Academia.eduAcademia.edu

Le pietre da costruzione del Piemonte

2005, Le Residenze Sabaude come cantieri di conoscenza. Ricerca storica, materiali e tecniche costruttive

In queste note si riferisce in maniera sintetica di quelle pietre, in grande prevalenza di provenienza regionale, impiegate nella costruzione e nella decorazione esterna degli edifici piemontesi. Vengono considerati cioè quei materiali che, a differenza delle pietre puramente da decorazione che vengono impiegate negli interni, possono presentare le più varie problematiche nei riguardi della conservazione per il fatto di essere maggiormente esposte agli agenti del degrado

Metodologie, analisi strumentali, diagnostica Le pietre da costruzione del Piemonte MAURIZIO GOMEZ Politecnico di Torino SERITO In queste note si riferisce in maniera sintetica di quelle pietre, in grande prevalenza di provenienza regionale, impiegate nella costruzione e nella decorazione esterna degli edifici piemontesi. Vengono considerati cioè quei materiali che, a differenza delle pietre puramente da decorazione che vengono impiegate negli interni, possono presentare le più varie problematiche nei riguardi della conservazione per il fatto di essere maggiormente esposte agli agenti del degrado1. Per ogni pietra, le caratteristiche di composizione mineralogica, di tessitura e struttura, con le caratteristiche cromatiche costituiscono un insieme di parametri univoco e caratteristico, riferibile a un preciso luogo di provenienza. Per chi studia gli impieghi storici delle pietre nell’architettura, la precisa individuazione della loro provenienza può diventare un utile strumento di lettura delle opere in cui vennero utilizzate. Le cave, infatti, hanno prevalentemente operato in periodi storici definiti e i loro materiali possono essere stati destinati a differenti aree geografiche nelle diverse epoche di attività. Tali fattori fanno sì che le pietre dotate di migliori caratteristiche siano associabili a una più o meno ampia area di influenza. In tale contesto acquista significato la collocazione sul territorio delle cave e delle città con particolare riferimento alle vie di 223 comunicazione naturali – come fiumi navigabili e laghi – e soltanto in seconda battuta rispetto alle strade tradizionali, che solo in casi particolari giustificano economicamente il trasporto di materiali poveri come le pietre da costruzione. Diversamente da una più comune classificazione petrografica, i materiali lapidei vengono qui di seguito descritti secondo la tipologia di utilizzo e la tecnica di lavorazione; al variare delle caratteristiche proprie dei materiali si possono distinguere ancora in pietre da taglio e da scultura nel senso più comune del termine, e in pietre lavorabili a spacco naturale. Nella categoria delle pietre da taglio sono compresi anche materiali, come alcuni marmi bianchi, che possono essere idonei anche per l’impiego nelle decorazioni interne. La pietra grezza Il ruolo della pietra nell’uso comune rimane sempre strettamente legato alla sua disponibilità sul posto; in questo contesto la pietra da costruzione assume anche le forme estremamente semplici dei ciottoli, della pietra grezza o della pietra concia. Rientrano in questa categoria materiali anche diversissimi tra loro, utilizzati in maniera variabile a seconda dei luoghi e del tempo. Il più semplice materiale lapideo da costruzione sono i ciottoli di fiume, da sempre utilizzati nelle zone di pianura povere di altre risorse. Le murature di epoca romana sono tra i primi esempi di questo utilizzo e ricorrono in tutta la regione, data la diffusione di ciottoli nelle pianure e nei fondovalle. Tali opere sono spesso caratterizzate dall’impiego di ciottoli che, per realizzare un para- 1. Per un inquadramento rigoroso dell’uso delle pietre in Piemonte: L. PERETTI, Rocce del Piemonte usate come pietre da taglio e da decorazione, in «Marmi, Pietre, Graniti», XVI, n. 2, Carrara 1938; F. RODOLICO, Le pietre delle città d’Italia, 1965, approfondisce magistralmente il tema delle pietre da taglio e da costruzione; per gli studiosi dell’argomento è comunque insostituibile il riferimento al testo di V. BARELLI, Cenni di statistica mineralogica degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1835. Infine, gli studi recenti trovano una prima sintesi in M. GOMEZ SERITO, Le pietre e l’architettura in Piemonte, in L. STAFFERI (a cura di), Conservazione dei materiali nell’edilizia storica, Aosta 2001, pp. 37-55, di cui il presente testo rappresenta insieme una sintesi e un aggiornamento della prima parte. 224 Quaderni del Progetto Mestieri Reali mento dall’aspetto regolare, venivano semplicemente spezzati e disposti con tale superficie a vista. Caratteristiche del Medioevo sono invece le tessiture a spina di pesce, mentre in epoca barocca a Torino i regolamenti cittadini prescrivevano per le murature destinate a essere intonacate, la disposizione dei ciottoli in filari legati da abbondante malta di calce regolarizzati, ogni quattro o cinque, con uno di mattoni. 2. M. GOMEZ SERITO, I marmi e le arenarie della facciata: studio petrologico, in E. MICHELETTO (a cura di), San Pietro a Cherasco. Studio e restauro della facciata, Torino 2004, pp. 208-223. 3. GOMEZ SERITO, Le pietre e l’architettura cit., p. 42. 4. Per i soli elementi in facciata AST, Corte, Casa Reale, Archivio Savoia-Carignano, cat. 102, par. 1, vol. XIX, in C. ROGGERO BARDELLI, M. G. VINARDI, V. DEFABIANI, Ville Sabaude, Milano 1990, p. 381. 5. AST, Sez. Riunite, Casa Reale, art. 196, Registro delle spese fatte nella Fabbrica del Palazzo Reale, 6 giugno 1660-7 ottobre 1661, c. 5r; AST, Corte, Casa Reale, art. 196, Registro delle spese fatte nella Fabbrica del Palazzo Reale, 18 ottobre 1661-1 settembre 1665 c. 71r. Dello stesso marmo, oltre al portale mai completato, ma di cui furono pagate anche le due colonne laterali (ibidem, c. 159), erano state fatte anche le balaustre sulle quattro finestre dello scalone (ibidem, c. 101) ora sostituite da marmi di Carrara ottocenteschi. Pietre da costruzione e da scultura Qualitativamente i migliori materiali di questa categoria sono i marmi. Tra i marmi bianchi piemontesi quello che vanta in assoluto la maggiore continuità di impiego dall’antichità fino al Settecento proviene della bassa val Varaita. Il suo nome cambia al variare delle epoche e se nei documenti cinquecenteschi si parla di marmo di Saluzzo, nel secolo successivo prende il nome da Venasca, per diventare poi nel Settecento marmo di Brossasco o, ancora successivamente, di Brossasco Isasca. È un marmo bianco a grana grossa, traslucido con venature sfumate di colore verde; se esposto all’aperto tende ad acquisire un aspetto dai leggeri toni rosati. Tra gli impieghi antichi, oltre a numerosi piccoli monumenti funerari, è degno di nota l’anfiteatro di Pollenzo: da quanto si può dedurre dagli elementi superstiti sembra che esso fosse in gran parte rivestito con questo marmo2. All’epoca medievale risalgono alcune opere locali tra cui il portale della trecentesca collegiata di Isasca, alcune tozze colonne di costruzioni quattrocentesche di Venasca, Saluzzo (palazzo Della Chiesa) e Savigliano (casa Pasero); al XV secolo risale invece il portale gotico della parrocchiale di Brossasco. È comunque dal Cinquecento che si sviluppa maggiormente il suo uso nell’architettura. Dopo un impiego costante da parte di Matteo Sanmicheli, basti l’esempio del portale di casa Cavassa a Saluzzo, sono in marmo della bassa val Varaita i tre portali scolpiti della chiesa di San Pietro a Savigliano su disegno attribuito a Ercole Negro di Sanfront sul finire del secolo, come anche le ventiquattro colonne e i pilastri angolari del chiostro attiguo. In questo periodo sono stati realizzati molti monumenti e numerose opere di decorazione in ‘marmo di Saluzzo3 . Sono poi da citare i documenti seicenteschi relativi al cantiere guariniano del castello di Racconigi, in cui provengono da Venasca i marmi del pavimento e delle colonne del salone centrale, del portale e dei sette balconi (modiglioni e balaustre) sulla facciata verso il parco4. Si riconosce lo stesso marmo anche negli stipiti a bugnato del portale di palazzo Reale a Torino5, nelle balaustre degli scaloni verso Po al castello del Valentino e in molti palazzi seicenteschi del centro storico. Tra questi: palazzo Scaglia di Verrua per le colonne sul cortile, comprese quelle del loggiato al primo piano; palazzo Ferrero d’Ormea – ora Banca d’Italia – per colonne e balaustre sul cortile; il palazzo Valperga Masino con il portale scolpito con trofei d’armi, le grandi colonne nell’androne e parte dello scalone rimaneggiato; o ancora palazzo Biandrate di San Giorgio, in via delle Orfane, dove sono realizzati in questo marmo il portale, le otto Metodologie, analisi strumentali, diagnostica 225 Fig. 1 Torino, duomo, facciata in marmo di Foresto. Fig. 2 Torino, chiesa del Corpus Domini, colonne della facciata in granito bianco dei laghi. 1 2 colonne sul cortile e la balaustra dello scalone; palazzo San Martino della Morra in via Botero da citare per le colonne e le balaustre del loggiato al primo piano nel cortile; o, ancora, palazzo Della Chiesa di Roddi in via San Tommaso per le colonne del portico ora tamponato sul cortile, oltre alla balaustra e alle colonnine della scala forse ancora cinquecentesca. Nel Settecento, il marmo di Brossasco compare assiduamente nei cantieri juvarriani6: oltre ai capitelli esterni della chiesa di Superga e al pronao della chiesa di San Filippo7 è riconoscibile anche per decorazioni interne, come ad esempio nelle parti bianche del pavimento marmoreo della basilica di Superga, come anche nello scalone di palazzo Madama; le balaustre dello scalone delle segreterie di palazzo Reale, opera di Benedetto Alfieri del 1740, rappresenta uno degli ultimi impieghi noti. La pietra di Gassino deve la sua fortuna alla vicinanza delle cave con la capitale sabauda. Non è un marmo propriamente detto, ma un calcare nodulare lucidabile. Non si può considerare una pietra di particolare pregio, ma la prossimità ai cantieri della capitale e la possibilità di trasporto sul Po hanno favorito un intenso sfruttamento delle cave in galleria scoperte all’inizio del Seicento. Contrariamente a quanto tramandato dalla bibliografia, presenta buone caratteristiche fisico-meccaniche e di durevolezza. È infatti un calcare molto compatto, costituito da noduli fossili legati da cemento carbonatico. L’unico difetto è la presenza occasionale di piccole sacche di riempimento marnoso meno coerente che, se esposte alle intemperie, si erodono 6. M. GOMEZ SERITO, Sulla provenienza dei marmi impiegati da Filippo Juvarra nella facciata di Palazzo Madama a Torino, in C. BERTI, M. GOMEZ SERITO, I marmi della facciata di Palazzo Madama a Torino, Geam 96 1/99, pp. 17-22. 7. Unico caso storico ampiamente citato dalla bibliografia per l’uso di questo marmo. 226 Quaderni del Progetto Mestieri Reali 8. È probabilmente a tale difetto che la bibliografia fa risalire le scarse caratteristiche di durevolezza, ma è noto che nei migliori cantieri il materiale veniva selezionato accuratamente per evitare il problema; A. COCCO, M. GOMEZ SERITO, C. SOLDATI, Problemi e restauri della Pietra di Gassino, in Scienza e beni culturali, n. 16 (Bressanone 27-30 giugno 2000), pp. 81-94. 9. GOMEZ SERITO, Sulla provenienza cit., p. 19. 10. Questi due marmi, macroscopicamente differenti tra loro, ma differenti anche per composizione, vengono spesso confusi anche nella letteratura recente. 11. Almeno per gli elementi riconoscibili nell’attuale collocazione del castello di Govone. 12. La bancata coltivata raggiungeva infatti la notevole potenza di 10-12 metri senza fratturazioni. 13. Per questo monumento la letteratura ha sempre fatto erroneamente riferimento al marmo di Foresto. 14. Per i materiali delle architetture augustee del Piemonte e della Valle d’Aosta, A. BETORI, M. GOMEZ SERITO, P. PENSABENE, Investigations on Marbles and Stones Used in Augustean Monuments of Western Alpine Provinces, atti Asmosia (Thassos settembre 2003), in stampa. 15. Poi rimaneggiato con granito di Baveno, probabilmente da Benedetto Alfieri nel secolo successivo. profondamente8. L’impiego della pietra di Gassino in esterno ha inizio con il cantiere lanfranchiano di palazzo Civico circa a metà Seicento, ma è grazie alla scuola di Guarini che tale uso diventa prassi come si può evidenziare nelle costruzioni dei suoi collaboratori e successori, Garove e Baroncelli in particolare. Tra gli esempi seicenteschi torinesi più significativi va citata la facciata di palazzo Graneri con le colonne dell’atrio e le balaustre dello scalone, come la zoccolatura esterna e le paraste d’angolo, le colonne dell’atrio e la scala antica del Collegio dei Nobili o, ancora, il portale e le colonne dell’atrio con le balaustre dello scalone dell’ospedale San Giovanni Vecchio e tutti gli elementi del cortile del palazzo dell’Università in via Po. Ancora nel secolo successivo fu impiegata da Juvarra9, per cominciare poi un declino che la vedrà ampiamente utilizzata come pietra di supporto delle lastre sottili in marmi colorati negli altari. Il marmo di Foresto è di colore bianco freddo che sfuma in toni grigi, a grana fine e omogenea. Il duomo di Torino ha la facciata interamente rivestita di marmo di Foresto in lastre di dimensioni relativamente limitate; elementi maggiori dello stesso marmo, che raramente superano i due metri, furono scelti per le cornici scolpite dei tre portali. Il rivestimento di pilastri e murature interne è stato invece realizzato in marmo dal caratteristico tono giallastro proveniente delle cave di Chianocco10. Il marmo di Foresto è stato usato prevalentemente per elementi architettonici di piccole dimensioni; l’unico esempio che si discosta da questa regola è il loggiato dell’ala seicentesca della reggia di Venaria di cui sono veramente eccezionali le dimensioni delle quattro colonne monolitiche. Nel parco seicentesco erano realizzate in questo marmo gran parte delle balaustre, mentre le sculture furono realizzate in marmo verzino di Frabosa11. Del secolo successivo, per il marmo di Foresto è da segnalare l’impiego nella facciata juvarriana di Santa Cristina per capitelli e basi delle colonne. Il marmo di Chianocco di colore d’insieme bianco avorio con sfumature ocracee, al contrario di quello di Foresto, poteva essere cavato in pezzature di dimensioni ragguardevoli12. Impiegato già dal I sec a.C. per l’arco di Augusto a Susa13 e per il fregio delle porte Palatine a Torino, probabilmente anche il teatro della stessa città aveva una facciata rivestita in questo materiale14. È stato molto usato per fusti di colonne o elementi architettonici di grandi dimensioni: si pensi, ad esempio, alle grandi colonne in due rocchi dell’atrio ellittico di palazzo Carignano, al portale castellamontiano di palazzo Isnardi di Caraglio in piazza San Carlo15 o ancora alle ottantotto colonne binate della stessa piazza con i relativi architravi anch’essi marmorei. Ma l’opera più importante in questo marmo sarà la facciata juvarriana di palazzo Madama, coronata da vasi e statue in marmo di Brossasco. Oltre ai marmi sono stati impiegati altri materiali, a volte per il colore gradevole associato a buone caratteristiche di lavorabilità. Nei decenni a cavallo tra Sei e Settecento si segnala la presenza di prasinite, in significativi cantieri torinesi. Pietra a grana Metodologie, analisi strumentali, diagnostica fine dallo spiccato dolore verde omogeneo, essa proviene con ogni probabilità dagli stessi giacimenti tra la bassa val Sangone e la valle di Susa già sfruttati nel Medioevo. La si riconosce, per cominciare, nell’atrio ellittico di palazzo Carignano nello zoccolo verde dei basamenti delle colonne binate in continuità con i gradini dei due scaloni16, nel prezioso portale seicentesco con bassorilievi dell’antico ospedale di San Maurizio e Lazzaro su via Basilica17, nello zoccolo esterno di quello di San Giovanni Vecchio sulle vie Giolitti e Accademia Albertina, o ancora nelle decorazioni di atrio e facciate del palazzo Martini di Cigala progettato nel 1716 da Filippo Juvarra. Un suo utilizzo meno noto è stato infine come supporto nascosto di marmi pregiati usati in lastre sottili per la decorazione di altari, come nel caso del seicentesco altare di S. Pietro d’Alcantara nella chiesa della Madonna degli Angeli a Torino oppure nelle decorazioni marmoree settecentesche dell’altare e della cappella della Vergine Immacolata nella chiesa di San Salvario in fondo a corso Marconi18. Materiali assai diversi dai precedenti sono le plutoniti o rocce ignee intrusive. Tali rocce come graniti, sieniti e dioriti19, e in genere le rocce silicatiche massicce, sono materiali difficili da lavorare e furono utilizzati localmente specie nel nord della regione, dove si estendono gli affioramenti più significativi tra il lago Maggiore e quello d’Orta. Nel Medioevo, tranne l’uso occasionale di materiali di spoglio20, non è noto un impiego continuo dei graniti dei laghi nelle città piemontesi. Si deve arrivare al Seicento per trovare a Torino le prime sporadiche applicazioni di granito bianco grigio. Di metà secolo sono le colonne sulla facciata della chiesa del Corpus Domini, quelle dei porticati al piano terreno del cortile del palazzo di Città; sono ancora dello stesso periodo le lesene sulla facciata della chiesa di San Francesco da Paola21. È del secolo successivo la costruzione del grande chiostro del seminario arcivescovile, per i loggiati del quale l’architetto Ricca propose colonne monolitiche in granito rosa di Baveno. Nelle architetture di Juvarra si può trovare la pietra di Vaie, che è una varietà di gneiss granitoide molto compatta dal caratteristico colore grigio freddo. Le colonne della facciata della chiesa di Santa Cristina sono in pietra di Vaie con una finitura quasi lucida da considerarsi del tutto eccezionale per l’epoca, data la durezza della roccia22. Soltanto dalla seconda metà dell’Ottocento si ebbe a Torino una forte e costante diffusione dei graniti grazie anche alla possibilità di trasportarli per mezzo della ferrovia. La produzione di questo periodo si è sviluppata in particolare nelle cave di Alzo e del Montorfano per la varietà bianca e di Baveno per quella rosa. Sulla facciata ottocentesca di palazzo Carignano, Giuseppe Bollati utilizzò un bianco, forse del Montorfano alternato al rosa di Baveno per le colonne e le paraste. Anche Alessandro Antonelli negli stessi anni impiegò il granito rosa di Baveno nel pronao della Mole. Questi impieghi erano stati preceduti, pochi decenni prima, dalla facciata della chiesa di San Carlo tutta in gra- 227 16. Sembra questo essere il primo caso di uso moderno dopo gli impieghi medievali. Non è certamente un caso trovare in un cantiere guariniano una pietra tipica dell’architettura gotica piemontese. 17. Per l’esecuzione del portale fu pagato il piccapietre Carlo Alessandro Aprile nel 1685. Cfr. Archivi dell’Ordine Mauriziano, Conti dell’Hospedale, dal 1671 al 1690, consultato in P. GRISOLI, Una attribuzione per il palazzo dell’Ordine e dell’Ospedale dei santi Maurizio e Lazzaro in Torino, in «Studi Piemontesi», XII, 1, 3/1983, pp. 102-111. 18. M. GOMEZ SERITO, Cappella della Vergine Immacolata: indagini sui marmi in opera, in G. MONES (a cura di), La chiesa di San Salvario in Torino, Savigliano 2002, pp. 133-142. 19. Che sono classificabili anche come graniti commerciali. 20. I romani hanno fatto ampio uso dei graniti dei laghi e serizzi, probabilmente cavati da massi erratici. A. FRISA, M. GOMEZ SERITO, Indagine sulla provenienza dei materiali lapidei usati nell’architettura e nella scultura di epoca romana, in L. MERCANDO (a cura di), Archeologia in Piemonte, l’età romana, Torino 1998, pp. 223-233. 21. Realizzata tra il 1665 e il 1667 dai luganesi Martino Solaro e Giacomo Papa; A. BAUDI DI VESME, Schede Vesme, p. 993. 22. GOMEZ SERITO, Sulla provenienza cit., p. 19. L’effetto di contrasto cromatico prodotto da questa pietra affiancata a quelle chiare di Gassino e di Foresto ripropone a Torino un tema che Filippo Juvarra riprende dalla Sicilia occidentale, come nel caso della facciata del duomo di Catania dove le colonne scure in basalto dell’Etna sono affiancate a candide calcareniti locali. 228 Quaderni del Progetto Mestieri Reali Fig. 3 Torino, palazzo dell’Università, loggiati del cortile in pietra di Gassino. 3 nito di Baveno e marmo verzino di Frabosa. Dalla valle del Cervo, in provincia di Biella, proviene la sienite della Balma, dal caratteristico colore grigio violetto. Questo materiale è stato trasportato a Torino in enormi quantità per lastricare in masselli le strade del centro fin dall’Ottocento. È inoltre riconoscibile nel rivestimento dei pilastri e della parte bassa della facciata della stazione di Porta Nuova. Nell’Ottocento trovò grande fortuna a Torino la pietra di Malanaggio. Petrograficamente è uno gneiss dioritico ma, a differenza delle più comuni pietre concorrenti, è facilmente lavorabile, non è scistosa e si poteva cavare in elementi di dimensioni colossali. Un esempio per tutti sono le colonne del pronao della chiesa della Gran Madre di Dio, che sono forse quanto di più grande sia mai stato cavato dalle montagne piemontesi. Sono innumerevoli gli esempi di sue applicazioni a Torino: la facciata della basilica mauriziana e il ponte Mosca sulla Dora, per i quali l’ingegner Mosca fece lavorare i conci secondo le regole rigorose della stereotomia della scuola francese; anche le colonne e molti elementi del palazzo del Senato, poi vecchio Tribunale, sono in questo materiale. Il limite di questa pietra è nella minore durevolezza rispetto a tutti i materiali della sua categoria: la pietra di Malanaggio, se direttamente esposta all’aggressione degli agenti degradanti, si altera vistosamente in superficie evidenziando tipicamente il distacco di scaglie superficiali che avviene indipendentemente dall’orientazione della pietra. La pietra da taglio Arenarie, calcareniti, travertini e le altre varietà di pietra facilmente lavorabili sono sempre state usate in epoca storica e se ne conosce un uso particolarmente intenso in età medievale. Arenarie quarzose, calcareniti e cal- Metodologie, analisi strumentali, diagnostica 229 Fig. 4 Torino, palazzo Madama, facciata in marmo di Chianocco. 4 cari del bacino terziario ligure piemontese sono le materie prime con cui furono realizzate le chiese del Monferrato fiorite tra l’XI e il XIV secolo; tali materiali non si riconoscono soltanto nei conci squadrati spesso alternati a mattoni, ma hanno consentito anche la realizzazione dei più svariati elementi architettonici oltre che di decorazioni a scultura o bassorilievo. Nelle Langhe, al limite meridionale del bacino sedimentario terziario, è più facile reperire arenarie quarzose ben cementate: le cave di Cortemilia, Millesimo, Vicoforte erano ancora attive nella prima metà del Novecento. Molto usati nel Medioevo, taluni di questi materiali consolidarono la loro fortuna nel Rinascimento. I più notevoli esempi di utilizzo di arenaria in Piemonte in questo periodo sono nelle parrocchiali di Roccaverano e di Saliceto. Nel Cinquecento la pietra di Visone servì, invece, nella costruzione della chiesa di Santa Croce a Bosco Ma- rengo, mentre l’arenaria di Vicoforte venne scelta per la decorazione dell’antica cattedrale di San Donato a Mondovì Piazza, opera presto smantellata da Emanuele Filiberto di Savoia per la costruzione della cittadella. Nei primi anni del Seicento la stessa pietra diventò celebre grazie al grande cantiere del santuario di Vicoforte ad opera di Ascanio Vitozzi. Le alterne vicende della sua costruzione consentirono, nelle pause del cantiere, lo sfruttamento della cava per altri monumenti monregalesi. La facciata della chiesa di San Francesco Saverio poi della Missione, quella settecentesca della cattedrale di Francesco Gallo, ma anche colonne e balaustre dell’atrio e dello scalone del collegio dei Gesuiti, oggi Tribunale, sono in arenaria di Vico. Nel Seicento la cava fornì anche cantieri nella provincia: a Savigliano è notevole l’impiego per le colonne monolitiche del cortile del palazzo Taffini d’Acceglio. Un’arenaria lombarda, proveniente 230 Quaderni del Progetto Mestieri Reali dall’area di Viggiù e Saltrio in provincia di Varese, fu molto usata a Torino nel XIX secolo; i primi impieghi datano probabilmente alla fine del XVIII secolo, ma il loro commercio in Piemonte si sviluppò particolarmente con l’avvento della ferrovia. Proprio per la realizzazione della stazione di Porta Nuova, questa pietra fu proposta per i grandi capitelli della facciata. 23. Con riferimento all’individuazione delle antiche cave in val Sangone, cfr. M. GOMEZ SERITO, Le pietre di Sant’Antonio di Ranverso, in G. GRITELLA (a cura di), Il colore del gotico. I restauri della precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, Savigliano 2001, pp. 253-258. Nel XIII e XIV secolo si assiste a un uso intenso di pietre di colore verde che prevale nelle architetture religiose. Esse, di diversa origine geologica e provenienza, caratterizzano alcune delle più significative architetture del periodo. Il modello di tale impiego fu probabilmente la facciata della basilica di Sant’Andrea a Vercelli, essa è rivestita quasi interamente in pietra di Oira, sul lago d’Orta, dal colore verde intenso omogeneo. Si tratta di un cloritoscisto alpino dotato di eccellenti caratteristiche di lavorabilità e di durabilità. Questo materiale non è stato utilizzato solo nell’imponente paramento di facciata, ma è riconoscibile anche nei tre portali, dove si trova associato ad altri materiali. La pietra d’Oira vanta una tradizione forse bimillenaria ancora in gran parte da ricostruire, dove l’esempio di Vercelli rappresenta con ogni probabilità l’utilizzo più significativo. L’opera più nota, invece, realizzata in questo materiale è l’ambone romanico nella chiesa sull’isola di San Giulio d’Orta, ma sono probabilmente della stessa pietra anche due grandi acquasantiere riferibili al XVII secolo nel duomo di Chivasso e i capitelli dell’atrio del settecentesco palazzo del Comune di Caluso. Altro materiale di aspetto simile è la prasinite; anch’essa presenta buone caratteristiche di omogeneità e lavorabilità. È costruita in prasinite locale la chiesa della Sacra di San Michele, che spicca di colore verde al di sopra dell’alto basamento in calcemicascisto che costituisce le più antiche costruzioni sottostanti. Da un’antica cava nei dintorni di Trana, nella bassa val Sangone, proveniva probabilmente quella utilizzata per gli apparati scultorei della chiesa trecentesca della precettoria di Sant’Antonio di Ranverso23. Una prasinite molto simile è riconoscibile nei diversi elementi architettonici, prevalentemente capitelli, dei portici del centro storico di Avigliana. Pietre a spacco naturale Le pietre da costruzione lavorabili a spacco naturale rivestono in Piemonte un ruolo caratteristico. Si tratta in grande prevalenza di rocce metamorfiche caratterizzate da una forte deformazione secondo piani di scistosità segnati dalla presenza di miche disposte lungo superfici subparallele la cui presenza permette alla pietra di spaccarsi alla semplice percussione. Questa caratteristica ha reso disponibili da sempre materiali che per composizione mineralogica sono altrimenti molto difficili e costosi da lavorare. Alla categoria delle rocce a spacco naturale appartengono molte varietà di pietra tra cui prevalgono gneiss, quarziti e calcemicascisti. Gli gneiss affiorano in ampie aree dell’arco alpino piemontese. Dal massiccio Dora-Maira che si estende tra la val Maira e la bassa val di Susa provengono diverse varietà di tali materiali. Metodologie, analisi strumentali, diagnostica 231 Fig. 5 Torino, chiesa di S. Filippo Neri, Pronao in marmo di Brossasco. Fig. 6 Torino, basilica Mauriziana, facciata in pietra di Malanaggio. 5 6 Sono note le cave di pietra di Luserna (tra Bagnolo Piemonte e Luserna San Giovanni a cavallo tra la provincia di Cuneo e quella di Torino), della val Chisola presso Cumiana, quelle della val di Susa tra Vaie, Borgone e Villarfocchiardo (San Giorio), queste ultime sono varietà più marcatamente granitoidi. Nella val d’Ossola i materiali della tradizione, ancora prodotti in maniera significativa, sono serizzi e beole. Storicamente appartenenti al territorio lombardo, tali materiali non hanno trovato impiego a Torino e nel Piemonte occidentale prima del Novecento. Le pietre a spacco naturale hanno favorito lo svilupparsi di tipologie costruttive originali che ne sfruttano le caratteristiche geometriche, particolarmente per coperture e pavimentazioni. Localmente l’arte del costruire si è perfezionata e differenziata nei secoli, spesso proprio in funzione delle diverse caratteristiche delle pietre disponibili. Si pensi alle differenze costruttive tra il tetto ‘alla vigezzina’, tipico delle valli ossolane, e quello ‘alla piemontese’. Nel primo caso le lose erano di limitate dimensioni in pianta, di forma allungata e spessori fino a tre centimetri, che venivano montate su una limitatissima pendenza (con queste pietre, tenendo conto delle sovrapposizioni, sono necessari da tre a cinque metri quadrati di materiale per realizzare un metro quadrato di copertura). Nel secondo caso invece le rocce locali, a parità di spessore medio, producevano lastre di forma meno regolare ma di maggiori dimensioni in pianta (così per un metro quadrato di tetto erano sufficienti due o tre metri quadrati di materiale, cioè quasi la metà del caso precedente). Tale differenza si ripercuote sulla struttura lignea sottostante creando sistemi costruttivi palesemente differenti. 232 Quaderni del Progetto Mestieri Reali 7 Fig. 7 Chianocco (Torino), antico fronte di cava di marmo. 24. Barelli indica una cava di questo materiale senza indicarne gli usi. La sua citazione anticipa di pochi anni l’inizio di uno sfruttamento molto intenso di questa pietra, che continua anche oggi; cfr. BARELLI, Cenni di statistica mineralogica cit., p. 60. 25. BAUDI DI VESME, Schede Vesme cit., p. 2440. A Torino tali pietre giungono a partire dal XVII secolo. Prima in ordine di tempo è la pietra di Cumiana con cui tra Sei e Settecento si realizzavano diffusamente scale, lastre da balcone, zoccolature e lastricati. La pietra di Luserna, forse il materiale lapideo piemontese oggi più conosciuto, deve la sua diffusione, a partire da metà Ottocento, alla possibilità di ricavarne lastre che possono raggiungere le dimensioni eccezionali anche di venti metri quadrati. Si veda ad esempio quella di fronte all’ingresso principale di palazzo Reale che misura circa sette metri per tre. L’arrivo a Torino di questa pietra è anch’esso tradizionalmente legato alla costruzione della ferrovia, ma è stato recentemente accertato che già nella seconda metà del XVIII secolo la pietra di Luserna veniva scelta per la realizzazione di grossi piani o mense di altari rivestiti con marmi colorati. È ad esempio in questo materiale la mensa dell’altare policromo settecentesco della cappella di villa Moglia nella collina chierese24. Al suo utilizzo più tradizionale per lastre da marciapiede si devono aggiungere le coperture di tetti alla torinese, cioè con grandi lose quadrate disposte in diagonale, di cui sono esempi significativi quelli degli isolati di piazza Vittorio Veneto, della cattedrale di San Giovanni, del palazzo del Senato (vecchio Tribunale), delle carceri Nuove. Un ulteriore uso della pietra di Luserna, forse più diffuso di altri, è stato per lastre da balcone e da ballatoio. La quarzite di Barge, nota anche come Bargiolina, è un materiale lastroide dalle eccezionali caratteristiche meccaniche e di durevolezza. È un materiale praticamente inalterabile. È stato apprezzato ininterrottamente fin dal Rina- scimento; grazie anche a una citazione di Leonardo da Vinci che si riferisce probabilmente a uno dei suoi usi storici meno noti per la macinazione dei pigmenti minerali25. Proviene dalle cave del Monte Bracco tra Barge e la bassa valle Po, in provincia di Cuneo. Il suo uso tradizionale è per pavimenti a scacchiera con disposizione in diagonale, ma nell’Ottocento sono state realizzate anche preziose coperture di tetti e cupole. I calcemicascisti utilizzati a Torino tra la fine del XVIII e il XIX secolo, sono stati in grande quantità cavati nella bassa val Varaita a Piasco. Un impiego tra i più significativi e precoci è nella facciata monumentale della chiesa settecentesca dell’abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese ad opera di Ludovico Quarini con un materiale che potrebbe provenire da Pont Canavese. La stessa pietra si riconosce poi nella scala laterale barocca del duomo di San Giovanni a Torino e nelle grandi colonne in rocchi del lato sud di piazza Vittorio Veneto. I molti balconi che nell’Ottocento furono realizzati con questo materiale possono, a distanza di oltre un secolo, presentare preoccupanti indizi di degrado. Il calcescisto infatti, a dispetto di un’immagine del tutto simile a quella di uno gneiss, si distingue per un alto contenuto in carbonati che sono molto più facilmente alterabili dei minerali silicatici come quarzo e feldspati.