua esigenza epistemica di idee chiare e distinte per ogni essere umano (non era certo una consuetudine dell’epoca) e la sua ostinazione nel riflettere sulle connessioni tra mente e corpo, cui però non ogni femminismo filosofico ha a sufficienza badato. Oltre Cartesio, non possiamo dimenticare John Stuart Mill (1869) con la sua appassionata perorazione dei diritti delle donne e con la sua esplicativa analogia fra la sottomissione delle donne e la schiavitù. Eppure, volente o nolente, la storia della filosofia si attesta un potente trasmettitore di stereotipi, denigratori nei confronti delle donne. Quale significativo esempio: stando a Kant, le donne, causa la loro carenza di senso del dovere, risultano incapaci di compiere azioni genuinamente morali; per Hegel, le donne debbono venire relegate in casa e all’ambito familiare, data la loro inabilità a ragionare su un piano universale, come, invece, si richiede per affrontare questioni politiche e pubbliche; Schopenhauer riconduce ogni vizio femminile alla natu-rale inferiorità delle donne rispetto agli uomini: le donne sono poco intelligenti, perpetuamente puerili, prive di senso di giustizia, mani-polatrici e menzognere; Nietzsche rende, invece, le donne un gingillo, un mero svago per gli uomini, donne che debbono avere quale unico obiettivo della loro esistenza quello di procreare. In effetti, il soggetto maschile che domina la storia della filo-sofia esibisce tutte le caratteristiche del polo positivo: è un soggetto autonomo, autosufficiente, razionale e privo di legami materiali, cor-porei e spesso perfino emotivi. Con le parole di Young (2005), «la metafisica occidentale ha postulato l’idea di un soggetto individuale autonomo, un ego chiuso in se stesso che abita un corpo ma è distinto da esso». Per quanto il sessismo di una certa metafisica ci abborrisca, risulta comunque indispensabile confrontarsi correttamente con un problema specifico, a partire dalla considerazione del fatto che, nel caso in cui si esiga, come in parecchi auspichiamo, di superare gli stereotipi, per avanzare e testare l’ipotesi stando a cui gli esseri umani (al di là del loro sesso e genere di appartenenza) dispongano delle medesime capacità cognitive. Il problema pare semplice, eppure non si può pretendere che esso venga risolto a tavolino. E l’appianamento di esso va affidato non tanto alle soluzioni stereotipate che ci sono state finora propinate, e di cui ancora in troppi s’imbevono, bensì alla psicologia, alle scienze cognitive, o comunque a scienze di matrice empirica. Con ciò non si intende implicare che risulti superflua un’ac-cortezza metodologica non indifferente: investigare empiricamente le ipotetiche diversità tra le capacità cognitive del genere femminile rispetto a quello maschile non deve implicare la cieca accettazione dei dati ricavati dalle scienze, né supporre che il processo di produzione di questi dati sia appieno immune da condizionamenti politici, sociali e religiosi. In altre parole, occorre considerare e valutare i dati, di volta in volta ottenuti, con una certa criticità. Un solo, ormai classico, esempio. Al cospetto di parecchi studi psicologici che affermano di aver nettamente dimostrato la sussistenza di discrepanze decisive tra le capacità cognitive maschili e quelle femminili (cfr. Belenky et al. 1986), non dimentichiamo che l’ingenuità di accettarli fiduciosamente potrebbe costituire fonte di un costante perpetuarsi di stereotipi. Innanzitutto, nel momento in cui tali studi vengono inquadrati con un acuto sguardo riflessivo, l’onestà epistemica conduce a confessare l’insufficienza degli elementi scientifici a favore di uno stile cognitivo peculiarmente femminile, diverso da e/o contrastante ri-spetto a quello maschile (cfr., per esempio, Brabeck, Larned 1997, Fausto-Sterling 1985; Tavris 1992) . Inoltre, se tali elementi venissero rintracciati, si dovrebbe esaminarli con competente scrupolosità, sen-za barricarsi dietro l’imposizione di eguaglianza tra donne e uomini, imposizione, non sempre priva di stereotipi che assimilano l’intera cognizione, inclusa quella femminile, allo stereotipo cognitivo ma-schile. Infine, dato che ormai la riflessione sull’appartenenza di ge-nere si accolla tutta una serie di valutazioni sulla cognizione, occorre decisa chiarezza su come lo stesso concetto di genere possa venire inquadrato: secondo un approccio costruttivista o secondo un ap-proccio essenzialista? Stando al costruttivismo, il livello e il ruolo cognitivo che assu-miamo e ci viene assegnato nel contesto socio-culturale, così come nel contesto privato, tramite un certo tipo di educazione, o un certo tipo di credenze stereotipiche, dipende unicamente in senso contingente dal genere di appartenenza. Per esempio, lo stereotipo stando a cui gli uomini presentano abilità logico-matematiche ben superiori a quelle delle donne è agilmente abrogabile, se i contesti si mutano o si evolvo-no, in modo tale da riconoscere lo stereotipo in questione. Stando invece all’essenzialismo, il livello e il ruolo cognitivo che assumiamo e che ci viene assegnato è connesso inevitabilmente al no-stro genere di appartenenza; pertanto, all’essenza degli uomini appar-tiene la cognizione logico-matematica, mentre alle donne la cognizione emotiva – in modo irreversibile. Alcune presupposte differenze tra le capacità cognitive (raziona-li) degli uomini e le capacità cognitive (emotive) delle donne vengono giudicate non come stereotipi, bensì alla stregua di un «destino» gene-tico e biologico, palesemente deterministico. Alcune ricerche scienti-fiche imputano l’ipotetica differenza cognitiva tra donne e uomini alle difformità ormonali o alle difformità nella struttura e nelle funzionalità cerebrali tra i due sessi (solo due? – cfr. Amoretti, Vassallo 2015) – ri-cerche che presentano peraltro alcune affinità con quelle alla caccia del gene dell’omosessualità, allo scopo di concludere che l’omosessualità risulta geneticamente determinata. Ipotizziamo che sussistano alcune differenze cognitive tra donne e uomini. Sono significative e cosa comportano? Si tratta di costruttivi-smo o essenzialismo, quando si rivela (sempre che tali studi, al pari di altri, non vengano smentiti) che effettivamente le suddette differenze determinino il fatto che le donne primeggino in compiti che postula-no emozioni, memoria, abilità linguistiche, coordinazione meccanica, percezioni veloci e precise, mentre gli uomini primeggino in compiti che postulano abilità motorie, attitudini spaziali, competenze logico-matematiche, percezioni di figure geometriche (cfr., per esempio, Hines 2003). Nel caso in cui non si aderisca al costruttivismo, sostenere che la cognizione, sempre e per sempre, del genere femminile, ovvero di ogni donna, sia determinata implica adeguarsi all’essenzialismo e, oltre a quanto si è moderatamente già detto, che tengo a ribadire in altri termini, a intoccabili e intramontabili stereotipi per cui il soggetto di genere femminile deve essere cognitivamente collettivista e dipenden-te dall’altro da sé; si tratterebbe di un essere sociale nonché adatto a intrattenere agevolmente contatti con l’altro-da-sé, pure tramite intime amicizie, con empatia, emozione e sensibilità. Pare di ricadere in una sorta di stereotipo pietistico e inesperto. Quante donne si riconoscono in esso? E quante donne non risultano invece crudeli e distruttive? E quante donne attribuiscono senso solo a supposte amicizie superficiali, tanto per evitare solitudini che il loro uomo di turno riesce a donare loro? L’essenzialismo risulta tuttavia obiettabile sotto differenti ango-lazioni. È rilevante ricordare che non esistono esclusivamente donne «femminili» ma pure donne «mascoline», come del resto troviamo uo-mini «mascolini» e uomini «femminili». Ciò comporta il cadere dello stereotipo stando a cui i generi dovrebbero essere solo due: dovreb-bero essere invece quattro. E neanche lo stereotipo dei quattro generi resiste, nel momento in cui si contemplano gay, lesbiche, androgini, ermafroditi, travestiti, transessuali, transgender. Il che implica il dover ammettere parecchie essenze: per esempio, limitandoci alla donna, es-senza della donna femminile, essenza della donna mascolina, essenza della donna lesbica, e via di seguito. Le cose si complicano ulterior-mente nel momento in cui riconosciamo l’impossibilità di parlare in astratto di una donna femminile o di una donna mascolina o di una donna lesbica, senza perlomeno considerare la storia, la «razza», la classe sociale, la cultura, l’età delle varie singole donne. Se, a dispetto di tali notazioni, ci preme ancora l’essenzialismo in questo campo, per questioni di coerenza, dobbiamo moltiplicare le essenze, il che comporta però una palese violazione del cosiddetto rasoio di Ockham, ovvero la rinuncia alla parsimonia metafisica, postulando entità forse superflue e incrementando le entità oltre il necessario. L’essenzialismo sembra appellarsi a una misteriosa e stereotipi-ca «essenza» femminile, entro cui manomettere a ogni costo le tante discrepanze che corrono tra le donne in carne e ossa, per negarle o renderle oscure (cfr. Young 1990). Secondo la critica maggiormente efficace dell’essenzialismo (cfr. Butler 1990 – ma si veda soprattutto Dworkin 1974; West, Zimmerman 1987; Witting 1992), la convinzione che tutte le donne siano caratte-rizzate da similarità essenziali permane esclusivamente prescrittiva, nonché utile alle donne mancanti di coraggio, donne che si adattano a svariati stereotipi, per costringersi, magari inconsapevoli, a pensare e agire con la modalità predeterminate. Forse lo stesso concetto di genere non è in effetti un concetto, definibile tramite condizioni sufficienti e necessarie, bensì un ulteriore stereotipo, adatto ad avallare il costrutto che a uomini e donne venga-no riservati ruoli cognitivi, sociali e sessuali, ben differenti. Una volta rigettato l’essenzialismo, e gli stereotipi a esso asso-ciati, si dovrebbe provare a identificare il soggetto cognitivo con un soggetto androgino. Oppure, si potrebbe valutare la rilevanza di un’epistemologia à la Popper, in cui il soggetto viene eliminato, perché a contare non è «il mondo dei soggetti», bensì il mondo delle teorie, dei problemi e delle argomentazioni che ci circoscrivono. Scardinando «l’esplorazione della continuità esperienziale e del-la base strutturale comune tra le donne» (cfr. Bordo 1990), argomen-tazioni come quelle qui avanzate, non intendono negare che le donne rimangono accomunate dal fatto di vivere in società sessiste, maciste, patriarcali. Il mutamento di tali prospettive dipende dalle emozioni, ragioni, azioni delle donne stesse. E, in effetti, vi sono donne che si evolvono, e altre che si illudono di evolversi, tramite bizzarrie di ogni sorta, bizzarrie che rientrano comunque, pur sempre, in soluzioni ste-reotipate (pur sempre semplice non porsi in discussione) e che, nel bene o nel male, perdurano (queste sì) da secoli e secoli. Costoro che si illudono (o abitano addirittura nell’assurda mon-danità delle allucinazioni) non riescono, purtroppo, a fare assegna-mento sull’intersoggettività per cogliere una prospettiva vitale, non soggettiva, non relativa, o relativista, che comporta raffrontarsi con i valori e, al contempo, evitare gli stereotipi di ogni società, perché da ciò dipende una nostra buona «sopravvivenza» cognitiva, priva di 1 trucchi e autoinganni . Nicla Vassallo Università di Genova Dafist via Balbi 4 16125 Genova [email protected] NOTE FINALI 1 Sono grata a Maria Cristina Amoretti per aver letto e commentato il presente articolo, e agli Editori Laterza per la parziale riproduzione di alcune idee e argomentazioni mie e di Pieranna Garavaso, a partire dal volume dedicato alle filosofie delle donne. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Amoretti M.C., Vassallo N. (2015), Against sex and gender dualism in gender-specific medicine, in: U. Mäki, I. Votsis, S. Ruphy, G. 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