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La “questione islamica”: secessione dall’Occidente o dialogo?

IN: A. Miltenburg (a cura), Incontri di sguardi. Saperi e pratiche dell’intercultura, Unipress, Padova 2002, pp. 229-258

La “questione islamica”: secessione dall’Occidente o dialogo? «Ma Dio gli disse: non rattristarti [o Abramo] per la tua schiava [Agar] e per il ragazzo [Ismaele]. Accontenta Sara in tutto quello che ti chiederà, perché per mezzo di Isacco tu avrai discendenti. Ma anche il figlio di questa tua schiava darà origine a un grande popolo, perché anche lui è tuo figlio!» (Genesi, 21,11) Allora Ismaele s’allontanò nel deserto... La disperazione di Agar cacciata da Abramo, è lenita appena dalle parole di un angelo che le conferma: «Lo farò diventare padre di un grande popolo» (Genesi, 21, 17); più oltre si dice che Ismaele avrà dodici figli, nominati a uno a uno (Gn, 25, 12-17; 1Cr, 1, 29-31),. i quali saranno all’origine di altrettante tribù di “ismaeliti”, e si stabiliranno tra Sur, nel Sinai, e Avila (etimologicamente: “terra della polvere” o “sabbia”) localizzabile nell’Arabia settentrionale. La storia viene ripresa dalla tradizione musulmana che ci narra del vagabondaggio dei due alla ricerca di acqua e conforto nei pressi delle colline di Marwa e Safâ, vicino a La Mecca. Si tratta dei luoghi ove si svolge tutt’ora gran parte dei riti del pellegrinaggio musulmano e ove il piccolo Ismaele, giocando ignaro del dramma, scopre provvidenzialmente una fonte d’acqua ristoratrice (identificata poi con la fonte di Zemzem presso l’attuale Ka‘ba). In questo esodo misconosciuto del figlio reietto di Abramo ha inizio si può dire l’antefatto della storia dell’Islam. La migrazione nel deserto culmina nella fondazione della Ka‘ba, ove accanto a Ismaele ricompare anche Abramo (Corano, II, 125-28). La Ka’ba, ossia il tempio ancestrale degli Arabi nel cuore dell’Arabia, e il complesso dei riti del pellegrinaggio, sono così ricollegati direttamente ad Abramo e a Ismaele, il quale ultimo è considerato progenitore della stirpe di Maometto, del popolo del deserto. Questo lungo viaggio di allontanamento dalle radici, questo “scisma tribale”che porterà a un reciproco crescente sentimento di estraneità tra la tribù di Isacco e la tribù di Ismaele, solo in questi ultimi decenni sembra avere invertito il senso di marcia.sembra avere invertito il senso di marcia. Segnali di una nuova attenzione del mondo cristiano all’Islam, e viceversa, all’insegna della formula del dialogo tra «le religioni di Abramo» coniata da Louis Massignon si moltiplicano senza sosta. Ma il mistero di questa biblica lontana tragedia, che bruscamente disereda un ramo della discendenza di Abramo cacciandolo fuori – per divino decreto – dallo scenario della storia del popolo eletto, resta un nodo irrisolto. E pesa tuttora come un macigno su Ismaele e Agar il giudizio di S. Paolo, che certo non intendeva che dare una interpretazione in chiave allegorica e spirituale del passo anticotestamentario: «Le due madri rappresentano le due alleanze: Agar rappresenta l’antica alleanza, quella del monte Sinai, che genera solo schiavi (il monte Sinai è in Arabia ma corrisponde all’attuale Gerusalemme che è schiava della legge con tutti i suoi figli); Sara invece è libera e rappresenta la Gerusalemme celeste, ed è lei la nostra madre» (Lettera ai Galati, 4, 24-26) Ma il passo di Genesi termina con una profezia straordinaria e inequivocabile: Ismaele «darà origine a un grande popolo» e lancia un avvertimento denso di significanze che forse attende ancora di venire disvelato e compreso in tutta la sua portata: «perché anche lui [o Abramo] è tuo figlio»! La sacra scrittura ci dispiega di fronte agli occhi il mistero di una «ingiustizia», umanamente ripugnante, che colpisce improvvisamente i più deboli, una schiava e il suo figlioletto; ci descrive una drammatica esclusione che appare inspiegabile, ma che quantomeno fornisce lo sfondo adeguato all’altezza degli odierni, perduranti, steccati. E insieme essa ci pone una interrogazione profonda, che indica chiaramente un orizzonte, una direzione di ricerca, su cui da tempo sono chiamati a riflettere gli spiriti più aperti e sensibili del mondo ebraico e cristiano. L’Islam, a partire da un altro noto quanto strano passo coranico secondo cui “Abramo non era né ebreo né cristiano, bensì un monoteista”, ha fatto della figura dell’antico patriarca il primo predicatore del monoteismo e, insieme, colui che per primo instaura la legge di Dio sulla terra. La fondazione della Ka’ba ne fa poi il creatore di un culto “islamico” ante litteram , e l’instauratore di una religione che col tempo gli arabi idolatri da un lato, ebrei e cristiani dall’altro, avrebbero finito per corrompere. Maometto si presenterà ai suoi come il restauratore dell’antico culto abramitico, degenerato nel corso dei secoli. L’Islam –non il cristianesimo o l’ebraismo- rappresenterebbe dunque l’erede legittimo del messaggio affidato da Dio ad Abramo. Di qui il senso profondo – ideologico- della strana definizione coranica su riportata. E qui, a ben vedere, dopo l’esilio di Ismaele, “secessione familiare-tribale”, comincia una seconda più importante secessione, che è religiosa e ideologica insieme, dalla matrice ebraico-cristiana. La quale, come è noto, è ampiamente richiamata nel Corano –che spesso anzi si autorappresenta come una “conferma” del messaggio di Mosè e di Gesù; ma, nondimeno, appare chiaro che da Medina in poi, questa matrice è in sostanza progressivamente relegata nella memoria, rimossa si direbbe dalla identità islamica. Ricollegandosi direttamente ad Abramo, ossia saltando a piè pari l’eredità ebraico-cristiana, Maometto nega de facto la filiazione biblica: egli non è, non si sente “figlio” di Mosè e Gesù, quanto piuttosto loro “collega”. In un detto, che in questo contesto ci pare oltremodo significativo, Maometto dice di sentirsi “figlio di Abramo e fratello di Mosè e Gesù”. L’Islam successivamente farà di Maometto il “sigillo della profezia”: il suo messaggio ingloba e supera definitivamente quelli di Mosè e Gesù, relegati nella coscienza dei musulmani in una sorta di archivio o “archeologia della rivelazione”. La loro rivelazione è persino ritenuta soggetta a indebite manomissioni o “alterazioni” (tahrif): le scritture di ebrei e cristiani sono insomma ritenute valide, ma non più integre. 1. La cristianità di fronte all’ Islam dal medioevo a oggi. Non da oggi invero la cristianità riflette sul «fenomeno Islam». Sarà utile, proprio come introduzione a una riflessione sui fatti più recenti, vedere sinteticamente le diverse fasi di questa riflessione e lo faremo attraverso alcuni testi-chiave. 1.1 Il primo è un prezioso testo di un Padre della Chiesa, Giovanni Damasceno (m.754), che ebbe modo di conoscere gli inizi della dominazione araba e scrisse, nel suo Liber de haeresibus, una prima interessantissima confutazione dell’Islam (J. Damascene, Ecrits sur l’Islam, trad. francese, Ed. du Cerf, Sources chrétiennes n.384, Paris 1992, con eccellente studio introduttivo; una traduzione italiana è La centesima eresia, a cura di G. Rizzi, Centro Ambrosiano, Milano 1997) , da cui togliamo il brano seguente: “C’è anche la religione ingannevole degli Ismaeliti, che domina fino ad oggi, prodromo dell’anticristo. Proviene da Ismaele, il figlio generato da Agar e da Abramo: perciò sono denominati Agareni e Ismaeliti. Li chiamano [anche] Saraceni, in quanto spogliati da Sara secondo quanto fu detto da Agar all’angelo: Sara mi ha scacciata priva di tutto. Costoro dunque erano idolatri e adoratori della stella dell’aurora e di Afrodite… Pertanto, mentre fino ai tempi di Eraclio praticavano palesemente l’idolatria, a partire da quell’epoca, fino ad oggi un falso profeta sorse per loro, chiamato Mamed (=Maometto), il quale essendosi casualmente incontrato con l’Antica e la Nuova Alleanza, e similmente dopo avere frequentato un monaco ariano (=Bahira, ovvero Sergio secondo fonti cristiano-orientali), configurò la sua propria eresia. Ed essendosi conquistato il consenso popolare attraverso l’esternazione di una apparente pietà, propone che dal cielo gli sia stato consegnato uno scritto. Avendo quindi redatto nel libro (=il Corano) presso di lui alcune dottrine ridicole, trasmette loro in questo modo il culto religioso da praticare. Dice che c’è un solo Dio, creatore di tutte le cose, il quale non è stato creato e non ha generato (cfr.sura CXII). Dice che il Cristo è parola di Dio (cfr. III, 39) e suo spirito (cfr. IV, 171) , ma creato e servo (cfr. IV, 172) e che da Maria … è stato generato senza seme umano…” Straordinariamente precisa è, per l’epoca, la conoscenza dell’Islam dimostrata dal Damasceno e, si direbbe, ineguagliata per parecchi secoli a venire. La sua impostazione del problema – l’Islam come grande «eresia» cristiana – rappresenta, pur entro limiti evidenti, la prima risposta al nuovo fenomeno religioso e condizionerà per molto tempo ogni approccio cristiano alla fede di Maometto. Per molto tempo infatti Maometto sarà percepito come un eretico, un «impostore», più che come fondatore e profeta di una nuova religione. Si sarà osservato come anche per il Damasceno l’Islam rappresenti uno scisma, una “secessione”; ma cambia radicalmente la percezione della sua genesi. L’Islam ha a che fare soprattutto con la storia del cristianesimo, è insomma una sorta di “cristianesimo degenerato”, frutto dell’ennesima impostura di un eretico. 1.2. Un secondo momento è ben rappresentato dalla figura di S.Francesco. Sulla vocazione missionaria del santo di Assisi per l’Islam con mezzi pacifici (la “testimonianza” cristiana), in muta quanto sfortunata polemica con lo spirito e la prassi delle crociate, si veda il recente G. Basetti-Sani, La cristofania della Verna e le stimmate di S.Francesco per il mondo musulmano, Il Segno, S. Pietro in Cariano (Vr) 1993. Francesco aveva tentato una prima sfortunata missione in Marocco (1213) interrotta per una malattia; più tardi, era riuscito ad aggregarsi alla V crociata e fu presente, secondo testimonianze anche arabe, nel campo crociato di Damietta (1219), ove pare tentasse invano di convincere i capi cristiani a evitare lo scontro e, sembra, riuscisse persino a parlamentare con il sultano Melek el-Kemel. Francesco, tornato dalla sua missione, proporrà una forma di evangelizzazione in due modi e, sembra di capire, in due tempi: prima si deve andare tra i musulmani e testimoniare con la propria vita devota e moralmente ineccepibile la bontà della fede cristiana e successivamente iniziare un apostolato attivo tra chi si avvicina spontaneamente. Ma sentiamo il passo relativo tratto dal capitolo XVI (“Di coloro che vanno tra i Saraceni e gli altri infedeli”) della regola non bollata, un testo probabilmente posteriore alla sua missione in Damietta: “I frati poi che vanno in missione possono comportarsi in due modi in mezzo ai Saraceni. Il primo modo è che non facciano liti, né contese ma siano soggetti invece ad ogni umana creatura per amore di Dio ( I Pietro 2,13) e confessino pubblicamente di essere cristiani. L’altro modo è che annunzino agli infedeli la Parola di Dio, quando piacerà al Signore, affinché credano in Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Sano, e siano battezzati e divengano cristiani…” Nell’accenno a liti e contese, Francesco ha qui certamente presente la tragica sorte di gruppi di frati che erano partiti per i paesi musulmani e s’erano messi a predicare il Vangelo fin dentro le moschee o talora a vilipendere pubblicamente Maometto, magari in cerca di una facile occasione di martirio (che puntualmente si realizzava) più che di un’opera di evangelizzazione. Non a caso nel preambolo a quanto sopra citato, Francesco ricorda ai frati il celebre detto di Gesù: “Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10,16). La precisazione “quando piacerà al Signore” fa intendere chiaramente che Francesco pensa a una azione in due tempi, e che i suoi ritmi non saranno dettati da logiche umane o politiche. Ancor più eterodosso è l’invito a sottomettersi alle autorità, dato che il concilio che aveva proclamato la crociata (IV Lateranense 1215) faceva espresso divieto ai cristiani di sottomettersi a autorità pagane. Va da sé che di questa metodologia pacifica proposta alle autorità pontificie, non v’è traccia nel testo finale approvato con bolla papale. S.Tommaso ha un atteggiamento più articolato nei confronti dell’Islam. Si ritrovano nella sua opera brani, come il seguente, che sembrano ricapitolare tutti i luoghi comuni della polemica medievale all’insegna dell’ingiuria e della dengrazione: l’Islam religione violenta, fede rozza di uomini carnali e dediti alla lussuria e persino “uomini bestiali”; l’Islam come raffazzonamento di qualche verità mescolata a “dottrine falsissime”, l’Islam come setta degenere e messaggio non credibile perché non comprovato da miracoli: “Coloro invece che introdussero sette erronee procedettero per vie del tutto contrarie, com’è evidente nel caso di Maometto, il quale allettò i popoli con la promessa di piaceri carnali, ai quali essi sono già propensi per la concupiscenza della carne. Inoltre diede precetti conformi a codeste premesse, sciogliendo le briglie alle passioni del piacere, in cui è facile farsi ubbidire dagli uomini carnali. In più egli non diede altri insegnamenti al di fuori di quelli che qualsiasi altra persona mediocremente istruita può dare e facilmente comprendere con il suo ingegno naturale: anzi le verità stesse che egli insegnò sono mescolate a parole e a dottrine falsissime. E neppure si servì dei miracoli soprannaturali, che costituiscono la sola testimonianza adeguata alla rivelazione divina… Ma disse di essere stato inviato con la potenza delle armi: il quale contrassegno non manca neppure ai briganti e ai tiranni. Inoltre a lui inizialmente non credettero uomini pratici delle cose divine ed umane, ma uomini bestiali abitanti del deserto, del tutto ignari delle cose di Dio; e servendosi poi del loro numero, egli costrinse gli altri ad accettare le sue legge con la forza delle armi. E neppure ebbe anteriormente la testimonianza dei profeti precedenti; anzi egli guasta tutti gli insegnamenti dell’Antico Testamento con racconti favolosi, come risulta dalla lettura della sua legge. Ecco perché con astuzia egli proibisce ai suoi seguaci di leggere i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, per non essere tacciato di falsità. Perciò è evidente che coloro che credono in lui compiono un atto di leggerezza” (Summa contra Gentiles, SEI, Torino 1975, I, IV) S. Tommaso però si occupa dei musulmani anche in un altro passo nella Summa contra Gentiles (cit., I, II), alieno dallo spirito polemico del primo, fornendo questa volta una indicazione metodologica preziosa. Essa va nel senso della polemica teologica basata sull’esercizio della “ragione naturale” –evidente progresso rispetto alla denigrazione e all’ingiuria sistematica mostrate da tanti polemisti coevi- e che promuove comunque una forma, sia pure diversa da quella testimoniale di S.Francesco, di confronto interreligioso destinata a fare scuola: “E’ però difficile confutare tutti i singoli errori, per due motivi. Primo, perché non abbiamo tale conoscenza delle asserzioni sacrileghe dei singoli oppositori da poter desumere validi argomenti dalle ragioni da essi addotte per distruggere partendo da esse i loro errori… Secondo, perché alcuni di essi, quali i maomettani e i pagani, non accettano come noi l’autorità della Scrittura, mediante la quale è invece possibile disputare con gli Ebrei, ricorrendo all’Antico Testamento, oppure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano né l’uno né l’altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale, cui tutti sono costretti a piegarsi. Questa però nelle cose divine non è sufficiente. Nell’investigare dunque certe verità mostreremo quali errori esse escludono e in che modo la verità raggiunta con la dimostrazione concordi con la fede della religione cristiana”. Questo brano meriterebbe ben altro commento che le poche cose che possiamo qui rimarcare. Si noti la dichiarata intenzione di spostare il confronto sul terreno della discussione al lume della ragione naturale. Dopotutto gli arabi ne erano i maestri indiscussi: Tommaso e il suo maestro, Alberto Magno, conoscevano a fondo l’Avicenna e l’Averroè tradotti in latino. Insomma, si propone un “confronto filosofico” con l’Islam, qualcosa che è ben diverso dall’approccio più rozzo di chi semplicemente vorrà usare la teologia cristiana come termine di paragone e criterio esclusivo di giudizio. E’ questa scelta del puro “confronto teologico” che emerge infatti nel testo del domenicano Ricoldo da Montecroce (Contra legem Sarracenorum (tr. it., I Saraceni, a cura di G. Rizzardi, Nardini, Firenze 1992), opera di un monaco curioso e attento osservatore che fu a Baghdad agli inizi del ’300 e si propose una grandiosa opera di evangelizzazione dei territori arabi. Ricoldo è interessante per un altro aspetto, connesso con la “lotta ideologica” al profeta dell’Islam a partire all’incirca dall’epoca della fine dei regni crociati a seguito della caduta di S. Giovanni d’Acri (1291), città in cui s’era fermato per breve tempo, ospite del locale convento della sua congregazione. Si tratta di un monaco che aveva viaggiato in lungo e in largo per il Medio Oriente, studiando l’arabo e leggendo il Corano nell’originale, insomma qualcuno che aveva una conoscenza di prima mano della materia. Nel suo diario di viaggio Itinerarium fratris Ricoldi egli mostra a più riprese un’aperta ammirazione per la cultura musulmana, ne loda il vivo senso dell’ospitalità, il livello morale e persino la tolleranza. Ma dopo la constatazione del fallimento del suo disegno missionario, ritorna amareggiato in Italia intorno al 1300, e passa il resto dei suoi anni a scrivere opere di aspra confutazione, ispirate alla denigrazione sistematica e al disprezzo più sincero. Nel citato Contra legem Sarracenorum, egli parla dell’Islam come della grande “terza persecuzione” subita dalla Chiesa dopo quella di Giudei e Romani e quella degli eretici dei primi secoli. In sostanza, lo rappresenta come la “pienezza” dell’eresia, e lo spiega minuziosamente come un perverso concentrato delle dottrine di Sabellio, Ario, Carpocrate, Cerinto, Elione, i Nicolaiti… I titoli dei singoli capitoli sono di questo tenore: “I principali errori del Corano” (cap.1); “Come bisogna comportarsi con loro” (cap.2); “Il Corano non è testimoniato da alcuna scrittura” (cap.3); “Non ha né uno stile né un contenuto simile [alle altre scritture] (cap.4); “Non concorda nelle sue affermazioni con nessun altro” (cap.5); “La legge dei Saraceni si contraddice” (cap.6); “La legge dei Saraceni non è confermata da miracoli” (cap.7). Fin qui il tono polemico è contenuto nei limiti di una robusta opera di confutazione, che riprende peraltro argomentazioni già presentate da Giovanni Damasceno.. I capitoli seguenti segnano un crescendo di vis polemica: “E’ una legge irrazionale” (cap.8); “La legge dei Saraceni contiene chiare menzogne” (cap.9); “Il Corano è una legge violenta e di morte” (cap. 10); “Il Corano è una legge disordinata” (cap. 11); “E’ una legge malvagia” (cap.12). Si termina con un capitolo, il sedicesimo, intitolato “In che cosa il Vangelo eccelle sul Corano”. In un’altra opera, Improbatio Alcorani, una articolata confutazione, si leggono dichiarazioni di questo tenore: “Il Corano autorizza la sodomia, il peccato della gola, l’intemperanza e la rapina, mentre nulla dice che abbia valore alcuno delle virtù quali l’umiltà, la pazienza, la pace, la continenza, l’amore del prossimo e del fine ultimo dell’uomo”. La conversione da una non troppo velata ammirazione del diario di viaggio a questo crescendo polemico delle opere più tarde, caratterizzato da evidenti distorsioni della verità dei fatti, faceva dire ad Alessandro Bausani che inquadrava questo cambiamento nel contesto del “sacro odio” da istillare programmaticamente nei guerrieri crociati: “Se non si vuole ammettere l’ipotesi, alquanto improbabile, di una improvvisa follia o di una patologica perdita di memoria nel povero Ricoldo, siamo costretti ad accettare l’idea di una propaganda politica organizzata coscientemente a scopi ben precisi” (Alessandro Bausani, Il pazzo sacro, Luni Ed., Milano-Trento 2000). All’interno dell’ordine domenicano vi fu per la verità chi propose una lettura dell’ Islam completamente diversa, ad es., Giovanni di Tripoli, formatosi nel convento di Acri e contemporaneo di Ricoldo, che studiò attentamente la cristologia coranica proponendola come base di un dialogo pacifico con l’Islam. Con lui si affaccia la tendenza a vedere nel Corano una “conferma” sia pure imperfetta e germinale di alcune verità cristiane, idea che sarà ampiamente ripresa in tempi recenti (Massignon, Basetti-Sani). Ma le voci “pacifiste” di S. Francesco e di Giovanni di Tripoli restano isolate. La tendenza aggressiva ebbe notoriamente il sopravvento e fu avallata dai proclami di un S. Bernardo di Chiaravalle, che giustificava la violenza crociata con l’ideologia del “malicidio” sulla base dell’antica equiparazione di Maometto e i suoi a “prodromo dell’anticristo”. Nel XII-XIII secolo si ha un vero profluvio di opere polemiche all’insegna della denigrazione sistematica di Maometto, definito volentieri già a partire da Pietro di Cluny (il promotore della prima traduzione latina del Corano e autore di un Contra sectam Sarracenorum) come “raptor, homicida, parricida multorum, proditor, adulter nefandus”, e capo di una setta di persone “prudentes iuxta carnem, sine lege, totius boni inscii, appetentes luxuriam deditique gulae” (cfr. in proposito G. Rizzardi, Islam e cristianità dal medioevo ad oggi. Storia di controversia o conoscenza?, in AA.VV. L’Islam, dalla conoscenza al dialogo, numero monografico di “Credere Oggi”, XVII, 3/1997). La linea aggressiva che si snoda da Pietro di Cluny a S.Bernardo di Chiaravalle troverà altri paladini e teorici convinti in Umberto da Romans e fra’ Fidenzio da Padova. Un’ ulteriore tendenza dell’atteggiamento cristiano nel medioevo, connesso con un livello più sofisticato di lotta ideologica, ci è mostrata nell’opera del grande religioso, mistico e filosofo catalano Raimondo Lullo (m.1315), in cui il confronto con l’Islam privilegia lo strumento della “ragione naturale” sulla scia delle indicazioni metodologiche di S.Tommaso. Fondatore di una scuola di arabo in Miramar, ottenne nel 1276 con bolla papale l’approvazione del suo programma missionario. Fu protagonista in terre d’Africa di un dibattito con teologi musulmani, in particolare con un non meglio identificato “espiscopus” musulmano (un dottore della legge di qualche fama) in Bugia, sui principali dogmi cristologici, morì in circostanze non ben chiarite durante il ritorno in Spagna per gli stenti del viaggio per mare, o, secondo alcune fonti, lapidato in terre islamiche. Raimondo Lullo è personaggio emblematico sotto vari aspetti. Il suo programma ricomprende propositi di evangelizzazione dei musulmani e, insieme, un atteggiamento bellicoso e pro-crociate. Ma, soprattutto, egli ha chiara cognizione della sfida globale portata dall’Islam, una sfida che esula dal piano meramente politico-religioso e investe il complesso della cultura e del pensiero del tempo. Egli pare conoscere fin da giovane i testi dei filosofi arabi ed è preoccupato della grande “eresia averroistica” molto più che di quella di Maometto. Tutta la sua vastissima opera filosofico-teologica guardava, con ammirazione mista a grande apprensione, vuoi al successo della cultura filosofica musulmana – il cui influsso egli combatté programmaticamente soprattutto nella scuola teologica averroizzante di Parigi – vuoi alla mistica o sufismo da lui direttamente conosciuto e da cui pare si lasciasse sottilmente ispirare (si veda in proposito lo splendido R.Lullo, Il libro dell’Amico e dell’Amato. Dialoghi mistici, trad. it., Città Nuova, Roma 1991). Durante la fase centrale della sua esistenza ha luogo la celebre condanna (1277) dell’aristotelismo e della “filosofia di marca araba” (ossia, dei seguaci dei due principali commentatori musulmani di Aristotele tradotti in latino: Avicenna e Averroè) ad opera dl vescovo di Parigi, che colpiva soprattutto l’averroismo imperante nelle locali università. Interessante è osservare che sul soglio pontificio sedeva all’epoca Giovanni XXI, certamente se non diretto ispiratore quantomeno a conoscenza e favorevole alla condanna. Anche questa è una figura emblematica: appartenente all’ordine francescano e noto come filosofo col nome di Petrus Ispanus, era stato un attento studioso dei filosofi arabi, e di Avicenna in particolare, divenendo uno degli esponenti di spicco di quell’ “agostinismo avicennizzante” che fu indagato in alcuni celebri studi di Etienne Gilson (si veda ad esempio l’illuminante Les sources gréco-arabes de l’Augustinisme Avicennisant, in “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age” 4/1929). Secondo Gilson nella teoria della conoscenza di Petrus Hispanus, personaggio citato nella Commedia (Par., XII, 134-135), «Avicenna si sostituiva espressamente ad Aristotele per tutto ciò che concerne l’ordine mistico». Tornando a Lullo, sappiamo che egli ebbe accese discussioni con i professori della facoltà di teologia della “Universitas magistrorum et scholarium parisiensium” al tempo di Sigieri di Brabante, il noto professore averroista che andrà incontro a condanne e, pare, a morte violenta. Citiamo di seguito un brano dalla Disputatio Raymundi et Averroistae (1310) che ha tutta l’aria di riflettere a caldo una discussione reale: “Disse l’Averroista: Raimondo, la fede cattolica è così alta, che non posso comprenderla con l’intelligenza, ma la credo, perché sono un cristiano verace. E’ impossibile infatti comprendere con l’intelligenza che una fanciulla, come la Vergine Maria, rimanendo vergine, possa dare alla luce un figlio; che Dio si sia incarnato, che il mondo sia creato dal nulla, che gli uomini posano risorgere e cose di questo genere, poiché tutto ciò non è filosofico. E perciò dico che intendo filosoficamente che le cose predette sono impossibili secondo il modo naturale di intendere. Tuttavia credo secondo il modo di credere proprio della fede, poiché sono cattolico” Contro questa, che appare una efficace per quanto un po’ schematica autorappresentazione del “doppio credo” averroista, insorge il Lullo equiparando esplicitamente l’eresia degli averroisti a quella dei “saraceni”: “L’infedeltà è un abito, che nasce dalle similitudini contraddittorie; perciò l’infedele contraddice agli articoli della fede. E lo fa in due modi, credendo e conoscendo con l’intelligenza. Credendo, come il Saraceno, il quale non crede che Dio sia trino e incarnato, e via dicendo; nel secondo modo, come l’Averrosita cristiano, il quale afferma che sotto il profilo razionale è impossibile che Dio sia trino e incarnato; ma dice di credere che Dio sia trino e incarnato, in quanto afferma di essere cattolico. […] La fede è l’abito per cui il vero Cattolico pone le altezze delle ragioni divine in un’infinità che è sotto ogni rispetto semplice; ma il Saraceno e l’Averrosita cristiano negano tutto ciò” (dal Liber Natalis) Consequenziale la pressante preghiera per una “crociata culturale” che Lullo rivolgeva nel Liber lamentationis philosophiae a Filippo il Bello “… affinché, essendo egli campione della Chiesa e difensore della fede cristiana, cacciasse i libri e le dottrine di Averroè dalla scuola di Parigi, così che nessun altro osasse citarli, leggerli o udirli commentati: poiché contengono molti errori nefandi contro la fede e, quel che è peggio e più pericoloso, frequentemente ingenerano tali errori in molte menti. E’ indegno e vergognoso dire a dei cristiani che la fede è più improbabile che probabile o evidente; e questo dicono e affermano coloro che imitano l’eretico Averroè” L’università parigina rappresenta benissimo questo momento in cui l’intellettualità cristiana europea subisce il fascino del grande “eretico Averroè” e se ne lascia profondamente irretire, mentre infuria al contempo la polemica religiosa e la serie delle guerre crociate. I filosofi e gli scienziati arabi tradotti in latino sono riconosciuti come maestri e incubatori di una grande rinascita di ogni ramo del sapere, ma erano pur sempre “maestri pagani”, o al più “eretici”… A esemplificare emblematicamente questo clima contraddittorio, questa scissione, è il nostro Dante che, com’è noto, collocherà nel limbo i due filosofi saraceni da lui ammirati (Avicenna e Averroè) e in paradiso l’averroista Sigieri; sbatterà invece l’amico “averroizzante” Cavalcanti all’inferno, in compagnia di Maometto relegato nell’ultima bolgia tra “gli eretici” e i seminatori di scismi. Questa fase storica, in cui il movimento missionario convive con lo spirito di crociata, quella militare in Terrasanta e quella culturale nelle università europee, rappresentò pur incertezze e contraddizioni uno sviluppo nuovo, ma in fondo in linea e ancora coerente con la vecchia impostazione del Damasceno, ossia con l’idea dell’Islam come eresia cristiana, anzi come “pienezza” dell’eresia. 1. 3. Occorrerà attendere il XVII secolo perché si intraveda una svolta, segnata dagli studi di Ludovico Marracci, conoscitore di diverse lingue del Medio Oriente e attivo presso il seminario vescovile di Padova. Qui egli portò a compimento quella che viene considerata la prima traduzione scientifica (in latino) del Corano, stampata dalla tipografia del locale seminario e che sarà alla base di molte traduzioni moderne in lingue europee. Il lavoro encomiabile del Marracci fu accompagnato da un ponderoso Prodrumus ad refutationem Alcorani, lavoro che pur d’impostazione polemica, si segnalava per l’accuratezza filologica e lo sforzo di obiettività e di rispetto delle fonti, essendosi il Marracci potuto avvalere di commentari arabi originali. Nello stesso seminario, S. Gregorio Barbarigo darà origine in seguito a una “scuola orientale” a fini missionari. Tutto questo rinnovato interesse per il mondo musulmano traeva origine dalla decisione, ancora nel lontano 1311, di papa Clemente V di istituire cattedre di letterature orientali in vari centri europei (Bonn, Oxford, Salamanca, Parigi) nell’ottica della missione e della evangelizzazione. Nella stessa epoca un altro orientalista, A.Reland (1676-1748), scriveva una interessante trattazione De religione muhammadica libri duo, in cui si usa esplicitamente la parola “religione” e, soprattutto, risuona per la prima volta un velato mea culpa: “La verità va sempre ricercata; a me sembra lodevole lo studio che ponga fine alle calunnie e che spieghi in lungo e in largo questa religione a coloro che vogliono comprenderla, senza nasconderla dietro le nubi della maldicenza e delle false interpretazioni… Non è mia intenzione abbellire o trasfigurare la religione di Maometto, che tra l’altro condanno, e neanche vantarla o difenderla. Devo in qualche modo patrocinare la causa maomettana, se voglio dire la verità, per difenderla dalle calunnie che le vengono fatte”. Il secolo dei lumi conosce una inaspettata rivalutazione della figura dello profeta fondatore, la cui sobria teologia aliena da misteri e “dogmi irrazionali”, viene talora polemicamente opposta a quella cristiana. Questo spiega certi apprezzamenti provenienti ad esempio da un Voltaire (m. 1778), certo in generale non tenero con le religioni: “La sua (=di Maometto) religione è saggia, severa, casta, umana: saggia perché non cade nella demenza di dare a Dio degli associati, e perché non ha misteri; severa perché proibisce i giochi d’azzardo, il vino, i liquori forti ed ordina la preghiera cinque volte al giorno…”; questo argomentare ritorna ancora nel secolo seguente in Alphonse de Lamartine (m. 1869), nel quale echeggia la stessa ammirazione del Carlyle per le “personalità eccezionali”, che diceva : “Mai uomo si propose, volontariamente o involontariamente, scopo più sublime, poiché questo scopo era sovrumano: scalzare le superstizioni imposte fra il Creatore e la creatura, restituire l’uomo a Dio e l’uomo a Dio, restaurare l’idea razionale e sana della divinità…” 1. 4. Un quarto momento importante è rinvenibile in quello straordinario islamologo e iniziatore di una nuova lettura cristiana del fenomeno Islam che fu Louis Massignon, di cui è uscita di recente in italiano una raccolta di saggi Parola data, Adelphi, Milano 1996. Su questa figura di grande studioso, l’ideatore della formula – oggi tanto di moda – delle «tre religioni d’Abramo», si vedano: G. Rizzardi, L. Massignon (1883-1962). Un profilo dell’orientalista cattolico, Glossa, Milano 1996 e G. Basetti-Sani, L. Massignon 1883-1962, Alinea Editrice, Firenze 1985, con un carteggio La Pira-Massignon in appendice, biografia dovuta a un suo allievo e originale continuatore. Louis Massignon si pone la domanda del significato che “deve” avere l’Islam nell’economia della salvezza. L’Islam cessa di essere percepito come un «nemico», una fede «da raddrizzare», un popolo da convertire e via dicendo, venendogli espressamente riconosciuta la dignità di una fede rivelata che ha qualcosa d’importante in comune con le altre due religioni di ceppo biblico: l’origine, ovvero Abramo «il primo monoteista», e un grande mistero, quello di Gesù di Nazareth. In fondo Massignon riconosce il punto di partenza della coranica “teologia delle religioni”: Abramo. E addita nell’interrogazione comune su Gesù –riprendendo in questo l’opzione sfortunata di Giovanni da Tripoli- la strada di un possibile “dialogo teologico”. L’opera pionieristica di Massignon si colloca storicamente tra le due guerre, ossia nel periodo finale del colonialismo europeo e di un certo «orientalismo» che, al di là degli indubbi meriti, era stato veicolo di non pochi pregiudizi e forse non a torto percepito da molti intellettuali musulmani contemporanei come scienza straniera, al servizio dell’invasore (un importante bilancio è nello stimolante saggio di Edward W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991). Con la riflessione del cattolico Massignon e il riconoscimento dell’Islam come possibile «fede sorella», il clima cambia completamente: l’interesse reciproco s’intensifica, l’Islam non è più solo quello di vecchi stereotipi che facevano di Maometto l’ “impostore” per eccellenza e un figlio del diavolo e, del Corano, un “libro ridicolo”. Con Massignon e le successive aperture cristiane all’Islam, parrebbe intravedersi la fine di un esilio durato oltre tremila anni: quello di Ismaele, il capostipite riconosciuto degli Arabi, diseredato e cacciato con la madre nel deserto. Le tappe successive sono a tutti ben note: il concilio Vaticano II e il suo innovativo interesse per i musulmani (v. paragrafo n.3 del documento Nostra Aetate), il dialogo interreligioso avviato dalle due parti attraverso una ormai nutrita serie di incontri, convegni ecc. Da quest’ultimo documento vale la pena citare il passo seguente, che fornisce un’idea di quanto sia cambiato il clima rispetto ai tempi dell’equazione Islam=eresia e dei luoghi comuni dei polemisti cristiani: “La chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti anche nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano però come profeta; onorano sua madre Maria e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Per questo essi apprezzano la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. E sebbene, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il Sacrosanto Sinodo esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare serenamente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”. Parole indubbiamente nuove, in cui emerge tra le righe un velato “mea culpa”, ma in cui significative sono alcune reticenze: ad esempio non si nomina mai lui, Maometto, né la parola “islam”… Certo, si capovolge il radicato stereotipo dei “musulmani immorali”, o “sregolati”, uno dei cavalli di battaglia –come abbiamo visto- della polemica medievale e li si ritiene persino degni compagni di strada nel perseguimento di pace, giustizia e libertà. Ma ci si dovrebbe chiedere: l’Islam può accettare l’invito del Sacrosanto Sinodo a “dimenticare il passato” e a voltare pagina, così, semplicemente? Le reiterate profferte di dialogo con l’Islam, notoriamente accolte senza molto entusiasmo dall’altra parte, possono prescindere da una adeguata, profonda, non reticente riflessione della cristianità sul proprio atteggiamento nei confronti dell’Islam dall’epoca delle crociate sino a quella del colonialismo? Infine una nuova prospettiva, che forse potrebbe dare adito a una ulteriore fase nella lunga storia dei rapporti tra mondo cristiano e mondo musulmano, ci sembra ben rappresentata nel recente, densissimo e illuminante saggio di R. Arnaldez, A la croisée des trois monothéismes. Una communauté de pensée au Moyen Age, Albin Michel, Paris 1993. Sulla scia di intuizioni che sono state anche di altri studiosi (da Americo Castro a William Montgomery Watt ad esempio) viene rimarcato con grande erudizione e finezza d’osservazioni il ruolo degli intensi scambi tra pensatori ebrei, cristiani e musulmani del medioevo (da Toledo a Palermo, da Baghdad alla costa del Mediterraneo orientale) nella formazione dell’identità dell’ “uomo occidentale”. Siamo qui, a mio avviso, di fronte un capitolo nuovo che fa davvero piazza pulita del vecchio approccio orientalistico, riconoscendo pienamente l’apporto del mondo arabo-musulmano alla costruzione della «modernità» ovvero vedendo in esso, come si esprimeva Alessandro Bausani, «una parte essenziale della cultura occidentale» (Islam as an essential part of western culture, in Studies on Islam, London-Amsterdam 1974). Ricordiamo ancora la tesi di B.Lewis (Culture in conflitto. Cristiani, ebrei e musulmani alle origini del mondo moderno, tr. it., Roma 1997), che non esita a vedere nel confronto-scontro tra le tre grandi tradizioni religiose le “origini del moderno”. Resta da chiedersi: il mondo musulmano – interiormente dilaniato da almeno due secoli tra rincorsa affannosa dei miti europei e attaccamento orgoglioso alla tradizione, tra ingenua ammirazione per le conquiste tecniche e scientifiche e senso acuto di frustrazione e perdita d’identità – si riconosce davvero «parte» di questo Occidente? 2. Quale Occidente? Oggi troviamo facilmente nei titoli di libri e convegni espressioni che presentano dicotomie del tipo “Islam e Occidente”, o “mondo musulmano e mondo occidentale”. Ma, ci viene il dubbio, non usiamo forse un po’ abusivamente il termine “Occidente”? Si tratta di una categoria notoriamente in discussione, se non in crisi, da tempo. Si è cominciato con lo scoprire “le radici ebraiche” del Moderno, supposte non meno rilevanti di quelle classiche della linea greco-romana-cristiana. Prima ancora, gli storici delle religioni ci avevano fatto vedere la forte componente antico-iranica dell’ebraismo in cui si inserisce la predicazione di Gesù. Ad esempio l’ idea del patto tra uomo e Dio, centrale nella alleanza antica e nuova, è già nell’antica proposta che Ahura Mazda presenta alle fravarti, i prototipi delle anime umane, in un tempo “prima del tempo”: ad esse è chiesto di scegliere se rimanere negli spazi divini o scendere sulla terra incarnandosi nei corpi per combattere Ahriman (episodio vagamente riecheggiato nel Corano, VII, 172); l’idea stessa di una vita dopo la morte, pressoché ignota all’ebraismo preesilico pare di derivazione iranica; e ancora, angelologia, messianismo e escatologia ebraiche ricevono quantomeno approfondimenti e precisazioni importanti nell’incontro con la religione dell’Iran antico (si veda in proposito lo stimolante A.Bausani, Persia religiosa, Lionello Giordano ed., Cosenza 1999). Dicevo poc’anzi “abusivo” perché alla costruzione di questo Occidente, tra i secoli XII-XIV ha dato fra gli altri un contributo determinante proprio il mondo arabo-musulmano. E’ il periodo del grande travaso delle scienze arabe nella cultura filosofica e scientifica del medioevo cristiano, l’epoca in cui Alberto Magno, Sigieri di Brabante e Tommaso d’Aquino assorbono e rielaborano l’aristotelismo di “marca araba”, in cui Raimondo Lullo combatte l’averroismo dilagante nelle università europee, e in cui Dante guarda ammirato a Averroè, colui “che lo gran comento feo”. E’ il periodo in cui scienze fondamentali come la medicina, l’astronomia, l’ottica, l’alchimia si studiano anche sui trattati arabi tradotti in latino, in cui mezza intellighenzia europea è in odore di eresia averroistica. Ma, a ben vedere, è anche un periodo di grande unità culturale, di “condivisioni” al di là delle differenze di fede e degli eventi bellici legati alle crociate: filosofi e scienziati arabi sono i maestri lontani, gli fecondatori misconosciuti di un nuovo umanesimo scientifico-filosofico. Ebbene, lo strano è che oggigiorno si è perduto il senso di appartenenza a questa straordinaria koinè culturale. Anche tra i musulmani. Infatti, alla grande stagione del riformismo laico e filo-occidentale del XIXXX secolo (che dura almeno fino agli anni ’60), allorché pareva che il mondo musulmano camminasse piuttosto compatto sulla via dell’ europeizzazione di costumi e strutture, di mentalità e istituzioni, in cui in fondo esso si sentiva ancora “occidente” (anzi rivendicava il merito di avere fecondato la cultura l’Europa medievale), è seguita la ben nota ondata integralista e programmaticamente anti-occidentale. Si parla oggi, sulle due sponde, di “Islam e Occidente” come se si trattasse di due categorie opposte e inconciliabili, mutuamente estranee. Tale non doveva apparire la situazione all’ “arabo-cristiano” S. Giovanni Damasceno: nato in Siria e di madrelingua araba, un “orientale” insomma, egli è colui che stende in greco la prima organica apologia dell’ “occidente” cristiano di fronte all’Islam trionfante! Ma neppure i vari Lullo, Tommaso, Dante ecc. sentono il mondo musulmano come “totalmente altro”: i maomettani, come abbiamo visto, saranno pure degli eretici, violenti e lussuriosi, ma leggono commentano e ci insegnano Aristotele… Il mondo arabo-musulmano, aspetto preoccupante, nel suo complesso stenta sempre più a riconoscersi parte di un Occidente cui pure ha dato un contribuito determinante. Maometto dichiarava essere il Corano una “conferma” della rivelazione di Mosè e di Gesù. Il Corano guarda a Gesù come all’ “eminente in questo mondo e in quell’altro e uno dei più vicini a Dio” (III, 45-46); e su Maria, di cui difende la concezione verginale di fronte alle “calunnie degli ebrei”, dice “Maria, in verità Dio t’ha prescelta e t’ha purificata t’ha eletta su tutte le donne del creato!” (III, 42). Gran parte (la più importante) del verbo predicato da Maometto non si potrebbe neppure concepire senza il verbo di Mosè e di Cristo. E ancora, la shari’a o legge islamica presuppone la legge di Mosè in tutta una serie di capitoli: purificazione, macellazione, taglione, pene per l’adultero, testimonianza in giudizio, sacrifici, prestito e usura… Le cinque preghiere giornaliere del pio musulmano, e persino il famigerato velo delle donne, non hanno altro precedente noto, così sembra, che nell’ufficio giornaliero dei monaci e negli usi delle donne della Siria cristiana (per cui anche cfr. S.Paolo, 1 Corinzi, 11, 1-16). Né, per altro verso, si potrebbe concepire la grande stagione di Algazel e Alfarabius, di Avicenna e Averroè senza l’eredità del pensiero greco e ellenistico; e neppure sono pensabili certi sviluppi della sofisticata teologia musulmana medievale senza l’assimilazione dell’arte dialettica dei greci. Eppure, l’“occidente” cristiano continua a ragionare come se da sempre avesse il monopolio dell’eredità biblica e greco-ellenistica… L’Islam è figlio di questa stessa eredità, di Abramo e di Aristotele, è “occidente”. Se si vuole, un “secondo occidente”, un altro modo per molti versi profondo e originale di interpretare la stessa antica luminosa eredità. Certo, questa consapevolezza di appartenere a un’unica koinè s’è largamente sfaldata, nell’Islam come nella Cristianità. Più comprensibilmente nel caso dell’Islam, e perfino giustificatamente dopo gli errori e gli orrori del periodo coloniale, dopo la lunga stagione degli insulti dei polemisti cristiani, dopo le umiliazioni del periodo postcoloniale che continua in fondo sino alle recenti “crociate” dell’Iraq e dell’Afghanistan. Meno comprensibile appare, per non dire ingiustificata, la memoria corta dell’Europa cristiana. Alla antica condivisione oggi si è sostituito un sentimento diffuso di reciproca estraneità e di ostilità. Ad esempio, nel giudizio degli odierni fondamentalisti l’Occidente europeo prima ha sfruttato e dominato e ora, che potrebbe svolgere una più incisiva azione di mediazione, tende invece ad allinearsi servilmente al “Grande Satana” americano. Ecco, l’America nell’immaginario collettivo del mondo musulmano ha ereditato i tratti più beceri e feroci del vecchio dominatore coloniale, è diventata senza alcun dubbio -nella retorica dei fondamentalisti da Khomeyni in poi- il Grande Satana, un concentrato di tutti i mali possibili. Contro cui vale la pena lottare sacrificarsi, e magari “eroicamente” morire in una nuova esaltante jihad. La percezione della ricchezza e della varietà di contributi occorsi per la lunga e laboriosa costruzione di questo Occidente, soprattutto la consapevolezza del determinante contributo arabo-musulmano, si è persa a favore dell’equazione semplificante: l’Occidente “è” l’America… Oggi insomma l’Islam e la Cristianità si allontanano, fanno fatica a riconoscere la rilevanza del comune ceppo biblico, e a comprendere lo straordinario cammino fatto insieme sin dall’epoca di Avicenna e Averroè. Certo, in mezzo c’è stata la grande ferita dell’oppressione coloniale, iniziata con Napoleone in Egitto, e che oggi continua sotto le forme più mascherate del neocolonialismo delle multinazionali, della massificazione-alienazione culturale indotta dai media, della disgregazione strisciante di radici e identità. E’ in questo contesto che un certo Islam ha iniziato la “secessione”dall’Occidente, e si va riconoscendo sempre più come fede di masse oppresse, marginali, del sud del mondo. Si va caricando, in altre parole, di un forte «antagonismo» sociale e ideologico / culturale di cui i recenti fatti collegati alla rivolta di Bin Laden non sono che la punta dell’iceberg. Al rifiuto crescente di questo Occidente corrisponde, nel mondo europeo e americano, la percezione diffusa di una alterità irriducibile dell’Islam; percezione che ha peraltro solide fondamenta nello sforzo costante, a partire dall’orientalismo sette-ottocentesco, di “orientalizzare” l’Islam, di aggregarlo indebitamente al mare magnum dell’ “Oriente”, rendendolo così più distante, totalmente altro e in fondo incompatibile con le nostre radici. Si dice appunto, comunemente “Islam e Occidente”, non certo –come sarebbe forse augurabile- “occidente latino-cristiano” e “occidente arabo-musulmano”… Questo aspetto antagonistico dell’ Islam –dobbiamo qui rimarcarlo- non nasce oggi. L’egira di Maometto, la “secessione” dalla ricca e sorda Mecca e dalla religione idolatrica dei padri, è una immagine forte, forse l’archetipo più potente nella storia dell’identità islamica dal medioevo ad oggi. La predicazione di Maometto contro l’egoismo della arrogante oligarchia della Mecca, la spinta egualitarista del primo Islam che inventava la “tassa sui ricchi” (la zakât o elemosina rituale a favore delle fasce più deboli della società), hanno da sempre ispirato i movimenti di rivolta che periodicamente sono sorti in terre musulmane dal medioevo a oggi. Non solo: spira nel Corano un’aria di forte antipatia verso i potenti (“in ogni città… sono i peggiori peccatori, tendono insidie ai credenti”, VI, 123) e di dura contestazione dei ricchi (“vi distrarrà da Dio la gara ad arricchirvi…”, CII, 1; “l’uomo prevarica, non appena crede di esser ricco… XCVI, 6-7), qualcosa che richiama vagamente lo spirito del celebre apologo evangelico del cammello e della cruna dell’ago. L’esilio di Ismaele, il diseredato, la grande “ingiustizia” patita dal progenitore del popolo del deserto è un’ altra immagine di forte, profetica, ancor oggi oltremodo eloquente. La “secessione” di Ismaele –progenitore degli arabi- è subita, quella di Maometto (ovvero l’ “egira”) è cercata: ma si tratta sempre di un allontanamento dalla matrice, foriero di dolore, ostilità e incomprensioni duraturi. L’immagine di Ismaele, l’escluso per antonomasia, ci va rivelando forse solo ora il suo senso simbolico più profondo: allora come oggigiorno al centro di tutto c’è una questione di giustizia... Se il Cristianesimo ha posto nella libertà che sceglie tra il bene e il male uno dei suoi grandi valori fondativi, l’Islam sin dalla sua nascita “per secessione” ha posto (ma è poi strano dopo la vicenda emblematica di Ismaele?) l’accento sul valore della giustizia. Per convincersene, si legga questo celebre passo coranico, ove Allah invita Maometto a rivolgersi ai suoi in questi termini: “Voi siete la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia, impedite l’ingiustizia , e credete in Dio!” (Corano, III, 110) Dunque: elezione, fede, giustizia, qui si potrebbe dire è il codice genetico del nuovo verbo predicato da Maometto nel lontano VII secolo della nostra era, direi quasi il suo “programma biologico”. “Promuovere la giustizia, impedire l’ingiustizia”: in questo passo si trova la radice ideologica e insieme la spiegazione del tipico carattere religioso-sociale delle innumerevoli rivolte, delle infinite “secessioni” in nome di Allah dal medioevo a oggi. Oggi, dopo la fine dell’ideologia marxista, l’Islam rischia davvero di diventare, anche senza volerlo e anche senza la rivolta di Bin Laden e compagni, la nuova bandiera ideologico-religiosa di oppressi ed esclusi ... L’esilio di Ismaele deve finire. Ma l’Occidente, questo “nostro” Occidente che pur tra mille dubbi e titubanze (e con avarizia crescente) apre le sue porte ai disperati del mondo, sembra sempre di nuovo tentato di scegliere il vecchio e collaudato sistema di ricacciare Ismaele –il figlio scomodo- nel deserto con le buone o le cattive … 3. Qualche riflessione sulle prospettive della “questione islamica” dopo la rivolta di Bin Laden. La voglia di antagonismo anti-americano e anti-europeo, che prende la gioventù e le fasce intellettuali musulmane in modo crescente almeno a partire dal 1967 (guerra dei sei giorni araboisraeliana), sembrava in evidente declino nell’ultimo decennio. Oggi invece rischia di venire nuovamente riattizzata e addirittura, in prospettiva, pericolosamente moltiplicata dalla crescente arroganza con cui i governi delle principali potenze cristiane (e di Israele) fronteggiano la “questione islamica”. Inopinatamente tornano scenari e metodi da tempi vetero-coloniali: si pensa di riuscire a eludere e circoscrivere il problema con la politica del bastone e della carota, ovvero in linguaggio più attuale: un mix adeguato di bombe teleguidate e “aiuti alla ricostruzione”. C’è qui un evidente deficit culturale nella comprensione del problema: si tende a vedere la punta dell’iceberg (il terrorismo), ma non la montagna ovvero l’enormità dei problemi che stanno sotto… In questa delicata e sconfortante situazione, un nuovo ruolo e una forte posizione stanno assumendo le chiese cristiane, cui spesso da parte musulmana viene rimproverata l’antica «compromissione» col potere coloniale, imperialista ecc. Il principio che più volte Papa Giovanni Paolo II ha perorato in questi ultimi tempi : “Non v’è pace senza giustizia”, è un monito dai toni nuovi e velatamente autocritici. L’accento sul tema della giustizia viene incontro, come s’è visto, a una delle esigenze fondamentali poste dal verbo predicato da Maometto. Ma, dovremmo chiederci, l’élite dirigente del mondo euro-americano ha ancora un’ “anima” per sentire questo tipo di richiamo, oppure per essa la gestione complessiva dei rapporti con il mondo musulmano deve essere ancora lasciata alla “ragione pianificante” di efficienti funzionari delle cancellerie, di preparatissimi generali degli stati maggiori riuniti, di solerti finanzieri della Banca Mondiale o del Fondo Monetario? Oggi la questione islamica è vista essenzialmente come una questione di ordine pubblico internazionale. Ma questa riduzione del problema all’aspetto militare-poliziesco, ovvero a un aspetto tecnico, ci pone a ben vedere di fronte a un problema culturale, di (nostri) limiti culturali. La nostra superiore cultura della tecnica e della razionalizzazione mostra limiti evidenti, così ben intuiti da un intellettuale ebreo-tedesco del periodo di Weimar, quel Walther Rathenau, grande imprenditore e teorico di una Nuova Economia e di un Nuovo Stato, che profeticamente diceva: “Il mondo odierno, materiale imprenditoriale, può sussistere solo se, distaccandosi dalla crassa valutazione dello spirito analitico, si piega all’ideale. Solo se si sacrifica, l’intelletto si può salvare” . La inesorabile Mechanisierung der Welt ha prodotto una ferale “meccanizzazione” dello spirito europeo, la ragione rischia di uccidere l’anima. Così oggi sembra che i vari comitati dei potenti della terra guardino alla questione islamica come a un qualsiasi problema di gestione da analizzare con freddezza e distacco: calcoliamo “razionalmente” quale dosaggio opportuno di diplomazia, bombe e dollari ci toglierà il problema di torno… Perché in fondo il mondo odierno dallo spirito meccanizzato –diceva Rathenau ancora nei lontani anni venti: “va avanti anche così, gli Stati possono essere dominati da avvocati e giornalisti. La politica si può fondare su una sintonizzazione di interessi. I funzionari possono essere uomini che gestiscono gli affari dello Stato come qualsiasi altro affare… Gli eserciti possono essere delle imprese per l’attacco e la difesa…” (cfr. V. Valbonesi, Dall’economia dell’anima all’anima dell’economia. Saggi su Walther Rathenau, Unipress, Padova 1992). Oggi il rischio maggiore è nell’illusione (diffusa) di poter affrontare e risolvere la questione islamica partendo da simili premesse. La descrizione di Rathenau sembra fotografare a meraviglia il Nuovo Ordine mondiale, l’ “impero” dei nostri giorni. La questione islamica in realtà ci sta ponendo di fronte alla nostra necessità di trasformazione morale e culturale. L’appello di Giovanni Paolo II, oggi più che mai la coscienza lucida e critica del “nostro” Occidente, va proprio in questa direzione, è un appello rivolto ai cuori e alle coscienze. Ma per avere successo dovrà convincere l’anima prima che la ragione. La ragione ha già fatto i suoi calcoli e i suoi piani, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti… L’Islam oggi non si riconosce (se non al livello di ristrette élites europeizzate o americanizzate) nella nuova koinè culturale dominante a livello planetario che ha studiato nei migliori college, parla inglese fluente e si esprime nell’asettico linguaggio di banchieri, informatici e ingegneri del nuovo ordine internazionale. Le grandi masse urbane o contadine del Nordafrica e del Medio Oriente – strette tra la miseria del quotidiano e la frustrazione crescente di speranze e aspettative- rischiano di essere sempre più facilmente preda del verbo fondamentalista-rivoluzionario o dell’avventurismo suicida di Bin Laden e emuli vari. Il quale ha (e avrà a lungo) gioco facile finché il “nostro” Occidente sarà quello senz’anima profeticamente descritto da Walther Rathenau, e ora magnificato da dissennati quanto “rabbiosi” intellettuali organici. Dopo esser stato preso, probabilmente a torto, per un grande «scisma cristiano», ben più concreto appare oggi il rischio che l’Islam si incammini davvero verso uno scisma irreversibile, gravido d’incognite e pericoli per tutti, da quell’Occidente di cui è stato a pieno titolo un co-fondatore. Quando Maometto abbandonò la Mecca, quella Mecca dominata da una oligarchia di ricchi mercanti sordi alla sua predicazione monoteista e “egualitarista”, andò com’è noto a Medina con un gruppo di fedeli per fondarvi il nuovo stato musulmano. Così facendo egli compì la famosa egira, parola complessa che sta a significare al contempo “scisma” tribale e culturale, rottura dei legami di solidarietà con la comunità originaria e costituzione di una nuova comunità militante potenzialmente ostile alla sua matrice. Non è un caso che il termine egira ritorni, dagli anni ’70, nella denominazione di uno dei primi movimenti egiziani della recente svolta fondamentalista, il Takfir wa hijra. Il nome di questo movimento esprime sinteticamente –con uno slogan- il programma dei movimenti “jihadisti” odierni, dai vari hezbollah (partiti di Dio) del Medio Oriente alle jihad egiziana e palestinese: essi affibbiano la “scomunica” (takfir) ai governi arabi moderati equiparandoli agli apostati e ai pagani contro cui lottò Maometto, e, di conseguenza, invitano a una nuova egira (hijra), ossia alla “secessione” dalla comunità da loro non più ritenuta autenticamente musulmana (o addirittura “pagana”), preparandosi alla jihad contro di essa. L’ “egira” di Bin Laden con i suoi seguaci sulle montagne dell’Afghanistan, la sua sanguinosa rivolta contro lo status quo internazionale e di tanti stati arabi supposti “nemici del vero islam”, non può essere rubricata semplicemente, pena l’incomprensione profonda del fenomeno, sotto la voce “terrorismo”. Non siamo di fronte soltanto a una questione di “ordine pubblico”. La jihad di Bin Laden è, in primo luogo, diretta contro i governanti dei paesi musulmani che i movimenti fondamentalisti arabo-sauditi e egiziani dichiarano “apostati”, quindi assimilabili ai miscredenti (kafir). La fatwa di Bin Laden del febbraio 1998 equiparava in effetti i governanti sauditi a miscredenti che occupano le città sante, rendendo ipso facto un “dovere religioso individuale” la lotta per liberarle. Questa si qualifica insomma come una “jihad difensiva” diretta contro gli occupanti e le potenze straniere che li sostengono: “L’imperativo di uccidere gli americani e i loro alleati –civili e militari- è un dovere individuale per ogni musulmano, che può assolverlo in qualsiasi paese in cui sia possibile farlo, affinché la moschea al-Aqsà (di Gerusalemme) e la Santa Moschea (della Mecca) siano liberate dalla loro stretta e i loro eserciti si ritirino da tutti i paesi dell’islam, sconfitti e impossibilitati a minacciare i musulmani”. Tra gli israeliani che occupano Gerusalemme e i governanti sauditi supposti “apostati” che occupano la Mecca l’equiparazione, come si vede, è completa. Non si può intendere sino in fondo il senso e soprattutto l’impatto emotivo di questa fatwa, se non si ha presente il passo coranico che qui Osama bin Laden, coscientemente e con consumata abilità, sottilmente richiama: “Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, ché Dio non ama gli eccessivi. Uccidete chi vi combatte dovunque li trovate e scacciateli da dove hanno scacciato voi [secondo l’esegesi comune: allusione a Meccani dalla cui città Maometto e la prima comunità fu in pratica costretto a fuggire]; combatteteli dunque finché non vi sia più scandalo [ossia: lo scandalo dei pagani della Mecca che occupavano il tempio santo della Ka’ba] , e la religione sia quella di Dio; ma se cessano la lotta, non vi sia più inimicizia che per gli iniqui” (II, 190-93) Il problema insomma è che, agli occhi di decine di milioni di musulmani, i “terroristi” appaiono piissimi credenti, coraggiosi “combattenti sulla via di Dio” impegnati a costo della vita a dare sostanza al precetto coranico di “scacciare è [i miscredenti] da dove hanno scacciato voi”, a por fine allo “scandalo” di terre sacre “occupate”. Dobbiamo capire cosa c’è dietro questa nuova situazione che si presenta sotto un duplice aspetto: vista dall’interno dell’Islam, si presenta come una nuova “egira”, uno scisma religioso, una jihad interna e in sostanza una guerra civile che sta sconvolgendo le società musulmane; vista dalla nostra parte, si presenta come una “secessione” strisciante, un disconoscimento delle comuni radici, qualcosa che comunque non sembra promettere nulla di buono.... Riducendo all’osso i termini della questione: l’ “Islam della secessione” – che è molto più ampio e radicato delle frange armate che oggi ci preoccupano- sembra porci domande in termini di giustizia, interpretando giacobinamente il programma coranico di “promuovere a giustizia e impedire l’ingiustizia” (v. supra); noi, fedeli al nostro codice genetico, continuiamo a rispondergli parlando del primato della libertà e dei diritti. Com’è noto, la libertà non è in cima alle preoccupazioni dei più poveri, e la giustizia non è mai stata la prima preoccupazione dei più ricchi. Abbiamo tutti bisogno di una profonda rivoluzione culturale e morale se vogliamo trovare un punto d’incontro e, chissà, costruire insieme in prospettiva un nuovo soddisfacente e duraturo equilibrio. Altrimenti, sarà un dialogo tra sordi, tra fondamentalismi di segno opposto, e i Bin Laden avranno tempo e modo di prosperare e moltiplicarsi. La violenza terroristica e suicida degli ultimi anni è diventata uno dei mezzi privilegiati di questa “rivolta islamica”, ma è evidentemente, insieme, il sintomo di un disagio profondo e ramificato che ci “interroga” e ci mette in questione. Possiamo oggi permetterci il lusso di ignorare questa interrogazione? Possiamo lasciare che la “secessione” si diffonda nelle menti, diventi un abito spirituale di parti sempre più ampie del miliardo di musulmani odierni? Un mistico persiano del XIII secolo, Nezami, in un suo splendido poema sulla spedizione in Oriente di Alessandro (Eskandar-namè, tr it. Nezami, Il libro della fortuna di Alessandro, Rizzoli-BUR, Milano 1997), ha parole che ci trasmettono un messaggio ancora attualissimo. Alessandro, conosciuto nel Corano con l’epiteto di Dhu ‘l-Qarnayn (“quello dalle due corna”) e considerato una sorta di profeta preislamico del monoteismo abramitico, giunge nel suo lungo viaggio missionario a una terra desolata del Mezzogiorno dove osserva campagne rigogliose abbandonate a se stesse e lasciate incolte. Chiede lumi a qualcuno del posto che gli spiega: “Questa terra che conquista il cuore ha molte contrade prospere e coltivabili… ma esse patiscono l’oppressione dell’ingiustizia. … Solo attraverso giustizia ed equità potrà questa terra dar frutti, ma non avrà che rovina e abbandono finché domineranno gli ingiusti!” Alessandro, medita turbato, quindi “quando fu informato che l’ingiustizia dei tiranni era stata la causa della rovina di quelle terre, volle erigervi una barriera di Giustizia e quel luogo volle chiamare Città di Alessandro”. Ma, oggi, dov’è l’Alessandro di cui avremmo bisogno? Chi ha voglia o è in grado di costruire la sempre più necessaria “barriera di Giustizia”? Si può sperare di costruire la nuova Città di Alessandro, o dovremo rassegnarci a tanti “villaggi di Guantanamo”? Oggi, dobbiamo constatarlo, l’azione viene prima dell’ interrogazione... L’Islam d’altronde, è sempre tentato di ripetere –secondo uno schema che ritorna, costante, da Ismaele a Maometto, dagli sciiti ai movimenti scismatici dal medioevo a oggi- le sue egire, le sue secessioni… L’egira dei guerriglieri islamici in Afghanistan trova un’eco profonda in un noto hadith (hadith al-ghurba, lett.: “hadith dell’esilio”), ossia un detto tradizionale messo in bocca a Maometto, sovente citato dagli estremisti islamici di oggi: “L’Islam cominciò proscritto [dall’aristocrazia meccana] ed esso ritornerà proscritto così come era cominciato. Onore ai proscritti. Fu domandato al profeta: chi sono questi proscritti? E lui rispose: coloro che, mentre tutti intorno sono corrotti, si mantengono onesti”. Tuttavia, pur nel quadro fosco che abbiamo davanti agli occhi, i tentativi di dialogo e di confronto interreligioso si moltiplicano, le borse dei paesi ricchi si aprono un po’ di più, le voci di intellettuali musulmani anti-fondamentalisti sono più forti e numerose, gli incontri di Assisi segnano tappe importanti. Lo spirito pacifista e dialogante di S. Francesco riprende quota di fronte alle stolide fanfare della nuova “crociata” e del fondamentalismo anglo-americano. Ci sono segnali di una nuova crescente attenzione al tema della libertà (delle libertà e dei diritti umani) e della differenza (femminile, religiosa) nel mondo musulmano, ci sono segnali di una maggiore attenzione ai temi della giustizia e dell’equità nel mondo cristiano: basterà a fermare la strisciante “secessione” dell’Islam dall’Occidente? In ogni caso –dovremmo chiederci- possiamo permetterci di rischiare che