DECOLONIZZARE L'UTOPIA
CINQUE SECOLI DI PENSIERO SOVRANO
A CURA DI
SANTO BURGIO E SALVO TORRE
AGORÀ & CO.
«Intelligere» is an International Peer-Reviewed Series
©2017 Agorà & Co.
Lugano
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ISBN 978-88-97461-98-2
SOMMARIO
Santo Burgio, Salvo Torre, Decolonizzare l'utopia
VII
19
Salvatore Vasta, ‘Dalla servitù del corpo alla libertà dello spirito’. Le
forme del tempo nell’Utopia di Thomas More
Manuela D’Amore,Viaggio, etnografia e ordine sociale in Utopia di
Thomas More
29
Santo Burgio, Eboussi Boulaga e l'utopia del controutopico
41
Salvo Torre, Utopia e dominio sul vivente. More e il cuore oscuro della
modernità civilizzatrice
57
Luigi Ingaliso, Il sacro esperimento del Paraguay: utopia o
accomodatio gesuitica?
67
Sabina Fontana, Dalle masse parlanti alle comunità segnanti integrate:
come cambia l’utopia dell’identità
79
Antonino Di Giovanni, Stati Uniti d’Europa. L’utopia di Sturzo e la
comunità internazionale
91
113
Rossella Liuzzo, L’utopia saturnina di imparare l’oblio: A proposito di
Utopía de un hombre que está cansado di Jorge Luis Borges
Agnese Soffritti, Utopia i feticcio? Passeggiate ai margini del tempo nel
Portogallo finesecolare
133
Daniela Potenza, Alfred Farağ e la carovana immaginaria: una
145
commedia sul sogno nasseriano
Antonio Gurrieri, L’utopia del linguaggio in Édouard Glissant
155
EBOUSSI BOULAGA E L'UTOPIA DEL CONTROUTOPICO
SANTO BURGIO
1. L’esordio della filosofia africana contemporanea, a partire dal 1945, anno di
pubblicazione della Philosophie Bantoue di Placide Tempels, fino alla svolta degli
anni Settanta – Sur la «Philosophie Africaine»: critique de l’ethnophilosophie di
Paulin Hountondji è del 1972, mentre la Crise du Muntu di Fabien Eboussi Boulaga appare nel 1977: probabilmente i due testi fondamentali della svolta – si articola in due forme principali di approccio, rispettivamente quello dell’etnofilosofia e
quello della négritude, al problema fondativo delle condizioni di pensabilità di una
‘filosofia africana’: entrambe tentano di percorrere la via della rivendicazione di
una specificità africana di tipo geofilosofico, costruita sul radicamento del pensiero «dans le rapport du territoire et de la terre» (Deleuze e Guattari, 1991, 82); entrambe sono intimamente segnate, come proprio a partire dalla generazione di
Hountondji ed Eboussi Boulaga verrà messo criticamente in chiaro, dal rimanere
sotto il profilo categoriale ‘interne’ all’orizzonte di senso, micidiale e complesso,
istituito dal pensiero coloniale (a partire dal concetto di razza o, più recentemente,
del racisme sans race di cui parla Mbembe). Ad emergere per prima è la modalità
propria dell’etnofilosofia, avviata appunto da Tempels e poi proseguita, per certi
aspetti e indirettamente, dal Dieu d’eau (1948) di Marcel Griaule, ma soprattutto
dalla Philosophie Bantu-Rwandaise de l’Être (1956) di Alexis Kagame. L’etnofilosofia si fonda sulla tesi del ritrovamento di un pensiero propriamente africano
(tratteggiato come una sorta di metafisica delle forze vive) nella tradizione orale
bantu, e dunque sulla legittimità epistemica di trattare le culture indigene come
sistemi filosofici. La seconda modalità identitaria di approccio, quella senghoriana
della négritude, è invece presentata come un elemento di complementarietà rispetto alla pulsione razionalizzatrice del logos bianco – un rapporto emotivo profondo, in certo senso ‘giocoso’, con le forze della natura e del cosmo – e insieme
di rammemorazione, recupero e offerta di valori che il ‘materialismo’ occidentale
(termine da non interpretare in senso strettamente tecnico, ma come designazione
complessiva dell’impostazione tecno-individualista delle società occidentali)
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SANTO BURGIO
avrebbe smarrito lungo la strada della sua esasperata e feroce modernità. Nell’uno
e nell’altro caso, fosse nella forma ancestrale della tradizione, fosse in una supposta specificità antropologica, la terra africana produceva mondi il cui senso ambiva a costituirsi a partire dall’elisione di quell’elemento che invece nella geofilosofia occidentale risultava costitutivo e decisivo: la storicità. Una elisione talmente
profonda che persino la prima critica africana all’etnofilosofia, quella di Paulin
Hountondji, non riusciva del tutto a sottrarvisi. La considerazione di partenza è
comune alla Crise di Eboussi: l'Occidente coloniale, nel trasferire la filosofia negli
spazi del ‘fuori di sé’, ne ha fatto uno strumento tout court politico, una formazione discorsiva e una istituzione generatrici di 'assimilazione'. Entrare nella filosofia,
'farsi' filosofi seguendo il cursus formativo organizzato dalle istituzioni scolastiche, è stata una delle forme più raffinate, in qualunque spazio coloniale sia stata
‘imposta’ questa possibilità, per ‘entrare’ nell'Occidente, 'farsi' occidentali, nella
forma ideologica dell'agognato ingresso nell'arena vasta dell'universalità. Ma se
normalizzare la coazione, reinterpretandola come un cursus necessario di cui accidentalmente il potere si è servito inscrivendolo in una procedura di ristrutturazione gerarchica delle società colonizzate, è stata l’opzione teorica di fondo del
pensiero di Hountondji, cancellando il senso stesso del problema di una filosofia
‘africana’ col riconoscere comunque ed essenzialmente la necessità di entrare nel
racconto universale della filosofia a partire dalla costituzione di un archivio di testi scritti e della relativa comunità di filosofi – ché a questo punto il problema è di
riconoscere che cosa sia ‘filosofia’ e non più quello della sua identità ‘europea’ o
‘africana’ -, anche in questo caso non solo il pensiero africano ha continuato a dimorare all’interno del regime discorsivo occidentale, ma gli si è nuovamente interdetto di tematizzare la propria storicità, non tanto cancellando la violenza storica della sua origine (impossibile attribuire a Hountondji una simile rimozione),
quanto la storicità del pre-muntu e la possibile qualità filosofica della sua storia
culturale. L’ipostasi dell'impersonalità che sottende l’universalità occidentale della
filosofia, anche se considerata come il risultato di una dinamica storica, genera
inoltre secondo Eboussi una seconda elisione, quella del contesto e della sua relazione intima e germinale con il senso del pensare filosofico. L'universalità impersonale, operativa nella 'razionalizzazione' del pensiero e della prassi come 'assimilazione' alla filosofia, costituisce la storia dell'Occidente come «storia filosofante»,
ovvero come autocomprensione della propria vicenda come assoluto storico. La
posizione di Eboussi non corrisponde ad un racconto unilaterale e risentito della
EBOUSSI BOULAGA E L’UTOPIA DEL CONTROUTOPICO
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filosofia occidentale, sfrondato di quelle voci del pensiero critico europeo - LéviStrauss, Foucault, Derrida, Lévinas - che hanno lavorato a decostruire l'invenzione madre dell'Occidente, matrice delle successive invenzioni dell'Oriente (Said) o
dell'Africa (Mudimbe); quello di Eboussi è il racconto della filosofia occidentale
nell'uso che ne ha subito il muntu nell'esperienza storica del colonialismo,
dell'assimilazione, della spoliazione e della privazione. Il racconto della massima
coestensione fra sapere e potere nella storia filosofante attraverso cui l'Occidente
si è costituito come Medesimo autentico rispetto all'eterogeneo spazio delle Alterità inautentiche ed eterodesignate al progresso coatto dell'assimilazione. Da qui
l'avversione di Eboussi (ma anche di Severino Ngoenha) per la negritudine:
l'autenticità complementare è quel resto valoriale marginale che lascia intatti,
anzi conferma e legittima, i rapporti logocentrici e reali definiti dal potere occidentale. Non molto più tenero ne La crise è Boulaga verso il tentativo di fondare
la filosofia africana a partire dalla rivendicazione di una anteriorità di tipo storico.
Le rivendicazioni in particolare della paleontologia (l’origine africana dell’homo
sapiens), dell’egittologia, guidata dalle tesi di Cheikh Anta Diop che collocano nello spazio egizio-nubiano la matrice della cultura greca, e nello specifico della storia della filosofia (le ricerche, ad esempio, sul pensiero etiope dei secc. XVI-XVII),
non mutano affatto lo schema asimmetrico, semplicemente trasferito ad un nuovo
tipo di giudizio storico-morale «fondato sulla valutazione degli averi ereditati»
(Eboussi, 1977, 110). Se peraltro lo schema interpretativo è quello della decadenza,
anche quello che Eboussi chiama culturalismo non cambia le cose: se infatti il successo o la marginalità di una cultura rispetto ad un’altra sono dovute ai valori
fondativi remoti che ne hanno decretato la differenza e il destino, le culture perdenti possono solo rassegnarsi.
2. Il legame tra filosofia e terra che Eboussi mette sotto accusa nelle forme in cui
si viene presentando agli esordi del pensiero africano contemporaneo, non è respinto come tale, a detrimento di un rapporto con la tradizione che in tal caso
verrebbe minato alla radice – ciò che nella sostanza pensa Hountondji – e ne impedirebbe ogni tematizzazione – ciò che invece Eboussi tenta invece di fare. E’
piuttosto l’assunzione critica radicale della logica dell’appartenenza che alimenta
la filosofia dei colonizzatori a costituire l’opzione indispensabile alla ricostituzione di un più corretto rapporto del legame tra filosofia e terra. La costante e secolare pulsione del pensiero coloniale a rendere subordinatamente europeo ogni spa-
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zio controllato fuori d’Europa fa della filosofia uno strumento di guerra e di occupazione, a tal punto da ricomprendere comodamente nel suo orizzonte di senso
anche le rivendicazioni di specificità avanzate da etnofilosofi e pensatori della négritude. La conquista dell’indipendenza politica ha lasciato in piedi l’architettura
coloniale del pensiero entro cui il percorso di autonomia, in quelle proposte teoriche, viene a snodarsi, ancora una volta cancellando l’essenza storica e la natura
costitutiva della discontinuità violenta da cui si è generato il muntu. Non è dun que possibile avviare un pensiero autentico dell’identità africana senza portare
alla luce l’elemento profondo di appartenenza – e di potenza – che alimenta la filosofia del colonizzatore e le sue capacità seduttive; detto in altri termini, come si
può avviare la costruzione di una filosofia africana se si assume il termine filosofia nei termini europei del progetto egemone della modernità, ovvero nei termini
di un orizzonte di senso la cui essenza comporta il disconoscimento di ogni alterità, di ogni rivendicazione di specificità differente dal medesimo? Come può la filosofia africana pensare di costruire il suo profilo originario utilizzando strumenti
che alla radice negano la possibilità di una costruzione altra dal pensiero europeo? Una contraddizione intima, una inibizione serva a cui ci si può iniziare a
sottrarre solo portando alla luce i caratteri costitutivi del progetto filosofico coloniale: scoprendo la filosofia europea come fenomeno di appartenenza, dunque
come «un imperativo di integrazione e di assimilazione» e come «una istituzione
esclusiva e repressiva» (Eboussi, 1977, 145).
3. In questa prospettiva, l’operazione assimilativa della filosofia europea che ha
accompagnato la violenza coloniale va correlata all’apparizione dell’idea di una
tradizione comune all’intero continente africano; una idea di tradizione condivisa
che secondo Eboussi è parte integrante della generale condizione, ideologica e
pratica, di ‘colonizzabilità’ del continente. Tuttavia, se l’essere-insieme nell’evento
del muntu ha una fondazione negativa, Eboussi pensa anche che una restaurazione del potenziale di creatività culturale, scientifica e positiva degli africani non
debba passare per una completa negazione dell’idea di tradizione. Ajari ha accostato la posizione di Eboussi ad alcune pagine de L’An V de la révolution algérienne (1959) di Frantz Fanon, nelle quali si discute il problematico rapporto dei giovani rivoluzionari con il passato dei padri, rapporto spesso invischiato nella ricerca di una rottura radicale che mostrava il suo limite in una «libération du passé
qui se paie de l’illusion de faire comme s’il n’avait jamais existé» (Ajari, 2015,
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125). In effetti, piuttosto che abbandonare ogni riferimento alla tradizione africana, rimpiazzandola con riferimenti egemonici radicati nella scienza o nella cultura europea, Eboussi difende i diritti di una concezione ragionevole della tradizione.
La difficoltà di una tematizzazione ‘autentica’ della tradizione è proprio legata alla determinazione della natura dell’autenticità. E’ proprio il riferimento alla
tradizione, infatti, che appare come un ‘sigillo’ di autenticità, la necessaria garanzia di ogni progetto culturale che non voglia essere immediatamente accusato, a
causa di una eventuale elisione del riferimento alla tradizione, di tradimento e di
alienazione. La tradizione è il perno di una dialettica oppositiva in cui essa rappresenta la speranza della rinascita contro l’artificio repressivo della inventio coloniale, l’esplicarsi della decadenza come effetto del mantenimento implicito della
subalternità e «l’inumanità dei valori di importazione» (Eboussi, 1977, 165). Ma la
subalternità è il più infido dei terreni: l’opposizione fra tradizione e alienazione la
delimita solo all’apparenza, ché il suo funzionamento – potente e latente – si ri produce nello spazio topografico sociale assegnato alla tradizione, «i bassifondi»
(Eboussi, 1977). Tutta la fenomenologia culturale che può ascriversi all’insieme
della tradizione – danze, medicina, religioni, autorità tradizionali – e di conseguenza la società che di quella fenomenologia è responsabile può rivendicare uno
statuto di autenticità, ma all’interno di una configurazione culturale che in un ulteriore livello oppositivo, quello fra tradizione e modernità – laddove il termine
‘modernità’ si offre entro una retorica ideologica che la vuole ‘neutra’, come designante un accesso ad una dimensione di ‘civiltà’ che proprio in quanto oramai
ufficialmente disincagliata dalla relazione primaria coi poteri del colonizzatore, risulta tanto più desiderabile e persino necessaria – la colloca al margine basso dello spazio sociale. Il risultato è che «la tradizione, nella pratica effettiva, è sinonimo di folklore, di sopravvivenze sempre ingenue, più o meno grottesche, a volte
patetiche e commoventi» (Eboussi, 1977). L’autenticità della tradizione splende di
fronte alla modernità imposta, alienante e violenta del colonizzatore; ma si ritrova
declassata a fenomeno inferiore di società e di cultura di fronte alla modernità assoluta, all’universalismo di un insieme essenziale di caratteri progressivi che pretendono di sfuggire – o di ridurre ad un episodio riprovevole ma circostanziato
nel tempo – alla dimensione coloniale. Sotto il profilo della modernità assoluta, la
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SANTO BURGIO
tradizione è ricondotta, sia pur sottovoce, alla triste matrice dell’autenticità barbara: alla dimensione peggiorativa del selvaggio, del primitivo, del feticcio, della
stregoneria, del pagano.
La possibilità allora di ritematizzare la tradizione all’interno di una compiuta
storicità del destino africano traendola fuori dal luogo marginale della folklorizzazione passa per Eboussi attraverso quattro passi teorici fondamentali: una definizione adeguata di cosa esattamente individui il termine ‘tradizione’; una critica
della tradizione ‘ontologizzata’ da un punto vista generale; una critica del medesimo concetto ma dal punto di vista specifico della temporalità; il recupero della
tradizione come risorsa, nelle forme peculiari della memoria vigilante, del modello
di identificazione critica e, infine, del modello utopico.
4. La tradizione, prima della frattura del muntu, è una cattiva monade. Essa coincide con l’universo clanico della tribù, «totalità indiscutibile, che si collega direttamente all’origine»; al di fuori dello spazio tribale non vi è altra umanità, ma solo
«estraneità, barbarie o animalità, salvo il caso in cui le alleanze necessarie alla
propria sopravvivenza si propongano in legami di parentela» (Eboussi, 1977). La
serie genealogica, attraverso gli antenati, garantisce la costante vicinanza all’origine. La tradizione, nella sua forma antecedente al muntu, è una storia unica,
«che non ammette la molteplicità, la pluralità delle storie, dei linguaggi» (Eboussi,
1977). Prima dunque dell'esperienza tragica del Muntu, non vi è alcun vero determinatore comune che riconduca ad una unità culturale dell'Africa: la 'tradizione
africana' come tale non esiste, perché non esiste l'Africano che dovrebbe darvi
origine. Paradossalmente, è l'unità negativa del patire che crea una condizione
condivisa dagli africani: quella che Eboussi chiama «comunità di passione»; questa passività la definisce altresì come «comunità di fato». La storia comune che il
Muntu ha alle sue spalle è la storia di una pluralità cattiva, nella quale la coesi stenza si declina nelle forme del sangue, dell'alleanza, dell'indifferenza e della mutua ostilità. Questo insieme di relazioni decide della relativa facilità della sottomissione e della potenziale debolezza della lotta per le indipendenze. Debolezza
tuttavia differente da quella originaria, in quanto collocabile all'interno dell'unità
negativa del muntu: l'essere-insieme che deriva dalla violenza coloniale, l'essereinsieme nella servitù e nell'espropriazione, rimanda all'avere-in-comune i caratteri della colonizzabilità, quella condizione di privazione autoctona o di carenza collettiva. Prima della violenza, l'avere-in-comune non corrispondeva ad un essere-
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insieme; dopo la violenza, l'essere-insieme è la conseguenza negativa di ciò che
costituiva il contenuto principale dell'avere-in-comune. Essere-insieme come servi è la conseguenza dell'avere-in-comune la colonizzabilità. Il negativo della colonizzabilità e il negativo della colonizzazione, la doppia negazione che definisce il
muntu, lo costituiscono paradossalmente come comunità, rispettivamente, di fato
e di passione, di un avere-in-comune prima e di un essere-insieme dopo che però,
a partire dal punto basso della umanità africana come umanità generata nella sua
unità dalla violenza, chiamano al passaggio dal fato al destino, dalla passività
dell'essere-insieme all'attività dell'agire-insieme - costituendosi come comunità di
destino. Questa, per Eboussi, la condizione che rende pensabile la tradizione, la
condizione della sua dinamicità storica: la condizione del passaggio dalla tradizione come fato che rende possibile la violenza patita, alla tradizione destino, forma
dell'agire collettivo che alla necessità dell'essere insieme fa seguire la libertà del
superamento (una libertà 'situata') del negativo e del fato.
L'avere-in-comune nel tempo prima del muntu è il paradosso originario della negatività africana: l'avere-in-comune l'universo chiuso dell'esistenza tribale è
una comunanza di caratteri che come tale rende impossibile un essere-insieme
che superi i confini della tribù. Al contrario, esso costituisce il primo carattere
della colonizzabilità, il negativo che frammenta la forza collettiva in una costituzione spaziale debole. L'unificazione dello spazio è uno degli elementi rivelatori
della negatività dell'essere-insieme che apre la frattura storica che il muntu è: unificazione che segue criteri militari, amministrativi ed economici completamente
esterni, a volte ignorando, a volte ridisegnando le linee spaziali della sovranità
territoriale in forme che prescindono del tutto dalle sedimentazioni tradizionali.
L'avere-in-comune negativo della colonizzabilità aggiunge la seconda negazione
della colonizzazione realizzata: la potenziale debolezza si tramuta nella realtà
dell'assoggettamento. Sicché l'essere-insieme si è attualizzato, ha subito l'imposizione di una unificazione negativa: «l'essere-insieme è uno stato di fatto, che non
è stato scelto ma imposto con la violenza e l'arbitrio della "storia" o, se si preferisce, con una forza e una costrizione esteriori. Questo essere-insieme è una necessità, una fatalità» (Eboussi, 1977, 167). La comunità di fato, prima forma collettiva
del muntu, non può che assumere a contenuto dell'avere-in-comune non più la
positività debole del pre-muntu, ma la realizzazione concreta delle possibilità ne-
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SANTO BURGIO
gative della colonizzabilità, il negativo della privazione e della vulnerabilità,
dell'alienazione e dell'espropriazione che definiscono l'esperienza tragica del muntu.
A partire dal grado zero del patire, dalla comunità di fato e di passione, si
apre la possibilità - anzi: il passaggio dalla necessità alla possibilità - del superamento dell'esistenza alienata del muntu. Dalla necessità imposta del fato alla possibilità voluta del destino. Il superamento Eboussi lo nomina perciò utilizzando
una seconda figura teologica, dopo aver designato l'esperienza del muntu come
esperienza della Passione: il superamento è una Chiamata, un appello a volere la
possibilità di un agire-insieme che dinamizzi positivamente la negazione doppia
dell'avere-in-comune e dell'essere-insieme, dell'impossibilità del primo e della violenza subita del secondo. Questo agire-insieme ha due caratteri costitutivi: è un
agire-insieme situato, che progetta senza ignorare «condizionamenti, limitazioni e
costrizioni»; ed è un agire-insieme in cui «il destino è la passione soppressa e
conservata, che apre un altro modo di esistenza, facendo passare a un'altra figura,
conferendo un'altra figura, trasfigurando» (Eboussi, 1977, 167). Passione, chiamata, trasfigurazione: tre figure di ritrascrizione teologica cristiana dell'esperienza
del muntu. Ma anche una dialettica senza necessità: il fato è una necessità dal
punto di vista del muntu, ma una possibilità per il colonizzatore; e la figura del
superamento è una possibilità, la risposta volontaria ad una chiamata attraverso
cui l'avere-in-comune e l'essere-insieme si convertono totalmente nell'agire-insieme.
Questo obiettivo di completa conversione - a riprova che l'attività del muntu
è transitata in uno spazio di compiuta storicità - proprio nel rapporto con la tradizione corre però il suo rischio maggiore, quello di perdere questo carattere di
compiuta storicità e di congelarlo in uno pseudo-concetto della tradizione come
un essere-insieme identitario e un avere-in-comune i valori della tradizione, ossia
«le vecchie carenze ritornate in auge o ribattezzate» (Eboussi, 1977, 167). Ontologizzare la tradizione: è il punto principale di distanza e di critica di Eboussi ri spetto all'etnofilosofia e alla negritudine. Le due posizioni di pensiero non vengono nominate esplicitamente, ma il riferimento è del tutto evidente. In primo luogo
c'è la falsa rivalsa nei confronti del pensiero coloniale nella forma di una complementarità che lascia nel concreto intatti i rapporti asimmetrici del dominio: dei
caratteri del pre-muntu (a cominciare dal rapporto profondo con la natura, improntato al rispetto del gioco e non al dominio aggressivo della tecnica) viene
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messa in evidenza «la loro assenza nell'altro», anzi di questa assenza si fa «la
spiegazione dei suoi limiti o meglio ancora dei suoi mali» (Eboussi, 1977, 167).
Questo insieme di caratteri ontologizza la tradizione, schiaccia l’essere-insieme
sull’avere-in-comune ed in questo sta il suo vero tradimento, nel togliere fondamento all’agire-insieme, che non può essere più un progetto, quanto piuttosto
«un insieme di comportamenti etnici, di caratteri indelebili, soggiacenti a ciò che
si fa» [Cr.,168]. Il contenuto dell’azione è tolto, la storicità svuotata e inchiodata
alla ripetizione immobile dell’etno-ontologia; da qui, anche, l’elevazione infausta
ad elemento di essenzialità dell’accidente epidermico dell’esser-neri, corrispondenza nel fenomenico della sostanza di un esser-insieme nuovamente espropriato
della possibilità dell’agire storico. Anche in questo caso è legittimo parlare di
ideologia, nel duplice senso dell’etnico come ontologizzazione di una ‘natura’ antropologica, la natura dell’uomo africano; e di un processo di natura ontologizzato
in una qualità naturale, essenziale a pari titolo delle essenzialità antropologiche,
ma col (triste) vantaggio di una distinzione immediata e irriflessa.
La critica della tradizione ontologizzata ha un suo peculiare momento, in
Eboussi, nella sua osservazione sotto il profilo della temporalità. Il paradosso da
cui muove la libertà del muntu è una forma di amor fati: dall’esperienza
dell’espropriazione e dell’assimilazione all’immagine dell’altro, la rivolta nasce
dall’assumere la tragedia come esperienza unificante dell’essere-insieme,
dall’accettazione della violenza che oppone al creatore del muntu il desiderio di
autonomia della ‘nuova’ creatura storica. Ma la conquista di se stessi e dell’autonomia è anche l’obiettivo dichiarato dell’etnofilosofia e ancor più della négritude,
e nella misura in cui la lotta per l’autonomia impone necessariamente una riflessione sul prima e sul dopo della rivolta e della guerra, ecco che osservare la que stione attraverso il prisma della temporalità chiarisce ancor di più la distanza fra
questi approcci e la visione di Eboussi. La tradizione, per etnofilosofi e teorici della negritudine, si costituisce in termini temporali come il prima del prima,
l’autentico originale, «un’unità che si frammenterà e che si può ricostruire a partire dalle sue schegge. È tutta positività, armonia degli uomini, tra loro e con la
natura. Il prima del prima è il tempo ideale, il tempo mitico, il regno degli archetipi incorruttibili» ((Eboussi, 1977, 169). Niente di più distante dalla prospettiva di
Eboussi che pensare la conquista dell’autonomia come il ritorno ad un passato
mitico di armonia, come un ritorno platonico dai molti all’uno che ingabbia il futuro nel ritorno e nella ripetizione, celandone la natura autentica di possibilità e
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SANTO BURGIO
rimuovendo come cesura e possibilità tragica dell’essere-insieme l’esperienza del
muntu. La tradizione dovrebbe poi governare la transizione alla modernità: ma
l’immediato poi, nota Eboussi, è identico all’immediato prima, «costituito da ‘tradizioni’ molteplici, eterogenee e deviate dall’occupazione e dall’asservimento», in
cui la modernità è «una modernità d’accatto, di imposizione e non di creazione»;
nell’immediato poi, «la nuova libertà porta ancora la livrea dello schiavo» (Eboussi, 1977, 169). Immaginare l’autonomia come un passaggio dal presente al mito
con ancora addosso la livrea dello schiavo è un errore grave, che dimostra una
mancanza di riflessione sui caratteri della colonizzabilità, e che ancora una volta
ignora diritti e doveri della storicità. Eboussi non ha dubbi sulla sincera ricerca
della libertà da parte dei sostenitori dell’etnofilosofia e della négritude, ma il risultato della libertà non è una conquista veloce, o addirittura istantanea: «deve essere un prodotto, il risultato di un agire-insieme, di un’attività che trasforma ciò che
la condiziona. Per darsi un corpo di libertà, bisogna che l’uomo vecchio muoia,
che la forma di schiavo sia praticamente smantellata e distrutta» (Eboussi, 1977,
170).
5. Dunque dalla tradizione declinata come prima del prima, Tradizione Ideale (destinata a spostare sempre in avanti la soglia dell’immediatamente-poi, inevitabilmente al di sotto dell’ideale), mito, paradiso armonico e perduto, non si ricava al cuna condizione accettabile di pensabilità e praticabilità della storia come storia
del futuro (nella sua possibilità e nel suo rischio); ma questo, come già si accennava, non corrisponde in Eboussi alla sua liquidazione, ma alla sua riscrittura alla
luce delle possibilità esistenziali e politiche reali del muntu – anzi la porta per il
reale, per evitare il galleggiamento infausto nell’irrealtà di un passato mitico che
impedisce la storicità del futuro. Del buon uso della tradizione si danno tre significati fondamentali: la tradizione come memoria vigilante; la tradizione come modello di identificazione critica; la tradizione, infine, come utopia critica.
Il gesto dell’autodeterminazione, la decisione per l’amor fati che eleva la Passione a Destino trasfigurando l’essere-insieme della schiavitù nell’agire-insieme
della libertà, costituisce l’identificazione destinale a sé del muntu come sua delimitazione dell’orizzonte di partenza e di comprensione. In questa conversione del
fato in destino, il passato – la tradizione – riveste il suo primo ruolo nella forma
di memoria vigilante. La prima dimensione della memoria del muntu, non può infatti essere che «il ricordo della passione della tradizione: la tradizione sotto il re-
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gime della disfatta e della sua umiliazione» (Eboussi, 1977, 173). Perché vigilante?
Non solo e non semplicemente come naturale memento della violenza subita, ma
soprattutto come consapevolezza – necessaria da rinnovare di continuo – della
perdita, da parte della tradizione, dello stato di innocenza; perdita che non è una
condizione da riferire esclusivamente del passato, ma piuttosto rappresenta,
nell’orizzonte di senso della colonizzabilità, l’esposizione permanente alla possibilità di subire sempre nuove violenze e perdite: e ciò non solo nella forma palese
della violenza subita e della coercizione, ma anche nella forma più sottile e subdola e non meno pericolosa della seduzione, poiché se la tradizione «ha acconsentito
una volta al suo asservimento, può continuare a farlo, perché non c’è “alienazione” se non quando alla costrizione si affianca la seduzione, l’accettazione, la collaborazione oggettiva al proprio avvilimento» (Eboussi, 1977, 173).
Violenza, scacco, fallimento, seduzione, avvilimento, alienazione, espropriazione, coercizione: le esperienze-limite che costituiscono la dolorosa memoria del
muntu non portano però alla luce solo le contraddizioni della tradizione, ma
nell’individuare nel limite un luogo di conquista della storicità, getta luce al contempo sulle forze della disumanizzazione cui lo scacco della tradizione ha ceduto il
proprio spazio. La tradizione come memoria vigilante non è solo rivolta a se stessa (come vigilanza sulla regioni del proprio fallimento), ma è rivolta alla disumanità dell’altro – anche qui: sia alle pratiche disumane subite che a quelle accolte –
per evitarne, del disumano, la ripetizione. La tragica summa della disumanità sintetizzata nel «domare l’uomo, ridurlo alla condizione di oggetto, spogliando il suo
‘mondo’ e la sua personalità individuale e collettiva fino a che si rinneghi o si distrugga da sé, sentendosi di troppo nell’esistenza e nella storia, straniero alla sua
terra, alla sua lingua, al suo corpo» (Eboussi, 1977, 173). L’esperienza del muntu
delineata da Eboussi rappresenta così il punto d’avvio di quella riflessione radicale sull’esistenza e il concetto di negro che da ultimo ha trovato polemica quanto
puntuale espressione nell’homme-marchandise, homme-métal, homme-monnaie al
centro della Critique de la raison nègre (2013) di Achille Mbembe – e anche la Critique riflette sia sulla costituzione discorsiva dell’homme-marchandise che sul rovesciamento del fato in destino che assume in pieno l’esperienza della reificazione
e la volge contro il suo creatore e a favore di una pienezza autodeterminata di
umanità.
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Il rapporto fra vittime e carnefici, tuttavia, non va semplificato: alla vigilanza della
memoria viene affidata anche la cura per quegli elementi di colonizzabilità su cui
la riflessione di Eboussi non manca mai di insistere, quelle debolezze interne che
hanno favorito le condizioni dello scacco e che in parte continuano a perpetrarsi
nella condizione alienata del muntu. Le condizioni basilari di colonizzabilità (africana) sono, per Eboussi, la fissazione dell’orizzonte al mondo tribale, che ha impedito di elaborare un principio più vasto di riconoscimento tra gli uomini nonché
di «discernimento fra chi è amico o nemico» (174); la mitizzazione di principi differenti, conseguenza del precedente, per cui ciò che è estraneo all’orizzonte tribale
viene collocato nel soprannaturale, sia che venga demonizzato sia che venga accettato, e come tale subito come manifestazione del fato; la sostanzializzazione,
per cui tutto è dato sia dagli antenati che da forze superiori, ancora una volta
all’interno di una logica dell’accettazione o della fuga, come insegna la divinazione; questo esser-dato, nel caso di eventi negativi, produce una colpevolizzazione,
attraverso l’attribuzione ad un prossimo, collocato «nel circondario immediato»,
di una macchia la cui cancellazione innesca una catena di esorcismi, ulteriori fallimenti, conflitti interni, auto-distruzione; e infine l’evasione, il fermarsi supino alla
spiegazione degli eventi nella sola logica del fato. La memoria di questi elementi
culturali della colonizzabilità è essenziale: «una tradizione fondatrice deve salvaguardare da sé la memoria di ciò contro cui s’instaura» (Eboussi, 1977, 175); esattamente come la memoria vigilante deve opporsi ad ogni tentativo di anestetizzare la memoria collettiva – una memoria di sangue - con una versione trionfalista
della storia che tenta di occultare la servitù iniziale, o comunque di attribuirla
unicamente a cause esterne, atteggiamento che mina alla radice la lotta per la libertà nella misura in cui non viene in chiaro che «la fatalità non è altro che la
stessa rinuncia a sé e ai propri poteri» (Eboussi, 1977, 175). Ciò significa che la
memoria vigilante non esprime alcun giudizio moralistico sulle condizioni di colonizzabilità, ma sorveglia sulla ripetizione di tali atteggiamenti, sulla loro modernizzazione, il loro trasferimento nelle istituzioni postcoloniali che dovrebbero invece esprimere autodeterminazione e superamento. Si tratta di vigilare su atteggiamenti archetipici, «paradigmi dell’incoscienza, del tradimento o della rassegnazione», la cui permanenza consente il ripetersi della sottomissione e della disuguaglianza, ad esempio nella forma delle «paccottiglie moderne del commercio
diseguale, i nuovi trattati» (Eboussi, 1977, 175).
EBOUSSI BOULAGA E L’UTOPIA DEL CONTROUTOPICO
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6. Attraverso la memoria vigilante, a venire in luce sono i tre aspetti costitutivi
della tradizione: essa è infatti un processo attraverso il quale una identità collettiva si separa dalle altre e si identifica a se stessa, riconoscendo al contempo l’esistenza di ciò che non è se stessa. La tradizione, in questo senso, costituisce il passato come luogo della memoria del processo, affrontato da ogni gruppo umano, di
costituzione di un mondo: «costituire un mondo è inserirsi in un ambiente fisico,
situarvi i suoi membri grazie a una rete di referenze, a un sistema di relazioni, che
distinguendoli da ogni altro ambiente umano, permette loro di riconoscersi tra sé,
di attestare la propria umanità e di trovare senso e fondamento a ciò che sono, a
ciò che fanno» (Eboussi, 1977, 177). Separazione dall’Altro, identificazione nel
Medesimo, riconoscimento dell’Altro. Questi aspetti sono perciò presenti anche
nella seconda funzione che Eboussi attribuisce alla tradizione, la funzione di identificazione. Analogamente all’analisi svolta sulla memoria vigilante, anche rispetto alla funzione di identificazione – la tradizione come elemento fondativo
dell’esser-se-stessi – Eboussi tiene ben fermo alla necessaria distinzione tra tradizione e tradizionalismo, distinzione che mette infatti in gioco il termine chiave
dell’autenticità. Anche se all’origine della tradizione possono rinvenirsi figure di
dèi o di antenati, mantenere il riferimento all’origine è possibile solo all’interno di
una permanente cura per la funzione identificativa della tradizione, quella stessa
funzione che è all’origine dell’origine – delle sue figure: se infatti la tradizione
rappresenta il momento dell’autonomia di una identità collettiva rispetto alle altre
(separazione, identificazione, riconoscimento), essa lo rappresenta in modo permanente non come un esser-se-stessi relegato e ingabbiato nel tempo immemorabile espresso dalle ‘figure’ dell’origine, ma come un esser-se-stessi attuale, che ripete – ripetizione attualizzante di segno evidentemente opposto alla ripetizione
degli elementi di debolezza su cui esercita la sua sorveglianza la memoria vigilante – il gesto dell’origine, la sua costante creatività, che sia essa culturale, politica,
tecnica. La tradizione è dunque la ripetizione nell’attuale dell’origine che accade
quando l’Africa «dialoga direttamente con la natura, quella degli uomini e quella
delle cose, ed elabora istituzioni, saper-fare e simboli» (Eboussi, 1977, 176). Solo in
questo senso la tradizione può dirsi simbolizzare il momento dell’autenticità africana, come tale distinguendosi dall’atteggiamento tradizionalista, che imprigiona
e congela nel passato il momento dell’autenticità, sperando di ritrovarlo non attraverso l’attualizzazione, ma attraverso la contemplazione. Come tale, la tradizione non può che essere pluralista, una felice Babele minacciata da ogni tentativo di
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imporre con la violenza (coattiva e seduttiva, materiale e culturale) un linguaggio
unico, una idea astratta di tempo – che sia dialettica, evoluzione o sviluppo - eliminando la relazione intima di senso fra soggettività e tempo racchiusa nella ripetizione non-mitica ma attualizzante – autentificante - dell’origine, all’interno di
una storia delle attualizzazioni creatrici del tessuto mobile dell’identità che orientano verso un futuro storico. Storicità del futuro che mette conto sottolineare, poiché «all’interno di quadri simbolici determinati, la creatività storica può dispiegarsi indefinitamente. Non si deve dunque opporre tradizione e modernismo». E
dato che il soggetto della tradizione è una identità collettiva nel senso di un es sere-insieme per la costruzione di un futuro comune, la tradizione può dunque
offrire modelli utopici di azione.
7. Precisamente, la tradizione può essere una fonte di utopia critica. Un primo elemento rilevante, nella possibilità che la tradizione si apra prospetticamente al futuro, è il recupero di un aspetto della memoria - la memoria del prima del prima
che nella costruzione della memoria vigilante si era dovuto necessariamente stigmatizzare come caduta nell'irreale - che adesso, dopo la corretta costituzione della
vigilanza e dell'identificazione, può trovare invece un suo recupero attraverso una
delle due forme attraverso cui si esprime la libertà rispetto al futuro: la libertà
d'immaginazione (l'altra è la libertà, come vedremo fra poco, è la rispetto al passato). Immaginare il ritorno ad «un universo armonioso, trasparente, dove tutto ha
immediatamente un senso, dove tutta la realtà è simbolo, dove il riconoscimento
tra gli uomini è immediato e le relazioni tra gli uomni e tra loro e le cose sono
come relazioni di parentela», una volta esclusa la sterile contemplazione nostalgica, ha senso, possibilità e legittimità nella misura in cui «presenti il progetto di un
mondo altro, dove regnino altre relazioni umane, dove la proprietà, il lavoro, il
potere, la cultura si vivranno diversamente, in un modo non disintegrato e disintegrante» (Eboussi, 1977, 178). Per allontanare il rischio potenzialmente sempre
latente che questa positiva spinta all'utopia critica possa scantonare nell'irrealtà, il
passaggio dall'immaginazione al progetto, nel concreto da un insieme di valori sociali sviluppati da piccoli gruppi umani in contesti agrari tradizionali alla possibilità di trascrivere e ritematizzare quegli stessi valori all'intenro di un contesto
completamente differente, ha bisogno della «mediazione del calcolo e della scienza» e della mediazione della politica, che «non trascura alcuna svolta, alcuna resistenza, che si prende cura di togliere gli ostacoli e si assicura i mezzi per combat-
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tere i nemici» (Eboussi, 1977, 179). In altri termini, così intesa, la tradizione può
essere assunta ad utopia critica nella misura in cui è in grado di offrire un altro
sguardo sul reale, una distanza creativa che ribalta l'appiattimento passivo su un
passato scauto a mito, in una prospettiva concreta che nella congiunzione fra libertà d'immaginazione, memoria e mediazione nella concretezza attraverso la
scienza e la politica, può produrre quella distanza creativa in grado di rompere il
fronte della non meno irreale persuasione circa l'unicità del modello di relazioni
sociali, lavoro, potere, cultura, già criticato da Eboussi in sede di rifiuto di una relazione astratta e monolitica col tempo storico, si desse essa nella forma della dialettica o dello sviluppo.
Entro questa distanza si gioca anche l'altro aspetto della libertà del muntu: la
tradizione è infatti una eredità che può essere ripetuta, può essere tradita, può essere trasposta. Tutte e tre queste possibilità impongono un atto di libertà, o il suo
rifiuto: a partire dal presente, la tradizione può essere ripetuta o nella debolezza
tragica della (neo)colonizzabilità o nella forma utopica dell'immaginazione; può
essere tradita nella sua natura di orientamento prospettico o tradita - legittimamente tradita - nella sua irrealtà pseudo-edenica (c'è una terza possibilità, un tradimento minore: essere recitata e venduta ai turisti occidentali più raffinati, fruitori, ad esempio, della messa a reddito scenica della metafisica dogon); può essere
trasposta nell'inanità del tradizionalismo o nella potenzialità critica rispetto
all'ipostatizzazione dell'esistente. In ultimo, è la libertà che discende dall'uso critico dell'utopia quella che Eboussi formula ne La crise; oggi che riflettiamo insieme
sull'Utopia di More, a mezzo millennio di distanza, consapevolmente scegliendo di
sottolinearne la natura fondativa rispetto ad un pensiero che nell'utopia ha progettato il modello coloniale europeo, quella de La crise du muntu, che rispetto alla
linea moreana può ben dirsi una utopia critica e controutopica, appare una lezione storicamente rilevante, al'origine di una svolta fondamentale nella storia della
filosofia africana ereditata e sviluppata nei suoi aspetti essenziali da autori come
Valentin Mudimbe prima e Achille Mbembe e Severino Ngoenha poi; una lezione
lucida, in grado di ritematizzare la tragicità del muntu nei suoi aggiornamenti
neocoloniali contemporanei; e infine una lezione ancora urgente, e non solo per
l'Africa, ma per chiunque non sia acquiescente alle sirene del pensiero unico o a
quelle - assai residuali, in verità - di vaghe rivoluzioni, ma lavori realisticamente
ad unire, nel nome della comune-humanitas, la speranza all'intellezione.
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BIBLIOGRAFIA
Ajari N., 20105. Née du desastre. Critique de l’ethnophilosophie, pensée sociale et
africanité. Interpretationes. Studia philosophica Europeanea, 1: 125.
Deleuze G. e Guattari F., 1991. Qu’est-ce-que la philosophie?. Paris: Minuit.
Eboussi Boulaga ,