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Cartesio e le Neuroscienze
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Leonardo Francesco Stasi
Matricola 1642926
Relatore
Correlatore
Prof. Nunzio Allocca
Prof. Stefano Velotti
A.A. 2019-2020
2
Indice
Introduzione…………………………………………...p. 4
Capitolo I: Cartesio e la censura
I.I Il rapporto tra Cartesio e le autorità del suo tempo……..p. 13
Capitolo II: La dottrina delle due Res
II.I La distinzione reale mente-corpo……………………….p. 34
II.II L’unione mente-corpo………………………………….p. 54
Capitolo III: Dialogo tra Cartesio e le neuroscienze
III. I Damasio e l’errore di Cartesio…………………………p. 101
III.II Panksepp e le neuroscienze affettive…………………..p. 119
III.III Edelman e il fenomeno della coscienza……………....p. 137
Conclusioni……………………………………………...p. 149
Bibliografia……………………………………………..p. 158
3
Introduzione
Questo lavoro di tesi nasce quasi scherzosamente dopo aver sostenuto un esame con il mio
attuale relatore, il professor Nunzio Allocca. Da una battuta reciproca proprio in sede d'esame, ho
sentito l'esigenza di redigere questo scritto, il quale ha come obbiettivo, anche piuttosto
ambizioso, quello di presentare una parte indubbiamente più trascurata nel tempo del pensiero
cartesiano, ovvero la stretta connessione tra res cogitans e res extensa, a discapito di quello che è
comunemente conosciuto come il «dualismo» delle due sostanze.
A tal proposito però è necessaria una premessa fondamentale. In questo lavoro di tesi non si
vuole negare la visione dualistica delle due res, né tantomeno la distinzione di mens e corpus,
bensì tentare di dimostrare come il risultato ultimo di tale idea sia l'unione indissolubile delle due
sostanze, sublimata dal concreto individuo reale. In questo senso parlerò di «dualismo
metodologico».
Andando con ordine, seppur i concetti di «distinzione» e «unione» saranno, naturalmente,
approfonditi e spiegati durante tutto l'arco della tesi, reputo comunque di capitale importanza
chiarirli preliminarmente in questa introduzione.
Innanzitutto, come vedremo nel secondo capitolo, Cartesio introduce la teoria delle due res
all'interno del Discorso sul metodo, nel quale troviamo per la prima volta anche l'enunciazione
del cogito, precisamente nella quarta parte, per l'esattezza egli si esprime sostenendo di essere
«una sostanza la cui intera essenza o natura non è che pensare, e che, per essere, non ha bisogno
di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale»1.
Sin dalla sua prima formulazione, la substance è definita come assolutamente autonoma rispetto
al mondo esterno e indipendente, nel suo statuto ontologico, dal corpo o da qualsiasi altra
condizione non riguardante sé stessa. Proprio su questo concetto di autonomia e indipendenza
1
R. DESCARTES, Discorso sul metodo, in René Descartes. Opere 1637-1649 a cura di G. Belgioioso, Bompiani,
Milano, 2009, p. 61.
4
della res cogitans rispetto al corpo, si baseranno molte delle obiezioni che saranno rivolte alla
filosofia di Cartesio, come verrà analizzato nel secondo capitolo di questa tesi.
La formulazione completa della teoria delle due res la troviamo nelle Meditazioni, dove è più
chiaro anche ciò che è passato alla storia dei commentatori di Cartesio come «dualismo
cartesiano», precisamente nella seconda Meditazione, dove il filosofo sostiene nuovamente di
essere «soltanto una cosa pensante, ossia una mente, o animo, o intelletto, o ragione»2.
Il vero 'distacco' avviene sempre durante la stessa Meditazione, quando il filosofo afferma, senza
indugiare minimamente, di non essere «quella compagine di membra che è chiamata corpo
umano»3.
È interessante notare il fatto che Descartes usi diversi nomi per riferirsi alla res cogitans: mens,
animus, intellectus, ratio; su questo specifico punto tornerò più volte durante la tesi, poiché è a
mio parere fondamentale per far comprendere al meglio cosa effettivamente si intenda nella
filosofia cartesiana per «sostanza pensante».
Un altro punto nodale per la comprensione della nascita dell'interpretazione dualistica, si trova
nei Principi, dove Cartesio scrive:
Quando, infatti, esaminiamo chi mai siamo noi, che supponiamo come false tutte le
cose tutte le cose diverse da noi stessi, vediamo in modo perspicuo che alla nostra
natura non appartiene estensione alcuna, né figura, né moto locale, né alcunché di
simile che sia da attribuirsi al corpo; ma che le appartiene il solo pensiero, il quale
pertanto è conosciuto prima e con più certezza di qualsivoglia cosa corporea; il
pensiero infatti già lo abbiamo percepito, mentre ancora siamo in dubbio riguardo a
tutto il resto4.
2
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 717.
3
Ibidem.
4
R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Opere, op. cit., p. 1717.
5
Ricapitolando, il dualismo cartesiano è quella specifica parte della filosofia di Cartesio nella
quale sono enunciate le differenze tra le due sostanze con una predominanza netta, come
vedremo, della sostanza pensante rispetto alla sostanza estesa, sia dal punto di vista ontologico
che gnoseologico, ed è proprio questa particolare sezione dell'opera cartesiana che ha quasi
totalmente monopolizzato la storia della critica.
Naturalmente, nonostante gli esempi appena riportati, Descartes non ci lascia un uomo «diviso in
due, con la testa da ricollegare al corpo»5, infatti egli tratta, in modo più o meno approfondito,
dell'unione mente-corpo, come si vedrà nel secondo capitolo di questa tesi.
In primo luogo, l'unione mente-corpo, caratteristica peculiare dell’essere umano, la troviamo
nella sesta Meditazione, troppo spesso ignorata, all'interno della quale Cartesio si riferisce al suo
proprio corpo, con la particolare espressione latina «speciali quoddam iure», la quale sta a
significare «per uno speciale diritto». Questo preciso modo di riferirsi al corpo sarà analizzato,
grazie al contributo fondamentale degli studi del prof. Allocca, sempre nel secondo capitolo.
In particolare Cartesio ci tiene a sottolineare il fatto che il principale aspetto per 'vivere' l'unione
come realtà inalienabile è la sensazione:
La comprensione dell'unione mente-corpo, va ricercata nel 'senso', non più considerato
nel suo contenuto rappresentativo, nella sua realtà oggettiva, nella sua dimensione
oggettiva, nemmeno nell'accezione qualitativa, ma sotto l'aspetto oscuro e confuso dei
suoi dati. Per utilizzare un linguaggio moderno, da una ricerca che concerne la verità
della comprensione bisogna passare ad una ricerca della verità del vissuto6
La centralità dell'unione mente-corpo però, trova la sua constatazione massima da parte di
Cartesio, durante le risposte alle obiezioni che fanno da appendice alle Meditazioni, oltre che, in
5
H. GOUHIER, La pensée métaphysique de Descartes, Vrin, Paris, 1962, p. 323.
6
M. GUEROULT, Descartes selon l'ordre des raisons, Aubier, Paris, 1953, t. 2, p. 126, traduzione propria.
6
particolare, nel carteggio con la principessa palatina Elisabeth, in cui è lo stesso filosofo ad
ammettere di «non aver detto quasi nulla» a proposito dell'unione e che le domande su questo
argomento sono quelle che gli possono «essere rivolte con più fondatezza»; naturalmente anche
le risposte alle obiezioni e il carteggio con la principessa Elisabeth saranno trattati
approfonditamente nel secondo capitolo del mio lavoro.
Eppure l'opera in cui maggiormente traspare la stretta e indissolubile unione tra res cogitans e res
extensa sono le Passioni dell'anima. Testo pubblicato un anno prima della morte di Cartesio,
all'interno del quale vengono trattate le passioni umane in modo rivoluzionario per l'epoca e che
postula come sua base proprio l'unione mente-corpo, come è scritto nell'articolo XXX «l'anima è
davvero congiunta a tutto il corpo e che non si può propriamente dire che sia in qualcuna delle
sue parti». Anche le Passioni saranno approfondite nel secondo capitolo e riprese più volte nel
terzo, quando mi occuperò delle relazioni che ho riscontrato tra Cartesio e le neuroscienze.
Proprio sulle neuroscienze vorrei soffermarmi ora.
Esse sono una disciplina relativamente recente, nata nel 1972 da un neologismo coniato dallo
studioso Francis Schmitt, per riferirsi agli studiosi del cervello del suo gruppo di ricerca, i quali
appartenevano alle discipline più diverse.
I tre scienziati che ho scelto di mettere in relazione con Cartesio in questa mia tesi sono: Antonio
Damasio, Jaak Panksepp e Gerald Edelman.
Damasio, scienziato portoghese, è l'autore della teoria, da lui definita, del marcatore somatico,
formulata nell'opera intitolata L'errore di Cartesio, che sarà oggetto di analisi della prima sezione
del terzo capitolo.
La suddetta teoria si basa sull'idea che le emozioni partecipano delle decisioni degli individui, in
modo più o meno diretto, tramite degli impulsi corporei che Damasio definisce, per l'appunto,
marcatori somatici.
Il secondo autore che ho deciso di approfondire è Jaak Panksepp, scienziato americano,
fondatore delle neuroscienze affettive, un particolare ramo dello studio del cervello che si occupa
della vita emozionale degli individui.
7
Panksepp e la sua équipe di ricercatori hanno teorizzato e scoperto i sette sistemi emotivi di base:
partendo dallo studio sugli animali, sono arrivati a scoprire che alla base delle emozioni, vi sono
dei sistemi cerebrali evolutivamente molto antichi collegati a specifiche aree del cervello e
ognuno di essi usufruisce di un neurotrasmettitore ben preciso. La teoria dei sette sistemi emotivi
di base sarà analizzata anch'essa nel terzo capitolo e precisamente nella seconda sezione.
Il terzo e ultimo scienziato del cervello al quale dedicherò un'analisi è Gerald Edelman, premio
Nobel per i suoi studi sul sistema immunitario, è l'autore della TSGN, teoria della selezione dei
gruppi neuronali. Darwinista convinto, egli ha applicato la teoria popolazionistica al cervello e in
particolare ai neuroni, teorizzando la possibilità che gruppi neuronali diversi possano compiere la
stessa funzione in momenti diversi, mediante il fenomeno da lui definito della degenerazione.
Scopo di Edelman è dimostrare che la coscienza è un fenomeno causale dettato da esigenze
evolutive e che scaturisce da determinate reazioni chimiche-fisiche e non un epifenomeno
casuale collegato alle reazioni suddette. Anche Edelman e la sua TSGN saranno analizzati nel
terzo capitolo di questa tesi.
A questo punto sento la necessità metodologica e chiarificatrice di effettuare una seconda
premessa. Scopo di questa tesi non è quello di proporre un Cartesio ´primo neuroscienziato´,
bensì tentare di liberare il filosofo dai pregiudizi portati avanti da un certo filone delle scienze
mediche, dimostrando la possibilità di ripensare alcuni dei risultati ottenuti dalla speculazione
filosofica dello stesso Cartesio, in chiave neuroscientifica.
Prima di concludere questa introduzione esponendo il metodo di ricerca adottato, gli obbiettivi
che mi sono proposto e la struttura della tesi stessa, vorrei parlare di Gilbert Ryle, filosofo
inglese e della sua interpretazione della filosofia di Cartesio, poiché lo reputo paradigmatico di
come sia comunemente intesa la teoria delle due res, oltre che di fondamentale importanza per
evidenziare alcune criticità abbastanza note della stessa.
Ryle scrive nel 1949, The concept of mind, dedicando l'intero primo capitolo proprio alla
filosofia di Cartesio, quella «dottrina ufficiale» come la definisce lo stesso filosofo inglese, che
avrebbe come suo lascito la separazione totale dell'uomo in «due vite» ben distinte tra loro:
8
quella pubblica, esterna, propria del corpo e quella invece interiore e intima, collocata nel tempo
ma fuori da ogni «dove», corrispondente invece alla mente incorporea.
Stando così le cose, vi è l'impossibilità assoluta di un contatto diretto tra le menti, o quantomeno,
la possibilità di conoscere la natura del loro funzionamento, questo poiché sarebbe privilegio
esclusivo della singola mente nella riflessione individuale privata, accedere alla certezza della
«percezione interna»7.
Qualsiasi asserzione su eventi o stati mentali altrui, sarebbero nient'altro che ipotesi assurde, in
quanto impossibile determinare con certezza se verbi come: conoscere, credere, sperare, temere e
tutte le azioni legate alla sfera del mentale, possano essere accessibili all'occhio dell'osservatore
esterno8.
Ryle definisce la dottrina cartesiana come «dogma dello spettro nella macchina», accusando
Cartesio e i suoi seguaci, di aver compiuto un grave errore categoriale, non essendo riusciti a
cogliere l'unità delle funzioni, ognuna collegata all'altra, rispetto a quella che è stata considerata
una difformità sostanziale.
Seguendo l'argomentazione del filosofo inglese, la filosofia cartesiana e con essa la teoria delle
«due vite», scaturirebbe da diversi errori categoriali simili a quelli che commetterebbe una
persona alla quale venisse fatto visitare un campus universitario e insistesse nel chiedere di
vedere l'università oppure lo spirito di squadra in una partita di cricket e altri esempi del genere.
Specificando meglio, l'errore sarebbe nell'aver scisso l'uomo in due concetti distinti e separati,
pur sostenendo che tanto la mente quanto il corpo gli appartengono direttamente.
La genesi di tale errore sarebbe l'insistenza di Cartesio, in quanto uomo di fede, nel voler salvare
l'universo del mentale e con esso dell'anima metafisica, rispetto al meccanicismo, introdotto da
Galilei, che governa il mondo fisico. Il mentale non poteva essere soltanto una varietà del
meccanico9.
7
G. RYLE, Il concetto di mente, Laterza, Roma, 2007, p. 9.
8
Ivi, p. 10.
9
Ivi, p. 14.
9
Ryle insiste portando avanti una critica molto comune all'impianto teorico della teoria delle due
res, ovvero l'impossibilità o comunque l'assurdità della relazione tra mondo fisico e psichico, tra
ciò che si trova nello spazio, ovvero il corpo, e ciò che invece è collocato al di fuori dello spazio
e cioè la mente: «come può un processo mentale, ad esempio il volere, causare movimenti
spaziali quali sono i movimenti della lingua?»10.
Un secondo problema colto dal filosofo inglese è il seguente: se le menti appartengono alla
stessa categoria dei corpi e i corpi sono rigidamente governati da leggi meccaniche, allora anche
le menti devono ubbidire alle medesime leggi e questo causerebbe una grave incongruenza per
quanto riguarda il libero arbitrio. Se infatti il mondo fisico è un sistema deterministico, anche il
mondo mentale deve esserlo, pertanto concetti come responsabilità, scelta, merito, demerito,
risultano inapplicabili, oppure vi è la necessità di ammettere che le leggi governanti il mondo del
mentale, siano solo relativamente rigide11. La critica che ha sicuramente avuto maggior fortuna è
l'idea dello «spettro nella macchina», la quale è anche, in buona sostanza, la visione più comune
che i contemporanei hanno del rapporto mente-corpo nella filosofia cartesiana, ovvero di un
Cartesio come filosofo inconciliabilmente dualista. Tale interpretazione consiste nel considerare
la mens inestesa alla stregua di uno spettro collocato all'interno di una macchina rigidamente e
meccanicamente determinata, coincidente con il corpo esteso e geometricamente configurato.
Partendo dalle problematiche poste da Ryle vorrei fissare gli obbiettivi che mi sono proposto in
questo lavoro di tesi.
Innanzitutto tentare di liberare Cartesio dall'etichetta di filosofo esclusivamente dualista,
mostrando l'importanza della teoria dell'unione mente-corpo all'interno dell'impianto filosofico
cartesiano e di come essa sia stata troppo spesso trascurata dai commentatori, in favore invece di
una più sbrigativa visione di esclusiva contrapposizione delle due res.
Il secondo obbiettivo che mi sono posto, è quello di mettere a confronto il filosofo francese con
tre eminenti studiosi del cervello, già citati precedentemente, con lo scopo di dimostrare che
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 15.
10
l'approccio di Cartesio fu quello di un vero uomo di scienza per l'epoca, e che inoltre, egli non è
il nemico giurato dello studio del mentale.
La tesi è strutturata in tre capitoli. Nel primo analizzerò il rapporto tra Cartesio e le autorità del
suo tempo, in particolare come la natura spiccatamente prudente del filosofo possa aver inficiato
i risultati della sua speculazione intellettuale o quantomeno di ciò che egli ha scelto di affermare
pubblicamente. Approfondirò la relazione di Descartes con la «filosofia delle scuole» e porterò la
travagliata storia del trattato di fisica mai pubblicato durante la vita del filosofo, intitolato Il
Mondo, come esempio paradigmatico della teoria proposta.
Il secondo capitolo ha invece come oggetto la teoria delle due res ed è diviso in due sezioni: la
prima dedicata alla distinzione tra mente e corpo, con una presentazione generale della natura
delle due sostanze; la seconda invece, più corposa, sull'unione. In particolare nella seconda
sezione del secondo capitolo mi occuperò del linguaggio di stampo giuridico utilizzato da
Cartesio all'interno delle Meditazioni, aiutandomi con lo studio che il professor Allocca ha
portato avanti a tal proposito; in secondo luogo saranno riportate alcune delle obbiezioni mosse a
Cartesio riguardanti la relazione e la possibilità di interazione tra la res cogitans e la res extensa;
infine in conclusione di capitolo riporterò alcuni articoli de Le passioni dell'anima, opera a mio
avviso fondamentale per intendere al meglio la teoria dell'unione e del rapporto mente-corpo
all'interno del composto umano.
Il terzo e ultimo capitolo sarà invece dedicato all'analisi delle similitudini da me riscontrate tra
l'approccio cartesiano all'ambito umano e le neuroscienze contemporanee. Esso sarà suddiviso a
sua volta in tre sezioni, ognuna delle quali rivolta ad uno dei tre autori citati in precedenza: la
prima a Damasio e la sua teoria del marcatore somatico; la seconda a Jaak Panksepp e le
neuroscienze affettive; la terza a Edelman e la sua teoria della selezione del gruppi neuronali.
L'ultima parte della tesi sarà dedicata alle conclusioni, verificando se è riuscito di fornire risposte
soddisfacenti alle criticità sollevate da Gilbert Ryle e analizzando i risultati raggiunti durante il
lavoro.
Per quanto riguarda, infine, il metodo di ricerca adottato, mi sono concentrato sullo studio diretto
dei testi e dell'epistolario cartesiano, ho usato come riferimento la traduzione di G. Belgioioso
11
edita da Bompiani con testo latino-francese a fronte e ho ripreso alcuni dei più importanti
commentatori dell'autore delle Meditazioni; lo stesso metodo è stato utilizzato a proposito dei tre
neuroscienziati messi a confronto con Cartesio.
12
Capitolo I: Cartesio e la censura
I.I Il rapporto tra Cartesio e le autorità del suo tempo
Nessuno si è meravigliato mai che Ulisse abbandonasse le isole incantate di Calipso e
di Circe, in cui avrebbe potuto godere di tutti i piaceri immaginabili: che abbia
disprezzato il canto delle Sirene per un paese pietroso e sterile, il paese in cui era nato.
Io confesso che, nato nei giardini della Turenna, abitante ora in una terra non forse
ricca di miele come quella promessa da Dio agli Israeliti, ma probabilmente più ricca
di latte, non posso decidermi con facilità ad abbandonarla per andare a vivere nel
paese degli orsi, fra rupi e ghiacci. Eppure anche quel paese è abitato da uomini, e la
regina che li governa ha, lei sola, più cultura, più intelligenza, più ragione, di tutti i
dotti dei chiostri e dei collegi prodotti dalla feracità dei paesi in cui sono vissuto. Così
mi sono convinto che la bellezza dei luoghi non è necessaria alla saggezza, né gli
uomini sono come gli alberi, che crescono molto bene se la terra in cui vengono
trapiantati è più magra di quella in cui furono seminati12.
Sono parole della lettera del 23 aprile 1649, da Egmond, con cui Cartesio annuncia al segretario
dell'ambasciata francese a l'Aia la propria partenza per la Svezia. Morirà solo pochi mesi dopo, il
12 febbraio del 1650, a causa di una grave polmonite. Descartes fu uomo di mondo, riservato e
amante della tranquillità, tanto che si narra cambiasse costantemente indirizzo onde evitare
«scocciatori»13.
12
R. DESCARTES, Tutte le lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano, 2005, p. 2689.
13
Per approfondimenti riguardo la vita di Descartes: A. BAILLET, La vie de Monsieur Descartes, D. Hortemels, 2
voll., Paris, 1691, trad. it. a cura di L. Pezzillo, Vita di Monsieur Descartes, Adelphi, Milano, 1996.
13
«Nato il 31 marzo 1596 a La Haye in Tourenne» come preciserà lui stesso, veniva da una
famiglia della piccola aristocrazia francese, che gli permise di essere educato presso il collegio
Enrico IV di La Flèche.
I suoi studi si svolsero nell'arco di «quasi» nove anni14, e nove anni in effetti duravano
complessivamente i corsi: sei del percorso umanistico, costituito da studi di grammatica e
retorica, e altri tre anni di studi filosofici15.
Il collegio era stato fondato nel 1604 dal re di Francia in persona, Enrico IV protestante di
nascita, ma poi convertitosi al cattolicesimo. Esso era già famoso naturalmente, ma lo diventerà
ancora di più nei decenni e nei secoli seguenti, grazie al fatto di aver ospitato Cartesio. All'epoca
era davvero una delle migliori scuole d'Europa16: vi studiavano più di un migliaio di rampolli di
famiglie nobili e meno nobili provenienti da tutta la Francia. Il collegio di La Flèche sarà oggetto
di critiche ma anche di nostalgia da parte di Cartesio, rappresenta la culla del pregiudizio
scolastico ma allo stesso tempo l'esempio di un sapere ben organizzato e regolato. Egli non se lo
dimenticherà. La sua idea sarà quella di ricostruire la scienza su basi nuove, ma sapendo che, per
farlo, occorre anche una potente ed autorevole struttura pubblica come quella della compagnia di
Gesù, che negli ultimi decenni aveva aperto più di 150 collegi nella sola Francia17. A La Flèche
Cartesio studierà per periodi alterni, dato che né la data iniziale degli studi né quella finale sono
certe.
Nel 1610 al collegio, l'allora quattordicenne Descartes assiste probabilmente all'esposizione del
corpo di Enrico IV, ucciso da un fanatico cattolico. L'anno successivo esso fu commemorato
presso La Flèche e gli studenti furono invitati a creare dei componimenti in memoria del sovrano
defunto. Tra questi vi è un anonimo sonetto che celebra la recente scoperta da parte di Galileo,
dei satelliti di Giove. Non si sa se il giovane Descartes avesse letto questo sonetto, tale episodio
14
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1369 e p. 1917.
15
E. GARIN, Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma, 2014, p. 13, inoltre per maggiori informazioni riguardo al
curriculum del collegio consultare C. ROCHEMONTEIX, Un collège des Jesuites au XIIe et XIIIe siècle: Le collège
Henri IV de la Flèche, Le Mans, 1889.
16
G. COHEN, Ecrivains francais en Hollande dans la première moitié du XVII siècle, Paris 1920, p. 361 e R.
DESCARTES, Discorso sul metodo in Opere, op. cit., Bompiani, Milano, 2009, p. 29.
17
G. MORI, Cartesio, Carocci, Roma 2010, p. 15.
14
però è sicuramente rappresentativo della vivacità dell'ambiente culturale che circondava il futuro
filosofo18.
Il contesto filosofico in cui Descartes porta avanti le proprie idee è caratterizzato dalla cosiddetta
filosofia «Scolastica». Tale termine derivato da Aristotele, fu sviluppato nel XIII secolo
continuando, in una forma o nell'altra, a dominare gran parte del pensiero europeo per tutto il
periodo tardomedioevale e rinascimentale. Tale forma di approccio allo studio filosofico nacque
essenzialmente dall'incontro e dalla fusione delle dottrine della chiesa cristiana con la filosofia di
Aristotele (noto nel Medioevo come il «Filosofo»). Fu il bisogno di conciliare le esigenze della
«fede» da un lato e della «ragione» dall'altro, a produrre le potenti tecniche argomentative di
analisi che contraddistinguono la Scolastica nelle sue migliori espressioni. Di tale filosofia come
veniva praticata nelle università medievali si devono dunque ricordare due tipiche forme: la
consuetudine di tenere sia dispute formali su argomenti prestabiliti (questiones disputate) sia
dispute aperte (questiones quodlibetales) in cui poteva essere proposto qualsiasi argomento19. Le
doti necessarie per trionfare in queste dispute erano l'agilità mentale, la padronanza della
terminologia logica e la capacità di dispiegare una larga scala di sottili distinzioni al fine di
difendere una posizione dall'accusa di essere o internamente inconsistente o in contraddizione
con qualche autorità riconosciuta. Un ulteriore grande strumento della Scolastica, era il
commento critico erudito dei testi classici, soprattutto quelli di Aristotele, i quali venivano
sottoposti al più minuzioso esame, anche in questo caso con lo scopo fondamentale della
risoluzione delle contraddizioni per porre i testi in consonanza con le Scritture e con le altre
autorità.
Cartesio dichiarava di non avere predecessori e per molto tempo gli studiosi delle sue opere
hanno concordato con lui. Etienne Gilson è stato il primo, all'inizio del Novecento, a porsi
seriamente il problema del retroterra culturale del cartesianismo 20, ritrovandone i germi proprio
18
Opinioni discordanti sono portate avanti da G. Mori e da J. Cottingham. Il primo in G. MORI, op. cit., p. 16, si
mostra incerto riguardo alla possibilità che il giovane Descartes avesse ascoltato la lettura del poema in questione.
Più sicuro invece il secondo in J. COTTINGHAM, Cartesio, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 9-10.
19
J. COTTINGHAM, op. cit., p. 14.
20
E. GILSON, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris, 1930 e
E. GILSON, Index scolastico-cartésien, Vrin, Paris, 1979.
15
nella filosofia Scolastica. Ciò però non deve indurre a sottostimare la forza e l'originalità del
pensiero cartesiano, attestate anche dall'accoglienza non certo benevola da parte degli scolastici
seicenteschi.
Per comprendere che tipo di rapporto il filosofo francese avesse con la filosofia de «l'Ècole»,
sono paradigmatiche due lettere scritte dallo stesso Cartesio: la prima del 14 giugno 1637
indirizzata a Padre Noel oppure a Padre Fournet21 e la seconda a Padre Mersenne di qualche anno
più tardi, esattamente datata 22 dicembre 1641.
Mio reverendo Padre, io non penso che vi ricordiate i nomi di tutti gli scolari che avete
avuto nei ventitré o ventiquattro anni durante i quali avete insegnato a La Flèche. Non
per questo ho voluto cancellare dal mio ricordo gli obblighi che ho per voi, né ho
perduto il desiderio di riconoscerli, anche se non ho altra occasione per dimostrarlo
oltre quella di offrirvi il volume che ho fatto stampare nei giorni scorsi, e che voi
riceverete con questa lettera, come un frutto che vi appartiene e del quale avete gettato
i primi semi del mio spirito, a quel modo che debbo ai membri del vostro ordine il
poco che io so delle buone lettere22.
Questo invece il testo della seconda:
Vi prego di non temere per me; vi assicuro che, se io ho qualche interesse a essere in
buoni rapporti con loro [i Gesuiti], costoro non ne hanno forse meno a conservare
buone relazioni con me e a non opporsi ai miei disegni. Se lo facessero, mi
21
Il dibattito è importante per provare a definire con chiarezza gli anni in cui Cartesio si trovava a La Flèche, in ogni
caso il testo a cui faccio riferimento è R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 401, che attribuisce Padre Noel
come destinatario.
22
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 401.
16
obbligherebbero a esaminare qualcuno dei loro corsi, e a farlo in modo tale da coprirli
di vergogna per sempre23.
Da questi due esempi è facile evincere due caratteristiche dell'atteggiamento di Cartesio: da un
lato vi è la riconoscenza verso la Scuola e quel desiderio di non contraddire l'autorità
ecclesiastica, che maggiormente sarà testimoniato nel prosieguo della trattazione; dall'altro la
sicurezza nella propria Filosofia, la quale per necessità deve andare in opposizione a quella
dominante.
Fin dalla sua gioventù, Descartes viene a contatto con la Scolastica, durante gli studi a La Flèche
egli legge Tommaso e i manuali allora in voga nelle scuole24. I primi dissidi tra il giovane
Cartesio e la filosofia Scolastica li ritroviamo già negli appunti privati consegnati al suo amico e
maestro Isaac Beeckman25 riguardanti questioni di fisica, redatti nel 1619-1620 composti con lo
stesso spirito e metodo che poi animeranno il Mondo e i Principi. Il Cartesio 22enne rifiuta la
visione aristotelico-scolastica dell'intervento di «forze occulte» nella spiegazione dei fenomeni
naturali, per abbracciare un atteggiamento più vicino a quello scientifico-sperimentale che si
stava affermando durante il periodo, cosiddetto, della «rivoluzione scientifica». Egli vuole
approcciare le questioni della fisica mediante il metodo dei matematici 26. Proprio la questione del
«Metodo» accompagnerà Descartes per gran parte della sua ricerca filosofica, iniziando dalle
Regole, composte per il semplice uso privato, fino al Discorso, concepito per gli intelletti più
semplici e alla cui lettura possono avvicinarsi perfino le donne 27. «Cosa posso conoscere? In che
modo posso conoscere? Che tipo di conoscenza posso ottenere?» in questo senso si può
considerare Cartesio come se fosse il padre di molti autori passibili di essere etichettati con
23
Ivi, p. 1553.
24
Per approfondimenti riguardo gli studi di Descartes e il suo rapporto con il sapere accademico vedere E. GILSON,
Études sur le rôle de la pensée médiévale, op, cit., inoltre R. ARIEW, Descartes and the last scholastics, Cornell
University Press, London, 1999.
25
Riguardo al rapporto con Beeckman vedi G. MORI, op. cit., pp. 19-26.
26
R. DESCARTES, Discorso sul metodo in Opere, op. cit., p. 40 e Principi della filosofia, p. 1835.
27
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 549.
17
l'aggettivo di cartesiani, indipendentemente dalla loro concordanza o meno con la dottrina del
filosofo francese, come ad esempio Leibniz, Locke o Kant.
Tornando al rapporto con la Scolastica, nell'approccio del primo Descartes vi è già un netto
distacco rispetto alle posizioni della Scuola, basti considerare, a tal proposito, le definizioni che
egli utilizza all'inizio della sua dimostrazione di ciò che comunemente viene definita la
«gravitazione di un corpo». Per intendere il significato della parola «gravitare», bisogna
immaginare che i corpi pesanti si dirigano verso il basso e vanno considerati all'inizio del loro
movimento. La forza d'impulso che questo movimento riceve nel primo istante rappresenta il
peso, che non bisogna confondere con la forza durante il movimento nella sua totalità, questa
seconda, infatti, può essere totalmente distinta dalla prima. Pertanto si dirà quindi che «la
gravitazione è la forza con cui la superficie più vicina messa sotto al corpo pesante viene
premuta da quello». Come possiamo notare, qui abbiamo già qualcosa di originale per il tempo.
Non ritroviamo alcuna definizione qualitativa di stampo aristotelico-scolastico, bensì un
approccio esclusivamente quantitativo e rigoroso nell'impostazione: i corpi non vengono fatti
tornare al loro «luogo naturale»28, né viene utilizzato qualsiasi altro tipo di escamotage occulto.
Cartesio non è assolutamente soddisfatto delle spiegazioni verbali portate avanti dalla fisica della
Scuola, semi-spirituali e semi-materiali.
La concezione che Descartes maturerà intorno alla natura sarà di tipo meccanicistico, definibile
essenzialmente nella duplice riduzione della materia ad estensione e dei fenomeni naturali a
movimenti locali. Essa si inquadra in un vasto orientamento di pensiero che si delinea e si
sviluppa nella prima metà del XVII sec., cavalcando l'onda entusiastica della rivoluzione
scientifica, che ha portato, non solo a importanti scoperte, ma soprattutto ad un modo totalmente
nuovo di intendere la natura, il cosmo e più in generale la realtà che circonda l'uomo29.
Per avere un'idea più precisa del pensiero di Cartesio riguardo al mondo fisico e della materia, è
necessario rivolgere l'attenzione sul suo monumentale trattato filosofico-fisico che è i Principi
28
ARISTOTELE, Fisica, in Opere, a cura di A. Russo, vol. III, Laterza, Bari 1991, p. 207.
29
Per approfondimenti riguardo la rivoluzione scientifica vedi P. ROSSI, La nascita della scienza moderna in
Europa, Laterza, Roma, 2005.
18
della filosofia, opera pubblicata in latino nel 1644. Il testo in questione si divide in quattro parti,
ognuna composta di un gran numero di brevi sezioni o articoli, 504 in tutto. La Prima parte
presenta le dottrine metafisiche, la Seconda i principi della fisica, la parte Terza fornisce una
dettagliata spiegazione basata su questi ultimi e della natura del mondo fisico, la parte Quarta,
infine, tratta anch'essa di un gran numero di fenomeni fisici. Altre due parti che non furono mai
ultimate avrebbero dovuto trattare rispettivamente di animali e piante, e dell'uomo30.
La cosa interessante da notare, è che il contenuto dei Principi per la maggior parte è una
riformulazione di materiale che Cartesio aveva scritto in origine per il suo trattato, poi soppresso,
intitolato Il Mondo31. e come Il Mondo, i Principi rifiutano esplicitamente molte delle dottrine
consacrate dalla Scolastica: ad esempio non vi è nessuna distinzione tra fenomeni terrestri e
fenomeni celesti, infatti gli stessi principi adottati per i primi, ovvero quelli matematici e
meccanici, vengono adoperati anche per questi ultimi e cioè per spiegare sia ciò che vediamo
sulla terra, sia i movimenti del Sole, delle stelle e di tutti i pianeti. Di nuovo viene stigmatizzata
ed esclusa dalla fisica la ricerca di qualsiasi tipo di causa finale:
non ci fermeremo neppure ad esaminare i fini che Dio s'è proposto creando il mondo,
e respingeremo del tutto dalla nostra filosofia la ricerca di cause finali, perché non
dobbiamo tanto presumere di noi stessi da credere che Dio stesso ci abbia voluto
mettere a parte dei suoi consigli32
Anche la tradizionale concezione geocentrica del sistema solare viene radicalmente rifiutata da
Descartes: «l'ipotesi di Tolomeo» osserva Cartesio «è ordinariamente respinta da molti filosofi,
30
J. COTTINGHAM, op. cit., p. 28.
31
Per approfondimenti su Il Mondo vedi R. DESCARTES, Opere postume 1650-2009, a cura di G. Belgioioso,
Bompiani, Milano, 2009, ancora R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., in particolare il carteggio che fa riferimento
al periodo 1628-1635, inoltre il prosieguo di questa tesi.
32
R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Opere, op. cit., p. 1731.
19
essendo contraria a molte osservazioni»33. Cartesio riesce comunque ad aggirare il tema
pericoloso della controversia (se la terra si muovesse o meno realmente), proponendo una diversa
concezione essenzialmente relativistica del moto stesso: dire che A è in moto e che B è fermo,
equivale ad affermare che si verifica un trasferimento di materia dalle prossimità di un corpo a
quelle di un altro corpo, in relazione ad un determinato punto, che si assume come riferimento
convenzionale34. In tal senso, dice Cartesio, «non si può propriamente dire» che la terra si
muova. Nonostante tale manovra al lettore non resta alcun dubbio: Cartesio sostiene apertamente
una teoria del sistema solare come gigantesco vortice di particelle in rapidissimo movimento, con
il sole al centro35.
In particolare nella seconda parte troviamo molte approfondite indagini filosofiche sulla natura
della materia.
Cartesio rifiuta categoricamente la visione scolastica, secondo cui caratteristica essenziale dei
corpi sarebbero i qualia. Egli lo fa in nome del principio di evidenza e certezza, ma soprattutto
per dare un solido fondamento alla fisica, scrive infatti nei Principi:
[...] la natura della materia, o del corpo preso in generale, non consiste in questo, che
esso è una cosa dura, o pesante, o colorata, o che tocca i nostri sensi in qualche altro
modo, ma solo in questo, che esso è una sostanza estesa in lunghezza, larghezza e
profondità. Per quanto riguarda la durezza, non ne conosciamo altro, per mezzo del
contatto, se non che le parti dei corpi duri resistono al movimento delle nostre mani
quand'esse l'incontrano; ma se, tutte le volte che portiamo le nostre mani verso qualche
parte, i corpi che sono in questo luogo si ritirassero piuttosto che si avvicinino, è certo
che non sentiremmo mai durezza; e, nondimeno, non abbiamo alcuna ragione che ci
possa far credere che i corpi che si ritirassero in questo modo perderebbero per questo
quello che li fa corpi. Donde segue che la loro natura, non consiste nella durezza [...] e
33
Ivi, p. 1843.
34
Ivi, p. 1851.
35
Ivi, p. 1853.
20
nemmeno nella pesantezza, nel calore e in altre qualità del genere; poiché se
esaminiamo qualunque corpo, noi possiamo pensare che esso non ha in sé nessuna di
queste qualità, e tuttavia conosciamo chiaramente e distintamente ch'esso ha tutto
quello che lo fa corpo, purché abbia estensione in lunghezza, larghezza, e profondità;
donde segue anche che, per essere, non ha bisogno di esse in nessun modo, e che la
sua natura consiste in questo soltanto, che esso è una sostanza che ha estensione36.
Da questo passo è facile intendere come Descartes si stia riferendo a ciò che rende la materia
tale, al di fuori di tutte le qualità aggiuntive o dalle circostanze particolari in cui essa può trovarsi
nel mondo. L'espressione specifica «corpo preso in generale» è paradigmatica a tal proposito e
chiarisce in toto l'atteggiamento cartesiano. Egli è alla ricerca di un chè di stabile ed immutabile,
che sia estraneo alla fallace conoscenza sensibile e che debba essere passibile di dimostrazioni
matematiche:
[...] confesso francamente qui che non conosco altra materia delle cose corporee che
quella che può essere divisa, figurata e mossa in ogni sorta di modi, cioè quella che i
geometri chiamano quantità, e che prendono per oggetto delle loro dimostrazioni: e
che non considerano in questa materia che le sue divisioni e le sue figure e i suoi
movimenti; ed infine che, riguardo a questi, io non voglio nulla ricevere per vero, se
non quello che ne sarà dedotto con tanta evidenza, da potere tener luogo di una
dimostrazione matematica. E poiché in tal modo è possibile spiegare tutti i fenomeni
della natura [...] ritengo che non si debbano ammettere, e neppure desiderare, altri
principi della fisica 37.
Qualità sensibili come la durezza o il colore, di conseguenza, non hanno posto nel modello
cartesiano della conoscenza scientifica. Innanzitutto, non vi è un modo per esprimerle in termini
36
Ivi, pp. 1775-1777.
37
Ivi, p. 1835.
21
quantitativi: sono qualia non dei quanta, il loro scopo è dirci il «come» qualcosa è, ma non
risultano suscettibili di misurazione semplice e precisa come lunghezza, larghezza e profondità.
In secondo luogo, Cartesio afferma inoltre che anche se adoperiamo queste definizioni
qualitative in senso molto generale, in realtà non sappiamo mai esattamente cosa vogliamo
intendere con esse. Possiamo dire che un corpo è p̒ esante̓, ma non sappiamo, con ciò, nulla della
natura di ciò che chiamiamo p̒ esantezza̓38. Analogamente per i colori:
[...] il colore, e tutte le altre sensazioni di questo tipo, sono percepite in modo chiaro e
distinto, quando sono considerate solo appunto come sensazioni, ovvero pensieri. Ma
quando si giudica che esse sono delle cose, esistenti al di fuori della nostra mente,
allora non possiamo intendere in nessun modo che razza di cose siano39
In ogni caso la questione dei qualia sarà ripresa più avanti, precisamente nel terzo capitolo di
questa tesi.
Per quanto riguarda il movimento, invece, il contrasto è ancora più netto, scrive infatti Cartesio,
sempre nella parte II dei Principi:
[...] esso è la traslazione di una parte di materia, ossia di un corpo, dalla vicinanza di
quei corpi che la toccano immediatamente e sono considerati come in riposo, alla
vicinanza di altri. [...] Dico traslazione, non forza o azione che trasporta, per far vedere
che il movimento è sempre nel mobile, e non già nel motore [...] e dico che è soltanto
un modo, non una cosa sussistente, così come la figura è un modo della cosa figurata,
e la quiete della cosa in quiete40
38
Ivi, pp. 1213-1243.
39
Ivi, p. 1761.
40
Ivi, p. 1795.
22
Da questo estratto è possibile evincere la difformità tra la dinamica cartesiana e quella
aristotelica tanto cara agli scolastici. Quest'ultima si basava sul principio di Aristotele che «ciò
che è in movimento deriva il suo movimento da altro»41 che troviamo stabilito nella Fisica dello
stagirita. Proprio contro tale massima va intesa la frase di Cartesio «traslazione, non forza o
azione che trasporta, per far vedere che il movimento è sempre nel mobile, e non già nel motore»
che richiama in modo specifico il concetto di movimento aristotelico. Descartes difatti colloca il
movimento nel corpo mosso e non nel motore, intuendo in un certo senso il potenziale cinetico
dei corpi.
Un'ulteriore differenza da evidenziare è nella concezione della quiete e del moto tra i due modi di
filosofare. Molto brevemente, Cartesio elimina quella superiorità ontologica della quiete presente
nella filosofia aristotelica, e dunque anche scolastica, per ridare dignità al moto, il quale va inteso
in modo uniforme tanto sulla terra quanto nei cieli, opponendosi al pensiero aristotelico della
perfezione del moto circolare degli astri. Inoltre la quiete non è più intesa, in aperta polemica con
la fisica aristotelica, come una «semplice privazione del movimento», bensì come una qualità
positiva dei corpi42.
Abbandonando la fisica cartesiana e le divergenze con gli scolastici, farò ora un breve accenno al
rapporto di Cartesio con la logica aristotelica e con la teoria del sillogismo, quell'inattaccabile
sistema per stabilire la validità delle argomentazioni, che rappresenta uno dei più importanti
contributi di Aristotele al pensiero occidentale.
Cartesio parla sempre con disprezzo della «logica delle scuole» contrapponendo ad essa il suo
nuovo sistema per insegnare la verità:
41
ARISTOTELE, Fisica, in Opere, op. cit., p. 207.
42
R. DESCARTES, Il Mondo, in Opere postume, op. cit., pp. 255-271.
23
[...] mi accorsi che per quanto riguarda la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte
delle sue regole servono a spiegare agli altri le cose che si sanno [...] o a parlare senza
discernimento di quelle che non si sanno, piuttosto che a imparare43.
Egli espelle dal suo metodo il sillogismo, e in ciò si allinea a tutta la rivoluzione scientifica e a
larga parte del pensiero moderno. Qual è il difetto del sillogismo, che lo rende così poco utile per
la scienza? Per il filosofo francese, esso è sterile dal punto di vista conoscitivo, il sillogismo si
regge su premesse generali date per scontate senza curarsi di dimostrarne la corrispondenza al
vero:
Ma affinché appaia più evidente che quell'arte di ragionare (i precetti coi quali i
dialettici stimano di dirigere la ragione umana) non contribuisce assolutamente niente
alla conoscenza della verità, è da avvertire che i dialettici non possono formare con
arte nessun sillogismo che concluda il vero, se prima non abbiano avuto il contenuto di
esso, e cioè se non abbiano conosciuto già prima quella verità che in esso viene
dedotta. Di qui appare manifesto che mediante tale procedimento essi stessi non
vengono a conoscere niente di nuovo, e che pertanto la dialettica comune è in tutto e
per tutto inutile a chi brama indagare la verità delle cose, ma soltanto può giovare
talvolta ad esporre agli altri più facilmente le ragioni già conosciute, e perciò va
trasferita dalla Filosofia alla Retorica 44.
Bisogna dunque sciogliere il sapere umano dal legame con quello sillogistico, che vincola la
ragione all'esposizione e alla chiarificazione di ciò che si sa già, precludendo ogni progresso alla
43
R. DESCARTES, Discorso sul metodo, in Opere, op. cit., p. 43.
44
R. DESCARTES, Regole per la direzione dell'ingegno, in Opere postume, op. cit., p. 741.
24
conoscenza45. Il sillogismo appartiene piuttosto alla retorica, cioè all'arte di persuadere e non ha
cittadinanza nella scienza, che si pone come scopo l'arricchimento del patrimonio conoscitivo
umano.
Un esame più attento comunque rivela che Cartesio non muove alcuna obiezione al sillogismo
aristotelico in quanto tale «poiché me ne sono servito quante volte ce n'è stato bisogno»46,
principale oggetto della critica del filosofo è il modo in cui il sillogismo veniva adoperato nelle
scuole47. Cartesio usa di frequente per definire la logica scolastica il termine «dialettica» e
«dialettici» coloro che ne facevano uso48, con tali definizioni non vuole intendere che il
ragionamento è internamente inconsistente, ma sottolineare che esso viene impiegato nella
ripetizione di luoghi comuni, per imporre il proprio punto di vista in una disputa piuttosto che in
qualche serio tentativo di estendere le nostre cognizioni. La logica scolastica era di fatto
divenuta, agli occhi di Descartes, un sistema quasi completamente chiuso, un elaborato gioco nel
quale la capacità di trionfare dipendeva più dall'abile manipolazione dei termini utilizzati che
dall'apertura intellettuale alla ricerca della verità.
Come è facile intuire, l'atteggiamento di Descartes nei confronti delle verità raggiunte dalla
filosofia delle scuole, gli costò diversi oppositori e anche problemi di tipo editoriale, oltre che
una forte censura, infatti le opere cartesiane entreranno a far parte dell'indice dei libri proibiti
dalla chiesa nel 1663 49, qualche anno dopo la morte del filosofo.
Per dare una dimensione e un'idea che i contemporanei avevano riguardo le opinioni del filosofo
francese, è importante citare la condanna del sistema cartesiano pronunciata nel 1642 dal Senato
dell'università di Utrecht, dove le lezioni del discepolo di Cartesio, Regius, avevano provocato
l'ostilità delle autorità:
45
Ivi, pp. 717-723 e pp. 737-741, inoltre si può consultare S. GAUKROGER, Cartesian Logic: an essay on Descartes's
conception of inference, Oxford University Press, London, 1989, pp. 6-25.
46
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 1373.
47
R. DESCARTES, Colloquio con Burman, in Opere postume, op. cit., p. 1301.
48
R. DESCARTES, Regole per la direzione dell'ingegno, in Opere postume, op. cit., p. 741 e R. DESCARTES, Discorso
sul metodo, in Opere, op. cit., p. 43.
49
C. CARELLA, Roma filosofica nicodemita libertina. Scienze e censura in età moderna, Agorà & Co., Lugano,
2014, p. 73, per ulteriori informazioni riguardanti la storia della censura delle opere cartesiane, Ivi, pp. 74-83.
25
[…] professori rifiutano questa nuova filosofia per tre ragioni. In primo luogo, è
contraria alla filosofia tradizionale che è stata finora insegnata nelle Università di tutto
il mondo e ne distrugge le fondamenta. In secondo luogo, allontana i giovani da questa
sana e tradizionale filosofia, impedendo loro di perfezionare la loro istruzione; dato
che, una volta che abbiano cominciato a credere nella nuova filosofia e nelle sue
presunte verità, non saranno più in grado di comprendere i termini tecnici usati
comunemente nei testi degli autori tradizionali e nelle lezioni e dispute dei loro
maestri. Ed infine, dalla nuova filosofia scaturiscono molte opinioni false ed assurde, o
possono essere facilmente da essa dedotte dai giovani, opinioni che sono in conflitto
con altre discipline facoltà, e soprattutto con la filosofia ortodossa 50.
Da tale denuncia è possibile evincere come i dottori delle università accusassero Cartesio di aver
attuato un attacco alle fondamenta della «filosofia ortodossa», inoltre che la sua «nuova
filosofia» distraesse e allontanasse i giovani dalla «sana e tradizionale filosofia» in quanto non
sarebbero più stati in grado di comprenderne i tecnicismi, infine che la filosofia cartesiana
insegnasse delle verità «false ed assurde».
Uno degli esempi più famosi del difficile rapporto tra Descartes e le dottrine accademiche è il
cosiddetto ̒affaire Regius̕ e con esso la difesa cartesiana dalle accuse appena citate dell'Università
di Utrecht che approfondirò nel secondo capitolo, quando mi occuperò di alcune delle numerose
obiezioni che furono mosse a Descartes dai suoi contemporanei.
Ritornando al tema centrale, come esempio paradigmatico della fantomatica prudenza di
Descartes e del suo atteggiamento nei confronti delle autorità ecclesiastiche, basta riportare la
storia dell'opera, mai pubblicata dallo stesso filosofo, intitolata Il Mondo. L'idea di Cartesio era
quella di scrivere un trattato generale che avrebbe spiegato «tutti i fenomeni della natura, cioè
l'intera fisica»51. Nel 1633 quest'opera era pronta per la pubblicazione. La prima sezione intitolata
50
R. DESCARTES, Lettera a Dinet, in Opere, op. cit., p. 1463.
51
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 87.
26
Mondo avrebbe dovuto trattare delle origini e della struttura dell'universo fisico, toccando
argomenti come il calore, la luce, il fuoco e la natura delle stelle e dei pianeti, le comete e la
terra; una sezione conclusiva, nota oggi come il trattato L'Uomo52, avrebbe dovuto concernere la
fisiologia umana.
Cartesio adotta nel suo Mondo il dogma di ogni meccanicismo, ovvero la distinzione tra le
caratteristiche qualitative dei corpi percepite dalla sensibilità umana (colori, sapori, odori,
sensazioni tattili e uditive) e le loro caratteristiche quantitative e misurabili (figura, dimensione,
movimento, posizione reciproca), riannodando i legami con i maggiori rappresentanti della
rivoluzione scientifica, tutti concordi nell'opporsi alla dottrina scolastica delle «specie», secondo
cui gli oggetti invierebbero delle rappresentazioni di sé stessi al nostro apparato sensoriale, di per
sé capace di riceverle. Il solletico, come aveva scritto Galilei ne Il Saggiatore53, non è una
proprietà né della piuma né della mano, ma della mente di chi lo soffre e questo vale in generale
per tutte le sensazioni. Nel Mondo Cartesio riprende lo stesso esempio per sottolineare come le
nostre percezioni siano diverse dagli eventi fisici che le causano: «le idee di solletico e di dolore
che si formano nel nostro pensiero in occasione del contatto con corpi esterni non hanno nessuna
somiglianza con questi»54.
Nel Mondo Cartesio si affida infatti alle leggi da lui dedotte per spiegare integralmente i
fenomeni osservabili sulla terra, rinunciando ad ogni forza occulta, simpatia o antipatia cosmica,
qualità reali o forme sostanziali, ma anche per dar conto dell'origine dell'intero universo e in
particolare del sistema solare, un passaggio, questo, quantomai ardito55. Esso richiede anche una
retorica espositiva appropriata. Quindi ecco che il lettore del trattato scientifico, si vede
improvvisamente catapultato in una «favola» che Cartesio inizia a raccontare fin dal capitolo sei
dell'opera.
52
R.DESCARTES, Il Mondo, in Opere postume, op. cit., pp. 363-507.
53
G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere di Galileo Galilei, a cura di F. Flora, Ricciardi Editore, Roma, 1953, p. 109.
54
R. Descartes, Il Mondo, in Opere postume, op. cit., p. 219.
55
Ivi, pp. 255-299.
27
Di «favola» si tratta naturalmente soltanto per motivi prudenziali, occorre rassicurare professori
e teologi di ogni confessione. Non è questione qui del mondo vero creato dal Dio delle Scritture
nei giorni della Genesi, ma di un mondo fantastico che Cartesio colloca ironicamente negli
«spazi immaginari» della fisica scolastica. Il mondo in cui si svolge la «favola» è un mondo
governato soltanto da leggi meccaniche, in cui non si fanno miracoli e tutto dipende dal
movimento delle parti di materia; alla fine del racconto, però, il lettore avveduto scoprirà che i
due mondi, quello fiabesco e quello reale, coincidono e che, l'uno non è che lo specchio
dell'altro. L'uso della «favola» non indica dunque affatto un presunto carattere ipotetico della
fisica cartesiana ma soltanto un'efficace strategia retorica, peraltro del tutto trasparente e
consapevole56.
Nel giugno 1633, tuttavia, i progetti di Cartesio subirono una brusca battuta d'arresto, quando
l'inquisizione Romana pubblicò la condanna formale della teoria galileiana. Nell'anno precedente
era stato pubblicato a Firenze il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e
copernicano, al cui interno venivano attaccate alcune dottrine aristoteliche e vi erano proposti in
gran numero risultati sperimentali ed argomentazioni tese a dimostrare la superiorità della
concezione copernicana sulla tradizionale cosmologia tolemaica, con il suo immobile sole
centrale. Le precedenti opere di Galileo avevano già provocato l'ostilità del Santo Uffizio, che
dal 1616 aveva formalmente condannato la tesi del movimento della terra, anche se con questa
riserva: si poteva fare questa affermazione solo come un'ipotesi, e cioè senza alcuna pretesa di
descrivere il vero stato delle cose. La condanna del 22 giugno 1633, comunque, stabiliva che la
concezione eliocentrica non potesse essere sostenuta nemmeno in via ipotetica.
Cartesio sa di avere tra le mani un testo esplosivo, sotto vari aspetti. Fin dal dicembre 1629 57
chiede lumi a Mersenne riguardo all'atteggiamento della Chiesa nei confronti del tema
dell'infinità dell'universo. Tale tematica era ancora delicata a causa della condanna di Giordano
Bruno che era stata eseguita da poco. Per evitare problemi, il filosofo francese affermerà nel
56
R. Descartes, Tutte le lettere, op. cit., p. 87.
57
Ivi, p. 101.
28
Mondo, che l'estensione dell'universo non è infinità, bensì «indefinita»58. Ma il timore di «turbare
l'immaginazione di qualcuno», persiste59.
Nell'aprile del 1632 comincia a scusarsi con Mersenne perché teme di non riuscire a terminare lo
scritto nei tempi previsti. Il 3 maggio annuncia di voler far «riposare» il trattato prima di finirlo 60.
Le prime ansie sulla tesi eliocentrica, avversata da coloro che hanno fatto della cosmologia
tolemaica un articolo di fede, si affacciano nell'estate del 1632 61. Alla fine di questo stesso anno,
Cartesio chiede al solito Mersenne, notizie della teoria di Galileo sulle maree, probabilmente
vorrebbe anche chiedere dell'altro, in particolare a proposito del Dialogo sui massimi sistemi da
poco pubblicato e già censurato dalle autorità, ma non osa farlo. La successiva lettera è
dell'estate del 1633, il Mondo è ancora da finire e spera di mandarglielo entro l'anno62.
Nel giugno 1633 Galileo viene condannato e questo cambia radicalmente i piani di Cartesio.
Egli, affranto, scrive a Mersenne nel novembre di quell'anno «mi ha sconcertato (la condanna di
Galileo) a tal punto che mi sono quasi deciso a bruciare tutte le mie carte»63.
Insieme allo scienziato italiano, Cartesio vede processato e messo al bando anche il suo Mondo:
se la teoria copernicana è falsa, ammette, «lo sono anche tutti i fondamenti della mia filosofia»64.
Ma per nessun motivo egli vorrebbe andare contro le decisioni della Chiesa e quindi rinuncia alla
pubblicazione.
Cartesio chiede a Mersenne un anno di proroga per provare a rivedere e correggere la propria
opera, sperando che la condanna dell'Inquisizione non venga rigidamente applicata.
Sfortunatamente per lui però, scoprirà che la proibizione del copernicanesimo vale anche nel
58
R. DESCARTES, Il Mondo in Opere postume, op.cit., p. 251. Per maggiori dettagli sulla differenza tra «infinito» e
«indefinito» in Cartesio vedere, R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Opere, op. cit., p. 1731.
59
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 189.
60
Ivi, p. 229.
61
Ivi, p. 237.
62
Ivi, p. 247.
63
Ivi, p. 249.
64
Ibidem.
29
caso in cui esso venga proposto per via ipotetica, come invece inizialmente era stato concesso.
Naturalmente questo fatto rendeva inutilizzabili l'espediente della «favola», scelto dal filosofo 65.
La resa definitiva di Cartesio di fronte al timore di poter incorrere in una condanna, è
rappresentata da una lettera del 1634 inviata sempre a padre Mersenne:
Tutte le teorie del mio trattato, compresa la dottrina del movimento della terra, erano
così interconnesse, che sarebbe bastato mostrare che una di esse era scorretta, a
dimostrare l'invalidità di tutto il mio procedimento. Benché pensassi che erano basate
su prove certe ed evidenti, non volevo per nulla al mondo continuare a sostenere le
mie teorie contro l'autorità della Chiesa. Certo, si potrebbe sostenere che non tutto ciò
che decide l'Inquisizione diviene immediatamente articolo di Fede [...] ma non sono
così attaccato alla mia opinione da usare questi sofismi per poterle difendere. Desidero
vivere in pace e continuare, come ho iniziato secondo la massima bene vixit, bene qui
latuit66
Il naufragio del Mondo causato dalla prudenza di Descartes nei confronti dell'autorità
ecclesiastica e dalla condanna di Galileo, al cui destino Cartesio si sente particolarmente legato,
come si può evincere dall'intenso carteggio con il fidato Mersenne, rappresenta un momento
cruciale, non solo della vita del filosofo, ma soprattutto della sua riflessione. Egli si trova a dover
rivedere molte delle sue posizioni, oscillando tra istanze diverse e potenzialmente
contraddittorie. Tale fase di rielaborazione muterà il pensiero cartesiano, aumentando la sua
prudenza nei riguardi della propria filosofia e inoltre lo porterà a dover mitigare o addirittura
rigettare alcune delle intuizioni più originali ed estremistiche maturate durante il quinquennio
che va dal 1628 al 1633 67.
65
Ivi, pp. 251, 259, 263-265, 279.
66
Ivi, p. 263.
67
G.MORI, op. cit., p. 69.
30
Un ulteriore esempio della proverbiale prudenza di Cartesio, è evidenziato dalla particolarità e
per molti versi unicità, della parte Terza del suo Discorso sul metodo del 1637. Esso fu uno
scritto particolarmente apprezzato, al cui interno viene trattato un po’ tutto Descartes. In tale
sezione del Discours, intitolata «par provision» nel testo originale o «ad tempus» in quello
latino68, il filosofo, per la prima volta in uno scritto, tratta di morale. Egli non se ne era mai
sostanzialmente occupato, eppure la situazione cambia con quest'opera, in quanto destinata ad un
ampio pubblico. Cartesio teme che il suo metodo possa essere inteso come un proclama eversivo
contro la fede e la morale corrente, destinate inevitabilmente a ricadere sotto il dubbio e quindi
sotto la scure della negazione che colpisce ogni dottrina priva di evidenza intellettuale. E tutto
egli vuole, tranne passare per un miscredente o un nichilista, pertanto prendere posizione in
ambito morale diventa improvvisamente un'esigenza pressante. Lo confesserà poi con totale
candore, nel 1648: sono stato obbligato a formulare alcune norme morali «perché altrimenti
avrebbero detto che sono senza religione e senza fede, e che, attraverso il mio metodo, le voglio
distruggere»69.
Di seguito le tre «massime» che il filosofo dichiara di essersi proposto di seguire:
1. «Obbedire alle leggi ed ai costumi del mio paese» e propendere in generale per le «opinioni
più moderate e lontane dagli eccessi»;
2. «Essere fermo e risoluto il più possibile nelle mie azioni», perseverando nelle decisioni prese e
seguendo in ogni caso «le opinioni più probabili»;
3. «Cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri
piuttosto che l'ordine del mondo».
La prima massima, che è l'unica che tratterò per motivi di spazio, mette subito in evidenza il lato
conservatore e conformistico della morale provvisoria, predicando l'accettazione dello status quo
e il rifiuto di ogni estremismo. Una concezione largamente diffusa all'epoca, che ha come punto
di riferimento Montaigne. Il saggio libertino non si erige a riformatore della morale e ancora
68
Ivi, p. 85.
69
R. DESCARTES, Colloquio con Burman, in Opere postume, op. cit., p. 1305.
31
meno della religione, anzi adotta e mantiene quella del luogo in cui è nato e in cui è stato
educato, senza esporsi pubblicamente. Superfluo aggiungere che un simile atteggiamento era
anche la conseguenza di decenni di sanguinarie guerre di religione tra cattolici e ugonotti, che
avevano seminato la discordia e il terrore in tutta la Francia durante la seconda metà del
Cinquecento. È importante inoltre sottolineare come il rapporto tra Cartesio e le varie posizioni
religiose a lui contemporanee, non fosse affatto idilliaco, scrive infatti a tal proposito a Mersenne
nel 1639: «gli ugonotti mi odiano come papista e quelli di Roma non mi amano, pensando che
sono corrotto dall'eresia del movimento della terra»70.
Allo stesso modo della parte Terza, anche nella Sesta troviamo un ulteriore limpido esempio
dell'atteggiamento prudente di Descartes nei confronti della censura. Egli vuole lasciar intendere
di non aver potuto pubblicare la sua fisica, ovvero quel trattato sul Mondo di cui si è parlato in
precedenza, a causa proprio delle condanne inferte dall'autorità ecclesiastica. In particolare
l'articolazione iniziale della Sesta parte è caratterizzata da un piccolo esercizio di arte retorica.
Cartesio ha necessità assoluta di negare di aderire alle idee di Copernico, ma allo stesso tempo
far capire il contrario, ovviamente a chi riesca in tale sforzo, e motivare in qualche modo la
decisione di non pubblicare la sua fisica. Ecco quindi che troviamo una serie di contorsioni
linguistiche, descrizioni allusive e presunti periodi ipotetici dell'irrealtà: «persone per le quali
nutro un particolare rispetto» (l'inquisizione romana) hanno disapprovato «un'opinione in materia
di fisica» (l'eliocentrismo copernicano) pubblicata «da qualcun altro» (Galileo); un'opinione
nella quale non vedevo niente di pericoloso per la religione o per lo stato ma che «non voglio
dire di aver condiviso» (cioè: non voglio dirlo perché mi è proibito farlo, ma in realtà l'ho
condivisa e la condivido); un'opinione comunque che avrei potuto sostenere pubblicamente «se
la ragione me ne avesse persuaso» (cioè: potrei sostenere pubblicamente il copernicanesimo, di
cui sono razionalmente persuaso, ma non lo faccio perché la Chiesa me lo impedisce) 71.
Tale strategia prudente è avvalorata anche dai tre saggi scientifici che Cartesio si propone di
pubblicare insieme al Discorso stesso, sicuramente un passo indietro rispetto al Mondo. Egli vi
adotta dichiaratamente un punto di vista assai più ristretto, che ritiene necessario per non scoprire
70
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1059.
71
R. DESCARTES, Discorso sul metodo, in Opere, op. cit., pp. 95-97.
32
troppo le carte della sua fisica. Quello che manca in questi saggi è ciò che di più rivoluzionario e
cartesiano vi era nel Mondo: la ricerca dei principi primi, delle leggi della natura e della loro
fondazione, l'anelito verso una spiegazione unificata della natura sulla base di poche e semplici
nozioni72.
Vorrei concludere questa sezione, compiendo un piccolo riepilogo dei risultati raggiunti per
poterli meglio fissare, in vista del prosieguo della trattazione. In primis è stata analizzata la
formazione giovanile di Descartes, attenzione particolare è stata dedicata agli anni trascorsi a La
Fléche, gli ambienti da lui frequentati e in modo molto generico il contesto filosofico che lo
circondava. In secondo luogo è stata effettuata una breve analisi del rapporto interconnesso tra
Cartesio e la filosofia dominante durante il periodo in cui ha portato avanti la propria riflessione
filosofica, ovvero la Scolastica; in modo particolare si è dato maggior risalto alle differenze tra la
fisica cartesiana e quella aristotelico-scolastica, nello specifico la differente concezione riguardo
alla materia e al moto, tralasciando volutamente i contrasti riguardanti i concetti di anima e di
corpo, che saranno oggetto del prossimo capitolo; inoltre si è fatto anche un breve accenno alle
considerazioni riguardo la logica aristotelica e ciò che Descartes pensava a proposito del
sillogismo. Infine, con lo scopo di mettere in risalto l'indole prudente del filosofo francese per
dimostrare come essa ha inficiato molti dei risultati speculativi sostenuti pubblicamente da
Cartesio, è stato presentato un piccolo excursus sul rapporto tra Descartes e l'autorità
ecclesiastica, scegliendo come esempio emblematico, la travagliata storia editoriale del Mondo e
un accenno a due parti del famoso Dicours.
Oggetto del prossimo capitolo sarà la teoria cartesiana delle due res, il cosiddetto «dualismo» e il
loro rapporto unitario nell'individuo.
72
G. MORI, op. cit., p. 101.
33
Capitolo II: La teoria delle due res
II.I La distinzione reale mente-corpo
Così, siccome i nostri sensi qualche volta ci ingannano, volli supporre che non vi fosse
alcuna cosa tale e quale essi ce la fanno immaginare. [...] Ritenendo io di essere
soggetto come qualunque altro a sbagliare, rigettati come false tutte le ragioni che
avevo accolto sino ad allora come dimostrazioni. E infine, considerando che tutti gli
stessi pensieri che abbiamo quando siamo svegli ci possono accompagnare anche
durante il sonno, senza che ve ne sia nessuno che in quel momento sia vero, decisi di
far finta che tutte le cose che mi erano sino ad allora venute alla mente non fossero più
vere delle illusioni dei miei sogni. Mi accorsi però subito dopo che, mentre in tal modo
volevo pensare che tutto fosse falso, occorreva necessariamente che io che lo pensavo,
fossi qualche cosa. E notando che questa verità Io penso dunque, io sono era così
ferma e certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano in grado
di scuoterla, ritenni che potevo accoglierla, senza scrupolo, come il primo principio
della filosofia che cercavo73.
Proprio nella fase iniziale della quarta parte del suo Discorso, Descartes, per la prima volta,
presenta ai suoi lettori la famosa proposizione «Io penso, dunque io sono», probabilmente più
73
R. DESCARTES, Discorso sul metodo in Opere, op. cit., pp. 59-61.
34
nota nel corrispettivo latino «Ego cogito ergo sum». Ciò che qui interessa maggiormente però,
Cartesio lo scrive qualche rigo dopo:
Poi, esaminando con attenzione ciò che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere
alcun corpo e che non vi fosse alcun mondo, né alcun luogo in cui fossi, ma che non
potevo fingere, per questo, di non essere; e che al contrario, per il fatto stesso che
pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva in tutta evidenza e certezza
che ero; invece se avessi solo cessato di pensare, quand'anche tutto quanto avevo mai
immaginato fosse stato vero, non avevo alcuna ragione di credere che sarei esistito: da
ciò conobbi che io ero una sostanza la cui intera essenza o natura non è che pensare, e
che per essere, non ha bisogno di alcun luogo, ne dipende da alcuna cosa materiale.
Cosicché questo io, ovvero l'anima per la quale sono quel che sono, è interamente
distinta dal corpo ed è anche più facile a conoscersi di esso e, quand'anche il corpo non
esistesse, l'anima non cesserebbe di essere tutto ciò che è74.
Da questa breve riflessione del filosofo, nascerà quello che è comunemente conosciuto come
«dualismo cartesiano».
La novità introdotta da Cartesio, rispetto alla filosofia scolastica, è sostanzialmente quella di aver
eliminato la concezione secondo la quale l'anima sarebbe costituita di tre funzioni essenziali,
ovvero quella vegetativa, sensitiva e razionale, per attribuirle esclusivamente gli atti mentali.
Oltre a ciò, naturalmente, anche la possibilità che l'anima mantenga tutte le sue caratteristiche,
indipendentemente dal destino del corpo.
Il problema insito nella teoria cartesiana, nato con la formulazione stessa della teoria della res
cogitans, distinta e separata dalla res extensa, è quello della possibilità dell'unione e
dell'interazione di queste due realtà, per la prima volta distinte in maniera così radicale. Tale
problema appare particolarmente delicato, tanto da essere subito sollevato dai suoi obbiettori
come vedremo nella prossima sezione di questa tesi, poiché, intenzione di Descartes, era
74
Ibidem.
35
contrapporsi, non solo alla teoria platonica della psyche, principio di vita e di movimento del
corpo, ma anche al monismo materialistico che riduce l'anima a proprietà della sostanza
corporea, oltre che all'ilemorfismo aristotelico-scolastico che fa dell'anima la forma sostanziale
del corpo. Rifiutando praticamente tutte le teorie dell'unione e dell'interazione anima-corpo
avanzate fino a quel momento, che riconoscevano tutte una qualche continuità tra psichico e
fisico, Cartesio sembra precludersi la strada ad una spiegazione convincente di tutti quei
fenomeni, in primo luogo la sensazione e il movimento volontario, direttamente subordinate
all'unione psicofisica. Una volta radicalmente distinti e contrapposti, la mente e il corpo, non
sembrano infatti più potersi riunire nel concreto individuo vivente. Tale è d'altronde, l'immagine
del dualismo cartesiano arrivata sino ai giorni nostri75.
Comunque, il cosiddetto «rasoio cartesiano», in verità, non ha soltanto distinto in modo netto la
mens dal corpus, tanto dal punto di vista gnoseologico, quanto sul piano ontologico, ma ha anche
ridotto il corpo a macchina, a congegno automatico il cui funzionamento può essere spiegato
come effetto della sola configurazione geometrico-meccanica del sistema dei suoi ingranaggi.
L'anima cartesiana non è più principio vitale del corpo, non è più «atto primo di un corpo dotato
di una vita in potenza», secondo la famosa formula aristotelica, non si trova più alla base delle
sue funzioni vitali, come al contrario aveva ritenuto Platone e l'intero pensiero biologico e
psicologico. Da questo momento il corpo è ritenuto sufficiente a se stesso: eliminato quel
medium tra mente e corpo costituito dalle funzioni vegetative e sensitive dell'anima, il vivente è
caratterizzato, nel suo esser tale, come un'organizzazione di parti materiali in stretto
collegamento tra di loro ma allo stesso tempo distinte. Cartesio porta avanti una profonda
rielaborazione e ridistribuzione dell'ambito psichico e di quello corporeo, mediante una
chiarificazione delle funzioni, tanto mentali, quanto corporee.
In ogni caso, quella presentata nel Discorso, è ancora una fase embrionale del tema della
distinzione tra anima e corpo, ragionamento che a mio avviso merita di essere seguito in quella
che è l'opera più conosciuta del filosofo francese, ovvero le Meditazioni metafisiche, all'interno
delle quali la teoria trova la sua piena argomentazione.
75
N. ALLOCCA, Il corpo della mente, Aracne editore, Roma, 2012, p. 13.
36
Le Meditationum de prima philosophia, molto brevemente, sono uno scritto del 1641 e che ebbe
tre edizioni con l'autore ancora in vita, nel 1642 e nel 1644; la seconda e la terza edizione
presentano anche la settima serie di obiezioni e risposte, assenti invece nella prima stampata in
Francia. Così come molte altre opere di Descartes, anche le Meditazioni ebbero una storia
editoriale a dir poco travagliata76.
Esse rappresentano una sorta di approfondimento rispetto alle conclusioni presentate nella quarta
parte del Discorso sul metodo77, ed è un testo suddiviso, per l'appunto, in sei meditazioni.
Nella prima di esse, Cartesio si pone dinanzi alla possibilità di poter dubitare di qualunque cosa,
che perfino la veridicità delle scienze come la matematica, possa venire messa in questione di
fronte all'eventualità di una divinità ingannatrice.
A tal proposito troviamo l'artificio letterario del genio maligno78, il quale ha lo scopo di rendere
realmente «iperbolico» il dubbio cartesiano, in modo tale da poter effettivamente comprendere
cosa appartiene al soggetto. Difatti soltanto portando alla più radicale delle possibilità scettiche,
ovvero, non solo che le nostre affermazioni siano erronee, illusorie e fuorvianti, ma addirittura
che siano ingannevoli, perfino nelle nostre migliori condizioni, solo allora sarà possibile,
successivamente, superare definitivamente il dubbio79.
La vera rivoluzione però avviene nella seconda Meditazione. Il lettore sembra destinato a non
trovare vie d'uscita dai dubbi posti dall'autore, egli stesso ce lo dice:
Dalla meditazione di ieri sono stato gettato in dubbi tanto grandi da non poter più
dimenticarli, né, tuttavia, vedere in che modo essi possano essere sciolti; ma, come
76
Per approfondirmenti in merito alla storia editoriale dell'opera vedere R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in
Opere, op. cit., pp. 659-677.
77
Ivi, p. 663.
78
Ivi, p. 709.
79
R. POPKIN, Storia dello scetticismo, Mondadori, Milano, 2000, p. 205.
37
improvvisamente caduto in un gorgo profondo, sono così agitato da non riuscire né ad
appoggiare i piedi sul fondo, né a salire a nuoto in superficie80.
Nonostante la difficoltà apparente, il filosofo non si arrende all'inesistenza del mondo e va alla
ricerca di una luce in mezzo al buio, di un appiglio al quale aggrapparsi per poter risalire dal
«gorgo profondo» in cui è caduto:
Ci proverò, però, e tenterò daccapo la stessa via che avevo imboccato ieri,
rimuovendo, cioè, tutto ciò in cui si insinui anche il minimo dubbio [...] e andrò
avanti sino a che non conoscerò qualcosa di certo [...] c'è da ben sperare nel
caso in cui io trovassi una pur minima cosa che fosse certa ed inconcussa 81.
Il ragionamento prosegue, fino ad arrivare al punto cruciale:
Suppongo dunque che tutto quello che vedo sia falso; credo che nulla sia mai esistito
[...] non ho senso alcuno; corpo, figura, estensione, movimento e luogo sono chimere.
[...] Ma come faccio a sapere che non ci sia nulla di diverso rispetto a ciò che ho or ora
passato in rassegna, di cui non ci sia un pur minimo motivo di dubitare? C'è forse un
Dio - quale che sia il nome con cui io lo chiami- che mette in me questi pensieri? Ma
perché crederlo, visto che di essi potrei essere proprio io l'autore? Non sono, forse,
allora, almeno io qualcosa? Ma ho appena negato di avere senso e corpo alcuno.
Eppure esito: cosa deriva da ciò? Sono forse così legato al corpo e ai sensi da non
poter esistere senza di essi? Ma mi sono persuaso che assolutamente nulla esiste al
mondo: né cielo, né Terra, né menti, né corpi; forse che, allora, neanch'io esisto? Al
contrario, esistevo certamente, se mi ero persuaso di qualcosa. Ma esiste un non so
quale ingannatore, sommamente potente, sommamente astuto che, ad arte, mi fa
80
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 713.
81
Ibidem.
38
sbagliare sempre. Senza dubbio, allora, esisto anche io, se egli mi fa sbagliare; e, mi
faccia sbagliare quanto può, mai tuttavia farà sì che io non sia nulla, fino a quando
penserò d'esser qualcosa. Così, dopo aver ben bene ponderato tutto ciò, si deve infine
stabilire che questo enunciato, Io sono, io esisto, è necessariamente vero ogni volta
che viene da me pronunciato o concepito con la mente82.
Ecco, finalmente, ciò che Descartes stava cercando; è stata trovata una conoscenza che resiste ad
ogni dubbio, un'evidenza razionale. Il cogito rappresenta un'esperienza incontrovertibile: so di
esistere mentre penso e nulla al mondo può farmi cambiare idea, il cogito non può essere
falsificato e neppure dubitato. Resiste, infatti, ad ogni possibile test del dubbio e in particolare al
dubbio nella sua massima forma, ovvero quella del Dio ingannatore, o piuttosto in questo caso
del genio maligno «sommamente potente e astuto», perché l'eventuale dubbio sulla mia esistenza
non riguarderebbe un'evidenza di tipo matematico, ma la mia stessa esperienza, pertanto anziché
essere negato, esso finisce per essere nuovamente verificato83.
Nonostante la conquista del cogito, Cartesio è ancora lontano rispetto all'obiettivo che si è posto.
Infatti, la nuova necessità che sorge ora spontanea è di comprendere che tipo di «io» sia quello
scaturito dalla suddetta riflessione:
«Non intendo però ancora a sufficienza chi mai sia io, quell'io che necessariamente già
sono; e debbo quindi evitare di scambiare forse imprudentemente me per qualcos'altro
e a non perdermi così persino in quella conoscenza che sostengo essere la più certa ed
evidente di tutte»84.
82
Ivi, pp. 713-715.
83
G. MORI, op. cit., p. 117.
84
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 715.
39
Per comprendere che tipo di soggetto sia quello evidenziato nella meditazione, Descartes decide
di compiere un'operazione di sottrazione, che verrà approfondita nella prossima sezione, affinché
rimanga, infine, «precisamente soltanto ciò che è certo ed inconcusso»85.
Innanzitutto si libera della definizione aristotelica di animale razionale, in quanto richiederebbe
delle spiegazioni eccessive riguardo a ciò che si intende con animale e con razionale.
In secondo luogo, poiché ci troviamo ancora nei meandri della seconda Meditazione e quindi
nella possibilità che «un ingannatore potentissimo e, se è lecito dirlo, maligno, si sia di proposito
fatto beffe di me»86, è necessario dubitare anche dell'esistenza del mio corpo e con esso di tutte
quelle funzioni che solitamente gli attribuiamo: nutrirsi, camminare, sentire.
Il terzo punto del ragionamento verte invece sull'anima. Delle operazioni che solitamente
appartengono alla parte vegetativa e sensitiva, Cartesio, dice che non si danno senza il corpo, per
cui non rimane che il pensiero:
Ora ci sono: è il pensiero; esso soltanto non può essermi tolto via. Io sono, io esisto, è
certo. Fino a quando, però? Fino a quando penso: infatti, potrebbe accadermi persino
di cessar tutto intero di esistere, se mai cessasse in me ogni pensiero. [...]
precisamente, dunque, sono soltanto una cosa pensante, ossia una mente, o animo, o
intelletto, o ragione; [...] però sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale
cosa? L'ho detto: pensante87.
Successivamente egli specifica meglio le caratteristiche di questa «cosa pensante», infatti scrive:
85
Ibidem.
86
Ibidem.
87
Ivi, p. 717.
40
Ma che cosa sono allora? Una cosa pensante. Ma che cos'è ciò? Una cosa che dubita,
che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina, inoltre, e
sente. Il che non è poco davvero, se mi appartenesse tutto. Ma perché non dovrebbe
appartenermi? [...] Infatti, che sia io a dubitare, a intendere, a volere è tanto manifesto
che non mi viene in mente alcunché con cui spiegarlo in modo più evidente. Ma sono
invero ancora io, lo stesso io, ad immaginare: infatti, sebbene, forse, come ho
supposto, non sia vera la pur minima cosa immaginata, tuttavia la capacità di
immaginare, in quanto tale, esiste realmente, e fa parte del mio pensiero. Infine, sono
io, lo stesso io, a sentire, ossia ad avvertire le cose corporee come se ciò fosse
attraverso i sensi: ora ad esempio vedo la luce, odo un rumore, sento caldo. Ciò è
falso, perché dormo. Ma certo mi sembra di vedere, di udire di avere caldo. Non può
essere falso, questo, vale a dire quel che in me, propriamente, si chiama sentire; e
questo, preso così, precisamente, null'alto è che pensare88.
La soggettività è racchiusa nel concetto di mens, a cui appartengono le funzioni proprie del
pensiero, che appaiono nei verbi presenti negli antecedenti delle premesse condizionali e nelle
premesse assertorie: persuadersi, asserire e ovviamente pensare.
Nella descrizione fornita da Cartesio del cogito, un elemento colpisce più di tutti; chi medita
conquista la certezza di esistere perché ha portato all'estremo i propri dubbi. Nell'ondata
conclusiva di dubbi della prima Meditazione compariva l'ipotesi estrema del «genio maligno»
teso alla mistificazione universale. Ma se dubito, se sto prendendo in considerazione la
possibilità di essere ingannato, allora proprio il fatto che sono in grado di dubitare dimostra la
necessità della mia esistenza. Quindi l'affermazione «sto pensando» è dotata di una particolare
incontrovertibilità: dubitare di essa, infatti, conferma la sua verità. Ciò spiega perché non è
possibile utilizzare, per giungere alla conclusione «io esisto», premesse diverse. Non si può dire,
ad esempio, «io respiro, quindi esisto», oppure, «io cammino, quindi esisto», perché è possibile,
in questi casi, dubitare delle stesse premesse (può darsi che io stia sognando, in tal caso non sto
affatto camminando, ma sto disteso in un letto; potrei non aver affatto un corpo e in tal caso la
88
Ivi, p. 719.
41
premessa «sto respirando» sarebbe falsa). Ma non sono soltanto le premesse che implicano un
rapporto alla dimensione fisico-corporea ad essere dubbie. Anche premesse che fanno
riferimento a processi di pensiero, come «io voglio», o «io spero», non sembrano possedere il
genere di certezza necessario al funzionamento del cogito. «Dubito di sperare» non prova la
certezza di «io spero»: che si dubiti di sperare non implica che si speri davvero, poiché il dubbio
non è un caso particolare della speranza. Solo una premessa che si riferisca al solo pensiero, che
si configuri come un puro atto di pensiero, avrà la proprietà in questione, ovvero che il metterla
in dubbio confermerà la sua verità89.
Cartesio punta tutto su «io penso» poiché solo da questa affermazione è impossibile dubitare che
«io esisto». Da «io penso» (o equivalenti) e non qualsivoglia asserto che pure abbia come
soggetto «io», dal momento che in mancanza dei predicati citati in precedenza non è possibile
sostenere l'esistenza del soggetto90.
Attraverso il test del cogito, la res cogitans si rivela, quindi, quale soggetto esclusivo non solo
dell'intendere o del volere, ma anche dell'immaginare e del sentire. Il cogito svela, in ogni caso,
il carattere costitutivamente mentale dei fenomeni immaginativi e di quelli della sensibilità,
sottraendoli al corpo. Mentre proprio al corpo umano, Descartes, si riferisce una sola volta in
tutta la seconda meditazione: «non sono quella compagine di membra che è chiamata corpo
umano»91.
È interessante notare l'uso del termine «compagine» il cui corrispettivo latino è «compages», che
nel testo cartesiano sta ad indicare il corpo. Tale parola è traducibile con «compagine,
costruzione, organismo», tralasciando l'origine del termine, per la quale rimando al prezioso testo
di Allocca92, esso viene utilizzato per rafforzare e sottolineare la totale estraneità della res
cogitans, rispetto al corpo umano propriamente inteso.
89
J. COTTINGHAM, op. cit., pp. 55-56.
90
S. LANDUCCI, La mente in Cartesio, Franco Angeli editore, Milano, 2003, p. 56.
91
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 717.
92
N. ALLOCCA, op. cit., p. 25.
42
Per quanto riguarda i corpi esterni in generale, Cartesio, se ne occupa nella parte conclusiva della
meditazione, la quale contiene il celebre esempio della cera:
Prendiamo ad esempio questa cera: è stata appena estratta dall'alveare; non ha ancora
perso tutto il sapore del suo miele; conserva ancora un po' dall'odore dei fiori da cui è
stata raccolta; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è dura, è
fredda la si tocca con facilità e, se vi si batte sopra un dito, risuona; insomma in essa è
presente tutto quel che sembra richiesto perché un corpo possa essere conosciuto
quanto più distintamente93
Nonostante la descrizione di «questa cera» includa diversi attributi che effettivamente le
corrispondono, il filosofo francese, si accorge, però, utilizzando lo stesso metodo di sottrazione
già impiegato precedentemente con il soggetto, che tali qualità non sono ciò che identifica i
corpi, poiché esse possono trasformarsi col mutare delle condizioni in cui il corpo si presenta a
noi:
Ma ecco che, mentre parlo, viene avvicinata al fuoco: il sapore che ancora vi restava
sparisce, l'odore svanisce, il colore cambia, la figura si dilegua, la grandezza aumenta,
diviene liquida, diviene calda, toccarla diventa difficile, se la si colpisce non risuona.
Non rimane forse ancora la medesima cera? Rimane, lo si deve riconoscere: nessuno
lo nega, nessuno ritiene che non sia così94.
Pertanto, cosa rimane una volta rimosso tutto ciò che non appartiene alla cera? «Null'altro che
qualcosa di esteso, flessibile, mutevole»95.
93
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 721.
94
Ibidem.
95
Ibidem.
43
Ovviamente siamo ancora lontani dalla dimostrazione dell'esistenza dei corpi esterni, che avremo
soltanto a percorso meditativo quasi concluso, ovvero con la quinta e la sesta Meditazione. In
questo momento si tratta di mostrare di nuovo, a chi non sia stato ancora convinto dal cogito,
quanto sia illusorio credere che le cose corporee ci siano più note del pensiero stesso. L'esempio
della cera, infatti, costituisce esclusivamente un ulteriore approfondimento delle funzioni della
mente. L'avversario è qui il filosofo scolastico, persuaso che la conoscenza dipenda
necessariamente dai sensi, che ci metterebbero in contatto con gli oggetti esterni. Ma per
Cartesio gli oggetti esterni non si impongono come tali alle nostre facoltà conoscitive, gli oggetti
sono in qualche modo delle costruzioni intellettuali. Difatti, proprio il pezzo di c'era, prima è
solido, ha l'odore dei fiori, poi si liquefà, cambia colore, si dilata, eppure siamo disposti a credere
che sempre della stessa cera si tratti. Che cosa ci dà tale certezza? Non certo la nostra sensibilità,
che anzi, ci fornisce rappresentazioni diverse e mutevoli. Diciamo di «vedere» la cera ma in
realtà compiamo un’operazione intellettuale che ci fa riconoscere, al di là delle rappresentazioni
sensibili, un che di esteso, che occupa un certo luogo e che muta continuamente stato a causa
degli infiniti movimenti materiali, per la maggior parte neppure percepibili. Non i sensi, dunque,
e neppure l'immaginazione, ma l'intelletto soltanto, ci fa conoscere gli oggetti esterni, sempre
ammesso che esistano. Per il momento a Cartesio basta ribadire la priorità epistemologica della
mente sul corpo. Non solo la mente conosce sé stessa per coscienza diretta delle proprie
operazioni, come attestato dal cogito, ma essa è anche la fonte attraverso cui acquistiamo la
conoscenza dei corpi. L'analisi del pezzo di cera conferma la priorità assoluta del soggetto
pensante su tutti i suoi atti cognitivi, e dunque su ogni possibile oggetto della conoscenza, sia
esso Dio, il mondo o il corpo umano stesso, tutti ovviamente ancora esposti al dubbio nelle sue
varie forme. Il risultato di queste prime due Meditazioni, è quindi una drammatica scissione tra
la mente e Dio e tra la mente e il mondo della materia corporea. Per il Cartesio delle Meditazioni
vi è una simmetria epistemologica tra la mente e il corpo: della prima conosco immediatamente
l'esistenza e comincio ad intravederne l'essenza; il secondo è ancora un mistero e potrei
ingannarmi sia sulle sue caratteristiche essenziali sia sul fatto stesso che esiste 96.
96
G. MORI, op. cit., pp. 121-122.
44
Naturalmente per motivi di spazio e di inerenza alla tematica da me trattata, la terza, la quarta e
la quinta Meditazione non saranno analizzate nella loro interezza, bensì, presenterò brevemente,
soltanto le conclusioni che da esse Cartesio trae.
Per quanto riguarda la terza Meditazione, una tra le più studiate e rivedute dai critici, ci consegna
la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Tale prova diventa necessaria per poter uscire dall'impasse
venutasi a creare dopo le riflessioni scaturite dalle prime due Meditazioni. Il Dio di Cartesio è un
legislatore. La sua ‘presenza’ serve al filosofo per poter giustificare la verità delle conoscenze
acquisite e dare ulteriore forza alla ‘veracità’ del cogito. La dimostrazione della perfezione
infinita di Dio, implica direttamente l'impossibilità che egli ci inganni. E anche se, nelle
Meditazioni restanti, il fantasma del Dio ingannatore continuerà a manifestarsi ancora, si tratterà
ormai soltanto di uno spauracchio da agitare contro gli avversari della nuova metafisica 97.
Raggiunta la dimostrazione della veracità di Dio, la strada delle Meditazioni, sembrerebbe ormai
definitivamente spianata. Ma un'obiezione sorge spontanea, e infatti Cartesio se l'era posta già
all'inizio dell'opera: se Dio non può dotare le sue creature di facoltà ingannevoli, perché
comunque l'essere umano è soggetto ad errare? Che l'uomo talora si sbagli, d'altra parte, è anche
troppo noto. Quindi resta da capire come ciò sia possibile: a prima vista essendo figlio di un Dio
verace, l'uomo non dovrebbe mai errare nei suoi giudizi. La quarta Meditazione è scritta per
risolvere tale questione, che si frappone tra l'avvenuta conquista della validità delle idee chiare e
distinte e la loro concreta applicazione alla conoscenza delle altre cose, esclusi naturalmente l'io
pensante e Dio la cui esistenza ormai è dimostrata. Sostanzialmente questo serve a Cartesio per
salvare la facoltà della sensibilità umana. È infatti risaputo che l'uomo può sbagliare nei suoi
giudizi e in ciò che percepisce tramite i sensi, un accenno era già presente all'interno della
seconda Meditazione, ma la giustificazione dell'errore serve a poter andare oltre l'errore stesso.
La conclusione a cui arriva Cartesio, è che l'origine dell'errore non è da ricercarsi né in Dio né
nella volontà dell'uomo presa in quanto tale, perché la volontà è fatta in modo di assentire con la
massima spontaneità proprio di fronte all'evidenza, rispetto alla quale non ci si può ingannare. Il
fatto è che la volontà, infinita per definizione, è associata ad un intelletto necessariamente finito,
che le presenta a volte percezione oscure e confuse. Di fronte a questo la volontà è indifferente e
97
Ivi, p. 128.
45
dunque rischia di dare il suo consenso a nozioni false e questo fa sì che l'uomo s'inganni e che
pecchi. È dunque la sproporzione, di per sé non imputabile a Dio, tra volontà e intelletto, ad
essere la causa dell'errore. Ma neppure quest'ultima è ascrivibile a Dio, perché Egli ha fatto tutto
ciò che era possibile per l'uomo: gli ha dato una volontà addirittura infinita e un intelletto capace
di cogliere l'evidenza se rettamente guidato. L'errore, allora, dipende esclusivamente da un uso
improprio delle nostre facoltà: consiste nel prendere per vere delle percezioni confuse, senza
sospendere il giudizio come si dovrebbe doverosamente fare in mancanza di evidenza razionale.
L'importante, per l'itinerario delle Meditazioni, è comunque che l'errore sia evitabile, e che sia
evitabile grazie al libero arbitrio. Se l'errore non fosse evitabile l'uomo sarebbe dotato quindi di
una facoltà fallace, e questo metterebbe a rischio qualsiasi tipo di conoscenza: da quella più
chiara e distinta fino all'esistenza stessa dei corpi esterni e del mondo. La quarta Meditazione ha
dunque la doppia funzione di difendere il dogma appena raggiunto della veracità divina e di
aprire la strada al resto, mostrando come la libertà dell'uomo sia la fonte di ogni arricchimento
conoscitivo: libertà di dire no alle percezioni confuse e di dare l'assenso soltanto all'evidenza 98.
La quinta Meditazione è dedicata all'essenza della materia. Questa è costituita, secondo Cartesio,
da qualcosa di molto semplice e chiaro, ovvero l'estensione spaziale. Ed ecco dunque che alla
cosa pensante apparsa assieme al cogito nella seconda Meditazione, ancora sprovvista di una
piena giustificazione metafisica, si affianca nella quinta la cosa estesa.
Pensiero di Cartesio è che l'idea dello spazio non possa essere derivata né dall'esperienza né che
tantomeno possa essere un costrutto della mente di chi la pensa, bensì che sia nient'altro altro che
un'idea innata99. L'aver dimostrato l'esistenza di Dio ed eliminato la possibilità della presenza del
Genio maligno, che poteva inficiare ogni possibilità di un giudizio sul mondo esterno, oltre che
l'aver giustificato l'errore con la spiegazione che abbiamo analizzato in precedenza, permette a
Cartesio di affermare la natura degli oggetti corporei, pur continuando a sospendere il giudizio
sulla loro effettiva esistenza. Le loro caratteristiche, infatti, sono oggetto della pura Mathesis100,
ed esse possono essere colte indipendentemente dalla presenza dei corpi nel mondo: ciò che
98
Ivi, p. 134.
99
Ivi, p. 138.
100
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 775.
46
posso pensare riguardo ad un triangolo non può in alcun modo essere un nulla, anche se nessun
triangolo dovesse realmente esistere 101. Inoltre, all'interno della quinta Meditazione, troviamo un
ulteriore prova dell'esistenza di Dio, quella che Kant definirà «prova ontologica».
Nella sesta Meditazione arriviamo al termine del percorso meditativo. I temi in essa trattati sono
molteplici: l'esistenza delle cose materiali, cioè dei corpi in generale e del mio corpo in
particolare; la distinzione reale tra la mente e il corpo; l'unione tra la mente e il corpo; la
funzione della sensibilità; gli errori della sensibilità e la loro compatibilità con la bontà di Dio.
Naturalmente, data la natura di questo mio lavoro, non saranno trattati tutti i punti, bensì solo
quelli compatibili con l'argomento scelto.
Per quanto riguarda la dimostrazione dell'esistenza dei corpi esterni e in particolare del mio
corpo, Cartesio decide di battere due strade differenti la prima è quella della facoltà
immaginativa:
Che esse esistano (le cose materiali), poi, sembra conseguire dalla facoltà di
immaginare della quale esperisco di fare uso mentre mi volgo a queste cose materiali:
infatti, a chi consideri più attentamente cosa sia l'immaginazione, essa non risulta
essere altro che una certa applicazione della facoltà conoscitiva al corpo che è ad esso
intimamente presente e che, quindi, esiste102.
Tale scelta però si dimostra problematica, in quanto, l'immaginazione impedisce alla mente di
cogliere le immagini distintamente e, a dimostrazione di ciò, Cartesio porta l'esempio di un
poligono composto da mille lati, il quale sarebbe assolutamente impossibile da immaginare in
modo corretto e concreto, mentre è semplice per la mente coglierne le caratteristiche, per
l'appunto i lati in questione:
101
Ivi, p. 767.
102
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 777.
47
Quando ad esempio immagino un triangolo, non soltanto intendo che esso è una figura
compresa entro tre linee, ma, inoltre, al tempo stesso, intuisco con l'acume della mente
queste tre linee come presenti; e questo è quel che chiamo immaginare. Se, invece,
voglio pensare al chiliagono, intendo bensì che esso è una figura di mille lati
altrettanto bene di come intendo che il triangolo è una figura di tre lati, ma non nello
stesso modo immagino, ossia intuisco come presenti, quei mille lati. E quand'anche in
quel momento, grazie alla consuetudine di immaginare sempre qualcosa ogni volta che
penso ad una cosa corporea, mi rappresentassi forse confusamente una qualche figura,
è tuttavia lampante che essa non è un chiliagono perché non è in nulla differente da
quella che, ancora, mi rappresenterei se pensassi ad un miriagono o ad una qualsiasi
altra figura con più lati; ed essa non è di alcuna utilità per riconoscere la proprietà per
le quali il chiliagono differisce da altri poligoni103
Abbandonata quindi la via dell'immaginazione, l'unica strada per dimostrare che i corpi, e il mio
corpo in particolare, esistono, rimane quella che parte dai sensi. Questi ci presentano delle
conoscenze sulle quali non abbiamo il minimo potere e che, anzi, ci si impongono con la
massima vivacità tanto da farci pensare che essi provengono da una causa esterna e diversa da
noi stessi, in quanto siamo esseri pensanti. Naturalmente, come abbiamo visto, anche i sensi ci
ingannano molte volte, mostrando alla mente delle cose che sono false o inesistenti: i colori, gli
odori, i sapori, non hanno niente a che vedere con gli oggetti esterni, che si riducono a semplici
parti di estensione, come è stato visto nel capitolo precedente. Ma i sensi ingannano anche
riguardo a quelle sensazioni, che sembrerebbero provenire dal nostro corpo, chi abbia avuto un
arto amputato, ad esempio, continua a localizzare il dolore in una parte che non possiede più:
E poiché le idee percepite col senso erano molto più vivide ed espresse e, a loro modo,
anche più distinte di quelle che ero io a fingere, meditando prudente consapevole, o
che avvertivo come impresse nella mia memoria, mi sembrava non fosse possibile che
derivassero da me stesso; e perciò non restava se non che esse giungessero da qualche
103
Ibidem.
48
altra cosa.[...] In seguito, però, molte esperienze hanno fatto a poco a poco vacillare
tutta la fede che avevo nei sensi: talvolta, infatti, torri che erano sembrate rotonde da
lontano, apparivano quadrate da vicino, e statue grandissime erette sulla loro sommità
non sembravano grandi a chi le guardasse da terra; e in altre innumerevoli circostanze
come queste ho colto in fallo i giudizi dei sensi esterni. E non di quelli esterni soltanto,
ma anche di quelli interni: infatti, cosa può essere più intimo del dolore? Eppure avevo
talvolta sentito dire, da coloro ai quali era stata tagliata una gamba o un braccio, che a
volte sembrava loro di sentire ancora dolore nella parte del corpo di cui erano privi; e,
per questo, anche riguardo a me stesso, non mi sembrava del tutto certo che mi dolesse
una qualche articolazione, anche se sentivo in essa dolore.104
Cartesio è apparentemente in un vicolo cieco: ha sempre disprezzato la sensibilità considerandola
il maggior ostacolo per la metafisica105; ma adesso si trova costretto a riconoscere che è pur
sempre Dio che l'ha messa in noi, quindi, su qualcosa almeno, i sensi non ci devono ingannare,
pena il fatto che altrimenti, Dio sarebbe autore di una facoltà fallace. Questo qualcosa, risulterà
essere proprio l'esistenza dei corpi. La dimostrazione cartesiana si gioca sulla differenza tra
essenza ed esistenza della materia, i sensi ci ingannano completamente sulle caratteristiche dei
corpi, quindi sulla loro essenza.
Nonostante ciò, l'errore, in questo caso è correggibile grazie alle idee chiare e distinte
dell'intelletto e grazie alla volontà, che in mancanza di esse, è sempre libera di sospendere il mio
assenso106. Al contrario, come potremmo correggere un eventuale errore sull'esistenza stessa dei
corpi? Certamente non con l'intelletto, che al massimo ci fa sapere che i corpi sono interpretabili
come oggetti matematici, a prescindere dal fatto che esistano o meno 107. Se quindi i sensi ci
traessero in inganno nel momento in cui ci fanno credere che i corpi esistono, questo errore
104
Ivi, pp. 781-783.
105
G. MORI, op. cit., p. 143.
106
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 763.
107
Ivi, pp. 765-767.
49
sarebbe, purtroppo, incorreggibile, e Dio stesso ci avrebbe ingannato irrimediabilmente, pertanto
i corpi devono esistere:
Ma, dal momento che Dio non è fallace, è del tutto manifesto che egli non ha messo in
me queste idee (delle qualità delle cose esterne) per sé, immediatamente, e neanche
mediante una qualche creatura in cui la loro realtà obiettiva sia contenuta non
formalmente ma soltanto eminentemente. Dal momento infatti che egli non mi ha dato
assolutamente alcuna facoltà per sapere ciò, ma, al contrario, una grande propensione
a credere che esse siano provocate dalle cose esterne, non vedo in che modo lo si
possa intendere come non fallace nel caso in cui esse fossero provocate da altro che
dalle cose corporee. E quindi le cose corporee esistono. Tuttavia, esse non esistono
forse tutte completamente tali e quali le comprendo col senso, perché questa
comprensione dei sensi è in parecchi aspetti molto oscura e confusa; ma in esse c'è
almeno tutto quello che intendo chiaramente e distintamente, ossia, considerato in
generale, tutto ciò che è compreso nell'oggetto della pura Mathesis108.
Dimostrata, dunque, l'esistenza dei corpi esterni e in particolare del corpo che sento come mio, a
questo punto è lecito porsi il problema del rapporto del corpo con la mente, della quale sappiamo
soltanto che si definisce tramite gli atti di pensiero.
Innanzitutto è necessario notare che all'interno della trattazione, abbiamo, quasi di passaggio,
prima ancora della conclusione della dimostrazione dell'esistenza dei corpi, quella della
distinzione reale tra mente e corpo. Tale questione può essere regolata in poche righe perché i
materiali sono stati preparati, o quasi prelavorati, da tempo: che la mente fosse soltanto pensiero
lo si era già asserito nella seconda Meditazione, la mente è tutte quelle funzioni razionali che
possono essere sostituite a «penso» nell'affermazione «penso, dunque esisto»; invece, che
l'essenza della materia in generale e del mio corpo in particolare, fosse l'estensione geometrica,
lo si era fatto intendere sempre nella seconda Meditazione, con l'analisi del pezzo di cera e poi
stabilito definitivamente nella quinta. Prerequisito alla dimostrazione della distinzione reale della
108
Ivi, p. 787.
50
mente e del corpo, risulta essere il fatto che secondo Cartesio, è sufficiente che si possa avere
un'idea chiara e distinta di queste due sostanze, l'una indipendentemente dall'altra, per fare in
modo che le cose rappresentate da queste due idee siano realmente distinte e che «Dio può fare
una senza l'altra». Ciò per lo stesso principio già invocato preliminarmente in sede di
dimostrazione dell'esistenza dei corpi, ovverosia, Dio può produrre tutto ciò che è chiaro e
distinto, altrimenti, ancora una volta, Dio ci ingannerebbe 109.
Ed in primo luogo, poiché so tutto ciò che intendo chiaramente e distintamente può
essere fatto da Dio tal quale lo intendo, basta che io possa intendere chiaramente e
distintamente una cosa senza un'altra per essere certo che luna è diversa dall'altra, in
quanto può essere posta separatamente almeno da Dio; e non ha importanza in forza di
quale potenza ciò accada, purché si stimi diversa quella cosa; e, quindi, proprio in
quanto so che esisto e, al tempo stesso, mi accorgo che assolutamente nulla altro
appartiene alla mia natura, o essenza, se non questo solo, che sono una cosa pensante,
concludo correttamente che la mia essenza consiste unicamente in ciò, che sono una
cosa pensante. E quand'anche io abbia forse (o, piuttosto, di certo come dopo dirò) un
corpo che mi è molto strettamente congiunto, poiché tuttavia ho da una parte un'idea
chiara e distinta di me stesso in quanto sono soltanto una cosa pensante, non estesa, e
dall'altra un'idea distinta del corpo in quanto è soltanto una cosa estesa, non per, è
certo che io sono realmente distinto dal mio corpo e posso esistere senza di esso110.
Per meglio comprendere cosa si intenda come «distinzione reale», ci vengono incontro i Principi
della filosofia, in particolare al §60, che recita testuale:
La distinzione reale propriamente intercorre solamente tra due o più sostanze; e noi
percepiamo che esse sono realmente distinte l'una dall'altra per questo solo fatto che
siamo in grado di intendere in modo chiaro e distinto luna senza l'altra. Conoscendo
109
G. MORI, op. cit., p. 145.
110
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 785.
51
Dio, infatti, siamo certi che gli può fare tutto ciò che noi intendiamo in modo distinto;
cosicché, ad esempio, per questo solo fatto che già possediamo un'idea della sostanza
estesa o corporea, pur non sapendo ancora con certezza se una tale sostanza esista
effettivamente, siamo tuttavia certi che essa può esistere; e siamo certi che, qualora
esista, una qualunque sua parte, da noi delimitata con il pensiero, è realmente distinta
dalle altre parti della medesima sostanza. E ancora, per questo solo fatto che chiunque
intende di essere una cosa pesante, e può con il pensiero escludere da se stesso
qualsiasi altra sostanza, sia pensante sia estesa, è certo che chiunque, considerato in
questo modo, è realmente distinto da ogni altro sostanza pesante da ogni altra sostanza
corporea111.
È interessante notare che nell'ordine delle idee di Cartesio, l'intera dimostrazione della
distinzione reale tra la mente e il corpo, precede quello dell'esistenza dei corpi da cui è
totalmente indipendente: la dimostrazione della distinzione reale, si fonda, infatti, soltanto sulla
concepibilità separata di due essenze che attesta, alla luce dell'acquisizione della consapevolezza
dell'esistenza di Dio ottenuta precedentemente, la separazione delle cose corrispondenti, ovvero
la mia mente, «cosa pensante» e nel caso in cui esso esista, il mio corpo, «cosa estesa».
L'analisi dello stretto rapporto che intercorre tra mente e corpo sarà oggetto della prossima
sezione. Per il momento, concludendo, possiamo affermare che il cammino meditativo ci ha
mostrato l'esistenza di due res distinte nelle quali si esaurisce, attraverso l'articolazione
sostanza/attributo-modi, ogni realtà creata, immateriale e materiale. L'io meditante ha acquisito
consapevolezza che ogni manifestazione del pensiero è riconducibile a una modificazione
accidentale di sé, in quanto res cogitans, e ogni manifestazione a sé esterna, vale a dire relativa
alla natura, è riconducibile a una indefinita res extensa. La realtà creata sembra manifestarsi
dualisticamente. «Dualismo» è lo stereotipo che ha accompagnato la teoria delle sostanze e
l'antropologia cartesiana sin dalla loro immediata recezione, come abbiamo più volte fatto notare
precedentemente e come approfondiremo nelle prossime sezioni. L'articolazione della realtà
111
R. DESCARTES, Principi della filosofia in Opere, op. cit., p. 1753. Inoltre per maggiori informazioni riguardo il
concetto di «distinzione» in Cartesio rimando ad A. DONAGAN, Descartes's "Synthetic" treatment of the real
distinction between mind and body, in Descartes: critical and interpretative essay, edited by M. HOOKER,
University Press, Baltimore, 1978, pp. 186-196.
52
creata in senso duale sembra innegabile, ma ne vanno precisati i termini. L'etichetta del dualismo
ha consegnato all'oblio, dietro una superficiale semplificazione, il pluralismo sostanziale e la
gerarchia dell'essere nei quali si colloca la dottrina della res cogitans ed extensa.
L'identificazione tout court di cartesianismo e dualismo, nasce dall'enfasi posta su un aspetto
della cartesiana concezione della sostanza che ha guadagnato una posizione di primo piano, ma
che non ne esaurisce affatto il senso. Com'è noto, dualismo non è presente nei testi cartesiani112.
Scopo del prossimo paragrafo sarà quello di dimostrare come sia riduttivo considerare Cartesio
un filosofo esclusivamente dualista, ma, bensì, il ruolo preminente che possiede, all'interno della
sua filosofia, l'unione mente-corpo. Ciò sarà possibile mediante una ricca analisi del testo delle
Meditazioni, ma non solo, anche delle opere antecedenti e posteriori, oltre che del ricco apparato
di obiezioni e risposte redatto dallo stesso filosofo e che fa da appendice al suo capolavoro.
112
C. SANTINELLI, Mente corpo. Studi su Cartesio e Spinoza, Quattroventi, Urbino, 2000, p. 77.
53
II.II L'unione mente-corpo
La storia postuma del cartesianesimo, continua a provare l'inefficacia comunicativa delle risposte
di Cartesio ai suoi obiettori e più in generale, del non voler riconoscere, da parte dei
commentatori, la giusta e centrale importanza all'unione nel sistema cartesiano; a dimostrazione
di ciò, basti considerare il fatto che la distinzione tra mente e corpo, risulta essere molto più
presente nell'immaginario collettivo, come già è stato anticipato in conclusione della sezione
precedente, rispetto alla spiegazione della loro unione, e questo è un fatto ineluttabile. Dopo la
morte del filosofo, quando il suo pensiero dovette marciare in solitudine, la distinzione s'affermò
con una preminenza tale da compromettere l'unione, come se Cartesio avesse lasciato ai suoi
successori un uomo diviso in due, con la testa da ricollegare al corpo113.
Il problema degli interpreti successivi è quello di aver capovolto la questione della distinzione
mente-corpo: difatti, per Descartes, essa si poneva a partire dalla loro unione, mentre per i suoi
critici vi è un problema dell'unione posto come conseguenza della distinzione tra res cogitans e
res extensa114. Analizzando molte delle obiezioni che vengono mosse al filosofo, è facile
riscontrare proprio tale atteggiamento da parte dei suoi interlocutori, ovvero non riuscire a
comprendere l'unione mente-corpo, proprio perché essi partono dalla distinzione reale, come
mostrerò più avanti in questa sezione, quando analizzerò alcune delle obiezioni portate all'autore
delle Meditazioni. Qui vorrei comunque aggiungere, per meglio chiarire la posizione dell'unione
rispetto alla distinzione, due fatti riscontrabili dai testi cartesiani: il primo, lo troviamo all'interno
delle stesse Meditazioni, più precisamente nella sinossi, dove Cartesio scrive che «nessuno sano
di mente» potrebbe mai dubitare del fatto che gli uomini abbiano dei corpi, proprio per
specificare che il dubbio, e tutto ciò che ad esso seguita, è un mero escamotage metodologico,
113
H. GOUHIER, La pensée métaphysique de Descartes, Vrin, Paris, 1962, p. 323.
114
Ivi, p. 326.
54
per acquisire più solidità nelle proprie convinzioni115; il secondo fatto, lo si evince dalla
corrispondenza tra lo stesso Descartes e la principessa palatina Elisabeth, dove il filosofo parla
dell'unione, classificandola come una delle nozioni primitive 116, per dirla con Gouhier, possiamo
tranquillamente affermare che «la nozione dell'unione corrisponde a una res, ovvero il composto
umano, che costituisce una realtà originale, con i suoi modi, che non potremo scoprire né tramite
la nozione di res cogitans né attraverso quella di res extensa»117. Queste due realtà sono il punto
di partenza da cui, attraverso una più profonda analisi degli scritti di Cartesio, tenterò di
dimostrare come l'unione mente-corpo sia il naturale punto di partenza e di arrivo, in un
movimento a spirale, delle Meditazioni, ma più in generale di tutta l'opera cartesiana.
Partendo proprio da un'attenta analisi della Meditazione sesta, è facile riscontrare che Cartesio
dimostra di non voler assolutamente rinunciare all'unità psicosomatica dell'uomo. Egli riconosce
al «mio» corpo una caratteristica peculiare, ovverosia quella dell'inseparabilità, ciò lo distingue
nettamente da tutti gli altri. La dimostrazione della distinzione reale delle due res, non impedisce
infatti al soggetto cogitante di riconoscere il corpo come il «mio» corpo:
Non senza ragione, ancora, ritenevo che più d'ogni altro corpo mi appartenesse quello
che, come per uno speciale diritto, chiamavo mio: ed infatti non potevo esserne
disgiunto come da tutti gli altri; tutti gli appetiti e gli affetti li sentivo in esso e per
esso; il dolore e il titillamento del piacere, infine, li avvertivo nelle sue parti, e non in
altre che si trovassero al di fuori di esso118.
Anche se totalmente incorporea e inestesa, la mens cartesiana non è legata da un rapporto
contingente con il proprio corpo, bensì, essi formano un'intima unità. Nessuno dei due principi
115
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 701.
116
R. DESCARTES, Tutte le lettere op. cit., p. 1749.
117
H. GOUHIER, op. cit., p. 330.
118
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op.cit., p. 781.
55
metafisici posti da Descartes a fondamento della sua interpretazione della realtà, res cogitans e
res extensa, presi isolatamente, ma soltanto la loro stretta e intima unione, chiarisce il filosofo
nel corso della sesta Meditazione, può rendere in effetti conto della genesi delle qualità percepite,
vale a dire di quegli specifici stati della coscienza in cui la mente si dimostra passivamente
subordinata all'attività organica del proprio corpo e ai suoi meccanismi di interazione con
l'ambiente fisico e i corpi circostanti119. Una prova ulteriore della stretta unione tra mente e
corpo, secondo Cartesio, riguarda le sensazioni e i sentimenti, i quali registrano modificazioni
del corpo mediante segnali istituiti dalla natura, dove per natura s’intende l'ordine del creato
istituto da Dio:
Ora, non c'è nulla che questa natura mi insegni in modo più espresso del fatto che ho
un corpo, che sta male quando sento dolore, che ha bisogno di mangiare o di bere,
quando ho fame o sete, e altro di simile; e quindi non devo dubitare che in ciò vi sia
qualcosa di vero120.
Le proprietà costitutive del nostro corpo, degli oggetti con cui entriamo in contatto e l'universo
delle qualità percepite, ottengono, pertanto, la loro legittimazione metafisica solo ed
esclusivamente dalla loro attitudine ad informarci immediatamente su ciò che conviene o nuoce
all'individuo psicofisico, ovvero nella loro specifica finalità conservativa:
Inoltre, dalla natura mi viene anche insegnato che esistono, attorno al mio, vari altri
corpi, dei quali alcuni sono da ricercare, altri da fuggire. E, certamente, dal fatto che io
senta diversissimi colori, suoni, odori, sapori, caldo, durezza, e così via concludo
correttamente che nei corpi ci sono alcune varietà ad essi corrispondenti, sebbene forse
non simili, da cui giungono queste varie percezioni dei sensi; e in base al fatto che
119
N. ALLOCCA, op. cit., p. 31.
120
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 789.
56
alcune di quelle percezioni mi sono gradite, altre sgradite, risulta del tutto certo che il
mio corpo, o piuttosto io tutto, in quanto sono composto di mente e corpo, posso
ricevere vari vantaggi o svantaggi dai corpi che mi circondano121.
Tale riferimento della sesta Meditazione alla finalità vitale delle sensazioni, non è però affatto in
contrasto con il rigetto programmatico di Cartesio della causalità finale dalla fisica122.
La finalità, infatti, svolge un ruolo essenziale nell'analisi cartesiana dei processi dell'unione
mente-corpo. Proprio tale funzione generale dell'autoconservazione dell'organismo, spiega,
innanzitutto, i movimenti muscolari che regolano i suoi rapporti di prossimità con i corpi
circostanti: il carattere benefico, nocivo o neutro che l'interazione con essi può determinare; in
presenza ad esempio di un fuoco a cui inavvertitamente si è troppo avvicinato un piede, innesca
il movimento automatico dei muscoli che «servono a ritirare il piede dal fuoco» o di quelli che
«servono ad allungare le mani e piegare tutto il corpo in atto di difesa»123 .
Un ulteriore esempio dell'importanza della funzione conservativa, lo troviamo nell'articolo LII
delle Passioni dell'anima:
Noto, inoltre, che gli oggetti che muovono i sensi suscitano in noi passioni diverse non
secondo le loro differenze, ma solo secondo i diversi modi in cui possono esserci
nocivi o utili oppure, in generale, essere importanti, e che l'uso di tutte le passioni
consiste solo nel disporre l'anima a volere le cose che la natura ci indica come utili e a
121
Ibidem.
122
N. ALLOCCA, op. cit., p. 33.
123
R. DESCARTES, L'uomo, in Opere filosofiche, vol. 1, Laterza, Roma, 1986, a cura di E. GARIN, p. 224.
57
persistere in questa volontà; così, la stessa agitazione degli spiriti, che di consueto le
causa, dispone il corpo ai movimenti che servono realizzare queste cose124.
La funzione conservativa della sfera sensibile nel composto umano non potrebbe dunque
esercitarsi se, malgrado la loro opposta realtà ontologica, l'io e il proprio corpo non costituissero
sul piano organico una totalità, vale a dire un'autentica unità vitale, in cui la mente si coordina in
maniera involontaria agli automatismi del corpo.
Se io in quanto «cosa pensante», non fossi strettamente congiunto al mio corpo e con esso come
mescolato, tanto da formare una vera e propria unità, ma fossi meramente presente al mio corpo
nel modo in cui lo è l'anima platonica, allora non proverei dolore nel caso di una ferita, bensì
osserverei dall'esterno, lo percepirei con il puro intelletto, né avvertirei fame o sete quando il
corpo ha bisogno di cibo o di bevande, ma li intenderei intellettualmente in modo chiaro, senza
provare le confuse sensazioni che derivano dalla strettissima unione e fusione di mente e corpo:
La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete
ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma
sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con
esso un qualcosa d'uno. Diversamente, infatti, io, che non sono null'altro che una cosa
pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirai questa
ferita col puro intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe
nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei in modo
espresso, e non avrei confuse sensazione di fame e sete. Certamente, infatti, queste
sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del
pensiero originati dall'unione, quasi una commistione della mente col corpo125.
124
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., pp. 2385-2387.
125
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 789.
58
Proprio a tal proposito, quando analizzerò le obiezioni mosse da Arnauld, si vedrà come Cartesio
si rifarà a questo specifico passo delle Meditazioni, per difendersi dalle accuse di platonismo.
L'argomento principe dell'unione mente-corpo, in ogni caso, come abbiamo visto, è proprio
quello della percezione. Solo ed esclusivamente dal fatto che percepiamo direttamente le
sensazioni che colpiscono il nostro corpo, possiamo affermare che questo corpo, nello specifico è
il «mio» corpo.
Come scrive Gueroult, e come vedremo meglio con l'analisi delle tre nozioni primitive:
La comprensione dell'unione mente-corpo, va ricercata nel 'senso', non più considerato
nel suo contenuto rappresentativo, nella sua realtà oggettiva, nella sua dimensione
oggettiva, nemmeno nell'accezione qualitativa, ma sotto l'aspetto oscuro e confuso dei
suoi dati. Per utilizzare un linguaggio moderno, da una ricerca che concerne la verità
della comprensione bisogna passare ad una ricerca della verità del vissuto126.
Un caso particolare di percezione, è la vista, che Cartesio, però, non analizza nelle Meditazioni,
bensì in opere antecedenti: l'Homme che fa d'appendice al travagliato trattato Le Monde e nella
Dioptrique.
Tralasciando la spiegazione dell'intero processo visivo, spiegato nella Diottrica127, la cosa
realmente interessante, è la rielaborazione delle immagini nel cervello, ovvero quel processo
'insondabile' e che va al di là della mera spiegazione fisiologica.
Le immagini percepite dall'occhio, vengono trasmesse ed elaborate, all'interno de «l'organo del
senso comune»128, ovvero la famosa ghiandola pineale, che approfondirò più avanti in questa
sezione. È molto interessante notare che Cartesio, a differenza di come intendevano la percezione
126
M. GUEROULT, Descartes selon l'ordre des raisons, Aubier, Paris, 1953, t.2, p. 126, traduzione propria.
127
R. DESCARTES, Diottrica in Opere, op. cit., pp. 189-209.
128
Ivi, p. 187.
59
sensibile gli scolastici, non pensa affatto che la 'qualità' percepita sia presente nell'organo di
senso o nello stesso intelletto, proprio perché non è l'occhio a vedere, bensì l'anima, infatti:
Ora, sebbene questa effigie, passando in tal modo fin dentro la nostra testa, conservi
sempre una qualche somiglianza con gli oggetti da qui procede, non bisogna tuttavia
credere, come vi ho poc'anzi fatto intendere a sufficienza, che sia per mezzo di questa
somiglianza che essa ce ne procura la sensazione, come se nel nostro cervello vi
fossero ancora altri occhi con i quali potessimo percepirla; ma, piuttosto, che sono i
movimenti di cui essa è composta che agendo immediatamente sulla nostra anima (in
quanto unita al corpo), sono istituiti dalla Natura per procurarle tali sensazioni129.
Qui, come in molte altre parti dell'opera cartesiana, risulta la fondamentale funzione del cervello,
struttura primaria e originaria di relazione tra la mente e il mondo.
Ritornando invece alle Meditazioni, vorrei ora porre l'accento su di un argomento troppo spesso
ignorato dai commentatori e interpreti del filosofo francese, ovvero il linguaggio di stampo
giuridico adottato da Cartesio proprio in tale opera. È importante ricordare, a tal proposito, che
egli fosse laureato per l'appunto in diritto e questo gli garantiva, come vedremo, una grande
padronanza delle tecniche giuridiche. Tale questione è, a mio avviso, di capitale importanza per
fare chiarezza sul tipo di rapporto che intercorre tra la mente e il corpo, nonché su che genere di
unione essi rappresentano. La tematica del linguaggio cartesiano delle Meditazioni è trattata in
modo innovativo ed esaustivo nel prezioso testo di Allocca del quale cercherò di seguire, per
sommi capi, l'argomentazione130. Per iniziare è necessario ricordare quale sia la caratteristica
peculiare ed imprescindibile del rapporto della mente con «questo» corpo, ovvero quello
dell'inseparabilità, che lo rende particolare, rispetto agli altri corpi. A questo proposito Cartesio
utilizza l'espressione latina «speciale quoddam ius», in quel punto della sesta Meditazione in cui
129
Ivi, p. 189.
130
N. ALLOCCA, op. cit., pp. 46-97.
60
il corpo viene restituito alla sfera di ciò che appartiene inalienabilmente al soggetto meditante 131.
In principio, questa verità acquisita solo sul finire del percorso meditativo, era una credenza
fondata su di un qualche diritto, il quale, una volta dimostrata l'esistenza di un creatore
sommamente buono fonte di verità, risulta nella pienezza del suo fondamento.
Innanzitutto è importante chiederci: a che tipo di «diritto» si riferisce Cartesio per poter utilizzare
senza problemi l'aggettivo possessivo «mio» in riferimento a quel corpo che era stato estromesso
nella seconda Meditazione, rispetto alla natura del soggetto meditante? Inoltre, la formula
«diritto speciale» rinvia ad un qualche tipo di terminologia tecnica, nota ai contemporanei del
filosofo ma non ovvio per l'interprete moderno?
Tale ipotesi non sarebbe affatto da scartare, né tantomeno dovrebbe sorprendere, in quanto
l'intero apparato linguistico delle Meditazioni è in toto riconducibile a quel filone filosofico noto
come seconda Scolastica132, il quale è a sua volta pieno di tecnicismi. Come è stato dimostrato
nel primo capitolo, Descartes aveva un rapporto quantomeno problematico con la filosofia del
suo tempo, ma ciò non gli aveva impedito di leggerne i testi, anzi tutt'altro. Nel collegio di La
Flèche avevano studiato prestigiosi esponenti della filosofia del diritto dell'epoca, tra cui
Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Ludovico Molina, Francisco Suárez ecc. i quali avevano
fornito un grande contributo riguardo al diritto di proprietà e in particolare sulla proprietà del
corpo e del diritto dell'individuo all'autoconservazione133.
Inoltre, non va trascurato, ciò che ho anticipato pocanzi, ossia il background di studi giuridici
che rappresentavano una componente essenziale della formazione intellettuale di Cartesio. Non
mancano infatti testimonianze della sua competenza nel campo della giurisprudenza, come
confermano i rimandi, che lo stesso filosofo fa, a tematiche giuridiche, durante la polemica
riguardo al cosiddetto affaire Regius134.
131
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 81.
132
N. ALLOCCA, op. cit., p. 48.
133
Ibidem.
134
Per maggiori informazioni a tal riguardo ALLOCCA, op. cit., pp. 142-165, e più avanti in questa tesi.
61
Appurata quindi la padronanza cartesiana in materia di diritto, è ora il caso di fare un tentativo di
comprensione della ragione profonda per la quale, tale espressione speciale quoddam ius faccia
la sua apparizione proprio in quello snodo centrale della sesta Meditazione.
Innanzitutto è necessario precisare che la suddetta formula non appare in altri testi cartesiani,
lettere incluse135. Data la proverbiale prudenza del nostro autore, questo fatto dovrebbe risultare
ancora più curioso agli occhi del lettore. La qualifica di «speciale», attribuita allo ius di proprietà
del corpo, rinvia innanzitutto, per contrapposizione logica, all'esistenza di altre categorie
normative di ambito applicativo più generale. «Ius speciale» si caratterizza infatti
immediatamente per la derivazione dell'aggettivo specialis da species, il cui valore logico è
individuato dalla correlazione/opposizione alla nozione di genus, che nel campo del diritto
possedeva un significato tecnico, connesso alla categoria di ius generale o commune136.
Sinteticamente, la categoria del diritto speciale, era riferita ai caratteri del privilegio. Ciò che
differenziava lo ius speciale dallo ius commune è che quest'ultimo indicava le norme giuridiche
di valore generale (genus), ovvero delle disposizioni che dovevano applicarsi, in modo uniforme,
a tutti i soggetti giuridici; il primo, invece, si riferisce alle norme particolari (species) ed era
spesso legittimato da consuetudini e da un sentimento di obbligazione137.
La cosa da sottolineare è che la consuetudine, specie nel diritto romano o canonico, primeggia
sul diritto comune, anche senza il bisogno che vi sia un codice scritto che ne affermi la forza. Nel
momento in cui esiste un diritto speciale, esso prevarica quello comune. Seguendo il
ragionamento di Allocca, tale polarità concettuale tra genere e specie, diritto comune e diritto
speciale, è presente all'interno delle Meditazioni. Questo tipo di conclusione trova una sua
legittimazione nel testo cartesiano. Cartesio sceglie di proposito l'espressione «speciali quoddam
iure», probabilmente per rimandare ad un concetto già espresso nella prima Meditazione, proprio
utilizzando il termine ius, ovvero nel momento in cui parla della difficoltà nel liberarsi delle
opinioni rette proprio dalla familiarità e dalla consuetudine:
135
N. ALLOCCA, op. cit., p. 51.
136
Ivi, p. 53.
137
Ivi, p. 55.
62
Ma aver osservato questo ancora non basta, perché devo aver cura di ricordarmene: di
continuo, infatti, ritornano le opinioni consuete e si impadroniscono della mia
credulità, come se questa fosse per lunga abitudine e diritto di familiarità loro schiava,
quasi persino contro il mio volere; e non perderò mai abitudine di confidare in esse e
di dare ad esse l'assenso, fino a quando le supporrò tali quali sono in realtà, ossia bensì
dubbie, in qualche modo, come or ora ho mostrato, ma nondimeno molto probabili e
tali che è molto più conforme a ragione credere ad essere, piuttosto che negarle138.
Come si può notare, le opinioni sottoposte al vaglio del dubbio e destituite temporaneamente di
fondamento razionale, mantengono, nonostante ciò, nella prima Meditazione, una forza di
imposizione sulla credulità del soggetto meditante che deriva loro da un vero e proprio diritto
consuetudinario, cioè dal loro uso costante, che le eleva a norma, a parametro del vero.
In questa prospettiva il processo di distacco della mente dai sensi, che viene attivato nella prima
Meditazione, è terreno di scontro tra tre distinti domini: quello delle opinioni dettate dalle
consuetudini che resistono al dubbio; quello della ragione, la quale è sorretta da alcune
proposizioni analitiche (come quelle matematiche) che appaiono indubitabili; infine quello della
volontà dubitante139. In conclusione, le opinioni consuetudinarie, esercitano sull'ego meditante
una pressione e un'autorità tanto grande da essere considerate alla stregua di uno ius, quello
stesso ius che nella sesta Meditazione verrà designato come «speciale», in virtù del quale
considero spontaneamente e legittimante appartenermi quel corpo che chiamo «mio». Che tale
ius debba essere interpretato non solo come realtà di fatto, ma come una vera e propria realtà di
diritto, lo si evince dal testo cartesiano, oltre che dal contesto della tradizione giuridico-politica
138
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 709.
139
N. ALLOCCA, op. cit., p. 59.
63
fondata sull'articolazione ius generale-ius speciale, e sul ruolo centrale giocato dalla
consuetudine140.
Quanto fin qui analizzato porta a credere che la locuzione «speciale quoddam ius», possa
alludere ad un modello giurisprudenziale che si articola in una pluralità di ordinamenti.
«L'unione e quasi commistione» nell'uomo di due sostanze complete e contrapposte, la mente e il
corpo, è espressa nell'istituzione di una precisa concretizzazione nella natura, rappresentata dal
soggetto umano, che giustifica la nascita e lo sviluppo di uno speciale quoddam ius, lo ius
familiaritatis, diritto della credenza universale e irriflessa del possesso del proprio corpo e
dell'unità della persona.
Naturalmente tutto questo apparato trova il suo fondamento nella dimostrazione dell'esistenza di
Dio, un Dio inteso come legislatore. Non è però obbiettivo di questa tesi analizzare le prove
dell'esistenza di Dio, né il suo ruolo, seppur centrale, nella filosofia di Descartes, pertanto, questa
parte non sarà trattata, rimando però al solito illuminante testo di Allocca141.
Continuando con l'analisi del lessico giuridico cartesiano, ci troviamo dinanzi al termine
abductio. Esso è utilizzato da Descartes nella seconda Meditazione, nello specifico quando
compie l'operazione proprio di subductio (sottrazione) di ciò che non appartiene al soggetto
meditante. La valenza giuridica di tale termine sta ad indicare la «rimozione dalla partecipazione
ad un'azione». È interessante notare come la definizione dell'identità del soggetto cartesiano,
passa, dunque, attraverso la rigorosa e indubitabile determinazione dei confini di ciò che è mio,
di ciò che mi appartiene in modo inalienabile e cioè innanzitutto l'atto del pensare e di tutte
quelle formule che possono sostituirsi a «io penso». Tale appartenenza, non va però intesa in
senso generico, ma si configura come un autentico possesso, come una proprietà di me stesso,
proprietà che non mi può essere in alcun modo sottratta.
140
Ibidem.
141
N. ALLOCCA, op. cit., pp. 62-76.
64
Inoltre, non solo subducere, ma anche pertinere e tribuere, impiegati da Cartesio sempre nella
seconda Meditazione142, che designano l'appartenenza e l'attribuzione, hanno in effetti una
connotazione specificamente giuridica. Pertinere designa «l'appartenenza per diritto», «l'essere
proprio di», così come tribuere rinvia ad uno dei precetti fondamentali del diritto romano, ovvero
«dare a ciascuno il suo» e si riferisce al concetto di giustizia distributiva. Infine, lo stesso
abducere mentem a sensibus, che costituisce il motore del procedimento meditativo, si configura
al pari di subducere come un'operazione dalla connotazione giuridica143. Abducere possiede il
significato tecnico di «deducere de possessione per sententiam iuris» cioè rimuovere da una
funzione o essere interdetto dall'esercizio di una facoltà, ad esempio la facoltà di generare.
Pertanto il distacco della mente dai sensi conduce al riconoscimento della distinzione di mente e
corpo e la rimozione della mente da quelle funzioni erroneamente attribuitegli dal senso comune,
dal pregiudizio della massa, come ad esempio le funzioni vegetative, alle quali era connessa la
facoltà di generare. Possiamo conseguentemente affermare, dando seguito a questa
interpretazione del linguaggio di Cartesio, che staccare la mente dal corpo nell'esercizio
meditativo significa quindi identificare e distinguere quelle funzioni che competono di diritto
rispettivamente alla mens e al corpus, ponendo sotto interdizione tutte quelle facoltà intermedie
tra lo psichico e il fisico, abusivamente immaginate esistenti dalla tradizione144.
La brillante analisi dell'Autore, si conclude dando legittimazione alla valenza giuridica e al ruolo
centrale che si deve riconoscere a tale linguaggio nell'opera cartesiana, tentando di dimostrare la
forza e la presenza che i dibattiti riguardo al diritto naturale di proprietà di sé e del proprio corpo
avevano durante il periodo in cui lo stesso Cartesio compone le Meditazioni e prima ancora, al
tempo in cui si era formato come filosofo. È noto che la concezione dell'individuo come
essenzialmente proprietario della propria persona, del proprio corpo, abbia le sue radici in un
quadro storico e teorico assai complesso, segnato dalla profonda riformulazione del concetto di
ius, determinata da un lato dal pieno affermarsi in età rinascimentale della nozione di diritto
soggettivo e, dall'altro dalle conseguenze teologico-giuridiche della scoperta e della conquista
142
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., pp. 715-717.
143
N. ALLOCCA, op. cit., p. 84.
144
N. ALLOCCA, op. cit., p. 85.
65
delle Americhe. L'Autore avanza l'ipotesi, quantomeno assai probabile, della conoscenza da parte
di Cartesio di un filone giuridico-teologico particolarmente importante nel quadro
dell'affermazione moderna del diritto soggettivo di proprietà del corpo e della nascita del
possessiv individualism. Si tratta della riflessione sul diritto di proprietà condotta dalla scuola
giuridico-teologica di Salamanca, a partire soprattutto dalla pubblicazione dell'importante e
influente Relectio de Indis et de Iure Belli di Francisco de Vitoria145. Una delle questioni più
dibattute negli anni immediatamente successivi alla scoperta delle Americhe, era incentrata sulla
liceità dell'appropriazione delle terre americane da parte dei Conquistadores e sul riconoscimento
o meno alla popolazione indigena della legittimità dei diritti, e in primo luogo quello di
proprietà. Tale riconoscimento è legato alla determinazione della natura razionale e
dell'appartenenza degli indios al genere umano, dal momento che non vi è possesso che non sia
fondato su un diritto, e poiché solo gli esseri razionali possono essere soggetti di diritto e quindi
di proprietà, soltanto l'uomo, afferma Vitoria, è realmente per natura soggetto di diritto, di
proprietà, poiché essere razionale creato da Dio. È necessario sottolineare inoltre il fatto che la
categoria del dominium è pensata, dai teologi-giuristi scolastici, come derivante da un più
fondamentale diritto alla libertà, che è innanzitutto autodeterminazione della volontà146.
L'analisi continua notando la similitudine tra i principi della teoria della proprietà sviluppata
dalla scuola moderna del diritto naturale e il testo della Meditazione IV di Cartesio, ossia che è
solo la libertà, intesa come arbitrio, che rende l'individuo proprietario del proprio corpo, e
sancisce l'unità psicofisica della persona:
C'è solo la volontà, ossia la libertà dell'arbitrio, che sperimento in me tanto grande da
non poter apprendere l'idea di nessun'altra più grande; così che è soprattutto attraverso
di essa che intendo di portare in me una certa immagine e somiglianza di Dio. Infatti,
per quanto essa sia senza paragone più grande di Dio che in me, sia in ragione della
conoscenza e della potenza che ad essa sono congiunte e la rendono più solida ed
145
F. DE VITORIA, Relectio de Indis et de Iure Belli, Salamancae, 1532. Inoltre, a cura di P. GROSSI, La seconda
scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Giuffrè, Milano, 1973.
146
N. ALLOCCA, op. cit., p. 94.
66
efficace, sia in ragione dell'oggetto, poiché essa si estende ad un numero maggiore di
oggetti, tuttavia, considerata in sé formalmente e precisamente, non sembra più
grande: consiste infatti in questo soltanto, che possiamo fare o non fare (ossia,
affermare o negare, ricercare o fuggire) una stessa cosa, o piuttosto, in questo soltanto,
che siamo portati verso quel che l'intelletto ci propone di affermare o di negare, ossia
di ricercare o di fuggire, in modo tale da non sentirci determinati a ciò da alcuna forza
esterna 147.
Da notare i termini specifici adottati da filosofo, ovvero «affermare», «negare», «ricercare»,
«fuggire», i quali indicano, non solo funzioni esclusivamente mentali, bensì anche l'azione della
«ricerca» e della «fuga», che implicano atti corporei.
Concludendo, è il libero esercizio della volontà che consente l'avvio dell'abductio mentis a
sensibus all'inizio del percorso meditativo e la determinazione di ciò che mi appartiene di diritto;
è l'attuazione della medesima volontà libera che consente di esercitare a pieno titolo il dominio
che ho speciali quodam iure sul mio corpo, padroneggiandone gli istinti e orientandone il
comportamento a fini morali.
L'analisi condotta sulla formula speciali quodam iure impiegata nella sesta Meditazione, e più in
generale la profonda e perentoria attenzione mostrata verso il linguaggio giuridico adottato da
Cartesio,
consente
di
avanzare
l'ipotesi
della
necessaria
presenza,
a
fondamento
dell'incorporazione della mente nel concreto individuo psicofisico, di una implicita dottrina del
diritto naturale di proprietà del corpo che contribuisca a spiegare la necessaria implicazione
reclamata da Cartesio tra la teoria della distinzione reale e di quella dell'unione intrinseca mentecorpo nell'uomo, nonché la priorità ontologica e psicologica della seconda sulla prima.
Terminata la trattazione del linguaggio di stampo giuridico utilizzato nelle Meditazioni, sposterò
la mia attenzione ora sulle obiezioni mosse a Descartes dai suoi contemporanei. Fin dal principio
era progetto del filosofo, quello di confrontarsi con tutti coloro i quali sarebbero stati in grado di
147
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 757.
67
fornire obiezioni fondate alle sue tesi. Naturalmente, per ragioni di spazio e di interesse, qui
verranno analizzate solo le obiezioni che riguardano l'argomento trattato, ovvero l'unione tra
mente e corpo, in modo tale da meglio poter chiarire l'importanza e centralità di questo concetto
nella filosofia cartesiana e della maniera in cui questa teoria venne percepita al tempo della
pubblicazione del capolavoro del filosofo francese.
Le obiezioni riscontrate da Descartes su tale argomento, sono essenzialmente di natura logica,
ovvero sulla difficoltà di chi legge, nel comprendere come due sostanze assolutamente antitetiche
tra loro, possano coesistere e agire l'una sull'altra, nel composto umano. Il problema mente-corpo
non è incentrato però, esclusivamente, su come essi possono interagire, ma anche sul come
possono essere in relazione l'uno con l'altro 148.
Ciò che si evince dall'analisi cartesiana, è che questo problema risulta essere essenzialmente
spaziale. Questo poiché, mentre l'anima, la res cogitans, con la quale più volte è stato specificato
Cartesio identifica la mente, è caratterizzata dall'essere immateriale, il corpo, al contrario, è
definito dall'estensione, quindi come una sostanza che occupa uno spazio.
La difficoltà, pertanto, non è soltanto data dal fatto che corpo e mente sono differenti
ontologicamente ma che una loro interazione, in quanto antitetici, comporterebbe
necessariamente una contraddizione logica. La natura del corpo è di trovarsi nello spazio, la
natura della mente è di non essere nello spazio; almeno questo è ciò che sostiene Descartes.
Qualcosa che non si trova nello spazio dovrebbe agire su ciò che invece si trova nello spazio, tale
è l'insanabile contraddizione del dualismo.
Eppure apparentemente Cartesio non comprende la portata di tale problematica. Essa viene alla
luce grazie a due dei suoi critici, ovvero la principessa Elisabetta di Boemia e Pierre Gassendi.
Essi puntano sul fatto che la mente non può in alcun modo agire sul corpo e affinché possa
avvenire tale contatto, la mente dovrebbe trovarsi nello spazio e quindi avere un'estensione, ma
in quel caso l'anima sarebbe fisica, almeno secondo i criteri usati dallo stesso Descartes149.
148
J. WESTPHAL, The mind-body problem, Mit Press, Cambridge, 2016, p. 12.
149
Ivi, p. 16.
68
Per prima cosa riporterò le obiezioni portate avanti da Pierre Gassendi, abate vicino alla filosofia
scolastica, che ha composto la quinta serie di obiezioni. Egli compone delle «proposte», per ogni
singola Meditazione, partendo dalla prima, riguardo «ciò che può essere revocato in dubbio».
Naturalmente in questa sede verranno analizzate esclusivamente le obiezioni e risposte
riguardanti la tematica centrale di cui mi sto occupando, ovvero la questione mens-corpus. Dopo
un'attenta analisi della prima Meditazione, l'abate sposta la sua attenzione sul rapporto mentecorpo, obiettando che se si riducesse l'anima e quindi la mens, ad una realtà totalmente
immateriale, risulterebbe impossibile spiegare in che modo essa possa essere legata al corpo.
Gassendi sostiene che è necessario spiegare in che modo questa congiunzione o mescolamento
possa competere all'ego, dal momento che esso si è sostanziato in una res incorporea, inestesa e
indivisibile. Termini come «mescolanza» o «confusione», possono avere un significato soltanto
se sono riferiti a relazioni che intercorrono tra cose materiali:
Resta da spiegare in che modo, se siete incorporea, inestesa ed indivisibile, possa
competervi questa congiunzione, quasi una commistione, o confusione. A, infatti, non
siete più grande di un punto, come vi congiungerete a tutto il corpo, che ha una certa
grandezza? Come, almeno, vi congiungerete al cervello o a quella sua esigua parte
che, per quanto piccolo sia, ha tuttavia grandezza o estensione? Se non avete
assolutamente alcuna parte, in che modo vi mescolate, o quasi vi mescolate, alle
particelle di questa parte? Non c'è infatti mescolanza senza parti che si possono
mescolare, da un lato e dall'altro. E se siete completamente discreta, in che modo vi
confondete e componete un uno con la stessa materia? E, dal momento che la
composizione, la congiunzione o l'unione è fra parti, fra tali parti non dovrebbe esserci
una proporzione? Quale proporzione può essere intesa fra una cosa corporea ed una
incorporea? Possiamo forse capire come la pietra e l'aria si compongono - nella pietra
pomice, ovviamente - così da dar vita ad una autentica composizione? E, tuttavia, la
proporzione fra la pietra e l'aria, la quale pure è corpo, è più grande di quella che c'è
tra il corpo e l'anima, o una mente interamente incorporea. E non deve forse l'unione
avvenire per intimo contatto? In che modo, però, come dicevo prima, questo accade
69
senza corpo? In che modo ciò che è corporeo afferra ciò che è incorporeo così da
tenerlo a sé congiunto, o in che modo l'incorporeo afferra il corporeo così da esservi
reciprocamente legato, se in esso non c'è assolutamente nulla da afferrare, o nulla con
cui afferare?150
Ovviamente Descartes è già più che conscio di tale problematica, tanto da aver anticipato la
possibilità di un’obiezione del genere, nel testo stesso delle Meditazioni e precisamente, come
già ho avuto modo di far notare, nella sesta Meditazione, che qui richiamiamo in risposta
all'obiettore:
La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete
ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma
sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con
esso un qualcosa d'uno. Diversamente, infatti, io, che non sono null'altro che una cosa
pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirai questa
ferita col puro intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe
nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei in modo
espresso, e non avrei confuse sensazione di fame e sete. Certamente, infatti, queste
sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del
pensiero originati dall'unione, quasi una commistione della mente col corpo151.
Secondo Gassendi sarebbe necessario ammettere il fatto che la mente sia in qualche modo
materiale e quindi estesa, altrimenti si rinuncia ad una spiegazione razionale dell'unione e della
relazione mente-corpo:
150
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., pp. 1339-1441.
151
Ivi, p. 789.
70
A questo punto, poiché riconoscete di sentire dolore, vi chiedo: in che modo, se siete
incorporea ed inestesa, vi ritenete capace della sensazione di dolore? Infatti, non si
intende affezione di dolore se non come proveniente da un certo distacco fra parti,
allorché tra queste si frappone qualcosa che determina una soluzione di continuità.
Ossia, lo stato di dolore è uno stato contro natura; in che modo, però, può essere, o
essere affetto, contro natura ciò che per natura è d'un sol modo, semplice, indivisibile,
non trasformabile? E poiché il dolore è o alterazione o non avviene senza alterazione,
in che modo può essere alterato ciò che, essendo meno suddivisibile in parti di quanto
lo sia un punto, non può divenire altro, o mancare dell'essere che è, senza essere
ridotto al nulla? Aggiungo anche: dal momento che il dolore proviene dal piede, dal
braccio o da altre parti insieme, non occorre forse, perché non sentiate dolore
confusamente e quasi in una parte soltanto, che in voi ci siano varie parti nelle quali lo
riceviate in vari modi? Ma, in una parola, rimane sempre la difficoltà generale: in che
modo il corporeo riesca a comunicare con l'incorporeo, quale proporzione sia lecito
stabilire fra l'uno e l'altro152.
Soltanto una sostanza corporea ma estremamente sottile e che si diffonde per tutto il corpo, che
genera l'organismo e ne comanda le funzioni vitali e non una sostanza immateriale, tale soltanto
può essere, secondo Gassendi, l'anima. Egli rimane convinto della necessità di un medium tra
mente e corpo, unico escamotage affinché la loro relazione possa essere reale e di conseguenza
anche la loro distinzione.
A tali affermazioni, Cartesio risponde in maniera piuttosto sbrigativa, sostenendo di fatto che
Gassendi è incapace di cogliere il nodo centrale della questione:
Ciò che scrivete qui a proposito dell'unione della mente col corpo è simile a quel che
precede. E non obiettate nulla, in nessun luogo, contro i miei argomenti, ma proponete
solo dei dubbi che vi paiono conseguire dalle mie conclusioni, per quanto, in realtà,
152
Ivi, p. 1141.
71
essi
originino solo
dal
fatto che
volete
comunque sottoporre all'esame
dell'immaginazione ciò che per propria natura non cade sotto l'immaginazione 153.
Successivamente, in una lettera del 12 gennaio 1646154 al signor Clerselier, inserita nell'edizione
francese delle Meditazioni che Cartesio scrive dopo aver letto, tramite un riassunto scritto da
alcuni colleghi del destinatario, l'opera del Gassendi intitolata Disquisitio Metaphysica composta
contro lo stesso Descartes, il nostro autore decide di fornire una, seppur breve, risposta alle
ulteriori obiezioni mossegli dall'abate:
Le due questioni che essi aggiungono ancora alla fine, vale a dire: Come l'anima
muove il corpo, se essa non è materiale? e Come essa può ricevere la specie degli
oggetti corporei? mi danno qui unicamente occasione di avvertire che il nostro autore
(Gassendi) non ha avuto ragione allorché, sotto il pretesto di farmi delle obiezioni, mi
ha proposto una quantità di questioni siffatte, la cui soluzione non era necessaria per
provare le cose che ho scritto e che i più ignoranti possono, in un quarto d'ora,
produrre in più gran numero di quante tutti i più dotti sarebbero capaci di risolvere in
tutta la loro vita; e questa è la causa del fatto che io non mi sono preso la pena di
rispondere a nessuna. Ed esse presuppongono, fra le altre, la spiegazione dell'unione
che c'è fra l'anima ed il corpo, che ancora non ho trattato. Ma a voi dirò che tutta la
difficoltà che esse contengono non procede se non da una supposizione che è falsa e
non può essere in alcun modo provata, e cioè che, se l'anima ed il corpo sono due
sostanze di diversa natura, questo impedisce loro di poter agire l'una contro l'altra; al
contrario, infatti, coloro che ammettono accidenti reali come il calore, la pesantezza, e
simili, non dubitano che questi accidenti possano agire contro il corpo e, tuttavia, tra
essi e quest'ultima, vale a dire tra gli accidenti e una sostanza, c'è più differenza che tra
due sostanze155.
153
Ivi, p. 1197.
154
Ivi, pp. 1399-1411.
155
Ivi, p. 1409.
72
Non è chiaro come mai Descartes rifiuti di fornire delle risposte approfondite a Gassendi su tali
tematiche, quasi sicuramente ciò dipende dal suo interlocutore e dal modo col quale quest'ultimo
si è posto nei confronti dell'autore. Leggendo le risposte, specie alla seconda questione sollevata
da Gassendi, ovvero il rapporto mente-corpo, è possibile notare per tutto lo scorrere del testo, un
Cartesio particolarmente stizzito per i modi, quasi di scherno, con cui l'abate aveva portato le
proprie obiezioni156, difatti i due si punzecchiano a vicenda, Gassendi rivolgendosi a Descartes lo
chiama provocatoriamente «Mente», l'autore delle Meditazioni, per non essere da meno, etichetta
il suo interlocutore come «Carne». Questo, a mio avviso, basta a comprendere la riluttanza del
filosofo a fornire delle spiegazioni convincenti al suo obiettore.
Da un punto di vista totalmente opposto a Gassendi, partono le critiche dell'autore della quarta
serie di obiezioni, il teologo giansenista Antoine Arnauld.
Egli, per prima cosa, sostiene che Descartes non è riuscito a dimostrare in modo sufficiente,
all'interno della seconda Meditazione, che la vera essenza dell'io sia di essere una cosa pensante.
Specificando meglio, Arnauld è convinto che dal meccanismo partito con la seconda
Meditazione, sia possibile ottenere un qualche tipo di conoscenza riguardo «me stesso», ma che
nel momento in cui il corpo viene escluso preliminarmente dalla mia essenza, tale forma di
conoscenza non può essere definita come completa ed adeguata:
Ed innanzitutto, perché la premessa maggiore di quel sillogismo sia vera, certo la si
deve intendere in riferimento non ad una conoscenza qualunque, per quanto sia chiara
e distinta, ma solo da una conoscenza adeguata della cosa. […] Ma, se qualcuno
revocasse in dubbio questa assunzione e affermasse che, allorché vi concepite
quale cosa pensante e non estesa, così come quando vi concepite quale cosa
estesa non pensante, il concetto che avete di voi stesso è solo inadeguato, si
dovrebbe vedere in che modo la vostra affermazione sia stata provata in quel
156
Ivi, pp. 1149-1163.
73
che precede. Non ritengo infatti che la cosa sia talmente chiara da dover essere
assunta, senza prova, quale principio indimostrabile. [...] Mi sembra però che in
base a questo si possa concludere soltanto che si può dare, senza cognizione del corpo,
una qualche cognizione di me stesso; ma che tale cognizione sia completa ed
adeguata, così che io sia certo di non sbagliarmi allorché escludo il corpo dalla mia
essenza, non mi è ancora interamente perspicuo. 157
Secondo la visione di Arnauld, l'argomentazione cartesiana che ha come obbiettivo di spiegare,
nella seconda Meditazione, la separazione e quindi distinzione tra mente e corpo, si rivelerebbe
arrischiata in quanto potrebbe condurre ad un'opinione di stampo platonico:
Si aggiunga che questo argomento sembra provare troppo e condurci alla famosa
opinione dei platonici secondo la quale alla nostra essenza non appartiene alcunché di
corporeo, così che l'uomo è solo animo, mentre il corpo null'altro che il vascello
dell'animo; ragion per cui costoro definiscono l'uomo come un animo che si serve del
corpo158.
In realtà, Arnauld riconosce che Cartesio ha rifiutato espressamente nella Meditazione sesta tale
interpretazione, ma ciò non toglie che, una volta radicalmente distinti, mens e corpus non
sembrano potersi unire se non in maniera estrinseca, sul modello dell'antropologia platonica, cioè
di intendere l'uomo come un ente per accidente. Il pericolo dell'uomo-angelo, ovvero dell'uomo
inteso come un essere a metà tra la divinità e gli enti terreni, era evidente anche agli occhi di chi,
pur parteggiando più per Platone che per Aristotele, non intendeva affatto rinunciare all'unità
157
Ivi, pp. 949-951.
158
Ivi, p. 955.
74
aristotelico-tomistica della persona umana come unità sostanziale intrinseca di anima e di
corpo159.
Una piccola parentesi va aperta sulla questione dell'ens per accidens, conseguenza inevitabile,
secondo i tomisti, dell'antropologia platonica. Scrive Tommaso: «Platone invece, poiché riteneva
che il sentire fosse un'operazione della sola anima, poteva affermare che l'uomo è «un anima che
si serve del corpo»160.
La questione, per Tommaso e i suoi seguaci, è che il rapporto anima-corpo, non può essere inteso
in alcun modo come strumentale, questo, altrimenti, andrebbe a precludere l'idea dell'uomo come
unità di anima e corpo, cardine della dottrina della resurrezione dei corpi, al momento del
Giudizio universale. L'idea di Platone, portata agli estremi della sua formulazione, sfocia nel
concetto di ens per accidens:
Non si unisce al corpo come la forma alla materia, ma solo come il motore al mobile,
affermando che l'anima è nel corpo come il pilota nella nave; in questo modo l'unione
tra anima e corpo non sarebbe se non per contatto di facoltà [...]. Ciò sembra invero un
inconveniente. Infatti, in base a questo contatto, non si ha qualcosa, un'unità in senso
assoluto, come è stato mostrato. D'altra parte, dall'unione di anima e corpo si ha
l'uomo. Ne deriva che l'uomo non sia un'unità in senso assoluto, e quindi neanche un
ente in senso, assoluto ma un ente per accidente 161.
Naturalmente Cartesio risponde prontamente alle accuse portate avanti dal suo obiettore:
159
N. ALLOCCA, op. cit., p. 126.
160
TOMMASO D’AQUINO, Summa Teologica, nuova edizione a cura di Padre Tito S. Centi e Padre Angelo Z. Belloni,
2009, q. 75, art. 4, p. 753.
161
TOMMASO D’AQUINO, Somma contro i Gentili, vol. II, p. 57.
75
Neppure vedo in che modo questo argomento provi troppo. Per mostrare che una cosa
si distingue realmente da un'altra, infatti, il meno che si possa dire è che può esserne
separata dalla potenza divina. E mi è sembrato sufficiente impegnarmi diligentemente
a evitare che qualcuno ritenesse per questo che l'uomo fosse soltanto un animo che si
serve di un corpo. Infatti, nella stessa sesta meditazione, in cui ho trattato della
distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato anche che essa gli è unita
sostanzialmente; ed ho utilizzato argomenti dei quali non ricordo di aver letto, da
nessuna parte, di più forti per provare la medesima cosa. E, come colui che dicesse che
il braccio di un uomo è sostanza realmente distinta dal resto del suo corpo non per
questo negherebbe che quel medesimo braccio appartiene alla natura dell'uomo nella
sua interezza, e colui che dice che il medesimo braccio appartiene alla natura
dell'uomo nella sua interezza non per questo dà motivo di sospettare che esso non può
sussistere per sè; così neppure a me sembra di aver provato troppo, mostrando che la
mente può essere senza il corpo, e neanche troppo poco, dicendo che essa è
sostanzialmente unita al corpo, poiché quell'unione sostanziale non impedisce che si
abbia un concetto chiaro e distinto della solamente come cosa completa. E perciò
differisce alquanto dal concetto della superficie o della linea, che non possono essere,
allo stesso modo, intese come cose complete, a meno che non si attribuisca loro, oltre
alla lunghezza ed alla larghezza, anche la profondità162.
Nelle risposte ad Arnauld, Cartesio rivendica dunque coerenza ed originalità alla propria teoria
dell'unione intrinseca, dichiarandola perfettamente compatibile con la teoria della distinzione
mente-corpo, nonostante la riformulazione da egli compiuta del concetto di sostanza comporti
l'affermazione della natura completa, e quindi del tutto autonoma, dell'essenza della res cogitans
e di quella della res extensa isolatamente considerate. Mentre alle obiezioni di Gassendi
sull'impossibilità che una mens incorporea e immateriale possa realmente unirsi e interagire con
il proprio corpo, Cartesio aveva risposto semplicemente che tale ipotesi è falsa, ad Arnauld
replica invece che la distinzione mente-corpo non comporta di necessità l'adozione del modello
platonico dell'unione, ma che è compatibile con una teoria che, al pari di quella aristotelico
162
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 989.
76
tomistica, ma con maggiore rigore dimostrativo rispetto ad essa, afferma la natura intrinseca o
sostanziale dell'unione di mente e di corpo. Nell'uomo si uniscono due sostanze tra loro del tutto
opposte, ma esse non si uniscono per un mero ed estrinseco contatto, alla maniera platonica,
perché formano un unum quid i cui componenti, nella sensazione come nelle passioni, si
confondono quasi inestricabilmente163.
È molto interessante notare come Descartes non rinunci alla dottrina della distinzione in favore
dell'unione, bensì egli ritiene entrambe le teorie imprescindibili l'una dall'altra. In ogni caso, a
mio avviso, attraverso una più attenta lettura di questa parte di risposte date ad Arnauld, è
possibile comprendere cosa intenda Cartesio con la compenetrazione e inscindibilità delle due
parti del suo sistema filosofico, proprio dalla ferrea volontà dell’autore di non voler denigrare
nessuna delle due componenti del suo sistema in favore dell’altra.
Come abbiamo già avuto modo di analizzare in precedenza, il modo in cui il filosofo utilizza il
termine anima, in riferimento alla mente, risulta decisamente anticonvenzionale per il tempo.
Riavvolgendo leggermente il filo del discorso e tornando alla seconda Meditazione, più
precisamente alle funzioni che Descartes attribuisce alla mens, alla res cogitans164, possiamo
notare qualcosa di interessante e fondamentale, ovvero che tali azioni, non solo sono strettamente
legate all'ambito del mentale, ma che oggi le riferiremmo, senza alcun dubbio, a quei processi
neurali di ordine superiore, detti terziari. Naturalmente questo argomento verrà maggiormente
chiarito nel prossimo capitolo di questa tesi, dedicato al legame tra le neuroscienze
contemporanee e molte conclusioni cartesiane, troppo spesso ignorate o non approfondite a
sufficienza. Ad ogni modo è molto importante, a questo punto della trattazione, chiarire una cosa
che si evince facilmente dai testi cartesiani e in particolare da queste risposte, ossia che quando il
filosofo si riferisce alla mens, egli sta intendendo la 'coscienza di sé stessi' e a prova di ciò, basta
continuare nella lettura delle risposte ad Arnauld:
163
N. ALLOCCA, op. cit., p. 137.
164
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 719.
77
Molti dei movimenti che avvengono in noi non dipendono poi in alcun modo dalla
mente: tali sono il battito del cuore, la digestione dei cibi, la nutrizione, la respirazione
in chi dorme, ma anche in chi è sveglio, la deambulazione, il canto ed altro di simile,
quando avvengono senza che l'animo se ne accorga. E quando chi cade appoggia le
mani per terra per proteggere la testa, lo fa senza la minima deliberazione, ma solo
perché la vista dell'imminente caduta, giungendo sino al cervello, invia gli spiriti
animali nei nervi, nel modo necessario produrre questo movimento, anche senza che la
mente lo voglia, e come in una macchina 165.
Nel corrispettivo latino delle proposizioni sulle quali vorrei portare l'attenzione di chi legge,
nello specifico: «senza che l'animo se ne accorga» e «senza che la mente lo voglia», Cartesio usa
i termini latini animus e mens. È di estremo interesse notare come, per il linguaggio cartesiano, le
parole in questione siano assolutamente interscambiabili. Già da una lettura superficiale, è
possibile rendersi conto che i termini mens e animus, si riferiscono alla coscienza, proprio per
questo è possibile, all'interno del sistema cartesiano, intendere come «inscindibili» la teoria
dell'unione mente-corpo e quella della loro distinzione reale, senza creare alcuna incongruenza;
questo perché, nella visione del filosofo francese, la mens è coinvolta in tutti gli atti che
definiremmo «coscienti», mentre, per quanto riguarda i movimenti «involontari», rispondono
esclusivamente alla configurazione geometrico-meccanica del corpo-macchina. Il fondamento di
entrambe le teorie, tanto quella della distinzione quanto quella dell'unione, risiede nel fatto che,
agli occhi di Descartes, l'essere coscienti di sé stessi, così come la perfezione dei movimenti
involontari, appaiono con una meraviglia tale da dover, necessariamente, essere compiuti da due
sostanze assolutamente complete e quindi non legate tra loro; eppure, allo stesso tempo, esse
formano, nel fenomeno della sensazione, ma più in generale nell'individuo psicofisico,
quell'unum quid che già abbiamo incontrato in precedenza. Analizzandola in questo modo, è
anche comprensibile capire la ragione per la quale le fiere sono escluse dal mondo del mentale e,
di conseguenza, private dell'anima da Descartes.
165
Ivi, p. 991.
78
Per dare ulteriore forza a questa interpretazione, basta leggere la definizione che nei Principi
della filosofia, Cartesio fornisce a proposito del pensiero:
Con il nome di pensiero intendo tutto ciò che accade in noi - noi coscienti -, proprio in
quanto in noi ve n'è coscienza. E in tal senso non soltanto intendere, volere,
immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare. Se, infatti, dico: io vedo, o
io cammino, dunque sono, e l'intendo nel senso del vedere o del camminare che sono
compiuti dal corpo, la conclusione ho la certezza assoluta, poiché - come spesso si
verifica nei sogni - posso credere di vedere o di camminare, benché non apra gli occhi
e non mi muova da dove sono, e benché forse addirittura non possegga alcun corpo.
Ma se intendo parlare proprio della sensazione ossia della coscienza di vedere o di
camminare: allora, poiché in tal caso la mia conclusione è relativa alla mente, che sola
sente, ovvero pensa di vedere o di camminare, essa è interamente vera 166.
Potremmo dire, sintetizzando forse in maniera estrema, che il concetto di res cogitans cartesiano
corrisponde a ciò che attualmente vengono definiti i processi mentali di ordine superiore167. È
sicuramente preferibile pensare che Cartesio, manifestamente cattolico ma sostenitore della
scienza moderna e della teoria copernicana, si trovò di fronte il peso della Controriforma e
preoccupato di quanto stava accadendo a Galileo, come già è stato dimostrato nella prima
sezione di questa tesi, abbia deciso di essere estremamente prudente e accorto nella stesura delle
sue riflessioni. Non pare improprio sostenere che la decisione di escludere la mente da ogni
interazione scientifica e di renderla ai suoi contemporanei con il termine animus, fosse soltanto
un atto di cautela nei confronti della censura168.
166
R. DESCARTES, Principi della filosofia in Opere, op. cit., p. 1717.
167
P. STRATA, La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze, Carocci, Roma, 2014, p.
26.
168
Ivi, p. 29.
79
Terminate le risposte ad Arnauld, mi concentrerò ora, seppur brevemente, ad un evento
successivo alla stesura delle Meditazioni, ma comunque pertinente con l'argomento di questa
terza sezione, ovvero il cosiddetto «affaire Regius».
Henderik de Roy, latinizzato Regius, fu un discepolo di Cartesio, detentore della cattedra di
medicina presso l'università di Utrecht. Egli si fece promotore, presso la medesima, delle idee di
Descartes, non senza creare problemi al suo mentore.
Il 24 novembre 1641 Regius diede inizio a una serie di tre dispute, sostenute settimanalmente
con i suoi allievi. Gli argomenti erano i più diversi, dalla struttura della materia e dei corpi,
l'esistenza delle forme sostanziali, sino ad arrivare all'unione tra anima e corpo. Tralasciando i
tecnicismi che collegano le varie disputationes, per i quali rimando sempre al prezioso e preciso
testo di Allocca169, giungiamo a quella tenutasi l'8 dicembre del 1641, riguardante l'unione
dell'anima con il corpo. A tal riguardo, Regius assume una posizione che Cartesio contesterà
profondamente, ovvero, che se nella metafisica cartesiana la res cogitans e la res extensa
detengono lo statuto di sostanze complete e perfette per sé sole, ne deriva, necessariamente, che
la loro unione nel composto umano avvenga per accidente, definendo l'uomo come ens per
accidens. Cosa questo comporti è stato già spiegato precedentemente, ossia il rischio di essere
etichettati come eretici. Il modo in cui Cartesio richiama all'attenzione il suo discepolo, non è
soltanto l'ennesima prova della sua proverbiale prudenza, bensì, allineandomi con l'idea che
Allocca descrive nel suo testo, il filosofo ci tiene a mostrare al proprio allievo l'importanza di
postulare l'unione intrinseca della mente con il corpo al fine di spiegare in maniera convincente
la natura del concreto individuo psicofisico 170. Cartesio ci tiene a chiarire immediatamente le
affermazioni di Regius, in modo tale da allontanare le possibili accuse di platonismo, con una
lettera indirizzata al proprio discepolo, di metà dicembre del 1641:
Illustrissimo Signore, difficilmente avreste potuto mettere nelle vostre Tesi qualcosa di
più dura e che recasse maggior motivo di offesa e d'accusa di questa asserzione: che
169
N. ALLOCCA, op. cit., pp. 144-148.
170
Ivi, p. 153.
80
l'uomo sia ente per accidente; nè vedo in che modo la si possa emendare meglio che
dicendo che voi, nella IX tesi, avete considerato tutto l'uomo in ordine delle parti di
cui è composto, mentre, di contro nella X, avete considerato le parti in ordine al tutto;
e che nella IX avete affermato che l'uomo è fatto per accidente di corpo e di anima
senz'altro per significare che si può dire che, per il corpo, è in certo modo accidentale
esser congiunto all'anima e, per l'anima, essere unita al corpo, poiché il corpo può
essere senza l'anima e l'anima senza il corpo. Infatti chiamiamo accidente tutto ciò che
è presente o assente senza corruzione del soggetto, benché forse, in sé considerato, sia
sostanza, come la veste è accidente per l'uomo 171.
C'è da notare inoltre come Cartesio si fosse già espresso in merito alla questione dell'immortalità
dell'anima, tematica teologica strettamente legata, come abbiamo visto, all'idea di uomo ens per
accidens, all'interno della prefazione delle Meditazioni:
E per ciò che riguarda l'anima, sebbene molti abbiano ritenuto tutt'altro che facile
poterne indagare la natura, e non pochi abbiano persino osato dire che gli umani
argomenti persuadono che essa muore col corpo e che è solo per fede che si sostiene il
contrario, poiché, tuttavia, il Concilio Lateranense, riunitosi sotto Leone X, nella
sessione ottava, li condanna ed ordina espressamente ai filosofi cristiani di demolire le
loro argomentazioni e, per quanto è nelle loro forze, di provare la verità, non ho avuto
dubbi nel affrontare anche questa impresa 172.
Pertanto la tesi di Regius dell'homo ens per accidens, per Cartesio, è irricevibile in primo luogo
per motivi teologici.
Come abbiamo analizzato nel testo della lettera di dicembre, Descartes invita il proprio discepolo
a specificare che probabilmente volesse dire come per l'anima e il corpo sia «in un certo modo»
171
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1547.
172
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 683.
81
accidentale essere reciprocamente uniti, dato il fatto che possono esistere indipendentemente
l'uno dall'altro.
Cartesio rincara la dose in un'altra lettera del gennaio 1642, sempre a Regius, sottolineando
come, ad esempio, la sensazione legata al dolore o tutte le altre passioni, non possono essere puri
pensieri della mens distinta dal corpo, ma confuse percezioni della mente realmente ed
essenzialmente unita al corpo:
Percepiamo che la sensazione del dolore, e tutte le altre, non sono puri pensieri della
mente distinta dal corpo, bensì confuse percezioni di essa che al corpo è realmente
unita; infatti se un angelo si trovasse dentro il corpo umano, non sentirebbe come noi,
ma percepirebbe solo i movimenti causati dagli oggetti esterni, e in questo si
distinguerebbe da un vero uomo173.
Cartesio si concentra in particolar modo proprio sulla sensazione, in modo tale da far
comprendere al proprio allievo, ma anche ai suoi obiettori, che la percezione con-fusa è essa
stessa la prova caratterizzante l'unità di mente e corpo, proprio perché se ad occupare il corpo
umano fosse un angelo, esso non riuscirebbe a percepire alcuna sensazione o passione.
Il rapporto tra maestro e allievo s'interrompe bruscamente nel 1645, quando Regius sottopone a
Cartesio il manoscritto Fundamenta Physices, un compendio di filosofia naturale completo a
differenza dei Principi della filosofia pubblicati nell'anno precedente. Cartesio commenta ciò che
legge a proposito della mente e del corpo, nel modo seguente:
Infatti, che necessità v'è mai di mescolare nei vostri scritti quanto attiene alla
metafisica o alla teologia, dal momento che non siete in grado di mettervi mano senza
cadere immediatamente in errore da una parte o dall'altra? Prima, considerando la
173
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1589.
82
mente come sostanza distinta dal corpo, avete scritto che l'uomo è ente per accidente.
Adesso invece, considerando che la mente ed il corpo sono, nello stesso uomo,
strettamente uniti, volete che essa sia solo modo del corpo. Errore molto più grave del
primo174.
La rottura definitiva avviene in una lettera al traduttore francese dei Principi, datata 1647, nella
quale Cartesio, in merito all'autore dei Fundamenta Physices, si esprime così:
So bene che ci sono degli ingegni che sono così precipitosi ed usano così poca
circospezione in ciò che fanno, che, anche avendo fondamenti molto solidi, non
riuscirebbero a costruire nulla di fermo. E poiché costoro, in genere, sono i più pronti
a fare dei libri, se si accogliessero i loro scritti come se fossero miei, o come se fossero
pieni delle mie opinioni, essi potrebbero in breve tempo rovinare tutto ciò che ho fatto
e potrebbero introdurre nella mia maniera di filosofare l'incertezza e il dubbio che ho
accuratamente cercato di bandire. Ne ho da poco fatto esperienza con uno di essi, che
si è creduto volesse seguirmi più di ogni altro e del quale io stesso avevo scritto da
qualche parte «che facevo così tanto affidamento sul suo ingegno, che non credevo
avesse qualche opinione che io non volessi riconoscere come mia.» ( Lettera a Voetius
in Le opere, p.1659) L'anno scorso, infatti, ha pubblicato un libro intitolato
Fundamenta Physices, nel quale, sebbene sembri non aver scritto nulla, a proposito
della fisica e della medicina che non abbia tratto dai miei scritti [...] tuttavia, dato che
ha trascritto male, modificato l'ordine negato alcune verità di metafisica su cui l'intera
fisica deve fondarsi, sono obbligato a sconfessarlo interamente e a pregare qui i lettori
di non attribuirmi mai alcuna opinione, se non la trovano espressamente nei miei
scritti, e di non accoglierne alcuna per vera, né nei miei scritti né altrove, se non
vedono con molta chiarezza che è dedotta dai miei veri principi175.
174
Ivi, p. 2041.
175
R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Opere, op. cit., pp. 2235-2237.
83
Regius è passato alla storia, in virtù dell’immagine che Cartesio ne ha dato, come l'allievo
'rinnegato', incoerente, maldestro in metafisica, incapace di tenere congiunti i fili teorici del
corpo-macchina e del dualismo delle sostanze, che l'autore delle Meditationes sembrava
considerare viceversa saldamente intrecciati. Tuttavia una lettura più meditata dell'opera e
dell'epistolario intercorso tra i due, mostra che 'l'affaire Regius' non è stato un semplice incidente
di percorso sulla via filosofico-scientifica del cartesianismo. Regius era convinto dell'esistenza
nell'opera di Cartesio di un'insanabile discrepanza tra metafisica dualistica e fisica
meccanicistica, Cartesio fisico contro il Cartesio metafisico. La via imboccata nelle Meditazioni,
è per Regius in flagrante contraddizione con quella dischiusa nel progetto scientifico formulato
nel Discorso di una scienza unitaria dell'uomo176.
Le difficoltà di conciliare distinzione e unione, denunciata prima da Gassendi, poi da Arnauld e
infine da Regius, ma ogni volta, come abbiamo visto, negata da Cartesio, sembra trovare per la
prima volta riconosciuta una qualche legittimità, nelle lettere inviate alla principessa Elisabeth.
Nella lettera del maggio 1643 la principessa palatina chiede al filosofo di spiegare in che modo
l'anima umana, poiché sostanza incorporea ed inestesa, possa interagire con il corpo e
determinarne i movimenti:
[...] pregandovi di dirmi in quale maniera l'anima dell'uomo (non essendo che una
sostanza pensante) può determinare gli spiriti del corpo, ed eseguire le azioni
volontarie. Infatti, sembra che ogni movimento sia determinato dalla pulsione della
cosa mossa, dalla maniera in cui essa viene spinta da quella che la muove, oppure
dalla qualità e dalla figura della superficie di quest'ultima. Nei primi due casi è
richiesto il contatto, nel terzo l'estensione. Voi escludete quest'ultima dalla nozione che
avete dell'anima, mentre «il contatto» mi sembra incompatibile con una cosa
immateriale. Motivo per il quale vi domando una definizione di anima più
particolareggiata che nella vostra Metafisica, ossia della sua sostanza separata dalla
sua azione, ossia dal pensiero. Infatti, anche se noi le supponiamo inseparabili (cosa
176
N. ALLOCCA, op. cit., pp. 160-161.
84
che tuttavia è difficile da provare nel ventre della madre e negli svenimenti
prolungati), come gli attributi di Dio, possiamo, considerandole separatamente,
acquistarne un'idea più perfetta177.
A differenza del periodo delle Meditazioni, Cartesio riconosce che la questione sia delicata, anzi,
addirittura afferma che la domanda posta dalla sua illustre interlocutrice sia quella che gli si può
rivolgere con più fermezza:
E posso dire, in verità, che la questione che Vostra Altezza propone mi sembra essere
quella che mi può essere rivolta con più fondatezza, dopo gli scritti che ho pubblicato.
Infatti, essendoci due cose nell'anima umana dalle quali dipende interamente la
conoscenza che possiamo avere della sua natura, l'una delle quali è che essa pensa,
l'altra che, essendo unita al corpo, può agire e patire assieme ad esso, non ho detto
quasi nulla della seconda e mi sono solamente preoccupato di far ben intendere la
prima, perché il mio principale scopo era provare la distinzione che c'è tra l'anima e il
corpo, al qual fine soltanto la prima poteva essere utile, mentre la seconda sarebbe
stata nociva. Ma, dal momento che Vostra Altezza vede così chiaro che non le si può
nascondere nulla, mi sforzerò qui di spiegare la maniera in cui concepisco l'unione
dell'anima col corpo e come l'anima abbia la forza di muoverlo178.
Come si evince facilmente dal testo della lettera, Cartesio per la prima volta ammette
apertamente di aver trattato in modo insufficiente l'unione tra mente e corpo; in secondo luogo
troviamo l'affermazione che fino a quel momento il principale scopo del filosofo era stato quello
di provare la distinzione. È molto interessante notare anche l'espressione «dell'anima che ha la
forza di muovere il corpo», difatti ciò significa porre la questione di una sostanza assolutamente
incorporea, che agisce su un corpo fisico.
177
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1745.
178
Ivi, p. 1749.
85
Cartesio continua esaminando quelle che lui stesso definirà come nozioni primitive, le quali
strutturano la mente umana:
In primo luogo considero che vi sono in noi alcune nozioni primitive, che sono come
gli originali sul cui modello forniamo tutte le nostre altre conoscenze. Tali nozioni
sono assai poche; infatti, dopo le più generali - essere, numero, durata, ecc-, che
convengono a tutto quello che possiamo concepire, non abbiamo, per il corpo in
particolare, che la nozione di estensione, dalla quale seguono quelle di figura e
movimento; e, per la sola anima, non abbiamo che la nozione di pensiero, nella quale
sono comprese le percezioni dell'intelletto e le inclinazioni della volontà; infine, per
l'anima e il corpo insieme, non abbiamo che la nozione della loro unione, dalla quale
dipende quella della forza che l'anima ha di muovere il corpo, e il corpo di agire
sull'anima, causandone sentimenti e passioni179.
Notiamo che la terza nozione, ovvero quella dell'unione di mente e corpo, non deriva affatto
dalle due precedenti. Soltanto da questa terza nozione, dall'unione, che dipende quella della
possibilità dell'anima di agire sul corpo muovendolo e viceversa, del corpo di agire sull'anima
causando passioni e sentimenti. In sostanza si potrebbe dire che l'intera scienza dell'uomo,
consiste esclusivamente nel distinguere bene ciascuna di queste nozioni, in modo tale da non
confondere le proprietà di ciascuna 180.
Cartesio riconosce, infine, che il compito da portare a termine in questo momento è quello di
riuscire a spiegare la nozione dell'unione dell'anima con il corpo, indipendentemente da quelle
pertinenti al solo corpo o alla sola anima. In conclusione della lettera, Cartesio richiama una
dimostrazione della sesta serie di obiezioni181 a proposito della confusione tra proprietà del corpo
179
Ibidem.
180
Ibidem.
181
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 439-447.
86
e proprietà della mente, che sin dalla tenera età, ci induce nell'errore di rappresentarci l'anima
come il corpo e il corpo dotato di qualità reali che agisce sulla sua sostanza:
Così credo che in passato abbiamo confuso la nozione della forza con cui l'anima
agisce sul corpo con quella con cui un corpo agisce su un altro, e che abbiamo
attribuito l'una e l'altra non già all'anima, dal momento che non la conoscevamo
ancora, ma alle diverse qualità dei corpi, come la pesantezza, il calore, e le altre, che
abbiamo immaginato essere reali, cioè avere un'esistenza distinta da quella del corpo,
e di conseguenza essere delle sostanze, anche se le abbiamo chiamate qualità. E ci
siamo serviti, per concepirle, sia delle nozioni che possediamo per conoscere il corpo,
sia di quelle «che possediamo» per conoscere l'anima, a seconda che quello che
abbiamo attribuito loro era materiale o immateriale 182.
La principessa risponde nel giugno dello stesso anno, manifestando ancora delle perplessità
riguardo alla teoria cartesiana dell'unione. Ella non riesce a comprendere in che modo un'anima
inestesa e immateriale possa interagire con il proprio corpo; addirittura Elisabeth confessa che
sarebbe più facile, per lei, concedere un qualche tipo di materialità ed estensione all'anima, per
poter uscire fuori da tale difficoltà concettuale:
E confesso che mi sarebbe più facile concedere la materia e l'estensione all'anima, che
la capacità di muovere un corpo e di esserne mosso a un essere immateriale. Infatti, se
la prima cosa accadesse per informazione, bisognerebbe che gli spiriti che fanno il
movimento fossero intelligenti, cosa che voi non accordate a nulla di corporeo. E
benché nelle vostre Meditazioni Metafisiche mostrate la possibilità della seconda cosa
(cioè la capacità di un essere immateriale di muovere un corpo), è tuttavia molto
difficile comprendere come un'anima, quale l'avete descritta, dopo aver avuto la
facoltà e l'abitudine di ben ragionare, possa perdere tutto ciò a causa di qualche vapore
182
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1749.
87
e che, potendo sussistere senza il corpo e non avendo con esso niente in comune, ne
sia poi talmente governata183.
Di fronte alle perplessità della principessa, che vanno a minare le basi della sua metafisica,
Cartesio è costretto a rispondere con maggior rigore e profondità:
Sono molto obbligato a Vostra Altezza per il fatto che, dopo aver sperimentato quanto
nelle mie precedenti mi sia spiegato male riguardo alla questione che le è piaciuto
propormi, si degna ancora di avere la pazienza di darmi ascolto sullo stesso argomento
e di offrirmi l'occasione di evidenziare le cose che avevo omesso. [...] In primo luogo,
dunque, noto una grande differenza tra questi tre tipi di nozioni per il fatto che l'anima
non è concepita che tramite l'intelletto puro; anche il corpo, cioè l'estensione, le figure
e i movimenti, si possono conoscere tramite il solo intelletto, ma molto meglio
attraverso l'intelletto soccorso dall'immaginazione; e infine le cose che appartengono
all'unione dell'anima con il corpo si conoscono oscuramente tramite il solo intelletto, e
anche tramite l'intelletto soccorso dall'immaginazione, ma si conoscono molto
chiaramente tramite i sensi184.
Innanzitutto, l'anima si concepisce solo con il puro intelletto, il corpo e le sue determinazioni si
possono anch'essi conoscere mediante il solo intelletto, ma è più efficace, a tale scopo,
l'immaginazione. Ciò che invece è pertinente alla loro unione, è conosciuto in modo oscuro e
confuso tramite l'intelletto o da quest'ultimo coadiuvato dall'immaginazione, mentre lo si può
conoscere molto più chiaramente attraverso i sensi.
183
Ivi, p. 1771.
184
Ivi, p. 1781.
88
Da qui nasce il paradosso descritto da Descartes, secondo cui «coloro i quali non filosofano e si
servono dei sensi», non hanno alcuna difficoltà nel concepire l'unione. Costoro, infatti, non
hanno alcun dubbio che sia l'anima a muovere il corpo e che il corpo agisca sull'anima, poiché li
considerano una sola cosa, ovvero ne concepiscono l'unione. Concepire l'unione tra due cose
equivale, sostiene Cartesio, in effetti a concepirle come una soltanto:
Dal che deriva che coloro ai quali non filosofano mai, e si servono soltanto dei loro
sensi, non dubitano affatto che l'anima possa muovere il corpo e che il corpo agisca
sull'anima; ma considerano l'una e l'altra come una sola cosa, cioè concepiscono la
loro unione: concepire l'unione che c'è tra due cose significa infatti concepirle come
una sola. I pensieri metafisici, che esercitano l'intelletto puro, servono a renderci
familiare la nozione di anima; lo studio delle matematiche, che esercita principalmente
l'immaginazione a considerare figure e movimenti, ci abitua a formare nozioni del
corpo ben distinte. Infine, è solo vivendo e conversando di cose ordinarie, e
astenendoci dal meditare e dall'applicarci alle cose che esercitano l'immaginazione,
che si impara a concepire l'unione dell'anima e del corpo185.
L'irriflesso e immediato riconoscimento, da parte di ciascun individuo, della propria unità
psicofisica mostra come le nozioni di anima, di corpo e della loro unione non possano avere
alcuna radice comune. La nozione di anima, infatti, può esserci resa «familiare» soltanto dalla
metafisica, che è il dominio dell'intelletto puro, così come solo lo studio della matematica,
dominio dell'immaginazione razionale, operante su figure e movimenti, ci rende capaci di
formare nozioni distinte di corpo.
In sostanza, Cartesio, pone alla sua corrispondente una critica di tipo metodologico, ciò che
impedisce alla principessa di comprendere l'unione tra mente e corpo, sono pregiudizi tipici di
chi è abituato a filosofare e che, di conseguenza, le impediscono di andare oltre l'apparente
contraddizione che due cose separate allo stesso tempo sono una sola:
185
Ibidem.
89
Ho giudicato però che siano state tali meditazioni, e non i pensieri che richiedono una
minore attenzione, a farle trovare oscura la nozione che abbiamo della loro unione, in
quanto non ritengo la mente umana capace di concepire distintamente, e nello stesso
tempo, la distinzione tra l'anima e il corpo, e la loro unione; questo perché necessario,
per tale fine, concepirli come una cosa sola e al tempo stesso concepirli come due, il
che è contraddittorio186.
L'unione di due res realmente e completamente distinte quali sono la mens e il corpus, va oltre la
capacità di comprensione dell'intelletto puro, è fonte, come ogni antinomia, di inestricabili
paradossi. Ma non per questo l'unione è per Cartesio meno reale della distinzione mente-corpo.
Non è necessariamente falso ciò che appare antinomico all'intelletto: noi infatti sperimentiamo
l'unione in ogni istante nella vita quotidiana, nel nostro essere persone. La distinzione si prova
mediante l'intelletto puro, l'unione viene provata dal soggetto attraverso la sperimentazione in
prima persona. Se si desidera comprendere in che modo mente e corpo siano realmente uniti, è
necessario, non solo distogliere la propria attenzione da quelle ragioni che provano la distinzione
delle due sostanze, ma liberarsene. In questo modo soltanto, è possibile riuscire a rappresentarsi
la nozione dell'unione che ognuno di noi prova in sé stesso senza filosofare, che si è composti di
un corpo e di un pensiero, la cui natura è che il secondo può muovere il primo ma anche di
avvertirne le modificazioni.
A tal proposito, la principessa Elisabeth viene 'autorizzata' dal filosofo a concedere un qualcosa
di materiale all'anima:
Tuttavia, poiché Vostra Altezza sottolinea che è più facile attribuire materia ed
estensione all'anima, che attribuirle la capacità di muovere un corpo e di esserne
mossa senza avere materia, la supplico di voler liberamente attribuire tale materia ed
186
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1783.
90
estensione all'anima, perché questo non è altro che concepirla unita al corpo. E dopo
aver ben concepito ciò, e averlo sperimentato in sé stessa, le sarà facile considerare
che la materia che avrà attribuito a questo pensiero non è il pensiero stesso, e che
l'estensione di questa materia è di natura diversa dall' estensione di questo pensiero per
il fatto che la prima è determinata secondo un certo luogo, dal quale essa esclude ogni
altra estensione corporea, cosa che invece non fa la seconda. In tal modo Vostra
Altezza non mancherà di pervenire facilmente alla conoscenza della distinzione
dell'anima e del corpo, nonostante abbia concepito la loro unione187.
Riprendendo le conclusioni dell'Autore di Cartesio e il corpo della mente, a mio avviso, dal
carteggio con la principessa Elisabeth si evince una cosa fondamentale, ovvero che l'unione di
mente e corpo, innanzitutto la si sente, poi eventualmente la si può pensare.
Questo concede una sorta di primato ontologico all'unione rispetto alla distinzione, cambiando
anche la prospettiva con cui si leggono le Meditazioni. Non si può non prendere avvio
dall'intrinseca unione mente-corpo, che sperimentiamo ogni giorno in noi stessi; non si può non
giungere, dopo aver guadagnato l'ego cogito e la reale distinzione di res cogitans e res extensa,
alla riaffermazione dell'intrinseca unione mente-corpo. Si è acquisita nozione della distinzione
reale della mente dal corpo e, insieme, quella che nella sesta Meditazione è definita come
permixtio della mente con il corpo188.
Citando sempre Allocca «nessuno nasce filosofo. Lo si diviene esercitando l'abductio mentis a
sensibus, il procedimento che consente di dare avvio, nella prima e seconda Meditatio,
all'avventura del cogito»189. Pertanto, proprio perché la distinzione è acquisita attraverso la
speculazione metafisica e, quindi, filosofando, il punto di partenza dell'opera non può che
coincidere con quello di arrivo, cioè nel riconoscimento dell'unità psicofisica dell'uomo, verità
iniziale e vissuta, perché «idea sentita» e non speculata.
187
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1783.
188
N. ALLOCCA, op. cit., p. 187.
189
Ivi, p. 183.
91
Dallo scambio epistolare con la principessa Elisabeth nasce in Cartesio, il desiderio di capire
l'uomo. L'uomo non più inteso come mero corpo-macchina, ma come intima unione di materia e
pensiero, come essere senziente dotato di sensazioni, passioni, emozioni, desideri. Prodotto di
questa esigenza, sono le Passioni dell'anima, di cui ora, in conclusione di capitolo, analizzerò
alcuni articoli. L'opera verrà poi successivamente richiamata all'attenzione nel capitolo
successivo, come anello di congiunzione con gli studi di Panksepp e delle neuroscienze affettive.
Ci tengo ad effettuare un'ulteriore precisazione: in questo lavoro non si discute di anatomia,
specie di quella cartesiana; ovviamente il filosofo non aveva la possibilità di poter disporre delle
conquiste tecnologiche che solo diversi secoli dopo fecero la loro comparsa e, nonostante si fosse
interessato alla materia, come precisa il suo biografo Baillet190, è evidente la mancanza di
precisione, da un punto di vista rigorosamente medico, così come diverse forzature o concetti
decisamente fantasiosi, come ad esempio gli «gli spiriti animali» tanto per citarne uno. Ciò su cui
vorrei si riflettesse, è sul modo con cui Cartesio affronta un argomento come quello delle
passioni, ovvero in una maniera decisamente innovativa, nel modo più 'scientifico' possibile e
senza, praticamente mai, ricorrere alla metafisica nella sua analisi.
Le Passioni dell'anima vengono pubblicate contemporaneamente in Olanda e in Francia sul
finire del 1649, quando il filosofo si è già trasferito in Svezia, alla corte della regina Cristina.
L'opera è divisa in tre parti: la prima dedicata alle passioni in generale, viste soprattutto dal punto
di vista fisiologico (artt. 1-50); la seconda sulle passioni primitive e il loro ordine (artt. 51-148);
la terza sulle passioni particolari, le quali derivano dalle precedenti e sono analizzate più in
dettaglio (artt.149-212).
Nelle Passioni si trovano alcune dottrine del tutto originali anche per Cartesio: si tratta davvero,
per molti versi, di «una materia che non avevo mai studiato prima»191 e la svolta da egli
compiuta, rispetto a tutti i moralisti che del mondo passionale si erano occupati prima di lui, sta
nell'affrontare le passioni scientificamente: «Il mio disegno non è stato quello di spiegare le
190
A. BAILLET, op. cit., p. 195.
191
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 2197.
92
passioni in veste di oratore, e neppure da filosofo morale, bensì soltanto come fisico»192. L'analisi
delle passioni richiede innanzitutto una preliminare inchiesta sulle funzioni del corpo, seguita da
una breve ispezione di quelle della mente: comprenderle separatamente aiuterà a individuare
meglio la loro influenza reciproca. Le passioni infatti, non sono un evento interno all'anima, e
ancor meno il risultato di una lotta intestina tra le sue parti, secondo la celebre tripartizione
platonica successivamente recuperata, per via di Aristotele, anche da Tommaso e da gran parte
della Scolastica. L'anima, per Cartesio, è tutta intera e non può avere parti né esser contraria a se
stessa, come scrive negli articoli 47-48193. Le passioni dell'anima dipendono allora dal corpo, nel
senso che sono il corrispettivo mentale di alcuni eventi neurofisiologici: un nuovo codice,
parallelo a quello della sensibilità e dell'immaginazione, da cui occorrerà distinguerlo 194.
Come ho già anticipato, il concetto di passione, di come agisce sull'anima e sul corpo, sono tutte
cose che approfondirò maggiormente nel terzo capitolo, proprio perché ritengo che le Passioni,
siano l'opera più vicina all'obbiettivo che si pone questa tesi, ovvero di tentare una dimostrazione
del fatto che molte verità acquisite o teorizzate dalle neuroscienze contemporanee, fossero già
state, in qualche modo, anticipate da Descartes, e quindi, quantomeno, acquietare la
considerazione che il filosofo francese sia una sorta di spauracchio per questo tipo di disciplina;
in questo luogo invece premerò in modo particolare su quegli articoli i quali approfondiscono il
rapporto di intima unione mente-corpo, pertanto non seguirò il testo nel suo ordine cronologico,
ma contenutistico.
La premessa che mi sento di dover fare è che questo compito è assai arduo, in quanto, per tutto il
corso dell'opera si mantiene sullo sfondo il concetto di unione mente-corpo, che viene enunciato
sin dall'articolo II, in cui il filosofo sostiene che «non notiamo esserci alcun soggetto che agisca
più immediatamente sulla nostra anima del corpo cui essa è unita»195.
192
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., p. 2331.
193
Ivi, pp. 2375-2379.
194
G. MORI, op. cit., p. 249.
195
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., p. 2333.
93
L'ignorare questo fatto ha portato a numerose problematiche nella storia dell'approccio allo
studio delle passioni e più in generale riguardo a come l'anima/mens è stata concepita durante i
secoli. Nella visione di Cartesio non è prerogativa dell'anima quella di muovere il corpo, né
tantomeno di fornirgli quel calore, da sempre considerato fondamentale per la vita dalla
tradizione medica risalente a Ippocrate e Galeno:
In tal modo eviteremo un errore gravissimo, e nel quale sono caduti in parecchi, tanto
che lo reputo la prima causa che ha impedito fino a oggi di ben spiegare le passioni e
le altre cose che appartengono all'anima. L'errore consiste nel fatto che, vedendo che
tutti i corpi morti sono privati del calore e poi del movimento, si è immaginato che
fosse l'assenza dell'anima a far cessare i movimenti e il calore. E pertanto si è creduto,
senza ragione, che il nostro calore naturale e tutti i movimenti dei nostri corpi
dipendessero dall'anima; mentre si dovrebbe pensare, al contrario, che quando si
muore l'anima si allontana solo per il fatto che questo calore cessa e gli organi che
servono a muovere i corpi si corrompono196.
Cartesio, per la prima volta in modo pubblico, definisce «errore gravissimo» quello di pensare
che sia l'anima a muovere il corpo; ritiene inoltre importante precisare più avanti, che l'anima è
unità con l'intero corpo, come scrive nell'articolo XXX:
Tuttavia, per intendere più perfettamente tutte queste cose, è necessario sapere che
l'anima è davvero congiunta a tutto il corpo e che non si può propriamente dire che sia
in qualcuna delle sue parti, a esclusione delle altre, in quanto esso è uno, e in qualche
modo indivisibile a causa della disposizione dei suoi organi che sono talmente in
196
Ivi, p. 2337.
94
rapporto l'uno con l'altro che quando se ne toglie uno, questo rende difettoso l'intero
corpo197.
Ma se, come abbiamo visto nell'articolo V, l'anima non è causa del movimento del corpo, qual è
la sua funzione?
Cartesio ce lo spiega nell'articolo XVII, dove scrive:
Dopo aver considerato tutte le funzioni che appartengono al solo corpo, è facile
riconoscere che è in noi non resta niente da attribuire alla nostra anima se non i nostri
pensieri, che sono generalmente di due generi: gli uni sono le azioni dell'anima, gli
altri le sue passioni. Quelle che chiamo azioni sono tutte le nostre volontà, per il fatto
che sperimentiamo che vengono direttamente dall'anima, e sembrano dipendere solo
da essa. Così, al contrario, si possono in generale chiamare sue passioni tutti i tipi di
percezioni o di conoscenze che si trovano in noi, perché spesso non è la nostra anima a
produrli quali sono, ma le riceve sempre dalle cose da esse rappresentate198.
È possibile notare che qui Cartesio chiarisce, a mio avviso definitivamente, il fatto che egli
intenda il termine «anima» (in francese âme), che nelle Meditazioni abbiamo visto essere
interscambiabile a mens, con ciò che oggi definiremmo 'coscienza', nel momento in cui afferma
che sua prerogativa sono le azioni volontarie. Ciò poiché, per tutte quelle azioni che avvengono
senza il nostro beneplacito, il filosofo le attribuisce al solo corpo:
Di modo che tutti i movimenti che compiamo senza che la nostra volontà vi
contribuisca (come spesso accade quando respiriamo, camminiamo, mangiamo e
197
Ivi, p. 2361.
198
Ivi, p. 2351.
95
infine compiamo tutte le azioni che sono comuni a noi e agli animali) dipendono solo
dalla conformazione delle nostre membra e dal corso che gli spiriti, eccitati dal calore
del cuore, seguono naturalmente nel cervello, nei nervi e nei muscoli, proprio come il
movimento di un orologio è prodotto dalla sola forza della sua carica e dalla figura dei
suoi ingranaggi199.
All'interno delle Passioni dell'anima, inoltre, Cartesio tenta anche di spiegare uno dei quesiti su
cui i suoi obiettori avevano maggiormente calcato la mano, ovvero, come avviene l'interazione
tra l'anima e il corpo, pur essendo due sostanze assolutamente autonome e antitetiche tra loro?
Innanzitutto l'anima trova una sua sede, o meglio una parte ben precisa nel corpo, dalla quale
esercitare «le sue funzioni più particolarmente che in tutte le altre» ovvero la 'famosa' ghiandola
pineale, protagonista dell'articolo XXXI:
È anche necessario sapere che, benché l'anima sia unita a tutto il corpo, c'è nondimeno
in esso una qualche parte nella quale esercita le sue funzioni più particolarmente che
in tutte le altre. E si crede in genere che questa parte sia il cervello, o forse il cuore: il
cervello in quanto e ad esso che si riferiscono gli organi di senso, e il cuore in quanto è
come se in esso si sentissero le passioni. Ma esaminando accuratamente la cosa, mi
sembra di aver riconosciuto con evidenza che la parte del corpo nella quale l'anima
esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e neppure l'intero
cervello, ma solamente la sua parte più interna, che è una certa ghiandola assai
piccola, situata nel mezzo della sostanza cerebrale e sospesa al di sopra del condotto
attraverso il quale gli spiriti delle cavità anteriori entrano in comunicazione con quelli
della cavità posteriore, in modo tale che i più piccoli movimenti che avvengono in essa
possono cambiare molto il corso di questi spiriti, e reciprocamente i più piccoli
199
Ivi, pp. 2349-2351.
96
cambiamenti che accadono nel corso degli spiriti possono fare molto per cambiare i
movimenti di tale ghiandola200.
Il perché proprio questa specifica ghiandola, invece, Descartes lo spiega nell'articolo seguente:
La ragione che mi persuade che l'anima non può avere in tutto il corpo altro luogo al di
fuori di questa ghiandola dove esercitare immediatamente le sue funzioni consiste nel
fatto che considero che le altre parti del nostro cervello sono tutte doppie, così come
abbiamo due occhi, due mani, due orecchie e, infine, tutti gli organi dei nostri sensi
esteriori sono doppi; inoltre, poiché non abbiamo che un solo e semplice pensiero di
una stessa cosa nello stesso tempo, bisogna necessariamente che vi sia un luogo dove
le due immagini che vengono dai due occhi, oppure le due altre impressioni che
vengono da un solo oggetto attraverso i doppi organi degli altri sensi, si possano
comporre in una sola prima di arrivare all'anima, in modo che ad essa non vengano
rappresentati due oggetti invece di uno. E si può facilmente concepire queste immagini
o altre impressioni si riuniscano in tale ghiandola per il tramite degli spiriti che
riempiono le cavità del cervello; non c'è però alcuna altra parte nel corpo dove esse
possano essere così unite se non lo sono già state in questa ghiandola 201.
La collocazione dell'anima nella ghiandola pineale sancisce, per certi versi, quella sorta di
'materialità' di cui la principessa Elisabeth parla nelle sue lettere, superando anche
l'incompatibilità della questione dell'interazione spaziale la res cogitans inestesa e la res exstensa
caratterizzata dalla materialità, inoltre, questo escamotage, garantisce la possibilità dell'anima di
agire sul corpo e viceversa, come è spiegato nell'articolo XXXIV:
200
Ivi, pp. 2361-2363.
201
Ivi, p. 2363.
97
Concepiamo dunque qui che l'anima ha la sua sede principale nella piccola ghiandola
posta nel mezzo del cervello, da dove essa si irradia in tutto il resto del corpo per il
tramite degli spiriti, dei nervi e dello stesso sangue il quale, partecipando alle
impressioni degli spiriti, li può portare attraverso le arterie verso tutte le membra.
Ricordandoci poi di quello che è stato detto sopra (Cartesio si riferisce all'articolo XVI,
dedicato a come le impressioni, nel senso ampio del termine, possano portare a
modificazioni degli spiriti, e quindi del corpo, senza la partecipazione dell'anima 202), a
proposito della macchina del nostro corpo, e cioè che i piccoli filamenti dei nervi sono
distribuiti in tutte le parti del corpo in maniera tale che, in occasione dei diversi
movimenti che vi sono suscitati dagli oggetti sensibili, aprono diversamente i pori del
cervello, cosa che fa sì che gli spiriti animali contenuti nelle sue cavità entrino
diversamente nei muscoli, e in questo modo possono muovere le membra in tutte le
diverse maniere in cui è possibile che siano mosse, e ricordandoci anche che tutte le
altre cause che possono muovere diversamente gli spiriti bastano a condurli nei diversi
muscoli, aggiungiamo qui che la piccola ghiandola che è la principale sede dell'anima
è sospesa tra le cavità che contengono questi spiriti In modo tale che può essere mossa
da essi in tanti modi diversi quante sono le differenze sensibili tra gli oggetti. Essa
tuttavia può anche essere mossa diversamente dall'anima, la quale ha una natura tale
che può ricevere in sé stessa tante diverse impressioni, cioè essa ha tante percezioni
diverse quanti movimenti diversi si verificano in tale ghiandola. Come anche,
reciprocamente, la macchina del corpo è composta in maniera tale che, per il solo fatto
che questa ghiandola è mossa in modi diversi dall'anima, o da qualsiasi altra causa vi
possa essere, essa spinge gli spiriti che la circondano verso i pori del cervello che li
conducono attraverso i nervi nei muscoli, e per mezzo di ciò essa fa loro muovere le
membra203.
202
Ivi, pp. 2349-2351.
203
Ivi, p. 2365, per maggiori informazioni riguardo le dispute intorno alla ghiandola pineale portate avanti sia con il
filosofo ancora in vita che dopo la sua morte, rimando all'interessantissimo testo di F. MESCHINI, Neurofisiologia
cartesiana, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1998.
98
È molto interessante notare come l'approccio di Cartesio, cosa che egli stesso aveva anticipato,
sia prettamente fisiologico. Il contrasto è palese tra il linguaggio filosofeggiante delle
Meditazioni o delle Risposte, rispetto a quanto riscontriamo nelle Passioni. Cartesio non cerca
più spiegazioni di tipo qualitativo, come ad esempio l'idea delle nozioni primitive che ho
analizzato nella corrispondenza con la principessa palatina Elisabeth. Il modo in cui si esprime e
l'obbiettivo che si è posto sono differenti rispetto al passato: nelle Meditazioni egli si espone in
termini metafisici, con lo scopo di fondare la conoscenza partendo dalla verità incontrovertibile
del cogito; nel confronto rappresentato dalle Risposte alle Obiezioni e dai vari carteggi,
obbiettivo del filosofo è quello di difendere le proprie convinzioni, non disdegnando di usare
tecniche di retorica scolastico-giuridica per convincere e rispondere in maniera soddisfacente ai
suoi interlocutori; ma nelle Passioni, egli vuole esclusivamente occuparsi, nel modo più rigoroso
e scientifico possibile, di dimostrare, non solo che si può e si deve parlare di emozioni o passioni
in termini scientifici, cosa che sarà considerata tabù sino all'avvento delle neuroscienze come
vedremo nel prossimo capitolo, ma anche dell'interazione anima-corpo, restituendo all'unione
quella forza e valenza, scarsamente riconosciute nelle Meditazioni, come lo stesso Cartesio aveva
affermato.
Concludendo, vorrei riassumere brevemente ciò che si è fatto: nel primo capitolo è stato
analizzato il rapporto tra Cartesio, la sua filosofia e le autorità del suo tempo, tentando di
dimostrare come il suo pensiero sia stato influenzato da eventi storici ben precisi, uno su tutti, la
Controriforma, ciò con lo scopo di far comprendere la natura prudente del filosofo e di come tale
atteggiamento, molto probabilmente, lo abbia spinto a conformare alcune delle sue dottrine allo
status quo per paura di ritorsioni. A tal proposito è stata portato come esempio emblematico, la
storia editoriale del Monde, opera mai pubblicata da Cartesio e che racchiudeva gran parte della
sua fisica. Nel secondo capitolo, è stato analizzato il concetto di distinzione reale mente-corpo,
così come esso è presentato nel Discours e nelle Meditazioni, la caratterizzazione della res
cogitans e della res extensa, le loro peculiarità e il concetto stesso di distinzione reale, preso dai
Principia. Infine nell'ultima sezione, la più lunga, si è discusso il cruciale tema dell'unione
mente-corpo. Si è seguito lo schema delle Meditazioni, in particolare della Sesta, dove appare per
l'appunto il concetto in questione; si è poi passato ad un'analisi del linguaggio di stampo
giuridico usato da Cartesio per affermare alcuni concetti fondamentali della sua metafisica,
99
servendomi, a tal proposito, della preziosa collaborazione del testo di Allocca; come terzo punto
sono state analizzate alcune obiezioni rivolte all'autore delle Meditationes da diversi suoi
contemporanei, inoltre, poiché estremamente interessanti e strettamente collegati al cuore
pulsante della trattazione, sono stati portati ad esempio due eventi cruciali della storia dello
sviluppo del progetto filosofico cartesiano: quello che è passato alla storia come «Affaire
Regius» e il carteggio portato avanti da Cartesio con la principessa palatina Elisabeth; infine
sono stati presi in esame alcuni articoli scelti dalle Passioni dell'anima, con l'obbiettivo di
mostrare la centralità dell'unione mente-corpo nel pensiero cartesiano post-Meditazioni.
Nel prossimo capitolo verrà presentato un modo innovativo di intendere la filosofia di Cartesio,
ovvero in correlazione alle neuroscienze contemporanee e si tenterà di trovare un punto di
incontro tra alcuni dei massimi esponenti della disciplina in questione e il filosofo francese.
100
Capitolo 3: Dialogo tra Cartesio e le neuroscienze
III.I Damasio e l'errore di Cartesio
In questo terzo capitolo mi concentrerò sul rapporto che intercorre tra Cartesio e alcune idee di
studiosi del cervello contemporanei: Damasio, Panksepp e Edelman.
Naturalmente per ovvi motivi di spazio e di tempo non potrò confrontarmi con la totalità delle
ricerche portate avanti da questi tre colossi della scienza odierna, bensì presenterò
esclusivamente quelle parti dei loro studi di cui è possibile effettuare un confronto con alcune
delle conclusioni di Descartes.
Ma cosa sono di preciso le neuroscienze? La parola “neuroscienze” deriva dall’inglese
“neuroscience”, un neologismo coniato nel 1972 circa (o almeno apparso pubblicamente nel
1972) per opera di uno scienziato americano, Francis O. Schmitt. Egli si era reso conto che per
studiare il sistema nervoso, bisognava associare scienziati con diversa formazione, fisiologi,
biochimici, matematici, fisici, chimici, microscopisti (Schmitt era un microscopista elettronico e
un neurochimico ed aveva fatto importanti scoperte sulla struttura della mielina), ed inoltre
neurologi, psichiatri; per indicare il gruppo di ricerca che aveva costituito nel Massachusset (in
una struttura vicina ma non corrispondente al celebre Massachusset Institute of Technology)
aveva inventato questa parola, neuroscience appunto, ed indicato il programma di ricerca da lui
organizzato “The Neuroscience Research Program” (NRP). Dopo Schmitt, la parola
“neuroscience”, ed i termini da essa derivati nelle varie lingue, si sono poi diffuse e nel tempo lo
stesso concetto di neuroscienze si è allargato, arrivando a comprendere anche chi si interessa di
101
psicologia cognitiva, gli esperti di scienza della comunicazione e di teoria dei sistemi, alcuni
sociologi e persino alcuni filosofi (quelli per esempio che si occupano di un certo tipo di
epistemologia, si parla ora addirittura di “neurofilosofia”) 204.
Conclusa questa breve disamina sulla nascita del concetto di neuroscienze, passerò ora ad
occuparmi di uno dei suoi esponenti più celebri, ovvero il portoghese Antonio Damasio e in
particolare il suo libro intitolato proprio L'errore di Cartesio, all'interno del quale egli espone la
sua teoria del marcatore somatico, nonché uno studio che tiene l'autore delle Meditazioni
costantemente sullo sfondo, con lo scopo di portare alla luce del sole e infine correggere, l'errore
cartesiano per antonomasia.
Ma a cosa si riferisce nello specifico Damasio?
Penso, dunque sono. L'enunciato, il più famoso di tutta la storia della filosofia, appare
per la prima volta in francese (je pense donc je suis) nella parte quarta del discorso sul
metodo e poi il latino (cogito ergo sum) nella parte prima dei principi della filosofia.
Preso alla lettera, esso esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero
riguardo alle origini della mente e riguardo alla relazione tra mente e corpo; esso
suggerisce che il pensare e la consapevolezza di pensare, siano i veri substrati
dell'essere. E siccome sappiamo che Cartesio immaginava il pensare come un'attività
affatto separata dal corpo, esso celebra la separazione della mente, la «cosa pensante»,
dal corpo non pensante, dotato di estensione e di parti meccaniche205.
Non solo, lo studioso rincara la dose poco più avanti:
204
M. PICCOLINO, Sistemi sensoriali, informazione biologicamente rilevante e una breve storia delle neuroscienze,
«Le scienze naturali nella scuola», X, 2003, p. 12.
205
A. DAMASIO, L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995, p. 337.
102
«pervenni in tal modo a conoscere che io ero una sostanza, la cui intera essenza o
natura consiste nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né
dipende da alcuna cosa materiale. Di guisa che questo io, cioè l'anima, per opera della
quale io sono quel che sono, è interamente distinta del corpo, ed è anzi più facile a
conoscere di questo; e anche se questo non fosse affatto, essa non cesserebbe di essere
tutto quello che è». Eccolo, l'errore di Cartesio: ecco abissale separazione tra corpo e
mente - tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente,
infinitamente divisibile, da un lato, e la «stoffa» della mente, non misurabile, priva di
dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile; ecco il
suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento e la sofferenza che viene dal
dolore fisico o da turbamento emotivo possano esistere separati dal corpo. In
particolare: la separazione delle più elaborate attività della mente dalla struttura e dal
funzionamento di un organismo biologico206.
Damasio arriva anche ad accusare il filosofo francese, o comunque le interpretazioni di alcune
delle sue conclusioni, di poter essere la causa della teoria computazionale della mente:
L'idea cartesiana di una mente scissa dal corpo può essere stata, attorno alla metà del
ventesimo secolo, l'origine della metafora della mente come programma di software.
Infatti, se la mente può essere separata dal corpo, forse si può tentare di comprenderla
senza alcun ricorso alla neurobiologia, senza che occorra lasciarsi influenzare da
conoscenze di neuroanatomia, di neurofisiologia, di neurochimica207.
Infine, sarebbe colpa dello stesso Cartesio, perfino un certo tipo di 'atteggiamento' col quale la
medicina contemporanea affronta lo studio e il trattamento della malattia:
206
Ivi, pp. 338-339.
207
Ivi, p. 339.
103
La scissione cartesiana permea sia la ricerca sia la pratica medica; con il risultato che
le conseguenze psicologiche delle malattie del corpo in senso stretto (le cosiddette
«vere» malattie) di solito vengono trascurate, e prese in considerazione, semmai, solo
in un secondo momento. Ancora più trascurati sono i fenomeni inversi, cioè gli effetti
somatici di conflitti psicologici. È suggestivo pensare che Cartesio contribuì a
modificare il corso della medicina, a far sì che essa deviasse dall'orientamento
organico, o meglio «organismico» (la-mente-è-nel-corpo) che era prevalso dai tempi di
Ippocrate fino a Rinascimento208.
Naturalmente le accuse di Damasio sono figlie di un'interpretazione cartesiana che ha
volutamente dato maggior peso alla teoria della distinzione rispetto all'unione e più in generale
dello stretto legame mente-corpo.
Come ho già tentato di dimostrare nel precedente capitolo, tale enfasi è assolutamente parziale,
poiché non solo decontestualizza delle affermazioni del filosofo francese rispetto ad un percorso
d'indagine più ampio e rigoroso, bensì è anche volutamente incompleta perché non tiene conto
della Medidatio VI oltre che delle Passioni.
Per quanto riguarda la seconda e la terza accusa portate avanti dallo studioso portoghese, tenterò
qui di fornirne, per quanto possibile, una breve confutazione.
Innanzitutto è necessario specificare cosa s'intende per teoria computazionale della mente: essa
teorizza che il cervello sia un calcolatore e i processi mentali, mere computazioni. Tale
spiegazione ha il suo fulcro centrale nel concetto di IA, intelligenza artificiale. Uno dei fautori
principali del proliferare di questa particolare spiegazione cognitiva fu Alan Mathison Turing e la
sua «macchina di Turing». Senza scendere troppo nel dettaglio, per macchina di Turing viene
inteso: un modello di agente di calcolo adatto a simulare la logica di qualsiasi algoritmo
computazionale; da questa definizione si può intendere che sostanzialmente qualsiasi calcolatore
208
Ivi, p. 340.
104
atto alla risoluzione di problemi logico-computazionali può essere considerato una macchina di
Turing, anche il cervello. La teoria computazionale della mente trova la sua apoteosi con
l'avvento dei calcolatori digitali, la diffusione della robotica e della fisica degli automi, arrivando
a sostenere l'idea della mente-software e del cervello-hardware209. Secondo alcune
interpretazioni, tra cui quella di Damasio, questo particolare modo di intendere la mente e il
cervello, sarebbe una sorta di reinterpretazione del «fantasma nella macchina», riprendendo la
definizione che Ryle ha fornito della teoria cartesiana. Eppure ad un'analisi più attenta, questo
tipo di interpretazione dimostra essere incoerente e assolutamente non surrogata dalle opere del
filosofo francese.
Per prima cosa non fu Cartesio ad ideare, in filosofia, l'idea del pensiero calcolatore, bensì
Leibniz, cartesiano sì, ma sicuramente atipico. Egli era convinto che gli errori concettuali che noi
commettiamo siano semplicemente errori di calcolo, facilmente correggibili. In secondo luogo,
come già è stato analizzato nel primo capitolo, Descartes indubbiamente parla di mente e
cervello come se fossero due 'organi' diversi, infatti il cervello è considerato la sede dell'anima e
non l'anima stessa in quanto assolutamente incorporea e l'interazione tra quest'ultima e il corpo
mediante la ghiandola pineale; nonostante ciò però, Cartesio non ha mai inteso la mente come
calcolatrice e questo è possibile dedurlo dal modo con il quale egli si serve del termine mens,
come si è più volte chiarito durante tutto lo svolgimento di questa tesi, ovvero intendendolo
come coscienza. Se per il filosofo francese la mens, nella sua interazione con il corpo, quindi non
disgiunta da esso, rappresenta la coscienza di se stessi, occupandosi di tutte quelle funzioni
'volontarie' che caratterizzano l'agire del composto umano, non può in alcun modo essere
considerata come un software all'interno di un hardware e, a dimostrazione di ciò, vengono in
nostro soccorso le Passioni, nello specifico gli articoli XLVII, XLVIII, XLIX e L, nella parte
dedicata al controllo delle emozioni e del carattere, dove Descartes sostiene che, non solo è
possibile che la stessa passione possa suscitare reazioni diverse in base al carattere dell'anima,
ma che, addirittura, dopo un certo periodo di «apprendistato» è possibile riuscire a controllare
queste stesse reazioni:
209
A. ATTANASIO, Darwinismo morale, Utet, Torino, 2016, p. 155.
105
Tuttavia, si può anche concepire un qualche combattimento per il fatto che spesso la
stessa causa che suscita nell'anima qualche passione, suscita anche nel corpo certi
movimenti, ai quali l'anima non contribuisce affatto, e che anzi arresta o cerca di
arrestare non appena se ne rende conto: è quello che si prova quando ciò che suscita la
paura fa sì che gli spiriti entrino nei muscoli che servono a muovere le gambe per
fuggire, e che la volontà che si ha di essere audaci li arresti 210.
A tal proposito aggiungerei anche l'articolo XXXIX, che recita come segue:
La stessa impressione che la presenza di un oggetto spaventoso fa sulla girandola e
che in alcuni uomini causa la paura, può suscitare in altri il coraggio e l'audacia: la
ragione di ciò sta nel fatto che i cervelli non sono tutti disposti nello stesso modo, e
che lo stesso movimento della ghiandola, che in alcuni suscita la paura, in altri fa sì
che gli spiriti entrino nei pori del cervello, che li conducono in parte nei nervi che
servono a muovere le mani per difendersi, e in parte in quelli che agitano e spingono il
sangue verso il cuore nel modo richiesto per produrre spiriti adatti a continuare questa
difesa e a conservarne la volontà211.
Da questo estratto delle Passioni è facile arrivare alla conclusione di come sia impossibile
definire il filosofo francese un precursore della teoria computazionale della mente: le sue
affermazioni sulla possibilità di reazioni diverse davanti a situazioni simili basate sull'idea che i
«cervelli non sono tutti disposti nello stesso modo», sono, infatti, in assoluta contraddizione al
sistema di input-output alla base del computazionismo, il quale si fonda sul concetto che ad ogni
210
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., p. 2377.
211
Ivi, p. 2369.
106
impulso esterno, corrisponde la medesima reazione da parte dei soggetti, idea basilare anche del
comportamentismo.
Per quanto riguarda la terza accusa mossa, ovvero che il dualismo cartesiano avrebbe influenzato
la medicina a tal punto da incidere sull'atteggiamento che ci sarebbe nei confronti degli effetti
psichici delle malattie somatiche e viceversa, anche a tal proposito non mi sento d'accordo con
Damasio.
Descartes è sempre stato un fautore della rigorosità della conoscenza scientifica, basti pensare
alle Regulae oppure al Discours per rendersi conto di quanto egli fosse, oltre che uomo di fede,
un grande uomo di scienza; non è di certo un caso che la sua produzione intellettuale fu tanto
feconda nelle scienze teoretiche, quanto in quelle matematiche. A quest'ultimo proposito i suoi
lasciti più significativi furono, senza dubbio, i cosiddetti assi cartesiani e la geometria analitica.
Inoltre, come già ho avuto modo di far notare nella fase conclusiva del capitolo precedente, il
filosofo francese si occupò anche di anatomia come ci accenna il biografo Baillet.
A mio avviso, tale atteggiamento da parte della medicina va ricercato altrove: in primis nel
comportamentismo e i suoi derivati, che hanno escluso totalmente la mente e le emozioni dal
mondo scientifico; in secondo luogo dalla presunzione che il pensiero 'tecnico', come è stato
definito dagli esistenzialisti novecenteschi, ha sviluppato nei confronti della filosofia e delle sue
conquiste, presunzione che andrebbe superata proprio attraverso l'istituzione di quel ponte tra
materie scientifiche e umanistiche auspicato dallo stesso Damasio nel suo libro 212.
Terminate le obiezioni, passo ora ad illustrare la teoria del marcatore somatico proposta da
Damasio all'interno de l'errore di Cartesio.
Lo scienziato portoghese studia e s'incuriosisce del caso di Phineas Gage un operaio del Vermont
che nell'estate del 1848, in seguito ad un incidente con una barra di ferro che portò a lesioni alla
corteccia prefrontale, subisce un drastico cambiamento del comportamento, rendendolo incapace
212
A. DAMASIO, Op. cit., p. 9.
107
di seguire un’eticità, intesa in senso ampio, alla totale assenza di programmazione e quindi di
autosufficienza.
Naturalmente egli si occupa di altri pazienti affetti dallo stesso tipo di lesione, riscontrando
sempre gli stessi sintomi, ovvero la totale assenza di programmazione e l'incapacità di seguire i
costumi comuni, nonostante venissero compresi perfettamente. In particolare l'autore riporta il
caso di un paziente che egli per comodità e privacy chiama Elliot, il quale, in seguito ad un
tumore benigno particolarmente ingrossato, aveva ricevuto lo stesso tipo di lesione, e che
presentava la stessa sintomatologia: Elliot aveva a disposizione tutte le regole etiche e di
comportamento, riusciva a superare tutti i test attitudinali con risultati anche al di sopra della
media, eppure, nel momento in cui era forzato a prendere una decisione, non era in grado di
farlo. Lo studioso però si rende conto di una peculiarità di Elliot, ovvero la totale freddezza e
neutralità nel raccontare le proprie esperienze, come se egli fosse totalmente incapace di provare
emozioni. Questa intuizione lo porta ad elaborare l'idea che le emozioni siano alla base dei
processi decisionali più avanzati, in quanto la loro assenza rende impossibile assegnare valori
differenti a opzioni differenti, rendendo il paesaggio del processo decisionale irrimediabilmente
piatto oppure eccessivamente mutevole e instabile.
Per illustrare la sua teoria del marcatore somatico, Damasio porta alcuni esempi di situazioni in
cui sono necessarie delle decisioni da prendere: il primo quella di una condizione di fame, dettata
da una strategia interna di risposta ad un abbassamento di zuccheri nel sangue, questa risposta
non coinvolge alcun tipo di conoscenza dichiarata, non troviamo nessun meccanismo conscio,
almeno sino a quando il soggetto in questione diviene consapevole di essere affamato. Nel
secondo esempio si considera quello che accade quando si fa un movimento brusco per schivare
un oggetto che cade; in questo caso vi è necessità di una reazione immediata, naturalmente ci si
può scansare o no, entrambe le scelte comportano delle conseguenze, ma anche in questo caso
specifico non si applica alcuna scelta cosciente, né tantomeno una strategia di ragionamento. La
conoscenza richiesta per la reazione, infatti, è diventata conscia la prima volta che si è appreso
che un oggetto che cade può ferire, e che evitarlo oppure bloccarlo è meglio che esserne colpiti;
poi l'esperienza fatta con tali scenari, man mano che si accumula conoscenza, ha fatto in modo
che il cervello accoppiasse in modo fermo lo stimolo agente con la risposta più vantaggiosa. In
108
questo caso la strategia di scelta della risposta consiste nell'attivare il forte legame tra stimolo e
risposta, così che l'attuazione di quest'ultima avviene in modo automatico e rapido, senza sforzo
o deliberazione, anche se si può volontariamente tentare di prepararla.
Il terzo esempio portato dallo studioso comprende due gruppi di casi, il primo è composto dalla
possibilità della scelta di una carriera; di chi amare o assistere; la decisione di volare o meno
quando potrebbe esserci la minaccia di condizioni atmosferiche avverse; la decisione su come
votare o di come investire i propri risparmi; di perdonare o meno una persona che ci ha fatto del
male oppure di commutare la pena di un detenuto nel caso di un governatore di Stato.
Il secondo gruppo invece comprende al suo interno il ragionamento che è richiesto nella
costruzione di una macchina, la progettazione di un edificio, la risoluzione di un problema
matematico, la composizione di un brano musicale o la scrittura di un libro, il giudicare se una
nuova proposta di legge si accorda o contrasta con la Costituzione.
Tutti i casi elencati nel terzo esempio, si fondano sul processo di desumere conseguenze logiche
da premesse date per scontate, di trarre inferenze affidabili che ci consentono di fare la migliore
scelta che conduca all'esito migliore, per il problema peggiore che possa presentarsi. In tutti i
casi che rientrano nel terzo esempio, le situazioni di stimolo hanno parte maggiore; le opzioni di
risposta sono più numerose; le rispettive conseguenze hanno più ramificazioni e sono spesso
differenti, nell'immediato e nel futuro, proponendo in tal modo conflitti tra possibili vantaggi e
svantaggi entro cornici temporali diverse. Per selezionare la risposta finale bisogna applicare il
ragionamento, e ciò comporta il tenere a mente una moltitudine di fatti, registrare i risultati di
azioni ipotetiche e associarli agli obiettivi intermedi e a quelli ultimi: tutte cose che richiedono
un metodo, qualche tipo di piano di gioco tra i molti già saggiati.
Nonostante la natura dei casi che illustrano il terzo esempio indica una differenza vistosa rispetto
ai primi due, è anche vero che tali casi non sono tutti dello stesso tipo. Dando per scontato che
tutti richiedono ragione, nell'accezione usuale del termine, alcuni sono però più vicini degli altri
alla persona e all'ambiente sociale del decisore. Così, decidere di amare o perdonare, scegliere
una carriera, compiere un investimento, rientrano nel dominio immediato personale e sociale,
mentre applicare il teorema di Pitagora o decretare la costituzionalità di un capitolo di
109
legislazione sono più distinti dal nucleo personale. Il primo gruppo richiama la nozione di
razionalità e di ragione pratica, il secondo ricade più facilmente nel dominio della ragione in
senso più generale, della ragione detta teoretica 213. È importante, seguendo gli studi di Damasio,
scindere le decisioni e ragionamenti che riguardano prettamente l'ambito sociale e personale
rispetto ai problemi che ne sono più distaccati; questo perché dai test portati avanti in laboratorio
dallo studioso, è scaturito in modo evidente che tanto più i problemi sono lontani dall'ambito
personale e sociale, tanto meglio i pazienti affetti da lesioni riescono ad affrontarli. Inoltre basta
affidarsi al comune buon senso per vedere confermata un'analoga dissociazione delle capacità di
ragionamento che va in entrambe le direzioni. Infatti, tutti potremmo conoscere una persona
eccezionalmente abile nella navigazione sociale, infallibile nel cercare ciò che è di vantaggio per
sé e per il proprio gruppo, ma che può rivelarsi vistosamente inetta quando si è alle prese con un
problema personale e non sociale. Non meno patente è la condizione opposta: sappiamo di artisti
e scienziati di grande creatività il cui senso sociale è una sciagura e con il proprio
comportamento danneggiano regolarmente sé e gli altri.
Il dominio personale e sociale immediato è quello che si trova più vicino alla nostra sorte e anche
quello che comporta il massimo grado di incertezza e complessità. Parlando in generale,
all'interno di tale dominio decidere bene significa selezionare una risposta che alla fine sarà
vantaggiosa per l'organismo, direttamente o indirettamente, in termini di sopravvivenza e di
qualità di tale sopravvivenza. Decidere bene significa anche decidere alla svelta, specie quando il
tempo è essenziale, o almeno decidere entro un arco temporale che si giudica adeguato al
problema in questione.
Successivamente Damasio porta un esempio concreto di come dovrebbe funzionare la
'razionalità':
siete il proprietario di un'impresa in procinto di incontrare - oppure no - un possibile
cliente che potrebbe farvi concludere un buon affare, ma che è anche acerrimo nemico
del vostro migliore amico. Il cervello di un adulto sano, intelligente e istruito, reagisce
213
Ivi, p. 239.
110
creando rapidamente scenari diversi di possibili risposte e di esiti conseguenti, che alla
nostra coscienza si presentano come scene immaginarie e molteplici: non un film
continuo, ma piuttosto una rapida giustapposizione di singoli quadri, immagini
lampeggianti che corrispondono a scene cruciali e che vengono toccate saltando
dall'una all'altra. Ad esempio l'incontro con il possibile cliente, il vostro amico che vi
vede in sua compagnia e la minaccia che ciò comporta per la vostra amicizia; oppure
la rinuncia all'incontro e la perdita di un buon affare, ma la tutela di un'amicizia che
per voi è preziosa e così via214.
Quello che al nostro autore preme far osservare, è che la mente non è una tabula rasa, all'inizio
del processo di ragionamento; piuttosto è dotata di un repertorio di immagini diverse, generate
per il complesso delle situazioni che il soggetto affronta; esse entrano ed escono dalla coscienza
in una varietà troppo ricca perché qualcuno possa abbracciarla interamente. Anche in questo
esempio un po' forzato è possibile ravvisare il tipo di dilemmi che ci si trova ad affrontare
quotidianamente o quasi. Come si fa a risolverli? Come si selezionano le questioni inerenti alle
immagini che sfilano davanti all'occhio della mente?
Damasio propone due differenti modelli: il primo è quello che discende dal concetto classico di
«ragione alta», mentre il secondo è l'ipotesi del marcatore somatico.
Nella prima prospettiva, i differenti scenari sono considerati uno alla volta e, per usare un gergo
economico, su ciascuno di essi si compie un'analisi costi/benefici. Per esempio si considerano le
conseguenze di ogni opzione in momenti diversi del futuro previsto e si «pesano» guadagni e
perdite che ne conseguirebbero. Via via che si procede nella deduzione, l'analisi diventa tutt'altro
che facile, poiché la maggior parte dei problemi presenta ben più di due alternative, come
nell'esempio riportato. Ma si osservi che anche un problema a due alternative non è così
semplice.
Acquisire un nuovo cliente può portare un guadagno immediato e anche un
sostanzioso guadagno futuro; quanto, però, non si sa, e perciò bisogna stimarne l'entità e
l'andamento nel tempo, in modo da poter istituire un confronto con le potenziali perdite, tra le
214
Ivi, p. 241.
111
quali vanno annoverati anche le conseguenze della rottura di un'amicizia. E siccome queste
ultime variano nel tempo, bisognerà anche stimare il tasso di «deprezzamento». Di fatto, quindi,
ci si trova ad affrontare un calcolo complesso, da impostare in momenti temporali immaginari
differenti e ponendo a paragone risultati di natura differente, che devono essere in qualche modo
riportati ad una moneta unica, perché il paragone abbia un senso. In buona misura, tale calcolo
dipenderà dalla generazione ininterrotta di nuovi scenari immaginari, costruiti su schemi uditivi e
visivi e anche dalla generazione ininterrotta di narrazioni verbali che accompagnano quegli
scenari e che sono essenziali per tenere in attività il processo di inferenza logica215.
A giudizio dello studioso portoghese, se quella appena descritta fosse l'unica strategia possibile,
essa non potrebbe funzionare in alcun modo.
Infatti, nel migliore dei casi «la decisione richiederà un tempo troppo lungo, assai più lungo di
quanto si possa accettare se nella medesima giornata si deve fare altro; nel peggiore, invece, non
si arriverà ad alcuna decisione, ma ci si ritroverà smarriti nel labirinto dei calcoli»216.
Questo poiché non è facile tenere a mente i molteplici livelli di guadagni e perdite che bisogna
confrontare: semplicemente scompaiono dalla memoria le rappresentazioni dei passi intermedi
che bisogna tenere in serbo e poi passare in rassegna per trasferirli nella forma simbolica
richiesta per operare l'inferenza logica. Alla fine, se la mente operasse esclusivamente secondo
calcoli puramente razionali si potrebbe scegliere in modo errato e vivere rammaricandosi
dell'errore, o rinunciare a tentare, frustrati. L'esperienza fatta da Damasio e i suoi collaboratori
con pazienti come Elliot suggerisce che la strategia fredda, ha molto più a che vedere con il
modo in cui pazienti colpiti da lesioni prefrontali si adoperano per decidere, piuttosto che con il
modo di operare dei soggetti sani. Ovviamente, anche i ragionatori puri possono fare meglio di
così, aiutandosi con carta e matita: basta stendere un elenco di tutte le possibili opzioni e delle
miriadi di scenari che si diramano, delle loro conseguenze, e così via. Ma in tal caso «dovrebbero
215
Ivi, p. 243.
216
Ibidem.
112
munirsi di un bel po' di carta e di un temperamatite robusto, senza aspettarsi che gli altri abbiano
la pazienza di seguirli fino a che non saranno giunti alla fine»217.
Si arriva così all'ipotesi del marcatore somatico. Riconsiderando nuovamente gli scenari
precedenti: le componenti chiave si aprono alla nostra mente in modo immediato, in modo
generico e con troppa rapidità per fare in modo che i particolari possano essere definiti in
maniera nitida. Il nostro autore però ci invita a riflettere su una cosa fondamentale, ovvero che,
prima di effettuare qualsiasi tipo di calcolo razionale o formulare ipotesi lunghe sulle varie
conseguenze derivanti dalla catena delle nostre scelte, quando noi immaginiamo, anche se a
intermittenza, l'esito negativo connesso ad una determinata opzione di risposta, avvertiamo una
sensazione spiacevole nelle nostre viscere. Poiché tale fenomeno riguarda il corpo, viene
contrassegnato da Damasio col termine somatico e dato che si riferisce o comunque definisce
un'immagine, è un marcatore.
Cosa fa il marcatore somatico?
Esso forza l'attenzione sull'esito negativo al quale può condurre una data azione, e agisce come
un segnale automatico di allarme. Tale segnale può far abbandonare immediatamente il corso
negativo di un'azione e così portare a scegliere le alternative che lo escludono; protegge da
perdite future, senza ulteriori fastidi e in tal modo permette di scegliere entro un numero minore
di alternative. È ancora possibile impiegare l'analisi costi-benefici appropriata ma solo dopo che
il passo automatizzato ha ridotto drasticamente il numero di opzioni. I marcatori somatici
rendono più efficiente e preciso, con ogni probabilità, il processo di decisione, mentre la loro
assenza riduce efficienza e precisione. L'ipotesi del marcatore non riguarda i passi di
ragionamento che seguono l'azione del marcatore stesso, bensì i marcatori somatici devono
essere intesi come esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Tali
emozioni e sentimenti sono stati connessi, attraverso l'apprendimento, a previsti esiti futuri di
certi scenari. Quando un marcatore somatico negativo è giustapposto a un particolare esito
217
Ivi, p. 244.
113
futuro, la combinazione funziona come un campanello d'allarme; quando invece interviene un
marcatore positivo, esso diviene un segnalatore d'incentivi 218.
I marcatori somatici non deliberano per noi; assistono il processo decisionale, illuminando
alcune opzioni (pericolose o promettenti) ed eliminandole presto dall'analisi successiva; li si può
vedere come un sistema di automatica qualificazione delle previsioni che opera, valutando i più
diversi scenari del prevedibile futuro che si prospetta. È possibile immaginarli come dispositivi
che attribuiscono un «segno». Ad esempio:
Supponiamo che ci si prospetti un investimento ad altissimo rischio ma che potrebbe
comportare un guadagno insolitamente alto, e che ci venga chiesto di approvarlo o
rifiutarlo in un tempo assai breve e mentre siamo distratti da altri analoghi problemi.
Se il pensiero di procedere a tale investimento è accompagnato da uno stato somatico
negativo, ciò contribuirà a farci respingere quell'investimento e ci costringerà ad un
esame più profondo e minuzioso delle sue conseguenze potenzialmente nocive: lo
stato negativo connesso con il futuro bilancia la seducente prospettiva di una
remunerazione forte ed immediata219.
Come è facile intuire dall'esempio in questione, oltre che dalla nostra esperienza quotidiana in
quanto soggetti che affrontano processi decisionali continuamente, si può affermare, con una
buona dose di sicurezza, il fatto che i nostri stati somatici influenzano le nostre decisioni.
Terminata la trattazione della teoria del marcatore somatico, mi piacerebbe ora tentare di liberare
Cartesio da un ulteriore pregiudizio che è possibile riscontrare nell'opera damasiana: ovvero un
Descartes paladino della ragione pura contro le passioni e le emozioni.
Nonostante da una lettura superficiale le Passioni possano sembrare un elogio allo stoicismo e
quindi all'imperturbabilità dell'animo, il filosofo francese non parla mai della possibilità di
218
Ivi, p. 246.
219
Ibidem.
114
eliminare le passioni dalla vita umana, anzi, tutt'altro. Egli le riconosce come una realtà oggettiva
ed ineliminabile, non solo, ma che è, inoltre, non auspicabile una loro cancellazione, poiché,
come scrive nell'ultimo articolo, le passioni rappresentano i piaceri della vita e che «gli uomini
che esse possono scuotere di più sono i più capaci di gustare le dolcezze di questa vita»220.
Descartes non etichetta le passioni come sbagliate o malvagie in sé, bensì esse sono «per natura
tutte buone e che dobbiamo solo evitarne gli usi cattivi», 221 per cui mi sentirei di escludere
l'interpretazione di un Cartesio baluardo della pura ragione e sospenderei quantomeno il giudizio
a tal proposito.
Terminato questo preambolo, adesso vorrei tentare di evidenziare ciò che invece potrebbe legare
la teoria damasiana del marcatore somatico e alcune conclusioni cartesiane. Per prima cosa
bisogna nuovamente riassumere brevemente in cosa consiste tale teoria: ovvero l'idea, scaturita
in seguito allo studio su pazienti con lesioni prefrontali, di una partecipazione delle emozioni
nell'atto decisionale. Esse non ledono la nostra scelta, non ci obbligano a scegliere uno scenario
piuttosto che un altro, bensì, attraverso degli impulsi somatici (i marcatori somatici) ci spingono
maggiormente verso una soluzione rispetto ad un'altra, non risultando pertanto un ostacolo, come
sostenuto dai razionalisti, bensì un aiuto a capire cosa realmente vogliamo in quel determinato
momento, nei confronti di quella specifica possibilità, oltre, soprattutto, a ridurre drasticamente il
ventaglio delle opzioni, permettendoci di prendere una decisione in tempi accettabili.
Tornando a Cartesio, volendo trovare delle similitudini con le conclusioni damasiane, a mio
parere esse vanno ricercate nelle Passioni, e nello specifico quando il filosofo ci parla della
possibilità di controllare le emozioni. Proprio come i marcatori somatici, allo stesso modo le
passioni per Cartesio hanno un ruolo nel processo decisionale, anche se naturalmente in modo
diverso: mentre per Damasio, come abbiamo visto più volte, esse indicano lo scenario preferito o
comunque cercano di tenerci lontani da quello meno piacevole; per il filosofo francese esse
inevitabilmente vanno ad influenzare il nostro atteggiamento rispetto a ciò che accade in quel
momento. Riprendendo un tema della classicità, Cartesio ci parla, sempre nelle Passioni, di ciò
220
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., p. 2527.
221
Ivi, p. 2525.
115
che venivano chiamati «combattimenti tra parte inferiore e superiore dell'anima», può essere
interessante citare, a tal proposito, un estratto dell'articolo XLVII, poiché, a mio avviso, può
aiutare ad illustrare il conflitto decisionale, proprio come nelle situazioni esposte da Damasio nei
suoi esempi, analizzati precedentemente:
È solo nel conflitto tra i movimenti che il corpo, tramite i suoi spiriti, e l'anima, tramite
la sua volontà, tendono a suscitare nello stesso tempo nella ghiandola che consistono
tutti i combattimenti che si è soliti immaginare tra la parte inferiore dell'anima [...] e
quella superiore, oppure tra gli appetiti naturali e la volontà. [...] Per esempio, tra lo
sforzo con cui gli spiriti spingono la ghiandola per causare nell'anima il desiderio di
qualche cosa e quello contrario con cui l'anima lo respinge per la volontà che ha di
fuggire la stessa cosa. E ciò che soprattutto fa apparire tale combattimento è il fatto
che la volontà, non avendo il potere di suscitare direttamente le passioni, è costretta a
ingegnarsi e applicarsi a esaminare successivamente diverse cose, e se accade che una
di queste abbia la forza di cambiare per un momento il corso degli spiriti, può
accadere che quella seguente non l'abbia, e che quindi essi riprendano subito dopo lo
stesso corso, poiché non è cambiata la precedente disposizione nei nervi, nel cuore e
nel sangue; ciò fa sì che l'anima si senta spinta quasi nello stesso tempo a desiderare e
non desiderare una medesima cosa. [...] Tuttavia, si può anche concepire un qualche
combattimento per il fatto che spesso la stessa causa che suscita nell'anima qualche
passione, suscita anche nel corpo certi movimenti, ai quali l'anima non contribuisce
affatto, e che anzi arresta o cerca di arrestare non appena se ne rende conto: è quello
che si prova quando ciò che suscita la paura fa sì che gli spiriti entrino nei muscoli che
servono a muovere le gambe per fuggire, e che la volontà che si ha di essere audaci li
arresti222.
Come è facile intuire, quella del filosofo francese è una visione ancora pregna di metafisica, di
linguaggio classico, probabilmente anche per la mancanza di una terminologia appropriata a
222
Ivi, pp. 2375-2377.
116
definire ciò che egli vuole intendere, per cui ritroviamo termini come «combattimento» o
«appetiti naturali». Vedendo oltre, però, è facile cogliere il contrasto, lo «scontro» appunto, che
caratterizza l'inevitabilità di dover prendere una scelta, e di come essa sia influenzata dall'effetto
delle nostre passioni: proprio come i marcatori somatici ci aiutano a capire cosa desideriamo da
un determinato scenario futuro, allo stesso modo le passioni del corpo ci indicano cosa sta
succedendo dentro di noi in quella situazione.
Naturalmente mi rendo conto che l'esempio cartesiano dell'audacia della volontà rispetto alla
necessità della fuga, sono paragonabili agli esempi di primo e secondo tipo elencati da Damasio,
piuttosto che a decisioni più complesse dove vi è in gioco la possibilità di un ricco guadagno di
contro ad una questione morale come quella di perdere un amico. Nonostante ciò è comunque
interessante, a mio avviso, notare l'importanza che il filosofo riserva alle passioni nel momento
della scelta. Ovviamente Cartesio opta per una risoluzione dei conflitti basata sulla conoscenza
della verità e sulla necessità di seguire dei «giudizi fermi e precisi» riguardo a questioni etiche e
morali223. Cionondimeno, come già precedentemente accennato, egli non esclude le passioni dalla
vita umana in favore di una ragione fredda e distaccata, bensì suggerisce di seguirne alcune,
specie per quanto riguarda questioni etiche, rispetto ad altre, ma comunque primariamente vi
deve essere una piena conoscenza della verità224.
Vorrei inoltre aggiungere un ulteriore concetto a supporto dell’interpretazione del valore che le
emozioni e le esperienze pregresse assumono nella concezione che Descartes ha dell’uomo, ossia
l’idea, sempre enunciata nelle Passioni, della «memoria corporea»225. Essa è una funzione
meccanica dal carattere essenzialmente cinetico, che nell’uomo può causare movimenti
involontari della ghiandola pineale, che si trova ad esser inclinata indipendentemente da
percezioni o interventi dell’anima, e gli spiriti animali di conseguenza indotti a circolare in
particolari zone dei ventricoli cerebrali. In tal modo la memoria corporea può dar luogo ad
associazioni d’idee indipendenti dalla volontà, come accade a chi non può sopportare l’odore
223
Ivi, p. 2379.
224
Ibidem.
225
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., pp. 2453-2455.
117
delle rose o la presenza di un gatto, perché durante l’infanzia era stato indisposto dall’uno o
dall’altro, indisposizione di cui restano impresse le tracce cerebrali 226. Il fenomeno della memoria
corporea assume in Descartes il medesimo ruolo che possiedono le esperienze pregresse nella
visione damasiana del processo decisionale, dimodoché quest’ultimo possa avvenire in modo più
snello e rapido, tagliando via preventivamente molti rami di possibili scelte già vagliate dal
cervello in base proprio a tali esperienze, consce o inconscie che siano.
Qui si conclude la sezione dedicata a Damasio, il prossimo autore di cui mi occuperò è Jaak
Panksepp.
226
N. ALLOCCA, L’errore di Damasio: Cervello, emozione e cognizione in Descartes, «Physis», LII, Leo S. Olschki
Editore, Firenze, 2017, p. 35.
118
III.II Panksepp e le neuroscienze affettive
L'indagine di Panksepp è rivolta alle emozioni, possiamo tranquillamente affermare che egli sia
il fondatore di una vera e propria corrente definita neuroscienze affettive.
I suoi studi si basano sul confronto tra i sistemi affettivi umani e quelli dei principali mammiferi,
egli è infatti convinto dell'impossibilità di poter raggiungere una profonda comprensione
neuroscientifica dei fenomeni emozionali, senza modelli animali appropriati.
La sua principale scoperta è che i nostri sistemi emotivi, definiti affetti emotivi-primitivi,
sorgano da antichi circuiti neuronali situati in regioni del cervello che stanno sotto la volta
pensante neocorticale. La neo-corteccia della parte superiore del cervello è un organo che genera
complesse abilità sia cognitive che culturali, ed è molto importante per le percezioni complesse,
l'apprendimento e la cognizione. Essa è responsabile di quasi tutte le più importanti conquiste
culturali che gli esseri umani sono stati in grado di raggiungere. Uno dei maggiori risultati che
deriva dagli studi di Panksepp è stato la scoperta che le antiche regioni sottocorticali del cervello
dei mammiferi contengono almeno sette sistemi affettivi di base: Ricerca (attesa), Paura (ansia),
Collera (rabbia), Desiderio Sessuale (eccitazione sessuale), Cura (accudimento), PanicoSofferenza (tristezza), Gioco (gioia sociale). Tale scoperta può portare, secondo Panksepp, al
superamento del grande fallimento delle neuroscienze, ovvero nell'affrontare empiricamente i
processi primari dell'organizzazione emotiva; questa mancanza è stata di ostacolo ad una
coerente sintesi dei differenti approcci che compongono il corpo delle neuroscienze.
Oggi vi sono un'abbondanza di dati rivelatori del fatto che i sistemi affettivi di base dei cervelli
dei mammiferi sono antiche, universali strutture valoriali delle menti degli stessi mammiferi, che
forniscono valutazioni del mondo sotto forma di categorie delle esperienze affettive
individuali227. Molteplici flussi emotivi possono attraversare la mente pensante, andando a creare
227
L. BIVEN-J. PANKSEPP, Archeologia della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p. 10.
119
un enorme varietà di emozioni di livello superiore che sono spesso oggetto d’interesse da parte
degli psicologi. Tuttavia, secondo lo studioso, senza una visione chiara dei processi primari,
l'importante lavoro sui processi superiori rimane incompleto: è impossibile avere una teoria della
mente plausibile senza una completa e profonda comprensione dei sentimenti emotivi di base,
eredità dell'evoluzione.
Sebbene l'abilità di avere esperienza degli affetti sia cablata nel cervello alla nascita, tanto gli
esseri umani quanto gli animali hanno una reazione affettiva incondizionata o istintiva solo
rispetto a pochi stimoli specifici:
Praticamente tutti i giovani mammiferi si mettono a piangere se sono lasciati soli dalle
loro madri, ma questo tipo di reazione può metterci del tempo a maturare per molte
specie, inclusi i cani e gli esseri umani. Ci sono invece alcune tendenze affettive
intrinseche che sono specifiche di particolari specie a causa di specializzazioni
sensoriali. Ad esempio i ratti sono naturalmente spaventati dall'odore dei predatori,
come gatti e furetti. Anche se un ratto è stato cresciuto in cattività e non è mai stato
esposto ad un predatore, diventa diffidente e pauroso se del pelo di un predatore viene
messo nella gabbia228.
La domanda però sorge spontanea: perchè gli affetti animali sono così importanti per capire il
benessere degli esseri umani? Poichè la loro comprensione ci permette di conoscere i nostri
sistemi di valori di base, gli aspetti della vita che ci fanno intrinsecamente sentire bene o male.
Non è possibile, al momento, studiare tali processi a livello neuronale del cervello umano.
Il metodo adottato dalle neuroscienze affettive è di tipo triangolare, focalizzato su tre punti: la
nostra comprensione del cervello dei mammiferi, del comportamento emotivo-istintivo degli
animali e degli stati soggettivi della mente umana.
La prima componente di questo metodo di triangolazione concerne i sistemi e le funzioni
cerebrali, solo quando sappiamo come funziona il cervello possiamo raggiungere una profonda
comprensione dei processi comportamentali e mentali degli animali e degli esseri umani.
Tuttavia non essendo mia disciplina diretta di studio, tralascerò volutamente le parti dedicate
228
Ivi, p. 231.
120
all'anatomia oltre che alla biochimica, in primis per mancanza della competenza necessaria a
trattarle in modo esaustivo, in secondo luogo per una questione di spazio.
La seconda componente del metodo è un accurato studio del comportamento degli animali,
specie delle loro naturali tendenze comportamentali.
La terza componente è l'analisi psicologica, la quale include preminentemente i resoconti verbali
diretti degli esseri umani relativi alle proprie esperienze affettive 229.
L'applicazione in sede di ricerca di tale metodo ha rivelato, come già è stato accennato in
precedenza, l'esistenza di sette sistemi di base, che sono omologhi in tutte le specie di
mammiferi, e che analizzerò ora in maniera sintetica.
Per primo il sistema della Ricerca o Attesa. Tale sistema è caratterizzato da un sentimento
indagatore ed esplorativo persistente. Esso genera un avanzamento locomotorio energetico di
avvicinamento e impegno nei confronti del mondo, da parte di un animale che sonda negli angoli
e nelle fessure di luoghi, oggetti ed eventi interessanti nei modi che sono caratteristici della sua
specie. Questo sistema riveste un posto speciale tra i sistemi emotivi, poiché in qualche misura
svolge un ruolo dinamico e di supporto per tutte le altre emozioni. Quando è al servizio di
emozioni positive, il sistema della Ricerca dà origine ad un senso di conseguimento di uno
scopo, accompagnato da sentimenti d'interesse che tendono all'euforia. Il sistema della Ricerca
svolge un ruolo anche nelle emozioni negative, per esempio fornendo parte dell'impeto che
induce un animale spaventato a trovare una via di fuga.
Il secondo è il sistema della Collera. Operando in contrasto rispetto al sistema della Ricerca,
porta gli animali a spingere i loro corpi verso oggetti offendenti, in modo da mordere, graffiare e
colpire con le loro estremità. La collera è fondamentalmente un affetto negativo, ma può
diventare positivo quando interagisce con schemi cognitivi, come l'esperienza di trionfare sul
proprio avversario o l'imposizione dei propri desideri su chi si è in grado di soggiogare o
controllare.
229
Ivi, p. 26.
121
Il terzo è il sistema della Paura. Esso genera stati affettivi negativi da cui tutti gli animali e le
persone desiderano fuggire. A bassi livelli di attivazione, genera tensione corporea e
un’immobilizzazione tremante; se l'attivazione si intensifica può far scatenare un pattern di fuga
dinamico, con movimenti caotici, al fine di sfuggire al pericolo. Se, come stato ipotizzato in
precedenza, la fuga è innescata quando il sistema della Paura attiva il sistema della Ricerca,
allora le qualità dei processi primari della paura potrebbero essere studiate meglio attraverso le
risposte di 'congelamento' e le altre forme di inibizione di comportamenti e di affetto positivo
ridotto, piuttosto che attraverso la fuga.
Quarto sistema è quello del Desiderio Sessuale. Quando gli animali sono in preda a tale sistema,
esibiscono una grande quantità di attività di 'corteggiamento' e tendono alla fine a un urgente
congiungimento del loro corpo con un compagno recettivo, che tipicamente culmina nel piacere
dell'orgasmo. In assenza di un compagno, gli organismi sessualmente eccitati fanno esperienza di
una tensione assetata che può diventare positiva (probabilmente a causa della contemporanea
attivazione del sistema della Ricerca) quando la possibilità di essere soddisfatta è in arrivo. Tale
tensione può diventare un fattore di stress affettivamente negativo quando la possibilità di essere
soddisfatta non è a portata di mano. Il Desiderio Sessuale è una delle fonti dell'amore.
Il quinto è quello della Cura. Quando persone ed animali sono attivati dal sistema della Cura,
hanno l'impulso di circondare i propri cari di coccole gentili e tenera assistenza. Senza questo
sistema, prendersi cura dei piccoli sarebbe un peso. Invece, occuparsi della loro crescita può
essere gratificante, stimolata da uno stato affettivo positivo, rilassato. La Cura è un'altra delle
fonti dell'amore.
Il sesto sistema invece è quello del Panico/Sofferenza. Quando si è in balia di tale sistema, si fa
esperienza di una profonda ferita psichica, un'esperienza psicologica interna di dolore che non ha
chiare cause fisiche. Dal punto di vista comportamentale, questo sistema, specie nei giovani
mammiferi, è caratterizzato da pianto incessante ed urgenti tentativi di ricongiungersi a chi si
prende cura di loro. Se il ricongiungimento non si realizza, il piccolo o il bambino comincia a
mostrare gradualmente posture corporee di sofferenza e di disperazione che riflettono la caduta
cerebrale dal panico alla depressione persistente. Il sistema del Panico-Sofferenza aiuta a
facilitare legami sociali positivi, poiché questi ultimi alleviano il dolore psichico e lo
122
sostituiscono con un senso di conforto ed appartenenza. Per questa ragione, i bambini tengono in
grande conto ed amano gli adulti che si prendono cura di loro. Quando le persone godono di
legami affettivi sicuri, esibiscono un rilassato senso di appagamento. Fluttuazioni in questi
sentimenti costituiscono un’ulteriore fonte dell'amore.
Settimo e ultimo sistema è quello del Gioco. Esso si esprime con vivace e allegra leggerezza di
movimenti, in cui i partecipanti si pungolano e si prendono in giro a vicenda. Talvolta il gioco
somiglia alle aggressioni, specie quando prende la forma della lotta. Una più attenta ispezione
del comportamento rileva, però, che il gioco della lotta è diverso da qualsiasi altra forma di
aggressione tra adulti, per di più i partecipanti si divertono in quest'attività. Quando i bambini o
gli animali giocano, generalmente fanno a turno ad assumere ruoli dominanti o sottomessi. Il
nostro autore afferma che in esperimenti controllati, è stato notato che un animale comincia
gradualmente a vincere sull'altro, ma il gioco continua finché il perdente ha la possibilità di finire
vincendo per una certa percentuale di volte. Quando entrambi i partecipanti accettano la
situazione, continuano a divertirsi e a godere di queste attività sociali. Se il più forte vuole
vincere tutte le volte, il suo comportamento si avvicina alla prepotenza. Il sistema del Gioco è
una delle maggiori fonti dell'amicizia.
Non solo i mammiferi, ma gli studi di Panksepp hanno portato alla possibilità di affermare che
perfino alcuni invertebrati potrebbero avere simili circuiti cerebrali, infatti alcune specie, come
ad esempio il gambero d'acqua dolce, esibiscono una marcata preferenza per le sostanze
stupefacenti che rendono dipendenti gli esseri umani come la morfina e le anfetamine230. Per
quanto riguarda invece le emozioni superiori, sembra improbabile che gli altri animali
esperiscano reverenza, possano sentire il sublime e la mancanza di prove credibili ci impedisce
persino di prendere in considerazione siffatta eventualità. Sebbene molti primati esibiscano
comportamenti sociali, probabilmente essi comunque non fanno esperienza del garbo e del
perdono nello stesso modo in cui ne facciamo esperienza noi. Attualmente i sentimenti di livello
superiore sono semplicemente impossibili da studiare, per questa ragione non ci sono dati
sperimentali che mostrano che gli altri animali meditino sul significato della felicità o abbiano
230
Ivi, p. 52.
123
abbastanza autoriflessione da sentire il morso dell'imbarazzo, del senso di colpa e della
vergogna231.
Prima di passare ad illustrare ciò che a mio avviso può collegare gli studi di Panksepp e Cartesio,
è necessario affrontare nuovamente il tema del dualismo e del comportamentismo, partendo
proprio da quanto afferma Panksepp nel suo libro.
A differenza di Damasio, Panksepp riconosce la fondazione del dualismo nel pensiero Greco, e
solo successivamente una sua notorietà tramite Cartesio. Nonostante tale premessa, vi sono
diverse imprecisioni e sintetizzazioni, dovute probabilmente ad una mancanza di dimestichezza
con la materia e una necessità argomentativa. Tralasciando ciò, la parte più interessante e
sicuramente trattata in modo più esaustivo, è quella dedicata al comportamentismo, su cui mi
vorrei soffermare maggiormente.
Il comportamentismo è un movimento nato in psicologia in seguito alla fondazione del club di
medicina di Berlino. Gli illustri componenti di tale circolo decisero che era giunto il momento di
andare oltre il vitalismo ippocratico, per portare la concezione di una medicina basata sulle
evidenze, eliminando ogni traccia di ciò che non è passibile di una spiegazione riscontrabile in
modo empirico. Tale approccio in psicologia sfociò proprio nel comportamentismo. Esso eliminò
sostanzialmente il mentale dall'ambito scientifico. I comportamentisti decisero di studiare solo le
dimensioni esternamente osservabili delle funzioni cerebrali, cioè le reazioni agli stimoli in
entrata di cui i comportamenti erano le risposte in uscita. Gli strumenti più importanti dei
comportamentisti erano entità da loro chiamate stimoli incondizionati e risposte incondizionate:
cose come scosse elettriche e comportamenti di congelamento che ne seguivano, che spingevano
gli animali a manifestare rapidamente strategie apprese. In questo modo i comportamentisti
erano in grado di bypassare la scatola nera del cervello e perciò la mente. Essi bollavano in
maniera pretestuosa le inferenze relative a forze mentali di ogni tipo sulla base di comportamenti
osservabili e altri dati scientifici con la nozione discreditata di forze vitalistiche, di conseguenza
non concepivano alcun modo per studiare la reale natura della mente in maniera scientifica. Fu
così che la mente cessò di esistere almeno finché la maggior parte dei ricercatori della psicologia
231
Ivi, p. 53.
124
scientifica nel XX secolo tornò a interessarsene, in particolare nell'ambito degli studi sugli
animali232.
Ho riportato questa piccola parte dedicata al comportamentismo perché, proprio come già fatto
con Damasio in precedenza, vorrei provare a contestare la convinzione pankseppiana che
Cartesio possa essere considerato il padre o comunque il precursore dell'atteggiamento scettico
della scienza nei confronti delle attività mentali, di cui un esempio concreto è proprio il
comportamentismo.
Come già abbiamo analizzato durante il precedente capitolo dedicato alla teoria delle due res, è
assolutamente vero che il filosofo francese parte dal dubbio, che addirittura arriva ad essere
iperbolico nel momento in cui Descartes, grazie all'ipotesi del genio maligno, inizia a dubitare
perfino delle verità matematiche. Ciò che però realmente viene posto in dubbio, non sono tanto i
risultati ottenuti attraverso il nostro intelletto, ma la possibilità che le nostre facoltà siano in
errore a causa di questa entità superiore che potrebbe ingannarci ogni qualvolta «sommo due e
tre o conto i lati di un quadrato»233.
Messa in questo modo è facile cadere nell'errore di considerare Cartesio un fautore di questo tipo
di atteggiamento scettico, eppure non è assolutamente così. Il filosofo francese non è, nel modo
più assoluto uno scettico, il suo è un dubbio metodologico che serve, come è stato già analizzato
in precedenza, per andare al di là del dubbio stesso. Descartes si trova esattamente dalla parte
opposta rispetto agli scettici e basta leggere la lettera indirizzata ai dottori della Sorbona, che fa
da appendice alle Meditazioni, nella quale il filosofo illustra le motivazioni che lo hanno spinto a
scrivere la sua opera, spiegando proprio che egli vuole spingere gli «atei» a confrontarsi con
ragionamenti e dimostrazioni anziché nascondersi dietro al loro atteggiamento scettico, per
capire il suo approccio rispetto allo scetticismo 234. E' dunque possibile sostenere che il dubbio e
quindi lo scetticismo di Cartesio, siano, al pari dell'attitudine scientifica, metodologici, ovvero
232
Ivi, p. 60.
233
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 707.
234
Ivi, pp. 681-687.
125
necessari o comunque finalizzati al raggiungimento della verità, per cui non si può parlare,
quindi, di uno scetticismo fine a sé stesso, distruttivo e nichilista.
Mi piacerebbe inoltre porre l'accento su un'ulteriore questione: Panksepp sostiene, giustamente,
che a causa di un certo tipo di pensiero scientifico/psicologico che sta alla base del
comportamentismo, la «mente» e più in generale gli «atti mentali», siano diventati tabù nelle
discussioni scientifiche. L'errore sta nel ritenere Cartesio precursore di questo atteggiamento da
parte della scienza nei confronti del «mentale». Onestamente trovo incongruente porre un
pensatore che non solo esalta la mens intendendola come ciò che realmente ci identifica, nonché
la prima realtà da noi conosciuta come esseri pensanti, ma che pone proprio gli «atti mentali»,
riassunti nel cogito, come appiglio e base per uscire fuori dall'impasse venutasi a creare a causa
dell'ipotesi del genio maligno. Procedendo nella trattazione, sarà più chiaro intendere, non solo
che il filosofo francese si trovi esattamente agli antipodi rispetto al comportamentismo, ma
addirittura che sia stato uno dei primi (probabilmente il primo in assoluto) a trattare le emozioni
in modo scientifico e non come un «moralista», come egli stesso precisa nella prefazione alle
Passioni.
Dopo aver illustrato, se pur in modo breve e sintetico, la teoria pankseppiana relativa alle sette
emozioni primarie, aver trattato il comportamentismo e analizzato lo scetticismo cartesiano,
vorrei ora mostrare quelli che possono essere dei punti di collegamento tra Descartes e Panksepp.
Innanzitutto, proprio come le neuroscienze emotive, il filosofo suddivide le emozioni in passioni
primarie e secondarie. Le ragioni di tale separazione sono, naturalmente, differenti tra i due
autori: per Panksepp la questione è evolutiva e anatomica, per Cartesio, semplicemente, le
passioni secondarie sono «composte da alcune delle sei principali oppure ne sono delle
specie»235.
Come si riscontra nelle Passioni, il filosofo francese ne identifica sei che considera primitive o
comunque principali, rispetto alle altre secondarie. Qui le differenze con le neuroscienze affettive
sono innanzitutto il numero, sei contro sette, e anche le tipologie di emozioni. Cartesio indica
235
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., p. 2395.
126
come passioni principali: la Meraviglia, l'Amore, l'Odio, il Desiderio, la Gioia, la Tristezza; i
sette sistemi emotivi di base pankseppiani sono stati già analizzati in precedenza quindi reputo
superfluo ripetermi.
Entrambi, Descartes e Panksepp, tra le emozioni primarie, ne identificano una da cui le altre in
un certo senso derivano, o comunque che si trova alla loro base: la Ricerca per lo studioso
americano e la Meraviglia per il filosofo francese.
A mio avviso, le due definizioni si somigliano molto, probabilmente addirittura è possibile
considerare la Meraviglia cartesiana, una sorta di precursore del sistema della Ricerca
pankseppiana:
La Meraviglia è un’improvvisa sorpresa dell'anima, per cui essa si volge a prendere
attentamente in considerazione gli oggetti che le sembrano rari o straordinari. È
dunque causata dapprima dall'impressione del cervello che rappresenta l'oggetto come
raro e quindi degno di essere preso in considerazione molto bene236
Inoltre:
Ciò non toglie che abbia molta forza, a causa della sorpresa, ossia del prodursi
improvviso e inopinato dell'impressione che cambia il movimento degli spiriti. Tale
sorpresa è propria e specifica di questa passione, cosicché quando si trova in altre - la
si trova di consueto in quasi tutte le altre, e le accresce - vuol dire che la meraviglia è
unita ad esse237.
236
Ivi, p. 2397.
237
Ibidem.
127
Proprio come la Ricerca, la Meraviglia accompagna tutte le altre passioni, e lo fa attraverso la
sorpresa, che è propria di tutte le emozioni, sia positive che negative.
Allo stesso modo il sistema della Ricerca è in un certo senso legato alle altre sei emozioni
primarie, tanto a quelle positive quanto a quelle negative. Trovo inoltre interessante il fatto che le
due emozioni si assomiglino dal punto di vista della struttura: entrambe rappresentano la
curiosità nei confronti di qualcosa e collocano proprio tale curiosità al centro della vita
emozionale.
Eppure a mio avviso, il punto di contatto più importante tra Panksepp e Descartes lo riscontriamo
nell'approccio ad un argomento come quello delle passioni/emozioni. Entrambi gli autori hanno
affrontato dei tipi di resistenze rispetto a questa tematica: il filosofo decide di trattare le passioni
non dal punto di vista morale, bensì con un approccio più rigoroso, decisamente fuori dagli
schemi per il tempo; Panksepp, invece, si addentra in un mondo, che ancora oggi, sembra
riservato a psicologia e psicoanalisi, a tal proposito è stata osservata precedentemente la
polemica contro il comportamentismo, esempio paradigmatico delle resistenze di una grossa fetta
della comunità scientifica, rispetto ad un argomento come quello delle emozioni. Nonostante tali
difficoltà, entrambi scelgono la via della scienza, seppur con strumenti e conoscenze totalmente
diversi rispetto all'anatomia umana e alle patologie scoperte durante i secoli. La grandezza delle
Passioni come opera sta proprio in questo, ovvero nel fatto che Cartesio non si accontenta di
spiegare le emozioni esclusivamente dal punto di vista dell'anima e quindi con un linguaggio
metafisico e moralista, bensì anche ciò che succede nel corpo quando si prova una determinata
passione:
E la loro causa non si trova solo nel cervello, come per quella (la Meraviglia), ma
anche nel cuore, nella milza, nel fegato e in tutte le altre parti del corpo, in quanto
servono alla produzione del sangue e poi degli spiriti. Sebbene infatti tutte le vene
conducano il sangue che contengono verso il cuore, accade tuttavia a volte che quello
di alcune vi è spinto con più forza di quello delle altre; accade pure che le aperture da
128
cui il sangue entra nel cuore, o quelle da cui esce, siano a volte più larghe, a volte più
strette238.
Dopo questo passo, il filosofo si occupa di analizzare le passioni primarie (esclusa la Meraviglia
che aveva già trattato), per spiegare la reazione degli organi, rispetto ad ogni singola passione, il
movimento del sangue e degli spiriti animali, oltre agli effetti esteriori che esse hanno sul corpo.
Naturalmente è impossibile per ragioni di spazio e di tempo descrivere una ad una tutte le
passioni di cui parla Descartes nella sua opera, poiché bisognerebbe citare per intero la seconda e
la terza parte delle Passioni239. Porterò in ogni caso l'esempio dell'amore, come paradigma del
modo di trattare le singole passioni da parte di Cartesio.
Per prima cosa ne fornisce la definizione generale:
Ora, tutte le passioni precedenti possono essere suscitate in noi senza accorgerci in
alcun modo se l'oggetto che le causa sia buono o cattivo. Quando però una cosa ci
viene rappresentata come buona per noi, ossia come a noi consona, ciò ci fa provare
per essa dell'Amore240
Ancora: «l'Amore è un emozione dell'anima, causata dal movimento degli spiriti, che la induce a
congiungersi con la volontà agli oggetti che appaiono consoni»241.
238
Ivi, p. 2421.
239
Ivi, pp. 2385-2527.
240
Ivi, p. 2389.
241
Ivi, p. 2403.
129
Successivamente Cartesio spiega anche la differenza tra le varie tipologie di amore e la
differenza con altri sentimenti ad esso affini. Per quanto riguarda invece il movimento degli
spiriti e del sangue nell'Amore, lo troviamo all'articolo XCVII:
Ora, considerando le diverse alterazioni che l'esperienza fa vedere nel nostro corpo,
mentre la nostra anima è agitata da diverse passioni, noto nell'Amore quando è da
solo, ossia quando non è accompagnato da nessuna forte Gioia, Desiderio o Tristezza,
che il battito del polso è regolare e molto più grande e più forte che di consueto, che si
sente un dolce calore nel petto e che la digestione dei cibi si fa molto prontamente
nello stomaco, cosicché questa passione è utile per la salute242.
Inoltre, articolo CII:
Queste osservazioni, e molte altre che sarebbe troppo lungo mettere per iscritto, mi
hanno dato motivo di giudicare che, quando l'intelletto si rappresenta qualche oggetto
d'Amore, l'impressione che questo pensiero produce nel cervello conduce gli spiriti
animali, attraverso i nervi della sesta coppia, verso i muscoli che sono intorno
all'intestino e allo stomaco, nel modo richiesto per far sì che il succo dei cibi,
convertendosi in sangue nuovo, passi prontamente verso il cuore senza fermarsi nel
fegato, ed essendovi spinto con più forza di quello che è nelle altre parti del corpo, vi
entri con maggiore abbondanza e vi susciti un calore più forte, poiché è più denso di
quello che è stato già ha fatto più volte, passando e ripassando attraverso il cuore. Ciò
fa sì che invii verso il cervello anche degli spiriti le cui parti sono più grosse e più
agitate del solito: e questi spiriti, rafforzando l'impressione che vi ha prodotto Il primo
pensiero dell'oggetto amato, obbligano l'anima a soffermarsi su tale pensiero. E in
questo consiste la passione dell'Amore243.
242
Ivi, pp. 2421-2423.
243
Ivi, p. 2425.
130
All'articolo CVII Descartes spiega la causa di questi specifici movimenti nella passione
dell'Amore:
E deduco le ragioni di tutto ciò da quanto è stato detto in precedenza: tra la nostra
anima e il nostro corpo c'è un legame tale che una volta congiunta una qualche azione
corporea con un qualche pensiero, successivamente uno dei due non si presenta a noi
senza che si presenti anche l'altro. Come si vede in coloro che hanno preso con grande
avversione qualche medicina quando erano malati: non possono poi bere o mangiare
nulla di gusto simile senza provare di nuovo la stessa versione. E similmente, non
possono pensare all'avversione per le medicine, senza che quel gusto non torni loro in
mente. Mi sembra infatti che le prime passioni provate dalla nostra anima, abbiano
dovuto essere che talvolta il sangue, o un altro succo che entrava nel cuore, era un
alimento più adatto del solito per conservarvi il calore, che è il principio della vita; a
causa di ciò, l'anima si congiungeva con la volontà a questo alimento, ossia l'amava. E,
nello stesso tempo, gli spiriti scorrevano dal cervello verso i muscoli che potevano
comprimere o agitare le parti da cui questo sangue era venuto verso il cuore, per far sì
che esse gliene inviassero di più; e queste parti erano lo stomaco e l'intestino, la cui
agitazione aumenta l'appetito, o anche il fegato e polmoni, che i muscoli del
diaframma possono comprimere. Per tale motivo da allora in poi, lo stesso movimento
degli spiriti ha sempre accompagnato la passione dell'Amore244.
Infine Cartesio dedica alcuni articoli245 ai segni esteriori che le passioni, quando sono mescolate
tra loro, causano nell'uomo:
244
Ivi, p. 2429.
245
Ivi, pp. 2433-2453.
131
Quanto ho qui scritto fa intendere a sufficienza la causa delle differenze del polso e di
tutte le altre proprietà che ho attribuito in precedenza a queste passioni, senza che sia
necessario soffermarsi a spiegarle più a lungo. Poiché però ho notato in ciascuna
soltanto ciò che può venirvi osservato quando è da sola e che serve a conoscere i
movimenti del sangue degli spiriti che le producono, mi resta ancora da trattare di
parecchi segni esteriori che hanno la consuetudine di accompagnarle e che si notano
molto meglio quando parecchie sono mescolate insieme, come sono di consueto,
rispetto a quando sono separate. I segni principali sono reazioni degli occhi e del viso,
i cambiamenti di colorito, i tremori, il languore, il deliquio, il riso, le lacrime, i gemiti
e sospiri246.
Naturalmente, oltre a quelli che io ho evidenziato come punti di contatto tra due autori
appartenenti ad epoche così distanti tra loro, vi sono anche delle differenze sostanziali. A mio
parere, quella più incisiva è relativa alla visione riguardo gli animali.
Cartesio presenta all'interno del Discorso la teoria, cosiddetta, dell'animale-macchina, ossia
secondo il filosofo francese gli animali non sarebbero dotati di alcuna anima, per cui
'funzionerebbero' similmente a degli orologi ovvero solo grazie alla disposizione dei loro organi:
Ciò mostra piuttosto che non ne posseggono affatto (un'anima) e che è la natura che
agisce in loro, a seconda della disposizione dei loro organi, allo stesso modo in cui si
vede che un orologio, composto solo da ruote e molle, può contare le ore e misurare il
tempo con precisione maggiore di noi con tutta la nostra prudenza 247.
246
Ivi, p. 2433.
247
R. DESCARTES, Discorso sul metodo, in Opere, op. cit., p. 93.
132
Ricordiamo che Descartes aveva escluso totalmente la possibilità che il corpo venisse mosso da
un'anima, come è stato più volte evidenziato in questa tesi, attribuendo all'anima/mens
esclusivamente le funzioni mentali.
L'esempio stesso che il filosofo porta a supporto della teoria dell'animale-macchina, è quello del
linguaggio 248, del ragionamento, proprio per ribadire una volta in più il ruolo che l'anima ha
all'interno della sua visione filosofica. Sostanzialmente, come abbiamo visto, secondo Cartesio
gli animali hanno a loro disposizione soltanto le funzioni derivanti dal corpo e non partecipano,
quindi, del mentale, non avendo coscienza di loro stessi e non potendo compiere tutte le attività
che il filosofo ascrive all'anima. Tali conclusioni furono utilizzate come scusante per la
vivisezione animale, e causarono non poche polemiche tra lo stesso filosofo e i suoi
contemporanei; polemiche però che, per ragioni di spazio, non riporterò in questa sede, rinviando
al solito e prezioso testo di Allocca 249.
Per quanto riguarda Panksepp e le neuroscienze affettive invece, gli animali sono considerati il
nodo focale, il punto di partenza indispensabile per poter comprendere ciò che avviene
nell'uomo. Panksepp dovette affrontare non poche difficoltà per poter affermare la validità della
vita emozionale animale, in costante contrasto con la visione comportamentalista basata sulla
convinzione della validità del sistema input-output che già abbiamo avuto modo di vedere.
Il metodo di triangolazione delle neuroscienze affettive, analizzato in precedenza, si fonda
proprio innanzitutto sullo studio della vita affettiva animale, in modo tale che dall'analisi di essa
e dei suoi eventuali disturbi, sia possibile una migliore comprensione e un più facile accesso a
quella umana.
A tal proposito sembrerebbe impossibile un punto d'incontro tra le due visioni, necessariamente
disposte agli antipodi una dall'altra: da un lato Cartesio, con la sua teoria dell'animale-macchina,
incapace di ragionare, impossibilitato a poter attingere alla vita mentale poiché privo di mens;
dall'altro le neuroscienze affettive con il capostipite Panksepp, che non solo hanno dimostrato la
248
Ivi, pp. 91-93.
249
N. ALLOCCA, Il corpo della mente, op.cit., pp. 103-113.
133
possibilità da parte degli animali di provare emozioni, ma addirittura ne hanno fatto il punto di
partenza di tutto il loro lavoro.
Nonostante ciò, a mio modo di vedere, è possibile avvicinare le due tesi dopo una più attenta
analisi.
Pur collocando lo studio della vita emozionale animale alla base del suo lavoro, Panksepp
riconosce in questo una mancanza sostanziale: l'impossibilità da parte di queste creature di
parlare delle loro esperienze affettive, per cui il metodo di triangolazione si chiude con i
resoconti verbali da parte di pazienti umani, da notare qui un primo punto d'incontro: tanto per
Cartesio quanto per il neuroscienziato la prima differenza tra l'uomo e l'animale è la mancanza di
verbalizzazione. Panksepp nel suo libro descrive i processi del cervello-mente suddividendoli in
tre tipi:
1. Il fondamento istintivo, che rappresenta il processo primario. Qui troviamo gli affetti emotivi
(sistemi emozione-azione, intenzioni-in-azione); gli affetti omeostatici (intercettori corporeicerebrali, come fame e sete); e gli affetti sensoriali (sensazioni piacevoli e spiacevoli, innescate a
livello esterocettivo-sensoriale). Questi affetti sono radicati nelle antiche strutture cerebrali.
2. Processo secondario che sono l’insieme di meccanismi di apprendimento e memoria. Qui
troviamo il condizionamento classico (studiato per esempio nel sistema della paura e che
coinvolge l’amigdala basolaterale e centrale); il condizionamento strumentale e operante
(studiato, per esempio, nel sistema della Ricerca e che coinvolge il nucleo accumbens); e le
abitudini comportamentali ed evolutive (che coinvolgono soprattutto lo striato dorsale). Le
emozioni di processo secondario sono generate nei gangli della base.
3. Processo terziario, sono le funzioni di 'consapevolezza' neocorticali. Qui troviamo le funzioni
cognitive esecutive (pensieri e pianificazioni che coinvolgono la corteccia frontale);
rimuginazioni e regolazioni emotive (che coinvolgono le regioni frontali mediali); il «libero
arbitrio» (le funzioni superiori della memoria di lavoro, intenzione-ad-agire).
134
Mentre i primi due sono chiaramente comuni a tutti i mammiferi e altre specie di animali, le
funzioni di terzo tipo, ovvero quelle dei processi neocorticali di consapevolezza, sono assenti o
comunque poco sviluppate negli animali.
Tornando per un attimo a Cartesio, in questa sede è stato specificato più volte come l'anima-mens
corrisponda proprio a questi processi di terzo tipo, poiché è collocata nell'intera sfera del
mentale; non dimentichiamo che la prima verità della filosofia è il cogito, il quale non è
nient'altro che il momento di acquisizione di consapevolezza di sé stessi. Il filosofo, nella sua
cruda teoria dell'animale-macchina, non fa altro che eliminare la possibilità che gli animali
potessero avere un'anima e quindi partecipare di quei processi terziari di cui sopra, conclusione,
seppur sostenuta in termini diversi, a cui arrivano anche le neuroscienze cognitive.
Naturalmente la mia è probabilmente una forzatura interpretativa, ma vorrei comunque portare,
in conclusione di questo discorso su Panksepp e Cartesio, una scoperta scientifica effettuata di
recente, ovvero il neurone rosehip, esclusivamente umano 250. Questo particolare neurone è stato
scoperto grazie alla collaborazione tra l'università Szeged, in Ungheria, e l'Institute for Brain
Sciences di Seattle, che casualmente stavano lavorando sullo stesso tipo di ricerca. Esso non
risulta presente in nessun animale da laboratorio sino ad ora analizzato, inoltre i ricercatori
ritengono che, trovandosi in una regione molto esterna del cervello, potrebbe avere un ruolo
decisivo per spiegare la particolarità dell'intelligenza umana e il fenomeno della coscienza,
rendendo inoltre obsoleti i modelli animali per la spiegazione delle malattie neurodegenerative.
Giocando anche qui un po', si potrebbe dire che Cartesio sostenesse la mancanza proprio di un
meccanismo del genere (per ovvie ragioni egli era all'oscuro dell'esistenza dei neuroni e del
corretto funzionamento di gran parte dell'anatomia umana e in particolare quella cerebrale), negli
animali rispetto agli esseri umani. Certo lo fa in termini quasi brutali e assolutamente non
condivisibili, ma se non ci si ferma alla forma e si bada alla sostanza, si potrebbe affermare che
Cartesio e la scienza siano arrivati, in un certo senso, alla stessa conclusione, ovvero l'assenza
negli animali di qualcosa che rende gli esseri umani diversi.
250
http://www.lescienze.it/news/2018/08/30/news/neuroni_rosehip_solo_umani-4091501
135
Passerò ora al terzo autore che ho deciso di approfondire in questo mio lavoro, ovvero Gerard
Edelman e in particolare la sua opera Più grande del cielo, all'interno della quale è illustrata la
teoria della selezione dei gruppi neuronali (TSGN).
136
III.III Edelman e il fenomeno della coscienza
L'obiettivo principale che Edelman si propone nelle sue ricerche è quello di dimostrare che la
coscienza sia un fenomeno causale, con effetti ben precisi, e non un mero epifenomeno scaturito
casualmente da determinate disposizioni organiche.
Innanzitutto egli ci tiene a precisare l'assoluta dipendenza della coscienza dal cervello: «Quando
la funzione cerebrale viene ridotta da un'anestesia profonda, dopo certe forme di trauma
cerebrale, dopo un ictus e in certe fasi limitate del sonno, la coscienza è assente»251.
Edelman differenzia tra coscienza primaria e secondaria o di ordine superiore. La prima è lo stato
in cui si è mentalmente consapevoli delle cose del mondo, in cui si hanno immagini mentali nel
presente. Ne sono dotati gli esseri umani e anche animali privi di capacità semantiche o
linguistiche, ma con un'organizzazione cerebrale simile alla nostra, inoltre, la coscienza primaria
non è accompagnata dal senso di un sé definito socialmente e dal concetto di passato e di futuro.
La coscienza di ordine superiore, di contro, richiede la capacità di essere coscienti di essere
coscienti e consente ad un soggetto pensante di riconoscere le proprie azioni e i propri
sentimenti, è accompagnata, nello stato di veglia, dalla capacità di ricreare episodi passati e
formulare intenzioni future in maniera esplicita, al livello minimo, richiede capacità semantiche,
per poter attribuire significato a un simbolo, nella forma più sviluppata, presuppone capacità
linguistiche, ovvero la padronanza di un intero sistema di simboli e di una grammatica252.
Nello stato cosciente, ogni individuo fa esperienza di qualia. Tale termine indica l'esperienza
soggettiva di una certa proprietà, come per esempio l'essere verde, o caldo, o doloroso. Una
descrizione teorica che permette una comprensione diretta dei qualia come esperienze è
impossibile, questo perché essi sono sensazioni soggettive, possibili solo grazie al possedere un
determinato corpo e di conseguenza cervello.
251
G.M. EDELMAN, Più grande del cielo: lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Einaudi, Torino, 2004,
p. 5.
252
Ivi, p. 8.
137
Proprio come per Damasio prima e Panksepp poi, per le medesime ragioni, tralascerò la parte
dedicata all'anatomia. Riassumendo molto brevemente, Edelman sostiene che all'interno del
cervello siano presenti tre grandi organizzazioni topologiche:
la struttura talamocorticale, con gruppi di neuroni strettamente connessi collegati sia localmente
sia a grandi distanze da ricche connessioni reciproche.
La seconda è quella costituita dai sistemi inibitori polisinaptici dei gangli della base.
La terza è costituita dalle proiezioni ascendenti diffuse dei diversi sistemi di valore253.
In particolare questi ultimi sono il corrispettivo dei sistemi affettivi primari di cui parla
Panksepp, difatti sono definiti da Edelman come strutture legate alle ricompense e alle risposte
necessarie per la sopravvivenza, inoltre ciascuno di questi sistemi utilizza uno specifico
neurotrasmettitore254.
L'intero progetto edelmiano si basa sui concetti darwiniani di evoluzione e selezione, a governare
il funzionamento del cervello è, infatti, un unico e semplice principio: ovvero che esso si è
evoluto. In particolare il pensiero popolazionistico applicato al cervello è alla base della
formazione della teoria della selezione dei gruppi neuronali. Tale pensiero consiste nell'idea che:
per effetto della selezione tra i diversi individui varianti di una popolazione, che competono fra
loro per sopravvivere, emergono strutture funzionanti e interi organismi 255.
Il motivo per cui il pensiero popolazionistico è importante per determinare come funziona il
cervello è legato alla straordinaria entità della variazione in ogni singolo. Individui diversi hanno
influenze genetiche diverse, sequenze epigenetiche diverse, risposte corporee diverse e storie
diverse in ambienti mutevoli. Il risultato è un'enorme variazione al livello della chimica
neuronale, della struttura della rete, della forza delle sinapsi, delle proprietà temporali, delle
memorie e degli schemi motivazionali governati dai sistemi di valore. Da ultimo, il flusso di
253
Ivi, p. 22.
254
Ivi, p. 21.
255
Ibidem.
138
coscienza di una persona differisce in maniera evidente per il contenuto e lo stile da quello di
ogni altra256.
Tale concezione naturalmente è in netto contrasto con i modelli computerizzati del cervello
precedentemente analizzati.
In risposta proprio alle teorie del cervello-computer e del mondo come «spezzone di nastro»
Edelman sviluppa la TSGN, ovvero la teoria della selezione dei gruppi neuronali. Essa si fonda
su tre principi:
1. La selezione nello sviluppo. Nelle prime fasi di formazione della neuroanatomia, le variazioni
epigenetiche degli schemi di connessione tra i neuroni in crescita creano in ogni area del cervello
repertori che consistono di milioni di circuiti o gruppi neuronali varianti. Le variazioni si
presentano al livello delle sinapsi in conseguenza del fatto che i neuroni che scaricano insieme si
cablano insieme durante gli stadi embrionali e fetali dello sviluppo.
2. La selezione esperienziale. Quando è ancora in corso la prima fase di selezione e dopo la
formazione delle più importanti strutture neuroanatomiche, la forza delle sinapsi subisce grandi
variazioni nei segnali provenienti dall'ambiente con cui l'individuo interagisce. Queste modifiche
sinaptiche sono soggette ai vincoli dei sistemi di valore descritti precedentemente.
3. Il rientro. Nel corso dello sviluppo si formano grandi quantità di connessioni reciproche,
localmente e su grandi distanze. Questo offre una base per la segnalazione tra le mappe cerebrali
lungo tali fibre reciproche. Il rientro è, in ogni momento, lo scambio ricorsivo in atto di segnali
in parallelo tra aree cerebrali reciprocamente connesse, che coordina incessantemente nello
spazio e nel tempo le attività delle loro mappe. Il rientro non è una trasmissione sequenziale di
un segnale di errore in un anello semplice, ma coinvolge simultaneamente molte vie reciproche
in parallelo e non è associato a una funzione di errore prestabilita 257.
256
Ivi, p. 28.
257
Ivi, pp. 33-34.
139
L'insieme di questi tre concetti, fa della TSGN un sistema selettivo. Tali tipi di sistema si basano
su tre principi guida: il primo principio presuppone la presenza di un meccanismo che sia in
grado di generare diversità in una popolazione di elementi, che si tratti di individui o di cellule; il
secondo, di un meccanismo che consente svariati e ripetuti incontri tra gli individui di una
popolazione di varianti, il repertorio, e il sistema da riconoscere, che si tratti di un ambiente
ecologico, di una molecola estranea all'organismo o di un insieme di segnali sensoriali; il terzo
principio, infine, presuppone l'esistenza di un meccanismo per amplificare differenzialmente il
numero, la sopravvivenza o l'influenza di quegli elementi del repertorio variato che in quel
momento soddisfano i criteri selettivi258.
Uno dei motivi per cui il cervello risponde agli stimoli in modi così diversi è la degenerazione.
Essa è la capacità posseduta da elementi strutturalmente diversi di un sistema di svolgere la
stessa funzione o di produrre lo stesso risultato. Tale proprietà biologica è onnipresente. Essa è
indispensabile affinché la selezione naturale possa operare, ed è una caratteristica fondamentale,
ad esempio, nel sistema immunitario. La degenerazione è anche la risposta al problema del
collegamento: infatti gruppi neuronali differenti, possono comunque generare risposte simili259.
Questa interpretazione risolve definitivamente la questione dell'homunculus che dovrebbe
occuparsi di creare una visione unitaria, collegando le varie mappe cerebrali, oppure ancora la
teoria del funzionamento del cervello simile a quello di un computer, dove una cellula, proprio
come fa la scheda madre in un PC, possa avere una funzione categoriale designata che domina la
funzione di tutti i neuroni subordinati a cui sarebbe connessa. Nella TSGN, una cellula simile
non è necessaria: cellule diverse possono svolgere compiti diversi in gruppi neuronali diversi, in
momenti diversi260. È interessante notare come, in un certo senso, il concetto di degenerazione sia
presente anche in Cartesio, come è stato mostrato in precedenza parlando a proposito della teoria
computazionale della mente. Proprio come la degenerazione permette risposte diverse a gruppi
neuronali e viceversa, allo stesso modo in Cartesio le passioni, seppur identiche, possono
generare reazioni diverse in quanto «cervelli non sono tutti disposti nello stesso modo».
258
Ivi, pp. 34-35.
259
Ivi, p. 37.
260
Ivi, p. 38.
140
Passerò ora ad illustrare quelli che io ritengo dei possibili punti di contatto tra Edelman e
Descartes.
In precedenza, durante la trattazione della teoria edelmiana denominata TSGN, ho volutamente
lasciato in sospeso un'importante questione, ovvero quella dei cosiddetti qualia.
I qualia o qualità, sono una delle problematiche più antiche affrontate dalla filosofia.
Secondo Aristotele, le qualità sono oggettive, ovvero esse appartengono ai singoli oggetti e
vengono percepite dal soggetto.
Tale questione è tutt'ora materia di discussione tra i pensatori e gli scienziati contemporanei, tra
cui lo stesso Edelman, tanto da farne i protagonisti del sesto capitolo di Più grande del cielo.
Il termine «qualia» è stato applicato all'esperienza della sensazione del colore, del calore, del
dolore ecc. L'intera esperienza cosciente è fatta di sensazioni, che pur inserendosi nel fenomeno
unitario della coscienza, possono essere scisse e distinte l'una dall'altra dal soggetto in questione.
La problematica dei qualia, seguendo Edelman, solleva a sua volta, una serie di problemi minori,
riassumibili in due principali:
1. Il primo è legato al concetto che l'attività neurale, così come la misura e la comprende un
osservatore scientifico, non ha nessuna delle proprietà che attribuiamo ai qualia. L'origine
strutturale dinamica delle proprietà, anche di quelle della coscienza, non somiglia
necessariamente alle proprietà cui dà origine, così come un'esplosione non somiglia all'esplosivo,
la percezione dei qualia è un processo, non un oggetto.
2. Un secondo problema riguarda la soggettività e la prospettiva in prima persona. La coscienza è
un processo legato al corpo e al cervello di un individuo e alla loro storia. Dal punto di vista
dell'osservazione, l'esperienza in prima persona non è «stampata in valuta convertibile e
interamente pagabile a una terza persona», l'osservatore scientifico. Però presumere che le
esperienze in prima persona degli individui di una data specie abbiano qualcosa in comune è un
punto di partenza ragionevole. Non stupisce, quindi, che come essere umano, pur potendo
141
quantomeno supporre che cosa si prova a essere un'altra persona, io non possa essere altrettanto
sicuro quando cerco di immaginare che cosa si prova ad essere un animale 261.
All'interno della TSGN, Edelman definisce i qualia come «discriminazioni di ordine elevato in
un dominio complesso»262. La scena cosciente viene percepita unitaria e questo suggerisce di
considerare che tutte le esperienze coscienti sono qualia. Da ciò segue che seppur il soggetto
cosciente sia in grado di concepire ed esprimere a parole sensazioni diverse tra loro, non può
comprendere le discriminazioni profonde che entrano in gioco.
La ricchezza degli stati di coscienza differenziabili e la natura unitaria del fenomeno cosciente,
sembrerebbero a prima vista incompatibili. Tuttavia, questo è possibile grazie al fatto che il
sistema nervoso funziona come un sistema complesso, ovvero che ciascuna sua parte può essere
funzionalmente separata.
Molto sinteticamente, se all'interno di un sistema complesso si considerano componenti sempre
più piccoli, questi manifestano una maggiore indipendenza263.
Nelle reti cerebrali avviene proprio questo, le parti dedicate alle varie funzioni: movimento,
vista, orientamento, colore ecc., mostrano grande autonomia e indipendenza, per poi risultare
collegate mediante il rientro.
Tutto questo è possibile grazie al nucleo dinamico, ovvero quell'insieme di collegamenti
polisinaptici presente all'interno del sistema talamocorticale, che mette in relazione la memoria
valore-categoria con la categorizzazione percettiva. Tale relazione, assieme ai cambiamenti di
stato del nucleo dinamico dovuto alle continue risposte interne agli stimoli esterni, porta alle
differenziazioni, conosciute come qualia e di conseguenza al fenomeno unitario della coscienza.
Come è stato anticipato nel primo capitolo, contrariamente ad Aristotele, anche Cartesio è
convinto che le qualità appartengano al pensiero e che solo alcune di esse, siano proprie degli
oggetti, infatti: «quelle che chiamiamo sensazioni dei sapori, degli odori, dei suoni, del calore,
261
Ivi, p. 53.
262
Ivi, p. 54.
263
Ivi, p. 57.
142
del freddo, della luce, dei colori e altre consimili, non rappresentano nulla che sia posto al di
fuori del pensiero»264.
Pertanto il filosofo francese considera i qualia come un processo del pensiero, come un'idea della
mente, derivante dalle sensazioni di vantaggio o svantaggio del corpo:
Nella prima fase della nostra vita, infatti, la nostra mente era legata così strettamente
al corpo da non potersi dedicare ad altri pensieri, se non a quelli per cui sentiva ciò che
colpiva il corpo; [...] semplicemente, quando al corpo si presentava qualcosa di
svantaggioso, sentiva dolore; e quando qualcosa di vantaggioso, sentiva piacere265
Ancora troviamo una simile disamina nella Meditatio sesta:
[...] sebbene accostandomi al fuoco io senta caldo, ed anche dolore se mi accosto
troppo, non c'è assolutamente alcuna ragione che mi persuada del fatto che nel fuoco
ci sia qualcosa di simile a questo caldo, e neanche a questo dolore, ma semplicemente,
del fatto che in esso ci sia qualcosa che produce in noi queste sensazioni di caldo o di
dolore; [...] vedo però che in ciò, ed in molto altro, sono abituato a pervertire l'ordine
della natura, e questo perché uso le percezioni dei sensi, che propriamente sono state
date dalla natura soltanto per dire alla mente cosa sia vantaggioso o svantaggioso, e fin
qui sono abbastanza chiare e distinte, come regole certe per discriminare
immediatamente quale sia l'essenza dei corpi che si trovano fuori di noi 266
Il fatto che tali «discriminazioni» non siano innate, mentre innata è la possibilità di effettuarle in
quanto strumento datoci dalla natura, ma che derivino dallo strettissimo legame mente-corpo, le
rende un processo della mente, alla stregua di ciò che sostiene Edelman.
264
R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Opere, op. cit., pp. 1763-1765.
265
Ivi, p. 1763.
266
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 791.
143
Come è stato brevemente analizzato sopra, parlando dei qualia, la coscienza come fenomeno
unitario è possibile grazie alle interazioni tra i numerosi sistemi di valore-categoria, i sistemi
posteriori che effettuano la categorizzazione percettiva e al lavoro del nucleo dinamico e i suoi
stati complessi e mutevoli.
La domanda alla quale Edelman non ha ancora risposto è però la seguente: la coscienza è essa
stessa causale?
Ovvero, la trasformazione degli stati fisici e delle reazioni chimiche nel fenomeno unitario della
coscienza, è a sua volta causa?
La risposta fornita dal nostro autore è molto interessante e merita di essere seguita nei suoi
passaggi fondamentali.
Innanzitutto egli distingue in C la trasformazione fenomenica e i suoi processi e C' che sono i
processi neurali del nucleo 267. È necessario inoltre specificare che C non è un oggetto, bensì un
processo, che riflette discriminazioni di ordine elevato e che non può verificarsi in mancanza di
C'. Ma date le leggi della fisica, C stesso non può essere a sua volta causale; questo rapporto
riflette una relazione e non può esercitare in alcun modo una forza né direttamente né mediante
proprietà di campo 268.
Sostanzialmente, anche se C accompagna C', è quest'ultimo che è causa di altri eventi neurali e di
certe azioni del corpo. La coscienza C è una proprietà di C' e, come tale, è un riflesso della
capacità di effettuare discriminazioni sottili in uno spazio multidimensionale dei qualia269.
Messa in questo modo sembrerebbe che gli stati coscienti C, siano un mero epifenomeno, ovvero
un risultato del tutto casuale dei fenomeni neurali C', eppure così non è. Lo studioso fornisce una
spiegazione di stampo evoluzionistico, sostenendo che la capacità di effettuare discriminazioni
complesse e quindi la comparsa della coscienza di grado superiore e con essa delle forme
linguistico-sintattiche, abbia avuto un vantaggio selettivo:
267
G. M. EDELMAN, op. cit., p. 66.
268
Ibidem.
269
Ivi, p. 67.
144
«È molto probabile che, in specie animali in cui la ricca comunicazione di stati emotivi aveva
procurato un accrescimento delle fitness, sia vantaggioso collegare la capacità di effettuare
distinzioni sottili (C') alla possibilità di comunicare tali distinzioni (C)»270.
Prendendo spunto dalla spiegazione edelmiana della causalità del fenomeno cosciente, vorrei
tentare di fornire un'ulteriore interpretazione di uno dei problemi più noti della teoria cartesiana
delle due res, ovvero l'influenza diretta della res cogitans sulla res extensa.
Come è stato più volte preso in esame durante questo lavoro di tesi, una delle obiezioni sulle
quali maggiormente i commentatori e gli oppositori di Cartesio hanno calcato la mano negli anni,
è la difficoltà di comprendere come sia possibile un'interazione diretta tra la res cogitans, la
quale per definizione dello stesso filosofo è immateriale e quindi fuori dallo spazio, e la res
extensa il cui attributo caratteristico è invece proprio quello della materialità.
Partendo da un'interpretazione sicuramente un po' azzardata delle conclusioni di Edelman, a mio
avviso è possibile rispondere al problema dell'interazione diretta, sostenendo che non è
necessaria alcun'azione reciproca diretta, in quanto non c'è un rapporto di causalità tra il
fenomeno cosciente C, res cogitans in questo caso e i processi neurali C' res extensa.
Prendendo in prestito le parole di Edelman, la res cogitans non può essere considerata un
oggetto, bensì un processo, proprio come C nella teoria della TSGN, pertanto, c'è stato un errore
categoriale e interpretativo, ritenendo necessario collocare la mens nello spazio, mens intesa non
come cervello-mente, ma come coscienza e le sue attività, col fine di garantire la possibilità di
comprendere una relazione diretta tra essa e il corpo.
Eliminando la causalità e definendo la consapevolezza di essere coscienti non più come oggetto,
bensì come processo, viene a cadere la stessa necessità di relazione diretta tra res cogitans e res
extensa, rendendo inutile anche l'artificio della ghiandola pineale: c'è da notare infatti che lo
stesso Cartesio non aveva sentito, nell'esposizione iniziale della teoria delle due res, il bisogno di
collocare l'anima nello spazio, necessità nata successivamente in seguito alle perplessità dei suoi
oppositori e corrispondenti, in quanto impossibilitati a comprendere la natura del rapporto
mente-corpo e in particolare dell'azione della «sostanza pensante» sulla «sostanza estesa».
270
Ivi, p. 69.
145
Conclusioni
In conclusione di questo lavoro, vorrei analizzare se gli obbiettivi fissati inizialmente sono stati
raggiunti.
A tal proposito è necessario riprendere le critiche di Ryle e verificare se durante lo svolgimento
della tesi, è riuscito di fornire delle confutazioni soddisfacenti alla sua interpretazione della
filosofia cartesiana.
Le problematiche avanzate dal filosofo inglese sono essenzialmente tre: l'impossibilità del
rapporto tra mondo fisico e realtà psichica e quindi tra la res cogitans inestesa e la res extensa
caratterizzata dall'estensione; la questione del libero arbitrio e della responsabilità; e infine la
problematica del cosiddetto «spettro nello macchina».
La prima delle criticità evidenziate da Ryle nella sua analisi della teoria delle due res, da lui
definita «dottrina ufficiale», è una delle problematiche avanzate, come abbiamo visto nel
secondo capitolo, sin dalla prima pubblicazione delle Meditazioni: in che modo qualcosa che non
si trova nello spazio può interagire con il corpo, esteso e geometricamente definito?
Cartesio risponde a questo tipo di questione in due circostanze, ossia nelle Risposte e nel
carteggio con la principessa Elizabeth, luoghi dell'opera cartesiana che già abbiamo visto, ma che
saranno richiamati ora a verifica della validità del lavoro svolto.
Il primo a sottoporre la questione dell'impossibilità logica di una «commistione» tra la mens
incorporea, inestesa e che non occupa alcuno spazio, con il corpo che invece rappresenta il suo
esatto contrario ontologico fu Pierre Gassendi, con il quale Descartes, come è già stato
evidenziato in precedenza, ebbe uno scambio di vedute molto duro dal punto di vista
intellettuale. A tal proposito si è già fatto notare come i due oppositori si apostrofassero con
epiteti riferiti alla loro posizione teoretica: Gassendi si riferiva sarcasticamente a Cartesio
chiamandolo «Mente», per tutta risposta il filosofo definiva il suo interlocutore «Carne». Oltre a
146
queste scaramucce verbali tra i due contendenti, è stato fatto notare anche che Descartes decide
di non fornire una risposta completa e decisa al suo oppositore probabilmente proprio a causa del
tono particolarmente acceso assunto dalla discussione; nonostante ciò, una possibile replica a tale
questione era già stata inserita all'interno delle Meditazioni, anche questa già analizzata nel
secondo capitolo e che ora richiameremo per fornire una prima ipotesi di soluzione al problema
posto da Ryle:
La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete
ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma
sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con
esso un qualcosa d'uno. Diversamente, infatti, io, che non sono null'altro che una cosa
pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirai questa
ferita col puro intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe
nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei in modo
espresso, e non avrei confuse sensazione di fame e sete. Certamente, infatti, queste
sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del
pensiero originati dall'unione, quasi una commistione della mente col corpo 271.
Abbiamo già analizzato la forza del linguaggio cartesiano utilizzato in questo frangente e non mi
ripeterò.
Voglio solo insistere sul concetto di sensazione, elemento chiave per chiarire l'unione mentecorpo.
Cartesio ci tiene a sottolineare che proprio grazie alla realtà quotidiana della sensazione, la quale
non è percepita solo col «puro intelletto» come un «pilota percepisce con la vista se qualcosa si
rompe nella nave», è possibile possedere la certezza di questa commistione della mente col
corpo.
271
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 789.
147
Questo tipo di argomentazione la ritroviamo espressa in modo più pacato, ma sicuramente con
altrettanta convinzione, nel carteggio tra il filosofo e la principessa Elizabeth. Durante questo
scambio epistolare Descartes fornisce due risposte complementari alla problematica del rapporto
dell'unione mente-corpo; la prima è la teoria delle cosiddette «nozioni primitive»:
In primo luogo considero che vi sono in noi alcune nozioni primitive, che sono come
gli originali sul cui modello forniamo tutte le nostre altre conoscenze. Tali nozioni
sono assai poche; infatti, dopo le più generali - essere, numero, durata, ecc-, che
convengono a tutto quello che possiamo concepire, non abbiamo, per il corpo in
particolare, che la nozione di estensione, dalla quale seguono quelle di figura e
movimento; e, per la sola anima, non abbiamo che la nozione di pensiero, nella quale
sono comprese le percezioni dell'intelletto e le inclinazioni della volontà; infine, per
l'anima e il corpo insieme, non abbiamo che la nozione della loro unione, dalla quale
dipende quella della forza che l'anima ha di muovere il corpo, e il corpo di agire
sull'anima, causandone sentimenti e passioni272.
La seconda risposta che Cartesio fornisce alle sue illustre corrispondente, è simile a quella che
ritroviamo all'interno delle Meditazioni citata in precedenza contro Gassendi, ovvero di una
commistione intesa tramite la realtà fattuale:
Dal che deriva che coloro ai quali non filosofano mai, e si servono soltanto dei loro
sensi, non dubitano affatto che l'anima possa muovere il corpo e che il corpo agisca
sull'anima; ma considerano l'una e l'altra come una sola cosa, cioè concepiscono la
loro unione: concepire l'unione che c'è tra due cose significa infatti concepirle come
una sola. I pensieri metafisici, che esercitano l'intelletto puro, servono a renderci
272
R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., p. 1749.
148
familiare la nozione di anima; lo studio delle matematiche, che esercita principalmente
l'immaginazione a considerare figure e movimenti, ci abitua a formare nozioni del
corpo ben distinte. Infine, è solo vivendo e conversando di cose ordinarie, e
astenendoci dal meditare e dall'applicarci alle cose che esercitano l'immaginazione,
che si impara a concepire l'unione dell'anima e del corpo273.
Il problema starebbe pertanto nella concezione di voler cogliere l'unione di sostanze antinomiche
come lo sono la res cogitans e la res extensa mediante il puro intelletto, mentre invece se si
presta più attenzione alla sensazione e all'esperienza quotidiana, ci si rende conto del fatto che
tale unione è un'idea "vissuta" e non "pensata".
Cartesio per meglio spiegare questo concetto alla principessa, le concede perfino di attribuire una
«corporeità» alla mente, se ciò le rende più semplice e intuitivo districarsi nel problema:
Tuttavia, poiché Vostra Altezza sottolinea che è più facile attribuire materia ed
estensione all'anima, che attribuirle la capacità di muovere un corpo e di esserne
mossa senza avere materia, la supplico di voler liberamente attribuire tale materia ed
estensione all'anima, perché questo non è altro che concepirla unita al corpo. E dopo
aver ben concepito ciò, e averlo sperimentato in sé stessa, le sarà facile considerare
che la materia che avrà attribuito a questo pensiero non è il pensiero stesso, e che
l'estensione di questa materia è di natura diversa dall' estensione di questo pensiero per
il fatto che la prima è determinata secondo un certo luogo, dal quale essa esclude ogni
altra estensione corporea, cosa che invece non fa la seconda. In tal modo Vostra
Altezza non mancherà di pervenire facilmente alla conoscenza della distinzione
dell'anima e del corpo, nonostante abbia concepito la loro unione274.
273
Ivi, p. 1781.
274
Ivi, p. 1783.
149
Un ulteriore argomento in risposta alla questione sollevata da Ryle è quello della ghiandola
pineale.
Essa fa la sua apparizione all'interno delle Passioni dell'anima, proprio per spiegare l'interazione
mente-corpo e in particolare essa è ritenuta dal filosofo francese la sede stessa dell'anima:
È anche necessario sapere che, benché l'anima sia unita a tutto il corpo, c'è nondimeno
in esso una qualche parte nella quale esercita le sue funzioni più particolarmente che
in tutte le altre. E si crede in genere che questa parte sia il cervello, o forse il cuore: il
cervello in quanto e ad esso che si riferiscono gli organi di senso, e il cuore in quanto è
come se in esso si sentissero le passioni. Ma esaminando accuratamente la cosa, mi
sembra di aver riconosciuto con evidenza che la parte del corpo nella quale l'anima
esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e neppure l'intero
cervello, ma solamente la sua parte più interna, che è una certa ghiandola assai
piccola, situata nel mezzo della sostanza cerebrale e sospesa al di sopra del condotto
attraverso il quale gli spiriti delle cavità anteriori entrano in comunicazione con quelli
della cavità posteriore, in modo tale che i più piccoli movimenti che avvengono in essa
possono cambiare molto il corso di questi spiriti, e reciprocamente i più piccoli
cambiamenti che accadono nel corso degli spiriti possono fare molto per cambiare i
movimenti di tale ghiandola275.
Tramite questa ghiandola, come già è stato evidenziato alla fine del secondo capitolo, l'anima e il
corpo, sostanza inestesa e sostanza estesa, trovano la maniera di interagire superando
l'incompatibilità logica:
La ragione che mi persuade che l'anima non può avere in tutto il corpo altro luogo al di
fuori di questa ghiandola dove esercitare immediatamente le sue funzioni consiste nel
275
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., pp. 2361-2363.
150
fatto che considero che le altre parti del nostro cervello sono tutte doppie, così come
abbiamo due occhi, due mani, due orecchie e, infine, tutti gli organi dei nostri sensi
esteriori sono doppi; inoltre, poiché non abbiamo che un solo e semplice pensiero di
una stessa cosa nello stesso tempo, bisogna necessariamente che vi sia un luogo dove
le due immagini che vengono dai due occhi, oppure le due altre impressioni che
vengono da un solo oggetto attraverso i doppi organi degli altri sensi, si possano
comporre in una sola prima di arrivare all'anima, in modo che ad essa non vengano
rappresentati due oggetti invece di uno. E si può facilmente concepire queste immagini
o altre impressioni si riuniscano in tale ghiandola per il tramite degli spiriti che
riempiono le cavità del cervello; non c'è però alcuna altra parte nel corpo dove esse
possano essere così unite se non lo sono già state in questa ghiandola276.
Ricapitolando, percorrendo l'iter del pensiero cartesiano abbiamo trovato ben quattro argomenti
che lo stesso filosofo ha elaborato in risposta al genere di obiezione sollevata da Ryle:
1. L'argomento della percezione sensibile presente nella VI Meditazione
2. La teoria delle tre nozioni primitive
3. L'unità come concetto sentito e vissuto anziché pensato
4. La ghiandola pineale
È interessante notare come Cartesio, cosciente di aver creato una contraddizione in termini
logici, non si serva mai di strumenti metafisico-scolastici o acrobazie logiche per poter venire a
capo del problema, al contrario, egli più si addentra nella questione e più il suo sguardo è rivolto
a soluzioni lontane dalla filosofia e dalla metafisica del tempo.
276
Ivi, p. 2363.
151
Vorrei riportare infine un quinto possibile ragionamento in risposta al primo problema di Ryle
sull'interazione di res cogitans e res extensa, ossia l'argomento riguardante il concetto di
causalità fenomenica della coscienza di Edelman analizzato sul finire del capitolo precedente.
Tale interpretazione si basa sulla non necessità di interazione diretta tra le due res, proprio come i
fenomeni chimici che si trovano a fondamento della coscienza (C') e il fenomeno cosciente (C)
nella TSGN. All'interno del sistema di spiegazioni fornito da Edelman non c'è necessità che la
coscienza (C) sia a sua volta causa, in quanto essa è identificata come processo e non come
oggetto; allo stesso modo è possibile interpretare il rapporto mente-corpo nell'impianto
cartesiano: in questo caso la coscienza sarà rappresentata, come più volte è stato fatto notare
durante lo svolgimento di questa tesi, dalla res cogitans, interpretando la mens come processo e
non come oggetto esattamente allo stesso modo di Edelman, è possibile eliminare la
problematica dell'interazione tra le due sostanze.
Il secondo problema sollevato da Gilbert Ryle nel suo libro riguarda la difficoltà di riuscire a
conciliare concetti come libertà, responsabilità, merito e demerito, in una teoria dualista, come
quella di Cartesio. Tale questione non è stata oggetto di trattazione in questa tesi, è stata toccata
solo di sfuggita all'inizio del secondo capitolo poiché non centrale nell'ottica dell'inquadramento
della tematica del rapporto mente-corpo, ciononostante vorrei tentare di rispondere, seppur
brevemente.
Cartesio espone l'argomento del libero arbitrio all'interno delle Meditationes, precisamente nella
quarta, intitolata: De vero et falso.
Il filosofo qui ha da poco dimostrato, in modo razionale, l'esistenza di Dio, definendolo come
l'ente perfetto e massimamente buono. A questo punto si pone un problema apparentemente
insormontabile: com’è possibile che Dio mi conduca all'errore se egli è l'ente perfetto e
massimamente buono?
Cartesio argomenta che ognuno di noi sperimenta di possedere una «facoltà di giudicare», e
poiché tale facoltà noi l'abbiamo ricevuta da Dio essa non può essere fallace in sé: ma allora
com'è possibile che tramite essa noi possiamo errare?
152
Proprio in questo consiste il libero arbitrio. Noi, in quanto soggetti finiti in possesso di una
volontà e di una facoltà di giudicare, possiamo cadere in fallo proprio a causa di un cattivo uso
delle nostre facoltà.
L'errore è individuato da Cartesio dall'esprimere un giudizio, tanto positivo quanto negativo, su
qualcosa che non ci appare «chiaramente e distintamente». L'errore in quanto tale rappresenta la
dimostrazione di due concetti fondamentali, da un lato l'infinità della volontà rispetto al nostro
potere conoscitivo e dall'altro la libertà di poter impiegare le facoltà di cui Dio ci ha fornito in
modo libero e senza alcuna limitazione.
Per fare maggiore chiarezza riprendiamo direttamente il testo delle Meditazioni, scrive infatti
Cartesio nella Meditatio quarta a proposito della possibilità di errare:
Poi, volgendomi a me medesimo, ed indagando quali siano i miei errori (che, da soli,
denunciano qualche imperfezione in me), mi accorgo che essi dipendono dal concorso
di due cause: dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, ossia
dalla libertà dell'arbitrio; vale a dire, dall'intelletto e dalla volontà insieme. Infatti,
attraverso il solo intelletto percepisco soltanto idee su cui posso giudicare; ed in esso,
considerato così precisamente, non si trova alcun errore propriamente detto; infatti,
sebbene esistano forse innumerevoli cose di cui in me non c'è idea alcuna, tuttavia non
si deve propriamente dire che di queste idee io sia privato, ma solo sprovvisto,
negativamente277.
Come già anticipato il filosofo identifica la possibilità di errare con la realtà di poter volgere il
nostro giudizio in ogni direzione. Egli non sostiene che la facoltà di giudicare sia fallace in sé,
altrimenti, se così fosse, non sarebbe possibile neanche la verità.
Descartes è più specifico in un altro punto sempre della quarta Meditazione:
277
R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, op. cit., p. 755.
153
Donde nascono dunque i miei errori? Da questo soltanto, che, in quanto la volontà è
più vasta dell'intelletto, non la trattengo all'interno degli stessi confini, ma la estendo
anche a ciò che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente, devia
facilmente dal vero e dal buono, ed è così che io sbaglio e pecco278.
In questo modo Cartesio vuole dimostrare l'esistenza concreta del libero arbitrio deducendola a
partire dalla constatazione di una realtà apparentemente negativa come l'errore, in un modo
analogo a quella che era stata la dimostrazione del cogito.
La libertà però nell'opera filosofica cartesiana si estrinseca in almeno un altro modo che abbiamo
già incontrato nei capitoli precedenti, nello specifico quando si è tentato di dimostrare
l'impossibilità di ricondurre il filosofo francese al filone di sostenitori di una teoria
computazionale della mente e che ora richiameremo in questa sede come conclusione della
risposta alla seconda questione di Ryle.
In particolare mi riferisco a quella parte delle Passioni dell'anima in cui Descartes sostiene la
possibilità da parte del soggetto, mediante esercizi di riflessione e meditativi, di poter arrivare ad
avere un controllo sulle passioni:
Ora, queste cose sono utili a sapersi, per dare a ciascuno il coraggio di studiare come
controllare le proprie passioni. Infatti dal momento che, con un po' d'esercizio, si
possono cambiare i movimenti del cervello negli animali sprovvisti di ragione, è
evidente che lo si può fare ancor meglio negli uomini, e che anche coloro le cui anime
sono più deboli potranno acquistare un comando assoluto su tutte le loro passioni, se
mettessero sufficiente impegno a indirizzarle e a guidarle279.
278
Ivi, p. 757.
279
R. DESCARTES, Passioni dell'anima, in Opere, op. cit., pp. 2381-2383.
154
Oltre al dominio sulle passioni inteso come limitazione del peso specifico che esse possono avere
sugli spiriti più deboli, che è un po' il leitmotiv stoico dell'opera di Cartesio, vi è un'ulteriore idea
di libertà presentata in questo libro, ovverosia la possibilità di agire in opposizione ai moti
dell'animo:
Tuttavia, si può anche concepire un qualche combattimento per il fatto che spesso la
stessa causa che suscita nell'anima qualche passione, suscita anche nel corpo certi
movimenti, ai quali l'anima non contribuisce affatto, e che anzi arresta o cerca di
arrestare non appena se ne rende conto: è quello che si prova quando ciò che suscita la
paura fa sì che gli spiriti entrino nei muscoli che servono a muovere le gambe per
fuggire, e che la volontà che si ha di essere audaci li arresti280.
Se non fosse possibile reagire in modo contrario ai moti dell'animo, allo stesso tempo non
sarebbe possibile pensare la libertà, né tantomeno "viverla" direttamente.
Con tali chiarimenti del libero arbitrio e della capacità da parte dell'individuo di opporsi
all'eventualità di un'esistenza vissuta alla mercé della vita emotiva, penso si possa escludere
l'interpretazione di Ryle riguardo la difficoltà di integrare concetti come quelli di responsabilità,
merito e simili, all'interno dell'impianto filosofico cartesiano.
Rimane in ultima istanza la questione dello «spettro nella macchina». A tal proposito l'intero
lavoro di tesi potrebbe essere portato in risposta a questa idea ryleanea della dottrina delle due
res di Cartesio. Sarebbe superfluo qui ripetere nuovamente quanto già è stato elaborato fino a
280
Ivi, pp. 2375-2377.
155
questo punto della trattazione, per cui mi limiterò ad un veloce riepilogo dei risultati raggiunti,
con l'aggiunta di alcune considerazioni personali.
Innanzitutto nel primo capitolo si è tentato di rilevare come l'educazione scolastica di Cartesio e
il suo rapporto con le maggiori autorità in campo intellettuale del suo tempo abbiano influenzato,
non solo le dottrine pubbliche del filosofo, ma soprattutto ciò che pubblico è stato solo dopo la
sua morte. A tal proposito la storia editoriale del trattato sul Mondo è un esempio paradigmatico.
Da questo primo capitolo si è evidenziato come l'ambiente nel quale Cartesio ha studiato e
vissuto abbia avuto un effetto determinante sulle sue dottrine filosofiche.
Il secondo capitolo è stato incentrato sulla teoria cartesiana delle due res, in primo luogo la
distinzione mente-corpo, successivamente la loro unione e i caratteri specifici che tale unione
possiede, sia da un punto di vista teoretico che ontologico. Il cuore della trattazione è stato
proprio il tentativo di dimostrare l'importanza che il rapporto tra res cogitans e res extensa
detiene all'interno dell'impianto filosofico cartesiano, dissodando, per quanto possibile, le opere
del filosofo francese, cercando di dar prova del fatto che Cartesio non lascia un uomo con la
«testa da riattaccare» al corpo, come invece spesso si è considerato nella storia della tradizione
interpretativa post cartesiana, bensì che la distinzione ha come risultato finale l'unione reale e
vissuta nell'individuo concreto.
Infine nell'ultimo capitolo si sono messe a confronto alcune delle conclusioni cartesiane con le
teorie di tre importanti esponenti delle neuroscienze contemporanee ovvero Antonio Damasio,
Jaak Panksepp e Gerald Edelman; in particolare la teoria del marcatore somatico, i sette sistemi
emotivi di base e la teoria della selezione dei gruppi neuronali.
In conclusione vorrei riportare l'attenzione sui due punti già premessi nell'introduzione.
1. Scopo di questo lavoro non è quello di negare il dualismo cartesiano delle due res, una tale
lettura sarebbe assolutamente fuorviante, nonché in aperta contraddizione con gli stessi testi di
Cartesio, in cui la distinzione è ampiamente discussa e ammessa come parte fondamentale della
sua filosofia. In questa sede, all'interpretazione dualista si sono volute ribadire con altrettanta
156
forza e vigore le conclusioni a cui il dualismo stesso porta, ovvero all'unità reale di mente e
corpo.
2. In questa tesi non s'intende presentare Cartesio come il primo neuroscienziato o addirittura il
primo ad aver studiato il cervello. L'inizio dello studio di tale organo è antichissimo e ciò è
risaputo. L'obbiettivo è stato quello di tentare di liberare il filosofo francese dai diversi pregiudizi
che, specie in campo psicosomatico, affliggono il suo pensiero agli occhi degli interpreti
contemporanei, cercando un approccio di inclusione alle scienze e non di esclusione preventiva.
Cartesio rimane tuttora un gigante del pensiero, nonché vero fondatore dell'epoca moderna della
filosofia, chiunque abbia intenzione di approcciarsi a tale disciplina, dovrà necessariamente fare i
conti con lui e la sua teoria delle due res.
157
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