TRA LE “RUGHE” DELLA PIANURA TREVIGIANA.
IL CONTRIBUTO DELLA TOPONOMASTICA
PER LA RICOSTRUZIONE DEI PAESAGGI ANTICHI
Giovanni Roman
Relazione tenuta il 5 maggio 2017
Molto spesso la toponomastica, scienza dei nomi di luogo, costituisce un
terreno nel quale l’interpretazione dell’evidenza linguistica rappresenta il
frutto di un lavoro esegetico prudente e ponderato. Questa scienza, che
nel nostro paese, tra i tanti studiosi di assoluto livello, ha avuto illustri
rappresentanti nelle persone di Giandomenico Serra, Dante Olivieri, Giovanbattista Pellegrini e Mario Alinei, ha negli ultimi anni ulteriormente
affinato i propri metodi d’indagine fino a proporre interpretazioni sempre
più lucide e razionali. Secondo l’analisi del linguista Mario Raimondi un
toponimo nasce principalmente per descrivere un luogo e la sua utilità sta
nel permetterne evidentemente una distinzione dagli altri, attraverso un
processo linguistico di individualizzazione: cioè, assunto un luogo come
punto di riferimento all’interno di un ambito territoriale, lo si denomina
in maniera tale da essere inteso in modo univoco.
Scrive il Raimondi che “A tale fine la comunità si serve dei meccanismi linguistici propri del lessico comune, ossia utilizza termini descrittivi
del paesaggio circostante (poniamo campo, prato, rocca, piano, ponte) e li
individualizza attraverso l’aggiunta di determinanti di vario tipo: aggettivi
(campo rosso, prato lungo o prato mollo, rocca bruna, ponte vecchio), oppure
sintagmi preposizionali che indicano una relazione con altri elementi del
paesaggio (campo della pietra, campo [alla] chiesa, campo [del] molino), con
la proprietà (ponte [di] Bernardo, prato [di] Guglielmo, rocca [dei] Baldi) o
altro (piano del re, rocca sparvera). Talvolta, l’individualizzazione avviene
semplicemente con l’attribuzione dell’articolo (i prati), quando l’elemento
del paesaggio risulti già di per sé sufficientemente distinto rispetto al contesto e individualizzato”.
Nei suddetti casi le denominazioni di luogo sono ancora da considerare
sul piano dei nomi comuni e la capacità di individuare un luogo preciso
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– e uno soltanto – è conseguenza di un uso interno alla comunità che lo
ha prodotto. Nel passaggio dall’uso interno all’uso più largo – soprattutto
per ragioni amministrative e fiscali – tali denominazioni divengono nomi
propri, assumendo carattere di determinatezza come tratto semantico
interno e legandosi indissolubilmente al luogo che designano. Infatti,
denominazioni come Prati o Prà o Pian del Re, Camporosso, Pratolungo,
Pontevecchio, Roccasparvera, o anche con l’articolo determinativo come
L’Aquila o La Spezia… “non descrivono più il luogo ma lo identificano”.
Molti toponimi dal significato non immediatamente comprensibile –
perlomeno dal parlante comune – sono definiti “opachi” dai linguisti.
Ma se tutti i nomi di luogo hanno all’origine un significato interno alla
lingua che li ha prodotti e collegato al lessico comune, è vero anche che
le lingue cambiano per mutamenti interni ed esterni, storici e culturali.
Cioè, si adottano neologismi per descrivere nuove realtà, si abbandonano
altri termini e si cambia uso e significato di quelli già esistenti. Una lingua
o una parlata dialettale, poi, possono essere soppiantate più o meno rapidamente da altre, perlomeno nell’uso quotidiano. In Italia, per esempio,
le parlate dei principali popoli italici di epoca preromana (Liguri, Celti,
Reti, Veneti, Umbri, Etruschi, Piceni, Sanniti, Apuli, Lucani, Bruzi,
Sardi e Siculi) sono state sostituite dalla lingua latina. Il latino, poi, condizionato dai più antichi sostrati e superstrati linguistici caratteristici dei
suddetti popoli ed in seguito sotto l’influsso linguistico – a seconda delle
zone – di “ospiti” germanici, francesi, provenzali, slavi, greci, catalani,
albanesi e arabi, si è gradatamente trasformato in numerosi esiti romanzi
evolutisi fino ai giorni nostri. A tale riguardo, l’arrivo di nuovi popoli con
lingua e cultura proprie in un territorio di antica antropizzazione come
l’Italia non ha determinato cambiamenti nel modo d’identificare luoghi
che avevano già un nome, ma frequentemente l’assimilazione dei nomi
di luogo esistenti da parte dei “nuovi” popoli. È accaduto che mentre gli
antichi nomi di luogo hanno continuato a essere usati anche in presenza
di un cambiamento linguistico, i nuovi venuti hanno dato un nome nella
propria lingua, per esempio, agli abitati da loro stessi fondati. Sappiamo,
infatti, che tutti i popoli insediati stabilmente sul nostro territorio fin
dai tempi più antichi hanno lasciato tracce della loro presenza e della
loro lingua nei nomi di luogo. Dunque, se è il carattere conservativo dei
toponimi a determinarne l’opacità, spetta al ricercatore, allora, restituire
chiarezza a nomi di luogo che costituiscono tracce di lingue antiche. Per
fare questo si utilizzano mezzi d’indagine che permettono di risalire ai
contesti linguistici nei quali i nomi stessi sono stati prodotti e alla loro
semantica. Gli studi toponomastici si avvalgono delle leggi fonetiche, cioè
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TRA LE “RUGHE” DELLA PIANURA TREVIGIANA
di norme ferree, costanti e coerenti – a parte alcune eccezioni – attraverso
le quali si spiegano, dal punto di vista fonetico, le evoluzioni dei nomi a
partire da una forma originaria. Tali norme, per fare un esempio, permettono di comprendere perché, nell’italiano, la consonante dell’antico
alto tedesco – w, portata da alcuni invasori germanici tra Tardoantico
ed altomedioevo, si sia evoluta regolarmente nel suono - gu in modo tale
che warda e wald si sono trasformati rispettivamente in guardia e gualdo
(bosco). Dunque, ogni tentativo di spiegazione, per essere accettabile,
deve superare una sostenibilità storico-fonetica.1 Se il tempo e i fatti
storici determinano la sovrapposizione di strati linguistici, lo studioso di
toponomastica, analogamente all’archeologo, procede ad uno “scavo” per
cercare testimonianze linguistiche lasciate dai diversi popoli. Poiché, però,
per i nomi di luogo non esistono sistemi di datazione esterni ed oggettivi
– come lo sono, invece, in archeologia la datazione stratigrafica associata a
reperti riconoscibili cronologicamente o quella indicata dall’isotopo 14 del
carbonio – bisogna fare riferimento a caratteristiche interne all’oggetto: il
nome del luogo, per l’appunto, e il suo rapporto con quanto conosciamo
1 “Per fare un esempio, la plausibilità dell’ipotesi che fa derivare il coronimo Maremma dal
lat. MARITIMA ‘marittima, vicina al mare’, si fonda (oltre che sulla verosimiglianza semantica:
la Maremma è una zona effettivamente prossima al mare) su tre ben precise leggi fonetiche proprie del toscano (e quindi dell’italiano), e cioè: 1) la tendenza alla caduta delle vocali postoniche
(cioè nella sillaba successiva all’accento di parola) nei proparossitoni latini, come in OCULUM
> *OCLUM > it. occhio, oppure SONACULUM > *SONACLUM > it. sonaglio; 2) il fenomeno
dell’assimilazione regressiva dei gruppi consonantici inorganici, per cui -PT- > it. -tt- (OPTICUM > it. ottico), -CT- > it. -tt- (LACTEM > it. latte), ecc.; 3) il fenomeno di vocalismo secondo
il quale le -i- brevi latine toniche (cioè accentate) diventano in it. -é- di suono chiuso, per cui
PIRUM > it. péro, SITULAM > it. sécchia. Nel caso di Maremma, supponiamo quindi una serie
di fasi successive MARITIMA > *MARITMA > *MARIMMA > marémma, che concorda con
l’evoluzione storico-linguistica del toscano. Non sempre, ovviamente, il processo è così lineare.
Nell’onomastica in genere (e quindi anche nella toponomastica) intervengono infatti più spesso
che nella lingua comune alcuni fenomeni linguistici di tipo analogico che tendono, ad esempio,
a produrre esiti conservativi laddove l’evoluzione naturale condurrebbe verso altre soluzioni. La
pineta di Classe vicino a Ravenna, per esempio, presenta nella forma attuale il rispetto dell’etimo
latino CLASSEM da cui deriva, laddove invece nelle parlate italiane ci aspetteremmo il passaggio
di CL- iniziale a chi-, come nei tipi CLAVIS > it. chiave o, in toponomastica, (FOSSA) CLAUDIA > ven. Ciòsa (poi italianizzato in Chioggia, VE). Tuttavia, se si spogliano le fonti storiche,
l’evoluzione regolare Chiassi < CLASSIS si ritrova puntualmente nei documenti, ma anche nella
registrazione della forma parlata riportata dal Decameron di Boccaccio, nella novella di Nastagio
degli Onesti, ambientata appunto a Ravenna. La forma conservativa, dunque, deriva da uno dei
due binari della tradizione linguistica, quello scritto, in cui è più probabile la conservazione delle
forme originarie, e che si rapporta ovviamente in modo stretto con la tradizione documentaria
dei toponimi” cfr. Gianmario Raimondi, La toponomastica: elementi di metodo, Torino, Libreria
Stampatori, 2003, pp. 19-20.
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delle lingue che l’hanno prodotto. Di estrema importanza, dunque, ai fini
della formulazione di qualsiasi ipotesi etimologica è conoscere i fenomeni
migratori ed insediativi del passato. Solitamente, infatti, nel processo di
formazione di una lingua si conservano relitti lessicali originari degli strati linguistici precedenti. Tali relitti, quando una lingua cede a un’altra,
indicano soprattutto gli oggetti specifici della cultura materiale. Come
ulteriore accorgimento metodologico per qualsiasi indagine etimologica è
fondamentale, quindi, considerare sempre molto attentamente il contesto
storico-linguistico di riferimento relativo al momento in cui un luogo viene denominato, se si vuole determinare la vera aîti@a del suo nome.
Se nella classificazione di Silvio Pieri le categorie toponimiche sono:
I Da nomi personali, II Piante, III Animali, IV Aggettivi, V Condizioni
del suolo, VI Varie, VII Oscure, tuttavia, l’estensione della categoria lessicale dei nomi personali agli etnici, permette di includere in essa molti
etnotoponimi, relativi cioè alla presenza di etnie o stirpi collegate agli
insediamenti. A volte, però, seguire scrupolosamente queste indicazioni
metodologiche può non bastare. Infatti, qualora alla prova storica dei fatti
la semantica che si ritiene sia attestata dai nomi di luogo si riveli debole o
comunque discutibile ai fini non solo della valutazione di appartenenza ad
una categoria, ma soprattutto di una corretta interpretazione etimologica,
è opportuno procedere per ipotesi attraverso il “filtro” delle altre categorie. Naturalmente, devono essere prese in considerazione le più antiche
attestazioni scritte dei nomi di luogo, riscontrabili su opere letterarie,
pergamene, lapidi, monumenti e oggetti.
La rilettura di un’antica evidenza toponomastica alla luce delle suddette raccomandazioni metodologiche, ha preso spunto da due nomi
di luogo dell’alta pianura trevigiana: Borgo Ruga, parte della frazione di
Paderno (Comune di Ponzano Veneto) e l’antico Campo Rusio (Comune di Spresiano), quest’ultimo non più in uso e corrispondente ad una
località ubicata presso l’attuale frazione di Visnadello. Per quanto riguarda
la prima località, il borgo è così chiamato perché affacciato su una ruga,
voce che in latino ha anche l’accezione di ‘piazza’, ‘villaggio’ e ‘strada’.
Su questa voce Giovanbattista Pellegrini scrive “Tipicamente medievale
per indicare “strada” in Italia è l’arcaismo rūga che già in latino aveva
assunto tale significato attestato dalle Glosse “ruga: rima vel semitula”. Gli
studi più ampi su tale denominazione nelle carte e nella toponomastica
sono dovuti a Umberto Cianciolo e a Paul Aebischer. In Italia il senso
di ‘strada’ è peraltro venuto verosimilmente dalla Gallia ove rūga ‘strada’
è presente fin dal sec. VIII. Il termine appare nella Pianura Padana ed è
stato importato nell’Italia meridionale dai Normanni. Per la sua diffusione
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nella nostra Penisola ha avuto una sua parte il principato d’Antiochia ed
il mondo delle Crociate, secondo l’ipotesi dell’Aebischer”.2 Riguardo alla
seconda località, lo storico trevigiano Carlo Agnoletti riporta che essa “…
olim si diceva Campo rusio dai barbari Rugi, come per altri paesi si è veduta
l’origine da barbari, o per coloni militari”.3 Tuttavia, poiché nessuna fonte
storica o archeologica ha finora avallato la suddetta interpretazione, al
riguardo permane incertezza.
Una mappa del XVI secolo custodita all’Archivio di Stato di Venezia
ha permesso di ubicare la suddetta località, con relativa precisione, a sud
dell’attuale Visnadello. Di incerta datazione, poiché la scritta dell’anno è
lacunosa, tale mappa cinquecentesca riporta il toponimo Campo Ruxio
(Fig. 1) e avalla un’ubicazione della località decisamente a sud dell’attuale
Visnadello.4 Ma possono questi due toponimi avere la stessa origine? L’evidenza topografica indica che le due località (Fig. 2) erano anticamente
allineate lungo un probabile limes intercisivus, cioè una lineazione centuriale interna, tracciata a intervalli regolari, secondo un modulo preciso
che, nel nostro caso, corrisponde a 20 x 21 actus (fig. 4). Si trovavano
nei pressi di quello che molto probabilmente era il decumanus maximus
dell’intero sistema centuriale, oggi denominato Morganella. L’attuale strada di Borgo Ruga, collocata esattamente a metà distanza tra la Morganella
ed il successivo decumano,5 sebbene non più rettilinea, costituisce retaggio
viario riconducibile al suddetto limes intercisivus. Quasi sempre costituiti
da fossati e sentieri paralleli o perpendicolari ai decumani questi limites,
deputati a funzione confinaria, di drenaggio idrico e di organizzazione
dello spazio agricolo, solitamente si conservano quando mantengono le
medesime funzioni.
Da Lovadina di Spresiano, sul Piave, la Morganella transitava per
2
335.
Giovambattista Pellegrini, Ricerche di Toponomastica Veneta, Padova, CLESP, 1987, p.
3 Carlo Agnoletti, Treviso e le sue pievi, Treviso, Premiato Stabilimento Tipografico Istituto Turazza, 1897, ed. anastatica, Bologna, Forni Editore, 1968, vol. II, p. 709.
4 Id., p. 43. Per completezza d’informazione è qui doveroso riferire come la memoria orale
diffusa tra Povegliano, Santandrà e Villorba tramandi che Povegliano fosse anticamente ubicata
presso l’attuale località Venturali.
5 Se per la centuriazione di Padova nord (Camposampiero) è stata individuata una divisione
interna in quattro rettangoli di 20 x 5 actus, per quella di Asolo, invece, una divisione in tre
rettangoli di 21 x 7 actus. Sebbene non sia ancora stato possibile stabilire quale fosse il modulo
interno dell’unità centuriale trevigiana, l’attestazione toponomastica di segmenti collocati a metà
centuria esatta, permette di avanzare l’ipotesi di una suddivisione interna pari a quattro rettangoli
di 21 x 5 actus.
613
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EST
lla
ese
Piav
NORD
Visnadello
Campo Ruxio
Figura 1. Mappa del XVI secolo che riporta la località Campo Ruxo. ASVE, Miscellanea Mappe, Comune di Camporuxo, n. 720.
Santandrà, attraversava Paderno, si dirigeva verso Castagnole, Paese e
infine Morgano – da cui il nome – nei pressi del Sile. Sebbene l’odonimo
sia databile con difficoltà, nei territori di Paese, Ponzano e Villorba, ove
è ancora percorribile, la strada viene così chiamata sulle mappe catastali
austriache (Fig. 3) del 1842.6 Più in dettaglio, un tratto viario lungo 500
metri circa, denominato Morganella sulla mappa catastale austriaca,7
transita a sud di Borgo Ruga. Poco più a nord, nei pressi di Villorba, una
mappa del XVIII secolo attesta la presenza di altri tratti di Via Morganella
non più rettilinei e parzialmente trasformati in confini campestri.
Oggi, sebbene non più interamente percorribile, il tracciato rimane
facilmente identificabile grazie a strade bianche, limiti campestri, rive di
fossati, tracce di terrapieno ed altri elementi dislocati palesemente in linea
secondo l’orientamento dei decumani centuriali. Si trattava, in ogni caso,
della distanza minima tra il Sile ed il Piave, evidentemente funzionale al
traffico di uomini e merci su scala locale. La successiva – e attuale – denominazione, facendo riferimento a Morgano, avrebbe rimarcato l’impor-
6
7
ASTV, Catasto Austriaco, Foglio 11 Merlengo (1842).
ASTV, Mappe Antiche, Villorba, 1719.
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43°
NE
Figura 2. Torrente Giavera in località Caotorta di Ponzano Veneto (TV)
tanza di questa località, quantomeno in un contesto trevigiano.
All’intersezione con il torrente Giavera, in località Caotorta, nel territorio comunale di Ponzano Veneto, un leggero dislivello dovuto all’antico
sedime stradale (Fig. 6) forma un piccolo salto d’acqua che concorre ad
incrementare la forza idraulica utilizzata nel corso dei secoli per l’alimentazione di ruote molitorie, frequentemente mosse da acque incanalate entro
apposite gore.
In quel preciso punto, inoltre, l’orientamento del sedime risulta il
medesimo dell’intero disegno centuriale (43° NE).
Tale situazione toponomastica, dunque, sembra riflettere una storia
complessa, legata alle vicende della proprietà e delle conseguenti ridefinizioni confinarie che nel corso dei secoli hanno determinato una soluzione
di continuità stradale. Oltre Villorba (Fig. 4), il limes intercisivus proseguiva a nord-est raggiungendo Visnadello e più precisamente la località anticamente denominata Campo Rusio. Tuttavia, bisogna precisare che qui, a
eccezione dell’antico toponimo, non sono state riscontrate tracce stradali
sicure del suddetto limes intercisivus. Evidenziata, dunque, una possibile
antica connessione tra i due luoghi, ormai entrambi identificati, credo sia
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Merlengo
la
el
n
ga
or
M
Figura 3. Mappa del XVI secolo che riporta la località Campo Ruxio. ASTV
possibile interpretare anche l’appellativo Rusio come odonimo aggettivale
derivato da ruga, attraverso il seguente cammino fonetico: ruga > *rugius >
ruxio > rusio. Da un punto di vista linguistico è possibile osservare il medesimo esito fonetico anche per la frazione di Castelfranco Veneto Salvarosa,
in antico Silvarose (1171),8 cioè ‘selva ubicata lungo la strada’. La strada in
questione è l’antica Aurelia che vi transitava per collegare Padova e Asolo.
Lo stesso dicasi per l’attuale e vicino abitato di Rosà (Vicenza),9 ubicato
sulla strada che fin dall’antichità romana collegava Padova alla Valsugana
e al sistema alpino. Pertanto credo che il toponimo, attestato dal 1277
“Roxatae”, più che un *rogiata dalla voce tardo latina rogia ‘roggia’, ‘canale’ proposto da Dante Olivieri, sia più verosimilmente interpretabile come
un derivato da odonimo.
Riconsiderata la possibilità che l’etimo del toponimo non sia dunque
ravvisabile unicamente nei Rugi, il riferimento ad un generico elemento
8 Cfr. Antonio Sartoretto, Antichi documenti della Diocesi di Treviso (905-1199), Treviso
1979, p. 89.
9 Cfr. Dizionario (dei) Toponimi Italiani (DTI), II ed., Torino, UTET, 1997, p. 653.
616
M
on
te
l
lo
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Fi
um
e
Pi
M
or
ga
ne
lla
av
e
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Villorba
Campo Ruxio
ia
stum
Via Po
limites intercisivi
Treviso
Morgano
Figura 4. la Morganella nel contesto centuriale trevigino ed i limites inteercisivi residui
etnico “barbarico” si può spiegare, piuttosto, con la vicinanza di un tratto
della cosiddetta Via Ongaresca il cui nome è riconducibile, come è noto,
agli antichi invasori magiari. Dunque, l’emergere di una evidenza stradale
ha permesso di legare verosimilmente le origini del Campo Rusio alla presenza di uno o più percorsi terrestri. Secondo questa proposta etimologica,
Il documento del 1021 riporta “… ecclesia que est edificata in honore S. Jacobi in loco qui
dicitur Campo Rusio”. Cfr. Ludovico Antonio Muratori, Antiquitates Estenses, t. II, col. 799.
Tuttavia, la lettura del grande studioso modenese, che riporta “Rufio”, seguita pedissequamente
per lungo tempo, ha determinato ulteriori difficoltà interpretative.
10
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Figura 5. La suddivisione interna di
una centuria romana di 20x20 actus.
pertanto, il toponimo è leggibile come un ‘campo sulla strada’. Inoltre, un
documento veronese del 1021,10 che per primo attesta il nome, costituirebbe anche il post quem per la diffusione del termine nella nomenclatura
paesaggistica trevigiana. L’ubicazione della località presso il canale irriguo
Piavesella, deviato dal Piave a partire dal 1414,11 è confermata dall’esistenza
di un “Molin del Comun de Arcade in cao del Camporuso su la Piavesella”
riportata da un atto del 1495.12
Dati questi pochi cenni interpretativi, le potenzialità di una lettura
paesaggistica attraverso un’antica evidenza toponomastica sono comunque notevoli. Per esempio, l’idronimo Lavajo, largamente presente sui
documenti medievali e sulla cartografia di età moderna e contemporanea,
è da secoli usato per designare una serie di corsi d’acqua a carattere torrentizio e in buona parte temporanei, originati dalle sorgenti montelliane. La
carta idrologica contemporanea del Montello indica con estrema precisione la diffusione e lo sviluppo di questi rivoli, ulteriormente alimentati
dagli apporti meteorici della pianura i quali si perdono sui terreni arativi
poco più a sud della linea ferroviaria dismessa Montebelluna-Nervesa della Battaglia. Al giorno d’oggi, in particolare, sono così denominati anche
Giuliano Simionato, Spresiano. Profilo storico di un comune, Villorba (Tv), Marini Editore, 1990, p. 310.
12 Citazione di Luigi Zangrando, Note storiche mss. sulla parrocchia di Visnadello, AVETV,
b. 252/b. Simionato, op. cit., p. 98 riporta “La corrispondenza tra Campo R. e il centro odierno
si evince dalla sopravvivenza del toponimo come contiguo alla piazza del mercato, ai confini con
Arcade e Villorba”.
11
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TRA LE “RUGHE” DELLA PIANURA TREVIGIANA
un piccolo corso d’acqua a carattere permanente – parallelo ai cardini
della centuriazione Piave-Sile – che scende da Volpago del Montello verso
sud, un fondo campestre a meridione del medesimo centro montelliano e
un laghetto – oggi inglobato in un complesso monumentale contemporaneo – presso Camalò di Povegliano. Dante Olivieri interpreta il suddetto
toponimo come un derivato dal latino labes ‘smotta’, alludendo al trascinamento verso valle di materiale alluvionale montelliano. Andrea Saccardo, inoltre, riferisce che detta zona a sud di Volpago veniva anche chiamata “Prato del Lavajo” o “Giaron” ‘ghiaione’. Proprio la disponibilità
d’acqua, seppure parziale, potrebbe contribuire a motivare la presenza
delle maglie centuriali su terreni notoriamente ghiaiosi – quindi fortemente permeabili – altrimenti poco adatti ad uso agricolo e caratteristici di
un’area grosso modo compresa tra il Montello e la Via Postumia. Anche
in ambiente friulano alcuni torrenti e torrentelli minori sono spesso stagionali con canalizzazioni secche, o quasi secche durante i mesi estivi e
quindi potenzialmente malsani a causa delle pozze d’acqua stagnanti.
Anche in tali casi la toponomastica può aiutare a distinguere gli elementi
naturali da quelli antropici. Il riferimento è alle cosiddette lavie, cioè i
torrenti ed i rivoli a carattere temporaneo della pianura friulana13 che talvolta, per il loro fondo sassoso o ghiaioso, soprattutto se di andamento
rettilineo, vengono scambiati per linee campestri e parzialmente utilizzati
come strade, soprattutto ove il flusso si affievolisce fino a scomparire nelle
pianure ghiaiose. Hanno portata d’acqua variabile a seconda delle precipitazioni e costituiscono una risorsa idrica a lungo utilizzata per abbeverare
il bestiame transumante tra pianura e pedemontana, nonché per altre
esigenze. Ritornando in area centuriale trevigiana, la realizzazione della
Brentella ad opera di Giovanni Giocondo da Verona, in definitiva, non
avrebbe fatto altro che aumentare le risorse idriche e renderle permanenti
attraverso l’escavazione ex novo di numerosi canali capillari, a fini irrigui
ed “industriali”. Tale sistema idraulico a “capillarità inversa”, scavato cioè
per portare acqua da un ramo fluviale principale derivato dal Piave, fino
ad una serie di ramificazioni terminali sparse nella campagna trevigiana,
non a caso segue l’orientamento degli assi ortogonali centuriali i quali,
attraverso i secoli, coincidono con le principali linee di deflusso idraulico
(Fig. 5). Sebbene non vi siano certezze sull’origine di questo filone toponimico, la casistica trevigiana e friulana documenta indiscutibilmente la
presenza di una nomenclatura paesaggistica derivante da un preciso piano
13
Gianfranco Mossenta, Le lavie, acque dimenticate, Udine, Arti Grafiche Friulane, 2004.
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di ordine agrario ed idraulico che chiamiamo centuriazione, anche se in
assenza di precisa documentazione non è sempre agevole ricostruirne funzioni originali e struttura. Per esempio, non sappiamo se e come gli antichi
abitanti di Treviso e della sua centuriazione avessero organizzato la difesa
e l’ordine idrico del territorio, ma in assenza di argini fluviali e scolmatori,
per certo le alluvioni dovevano essere estremamente dannose. A tale
riguardo, i toponimi possono fornire importanti informazioni. Ad esempio, con il suffragio di testimonianze orali diffuse localmente, si vorrebbe
fare risalire il toponimo Arcade alla struttura ad archi di un acquedotto
esistente in zona durante l’epoca romana.14 Lo ricorda anche il prezioso
manoscritto compilato da Alessandro Saccardo. Quest’opera contiene un
gran numero di testimonianze interessanti di storia, archeologia, botanica
ed altro. Il Saccardo cita una struttura ad archi – al suo tempo già distrutta - che, secondo gli anziani del luogo interpellati dall’autore, convogliava
acque montelliane verso la pianura. Ma è questa l’unica spiegazione possibile del toponimo? La scienza linguistica suggerisce anche altro. Se la più
antica attestazione di Arcade risale al 1091,15 la testimonianza di Innocenzo, autore gromatico latino del secolo…, riferendo “… sub se finem maiorem habet, de latus se proximam arcam constitutam in quadrifinio. et ipsa
arca alueum significat” sembra confermare ulteriormente l’interpretazione
di un toponimo Arcade portatore di una semantica legata all’idraulica.
Poiché, come è noto, il più piccolo comune della Marca giace in prossimità del Piave, è verosimile un’aggiunta del suffisso -ade alle terre colonizzate nei pressi dell’antica Pieve di S. Lorenzo, primo nucleo di Arcade, per
indicarle piuttosto come “terre giacenti nei pressi di un alveo fluviale” o
per meglio dire “terre alluvionate”, con palese riferimento alle frequenti
inondazioni plavensi. Le fotografie aeree, infatti, rivelano la presenza di
numerose linee di deiezione alluvionale. Ma poiché le alluvioni da sempre
rendono necessarie le ridefinizioni confinarie, al riguardo il noto diziona-
Ezio Buchi, Tarvisium e Acelum nella Transpadana, in Storia di Treviso. Le origini, a cura
di Ernesto Brunetta, Venezia, Marsilio, 1989, vol. I, pp. 191-310, 4 voll., pp. 223-33, 260, 261;
Paola Furlanetto, Treviso, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano; il caso
veneto, Edizioni Panini, Modena 1984, pp. 172-177 (catalogo della mostra itinerante, Padova,
Verona, Treviso, Portogruaro, 1984-85), p. 172. Indicazioni più significative si possono ricavare
dal manoscritto di Alessandro Saccardo conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Selva del
Montello e la Biblioteca Comunale di Treviso. Cfr. Alessandro Saccardo, Il castello di Selva.
Memorie storiche raccolte da A. S., l’Archivio Parrocchiale di Selva del Montello (voll. I-II), BCTv,
1640, Parte Seconda, 1850, c. 159, 160, 161, (vol. III; fotoriproduzione voll. I-II).
15 Ludovico Antonio Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevii, II, coll. 267-270.
14
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rio della media e tarda latinità Du Cange riporta “Arca, Arcella, Arcatura,
voces Gromaticis et Agrimensoribus familiares, apud quos Arcae dicuntur,
signa finalia per possessionum extremitates constituta, sive constructa”.16
Oltretutto, la collocazione delle *arcatae presso i probabili limiti settentrionali dell’agro centuriato, sembrerebbe rispondere ulteriormente alla
funzione prettamente confinaria indicata delle fonti antiche. Ancora in
tema di acque è importante rilevare che, nella pianura ad est di Treviso,
sono stati riscontrati i resti di una presunta condotta sotterranea. Si tratta
di una struttura individuata presso Pezzan di Carbonera, a ridosso dell’attuale autostrada A27. Grazie all’ausilio della fotografia aerea è stata individuata una linea di colore più chiaro rispetto ai terreni circostanti, d’andamento rettilineo e larghezza costante, estesa tra la località Fontane Bianche
– presso Lancenigo – e Mignagola, nel territorio comunale di Carbonera.
Alcune attendibili testimonianze orali ed il ritrovamento di numerosi
frammenti laterizi sui fondali del piccolo lago originato dalle polle di risorgiva del Melma, le Fontane Bianche, indicano l’esistenza di una struttura
per il convoglio delle acque, forse alimentata dalla sorgente villorbese. La
toponomastica, anche in questo caso, potrebbe rivelarsi molto significativa. Un eventuale proseguimento del condotto verso nord, mantenendo il
medesimo orientamento del tratto superstite, porterebbe alla località
Biancanile17 – nel territorio comunale di Povegliano – e ad un altro sito
omonimo nei pressi di Bavaria e Sovilla, nel Comune di Nervesa della
Battaglia, mentre una possibile prosecuzione a sud sembrerebbe terminare
nel Musestre all’altezza di Biancade. Le acque “bianche”, intese cioè come
particolarmente pulite sarebbero dunque il denominatore comune di queste località, perfettamente allineate. La documentazione catastale e le
fotografie aeree indicano un’interruzione del reticolo centuriale romano
qualche chilometro a nord di Tarvisium, senza lambire il tessuto urbano
e periurbano del municipium. In riferimento a questa zona, la documentazione medievale trevigiana attesta ripetutamente il toponimo Cella che,
tra le varie accezioni, dovrebbe indicare una “zona di monasteri”, dotati di
ambienti per la conservazione delle derrate agricole.18 Come riporta il
Dizionario dei Toponimi Italiani, infatti, “La parola cella in latino signi-
16 Charles Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis…, a cura di Léopold Favre,
Niort, 1883-1887, ristampa anastatica Bologna, Forni Editore, 1981-1982, vol. I, p. 439.
17 Giovanni Caniato, Nervesa all’alba del secondo millennio, Nervesa della Battaglia, Amministrazione comunale, 1994, p. 34.
18 Cfr. Dizionario Dei Toponimi Italiani (DTI), op. cit., p. 187.
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GIOVANNI ROMAN
fica ‘dispensa’, ‘cameretta’, ‘cantina’; in seguito entra a far parte della terminologia ecclesiastica col valore di ‘cappella’, ‘oratorio’, ‘chiesuola campestre tenuta aperte al culto da uno o più monaci staccati da un priorato
o abbazia; in senso esteso, piccola azienda agraria benedettina dipendente
da una grangia o da un monastero’. A questi ultimi significati è legato per
lo più l’uso di cella come toponimo; tuttavia i documenti medievali attestano anche quelle originali, cosicché non sempre si può stabilire quale sia
riflesso negli specifici continuatori toponomastici”. Nel caso trevigiano il
toponimo, da lungo tempo scomparso, si riferiva anche ad un’area estesa
tra le chiese di S. Teonisto e S. Martino urbano “… in Comitatu Tarvisiano Cellam Sancti Theonisii et Sancti Martini cum omnibus adjacentiis suis”,
come testimonia una carta del 1014.19 Più precisamente, nel XIII secolo
erano così denominate anche le terre presso la sponda sinistra del Botteniga a nord delle mura medievali di Treviso,20 ma non è da escludere un
ampliamento anche ai terreni ubicati sulla sponda destra, forse per attrazione dovuta alla contiguità geografica. La Roggia, una diramazione urbana del fiume Botteniga, passa sotto il Ponte di S. Chiliano vicino al duomo di Treviso. Quest’agionimo fu assegnato anche ad un antico edificio
di culto da tempo scomparso, molto probabilmente ubicato poco più a
nord, nonché ad una suddivisione amministrativa medievale. Ma chi fu
questo santo? Questo titolo può essere significativo ai fini topografici? Si
tratta di un vescovo irlandese vissuto nel VII secolo il cui nome – citato
sulle fonti come Kilian, Kilien, Quillian, Cilian e Kuhln – venne latinizzato e infine tradito in volgare.21 Anche se le prime notizie di una chiesa
trevigiana dedicata a Chiliano sono ben più tarde (1154), l’analisi dell’agionimo rivela un dato importante. Infatti, in gaelico, oggi come nel medioevo kill significa ‘cella’, con particolare riferimento all’edilizia sacra. Ritengo che il sito extra moenia sia stato quindi scelto non a caso per la costruzione del tempio. Dunque, pur se impossibile stabilire con certezza un’o-
Per il testo del documento si veda Rambaldo Azzoni Avogadro, Due carte dell’ottavo
secolo scritte in Trevigi, ora di prima pubblicate, con altri documenti e notizie de’ più antichi suoi
monasteri, in “Nuova Raccolta Calogerà”, Venezia, 1773, XXV, pp. 18-19, 23.
20 La località è citata su un documento del 1069 con il nome di S. Clemente. Cfr. Giampaolo
Cagnin, Il bacino del Sile nel Medioevo: dalle sorgenti a Musestre, pp. 87-104, in Il Sile, Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni, 1998, p. 92.
21 Costui, avuto da Papa Giovanni III l’incarico di evangelizzare la Franconia, una regione
della Germania, ne convertì il duca Gosberto, obbligandolo a separarsi dalla vedova del fratello.
La donna, perso l’alto stato sociale cui era ascesa, per vendicarsi fece uccidere il vescovo insieme
ad altri martiri.
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TRA LE “RUGHE” DELLA PIANURA TREVIGIANA
rigine altomedievale della suddetta chiesa, credo che il significato di
“santo cellario” espresso dal titolo sacro possa essere un importante indizio
connesso non tanto alla presenza di istituzioni monastiche irlandesi anche
a Treviso, quanto all’utilizzo di una santità cosiddetta “di funzione” o “di
ruolo”.
Per concludere, i casi qui presentati costituiscono una minima parte
dei nodi critici ancora aperti e un’ulteriore indagine di approfondimento, estesa sulla più ampia scala possibile, potrà eventualmente accertare
l’adozione di una nomenclatura stradale e territoriale universalmente
riconosciuta. Si rivelerebbe ancora una volta fondamentale, pertanto, far
procedere la ricerca riservando particolare rilievo ad un’analisi di tipo
comparativo. Per il momento, almeno su scala trevigiana, i toponimi qui
indagati mantengono la memoria di assetti topografici romani e medievali attraverso la presenza reiterata di segmenti viari ortogonali, paralleli e
contigui, cioè un palinsesto paesaggistico in gran parte ancora da decifrare.
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