ODESCALCHI
S. Walker, L. O., Pietro Stefano Monnot e Carlo
Maratta: una rivalutazione alla luce di nuovi documenti, in Sculture romane del Settecento, la professione dello scultore, a cura di E. Debenedetti,
Roma 2002, II, pp. 23-40; A. Spiriti, Giovanni
Battista Barberini a Como ed il romanismo figurativo
fra i Volpi e gli Odescalchi, in Archivio storico della
diocesi di Como, XIV (2003), pp. 315-336; E.
Mariani, L’acquedotto Odescalchi di Bracciano,
Ronciglione 2003, pp. 7-11, 91; S. Costa, Dans
l’intimité d’un collectioneur. L. O. et le faste baroque,
Paris 2009.
SANDRA COSTA
ODESCALCHI, Paolo. – Nunzio apostolico, XVI secolo [Massimo Carlo Giannini]: v. www.treccani.it.
ODESCALCHI, Pietro. – Nacque a
Roma il 1° febbraio 1789, sesto dei nove figli di Baldassarre duca del Sirmio e della
principessa Caterina Giustiniani.
Gli Odescalchi erano una delle maggiori casate della nobiltà romana, annoverando fra le
loro fila un papa, Innocenzo XI, vescovi e cardinali. Emigrata negli anni ‘giacobini’, la famiglia era stata, tuttavia, grande protagonista del
clima culturale del Settecento pontificio, dominato dal mecenatismo cardinalizio e nobiliare,
dalle sue istituzioni accademiche e soprattutto
dall’Arcadia. In particolare Baldassarre, rinomato erudito, era stato fra i principali promotori
di salotti e intrattenimenti accademici, fornendo
protezione nel grande palazzo di piazza Ss. Apostoli a numerosi intellettuali.
In linea con i codici cortigiani e aristocratici, il giovane Odescalchi fu educato da
precettori privati, fra cui il filosofo Vincenzo Saroni e il matematico Andrea Conti, in una visione non specialistica del sapere. Nel quadro di tale formazione enciclopedica manifestò però una rapida predilezione per l’erudizione letteraria, come
mostrano i primi componimenti, fra cui
non mancarono perfino tentativi di cimentarsi con il genere nuovo del romanzo.
Nel 1811 fu costretto a recarsi a Parigi:
destinato a essere arruolato nella Grande
Armée, riuscì a ottenere un posto da auditore del Consiglio di Stato e, richiamato
per assistere la madre morente, fu distaccato a Roma al servizio del prefetto Camille
de Tournon. Al ritorno dalla parentesi
francese, attraverso il padre fu presto introdotto nel mondo delle accademie romane.
In particolare, si ritagliò un ruolo di protagonista nella nuova Accademia Tiberina,
costituita nel 1813 per ribadire, al declinare
del dominio napoleonico, la centralità delle
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lettere nella cultura di Roma. Se già fra il
1815 ed il 1816 promosse da presidente
una riforma del sodalizio, che ne rafforzava il legame con la curia, nel clima pacificato della Restaurazione ebbe modo di assecondare definitivamente la sua passione
per le lettere.
Fondamentale per la sua formazione risultò nel 1818 l’incontro con Giulio Perticari, che contribuì a esercitare su di lui un
notevole influsso e a debellare, come rievocò in più occasioni, ogni traccia di quei
cedimenti giovanili verso le innovazioni
letterarie del secolo. Proprio su impulso
del letterato romagnolo, nel 1819 fu, con
eruditi come Salvatore Betti e Luigi Biondi, tra i fondatori, nonché il principale finanziatore, del Giornale arcadico, chiamato a fare argine al «cattivo gusto» proveniente soprattutto dai tanti libri stranieri,
destinati a circolare copiosamente nella penisola con il formarsi del mercato ottocentesco delle lettere.
In quel processo di frattura fra una letteratura essenzialmente evasiva (e di pura erudizione) e una letteratura come missione utile e
civile che rappresentava una delle grandi linee
di trasformazione del Sette-Ottocento letterario, uomini come Odescalchi non oltrepassarono mai il limite della prima. Egli restò fortemente ancorato a un classicismo di Antico
Regime e confinato in una dimensione culturale opaca, che, sebbene non militante come
quella esplicitamente reazionaria e controrivoluzionaria, nei suoi motivi di fondo non si
collocava certo all’opposizione dei governi della
Restaurazione.
Nell’Italia del tempo il Giornale arcadico
si impose come uno dei punti di riferimento delle polemiche sulla lingua e sulla funzione della letteratura italiana. Il fallito
tentativo nel febbraio 1820 da parte di
Odescalchi di coinvolgervi Giacomo Leopardi, che preferì collaborare con le concorrenti Effemeridi letterarie, culturalmente più vivaci ma meno diffuse, è la testimonianza di quanto fin dai suoi presupposti
il periodico fosse incline a un attardato
classicismo e distante dai motivi illuministici del poeta recanatese.
Già nel primo anno di pubblicazione, Odescalchi entrò nel vivo delle polemiche con un
commento alla Littérature du Midi del Sismondi
(Della vera definizione del Romanticismo, del sig.
S. S., traduzione dal francese di D. M., in Giornale arcadico, IV, pp. 324-334), in cui sosteneva
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una difesa integrale delle ragioni dei classici
contro la nuova scuola romantica.
Nei primi anni Venti, lavorando sul ritrovamento fatto da Angelo Mai nella Biblioteca Vaticana, si cimentò sulla volgarizzazione del De republica di Cicerone (I
frammenti de’ sei libri della Repubblica di
Marco Tullio Cicerone volgarizzati dal
principe D. P. O., Roma 1826): espressione
di uno sforzo di erudizione notevole, ma
acritico nell’interpretazione del testo e nel
recepire il messaggio politico dello scrittore dell’antica Roma, l’opera fu comunque
la più conosciuta di Odescalchi, come testimoniato dalle tre edizioni nel giro di pochi mesi.
La sua capacità di divenire punto di incontro delle posizioni antiromantiche, e
più in generale di tutto un ampio mondo
culturale neoarcadico, si espresse, oltre che
nella divulgazione dei classici e nell’esperienza del Giornale arcadico, che diresse
ininterrottamente per 37 anni pubblicandovi con regolarità articoli di varia erudizione, anche in una notevole attività di organizzatore culturale: un’attività testimoniata da un vastissimo intreccio di relazioni
fatto di corrispondenze con letterati di tutta
Italia (fra cui Ippolito Pindemonte, Vincenzo Monti, Giovanni Battista Pianciani,
Giovanni Rosini), di collaborazione alla redazione di molti altri giornali del proprio
campo e di membro delle più diverse e mai
spente accademie della penisola e della scena romana. In particolare, nella città eterna, accanto al ricordato ruolo nella Tiberina o alla partecipazione all’Arcadia come
Mirtillo Linceo, fu presidente della Pontificia Accademia romana di archeologia dal
1839 al 1846 e dal 1851 al 1856, incarnando
a pieno la tradizione antiquaria della cultura ottocentesca romana.
Questo suo ruolo di organizzatore culturale
esemplifica peraltro quanto la cultura tradizionale che rappresentava non fu priva di una sua
partecipazione al moto della modernità ottocentesca; per far passare e veicolare contenuti
tradizionali non mancò, infatti, di far uso di
quegli strumenti (cataloghi di biblioteche circolanti, gabinetti di lettura, recensioni) o di
coltivare il rapporto con realtà e luoghi (come
per esempio il Gabinetto fiorentino di Giovan
Pietro Vieusseux) propri del nuovo mercato
delle lettere e di una nascente sfera pubblica
borghese, amplificando così la sua capacità di
diffusione nella penisola della Restaurazione.
Nel 1838 si unì in matrimonio con la nobildonna Carolina Folo, vedova con tre figli del defunto conte Melchiorre della Porta. In quello stesso periodo divenne socio
anche di quell’Accademia di religione cattolica di Roma, che fin dalla sua nascita nel
1800 si era imposta come baluardo del cattolicesimo controrivoluzionario, mentre
già dai primi anni Venti lo era dell’Amicizia cattolica. Nel 1836 si profuse in Arcadia in un lungo Elogio del cardinale D. Placido Zurla (Roma 1836), vicario per la diocesi di Roma e campione del tomismo e
dello zelantismo. In questo elogio esaltava
tuttavia, ancor più che l’intransigente apologeta, lo Zurla protettore delle lettere,
della conoscenza e degli studi.
Oltre che alla tradizione familiare (il padre
e il fratello-cardinale Carlo erano iscritti della
prima ora all’Accademia cattolica), questi innegabili legami con il cattolicesimo militante
vanno, infatti, ricondotti a un’altra dimensione
propria di quel mondo classicista cui Odescalchi
apparteneva. Le forti ascendenze d’Antico Regime e la filiazione arcadica e accademica alimentavano un sentimento cattolico e curiale
che non derivava necessariamente da uno spiccato ultramontanismo, ovvero dall’adesione
alla cultura religiosa intransigente perfezionatasi
fra ‘rivoluzione’ e ‘restaurazione’, ma dal continuare a identificare nella Roma cattolica, sulla
scia del perdurante attaccamento alla tradizione
barocca e controriformistica, il mito della vocazione universalistica dell’Urbe quale centro
internazionale non di solo formazione del clero,
ma di ‘capitale’ della cultura e di faro della civiltà del sapere.
Nel frattempo, per il prestigio del suo
casato e per la sua personale influenza rivestì nell’alternarsi dei pontefici anche rilevanti ruoli pubblici. Se già Pio VII nel
1817 lo aveva posto a capo dell’ospedale di
S. Gallicano, Leone XII lo nominò fra i
deputati alla Cassa di ammortizzazione, gli
affidò la direzione della nuova Casa di correzione per i minori e lo coinvolse nei progetti di riforma universitaria in senso accentratore promossi con la svolta zelante
assegnandogli la presidenza del collegio filologico dell’Università. Sotto Gregorio
XVI fu uno dei consultori della Comarca,
vicepresidente della commissione de’ Lavori pubblici di beneficenza e, dal 1833, rivestì il delicato incarico di commissario
pontificio della nuova Banca romana.
Ebbe il momento di maggiore visibilità nelle vicende politiche negli anni delle
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riforme di Pio IX. Dopo essere stato chiamato a far parte della nuova Consulta di
Stato, con la svolta costituzionale del 1848
fu nominato senatore. Il suo impegno si
intensificò nel periodo della difficile transizione tra la fuga del papa a Gaeta e il suo
definitivo ritorno a Roma. In particolare,
dopo l’arrivo in città delle truppe francesi,
accettò il gravoso compito di presiedere
dal luglio 1849 la Commissione provvisoria municipale. In tale veste guidò a Portici
la deputazione che chiese il rientro a Roma
di Pio IX, allo scopo di mitigare gli eccessi
del cosiddetto ‘triumvirato rosso’; e per 20
mesi svolse l’incarico al vertice del municipio ricercando un difficoltoso equilibrio
fra le richieste transalpine, le componenti
liberal-moderate e la fazione convintamene restauratrice.
Al suo ritorno, Pio IX lo inserì nel riformato Consiglio di Stato, ma dopo quella
fase di attivismo politico Odescalchi tornò
pienamente alle sue occupazioni accademiche e letterarie. In particolare, accanto
all’impegno per il suo giornale, si dedicò
all’ennesimo rilancio dell’Accademia dei
Lincei, di cui fu presidente dal 1850.
Morì a Roma il 15 aprile 1856.
Opere: oltre a quelle citate, sono da ricordare:
Prose scelte, Milano 1828 (che raccoglievano
articoli apparsi sul Giornale arcadico); Necrologia del padre Antonio Cesari, Roma 1828; Istoria del ritrovamento delle spoglie mortali di Raffaello Sanzio, Roma 1833.
Fonti e Bibl.: L’Archivio della famiglia
Odescalchi, con documentazione anche su Pietro,
è depositato presso l’Arch. di Stato di Roma.
Lettere inedite di e a Odescalchi si trovano in numerose biblioteche: Bibl. apost. Vaticana,
Autografi Ferrajoli (cfr. La «raccolta prima» degli
autografi Ferrajoli, Città del Vaticano 1990, ad
indicem; Le raccolte Ferrajoli e Menozzi degli autografi Ferrajoli, Città del Vaticano 1992, ad indicem; La raccolta e la miscellanea Visconti degli
autografi Ferrajoli, ibid. 1996, ad indicem); Pesaro,
Bibl. Oliveriana, Carte Cassi, Antaldi e Perticari;
Roma, Bibl. Angelica, Autografi Cardinali; Forlì,
Bibl. comunale A. Saffi, Fondo Piancastelli (cfr.
G. Mazzatinti - A. Sorbelli, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, LII, Firenze 1933,
pp. 188, 195, 236, 262; LXXVI, ibid. 1948, p. 64;
XCVI, ibid. 1980, p. 281); Roma, Bibl. naz. centrale, Fondo Autografi, Carte Betti (108 missive
indirizzate a Salvatore Betti); Firenze, Bibl. naz.
centrale, Fondo Carteggi vari; Ibid., Arch. stor.
del Gabinetto Vieusseux,Copialettere Vieusseux.
Lettere di O. sono, inoltre, pubblicate in: Opere
di Giulio Perticari, Napoli 1852, pp. 443-445, 448;
Epistolario di Vincenzo Monti, raccolto, ordinato
e annotato da A. Bertoldi, V-VI, Firenze 1930-31,
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ad indices. Fra i numerosi necrologi si segnalano
per completezza: Necrologia del principe P. O.
scritta dall’avvocato Filippo Cicconetti, Roma 1856
(con un elenco delle opere di O.); Elogio del principe D. P. O., già direttore di questo giornale, scritto
da monsig. Stefano Rossi, in Giornale arcadico,
CXLVIII (1857), pp. 3-38. Inoltre: M.
Maylander, Storia delle Accademie d’Italia, II,
Bologna 1927, pp. 421-424; III, ibid. 1928, pp.
430-490; V, ibid. 1930, pp. 36-38, 310-317; C.
Bona, Le “Amicizie”. Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962, pp. 371, 588;
A. Piolanti, L’Accademia di religione cattolica.
Profilo della sua storia e del suo tomismo, Roma
1977, pp. 70, 117; M. Bocci, Il municipio di Roma
tra riforma e rivoluzione (1847-1851), ibid. 1995,
ad ind.; G. Moroni, Diz. di erudizione stor.-eccles.,
XLVII, pp. 263-269.
MARCO MANFREDI
ODESCALCHI ERBA, Benedetto. –
Nacque a San Donnino (Como) nel 1679
da Antonio Maria Erba, senatore di Milano, marchese di Mondonico, nipote ex sorore di Innocenzo XI, e da Teresa Turconi, figlia di Luigi, decurione di Como. Il
fratello Baldassarre, nominato erede dello
zio Livio Odescalchi, assunse il cognome
di questo in aggiunta a quello paterno.
Nel 1700 si laureò in utroque iure a Pavia.
Successivamente si recò a Roma dove ottenne l’abito prelatizio e fu annoverato dal
papa tra i suoi camerieri d’onore. Nel 1708
divenne ponente del Buon Governo. Sempre a Roma entrò in Arcadia. Ottenne da
Clemente XI la legazione di Ferrara nel
1709 e quella di Bologna nel 1710. Divenne poi nunzio in Polonia.
Già vescovo di Tessalonica dal dicembre 1711, il 5 ottobre dell’anno seguente,
alla morte di Giuseppe Archinti, fu nominato arcivescovo di Milano; ricevette il
pallio il 27 novembre, ma a causa dei suoi
impegni diplomatici entrò in diocesi soltanto il 19 agosto 1714, dopo aver ricevuto
da Clemente XI il 30 gennaio 1713 anche
la berretta cardinalizia.
I festeggiamenti a Milano, cominciati
subito dopo la notizia della sua nomina
episcopale, proseguirono in maniera più
maestosa con l’ingresso ufficiale. Dopo di
allora non lasciò più la città se non per partecipare ai conclavi del 1721, del 1724 e del
1730. Tuttavia mantenne con Roma uno
stretto rapporto e mostrò in particolare
grande sensibilità alle tematiche del sinodo
romano del 1725, incentrato sulla questione della missione pastorale della Chiesa, in
piena sintonia con la trattatistica coeva che