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Il tema della malattia in Svevo e Woolf

2022, Paper letteratura comparata

La Prima Guerra mondiale, che si cicatrizza nell'immaginario europeo come la Grande Guerra, dissolve nell'arco di pochi anni antichi assetti politici e sociali, tradizionali consuetudini di vita, maniere condivise di osservare il mondo.

Introduzione. La Prima Guerra mondiale, che si cicatrizza nell’immaginario europeo come la Grande Guerra, dissolve nell’arco di pochi anni antichi assetti politici e sociali, tradizionali consuetudini di vita, maniere condivise di osservare il mondo e di pensare la vita e la morte, il tempo e lo spazio, le emozioni e le idee. Un’Europa bimillenaria sembra sgretolarsi all’improvviso: nulla è più come prima. Tramontato definitivamente il Positivismo ottocentesco, prevalgono ora sensazioni di stanchezza, introversione e tormento. Il Novecento si apre con questi problemi: il nuovo secolo inizia mostrando un’inquietudine e un disordine che si intensificherà durante, ma soprattutto dopo la Prima Guerra mondiale, in un clima di trasformazioni e di tensioni si assiste allo scardinamento delle certezze positivistiche. In verità, già diversi anni prima, alcune straordinarie invenzioni avevano segnato il passaggio tra Ottocento e Novecento, il passaggio non avvenne in modo drastico e radicale. I voli dei fratelli Wright, nel 1903, inaugurano l’era dell'aeroplano, nel 1901 Guglielmo Marconi dà vita al primo contatto radio transoceanico. Invece, sul versante dei mezzi di trasporto, automobili e ferrovie contribuirono a relativizzare i concetti di “vicino” e “lontano” decretando il nuovo mito della velocità. Queste innovazioni avevano impresso una violenta accelerazione alle comunicazioni, alla fantasia, e più semplicemente al modo di vivere di migliaia di persone. Inavvertitamente il tempo diventa fulmineo, diventa troppo breve, si dilata e paradossalmente si contrae su sé stesso, anche lo spazio sembra ridursi via via che gli spostamenti si fanno più rapidi. Il concetto di tempo subisce una profonda rivisitazione, non si tratta più di “tempo della fisica” ma si fa riferimento al “tempo della coscienza”, l'idea del tempo oggettivo e misurabile si indebolisce. È già negli ultimi decenni dell’Ottocento che il filosofo francese Henri Bergson, aveva opposto all’idea di un tempo irreversibile, scandito meccanicamente dalle lancette dell’orologio, il tempo della coscienza, ponendo l’accento la duratadi quest’ultimo. Difatti, non si tratta di un tempo quantitativo bensì qualitativo, in cui i momenti non sono identici tra di loro e in più, non sono misurabili; il tempo si presenta come un flusso, un groviglio in cui interagiscono tra loro dimensioni del passato, del presente e del futuro. Bergson è stato una figura fondamentale all’interno del romanzo modernista, con la sua teoria che soggettivizza la categoria temporale, scinde il tempo storico dal tempo psicologico, scinde la categoria soggettiva del tempo da quella oggettiva. Inoltre, Bergson introduce l’idea secondo la quale il tempo scandito dalle lancette dell’orologio non è lo stesso per ciascun individuo. Il modo in cui il tempo viene percepito cambia. Un lasso di tempo molto vasto o molto breve possono essere contratti o estesi in uno spazio della coscienza o della memoria a seconda dell’impatto emozionale ed emotivo che quel determinatomomento ha avuto sulla coscienza dell’individuo. Mentre si rivoluziona la concezione spazio-temporale, anche la concezione che l’uomo ha di sé stesso e della sua interiorità subisce una profonda variazione. Il nuovo secolo si apre con una nuova teoria: la psicoanalisi, fondata dal medico austriaco Sigmund Freud, il suo primo saggio degno di nota fu pubblicato nel 1899 con il titolo di Interpretazione dei sogni. La psicoanalisi è la scienza che analizza i processi dell'inconscio, affinché possano essere scoperti e chiarite alcune delle motivazioni più profonde e nascoste dei comportamenti umani. Secondo il medico viennese, in ogni individuo, al di sotto della coscienza, c’è l’inconscio, ovvero l’insieme di contenuti psichici non compresi nel campo della coscienza dell’individuo e che, sono rimossi dalla volontà e riemergono attraverso i sogni, i lapsus, gli atti mancati. Quando l’inconscio e le pulsioni vengono represse bruscamente, possono generare delle forme di alterazione psichica, e dare vita a malattie, fobie, ossessioni. Per curarle, secondo Freud bisogna guidare il paziente a recuperare le esperienze rimosse, in modo da far affiorare i più lontani ricordi: prendendo consapevolezza dei motivi profondi che hanno causato il turbamento. In questo modo, il paziente potrà accertarsi per ciò che è, respingere i sensi di colpa e vivere un’esistenza serena. Difatti, le vere motivazioni di tali disturbi non sono percepibili dall’esterno e nemmeno il paziente stesso riesce a vederli. Le ragioni del malessere, quindi, non risiedono nella coscienza, ma affondano le loro radici in un’area nascosta, sconosciuta che fino ad allora non era mai stata presa in esame: l’inconscio. Questo termine, utilizzato nell’ambito della psicologia, indica la “non-coscienza”, l’“inconsapevolezza”. L’eco sensazionale delle nuove scoperte sconvolge non solo la visione classica di un io unitario e compatto, ma causa una vera e propria rivoluzione letteraria. La dissoluzione dell’io e la crisi del soggetto già presenti nella letteratura di fine Ottocento vengono potenziate dall’avvento della psicanalisi, fornendo una base per esplorare nel profondo la realtà interiore dell’animo umano. Le grandi trasformazioni scientifiche e filosofiche di inizio Novecento influenzarono profondamente anche l’arte e la letteratura esprimendo la crisi dei fondamenti proponendo un nuovo rapporto tra soggetto e realtà. Tuttavia, i primi anni del XX secolo furono un periodo di straordinaria originalità in ambito artistico, è proprio in questi anni che nasce il Modernismo, il risultato di questi profondi cambiamenti. Il termine “Modernismo” si riferisce quindi, ad un movimento internazionale che investe la letteratura, la musica e l’arte occidentale, nella prima decade del ventesimo secolo, è infatti tipicamente associato al periodo della Prima Guerra mondiale. Il fermento di quegli anni favorisce la nascita delle cosiddette avanguardie artistiche che rinnovano l’arte rompendo gli schemi della tradizione. La prima tra le avanguardie storiche europee, quella che apre il secolo in ordine temporale, è il Cubismo che, con il suo maggior esponente Pablo Picasso rappresenta sulla tela, tramite soggetti sfaccettati e astratti, la scomposizione e la ricomposizione mentale della realtà. Gli artisti vollero rompere tutti i ponti con il passato, la guerra aveva distrutto ogni certezza preesistente, che vengono rimpiazzate da un senso di disillusione e frammentazione, per questo motivo si cercavano nuovi campi di investigazione, bisognava sperimentare e creare nuove forme. Difatti, tutti i campi artistici condividevano idee comuni, tra cui l’abbattimento delle limitazioni di spazio e tempo, con la conseguente e radicale distruzione del flusso lineare e coerente. Inoltre, una forte importanza viene data alla soggettività e alla percezione prettamente personale di ciò che accade e viene rappresentato artisticamente. In campo letterario, la crisi spirituale portata dalla guerra si riflette anche nei romanzi: l’incertezza, il cinismo e lo scetticismo verso il concetto di uomo come individuo sono i temi principali della produzione letteraria di quel periodo. La varietà di opere pubblicate in questo periodo prova che artisti e intellettuali preferissero prendere ispirazione da forme artistiche e letterarie antiche, a differenza dei loro predecessori. Gli artisti moderni erano allo stesso tempo classicisti e custodi della lingua, in modo da tenere sempre vivo un dialogo con la tradizione. In particolare, T.S. Eliot e James Joyce, i due scrittori più rivoluzionari del periodo, avevano riscoperto il mito come un mezzo per poter dare senso al presente. Il ricorso ai miti antichi, infatti, era un modo per riportare un ordine nel caos del mondo moderno. Tuttavia, si sente il bisogno di rifugiarsi nella propria interiorità, di concedere più spazio ai processi interiori della psiche umana, all’analisi delle emozioni e dei travagli interiori e lasciando da parte il mondo delle azioni, degli avvenimenti concreti. Il tema dominante è l’esplorazione dell’inconscio, che spesso determina le scelte dei personaggi. A differenza della letteratura ottocentesca, in cui venivano narrate storie in un ordine logico e cronologico, adesso l’intreccio si assottiglia notevolmente, i fatti narrati si intrecciano tra di loro e l’ordine cronologico non viene quasi mai rispettato, lasciando spazio ad una narrazione tutt’altro che lineare. Anche lo statuto del narratore viene modificato, quest’ultimo vuole mettere in evidenza la frammentazione psichica dei personaggi, vuole far comprendere i meccanismi che avvengono nella mente. Infatti, dal punto di vista delle tecniche espressive, prevale la logica della dispersione e del frammento. I personaggi rispecchiano le incertezze dell’uomo moderno, sono confusi, non riescono a trovare un senso all’esistenza, fanno fatica ad adattarsi alla vita. Difatti, la figura centrale di questo nuovo metodo di narrazione è l’inetto, colui che non ha attitudini nello svolgere una certa attività, è un inconcludente. Apparentemente si tratta di un personaggio convenzionale, ma in realtà la sua vita interiore e la psicologica sono molto più complesse di quello che può sembrare dando uno sguardo superficiale. Il contesto storico e artistico analizzato finora farà da sfondo alle opere di molti autori europei, tra cui Italo Svevo e Virginia Woolf, in particolare la realtà dei loro personaggi non è altro che un quid determinato dalla loro coscienza, dalla loro malattia e dalla loro interiorità. È il 27 giugno 1925, Woolf è pronta per il suo nuovo libro, ne conosce già il nome, è interessante come essendo già a conoscenza del nome che darà al suo romanzi, non ne conosca ancora il genere. Non sa ancora cosa sta scrivendo, ne anticipa però il tono: sarà un’elegia, al Faro. Non ha dubbi riguardo a chi l’elegia sarà dedicata. Virginia Woolf scrive per il Faro, dunque rivolta a quella luce. E grazie a quella luce Il Faro è al centro del romanzo. Nadia Fusini, scrittrice e critica letteraria, nella postfazione al romanzo Al faro spiega chiaramente che significato attribuisce Virginia Woolf al dispositivo luminoso, fulcro del romanzo, tanto da riservare al suo libro l’appellativo di elegia, spiega che “il Faro è proprio quello dell’infanzia, delle lunghe estati passate da bambina, con la famiglia, a St.Ives, in Cornovaglia; e al Faro conterrà, difatti, tutti quei ricordi. Come in ogni offerta e ogni elegia avrà a che fare con la nostalgia e la memoria, nell’esercizio del ricordo, la vita tornerà con un’aggiunta di senso”. Woolf, Al Faro, a cura di Nadia Fusini, Feltrinelli, 2014, p.10 La scrittura della Woolf è la scrittura della visione, della sensualità e dell’aura. Nei suoi romanzi, in particolare in questo poco prima citato, tutto è illuminato, tale illuminazione sembra dare alle cose descritte dall’autrice una funzione metastorica, ciò che sostanzialmente accade non è fondamentale, la rivoluzione è in profondità, è un’aspirata apnea. Per quanto riguarda il romanzo del secondo scrittore che prenderemo in analisi, Italo Svevo, nella prefazione della Coscienza di Zeno, il critico Mario Lavagettoriassume le caratteristiche del romanzo, in particolare afferma che: Il mondo di Zeno è un prodotto del suo interminabile borbottio, che procede a zig-zag e non ha legge se non quella della propria procrastinazione, non conosce altra direzione se non quella della scrittura che lo registra e procede, da sinistra verso destra, riga dopo riga e pagina dopo pagina: una scrittura infinibile, in cui la fine può essere continuamente rimandata o anche fissata in un punto qualsiasi del suo percorso, perché è soltanto contingente, e in ogni caso arbitraria. I. Svevo, La coscienza di Zeno e «continuazioni», a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino, 2014, p. 10.  È quindi chiaro quanto i due autori, rompano con gli schemi del passato, cimentandosi, nelle loro opere, in un nuovo stile che riassume alcune delle idee del nuovo secolo, è come se: lungo un arco molto ampio - che va dalla musica alla filosofia, dalla fisica al romanzo fossero stati predisposti dei detonatori che, in rapida sequenza, innescheranno formidabili esplosioni destinate a rivoluzionare i presupposti, i riferimenti e le condizioni stesse di lavoro; a trasformare il modo in cui i singoli pensano sé stessi e il mondo che li circonda. M. Lavagetto, Svevo nella terra degli Orfani, in Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, p.285. 2. La nuova tecnica narrativa: il flusso di coscienza. La lingua è il patrimonio espressivo di cui l’autore si serve per scrivere i suoi testi, lo stile, invece è l’uso particolare ed originale che lo scrittore ne fa, vale a dire l’insieme di scelte sintattiche, lessicali e retoriche che caratterizzano il suo modo di esprimersi. La tecnica narrativa che gli autori modernisti utilizzano nelle loro opere è sicuramente quella che prende il nome di flusso di coscienza o “stream of consciousness”, termine coniato dal filosofo americano William James nel 1890, che definisce il continuo flusso di pensieri e sensazioni che caratterizzano la mente umana, il processo interiore di ogni individuo. Difatti, questa tecnica innovativa è l’elemento fondamentale più visibile del nuovo romanzo psicologico che, accomuna quasi tutti gli autori modernisti, tra cui Italo Svevo e Virginia Woolf. Il monologo interiore di cui si servono i personaggi è certamente il tipo di monologo che nella sua applicazione più radicale si trasforma in “flusso di coscienza”. Sono due tecniche attraverso le quali il narratore fa spazio, sulla pagina, ai pensieri del personaggio, il quale pensa a voce alta, in forma libera. Se i pensieri del personaggio emergono sì sulla pagina, ma sempre sottoposti al controllo logico-razionale da parte del narratore, si parla di monologo interiore. Questa modalità è quella che sia Svevo che Woolf, prediligono nei loro romanzi perché “serve a dare forma, con esattezza e precisione geneticamente provvisorie, a stati d’animo che sono […] informi, cioè senza forma, ambigui, contraddittori” M. Palumbo, Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Carocci editore, 2015, p.136.. Tramite il discorso diretto, il narratore cede la parola ai suoi personaggi registrando le loro parole e dando al lettore l’impressione di essere presente sulla scena in modo da diminuire la distanza narrativa. Attraverso la registrazione del parlato si comprende la loro caratterizzazione, si possono cogliere informazioni sul personaggio che parla, nonostante le diverse omissioni o reticenze segnalate spesso dà segni di interpunzione, espressioni dialettali, ripetizioni, esclamazioni e sgrammaticature. Per quanto concerne Italo Svevo, il primo utilizzo del monologo interiore all’interno del suo percorso letterario avvenne già nel suo primo romanzo Una Vita (1892). All’interno di questo romanzo il monologo interiore costituisce, sebbene non ancora completamente, un mezzo efficace per spostare l’interesse del racconto dai fatti alla loro rifrazione nella coscienza, in particolare nel capitolo XI si legge: Gironzò per le vie della città malcontento degli altri di sé. Avendo l'abitudine quando era agitato di monologare, doveva accorgersi del ridicolo che c'era nella sua ira. Anche nel sogno più astratto una parola precisa pronunziata richiama alla realtà. Egli era giunto a desiderare Annetta, amarla, esserne geloso; ella invece sapeva appena appena quale suono avesse la sua voce. Con chi doveva prendersela? Lo aveva offeso più di tutto la stretta di mano di congedo ch'ella gli aveva dato freddamente e tenendo gli occhi rivolti a Spalati che continuava a parlare! Avrebbe forse voluto ch'ella si mettesse a meditare sulle cause dell'improvviso pretestato malessere? I.Svevo, Una Vita, prefazione di Giorgio Barberi Squarotti, 3. ed., Milano, Bompiani, 1989, p.157. Nel passaggio citato, Svevo considera le cose dal punto di vista stesso di Alfonso Nitti, protagonista del romanzo, ormai deluso. Il ragionamento di Alfonso viene sottolineato nei momenti più vivi attraverso l’uso di esclamazioni, interrogativi e supposizioni. Gli avvenimenti cedono per dare spazio alla riflessione degli stessi che appartengono non solo al narratore ma, ancor di più, al personaggio. L’enfatizzazione dei momenti emotivamente vivi risulta essere maggiormente pronunciata nel secondo romanzo di Svevo, Senilità (1898), dove la narrazione viene filtrata dal punto di vista soggettivo del protagonista: Fatte quelle premesse, l'altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell'istante, al calore dell'occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l'avvenire ch'ella, certo, non avrebbe compromesso. I. Svevo, Senilità, Milano, Dall'Oglio, 1971, p.13. Anche in questo caso, i fatti si intrecciano al giudizio dell’autore, in particolare, l’esclamazione che viene inserita nel testo, non appartiene più al narratore bensì al protagonista Emilio Brentani. Questo breve estratto del romanzo evidenzia una progressione introspettiva che si addentra man mano nei pensieri del protagonista. Il narratore diventa complice del suo personaggio: l’io di Emilio è al centro della scena. Questa efficace tecnica è stata utilizzata da Svevo anche nel suo ultimo romanzo: La coscienza di Zeno (1923). A differenzadei primi due romanzi narrati alla terza persona, l’ultimo capolavoro dell’autore è narrato in prima persona dal protagonista, l’oscillazione tra i pensieri del personaggio e gli eventi che segnano la narrazione che Zeno vive personalmente è ancora meno nitido. L’utilizzo della prima persona, infatti, contribuisce a dare al romanzo l’aspetto di un unico, interminabile monologo interiore, attraverso il quale vengono sistematicamente fatti riemergere dalla mente del protagonista esperienze, riflessioni, emozioni, ma anche luoghi, persone conosciute nel corso della sua vita. Si legge dal primo capitolo intitolato Preambolo: Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre. Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui! I. Svevo, La coscienza di Zeno e «continuazioni», a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino, 2014, pp. 6-7. La differenza, rispetto ai romanzi precedenti è subito visibile, già sul piano della finzione letteraria: il diario che, su consiglio dello psicanalista, Zeno Cosini, comincia a redigere, non è l’esatto equivalente del libero fluire del libero pensiero sul lettino dell’analista, la mediazione della scrittura impone che i contenuti della mente vengano sottoposti al vaglio della ragione e della coscienza. In questo modo le associazioni del pensiero vengono ordinate in un discorso logicamente e sintatticamente più coerente. Zeno, attraverso il suo monologo, che in verità è il frutto di una riflessione che verrà messa su carta, ricostruisce aspetti della sua vita, traccia il percorso della sua esperienza personale, aggiungendo i ritratti di personaggi che hanno fatto parte della sua esistenza, dà vita a scene ordinate e consequenziali. Durante il corso del romanzo, non è il solo germinare dei suoi pensieri che determina la narrazione in uno scorrere casuale e poco ordinato, il personaggio tenta di costruire un discorso in modo logico e coerente, selezionando i temi da trattare. L’idea che il flusso dei suoi pensieri venga messo per iscritto è un dato fondamentale poiché presuppone un inevitabile controllo, ciò che viene scritto non emerge immediatamente dal profondo di chi evoca e scrive i fatti narrati. Zeno rimuove, censura, modifica il reale secondo i suoi fini. Inoltre, il diario che Zeno redige è destinato ad un altro personaggio, il dottor S., l’esistenza di un destinatario obbliga ad un controllo più attento, si può definire come un “filtro ingannevole e perfino deformante” M. Palumbo, op.cit., p.136. che modifica il flusso spontaneo dei contenuti della mente del soggetto che evoca le sue esperienze trasformandole. Svevo ha creato con Zeno Cosini un personaggio fittizio, non si è sicuro che la sua parola sia veritiera, se ciò che narra non sia solo frutto della sua immaginazione, infatti, durante la narrazione, “la rappresentazione della bugia, […] non presenta particolari difficoltà se il narratore è onnisciente e se può contrapporre la sua parola vera a quella falsa […]. La menzogna, in tal caso, è precisamente localizzata e circoscritta da ciò che la contraddice e la denuncia” I. Svevo, La coscienza di Zeno e «continuazioni», a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino, 2014, p.13. . Nonostante il carattere fittizio e poco affidabile del personaggio, di cui il lettore non può fidarsi ciecamente, “non c’è una parola, non un gesto compiuto da Zeno narratore e da Zeno personaggio che non si delinei come residuo, come un epifenomeno dell’inconscio” Ivi., p.16. sebbene sia implicato il filtro della scrittura. Tuttavia, anche i personaggi dei primi due romanzi di Svevo hanno un legame con la scrittura, Alfonso Nitti scrive una lettera a sua madre e inoltre nel corso delle sue vicende tenta di impegnarsi nella composizione di due opere: un trattato e un romanzo, non riesce però a concludere il progetto, le idee evaporano e il prodotto resta mediocre. Anche Emilio Brentani “ha alle spalle un passato improduttivo di romanziere” M. Palumbo, Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Carocci editore, 2015, p.173., nel corso Senilità il lettore viene a conoscenza del fatto che il protagonista aveva iniziato la stesura di un romanzo in cui si narravano le vicende di un giovane artista. Diversamente da Alfonso e Emilio, per Zeno Cosini “scrivere è […] l’atto costitutivo del romanzo, che coincide esattamente, nella forma che esso prende […] alla cura psicoanalitica” Ivi., p.175.. Il romanzo, che prosegue tramite il monologo interiore di Zeno, riedifica gli episodi salienti della sua vita.La coscienza di Zeno non è divisa in capitoli che seguono un ordine cronologico, bensì avanza attraverso un ordine tematico, e va avanti e indietro nel tempo che preso in considerazione. Spesso, il narratore, ripropone gli stessi episodi secondo i punti di vista espressi in momenti diversi della sua vita. La crisi di identità del personaggio si riflette quindi, anche nella novità della struttura del romanzo: disfacimento dell’identità del personaggio, disarticolazione dell’ordine cronologico, contaminazione del tempo. Nell’opera di Svevo, quindi, la pratica della scrittura riesce a raggiungere due scopi, uno personale e uno letterario, come “ricordo e interpretazione delle fasi della propria vita” Ivi., p.169.. Per Svevo, infatti solo l’atto della scrittura rende il soggetto consapevole della propria esistenza, sebbene nel caso di Zeno Cosini sia un procedimento troppo spesso distorto da questa stessa pratica, infatti “la penna non sostituisce la vita, ma la vita ha bisogno della penna Ivi., p.18”. In generale, “per Svevo, lo scrittore annota le parole ei segni, scribacchiando accanitamente i pensieri sopra i suoi fogli e accatastandoli secondo un ordine del tutto libero” Ivi., p.123. Come si è anticipato all’inizio del paragrafo, anche Virginia Woolf si serve di strategie narrative che vengono etichettate come “stream of consciousness” che, a loro volta, come si è visto per Svevo, possono essere utilizzate in maniera diversa. Virginia Woolf è un’autrice poliedrica, scrive saggi, recensioni, romanzi, racconti, diari e per questo motivo, utilizza tutte le varietà del flusso di coscienza: il monologo interiore in modo da registrare i pensieri del personaggio rivolgendosi a se stesso, il discorso diretto e indiretto, la coscienza pluripersonale, lo slittamento della prospettiva e ancora il flusso di coscienza fatto dal narratore onnisciente, non più in riferimento a ciò che accade all’esterno ma in riferimento alla vita psichica e interiore. L’autrice inglese è pienamente consapevole dei cambiamenti nel modo di scrivere e di narrare del suo tempo, e desiderosa di mettere in pratica nei suoi scritti ciò che è arrivato a lei attraverso l’esperienza del passato e del presente. Infatti, la scrittura di Woolf è “pensata per interrogare il mondo, […] si ritrova incagliata in un mondo within, uno spazio in penombra, […] a tratti familiare a tratti ignoto in cui avanzare a tentoni” R. Bonadei, Disarticolando "io". Virginia Woolf e le stanze della scrittura in: La Tipografia nel salotto. Saggi su Virginia Woolf, a cura di O. Palusci, Tirrenia Stampatori, Torino, 1999. In un suo famoso saggio, Modern Fiction (1919), che segna il nuovo modo di fare letteratura, si definisce il ruolo del romanziere, come un osservatore di ciò che si trova all’interno, come un trasmettitore di ciò che si trova nella mente dell’uomo Difatti, soprattutto nei suoi romanzi, abbandona la narrativa lineare per lasciare spazio ad una tecnica che esplora molto sottilmente la personalità umana. Come l’autrice spiega nel suo saggio: La mente riceve una miriade di impressioni –triviali, fantastiche, evanescenti, o incise con l’acutezza dell’acciaio. Da ogni parte arrivano, una pioggia incessante di innumerevoli atomi; e, man mano che cadono, man mano che assumono la forma della vita del lunedì o del martedì, l’accento cade in maniera diversa da una volta; il momento di importanza è giunto non qui ma là; cosicché, se lo scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere ciò che sceglie, non ciò che deve, se potesse basare il suo lavoro sul proprio sentire e non sulla convenzione, non esisterebbe trama, né commedia, né tragedia, non intreccio d’amore o catastrofe nello stile accettato, e, forse, non un singolo bottone cucito alla maniera dei sarti di Bond street. V. Woolf, Modern Fiction, in S. Greenblatt (a cura di), The Norton Anthology of English Literature: The Major Authors, Vol.2, London, W.W. Norton & Company Ltd., 2018, pp. 1174 (traduzione in italiano) L’autrice ha una visione progressista, la pratica contemporanea è infatti un miglioramento di quella precedente. Gli autori della generazione antecedente vengono etichettati come materialisti, poiché descrivono il mondo delle cose, prendono in esame la vita nelle sue sfaccettature materiali, lasciando da parte l’essenza dell’animo e della sua interiorità. L’obiettivo dello scrittore, adesso, è dare vita allo spirito interno, porre l’interesse sulla psicologia dei personaggi e non sulle loro azioni. Non a caso il nome per indicare questi autori è quello di spiritualisti, in contrapposizione agli autori che avevano caratterizzato la letteratura ottocentesca. Virginia Woolf era interessata a dare voce al complesso mondo interiore, fatto di emozioni, sensazioni, ricordi, era convinta “dell’inefficacia dell’azione, della supremazia del pensiero” V. Woolf, op. cit. p.208. La personalità umana è vista come un continuo cambiamento di impressioni. Gli eventi che vanno a caratterizzare i suoi racconti e i suoi romanzi, hanno poca rilevanza, ciò che importa in maniera più profonda sono le impressioni dei personaggi, i loro punti di vista personali su ciò che vivono. Affinché il mondo interiore dei personaggi possa essere ben rappresentato, Woolf supera l’esperienza del monologo interiore e cerca forme più sofisticate per ritrarre la coscienza. L’autrice non si limita a seguire i pensieri di un unico personaggio, come accade per Svevo, ma affida il flusso di coscienza ad una pluralità di voci che, talvolta sono presenti per tutta la durata del romanzo, talvolta si limitano a brevi istanti, “provando ad intrecciare le esperienze dei vari personaggi, i loro tempi e le loro forme” S. Matetich, In no time, Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf, prefazione di Nadia Fusini, Mimesis Filosofie, 2013, p.33. Ciò che risulta essere molto particolare nell’utilizzo di questa tecnica nelle opere di Woolf, è che spesso è impossibile comprendere la vera identità del personaggio che sta narrando, non si riesce a capire, leggendo, chi sta parlando. In questo modo così preciso e complesso di incrocio di voce non è semplice distinguere o isolare la singola voce del personaggio da quella del narratore, o addirittura, di identificarlo. Al lettore non è sempre chiaro chi sta narrando, se chi parla si sta esprimendo in modo veritiero o se ha una percezione alternativa della realtà in cui vive poiché alcuni dati sono percepiti in modo differente dai vari personaggi, e il narratore non interviene mai per chiarire o garantire la verità. Un chiaro esempio di questa modalità narrativa può essere rintracciato nel romanzo Al Faro (1927) di Woolf, in particolare nella prima delle tre parti di cui è composto il romanzo, intitolata “La finestra” ambientato nella casa delle vacanze della famiglia Ramsay nelle isole Ebridi. Il brano inizia con un discorso diretto con cui sono riportate le parole della signora Ramsay, già le sue prime parole vengono interrotte due volte: dalla vista di William Bankes e Lily Briscoe che passano davanti alla finestra, e dopo alcune parole che si riferiscono all’azione esteriore, si passa alle impressioni che i due personaggi le hanno fatto: «E se domani non è bello», disse la signora Ramsay, alzando gli occhi su William Bankes e Lily Briscoe che passavano, «ci andremo un altro giorno. E ora.», disse pensando che il fascino di Lily stava in quegli occhi cinesi, messi sghembi nella pallida faccia grinzosa, ma ci voleva un uomo intelligente per vederlo; «e ora alzati su, fammi misurare la gamba» -perché alla fine magari sarebbero riusciti ad andare al faro. V. Woolf, Al Faro, a cura di Nadia Fusini, Feltrinelli, 2014, p.29 In questo famoso passaggio, la signora Ramsay sta lavorando al calzerotto marrone da donare al figlio del guardiano del faro, mentre è intenta a misurarlo a suo figlio James, il bambino non riesce a stare fermo, improvvisamente alza lo sguardo e si ritrova a pensare alla sua relazione con le cose inanimate, dando il via a una lunga parentesi con la sua descrizione degli oggetti della stanza in cui si trova: […] prese il calzerotto color dell’erica, col suo incrocio d’aghi all’imboccatura, e lo misurò alla gamba di James. […] alzò gli occhi- quale demonio s’era impossessato del suo piccolo, il suo prediletto? - e guardò la stanza, guardò le sedie, e pensò che fossero spaventosamente logore. L’imbottitura, aveva detto Andrew l’altro giorno, invece che dentro stava fuori, sul pavimento. […] i libri, pensò, crescevano da soli. Non aveva mai tempo di leggerli. Peccato! Anche i libri che le venivano regalati con tanto di dedica dall’autore: “A colei i cui desideri sono legge…”, “Alla più felice Elena dei nostri tempi…”, si vergognava di dirlo, ma non li aveva mai letti. […] Ivi., p.30. Segue una seconda parentesi che inizia quando il calzerotto che la signora Ramsay ha misurato a suo figlio risulta essere troppo corto: «È troppo corto» disse, «troppo corto». Mai nessuno ebbe l’aria tanto triste. Amara e nera, a metà strada, giù nelle tenebre, nel canale che portava alla luce del sole nell’abisso, si formò una lacrima; una lacrima cadde; le acque si agitarono in differenti direzioni, l’accolsero, e si placarono. Mai nessuno ebbe l’aria tanto triste. Ivi., p.32. Ancora una volta non è ben chiaro chi stia parlando, chi stia guardando la signora Ramsay in quel momento o chi abbia constatato che nessuno aveva mai avuto un’espressione così triste. L’autore, ovvero il narratore di fatti obiettivi, passa completamente in secondo piano, tutto ciò che è detto, è semplicemente il riflesso della coscienza dei personaggi, senza nessun filtro regolatore, senza nessun chiarimento, il flusso della mente dei personaggi scorre inarrestabile lungo le pagine. Difatti, la prova del calzerotto è l’unico dato concreto in una serie di pagine in cui non accade nulla di tangibile, in cui non viene descritta nessun’altra azione palpabile: In questa azione di poca importanza si intrecciano continuamente altri elementi, che senza interromperla richiedono molto più tempo ad essere raccontati di quello che può essere durata essa stessa. Si tratta prevalentemente di moti interiori non soltanto dei personaggi che partecipano all’azione esteriore, ma anche di quelli che non vi prendono parte o non sono presenti. E. Auerbach, Mimesis ilrealismo nella letteratura occidentale, Piccola Biblioteca Einaudi, 1956, p.308. La Woolf trascrive i pensieri della signora Ramsay così come le scorrono nella mente, in un determinato momento. Quello che la Woolf intende fare nei suoi romanzi è “afferrare[…] quella scossa nei nervi, la cosa stessa prima che si trasformi in qualunque altra cosa” V. Wolf, op. cit. p.205. L’autrice non interviene mai lungo la narrazione per apportare modifiche o correzioni riguardo ciò che i personaggi da lei ideati sentono e provano, infatti “la presa di posizione dell’autore, di fronte alla realtà che ritrae […] è completamente diversa dall’atteggiamento di quegli scrittori che interpretano le azioni, le situazioni e i caratteri dei loro personaggi” E. Auerbach, op. cit, p. 319.. La fiducia obiettiva e la conoscenza sicura dei personaggi ottocenteschi che avevano accomunato autori come Balzac, Dickens e Zola, sono quasi del tutto svanite per lasciare spazio a tecniche più libere e più profonde che non si limitano a descrivere superficialmente le azioni svolte e vissute dai personaggi ma che scavano all’interno della loro essenza più intima, delineandone gli effetti che queste hanno sulla mente. 3. La malattia. Un’altra tematica comune ai due autori è quella della malattia. Difatti, “la nevrosi e con essa, la scrittura, si intreccia […] inestricabilmente con le condizioni della vita moderna” M. Palumbo, Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Carocci Editore, 2014, p.143. . La letteratura non può che ritrarre la vita, ma quest’ultima è malata. Tuttavia, la malattia non è rappresentata come un problema fisico, è considerata come una metafora esistenziale già a partire dall’Ottocento, infatti il primo male che diventa l’immagine di una sofferenza interiore è la tubercolosi, malattia della quale soffrono molti personaggi nell’immaginario artistico. Successivamente, la malattia come problema fisico, lascia spazio ad espressioni come la debolezza, il malessere e il disfacimento, ormai legati ad un disagio nei confronti della vita, infatti, “la nozione stessa della malattia si complica e si trasforma. Non si identificherà più con il caso patologico, l'eccezione prodotta da una causa riconoscibile, e perciò eliminabile. Si tratterà piuttosto di una malattia simbolica” Ivi., p.151.. Quando Svevo parla di malattia, non fa riferimento alla tubercolosi, bensì ad una malattia interiore e morale, un disagio spirituale, uno scambio tra malattia del corpo e malattia dell’anima. I sintomi non sono fisici, non sono esterni ma sono manifestazioni interiori: un disadattamento rispetto alla vita che diventa più acuto nelle occasioni di contatto con i “sani”. Si accosta, quindi, all’opera di Svevo e di Virginia Woolf, la figura dell’inetto. Il termine deriva dal latino: in-aptum, ossia non adatto, indica un individuo che non possiede attitudini per adattarsi alla vita, è incapace di affrontare la realtà che lo circonda, è un velleitario. Il più famoso anti-eroe della narrativa italiana novecentesca è proprio Zeno Cosini personaggio nato dalla penna di Italo Svevo. In realtà, “la genealogia dell’inetto si arricchisce” Ivi., p.147. e trova il suo culmine nel personaggio di Zeno, che nasce dall’evoluzione dei primi due protagonisti di Svevo, infatti, il filo conduttore dei tre romanzi di Svevo è il tema dell’inettitudine che accomuna tutti i suoi personaggi che però ricorrono a soluzioni differenti per far fronte alla loro situazione. Il fastidio e la repressione nei confronti del reale sono sensazioni che prova anche Alfonso Nitti, giovane impiegato di banca che coltiva sogni letterari. La grande distanza che intercorre tra i suoi sogni e la dura realtà quotidiani determina la sua sconfitta esistenziale che è così dolorosa da indurlo a suicidarsi. Il romanzo Una vita, sebbene ancora tradizionale per certi aspetti, è centrato sulla vicenda del fallimento del protagonista, non riuscendo ad accordare il mondo della realtà con i sentimenti e con le aspirazioni. Allo stesso modo, Emilio Brentani, protagonista di Senilità, “si trova scisso in due” Ivi., p.147. e sembra fare di tutto per non vedersi com’è realmente e per evadere dalla realtà. A differenza di Alfonso Nitti, Emilio non arriverà al suicidio, ma decide di sottrarsi alle responsabilità della vita scegliendo per sé una condizione di vecchiaia psicologica, rinuncia a vivere per osservare al di fuori, conservando nel ricordo ciò che ha vissuto. Come suggerisce il titolo del romanzo, Emilio resterà in una condizione di senilità precoce che, più che vivere si guarda vivere. Sia in Una vita che in Senilità, la malattia e l’inettitudine dei personaggi viene contrapposta alla salute degli altri, i normali. Come afferma lo stesso Svevo nel Profilo autobiografico datato 1928: “Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e Alfonso”, ma rispetto ai primi due romanzi, La coscienza di Zeno ribalta la prospettiva del racconto passando dalla malattia alla salute, almeno in modo parziale; si giunge dall’inettitudine, alla lotta, fino ad arrivare al successo. Se Alfonso ed Emilio erano bloccati passivamente nella propria inettitudine, al contrario, Zeno si riscatta dalla sua inferiorità. In realtà, come spesso avviene per Svevo, la scelta del nome conquista un particolare valore: il nome del protagonista risale dal greco xénos che significa straniero o esule. Infatti, il personaggio, nella sua condizione di inetto, è uno straniero alla vita, perché non adatto ad affrontarla. Anche il suo cognome, Cosini, ribadisce questa idea, infatti la scelta nel diminutivo della parola cosa, è fatta quasi per ribadire la pochezza apparente del personaggio rispetto agli altri. La differenza di Zeno, rispetto agli altri due personaggi, si manifesta in una malattia psicosomatica nervosa che in realtà, diversamente da quanto detto precedentemente, include anche dei sintomi fisici, come il difetto nell’andatura, infatti Zeno scrive di sé: “camminavo zoppicando, ma abbastanza disinvolto” I. Svevo, La coscienza di Zeno e le Continuazioni, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, 2014, p.98.. Ciononostante, il suo male è essenzialmente l’incapacità di vivere, l’inettitudine, come lui stesso racconta: “da molti anni io mi consideravo malato, ma di una malattia che faceva soffrire piuttosto gli altri che me stesso” Ivi., p.103.. Zeno tenta di realizzare le sue aspirazioni: smettere di fumo, suonare il violino ma potrebbe “sonare bene se non fosse malato” Ivi., p.116., conquistare l’amore per Ada. Purtroppo, non riesce in nessuno di questi intenti, al contrario, manifesta la sua incapacità di aderire fino in fondo ai propri propositi e ai propri progetti. Il protagonista viene però apprezzato nel ruolo di uomo d’affari, e in quello di buon marito, per come appare agli occhi degli altri e non per come sente di essere veramente. Zeno tenta di curarsi, ma successivamente preferisce di adattarsi alla condizione di malato poiché consapevole della sua inettitudine. Nonostante ciò, inizialmente, Zeno sembra invidiare la salute altrui, soprattutto quella di Ada, sua cognata, e quella di Augusta, sua moglie, per poi evidenziarne le fragilità e l’inconsistenza. In particolare, la salute delle due donne rappresenta il tipico conformismo e perbenismo borghese, a differenza della malattia di Zeno che è il simbolo della coscienza della crisi, della consapevolezza dell’intellettuale che non riesce a adattarsi alla realtà. Quest’uomo, così lontano e così diverso da coloro che si sono affermati nella società, nella sua imperfezione si rivelerà il più adatto a sopravvivere, poiché come lui stesso afferma: “solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi” Ivi., p.164.. La sua natura incompiuta lo metterà in condizione di conformarsi e di adattarsi, meglio degli altri, la sua forza si trova, paradossalmente, nella sua estraneità. Il romanzo, infatti, è “prima di ogni considerazione ulteriore, il racconto di qualcuno che, attraverso il riesame del proprio passato, cerca di guarire dalla propria malattia” M. Palumbo, op. cit. p.185., a differenza degli altri due protagonisti che tentavano inutilmente di combattere la loro condizione, Zeno è un inetto vincente grazie alla consapevolezzadella propria inettitudine, rinuncia alla lotta contro la sua stessa natura e si accetta per quello che è, con serenità e con ironia, come lui stesso afferma: “la malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. I. Svevo, La coscienza di Zeno e le Continuazioni, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, 2014, p.15.” Zeno è cosciente della sua malattia, si rende conto di essere incapace di vivere e di integrarsi nella realtà, ma sa anche che questa malattia è ineluttabile e radicata nell’esistenza. La soluzione per cui Zeno opta, nella speranza di guarire, è la psicoanalisi. L’autore del romanzo “le si accosta attorno al 1911-1912 e, anche se più tardi sperimenterà forti riserve sul suo potenziale terapeutico, riconoscerà che si tratta di una grande invenzione per i romanzieri” Ivi., p. 12. . Il terzo e ultimo romanzo di Svevo, “è un romanzo psicoanalitico, nel senso che senza la psicoanalisi non sarebbe mai stato scritto. La teoria freudiana ne ha condizionato la concezione e la struttura” F. Petroni, Italo Svevo e la letteratura come pratica igienica, Belfagor, vol. 67, no. 6, 2012, pp. 702–712. JSTOR, www.jstor.org/stable/26120828. Ultimo accesso: 29 Apr. 2021.. Così come Svevo, Zeno scrive a fini terapeutici, come suggeritogli dallo psicanalista, ma in realtà si dimostra molto scettico nei confronti di questa pratica, tant’è vero che abbandona la terapia che segue presso il Dottor S. e si dichiara guarito. Infatti, nel capitolo finale del romanzo, quando il dottore lo incita a continuare la cura e ad inviargli altro materiale, “egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta”. I. Svevo, La coscienza di Zeno e le Continuazioni, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, 2014, p.439. Zeno ha una maniera bizzarra di concepire la sua nevrosi, a volte la condanna mentre, molto spesso la utilizza per giustificare le sue menzogne, ma alla fine la considera un punto di forza, ribalta il concetto di sano/malato per dichiararsi guarito e non grazie all’aiuto della psicoanalisi bensì grazie a questa considerazione a cui è giunto. In particolare, come Zeno stesso spiega nelle ultime pagine del romanzo, abbandona la psicoanalisi, poiché ormai, “si trasforma in un nuovo fondamento di scetticismo, una parte misteriosa del mondo, senza la quale non si sa più pensare. Freud non gli serve tanto perché prometta una cura alla propria malattia, una guarigione individuale impossibile in una vita [..] inquinata alle radici.”. Ivi. p.142. Zeno può essere considerato un eroe in quanto egli stesso ha imparato ad accogliere la sua sorte di inetto vivendo con distacco dai problemi che lo circondano, anzi, è giunto alla conclusione che i veri malati siano gli altri, i forti: coloro che si sottraggono all’evoluzione poiché hanno già sviluppato le qualità che servono alla vita, coloro che riescono a viverla senza difficoltà, rinunciando però a quella vera, accontentandosi della vita più bassa. Zeno Cosini è consapevole della sua malattia, “io amavo la mia malattia” Ivi., p.421., scrive, e infatti nonostante la sua condizione non fa di quest’ultima un punto a suo svantaggio, al contrario, la teorizza identificandola comeil prodotto di un secolo malato. A tal proposito, nella parte finale del romanzo, troviamo la sintesi che piega in modo chiaro la sua concezione di malattia: La vita attuale è inquinata alle radici. […] Qualunque sforzo di darci la salute è vano. […] L’occhialuto uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca a chi li usa. […] L’uomo diventa sempre più furbo e più debole. […] L’ordigno crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. I. Svevo, La coscienza di Zeno e le Continuazioni, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, 2014, pp. 441-442. In poche parole, Zeno ci vuole spiegare che la vita stessa dell’uomo è satura di questa malattia interiore: la vera guarigione è saperla accettare. Egli, dopo una vita di propositi falliti, riescenell’intento di guarire definitivamente, poiché propone il ribaltamento del rapporto tra malato e sano, come spiega Matteo Palumbo nel suo saggio: si capisce che le categorie di “forte” e di “debole” non designano più un valore positivo contro uno negativo, ma piuttosto, e fino ad un certo punto, tendono a scambiarsi di segno e di funzione. L’energia dei forti, il loro ordine e la loro chiarezza, è anche, da un altro punto di vista, una semplificazione dei rapporti complessi, mentre la passività degli inetti, il continuo sognare che li contraddistingue, sotto un altro aspetto, è condizione del desiderio. M. Palumbo, op. cit. p.142 Come si è anticipato all’inizio del paragrafo, anche i romanzi di Virginia Woolf si accostano alle problematiche dei primi anni del ventesimo secolo, in particolare grazie al romanzo Mrs.Dalloway (1925) e ai personaggi che lo compongono. Virginia Woolf è quasi sempre associata al nuovo tipo di prosa, essendo anche una fervente femminista ha donato un grande contributo alla letteratura modernista. Come l’autrice stessa scrive all’interno di A Writer’sDiary: “I want to give life and death, sanity and insanity; I want to criticize the social system, and to show itat work atitsmost intense”, vuole donare vita e morte, sanità e follia, criticando il sistema sociale per mostrarlo all’opera nella sua forma più intensa. Il romanzo, pubblicato nel 1925, è ambientato in un’unica giornata e segue, in parallelo, le vicende dei due personaggi principali: Clarissa Dalloway e Septimus Warren-Smith, quest’ultimo, in particolare è “un reduce del primo conflitto mondiale che si appresta a consultare alcuni specialisti” G. Negrello, Dalla diversità al delitto: il lato oscuro di un’opera di Virginia Woolf, Altre Modernità, Università degli studi di Milano, N° 15, 2016, p.84. . Difatti, una delle tematiche più importanti legate a questo romanzo, in particolare al personaggio maschile è “il suicidio, in questo caso strettamente legato alla riflessione sulla malattia mentale.” Ivi., p. 86. Questa condizione è ben descritta dall’autrice poiché lei stessa era consapevole della propria difficile condizione mentale. Come attestano vari suoi scritti privati, Virginia Woolf soffriva di una sindrome maniaco-depressiva e di tendenze suicide, che si erano manifestate sin dall’adolescenza, fino a tentare il suicidio, prima nel 1904 gettandosi da una finestra e poi nel 1913 ingerendo una grande quantità di sonnifero, il Veronal Lo stesso usato da Guido Spier, cognato di Zeno Cosini.. Dopo quest'ultimo episodio e nel “corso dei suoi ricorrenti periodi di depressione giunge agevolmente alla conclusione che quando si tratta dell’animo umano è difficile per tutti, compresi i cosiddetti specialisti, inoltrarsi con risultati confortanti entro una materia scabrosa e sfuggente per antonomasia.” A. Leonardi, Mrs. Dalloway e l’uomo che parlava agli uccelli, in La malattia come metafora nelle letterature dell’Occidente, Stefano Manferlotti (a cura di), Liguori Editore, 2014, p.99. Woolf, infatti, fu ricoverata in cliniche specialistiche, le terapie a cui fu sottoposta tentavano di reprimere, anche in modo feroce, le pulsioni e i desideri di Virginia. In particolare, suo marito Leonard Woolf obbligò sua moglie a periodi di riposo forzato che, il medico Silas Weis Mitchell diede a questa cura il nome di rest cure Letteralmente cura del riposo. , spesso raccomandata a donne nevrotiche. Nel caso della Woolf questa cura non ebbe nessun beneficio, al contrario, inasprì i suoi sintomi. L’orrore della rest cure viene proiettata anche sul personaggio maschile del romanzo, infatti “per sviluppare il personaggio di Septimus, Woolf attinse alla propria esperienza personale: il realismo di questo personaggio, la sua follia quasi tangibile non sono frutto di un fine mimetismo narrativo, ma di un processo profondo di reminiscenza e analisi di una malattia che ciclicamente travolgeva la vita dell’autrice” G. Negrello, op. cit. p.88. . Septimus è spesso pervaso da una rabbia che a volte minaccia l’equilibrio del romanzo. Inoltre, il personaggio fa esplicito riferimento all’aumento di peso: uno degli effetti più evidenti della rest cure. Virginia Woolf affida al personaggio di Septimus “il compito di accogliere dentro di sé sia il tema della follia che quello della morte volontaria.” A. Leonardi, op. cit. p.101. Nel corso della narrazione, Septimus incontra due medici Holmes e Bradeshaw che tentano di determinare il gesto estremo del suicidio che il paziente compirà. Entrambi i medici che Septimus incontra vengono descritti tramite termini caricaturali. Il dottor Holmes viene descritto come ottuso e brutale per quanto concerne il suo rapporto con il paziente. L’altro medico, Bradeshaw, invece è una figura ben più sinistra che è riconducibile alle figure di medici con i quali la Woolf aveva avuto a che fare, sempre pronti a sminuire le malattie mentali, cercando soluzioni poco efficaci. Entrambi i medici a cui si affida Septimus, sottovalutano la sua malattia, cercando soluzioni banali, sminuendo la sua condizione. L’incontro di Septimus con i medici, sottolineano l’incapacità del medico di ascoltare il paziente, la cosa importante è conformarsi alla società, reprimere passioni e sentimenti. L’uomo, infatti, è considerato come forte, controllato. In particolare, Septimus che ha vissuto la guerra, non può lasciare spazio alla manifestazione dei sentimenti. Proprio per evitare un’ulteriore reclusione in clinica, Septimus si ribella e si suicida in un atto assolutamente calcolato poiché consapevole di non volersi conformare alla società. Come si capisce dalle prime righe in cui viene introdotto il personaggio, Septimus non è un alienatoqualunque, è un malato mentale, colpito da quello che successivamente prenderà il nome di shell-shock, ossia shock da granata, legata alla Prima Guerra Mondiale. La sua nevrosi viene percepita dall’interno, tramite i suoi pensieri sconnessi e relazioni strambe. Spesso avverte la presenza di morti, ovvero i suoi compagni di guerra. Il lettore non percepisce immediatamente la caratteristica principale del personaggio, poiché la prima descrizione di Septimus avviene nel momento in cui si descrive lo scoppio proveniente d’automobile al fine di descrivere la sua reazione. Infatti, nelle prime righe in cui Woolf descrive il personaggio, non accenna ai conflitti mentali dei quali soffre: Septimus Warren Smith, who found himself unable to pass, heard him. Septimus Warren Smith, aged about thirty, pale-faced, beak-nosed, wearing brown shoes and a shabby overcoat, with hazel eyes which had that look of apprehension in them which makes complete strangers apprehensive too. V. Woolf, Mrs. Dalloway, E-Bookarama, Edizione Kindle, p.14. (Traduzione: Septimus Warren Smith impossibilitato a passare, lo udì. Septimus Warren Smith, sulla trentina, la faccia pallida, il naso come un becco d’uccello, scarpe marroni e soprabito trasandato, con occhi color nocciola che hanno quel tipo di sguardo apprensivo che rende apprensivo anche un completo estraneo. Quindi, inizialmente il personaggio non esprime i segni dello shock di cui soffre. La vera tragedia della vicenda di Septimus è quella di non essere compreso dai medici a cui si affida, viene trattato come un semplice caso clinico. In questo triste scenario fatto di deliri allucinatori e incomprensioni, il personaggio matura la sua decisione di suicidarsi. L’unico momento del romanzo in cui Septimus sembra sano di mente è poco prima del suicidio, quando le visioni che lo hanno accompagnato per un periodo della sua vita, lo abbandonano e finalmente, per qualche tempo riesce ad essere tranquillo. Quando però il dottor Holmes viene a prelevarlo per internarlo in manicomio affinché potesse essere curato, decide di gettarsi dalla finestra e porre fine alla sua vita, le inferriate di un cancello gli trapassano il corpo. Septimus ha deciso di ricorrere a questo gesto estremo. In conclusione, si può affermare che sia il personaggio di Zeno che il personaggio di Septimus, al fine di guarire dalla loro malattia e considerarsi sani, si affidano a cure mediche con esiti in contrasto, ma che, tuttavia, non conducono i pazienti a nessun beneficio. Difatti, il desiderio di guarigione dei due personaggi non verrà mai soddisfatto dalla pratica medica a cui si sottopongono. In particolare, Zeno Cosini si proclama guarito, non grazie alle cure del suo psicoanalista bensì grazie alla sua difesa, alla sua apparente sopraffazione degli altri. Invece, il personaggio di Virginia Woolf nonostante abbia consultato ben due medici, non raggiunge nessuna soluzione non riesce ad accettare la sua condizione e non vince la sua lotta contro la malattia di cui soffre soprattutto a causa dell’incompetenza dei due dottori.Come Alfonso Nitti, Septimusdecide di porre fine alla sua vita, ricorrendo alla soluzione più estrema che esista: la morte. 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