FOCUS
La malattia come testo
A partire da Starobinski
Carlo Gabbani*
English title: Disease as a text. Insights from Starobinski’s work
Abstract: The paper examines the possibility and relevance of seeing the disease
as a text, in the light of some of Starobinski’s insights on the nature and complexity of medicine. This perspective may help us in understanding many features of pathology and keeping them together, while it sheds light on the role
of the clinicians’ approach to disease and the relationship between natural and
historical dimensions in pathological phenomena. The aim is to lay the foundation for a comprehensive medical semiotics, able to interpret and gather together the different kinds of signs associated with a pathology.
Keywords: interpretation; philosophy of medicine; melancholy; semiotics;
Starobinski
1.
Molto tempo prima che la moda, ambigua o parziale, della medicina narrativa si diffondesse, Jean Starobinski aveva esplorato in profondità come la
malattia si dia, su una molteplicità di piani, quale testo da decifrare, universo di segni interrelati che sollecita una lettura sapiente. Si tratta di una concezione che riconduce la dimensione interpretativa in medicina a un livello
molto più fondamentale e pervasivo rispetto alla semplice narrazione del
malato, perché il fenomeno morboso in sé ci si offrirebbe, su una pluralità
di livelli irriducibili, come testo in divenire, complesso dinamico di segni,
dal carattere naturale oppure culturale o, in verità, naturale e culturale insieme. E se Starobinski ha saputo arricchire questo modo di guardare alla
patologia grazie a una singolare capacità di auscultazione di testi, casi, storie
*
Ricercatore indipendente
[email protected]
Mefisto
Vol. 4, 2, 2020, pp. 89-104
ISSN (print) 2532-8255 - ETS
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e contesti, non vi era in esso alcunché di inusitato o provocatorio, poiché da
sempre il percorso che porta alla diagnosi si incentra su un sapere chiamato
σηµειωτική, volto a individuare, osservare e interpretare i segni clinicamente rilevanti che si manifestano nella persona malata. Grazie a questa abilità
nel cogliere e decifrare le radici, le manifestazioni e le risonanze della malattia, attraversando le profondità della storia come quelle di un corpo visto
intus et in cute, Starobinski ha proposto assaggi rivelatori di una semeiotica
integrale, capace, cioè, di non intestarsi un solo livello fondamentale di descrizione e analisi della condizione patologica umana, al quale tutto ridurre
meccanicamente, e di non arenarsi nelle secche del monismo metodologico
o nelle semplificazioni, analoghe e contrarie, di protocolli senza più soggetti, oppure di un’ermeneutica senza più natura1.
2.
Dei segni, insegnava Agostino nel secondo libro del De doctrina christiana, alcuni sono naturali, altri intenzionali2. E aggiungeva:
sono naturali quelli che, senza alcuna intenzionalità e volontà di significare, fanno
conoscere, a partire da sé, qualcos’altro oltre sé, come il fumo significa il fuoco: lo
fa senza intenzione di significare, ma perché grazie all’osservazione e all’esperienza sappiamo che là sotto c’è il fuoco, anche se si vede solo il fumo. Appartiene a
questo stesso genere di segni la traccia dell’animale che passa; e il volto di una
persona adirata o triste ne rivela lo stato d’animo anche indipendentemente dalla
volontà di chi è adirato o triste, e così dicasi di altro sentimento che viene indicato dall’atteggiamento del volto, anche se noi nulla facciamo per indicarlo.
Al contrario, proseguiva Agostino “segni intenzionali sono quelli che gli
esseri viventi si scambiano gli uni con gli altri per far conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del loro animo, i sentimenti, i pensieri […]”3.
1
Nella terminologia medica è tradizionale far uso, in modo differenziato, sia del termine
‘segno’ che del termine ‘sintomo’. Come è stato notato: “la distinzione tra il significato dei due
termini non è ben stabilita anche se la maggioranza degli autori tende a usare ‘sintomo’ e ‘segno’
per indicare rispettivamente la sintomatologia soggettiva e quella obiettiva” (Cesare Scandellari,
La diagnosi clinica. Principi metodologici del procedimento decisionale, Masson, Milano 2005,
p. 1). In questa sede, dato il livello sul quale si situa la nostra analisi, parleremo di segno in una
accezione generale e aspecifica, più affine a quella secondo cui “segno è […] tutto ciò che è riconosciuto dall’intelligenza del clinico come appartenente alla malattia” (ivi, p. 2).
2
“Signorum igitur alia sunt naturalia, alia data” (Sant’Agostino, L’istruzione cristiana, Fondazione Lorenzo Valle – Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994, libro II,1, p. 74-75).
3
Ivi, libro II,1, pp. 74-77.
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Analogamente, si potrebbe dire che ogni patologia umana si manifesta
attraverso un tessuto di segni naturali e segni intenzionali; forse proprio
questa è anzi la specificità distintiva più rilevante della malattia come testo: a differenza di quanto accade nei testi prodotti dall’uomo per comunicare, nella malattia vista come testo convergono segni naturali e segni
intenzionali assieme. Anzi, sarebbe meglio dire che i segni con i quali abbiamo a che fare quando è in gioco una patologia, sono in molti casi segni
che con-fondono la dimensione naturale e quella intenzionale. Questo
perché il “corpo vissuto” di una persona malata e situata in un contesto
sociale dato produce segni patologici che non sono puramente biologici,
ma incorporano le traccie di un modo di esistere personale e comunitario;
analogamente, i segni intenzionali e culturali della patologia sono sempre
essenzialmente radicati nelle peculiari vicende di un organismo biologico
e da questo vincolati. Del resto, al di là dello schema agostiniano, la stessa
espressione di un particolare volto che manifesta una condizione di tristezza è sempre una inevitabile commistione di naturale e culturale, universale e particolare, istintuale e intenzionale4.
Sembra, dunque, lecito e proficuo vedere la patologia come un testo,
inteso quale tessuto di segni interrelati, capaci di veicolare un’informazione che dipende dalle singole parti costituenti, ma ne eccede il significato
e, anzi, assume il suo significato pieno ai nostri occhi solo nel momento in
cui i diversi segni sono sapientemente posti in correlazione5.
In questa prospettiva, che alla malattia si possa guardare come a un testo è assai più principio euristico, che non semplice metafora di carattere
letterario6. Vale a più forte ragione della tesi secondo cui l’universo si
squadernerebbe davanti a noi come un “grandissimo libro […] scritto in
lingua matematica”7. E vale, come minimo, al pari dell’idea che al mate4
Su queste tematiche, cfr.: Bernardino Fantini-Giovanni Destro Bisol-Fabrizio Rufo (a cura
di), Una prospettiva evolutiva sulle emozioni. Da Charles Darwin alle neuroscienze, ETS, Pisa
2013.
5
Sulla nozione di ‘vedere come’ hanno avuto una straordinaria influenza le riflessioni di:
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1995, parte II, § XI. Cfr. anche: Fred
Dretske, Seeing and Knowing, The University of Chicago Press, Chicago 1969.
6
Questo, naturalmente, non comporterà, però, di passare a una formulazione tipicamente
riduzionista per cui la patologia sarebbe da vedere come “nient’altro che” un testo.
7
“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi
a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto” (Galileo Galilei, Il Saggiatore, Feltrinelli, Milano
1965, § 6, p. 38). Sulla metafora del libro della natura, si vedano: Ernst Robert Curtius, Il libro
come simbolo, in: Id., Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1992, pp. 335-385; Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della
natura, il Mulino, Bologna 1984, specie cap. VII.
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riale genetico si possa guardare come a un codice, secondo la celebre suggestione avanzata da Erwin Schrödinger nelle lezioni dublinesi del 1943
sulla vita8.
Parlare di segni e testi, significa però, inevitabilmente, anche parlare di
interpretazione. Su questo aspetto Starobinski ha scritto parole illuminanti
affrontando uno dei suoi autori d’elezione, Rousseau, e proprio prendendo le distanze dal suo vagheggiamento di segni ‘trasparenti’, che ci avvicinino a un’utopica comunicazione immediata, non più bisognosa di interpretazione9. Chiosando questa idea, Starobinski ha sviluppato osservazioni dalla valenza più generale:
è gioco forza riconoscere che la percezione del senso del segno presuppone un’attività della coscienza. Prescindendo da qualunque pregiudizio idealistico, va detto
che il senso si dà solo a una coscienza che ne attende (o ne “mira”) la comparsa,
sollecitando significazioni al suo intorno. Tale sollecitazione è già spontaneamente, dalle origini, una interpretazione; implica la scelta preliminare di un senso generale del mondo a partire dal cui fondamento si staccheranno le significazioni
particolari10.
Non vi è, dunque, segno senza interpretazione e l’interpretazione è
sempre anche una attività di selezione, scelta, collocazione di quanto osservato entro uno sfondo influente di presupposti, correlazioni, finalità
stabilite dalla comunità interpretante. Proprio per questo, l’interpretazione è, in ultima analisi, un esercizio dell’intelligenza e della libertà umana:
ove per libertà si intende, naturalmente, l’opposto dell’arbitrio, ossia la
scelta motivata su basi razionali e intersoggettive, che mira a restituirci il
8
Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita?, Adelphi, Milano 1995, pp. 44-45. Come è stato osservato: “anche se Schrödinger era evidentemente più interessato agli aspetti termodinamici e
metafisici del problema della vita, non vi è dubbio che fu per merito suo che si diffuse l’idea che i
geni sono dei messaggi (un ‘testo’) scritti con un ‘codice cifrato’ o ‘codice in miniatura’ nella ‘fibra cromosomica’ intesa come un ‘solido aperiodico’” (Gilberto Corbellini, Le grammatiche del
vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 77).
9 Rousseau aveva infatti in più occasioni riflettuto su quei “segni naturali” che nella cultura
del suo tempo erano contrapposti a quelli “convenzionali”, creati dagli uomini. Mentre però in
Agostino i segni naturali erano genericamente i segni non prodotti intenzionalmente, in Rousseau, invece, a venire in primo piano è l’idea che i segni naturali, essendo meno convenzionali di
quelli artificiali, siano quelli che potrebbero consentirci una comunicazione autentica, non sottoposta alle distorsioni dell’interpretazione. Starobinski parla a questo proposito del desiderio da
parte di Rousseau di “un linguaggio più immediato del linguaggio”. E nota: “L’ideale dell’immediato comporta che nell’oggetto e nella mia percezione del segno il senso del segno sia esattamente lo stesso: il senso si imporrà in modo irresistibile ed io lo accoglierò passivamente” (Jean Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, il Mulino, Bologna 1982, pp. 244-245).
10 Ibidem.
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testo nella sua integrità 11. Da questo punto di vista, l’aspirazione di
Rousseau a un segno che si iscriva ‘di proprio pugno’ nello spazio delle
ragioni appare a Starobinski non solo chimerica, ma foriera di autoinganno12. Tocchiamo qui una delle immagini e delle tematiche più care a Starobinski, quello dello smascheramento, che è appunto una modalità particolarmente impegnativa di interpretazione del segno, a partire dal presupposto di una sua non trasparenza, di una sua opacità, di un suo interessato
(o addirittura intenzionale) carattere ingannevole13. In questo senso, si
potrebbe affermare che addentrarsi, da parte del critico o del clinico, nel
processo di interpretazione di segni, può anche voler dire (oltre a selezionarli, collegarli etc.) cercare di smascherare il messaggio o la patologia che
quei segni nascondono, camuffano, rivelano solo in parte o in forme non
immediate, non per tutti trasparenti.
Questa inevitabilità dell’interpretazione dei segni (e di una interpretazione come atto di libertà) che è apparentemente più ovvia in ambito esistenziale e letterario, non ha minore centralità in sede clinica. In questo
senso, anzi, colpisce come, per Starobinski, non sia primariamente il modello letterario dell’interpretazione a essere applicato, per estensione,
all’approccio clinico alla malattia, quanto semmai il contrario: auscultiamo e decifriamo un testo (la voce di un testo, direbbe Starobinski) in un
modo che richiama quello in cui il medico ausculta e decifra la condizione
patologica di un paziente. Possiamo, cioè, considerare il “tentativo di decifrare i segni di una pagina scritta, come faremmo per valutare lo stato di
un organismo vivente”14. Del resto, approfondendo questa affinità tra
sguardo clinico e sguardo critico, Starobinski notava: “il termine ‘discernimento’ […] appartiene alla stessa famiglia del termine ‘diagnosi’. Gli
studi di stilistica e di semantica di un Leo Spitzer sono esercizi di sintomatologia. Osserviamo che il termine ‘semiologia’ è stato usato sia nel
campo letterario che in quello medico”15.
11
Si veda: J. Starobinski, Il testo e l’interprete, in: Id., Le ragioni del testo, a cura di C. Colangelo, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 23-27 (si tratta di una raccolta italiana di sei importanti saggi teorici di Starobinski).
12 “A contatto col mondo Rousseau interpreta all’istante, ma non vuol sapere di aver interpretato” (J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau, cit., p. 245; si veda anche pp. 259-261).
13 Sul tema della maschera e dello smascheramento, si veda tra l’altro: J. Starobinsky <sic>,
La maschera e l’uomo. Intervista di Guido Ferrari, Jaca Book-Edizioni Casagrande, Bellinzona
1990.
14 J. Starobinski, La parola è per metà di colui che parla… Conversazioni con Gérard Macé,
Archinto, Milano 2013, p. 37.
15 Ivi, p. 19.
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3.
Ma se la malattia è un testo, che tipo di testo è? Adattando un modello
metafisico assai antico, quello di matrice platonico-agostiniana del male
come privatio boni, si sarebbe tentati di pensare che la patologia più che
un vero e proprio testo, non sia altro che mancanza o defectus, lacuna,
anomalia, corruzione che impoverisce o cancella un testo integro, normale, pienamente significante16. Del resto, l’esemplificazione più potente di
questo modo di intendere il male è tradizionalmente tratta appunto
dall’ambito medico, ed è quella della cecità o della sordità, intese come
patologie che non avrebbero consistenza propria, ma sarebbero mera assenza o limitazione della facoltà visiva o uditiva fisiologica17.
Si tratta di un paradigma dalla grande forza e fortuna, ma, appunto
per il suo situarsi su un piano propriamente metafisico-teologico, sarebbe verosimilmente riduttivo e improprio pensare di rifarsi a esso in questa sede, per considerare la patologia in genere soltanto come un fenomeno di negazione e assenza, che si risolve nella mancanza di salute18. Certo, la patologia consiste anche in una perdita, o mancanza, o assenza rispetto alle capacità tipiche delle condizioni che definiamo normali; ma,
come ha scritto Georges Canguilhem, “la malattia è a un tempo privazione e modificazione”19. Dunque, su un piano semeiotico e fenomenologi16
“Perciò quando si chiede da dove deriva il male, prima si deve cercare che cosa sia il male. Il male non è altro che corruzione o della misura, o della forma, o dell’ordine naturale [nihil
aliud est quam corruptio vel modi, vel speciei, vel ordinis naturalis]” (Agostino, Natura del bene,
Rusconi, Milano 1995, pp. 120-121).
17 Commentando il testo del De divinis nominibus secondo cui “il male è privazione [privatio] e difetto [defectus], debolezza [infirmitas]”, Tommaso d’Aquino scrive: “Quindi conclude
che poiché il male non è dotato di sussistenza, esso è privazione che priva completamente una cosa di un bene particolare, come la cecità è un male che priva completamente della vista; inoltre il
male è difetto quando cioè qualcosa non viene tolto interamente ma è posseduto in modo carente, come risulta in colui che vede male; e anche debolezza quando cioè il bene non è posseduto
fermamente anche se lo si possiede intensamente, come se qualcuno vede acutamente e tuttavia
non possiede una vista stabile, ma si indebolisce facilmente” (S. Tommaso d’Aquino, Commento
ai Nomi divini di Dionigi. Volume I, capp. 1-4, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004,
cap. 4, lezione 22 (32a), rispettivamente: § 245, pp. 540-541 e § 588, pp. 552-553).
18 Uno scrittore italiano, Guido Morselli, in pagine dedicate appunto a questi temi esprimeva così il punto: “la malattia assume in noi un’esistenza distinta e indipendente; non è soltanto difetto di integrità organica, è un vivo impedimento a che l’integrità si ristabilisca nell’organismo
malato” (Guido Morselli, Fede e critica, Adelphi, Milano 1977, p. 32).
19 Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 151; sull’importanza di questo testo nell’indurre Starobinski ad aggiungere una formazione medica a quella letteraria: J. Starobinski, La parola è per metà di colui che parla, cit., p. 14. Si veda anche: J. Starobinski, La connaissance de la vie, “Critique”, 75-76, 1953, pp. 777-791.
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co, essa si manifesta in tutta la sua consistenza e originalità come un testo
alterato, e però coerente, significante, dotato di precise regole e composto da segni, funzioni e dinamismi suoi propri. Per rifarsi ancora a Canguilhem: “il patologico non è l’assenza di norma biologica, bensì una
norma altra ma respinta per comparazione dalla vita [comparativement repoussée par la vie]”20.
Il testo della malattia, dunque, più che come mera alterazione o corruzione del testo integro, sembra piuttosto da interpretare come qualcosa di
simile a una parodia del testo della salute, nel senso che, come accade in
genere nelle parodie, si ha una imitazione degradata, rigida e meno creativa dell’originale. Essa, però, per quanto sia parassitaria al testo di partenza (nel senso che solo a partire da esso può essere compresa come tale),
possiede regole, significati e standard nuovi e propri che creano o ricreano
un peculiare modo di funzionamento. Il testo della malattia può anche
configurarsi come un testo ‘fuori luogo’, ossia come un testo che, pur essendo accettabile in un certo contesto, risulta del tutto inidoneo nel contesto effettivamente dato: il soggetto portatore di una patologia sarebbe,
in questo senso, come lo scrivente monotòno, divenuto incapace di modulare i propri registri comunicativi in conformità alle situazioni e alle finalità di volta in volta date21.
Converrà poi sottolineare che, come accade nei testi costituiti da segni intenzionali creati dall’uomo, anche il testo della patologia si manifesta pienamente solo quando alcuni dei molteplici fenomeni osservabili
(per via diretta o strumentata) vengono interpretati e correlati in quanto segni appartenenti a un unico fenomeno morboso (o, se non altro, sono riconosciuti come frutto della risposta dell’organismo a quel fenomeno morboso)22. È anzi parte costitutiva del sapere nosografico che la
piena comprensione di una malattia si ottenga solo quando si passa dalla mera constatazione del fatto che in certe situazioni una serie disparata di segni o sintomi anomali tendono a concorrere assieme, alla comprensione dei processi che presiedono al loro prodursi in quanto aspetti
20
G. Canguilhem, Il normale e il patologico, cit., p. 114; si veda anche: p. 158.
È ancora Canguilhem a osservare: “ciò che è normale in quanto normativo in condizioni
date, può divenire patologico in un’altra situazione, se si mantiene identico a se stesso” (ivi,
p. 147).
22 “Il ‘segno naturale’ non è altro che una parte o una conseguenza di un processo naturale –
così, secondo il paragone classico, il fumo designa il fuoco: è la definizione stessa del sintomo. La
faccia del parkinsoniano, quella del mitralico, sono parte stessa della malattia, quando non dipendono immediatamente dalla lesione ‘originaria’” (J. Starobinski, Persona, maschera, volto, in:
Id., Le ragioni del testo, cit., p. 59).
21
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di un complesso patologico unitario (al modo di lettere entro una parola, o di parole entro un periodo compiuto). In caso contrario, essi rimangono fisicamente presenti, ma non sono pienamente intesi (manca,
per dirla con Starobinski, “il senso del segno”); ed è appunto a questa
capacità di decifrare, collegare e riconoscere che si fa tradizionalmente
riferimento con espressioni come “occhio clinico”, ritenendola, in genere, il frutto di una piena fusione tra conoscenze teoriche e competenze
esperienziali.
Trattare la malattia come testo comporta allora che in medicina si debba non solo decifrare un testo che già assumiamo che ci sia (come nella
critica letteraria), ma prima di tutto riconoscere che c’è un testo da decifrare: ossia, imparare a vedere come un testo unitario i vari segni che, su
piani diversi, lo costituiscono e dovranno essere rilevati, collegati e interpretati. Questo permetterà anche di cogliere come il significato e il valore
attribuito a un singolo fenomeno entro il sistema complessivo della patologia possa essere modificato dalla valutazione di altri fenomeni successivamente considerati. Del resto, anche in un testo scritto il punto interrogativo o esclamativo posto al termine di una frase retroagisce sul significato complessivo di quanto lo precede, mutandone il senso.
Come detto, il processo di individuazione, connessione e decifrazione
dei fenomeni rilevanti in quanto segni correlati a una patologia avviene
inevitabilmente di contro a uno sfondo costituito da una miriade di altri
fenomeni che riteniamo, in quel momento, non pertinenti o rilevanti,
per ciò che ci proponiamo di diagnosticare, conoscere, curare. È da notare che, nel dire questo, si riconosce ancora una volta come la individuazione dei fenomeni che siamo interessati a esaminare e decifrare sia
sempre frutto di una selezione interpretante della comunità conoscente:
il che fa dell’atto diagnostico qualcosa di diverso e più complesso rispetto alla mera rilevazione integrale e passiva di dati e, dunque, ne fa anche
qualcosa che richiede di basarsi su criteri razionali e intersoggettivi. Del
resto, anche la lettura di un saggio allo scopo di conoscere il pensiero
del suo autore richiede che non ogni segno intenzionale presente sulla
pagina sia rilevato come parte della informazione che, in quel momento,
è pertinente: le informazioni del paratesto, ad esempio, non saranno da
rilevare assieme a quelle che costituiscono il contenuto del saggio, pur
potendo essere rilevanti e centrali quando la lettura abbia una finalità
diversa dalla conoscenza del contenuto dell’opera; inoltre, non tutti i
passaggi del testo assumeranno la stessa importanza quanto alla comprensione del messaggio essenziale da esso veicolato. Lo sguardo, l’intenzione del lettore contribuisce così a costituire il testo che egli legge,
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con un contributo di carattere interpretante, ma non (necessariamente)
arbitrario23.
4.
Le malattie umane, in effetti, non sono mere specie naturali. Il paziente subisce il suo male, ma lo costruisce anche, o lo riceve dall’ambiente; il medico osserva la malattia come un fenomeno biologico, ma, isolandolo, nominandolo, classificandolo, ne fa un’astrazione e, così facendo, esprime un momento particolare di
quell’avventura collettiva che è la scienza. Sia dalla prospettiva del malato che da
quella del medico, la malattia è un fatto di cultura e muta al mutare delle condizioni culturali24.
Se ogni patologia è dunque un testo, si tratta di un testo soggetto al
tempo, che si forma e si trasforma nel tempo. Esso è anzi sensibile, in
modi diversi, a una duplice dinamica temporale: il tempo della natura e
il tempo della storia. Il tempo della natura, perché le patologie non sono
tipi identici che esistono da sempre e si replicano immutati in una molteplicità di casi successivi, ma fenomeni che appaiono, mutano, scompaiono e si ramificano in base a fattori e ritmi sia biologici, che antropologici. Il mondo della vita, infatti, produce di continuo nuove mutazioni
patologiche e anche nuovi sintomi e nuove malattie: così, proprio come
accade con le lingue vive, nuove regole, nuovi costrutti e nuovi testi non
cessano di rinnovare il quadro dei fenomeni morbosi con i quali abbiamo a che fare.
Più in generale, accade col sorgere, trasmettersi e trasformarsi delle patologie qualcosa di simile a ciò che accade nella trasmissione manoscritta
di un testo (ancora la metafora del codice): nel passaggio da un esemplare
all’altro si introducono, quasi inevitabilmente, mutazioni, varianti, errori.
Questo non cancella il fatto che possa trattarsi sempre di copie dello stesso testo, ma impedisce di trattare sbrigativamente ogni singola istanza come una mera replica. Così, quando affermiamo che non esistono in medicina due casi clinici identici, non vogliamo negare che possano esistere
fondati e giustificati motivi per affermare che più casi cadono nell’ambito
della stessa categoria nosografica, analogamente a quando diciamo che
23
Ha scritto Starobinski: “l’oggetto non è un puro dato, bensì un frammento di universo
che si delimita in base alle nostre intenzioni” (J. Starobinski, Il testo e l’interprete, cit., p. 7; si vedano anche le pp. 18-20).
24 J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia (1960), in: Id., L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014, p. 5.
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non vi sono due manoscritti identici, senza per questo negare che più manoscritti possano risalire allo stesso archetipo o far parte di una stessa ‘famiglia’25. Inoltre, un’importante specificità di ciascuna condizione patologica in quanto testo risiede nel fatto che si tratta di un testo che (a differenza di quelli a stampa) ha in sé un carattere dinamico, è in costante divenire. In un certo senso, potremmo dire che ogni patologia è un autentico testo autopoietico: cioè, che nel tempo si costituisce, si struttura e si
modifica, secondo logiche e dinamiche aberranti, ma in linea di principio
intelligibili.
La patologia come testo è però sensibile anche al tempo della storia: da
un lato, perché certi tipi di patologia (un po’ come certi generi letterari) si
sono registrati solo in certe fasi della storia degli uomini e per ragioni che
sono strettamente legate a precise (per quanto eterogenee) condizioni storiche: dalla presenza o meno di certe pratiche lavorative o di certi modi di
abitare e alimentarsi, all’esistenza o meno di determinati farmaci e di determinate tecniche diagnostiche o interventistiche. D’altra parte, il punto è
che qualunque anomalia fisica viene iscritta nello spazio della patologia con
un gesto decisionale che ha uno specifico carattere storico-culturale e, da
quel momento, riceve significati, produce espressioni e risonanze, determina reazioni, classificazioni, strategie di cura e controllo dal carattere storico-culturale26. Per usare ancora le parole di Starobinski: “Il disordine fisico, che è un dato di fatto, riceve un significato grazie agli utensili interpretativi di cui dispone il linguaggio di un’epoca (o di una civiltà)”27.
Cogliere e analizzare questo processo di interpretazione e iscrizione
dell’anomalia fisica nello spazio medicalizzato delle patologie richiede anche di saper distinguere tra due nozioni differenti (e, in certo senso, perfino conflittuali) di esperienza che sono in gioco quando guardiamo alla
malattia. Come Starobinski ha evidenziato nella sua ricerca sulle tracce di
25 Sulla dialettica tra casi singolari e conoscenze generali in medicina, mi permetto di rimandare a: Carlo Gabbani, Epistemologia e clinica. Tre saggi, ETS, Pisa 2013, cap. 1; Id., Étude de
l’individu comme facteur de connaissance médicale, in: Bernardino Fantini-Louise Lambrichs
(sous la dir. de), Histoire de la pensée médicale contemporaine. Evolutions, découvertes, controverses, Éditions du Seuil, Paris 2014, pp. 175-193.
26 Così, nei suoi studi sulla nostalgia Starobinski ha rimarcato: “questa parola – nostalgia –
[…] è apparsa quando il sentimento che essa designa ha assunto la configurazione di una malattia agli occhi dei medici ed è stato registrato nei libri di medicina. Prima di diventare una parola
relativamente banale è stata un termine del linguaggio specialistico. Dunque, ciò che è stato inventato con la parola ‘nostalgia’ è lo sguardo decisamente descrittivo (patografico) nei confronti
del sentimento così designato” (J. Starobinski, Una varietà di lutto, in: Id., L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014, p. 229).
27 J. Starobinski, Tre furori, Garzanti, Milano 1991, p. 98.
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Montaigne, abbiamo infatti, da un lato, “l’esperienza ‘personale’ (o interiore) in cui l’individuo esperimenta la qualità singolare della propria esistenza” e, dall’altro, “l’esperienza ‘oggettiva’ da cui si formerà la scienza
moderna, con una esigenza metodologica affinata”28. Quest’ultima è appunto l’esperienza alla quale fanno appello i medici ed è, tra l’altro, quella
che permette di guardare al singolo paziente come a un caso ripetibile di
patologia, e che, dunque, consente di generalizzare, di catalogare, di avanzare interpretazioni causali29; l’altra è, invece, una concezione dell’esperienza che si incentra sul “fenomeno sensibile” (sulla sintomatologia soggettiva, potremmo dire) e che “si limita a registrarlo senza concettualizzarlo, che rimane il più vicino possibile alla cosa vissuta”: così intesa, l’esperienza patologica troverà, semmai, spazio oggi nell’ambito dell’espressione artistico-letteraria30.
Proprio sullo snodo disegnato dalla distinzione tra oggettivazione scientifica della condizione patologica e esperienza soggettiva di essa può, però,
prendere forma anche un processo che ha attirato particolare attenzione
negli ultimi lustri: ossia, quello connesso al fatto che le convinzioni, le categorie, le valutazioni e i trattamenti che una società sviluppa in rapporto a
una certa condizione patologica umana possono incidere, in forme e in
grado peculiari, sul vissuto e la condizione stessa delle persone ammalate.
Quando abbiamo a che fare con le patologie umane vi è, dunque, un senso
particolare in cui il “disordine fisico” e gli “utensili interpretativi” (per
28
J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell’apparenza, Il Mulino, Bologna 1984, p. 187
(cfr. anche: pp. 196-198 e 211-213).
29 “[…] l’esperienza citata dai medici ha valore di esempio e giustifica in questo modo la sua
ripetizione” (ivi, p. 187). Scriverà altrove Starobinski, a proposito del modo in cui il medico appunta il proprio sguardo clinico su un volto, che esso: “spersonalizza il malato per individualizzarlo secondo un codice prestabilito nel quale figurerà in quanto caso. È in questo che consiste il
mestiere – la sua regola e la sua razionalità. Ecco che, in ciò che all’inizio annunciava la presenza
di una persona e non cessa di essere una persona, il medico preleva dei fenomeni isolati che segnalano il disturbo fisico o morale: cianosi, ittero, edema, paresi, depressione ecc.” (J. Starobinski, Persona, maschera, volto, cit., p. 58; si vedano anche le pp. 64-66).
30 J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell’apparenza, cit., p. 187. Si tratta di una distinzione affine, almeno in parte, a quella, oggi popolare, tra la patologia intesa come disease e la
patologia intesa come illness; infatti: “The quality which identifies disease is some deviation
from a biological norm. There is an objectivity about disease which doctors are able to see,
touch, measure, smell. Diseases are valued as the central facts in the medical view. It is in this
sense that the patient has often been described as ‘the accident of the disease’ […] Illness is a
feeling, an experience of unhealth which is entirely personal, interior to the person of the patient. Often it accompanies disease, but the disease may be undeclared, as in the early stages of
cancer or tuberculosis or diabetes. Sometimes illness exists where no disease can be found”
(Marshall Marinker, Why make people patients?, “Journal of Medical Ethics”, 1, 1975, p. 82;
Marinker individua inoltre anche una dimensione sociale della patologia, la sickness).
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usare le espressioni di Starobinski) possono intrecciarsi e influenzarsi, retroagendo: e questo tanto più quanto più abbiamo a che fare con patologie come quelle che riguardano primariamente la psiche e il comportamento umano31. È allora evidente che proprio in questi ambiti risulterà
più che mai rilevante saper distinguere tra questi due piani (ossia, quello
del disordine fisico e quello dei mezzi interpretativi ed espressivi), ma anche saperli tenere simultaneamente presenti, saperne ricostruire la multiforme dialettica, padroneggiando i linguaggi, le pratiche, i metodi differenti che permettono di accedere a ciascuna di queste dimensioni. Ciò allo scopo di sviluppare una comprensione integrale della patologia che eviti le secche, analoghe e contrarie, del riduzionismo organicista e del costruzionismo sociale.
Da questo punto di vista, non sarà un caso che appunto su patologie di
questo genere si sia concentrata l’attenzione di Starobinski, con l’intento
di ricostruire attentamente i diversi aspetti che si assommano nella loro vicenda storica: ipotesi eziologiche, tentativi nosografici, interventi clinici e
farmacologici, ma anche risonanze biografiche, concezioni collettive, trasfigurazioni letterarie e implicazioni sociali. Questo è in particolar modo
vero per quei disturbi dell’umore etichettati lungamente con i termini
‘melanconia’ (e ‘melancolia’) o ‘malinconia’.
5.
La mélancolie genera i propri segni, ha un suo inchiostro: né, altrimenti, lo storico potrebbe interessarsene32. E fin dalla tesi per il titolo di dottore in Medicina, completata nel 1959 presso l’Università di Losanna, ricostruire la storia del suo trattamento, dall’antichità greca al Novecento, è
31 Sul tema ha molto insistito Ian Hacking parlando di un looping effect di quelle categorie
che ‘etichettano’ gli esseri umani (tra i molti lavori sul tema, si veda: Ian Hacking, Plasmare le
persone. Corso al Collège de France (2004-2005), a cura di A. Bella e M. Casonato, QuattroVenti,
Urbino 2008). Si accetti o no l’intera impostazione di Hacking, pare difficile negare che vi siano
alcune condizioni umane (patologiche o fisiologiche) che sono influenzate e trasformate in modo
e in misura peculiare dalle credenze diffuse (nella società e/o tra gli specialisti) a proposito di
quelle stesse condizioni: tali credenze, cioè, possono contribuire in misura significativa a modificare i propri oggetti.
32 J. Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014 (si veda anche: Id., La
coscienza e i suoi antagonisti, Theoria, Roma-Napoli 1995). Come Starobinski ha notato (parlando della nostalgia): “Per il critico, per lo storico, un sentimento non può essere oggetto di studio
se non dopo la sua comparsa nella scrittura” (L’invenzione di una malattia, in: Id., L’inchiostro
della malinconia, cit., p. 207).
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stato uno dei fulcri della ricerca di Starobinski33. Ove, naturalmente, per
‘trattamento’ non si dovrà intendere soltanto l’insieme delle procedure terapeutiche messe a punto nelle diverse epoche per intervenire sul soggetto ritenuto melancolico, ma la complessiva concezione che le varie epoche
si sono fatte di certi soggetti che manifestano una tristezza anomala: una
tristezza profondamente intrecciata con molteplici aspetti, somatici e psichici, dell’individuo e che, forse, esaspera o radicalizza tratti psicologici in
sé profondamente umani34. Del resto, come ha notato Fernando Vidal,
l’obiettivo principale (e sui generis) di Starobinski in quest’ambito è sempre stato quello “d’explorer les relations entre des états corporels et psychologiques, les concepts qui les désignent, les expériences où ils s’enracinent et leurs contextes culturels, le tout abordé principalement à travers
des oeuvres littéraires qui expriment et transcendent ces états et ces expériences”35. Così, Starobinski, fin da proprio saggio incipitale in materia,
disegna un itinerario nella malinconia che va dagli scritti ippocratici a Galeno, a Pinel ed Esquirol, ma anche da Omero a Seneca, da Ildegarda di
Bingen a Robert Burton e che non cesserà di ampliarsi nel tempo (si pensi, tra i molti, agli studi dedicati a Baudelaire). Tutto questo, sempre avendo a cuore il divenire storico delle categorie nosografiche e dunque come
“da un’epoca all’altra, non soltanto si modificano le terapie, ma non sono
neppure identici gli stati designati col nome di malinconia o di
depressione”36.
Occorre ricordare che Starobinski si cimentava con una prima approssimazione alla storia del trattamento della malinconia negli anni in cui,
per altri versi, aveva avuto modo, di lavorare all’Ospedale psichiatrico
universitario di Cery-Lausanne e di osservare i primi passi nell’uso terapeutico degli antidepressivi triciclici, e in particolare dell’imipramina
(commercializzata come Tofranil). Egli potè così, tra l’altro, cogliere e va33
Si veda ora: J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia, cit., pp. 3-121.
Come Starobinski annota, trattando del Corpus Hippocraticum: “Ridotta alla sua giusta
proporzione, la ‘malinconia’ è uno degli ingredienti indispensabili della crasi che costituisce lo
stato di salute. Non appena essa diventa preponderante, l’equilibrio è compromesso e ne consegue la malattia. Come dire che le nostre malattie procedono dal disaccordo dei medesimi elementi dei quali si compone la nostra salute” (J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia,
cit., p. 10). Sulla malinconia nel mondo classico, si veda ora anche: Donatella Puliga, La depressione è una dea. I romani e il male oscuro, Il Mulino, Bologna 2017.
35 Fernando Vidal, Jean Starobinski: historien de la médecine?, “Bulletin du Cercle d’études
internationales Jean Starobinski”, 8, 2015, p. 6.
36 J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia, cit., p. 5. Sulle analogie e le differenze tra la malinconia degli antichi e la depressione dei moderni, si sofferma: Matthew Bell, Melancholia: The Western Malady, Cambridge University Press, Cambridge 2014, cap. 1.
34
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lutare in prima persona la dialettica articolata che spesso si crea in questo
tipo di interventi farmacologici tra benefici clinici ed effetti collaterali37.
Ecco allora che la capacità di leggere una condizione di malattia nella
sua integralità, chiamando in causa le risorse distinte della fisiopatologia,
della farmacologia e della clinica, ma anche della ricostruzione storica,
dell’analisi testuale e della critica letteraria, costituisce per Starobinski,
ancor prima che una teorizzazione metodologica, il frutto di un percorso
esistenziale che lo ha visto assimilare in prima persona metodi, formae
mentis e vocabolari diversi. Perché, al cospetto delle patologie umane,
ciascuna di queste risorse è necessaria, ma, in sé sola, non esauriente38.
Questo almeno se ciò a cui si mira è una semeiosi integrale, cioè una capacità sempre più piena di cogliere, decifrare e collegare i segni che, su
piani irriducibilmente differenti, ogni persona malata genera, manifestando la propria malattia: malattia che può così assumere l’aspetto di un testo stratificato.
Bisogna poi riconoscere che il fascino e la ricchezza dell’opera di Jean
Starobinski si deve anche al fatto che egli ha contribuito a questo approccio integrale alla condizione umana di malattia con il continuo sondaggio
storico-critico, più che con la teorizzazione sistematica. Per questo, l’eredità metodologica dei suoi scritti, piuttosto che essere irrigidita in formule
e prescrizioni, può essere fatta rivivere, a partire da Starobinski ma senza
improbabili imitazioni, soprattutto con nuovi sondaggi e nuove indagini
che contribuiscano a una lettura articolata e multidimensionale delle patologie degli esseri umani e della loro storia39.
In questa prospettiva, non si tratterà di illudersi che sia possibile, o anche solo desiderabile, superare la fondamentale pluralità e eterogeneità di
37
Nel bel discorso per il conferimento del premio Merck-Serono, Starobinski ha ricordato,
con riferimento agli anni 1957-1958: “l’imipramina […] era appena stata immessa sul mercato e
la sua efficacia era apprezzabile: i grandi depressi uscivano quasi miracolosamente dalla loro prostrazione. Tuttavia, questo farmaco ci obbligava a tenere rigorosamente sotto controllo i suoi effetti collaterali, perché con il ritorno della mobilità e dell’istinto a muoversi si assisteva a un risveglio degli impulsi suicidi. Insomma, per alleviare la sofferenza della depressione si sarebbero resi
necessari ulteriori progressi” (J. Starobinski, Medicine per l’anima, “La Repubblica”, 8 luglio
2009, p. 44; il testo apparirà poi in traduzione inglese su: “The Hudson Review”, 65, 2012, ed è
accessibile on-line, alla URL: https://hudsonreview.com/2013/02/on-receiving-the-merck-serono-prize/#.XqyQwS1aYkh).
38 Come è stato osservato, dalla propria iniziale pratica della medicina Starobinski “avrebbe
fra l’altro imparato a distinguere ciò che, nell’uomo, è accessibile a un approccio biologico da
quanto risulta irriducibile a un sistema di oggetti naturali” (Claudio Pogliano, Jean Starobinski,
“Belfagor”, 45, 1990, p. 174).
39 Starobinski ha tra l’altro parlato di “incubo dell’ortodossia metodologica” (J. Starobinski,
Tre furori, cit., p. 8).
LA MALATTIA COME TESTO
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linguaggi, pratiche e metodi che caratterizza l’età moderna, attraverso
commistioni che portino a confonderli in un tutto ibrido, a riunificarli in
un quid indistinto. Si tratterà, però, proprio a partire da questa irreversibile diversificazione e potente specializzazione, di evitare che la crescita
degli strumenti conoscitivi si traduca paradossalmente in una frammentazione che impoverisce la conoscenza effettiva che il ricercatore o il clinico
hanno dell’uomo e delle sue patologie, poiché sono stati elusi tutti quegli
aspetti che, volta a volta, non rientrano nei confini della propria disciplina
di elezione. È, dunque, proprio la inedita articolazione e frammentazione
del sapere odierno che rende ancor più desiderabile lo sviluppo di un approccio che permetta di accostarsi a fenomeni come le malattie umane,
avvalendosi degli apporti di più discipline, più livelli di analisi e più vocabolari, senza per questo smarrire le distinzioni.
Un serio tentativo di semeiosi integrale richiederà, allora, di far interagire quanto, per lo più, non è già abitualmente messo in correlazione,
quanto spesso appartiene oggi ad ambiti differenti, ciò di cui si occupano comunità scientifiche ben distinte e che interpella metodi o strumenti di analisi alternativi o, non di rado, reciprocamente estranei. Saranno
richieste, cioè, la libertà e l’azzardo di trasgredire i confini prestabiliti
degli specialismi istituzionalizzati: non attraverso il dilettantismo, ma attraverso la pratica e la padronanza di più specialismi. Realisticamente,
un simile sforzo non potrà condurre il singolo studioso ad una uguale
prossimità rispetto a tutti i saperi che concorrono a formarlo, né ad una
padronanza, ad una pratica e ad una valutazione del tutto paritaria dei
diversi codici e delle diverse discipline chiamate in causa dal proprio lavoro. Del resto, anche quello che è stato opportunamente chiamato il
“bilinguismo” di Starobinski e che gli permetteva di padroneggiare tanto le risorse della tradizione umanistica, quanto quelle della pratica medica può essere giudicato, per alcuni versi, “imperfetto”40. Eppure, qualunque ‘bilinguismo’ o ‘poliglottismo’, per imperfetto che sia, dischiude
una possibilità di comprensione e interpretazione dei fenomeni e dei testi che rimane, invece, inevitabilmente preclusa al più sofisticato dei
‘monoglotti’.
40 Claudio Pogliano, con analisi raffinata (Il bilinguismo imperfetto di Jean Starobinski, “Intersezioni. Rivista di storia delle idee”, 10, 1990, pp. 171-183), ha sostenuto che, nel complesso,
quello di Starobinski sarebbe appunto un “bilinguismo imperfetto”, almeno nel senso che egli
mostrerebbe una maggiore inclinazione personale verso le risorse offerte dalla letteratura (rispetto a quelle proprie della scienza) e anche la convinzione che esse possano dispiegarsi al meglio
proprio in un’età in cui è giunto a maturazione l’approccio alla natura della scienza e della tecnica (si vedano le pp. 180-182).
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In questo senso, è particolarmente significativo che sia stato lo stesso
Starobinski a riconoscere in una sorta di ‘binocularità’ il tratto distintivo
della propria fisionomia intellettuale: “questa specie di visione binoculare
– un occhio sulla medicina e lo sviluppo della scienza e l’altro sull’avventura intellettuale dell’uomo europeo e le sue espressioni letterarie – è stata
la mia forma di vita, la mia forma di pensiero”41. L’analogia, come ogni
analogia, si adatta solo in parte ad esprimere la coesistenza e l’interazione
di due repertori di sapere in uno stesso studioso. Ma è il caso di ricorrevi
una volta di più, almeno per ricordare una circostanza non scontata: che
questa “visione binoculare” consenta di vedere a più ampio raggio, di
scorgere e collegare quanto sfugge ad altri sguardi e di decifrare più in
profondità quanto rischiava altrimenti di restare insignificante o incompreso, l’itinerario intellettuale di Jean Starobinski non l’ha affermato, l’ha
mostrato.
41 J. Starobinsky, La maschera e l’uomo, cit., p. 15. Fernando Vidal ha opportunamente caratterizzato il lavoro di storico delle idee di Starobinski come “un ‘entretissage’ de domaines du
savoir” (F. Vidal, Jean Starobinski: historien de la médecine?, cit., p. 4). Sul tema della binocularità in Starobinski, si veda anche: Aldo Trucchio, Jean Starobinski e la storia della medicina, “S&F_
scienzaefilosofia.it”, 11, 2014, pp. 84-101, accessibile on-line alla URL: https://www.scienzaefilosofia.com/wp-content/uploads/2018/03/res679415_09-TRUCCHIO-11.pdf.