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Giullari, folli e buffoni

2010, Artifara, n. 10

Giullari, folli e buffoni. 1 Francesc Massip (URV) Tito Saffioti, Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell 'arte, Milano, Book Time, 2009 Quello del giullare è stato uno dei mestieri più denigrati nella storia dell'Occidente, nonostante si tratti di uno tra i più importanti per la società. Importante non solo perché, per secoli, fu la principale forma di divertimento, ma anche perché fu l'unico depositario dell'antica eredità teatrale sopravissuta al genocidio culturale operato dalla Chiesa medievale e dai poteri che la sostenevano. La giulleria salva il teatro dalla feroce distruzione e dalla fanatica persecuzione a cui fu sottoposto dal cristianesimo. Per quasi un millennio i giullari mantengono in vita la testimonianza della rappresentazione scenica, delle tecniche interpretative, dell'insieme dei processi attoriali e narrativi che costituivano la spina dorsale dell'immaginario del popolo, finendo poi con l'essere vampirizzati dai frati predicatori, che erano affascinati dalla loro efficacia comunicativa. La loro arte rallegrava, intratteneva, informava e, soprattutto, manteneva vivo lo spirito critico della gente nei confronti del potere costituito e dei sistemi dominanti. Il giullare, con umorismo, ironia e burle, spargeva il seme del dissenso e dell'opposizione nei confronti dell'autorità incontestabile e sempre abusiva. Si trattò perciò di un mestiere perseguitato e diffamato, almeno fino a che non venne preso sotto l'ala protettiva di quei potenti che, in fondo, si annoiavano senza il pepe giullaresco, giungendo a essere istituzionalizzato nelle corti con la creazione della figura del buffone. Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell'arte è un appassionante percorso in quest'arte. Tito Saffioti è, in effetti, uno tra i maggiori conoscitori europei del mondo della giulleria. Già un ventennio fa, Saffioti pubblicò un fondamentale studio su I giullari in Italia. Lo spettacolo, il pubblico, i testi (Milano: Xenia 1990), con un'impressionante quantità di documentazione che permette di farci un'idea ben precisa dell'attività giullaresca medievale in territorio italiano. Ora fa qualche passo in più: innanzitutto estende la sua ricerca all'Età Moderna, prendendo in considerazione i buffoni di corte e gli altri personaggi comici di cui si circondava il potere, argomento tra l'altro già affrontato in un libro del 1997 ristampato da poco ('...E il signor duca ne rise di buona maniera.' Vita privata di un buffone di corte nella Urbino del Cinquecento, Milano: La Vita Felice 1997 i Book Time 2008), nel quale, in un elettrizzante itinerario, lo studioso ricostruisce la vita privata del buffone di corte dei duchi di Urbino durante il XVI secolo. Inoltre, il nuovo, documentatissimo e avvincente volume è

Giullari, folli e buffoni.1 Francesc Massip (URV) Tito Saffioti, Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte, Milano, Book Time, 2009 Quello del giullare è stato uno dei mestieri più denigrati nella storia dell’Occidente, nonostante si tratti di uno tra i più importanti per la società. Importante non solo perché, per secoli, fu la principale forma di divertimento, ma anche perché fu l’unico depositario dell’antica eredità teatrale sopravissuta al genocidio culturale operato dalla Chiesa medievale e dai poteri che la sostenevano. La giulleria salva il teatro dalla feroce distruzione e dalla fanatica persecuzione a cui fu sottoposto dal cristianesimo. Per quasi un millennio i giullari mantengono in vita la testimonianza della rappresentazione scenica, delle tecniche interpretative, dell’insieme dei processi attoriali e narrativi che costituivano la spina dorsale dell’immaginario del popolo, finendo poi con l’essere vampirizzati dai frati predicatori, che erano affascinati dalla loro efficacia comunicativa. La loro arte rallegrava, intratteneva, informava e, soprattutto, manteneva vivo lo spirito critico della gente nei confronti del potere costituito e dei sistemi dominanti. Il giullare, con umorismo, ironia e burle, spargeva il seme del dissenso e dell’opposizione nei confronti dell’autorità incontestabile e sempre abusiva. Si trattò perciò di un mestiere perseguitato e diffamato, almeno fino a che non venne preso sotto l’ala protettiva di quei potenti che, in fondo, si annoiavano senza il pepe giullaresco, giungendo a essere istituzionalizzato nelle corti con la creazione della figura del buffone. Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte è un appassionante percorso in quest’arte. Tito Saffioti è, in effetti, uno tra i maggiori conoscitori europei del mondo della giulleria. Già un ventennio fa, Saffioti pubblicò un fondamentale studio su I giullari in Italia. Lo spettacolo, il pubblico, i testi (Milano: Xenia 1990), con un’impressionante quantità di documentazione che permette di farci un’idea ben precisa dell’attività giullaresca medievale in territorio italiano. Ora fa qualche passo in più: innanzitutto estende la sua ricerca all’Età Moderna, prendendo in considerazione i buffoni di corte e gli altri personaggi comici di cui si circondava il potere, argomento tra l’altro già affrontato in un libro del 1997 ristampato da poco (‘...E il signor duca ne rise di buona maniera.’ Vita privata di un buffone di corte nella Urbino del Cinquecento, Milano: La Vita Felice 1997 i Book Time 2008), nel quale, in un elettrizzante itinerario, lo studioso ricostruisce la vita privata del buffone di corte dei duchi di Urbino durante il XVI secolo. Inoltre, il nuovo, documentatissimo e avvincente volume è 1 Versione italiana di Donatella Siviero (Università di Messina). accompagnato da un’imponente raccolta di più di 200 immagini: non a caso Saffioti possiede il corpus di documenti più completo sulla giulleria. Iconografia selezionata e pertinente che dà conto dell’aspetto fisico, del vestiario, nonché degli attrezzi e degli strumenti scenici, dei gesti e degli atteggiamenti di questi professionisti dell’intrattenimento e dello svago e degli aneddoti che li videro protagonisti, alcuni dei quali sono brillanti esempi del loro genio, altri invece dimostrazione della crudeltà dei potenti presso i quali erano a servizio. L’aneddoto palpita, comprimendosi nella “povertà” di un fatto quotidiano per poi espandersi filosoficamente, come ha detto Stefano Geraci. Questo movimento cardiaco alimenta la nostra necessità di ricordare l’attore in grande scala, a partire dalla sue impronte episodiche e del suo sostanziale essere inafferrabile. L’itinerario attraverso l’aneddotica di folli e buffoni realizzato da Saffioti è un affresco vivo che spiega a un tempo sia l’indispensabile astuzia delle classi subalterne sia il costante sopruso gratuito delle classi dominanti. Il giullare, grazie all’universalità delle sue tecniche (mimica, danza, musica), è il personaggio che ha la maggiore mobilità geografica e sociale nel Medioevo. La giulleria è caratterizzata dal nomadismo e dalla pluralità dell’offerta ludica, cosa che ne agevola la capacità di oltrepassare frontiere e di partecipare a qualsiasi avvenimento festivo. Possiamo trovare giullari che animano feste popolari, che si mescolano alle celebrazioni religiose o che rallegrano i banchetti dei signori. Tutti i re o i grandi signori che si rispettino vorranno giullari, folli e buffoni introno a loro, anche nel corso dell’Età Moderna; in qualità di talismani toccati dalla divinità, con loro si attirava la fortuna e si scongiurava la sventura. D’alta parte, il folle è anche l’uomo che avvisa, che dà l’allarme, che denuncia lo scandalo, che interpreta i segni enigmatici, che dice la verità senza ambagi («bambini e matti dicono la verità» recita un adagio popolare catalano) e a prescindere dagli interessi di potere del re. Ma è anche colui che suscita il riso ed è al contempo oggetto degli inganni di corte, è cioè il depositario del mestiere della burla, diverte e procura piacere. Credo che la prima legislazione europea a favore di questo mestiere siano state le Leggi Palatine promulgate nel 1337 da Giacomo III di Maiorca (copiate poi da Pietro il Cerimonioso nelle sue Ordinanze di Castello), nelle quali si proclama la necessità di un mestiere che dia «quella allegria che i principi devono desiderare moltissimo e devono mantenere onestamente affinché, con essa, si allontani da loro la tristezza e il malumore e si mostrino amabili con tutti»2. Si tratta di un documento che Saffioti non prende in considerazione in questo libro perché c’è una generalizzata scarsa conoscenza della realtà catalana medievale, al punto da credere che il buffone del papa Borja, Bielet (Gabrielletus) improvvisò una 2. Jaume III rei de Mallorca, Leges Palatinae, presentazione e trascrizione di Llorenç Péreç Martínez, Palma, Olañeta edit., 1991, vol. I, p. 90 (traduzione) e p. 147 (originale latino). predica irriverente in un linguaggio che «mescolava il latino e lo spagnolo», mentre invece è ben noto che la lingua della corte pontificia borgiana era il catalano, come dimostra la documentazione “segreta” di Alessandro VI resa nota per la prima volta da padre Batllori3. È il solito problema: poiché la bibliografia più conosciuta sull’area iberica si riferisce fondamentalmente alla Spagna castigliana, restano in ombra le importantissime testimonianze delle culture galego-portoghese o catalana. Bisognava consultare i numerosi studi di Giuseppe Tavani (per esempio Tra Galizia e Provenza. Saggi sulla poesia medievale galego-portoghese, Roma: Carocci 2002), Josep Romeu i Figueras (Teatre català antic, 3 voll., 1994-95) o Francesc Massip («Giullari in chiesa, vescovi in piazza» in Francesco Mosetti (ed.), La scena assente. Realtà e leggenda sul teatro nel Medioevo, pp. 395-416, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2006; «Bucklige und Possenreisser. Narrenfeste im frühen katalanischen Theater» in E. Erdmann (ed.), Der Komische Körper, pp. 17-25. Wetzlar, Transcript, 2003; «Laughter and Transgression from Advent to Ash Wesnesday» European Medieval Drama , 11, 2007). Questi studi avrebbero permesso a Saffioti di analizzare le interessanti considerazioni su giullari e buffoni di corte fatte dal francescano di Girona Francesc Eiximenis (1330 ca.-1409) nel suo Lo Crestià, e in particolare nel Dotzè o Regiment de prínceps e de comunitats (València, 1385-6), ma anche nel Terç (València, 1384);4 gli avrebbero inoltre permesso di conoscere due importanti buffoni delle corti reali catalana e valenciana: Antoni Tallander alias Mossèn Borra (1360 ca. – 1446), buffone, menestrello ed araldo di Martino l’Umano, Ferrante di Antequera e Alfonso il Magnanimo, morto a Napoli a servizio di quest’ultimo e seppellito, con tutti gli onori, nella cattedrale di Barcellona, e il Canonge Ester (1500 ca. – 1540 ca. ), buffone della regina Germana di Foix presso la corte del vicereame di Valencia e oggetto delle più crudeli dicerie cortigiane5. Valga questo commento come un modesto contributo al magnifico e completissimo studio di Saffioti, che ripercorre la storia dei professionisti della risata, dalle origini tardoantiche fino ai giorni nostri, con particolare attenzione alla giulleria medievale e agli uomini di divertimento delle corti europee moderne, dagli Asburgo fino agli zar di Russia, per finire con un premio Nobel 3 Miquel Batllori, «El català, llengua de Cort a Roma durant els pontificats de Calixt III i Alexandre VI» e «La llengua catalana a la Cort d'Alexandre VI», La família Borja. Obra Completa, vol. IV, pp. 145-169. Valencia, Tres i Quatre, 1994. 4 Francesc Eiximenis, Dotzè llibre del Crestià. Segona part, volum primer, id. volum segon, ed. a cura di C.Wittlin et alii, Girona, Col·legi Universitari de Girona i Diputació de Girona 1986-1987; Francesc Eiximenis, Dotzè llibre del Crestià. Primera part, volum primer, a cura di X.Renedo et alii, Girona, Universitat de Girona i Diputació de Girona 2005; X.Renedo, «Eiximenis, els exemples i l’art de riure», Actes AILLC 13 (Girona 2003), Barcelona-Girona, PAM-ILCC, 2007, III, pp. 7-34. 5 Francesc Massip, «Riure amb el cos: folls, geperuts i bufons en l’espectacle català antic», in Jordi Ginebra-Magí Sunyer (eds.), Paraula Donada. Miscel·lània Joaquim Mallafrè, pp. 95-106, Benicarló, Onada edicions, 2006; ora, rivisto, in Francesc Massip, A cos de rei. Festa cívica i espectacle del poder reial a la Corona d’Aragó, Valls, Cossetània 2010, pp. 195-208. come Dario Fo, l’ultimo grande giullare contemporaneo che non a caso ha presentato pubblicamente il volume (Spazio Tadini, Milano, 12-1-10). Il suo intervento si è trasformato in una lezione magistrale di interpretazione giullaresca durante la quale, tra altre genialità, Fo ha spiegato come ha ricostruito e utilizzato il cosiddetto “grammelot”, la lingua giullaresca internazionale fatta di suoni espressivi e accompagnata sempre dalla debita intenzionalità gestuale6. Saffioti ha condotto una ricerca acuta e selettiva, innanzitutto sui documenti e i riferimenti letterari sulla figura, spesso relegata a margine dagli studi storici, del professionista della risata, che in questo libro da nota a piè diviene corpo principale; in seconda ma fondamentale istanza su un vastissimo corpus iconografico (incisioni, dipinti, affreschi, disegni, miniature, marginalia, ecc.) che ha saputo individuare, selezionare e ritagliare in un minuzioso lavoro di interpretazione iconica. Gli occhi della follia è, dunque, un’opera imprescindibile per conoscere il mestiere dell’attore, dell’intrattenitore, del consigliere che qualsiasi buon governante soleva avere a suo fianco per gli evidenti e salutari benefici che gli procurava. Per governare non c’è niente di meno indicato che cattivo umore, irritazione o malinconia e niente di più patetico di un’autorità sputaveleno (di certo ce ne vengono in mente subito alcune). Perciò Eiximenis apprezzava l’eutrapelia, o sano divertimento, che qualsiasi buon principe doveva procurarsi soprattutto con giullari e buffoni, benché «come disse Baldovino, famoso giullare del re di Francia, grande saggezza abbisogna per saper fare bene il matto dinanzi ai grandi signori» (Dotzè del Crestià cap. 558). Pertanto, per fare il folle del re bisognava essere saggi ed esperti e non certo come quel giullare che, vedendo che «il re di Francia di mattina faceva uno spuntino per il caldo, arrivò […] e gli disse – Per Dio, signore, è ben necessario che questo boccone sappia nuotare, visto che deve cadere nel vostro stomaco che è già pieno di vino! – E il re provò tanta vergogna per quella frase che per poco non fece impiccare il suo giullare» (Dotzè del Crestià cap. 880). Amleto evoca il grande Yorik, buffone del re di Danimarca, Lear riesce a capire che cosa gli è successo grazie alle riflessioni del suo fedele buffone e Feste è il folle più assennato di La dodicesima notte. Bisognava essere un “grande ridanciano”, secondo la felice terminologia eiximeniana, perché attraverso il riso si apre il cervello e si schiude il pensiero, come direbbe Fo. Un riso intelligente, è ovvio, lontano anni luce dalle imbecilli spiritosaggini di alcuni governanti di oggi che insultano costantemente l’intelligenza dei loro concittadini. Un riso critico che bisogna mantenere vivo, in continua effervescenza come coscienza vigile per il popolo, troppo spesso predisposto a bersela. 6 Sono assolutamente da ricordare i libri di Luigi Allegri: il fondamentale Teatro e spettacolo nel medioevo (Laterza 1988), Dario Fo. Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione (Laterza 1990) e L’arte e il mestiere. L’attore teatrale dall’antichità ad oggi (Carocci 2005). Ben venga lo sguardo della follia che mette in evidenza le fandonie del potere; ben vengano le satire politiche e le analisi umoristiche, perché soltanto gli occhi svegli del buffone vedono là dove l’autorità cerca di nascondere le magagne.