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Fattori verità

2005

LabOnt 4. Collana del Laboratorio di Ontologia diretta da Maurizio FERRARIS Se pareba boves, alba pratalia araba, et albo versorio teneba, negro semen seminaba. Gratia tibi agimus, potens sempiternus Deus. Questo volume si pubblica con un contributo MURST (fondi di ricerca scientifica PRIN 2003, programma di ricerca “Rappresentazione e verità”, Unita’ di ricerca - Università del Piemonte Orientale) Stefano CAPUTO FATTORI DI VERITÀ © Proprietà letteraria riservata – Edizioni AlboVersorio, Milano, novembre 2005. www.alboversorio.it mail-to: [email protected] tel.: 328-9284139 ISBN 88-89130-28-8 Progetto grafico copertina: M. L. CAPPUCCIO. Impaginazione a cura di: C. BONALDI ed E. S. STORACE. INDICE RINGRAZIAMENTI 11 INTRODUZIONE 13 CAPITOLO I. RENDERE F 17 1. Rendere F: sintassi e semantica 2. Rendere F e spiegazioni: tre varietà del rendere F 3. Le varietà modali del rendere F 3.1 Il rendere F causale 3.2 Rendere F necessitanti. I: ciò in cui consiste essere F 3.3 Rendere F necessitanti. II: sopravvenienza 3.3.1 Il caso delle promesse 3.3.2 Necessità de dicto e de re 17 21 29 31 32 35 44 46 CAPITOLO II. RENDERE VERO 49 1. Dal rendere F al rendere vero 2. Le concezioni modali del rendere vero 2.1 Il rendere vero come necessitazione 2.2 Il rendere vero come congiunzione di necessitazione e proiezione 2.2.1 Prima definizione 2.2.2 Seconda definizione 2.2.3 Morale 2.3 Rappresentazione e spiegazione 49 50 51 52 54 56 59 61 3. Una concezione essenzialista del rendere vero 3.1 Il caso degli esistenziali singolari 3.2 Ritorno ai fatti 3.2.1 Infiniti fatti 3.3 Gli stati di cose pleonastici come fattori di verità 3.4 Il far sussistere e il rendere vero non immediato 4. Rendere vero e proprietà intrinseche 5. Rendere vero e spiegazioni 5.1 Il superamento dei controesempi 5.2 L’intuizione corrispondentista 5.3 L’analisi di McFetridge 5.4 Rendere vero e ragion sufficiente 62 67 68 69 70 75 79 80 83 84 86 87 CAPITOLO III. VERITÀ E FATTORI DI VERITÀ 89 1. Fattori di verità e teoria della verità 2. Un primo presunto limite: specificazione delle condizioni di verità 3. Un secondo presunto limite: contingenza delle condizioni di verità 4. Un terzo presunto limite: discrepanza con la nozione di verità 4.1 Che cosa dimostra esattamente questo argomento? 5. Quattro concezioni della verità 5.1 Come le quattro concezioni risolvono i problemi della definizione tarskiana 5.2 Asserire ciò che non si comprende 5.3 Il problema dei bicondizionali omofonici 5.4 Le quattro concezioni e i fattori di verità 6. Un quarto presunto limite: la differenza della verità dall’asseribilità 7. La fondazione della verità sull’essere 7.1 La sopravvenienza della verità sull’essere 7.2 Fondazione è spiegazione 7.3 E vero che p poichécons p 8. Essere ed esistenza 89 91 96 100 103 105 107 110 115 118 123 127 128 130 131 138 NOTE 140 BIBLIOGRAFIA 153 A mia madre perché c’è A mio padre perché c’è stato RINGRAZIAMENTI Ci sono tante persone che hanno reso possibile, per diverse ragioni e in diversi modi, questo libro e a cui sono profondamente riconoscente. Innanzitutto Maurizio Ferraris, Alberto Voltolini e Diego Marconi. Maurizio ha accolto questo volume nella collana “Labont” ma, soprattutto, è stato per me un costante punto di riferimento e fonte di incoraggiamento nei tortuosi cammini intellettuali (e non solo) intrapresi dopo la mia laurea. Ricordo sempre quando un giorno di diversi anni fa mi disse (manifestando una chiara preferenza per la seconda delle alternative) che ero di fronte a un bivio: fare lo storico del pensiero di Merleau-Ponty (su cui allora lavoravo) o buttarmi nella filosofia teoretica. Questo libro è anche frutto di quella scelta. Alberto ha profuso sforzi e tempo affinché questo libro potesse essere pubblicato. Inoltre, alcuni dei corsi di dottorato da lui tenuti, nonché il lavoro di puntuale correzione e critica dei lavori da me preparati per tali corsi, sono stati momenti fondamentali della mia formazione. Diego è stato il mio tutor per la stesura della tesi di dottorato da cui buona parte del materiale qui contenuto proviene. Senza le sue letture puntuali, le sue critiche, i suoi stimoli a chiarire ciò che magari confusamente intuivo, la sua guida nell’affrontare gli spinosi problemi della teoria della verità e il suo scetticismo costruttivo nei confronti della metafisica, gran parte di ciò che è scritto in queste pagine sarebbe stato molto peggiore o non ci sarebbe stato affatto. Un ringraziamento particolare va a due filosofi le cui tesi sono qui a lungo discusse: Kevin Mulligan e Barry Smith. Kevin ha letto e commentato attentamente il materiale alla base del libro e con preziosi suggerimenti mi ha permesso di migliorare il lavoro, incoraggiandomi a proseguire sulla strada intrapresa. Inoltre i convegni e seminari da lui organizzati a Ginevra sono stati per me fonte di continui e proficui stimoli intellettuali. Barry è stato sempre disponibile a rispondere alle mie critiche alle sue tesi e le ha così nutrite di un genuino dialogo filosofico. A proposito di stimoli intellettuali un ringraziamento particolare va ad Andrea Iacona che ha letto e commentato diverse parti di questo lavoro. Sono 11 riconoscente anche a Fabrice Correia, Philipp Keller e Benjamin Schnieder che sono stati una importante fonte di critiche e suggerimenti. Buona parte della ricerca che mi ha condotto fin qui è stata svolta durante i miei studi di Dottorato in filosofia del linguaggio, presso l’Università del Piemonte Orientale: tutti i membri del collegio docenti hanno, in modi diversi, dato un contributo a tale ricerca e dunque a questo lavoro. Momenti altrettanto importanti sono stati, e continuano ad essere, i molteplici convegni e seminari organizzati nell’ambito delle attività del CTAO a Torino. Tutti i membri del CTAO hanno dunque un posto nel cammino intellettuale e umano che mi ha condotto a questo punto, in particolare: Tiziana Andina, Alessandra Jacomuzzi, Pietro Kobau, Luca Morena, Carlo Nizzo, Alessandra Saccon, Giuliano Torrengo e tutti i membri del “Gruppo Bergmann”. Ci sono stati alcuni giorni particolarmente fruttuosi per questa ricerca: quelli passati a Manchester nel maggio 2002 durante il convegno “Truth-makers” e quelli passati ad Aix-en-Provence, nel dicembre 2004, durante il convegno “Truth-Makers and Truths. 20 Years after”. Julian Dodd ed Elen Bebee mi hanno accolto con straordinaria disponibilità al primo convegno, Jean Maurice Monnoyer al secondo. Questo libro non ci sarebbe stato se non ci fosse stato il mio interesse per la filosofia e tale interesse non sarebbe nato senza una persona che ho avuto la fortuna di incontrare ormai molti anni fa: Giuseppe Savagnone. Gli ultimi sono spesso i primi: è questo il caso di questa lunga lista di ringraziamenti che si conclude con un infinito grazie a mia moglie Carola, compagna di ricerca e di vita, sostegno umano e intellettuale per questo lavoro e per tutto il resto. INTRODUZIONE Perché è vero che quella rosa è rossa? Una risposta naturale sembra essere: poiché quella rosa è effettivamente rossa; poiché le cose stanno in questo modo! Si possono avere diverse idee su cosa sia la verità ma pochi (con l’eccezione significativa di alcuni filosofi) sarebbero disposti a mettere in discussione l’intuizione che la verità, qualsiasi cosa sia, dipende da come è fatto il mondo. I filosofi che sono stati particolarmente colpiti da questo carattere della verità hanno detto che la verità è oggettiva; altri, con termine più altisonante, che essa è fondata dalla realtà: “il fondamento della verità”, “la verità senza fondamenti” sono buoni candidati per titoli di articoli (o paragrafi di libro) filosofici, tanto nella tradizione analitica che in quella continentale. Che la verità sia fondata dalla realtà sembra già essere la convinzione di Aristotele quando sostiene che “dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è, questo è il vero”1. Quando Alfred Tarski, nel 1935, volle fornire una definizione rigorosa di un predicato di verità per un linguaggio formalizzato, pose come condizione di adeguatezza materiale della definizione il rispetto dell’intuizione oggettivista riguardo alla verità citando proprio il passo aristotelico2. Una concezione della verità che aspira a fornire una spiegazione adeguata del fatto che la verità è fondata, del suo dipendere da come stanno le cose, è la cosiddetta teoria della verità come corrispondenza. Tale spiegazione è fornita, secondo i corrispondentisti, dal fatto che esser vero non è altro che essere in una certa relazione, la corrispondenza appunto, con certe entità che popolano il mondo. Anche se molte ricostruzioni storiche della teoria della corrispondenza la fanno risalire ad Aristotele o a Tommaso d’Aquino (la verità come adaequatio intellectus et rei), le sue formulazioni attualmente oggetto di discussione sono quelle dovute a George Edward Moore, Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e, successivamente, a John Langshaw Austin3. Tali formulazioni sono accomunate dall’individuare una particolare categoria di entità cui le cose vere corrispondono: i fatti o, nella versione russelliana della teoria, complessi. Wittgenstein, nel Tractatus Logico Philosophicus, cercò inoltre di spiegare la natura della relazione sussistente fra le cose vere e i fatti attraverso la teoria raffigurativa della proposizione come “immagine logica della realtà”4. 13 Introduzione La teoria della corrispondenza è stata sottoposta a svariate critiche che si possono sommariamente dividere in due gruppi: a) critiche che mettono in dubbio l’esistenza stessa delle entità cui le proposizioni vere dovrebbero corrispondere, cioè i fatti; b) critiche riguardanti i tentativi di delucidare la natura della relazione di corrispondenza5. Tali critiche sembravano avere irrimediabilmente compromesso la credibilità della teoria quando, nel 1984, comparve l’articolo Truth-Makers di Kevin Mulligan, Peter Simons e Barry Smith in cui si sosteneva la necessità di completare gli approcci tarskiani alla teoria della verità con un’ontologia dei fattori di verità6. Negli anni seguenti in Australia si diffondevano le posizioni realiste di autori quali David Mallett Armstrong e John Bigelow i quali consideravano metodologicamente centrale, in metafisica e filosofia della matematica, la domanda concernente ciò che rende vere certe proposizioni7. I fatti saranno forse entità metafisicamente dubbie, la concezione raffigurativa del linguaggio sarà forse sbagliata ma, si sosteneva da entrambe le parti, per lo meno un’intuizione deve essere salvata della teoria della corrispondenza: che se un portatore di verità è vero, allora ci deve essere qualche entità che lo rende tale, qualche entità in virtù di cui esso è vero e che sarà, per tale motivo, il fondamento ontologico della sua verità8. Se si nega ciò allora si sarà al contempo negata l’intuizione sull’oggettività e la fondatezza della verità. Alle entità che rendono veri i portatori di verità venne dato il nome di “truth-makers” che è stato tradotto in italiano “fattori di verità”. Gli ultimi venti anni hanno dunque visto rivitalizzarsi il dibattito, se non sulla teoria della corrispondenza, per lo meno sull’intuizione corrispondentista. Le domande centrali in tale dibattito sono state: Che cosa è il rendere vero? Quali ragioni abbiamo per credere che esistano fattori di verità per tutte le proposizioni vere o per lo meno per una classe importante di esse? I primi due capitoli in cui è diviso il libro cercano di dare una risposta alla prima domanda, l’ultimo alla seconda. Poiché l’espressione “rendere vero” è composta da due parole che possono comparire indipendentemente l’una dall’altra in diversi enunciati, sembrerebbe che ognuna di tali parole debba apportare un proprio contributo al concetto espresso dall’intera espressione. Dunque un contributo al concetto espresso da “rendere vero” sembrerebbe dover essere apportato dal concetto espresso da “rendere” allorché è usato in contesti linguistici simili a quello in questione, in contesti cioè in cui “rendere” è seguito da un complemento predicativo (escludendo dunque contesti come “rendere pan per focaccia”). Il primo capitolo affronta pertanto la questione di cosa sia in generale il rendere in qualche modo cioè, usando un’espressione schematica, il rendere F. Ciò viene fatto con gli strumenti tipici dell’analisi linguistica che tanta parte ha nella tradizione della filosofia analitica. Il secondo capitolo discute e critica, anche alla luce dei risultati concernenti il rendere F in generale, i più significativi tentativi di analisi della nozione di rendere vero comparsi sulla scena filosofica negli ultimi venti anni. Conclusa tale disamina viene presentata e difesa una particolare concezione del rendere vero. Il terzo capitolo, infine, discute alcuni 14 Introduzione argomenti che sono stati di fatto usati (o che potrebbero esserlo) per difendere una risposta positiva alla domanda: tutte le proposizioni vere (o per lo meno una classe fondamentale di esse) hanno fattori di verità? Gli argomenti in questione sono quelli che prendono il loro avvio da considerazioni concernenti la natura della verità. La tesi sostenuta è che tali argomenti non sono corretti e che le considerazioni con cui difendere l’esistenza di fattori di verità dovrebbero essere di altro tipo. Il capitolo si conclude proprio con un veloce sguardo al tipo di considerazioni in questione, senza però discuterle nel merito. Questa è materia per un altro lavoro. Un’ultima osservazione. Alcuni dei contesti linguistici in cui sono usate espressioni della forma “rendere F” sono quelli che esprimono domande tipicamente filosofiche quali: che cosa rende giusta un’azione? Che cosa rende vero un pensiero? Che cosa rende tale un’opera d’arte? Che cos’è che rende tale un uomo? Che cosa fa esistere qualcosa piuttosto che il nulla?9 A volte i filosofi hanno descritto in questi termini ciò che essi fanno col porsi tali domande: i filosofi si pongono questioni concernenti le relazioni di fondazione, prestando particolare attenzione ad una delle due cose in tale relazione, il fondamento (dell’esser vero, giusto, bello, esistente piuttosto che non esistente). Il primo capitolo di questo libro può dunque anche leggersi come un tentativo di rispondere, con gli umili strumenti dell’analisi linguistica, a una domanda cui Martin Heidegger dedicava nel 1929 un famoso articolo, la domanda sull’essenza del fondamento10. Dato poi che il tema centrale del libro è quello del rendere vero, e non quello più generale delle relazioni di fondazione, l’intero libro concerne, esprimendosi nel gergo della fondazione e del fondamento, la questione della fondazione della verità e quella dei suoi fondamenti. La tesi sostenuta è che le due questioni dovrebbero essere separate: la verità è fondata ma può esserlo senza fondamenti; in altri termini: ci può essere rendere vero anche senza fattori di verità, senza cioè cose che rendono vere le cose vere. 15 CAPITOLO I Rendere F 1. Rendere F: sintassi e semantica L’espressione “rendere vero” fa parte di una classe di espressioni della forma “rendere F” formate posponendo al verbo “rendere” un’espressione che svolga il ruolo logico detto del complemento predicativo. Quest’ultima espressione può essere semplice, ad esempio un aggettivo come “vero”, “giusto”, “felice”, oppure complessa, ad esempio un aggettivo comparativo con il relativo termine di paragone, come “più allegro di Giovanni” in “Katia rende Marco più allegro di Giovanni”. Espressioni di tale forma si trovano il più delle volte nel contesto di enunciati in cui l’espressione “rende F” è preceduta da un sintagma nominale e seguita da un complemento oggetto (che può anche essere posto fra la voce del verbo “rendere” e il complemento predicativo F). Ecco alcuni esempi: 1) Gilda rende Carola felice. 2) Andrea rende le nostre discussioni interminabili. 3) La frana ha reso impraticabile la strada. 4) La tua promessa ha reso obbligatoria la tua azione. 5) Il fatto che Pietro non abbia la televisione lo rende più colto di tutti noi. 6) Il suo essere così arrogante rende Berlusconi antipatico. 7) Lo scaricare dei suoi neuroni Z rende Stefano dolorante. 8) Il suo produrre la massima felicità per il maggior numero rende quest’azione giusta. 9) L’essere un maschio adulto non sposato rende Alessandro uno scapolo. Tutti questi esempi dicono cose diverse che però possono essere descritte ad un livello di generalità sufficientemente ampio da individuare un contenuto comune: tutti gli esempi della lista dicono che qualcosa rende in un certo modo qualcos’altro. Si fa riferimento a questo fatto quando si dice che tutti gli enunciati nella lista sono esempi dell’unica forma “a rende b F”11. Tale forma può essere descritta ad un livello ancora superiore di generalità in questo modo: 17 Capitolo I tutti gli enunciati della lista (insieme a molti altri come, ad esempio, “Salvatore ama Rosalia”) dicono che una certa cosa (a) è in una certa relazione (nella fattispecie: x rende F y) con una certa altra cosa (b), hanno dunque la forma relazionale “aRb”12. Una ragione per sostenere ciò è che gli enunciati nella lista autorizzano generalizzazioni esistenziali in entrambe le posizioni nominali (quella del soggetto e quella del complemento). Ad esempio tanto da (2) e da (8) (e così anche da tutti gli altri enunciati della lista) possiamo inferire: 2a) Qualcuno (Andrea) rende interminabile qualcos’altro (le nostre discussioni). 8a) Qualcosa (il suo produrre la massima felicità per il maggior numero) rende qualcos’altro (la tua azione) giusta. Un dialogo di questo genere sembra essere del tutto corretto: A: Dimmi, c’è una cosa che rende Berlusconi così antipatico? B: Certo, il suo essere così arrogante. A: E c’è una cosa che rende la tua azione giusta? B: Certo il suo aver prodotto la massima felicità per il maggior numero. Inoltre tutti gli enunciati nella lista possono comparire come premesse in inferenze la cui validità sembra poter essere giustificata solo assumendo che i loro sintagmi nominali funzionino come termini singolari, cioè come espressioni che denotano qualcosa; questo vale sia per “Andrea” sia per “l’essere arrogante di Berlusconi”. Ad esempio le tre seguenti inferenze sembrano avere la stessa forma: 1) Andrea rende interminabili le nostre discussioni. 2) Valentina è andata al cinema con Andrea. 3) La persona che rende interminabili le nostre discussioni è la stessa con cui è andata al cinema Valentina. 1) L’essere arrogante di Berlusconi lo rende antipatico. 2) Stefano detesta enormemente l’essere arrogante di Berlusconi. 3) La cosa che Stefano detesta enormemente è la stessa che rende Berlusconi antipatico. 1) Il suo produrre la massima felicità per il maggior numero rende la tua azione giusta. 2) Il suo produrre la massima felicità per il maggior numero ha reso la tua azione oggetto di biasimo da parte degli stolti. 3) Ciò che ha reso la tua azione oggetto di biasimo da parte degli stolti è la stessa cosa che la rende giusta. Perché in tutti i casi precedenti possiamo legittimamente inferire (3) da (1) e (2)? La ragione sembra essere la seguente: (1) ha la forma “aRb”, (2) la forma 18 Rendere F “cSa”, (3) la forma “∃x∃y (xRb & cSy & x = y)”, in cui “a” e “b” sono termini singolari, cioè espressioni che denotano individui, e “R” e “S” sono predicati a due posti. Ma qualsiasi inferenza che ha come premesse due enunciati delle prime due forme e come conclusione un enunciato della terza forma è valida; dunque le inferenze precedenti sono valide, è cioè impossibile che le premesse siano vere e che la conclusione non lo sia. Naturalmente un conto è dire che tutti gli enunciati nella lista rientrano in un tipo di discorso relazionale un altro è prendere sempre ontologicamente sul serio questo discorso. Ad esempio, dal fatto che normalmente parliamo di cose come l’esser arrogante di Berlusconi in modo analogo in cui parliamo di cose come Andrea non segue né che queste cose ci siano effettivamente né che, se ci sono, siano cose come Andrea. Naturalmente in questo caso, si sarà posti di fronte a una scelta: o si considerano non valide le inferenze precedenti (cioè inferenze in cui le premesse sono vere e la conclusione è falsa), oppure si cerca di dare un’interpretazione di espressioni come “ciò che” “la cosa che” tale che la validità delle inferenze precedenti non presuppone che i sintagmi nominali degli enunciati che fungono da premesse siano termini singolari13. Il fatto che tutti gli enunciati nella lista possano essere considerati, se descritti ad un certo livello, esemplificazioni di una medesima forma non deve far sottovalutare le differenze che si possono riscontrare fra di essi se li si descrive ad un altro livello. Una differenza importante per i nostri scopi è costituita dai diversi tipi di sintagmi nominali che in essi fungono da soggetti (lo stesso vale per i complementi oggetto), cioè le espressioni che nella forma “a rende b F” possono essere sostituite alla lettera “a”. Dal punto di vista morfologico tali espressioni possono essere ripartire in due classi. La prima è costituita da nominalizzazioni di enunciati o dei loro predicati. Una nominalizzazione è, come dice il termine stesso, un’espressione linguistica ottenuta tramite una trasformazione sintattica e/o morfologica di un enunciato o del suo sintagma verbale, la quale può svolgere tutte le funzioni logiche dei sintagmi nominali (tanto quella di soggetto che quella di complemento). La trasformazione sintattica cui è sottoposto un enunciato può consistere o nell’anteporre ad esso parole come “che” o “il fatto che” oppure nel trasformarlo in un infinito sostantivale complesso. Ad esempio, l’enunciato “Berlusconi è arrogante” si può nominalizzare sia con “che Berlusconi è/sia arrogante”, sia con “il fatto che Berlusconi è/sia arrogante”, sia con “l’essere arrogante di Berlusconi”. La trasformazione morfologica cui è sottoposto un predicato è invece quella in un infinito sostantivale, come avviene nel passaggio da “un’azione giusta produce la massima felicità per il maggior numero” a “(il) produrre la massima felicità per il maggior numero è proprio di un’azione giusta” . Ad “a” possono in secondo luogo essere sostituiti sintagmi nominali che non sono nominalizzazioni di enunciati o di parti di enunciati. Tali sintagmi nominali possono essere sia semplici (nomi propri, pronomi) sia di grado crescente di complessità (sostantivi preceduti da articoli e/o da aggettivi ed, 19 Capitolo I eventualmente, seguiti da altre espressioni che formano insieme al sostantivo un sintagma nominale incassato in quello principale). Appartengono a questa classe sia “Andrea” sia “la frana” sia “la tua promessa” negli esempi della lista; ma vi appartengono anche sintagmi nominali più complessi come “l’ultimo faraone della quarta dinastia successiva al secondo periodo intermedio”. Questa classificazione sintattico-morfologica delle espressioni che possono essere sostituite ad “a” non deve essere confusa con una classificazione semantica di tali espressioni. Una classificazione si dice semantica se distingue le espressioni in base alle loro proprietà semantiche: nell’ortodossia fregeana e russelliana, che ha un posto centrale nella filosofia analitica, almeno una delle proprietà semantiche fondamentali delle espressioni linguistiche subenunciative è identificata col contributo che esse danno alle condizioni a cui sono veri gli enunciati in cui compaiono. Tale contributo è il riferimento, o denotazione, delle espressioni subenunciative. Il compito che tanto Frege quanto Russell affidavano all’analisi linguistica era proprio quello di identificare il contributo, se c’è, che una parte di un enunciato dà alle condizioni di verità dell’enunciato, smascherando le illusioni indotte dalla forma grammaticale dell’enunciato stesso. Una famosa classificazione fregena è ad esempio quella che distingue le espressioni linguistiche nelle due classi delle espressioni che denotano funzioni e che denotano oggetti. Frege, una volta introdotta questa classificazione, sosteneva che solo alcune espressioni che hanno il ruolo logico-grammaticale di soggetto denotano oggetti: ad esempio, nonostante il fatto che tanto “Maria”, quanto “Tutti gli uomini” abbiano il ruolo di soggetto rispettivamente in “Maria ama Marco” e in “Tutti gli uomini sono mortali”, “Maria”, se denota qualcosa, denota un oggetto, Maria, mentre “Tutti gli uomini” non denota un oggetto ma una funzione (in particolare una funzione che ha come argomenti altre funzioni). Una classificazione semantica cui possono essere sottoposti i sintagmi nominali degli enunciati nella nostra lista è quella in espressioni come “Andrea” o “la frana” che si riferiscono ad oggetti ordinari collocati nello spazio e nel tempo, ed altre come “il fatto che Pietro non ha la televisione” o “il produrre la massima felicità per il maggior numero” che non sembrano riferirsi, se a qualcosa si riferiscono, ad entità ordinarie collocate nello spazio e nel tempo. Questa classificazione non deve essere confusa con quella sintattica in sintagmi nominali che sono nominalizzazioni e sintagmi che non lo sono. Le due classificazioni non devono essere confuse poiché espressioni che appartengono alla stessa classe secondo una di esse appartengono a classi diverse secondo l’altra. Ad esempio, “il numero due” e “Carola” appartengono alla stessa classe secondo la classificazione sintattica (non sono nominalizzazioni) ma, presumibilmente, a due classi diverse secondo quella semantica. Viceversa “la proprietà ritenuta dagli utilitaristi propria delle azioni giuste” e “il produrre la massima felicità per il maggior numero” appartengono a classi diverse secondo la classificazione sintattica (solo la seconda espressione è una nominalizzazione) ma alla stessa classe secondo la classificazione semantica. Infatti, se le due espressioni si riferiscono a qualcosa si riferiscono alla stessa cosa: la proprietà ritenuta dagli utilitaristi propria delle azioni giuste non è altro che il 20 Rendere F produrre la massima felicità per il maggior numero. Si potrebbe ritenere che, pur essendo diverse le classi indotte dalle classificazioni, bisogna almeno ammettere che la classe delle nominalizzazioni è un sottoinsieme della classe dei sintagmi nominali che denotano entità astratte, cioè che nessuna nominalizzazione denota un particolare concreto. Ma neanche questo è scontato: l’espressione “il soffiare del vento” è una nominalizzazione di “il vento soffia” ma essa potrebbe denotare un particolare concreto (un evento, ammesso che gli eventi siano particolari concreti). Lo stesso varrebbe se adottassimo la classificazione semantica consistente nel distinguere fra le espressioni linguistiche che si riferiscono a qualche entità ed espressioni linguistiche che non si riferiscono a nulla. Le due espressioni “Nettuno” e “Carola” ad esempio sono dal punto di vista dell’analisi sintattica due espressioni che possono svolgere il ruolo di sintagmi nominali e che non sono nominalizzazioni ma, mentre non esiste alcuna entità cui “Nettuno” si riferisce esiste una persona cui “Carola” si riferisce. Allo stesso modo si potrebbe sostenere che mentre non c’è alcuna entità cui si riferisce “l’essertene tu andata via con quel piglio autoritario avendomi parlato per così poco tempo sorda alle mie ragioni” vi è un’entità cui si riferisce “l’esser rossa di quella mela”, pur appartenendo entrambe le espressioni alla categoria sintattica delle nominalizzazioni. La distinzione fra le espressioni della forma “a rende b F” in cui “a” è una nominalizzazione e quelle in cui non lo è risulterà utile nel paragrafo successivo. 2. Rendere F e spiegazioni: tre varietà del rendere F Un’altra somiglianza fra gli enunciati nella lista consiste nel fatto che ciascuno di essi è vero se e solamente se è vero un enunciato che esprime una qualche forma di spiegazione. Questi enunciati sono enunciati complessi in cui l’enunciato subordinato è introdotto dalla congiunzione “poiché” o “perché”. Ecco una lista di enunciati esplicativi corrispondenti agli enunciati (1)-(9). 1s) Carola è felice poiché Gilda è molto affettuosa con lei. 2s) Le nostre discussioni sono interminabili poiché Andrea ama l’argomentazione. 3s) La strada è impraticabile poiché c’è stata una frana. 4s) La tua azione è obbligatoria poiché c’è stata la tua promessa a riguardo. 5s) Pietro è più colto di tutti noi poiché non ha la televisione. 6s) Berlusconi è antipatico poiché è così arrogante. 7s) Stefano prova dolore poiché i suoi neuroni Z scaricano. 8s) Quest’azione è giusta poiché produce la massima felicità per il maggior numero di persone. 9s) Alessandro è uno scapolo poiché è un maschio adulto non sposato. Non tutti gli enunciati da (1s) a (9s) hanno col loro gemello della forma “a rende b F” la stessa relazione logica. Gli enunciati (1s) e (2s) potrebbero essere falsi pur restando veri i loro gemelli (1)-(2). Ad esempio potrebbe essere vero che 21 Capitolo I Andrea rende le nostre discussioni interminabili pur non essendo vero che le nostre discussioni sono interminabili poiché Andrea ama l’argomentazione: infatti la caratteristica di Andrea che fa sì che egli renda interminabili le nostre discussioni potrebbe essere un’altra, ad esempio il suo addormentarsi ripetutamente durante la discussione. Lo stesso vale per l’esempio (1): Gilda potrebbe rendere felice Carola in virtù di qualche sua altra caratteristica, ad esempio l’abbaiare gioiosamente quando vede Carola. In questi casi l’entità di cui si dice che ne rende un’altra F entra nella spiegazione dell’essere F in virtù del possesso di una qualche proprietà (ma non necessariamente di una) che viene esplicitamente menzionata nella spiegazione. D’altra parte la verità di un enunciato della forma “b è F poiché a è G” è condizione sufficiente della verità di un enunciato della forma “a rende b F”: nella fattispecie non è possibile che le nostre discussioni siano interminabili poiché Andrea ama l’argomentazione senza che sia vero che Andrea rende le nostre discussioni interminabili e non è possibile che Carola sia felice poiché Gilda è affettuosa con lei senza che Gilda renda felice Carola. Le cose stanno diversamente con gli altri enunciati della lista. Ad esempio, non solo non è possibile che Berlusconi sia antipatico poiché è arrogante senza che il suo essere arrogante lo renda antipatico, ma non è nemmeno possibile che l’essere così arrogante di Berlusconi lo renda antipatico senza che al contempo non sia vero che egli è antipatico poiché è arrogante. È facile vedere come ciò valga anche per gli altri enunciati della lista. Ciò però per motivi diversi. Per gli enunciati da (5) a (9) il motivo è che i loro sintagmi nominali sono nominalizzazioni degli enunciati che compaiono a destra di “poiché” negli enunciati (5s)-(9s). Le nominalizzazioni, potendo svolgere tutte le funzioni dei sintagmi nominali, hanno la seguente caratteristica: grazie alla loro combinazione con altre espressioni linguistiche (tipicamente quelle che formano predicati) esse costituiscono nuovi enunciati equivalenti agli enunciati nominalizzati (o ad enunciati complessi di cui questi ultimi sono costituenti), l’enunciato contenente la nominalizzazione e l’enunciato a partire da cui essa è stata ottenuta (o quello che lo contiene come costituente) sono cioè entrambi veri o entrambi falsi. Inoltre ogni parlante competente accetterà come una verità concettuale tale equivalenza (l’equivalenza costituisce una verità a-priori). Ad esempio “l’essere così arrogante di Berlusconi” o “il fatto che Berlusconi sia così arrogante” sono una nominalizzazione dell’enunciato “Berlusconi è così arrogante”; dunque invece di dire “Berlusconi è così arrogante” potremo dire “l’essere così arrogante di Berlusconi è una realtà” oppure “il fatto che Berlusconi sia così arrogante sussiste”14. Uno dei contesti in cui può essere usato l’enunciato “Berlusconi è così arrogante” è quello introdotto da “poiché” in “Berlusconi è antipatico poiché è così arrogante”. In italiano disponiamo di enunciati contenenti nominalizzazioni di “Berlusconi è così arrogante” equivalenti all’enunciato esplicativo. Tali enunciati sono appunto “l’essere così arrogante di Berlusconi lo rende antipatico” o “il fatto che Berlusconi sia così arrogante lo rende antipatico”. Seguendo un suggerimento di Jennifer Hornsby, questo fatto può esprimersi nella sua generalità in questo modo: 22 Rendere F (10) nom(p) rende b F sse b è F poiché p15 in cui “nom(p)” è un’espressione schematica che deve essere sostituita, allorché si vogliono ottenere esempi dello schema, con una nominalizzazione dell’enunciato “p”16. Un caso a parte è costituito dagli enunciati (3), (4) e dai loro gemelli (3s), (4s). Anche (3) e (3s), da una parte, e (4) e (4s), dall’altra, sono o entrambi veri o entrambi falsi, cioè equivalenti: se la frana ha reso impraticabile la strada allora la strada è impraticabile poiché c’è stata la frana e se la strada è impraticabile poiché c’è stata la frana allora la frana ha reso la strada impraticabile; lo stesso vale per la promessa e l’obbligatorietà dell’azione che ne consegue. D’altra parte “la frana” non è una nominalizzazione di “c’è stata la frana” e “la tua promessa” non è una nominalizzazione di “c’è stata la tua promessa” per il semplice fatto che “frana” e “promessa” sono già costituenti degli enunciati in questione. Il motivo per cui le coppie di enunciati sono equivalenti è un altro. In primo luogo la proprietà della frana e della promessa che entra in gioco nelle spiegazioni (3s) e (4s) è la semplice esistenza di queste cose: il semplice fatto che la frana si sia verificata e che la promessa abbia avuto luogo spiega l’impraticabilità della strada e l’obbligatorietà dell’azione. A differenza però del caso di Andrea e del suo amare l’argomentazione, l’aver avuto luogo della frana e della promessa sembrano essere explanantia necessari dell’obbligatorietà dell’azione e dell’impraticabilità della strada, assumendo naturalmente che siano state proprio la frana e la promessa a rendere la strada impraticabile e l’azione obbligatoria. Cioè mentre se Andrea rende le nostre discussioni interminabili lo può fare in diversi modi e non necessariamente in un certo modo, se una promessa rende un’azione obbligatoria e una frana rende una strada impraticabile non può darsi il caso che il semplice aver avuto luogo di queste cose non costituisca una spiegazione dell’obbligatorietà dell’azione e dell’impraticabilità della strada (naturalmente si potranno aggiungere altre spiegazioni oltre alle suddette). Dunque mentre “Andrea rende le nostre discussioni interminabili” non implica “Le nostre discussioni sono interminabili poiché Andrea vuole avere sempre ragione”, “La frana ha reso impraticabile la strada” implica “La strada è impraticabile poiché c’è stata la frana” (e così anche nel caso della promessa). Le implicazioni converse delle precedenti, cioè l’implicazione di (3) da parte di (3s) e di (4) da parte di (4s) continuano d’altra parte a valere come nel caso di (1) e (2). Quest’ultimo fatto giustifica la formulazione di tale schema: (11) se b è F poiché a è G allora a rende b F. Lo schema si può formulare, in modo un po’ barocco, come un principio generale: se qualcosa è in un certo modo poiché qualche altra cosa è in un qualche altro modo allora la seconda cosa rende la prima in quel certo modo. Il principio si può formulare anche in linguaggio semi-formale della logica del secondo ordine, in cui “G” e “F” sono variabili predicative, i cui valori sono proprietà: 23 Capitolo I (12) ∃G∃F(b è F poiché a è G) → a rende b F Questo è il principio in base al quale diciamo “Andrea rende le nostre discussioni interminabili” e “Gilda rende Stefano felice”. Questi fatti spiegano perché, solamente nel caso della frana e in quello della promessa, enunciati della forma “a rende b F” sono equivalenti ad enunciati della forma “l’esistenza di a rende b F” (Andrea, ad esempio, rende le discussioni interminabili senza che sia vero che l’esistenza di Andrea rende le discussioni interminabili). Infatti, in base all’equivalenza (10) enunciati della forma “l’esistenza di a rende b F” sono equivalenti ai corrispettivi enunciati della forma “b è F poiché a esiste”; ma (3) e (4) sono equivalenti, per le ragioni che abbiamo visto, a due enunciati della forma “b è F poiché a esiste” (cioè (3s) e (4s)). Dunque, per la transitività della relazione di equivalenza logica, (3) e (4) sono equivalenti rispettivamente a (13) l’esistenza della frana ha reso la strada impraticabile, e (14) l’esistenza della promessa rende l’azione obbligatoria”. Gli enunciati (1) – (9) possono dunque essere divisi in tre gruppi in base alle relazioni logiche che intrattengono con gli enunciati esplicativi (1s) – (9s). Il primo, composto dagli enunciati (1) - (4) è costituito da enunciati che sono veri se e solamente se c’è un qualche modo in cui una certa cosa è che spiega perché un’altra cosa è in un altro certo modo. Per tali enunciati vale il seguente schema: (RF*) a rende b F sse ∃G(b è F poiché a è G). Gli enunciati appartenenti al secondo gruppo sono (3) e (4) per i quali vale invece il seguente principio: (RF+) a rende b F sse b è F poiché a esiste. Il terzo gruppo di enunciati è quello in cui sono presenti nominalizzazioni. Le relazioni fra gli enunciati contenenti tali nominalizzazioni e i loro gemelli esprimenti spiegazioni possono essere espresse schematicamente mediante lo schema (10). Il principio che li caratterizza non è altro che (10) stesso, dunque: (RF^ ) nom(p) rende b F sse b è F poiché p. Quali sono le relazioni logiche fra gli (schemi di) enunciati che compaiono a sinistra di “sse” nei tre principi? Esse sono individuabili osservando le relazioni logiche fra gli enunciati a destra di “sse”: se infatti due enunciati sono equivalenti allora essi avranno le stesse relazioni logiche con altri enunciati 24 Rendere F (naturalmente se le relazioni prese in considerazione sono quelle vero funzionali). Ora, per quanto riguarda (RF*) e (RF+) la relazione sussistente fra gli enunciati a destra di “sse “ è: (15) se b è F poiché a esiste allora ∃G (b è F poiché a è G). Infatti se b è F poiché a esiste c’è una caratteristica di a (l’esistere) tale che b è F poiché a ha quella caratteristica. Non vale però l’implicazione conversa, cioè: (16) se ∃G (b è F poiché a è G) allora b è F poiché a esiste. Infatti il fatto che ci sia una caratteristica di a tale che b è F poiché a ha quella caratteristica non implica che quella caratteristica sia la semplice esistenza: ad esempio c’è una caratteristica di Andrea che spiega l’essere interminabili delle nostre discussioni ma questa caratteristica non è la semplice esistenza di Andrea bensì il suo amare l’argomentazione. Ciò spiega perché tutti gli enunciati che appartengono al secondo gruppo appartengano anche al primo ma non viceversa. Questo fatto suggerisce l’idea di considerare le espressioni della forma “rendere F” in (RF*) e (RF+) come esprimenti due diversi concetti in relazione genere-specie: è questa infatti la relazione fra due concetti A e B allorché A si applica a tutte le cose cui si applica B ma non viceversa (ad esempio “animale” esprime un concetto la cui relazione col concetto espresso da “uomo” è quella del genere con la specie perché “animale” si applica a tutte le cose cui si applica “uomo” ma non viceversa, cioè tutti gli uomini sono anche animali ma non tutti gli animali sono uomini). Userò l’espressione “rende + F” per esprimere il concetto che si applica a due cose a e b se solamente se b è F poiché a esiste, chiamando tale forma del rendere F “rendere F esistenziale”. Userò l’espressione “rende * F” per esprimere il concetto che si applica a due cose a e b se e solamente se c’è qualche caratteristica di a tale che b è F poiché a ha quella caratteristica, e chiamerò tale tipo di rendere F “rendere F generico”. La relazione logica fra tali due nozioni è espressa da: (17) se a rende + b F allora a rende * b F. La conversa di (17), cioè (18), è invece falsa: (18) se a rende * b F allora a rende + b F. Questo significa che tutte le cose che ne rendono + altre F le rendono * anche F ma non viceversa: ci sono cose che ne rendono * altre F senza perciò renderle + F. Dunque il rendere + F è una specie del rendere * F. Quali sono le relazioni logiche fra gli enunciati della forma “nom(p) rende b F” e quelli in cui l’espressione a sinistra di “rende b F” non è una 25 Capitolo I nominalizzazione, quelli cioè che abbiamo suddiviso nei due gruppi del rendere * F e del rendere + F? Vi è un’inferenza valida da una frase della forma “a rende (+/*) b F” a una della forma “nom(p) rende b F”: la frase è “l’essere a in un certo modo rende b F”. “L’essere a in un certo modo” infatti non è altro che la nominalizzazione di “a è in un certo modo”, cioè dell’enunciato a destra di “poiché” in “b è F poiché a è in un certo modo”. Quest’ultimo è a sua volta l’equivalente informale di “∃G (b è F poiché a è G)” che è equivalente, in base a (RF*), a “a rende * b F”. Ma “a rende + b F” implica “a rende * b F”, dunque implica anche “b è F poiché a è in un certo modo” il quale è equivalente, in base a (10), a “l’essere a in un certo modo rende b F”. Pertanto sia “a rende * b F” sia “a rende + b F” implicano “l’essere a in un certo modo rende b F”. Al contrario l’inferenza conversa, cioè quella da “nom (p) rende b F” a “a rende * b F” o ad “a rende + b F”, non è valida. Infatti p può essere anche un enunciato in cui non si parla di nessun individuo tale che un qualche suo modo di essere spieghi perché b sia F. Ad esempio l’enunciato che segue “poiché” in (19) se fosse vero che non esiste niente ciò sarebbe vero poiché non esiste niente. non sembra parlare di alcun individuo. Ciò è però del tutto irrilevante ai fini dell’esistenza di una sua nominalizzazione come “il non esistere niente” o “il fatto che non esiste niente”. Dunque pur esistendo un equivalente di (19) contenente tale nominalizzazione e cioè (20) se fosse vero che non esiste niente ciò sarebbe reso vero dal non esistere niente non ci sarebbe, nella situazione ipotizzata, nessuna entità che, in virtù di una qualche sua caratteristica, spieghi perché è vero che non esiste niente, dunque niente che renda * vero che non esiste niente o che renda + vero che non esiste niente. In particolare tale entità non è il non esistere niente o il fatto che non esiste niente. Infatti pur essendo vero che, nella situazione ipotizzata, il non esistere niente renderebbe vero che non esiste niente, l’enunciato (21) se fosse vero che non esiste niente ciò sarebbe vero poiché ci sarebbe (in virtù dell’esistenza del) il non esistere niente sembra alquanto bislacco: nessuno lo asserirebbe a cuor leggero come (19) o (20). C’è di più: l’enunciato sembra essere necessariamente falso perché implica una contraddizione. Infatti se c’è una cosa che (in virtù della sua esistenza o di qualche sua altra caratteristica) spiega perché è vero che non esiste niente, allora è vero che non esiste niente (le spiegazioni concernono solo le verità, in questo caso la verità che è vero che non esiste niente). Ma allo stesso tempo, se esiste tale cosa che spiega perché è vero che non esiste niente, allora esiste qualcosa, dunque non è vero che non esiste niente. Dunque l’esistenza (o una qualsiasi 26 Rendere F altra caratteristica) del non esistere niente (o di qualsiasi altro cosa) non sembra poter essere ciò che spiega perché in una data situazione è vero che non esiste niente. Dunque (21) è falso anche se (19) e (20) sono banalmente veri. Questo caso è importante perché mostra che la verità degli enunciati della forma “nom(p) rende b F” non implica l’esistenza di entità denotate dall’espressione della forma “nom(p)” (anche se non la esclude). Sostenere ciò presuppone però, come si è detto nel paragrafo precedente, interpretare l’espressione “qualcosa” negli enunciati della forma “qualcosa rende b F” i quali, come si è visto all’inizio, possono essere inferiti dagli enunciati della forma “nom(p) rende b F”, in un modo tale che un enunciato che la contiene possa essere vero anche senza ammettere l’esistenza di una cosa che rende b F (i logici direbbero: un oggetto che soddisfa la formula “x rende b F” quando la variabile “x” è associata a tale oggetto). Se usiamo l’espressione “rendere ^ F” per esprimere il concetto espresso dall’espressione “rende F” in tutti i contesti della forma “nom (p) rende b F”, questo risultato può essere espresso dicendo che (22) e (23) sono falsi. (22) Se a rende ^ b F allora a rende * b F (23) Se a rende ^ b F allora a rende + b F. (22) è falso poiché può essere vero “nom(p) rende b F” senza che sia vero “c’è una caratteristica di nom(p) tale che b è F poiché nom(p) ha quella caratteristica” (come dimostra il caso del non esserci nulla). (23) è falso poiché “a rende + b F” implica “a rende * b F”, dunque se è possibile che nom(p) renda b F senza che ci sia una qualche caratteristica di nom(p) che spiega perché b è F, a fortiori è possibile che nom(p) renda b F senza che l’esistenza di nom(p) spieghi perché b è F. Dunque non tutto quello che rende ^ qualcosa F lo rende + F o rende * F: il rendere ^ F non è una specie di rendere + F o di rendere * F. D’altra parte non è vero nemmeno che il rendere * F e il rendere + F siano specie del rendere ^ F. Infatti anche i due schemi (24) se a rende * b F allora a rende ^ b F (25) se a rende + b F allora a rende ^ b F hanno esemplificazioni false. Alcune di queste esemplificazioni, come “se Andrea rende * le nostre discussioni interminabili allora Andrea rende^ le nostre discussioni interminabili” sono addirittura malformate (cioè sgrammaticate). Il nome proprio “Andrea” non è infatti una di quelle espressioni che possono essere messe a sinistra del verbo “rendere^”: le uniche espressioni che possono occupare tale posizione sono (per la convenzione mediante cui è stato introdotto il predicato “rendere ^ F”) nominalizzazioni di enunciati e “Andrea” non è una nominalizzazione di un enunciato. Dunque vi può essere al massimo un’intersezione fra l’insieme delle cose che rendono + qualcosa F (e di conseguenza che la rendono * F) e l’insieme delle cose (se esistono) che rendono ^ qualcosa F. Seguendo Kevin Mulligan 27 Capitolo I chiamerò quest’ultima forma di rendere F rendere F pleonastico17: mentre il rendere F esistenziale e il rendere F generico sono in relazione di specie e genere, l’estensione del rendere F pleonastico potrebbe anche essere del tutto disgiunta dall’estensione dei primi due concetti. Da ciò si può concludere che né gli schemi (RF*) e (RF+), né tanto meno lo schema (RF^), possono essere usati per fornire una definizione capace di rendere conto di tutti gli usi delle espressioni della forma “a rende b F”. Se scegliessimo questa strada, estraendo ad esempio da (RF*) la definizione (A) x rende y F = def ∃G(y è F poiché x è G), saremmo costretti a dire che molti enunciati della forma nom (p) rende b F che sembrano perfettamente veri sono, almeno se interpretati alla lettera, falsi. Se d’altra parte prendessimo spunto da (RF^) proponendo una definizione come (B) x rende y F =def ∃p(x = il fatto che p & y è F poiché p) lasceremmo fuori cose come Andrea, Carola, la frana e la promessa. Naturalmente se si passa dall’analisi degli usi del linguaggio ordinario ad una trattazione filosofica del rendere F si potranno privilegiare gli uni o gli altri usi che si fanno nel linguaggio ordinario di espressioni della forma “rende F” e modellare su uno di essi la propria teoria del rendere F. C’è però, come vedremo a proposito del rendere vero, il rischio di costruire delle teorie che mettono insieme in un’unica nozione aspetti che sono presenti in differenti usi ordinari delle espressioni della forma “rende F”. Questo non è di per sé un male: il problema è però vedere se la nozione così costruita è coerente e ha un’estensione non vuota (cioè se ci sono cose cui si applica la nozione così definita). E il semplice fatto che la nozione sia ottenuta mettendo insieme aspetti di altre nozioni che sono ciascuna coerente e con un’estensione non vuota, non implica che queste caratteristiche siano preservate dalla nuova nozione. Il fatto che non vi sia un rapporto genere-specie fra il rendere ^ F e il rendere */+ F è compatibile col fatto, osservato precedentemente, che dato un qualsiasi enunciato della forma “a rende (+/*) b F” vi è sempre un enunciato della forma “nom(p) rende b F” che esso implica ma non viceversa. Le espressioni “l’essere a in un certo modo” e “l’esistenza di a” che si trovano in “l’essere a in un certo modo rende ^ b F” e “l’esistenza di a rende ^ b F ” non denotano infatti (se denotano qualcosa) la stessa cosa denotata da “a” in “a rende * b F” e “a rende + b F” (cioè gli enunciati da cui i primi due possono essere inferiti). Dunque il fatto che sussista tale relazione di implicazione non ci dice nulla sulla relazione fra le estensioni dei predicati della forma “rendere ^ F” da una parte e della forma “rendere */+ F” dall’altra. Esso piuttosto, in congiunzione col fatto che gli schemi (22) e (23) non sono validi, ci dice: 1) che potrebbe esserci un mondo in cui nessun enunciato delle forme “a rende */+ b F” è vero pur essendo vero qualche 28 Rendere F enunciato della forma “nom(p) rende b F”; 2) che non è possibile che sia vero un enunciato della prima forma senza che sia vero qualche enunciato della seconda forma. Questo fatto a sua volta dipende dalla connessione che c’è fra gli enunciati esplicativi e quelli della forma “nom(p) rende b F”. Questi ultimi non sono altro che versioni nominalizzate di spiegazioni. Vi possono però essere spiegazioni che non coinvolgono individui e le loro proprietà. Dunque può essere vero un enunciato della forma “nom(p) rende b F” senza che sia vero alcun enunciato della forma “a rende */+ b F”. Al contrario, poiché se è vero un enunciato di quest’ultima forma sarà vero un qualche enunciato esplicativo, allora se è vero un enunciato della forma “a rende */+ b F” sarà vero anche un enunciato della forma “nom(p) rende b F”. La conclusione che possiamo trarre concerne in questo caso non la relazione fra le estensioni dei diversi predicati, bensì la relazione genere-specie sussistente fra la spiegazione in generale e forme specifiche di spiegazione: il fatto che possano essere veri enunciati della forma “nom(p) rende b F” senza che siano veri enunciati della forma “a rende +/* b F”, ma non viceversa, dipende dal fatto che tutte le spiegazioni che si impegnano sull’esistenza di particolari entità (dicendo che una certa cosa è F poiché una certa entità è in un certo modo) sono spiegazioni ma non tutte le spiegazioni si impegnano sull’esistenza di particolari entità. 3. Le varietà modali del rendere F. La classificazione del rendere F nelle tre forme del rendere * F, del rendere + F e del rendere ^ F è stata fatta sia osservando le relazioni logiche fra gli enunciati della lista (1)-(9) e le corrispettive spiegazioni della lista (1s)-(9s), sia introducendo delle distinzioni fra gli enunciati di quest’ultima lista, distinguendo cioè diversi tipi di spiegazione; ad esempio, spiegazioni che fanno appello alla sola esistenza di qualcosa e spiegazioni che fanno appello ad altre caratteristiche, spiegazioni che si impegnano sull’esistenza di particolari individui e spiegazioni che non lo fanno. Un’ulteriore classificazione degli enunciati esplicativi che può indurre una parallela classificazione fra le forme di rendere F è quella che usa come principio classificatorio la forza modale delle spiegazioni nella lista. Cos’è la forza modale di una spiegazione? Ogni spiegazione nella lista è un enunciato complesso della forma “p poiché q”; a “p” si dà il nome di explanandum, a “q” di explanans. Valutare la forza modale di una spiegazione significa stabilire se sono veri, e in che senso della parola “necessario”, gli enunciati “è necessario che se p allora q”, “è necessario che se q allora p”, “è necessario che p se e solamente se q” (quest’ultimo è vero se e solamente se i primi due sono veri). Ciò equivale a stabilire se sono veri, e in che senso della parola “possibile”, gli enunciati: “non è possibile che p e non q”; “non è possibile che q e non p”; e se è vera la loro congiunzione. I sensi di “possibile” e “necessario” che di solito si distinguono sono quattro: quello della 29 Capitolo I possibilità/necessità fisica, metafisica, epistemica e deontica. Se un enunciato della forma “è necessario che p” o “è possibile che p” è vero in uno di questi sensi di “possibile” o “necessario” si dice che è una possibilità/necessità che p in uno di questi sensi, che è cioè una possibilità/necessità fisica, metafisica, epistemica, deontica che p18. Intuitivamente l’esser vero o falso di un enunciato della forma “è necessario che p” o “è possibile che p” non dipende essenzialmente da come le cose stanno di fatto ma da come le cose potrebbero stare, non solo da come è il mondo ma da come potrebbe essere. Questa intuizione è rappresentata nei sistemi di logica modale dicendo che un enunciato della forma “†p” è vero se e solamente se “p” è vero in tutti i mondi possibili e un enunciato della forma “◊p” è vero se e solamente se “p” è vero in almeno un mondo possibile. Naturalmente al variare del senso di possibile/necessario (fisico, metafisico, epistemico, deontico) varierà l’insieme dei mondi possibili cui si fa riferimento quando si usano le espressioni “tutti i mondi possibili”, “almeno un mondo possibile”. Ad esempio, ai fini della determinazione del valore di verità di un enunciato della forma “†p”, nel caso della possibilità fisica, si prenderanno in considerazione solo i mondi in cui valgono le stesse leggi fisiche che valgono di fatto. Nel caso della possibilità metafisica tutti i mondi la cui descrizione non implica una contraddizione. Nel caso della possibilità epistemica si prenderanno in considerazione i mondi che sono compatibili con ciò che un dato soggetto crede. Nel caso della possibilità deontica solo i mondi in cui valgono certe norme morali. Il senso di “possibile” e “necessario” rilevante per il nostro discorso è quello della possibilità/necessità metafisica. Questo per due ragioni: in primo luogo la spiegazione è un tipo di discorso descrittivo (non normativo e non relativo alle credenze di un determinato soggetto); in secondo luogo la nozione di necessità metafisica è sembrata centrale a molti filosofi al fini di caratterizzare le nozioni di fattore di verità e di rendere vero. Bisogna sottolineare che una spiegazione deve sempre avere una qualche forza modale: infatti un modo tipico in cui si valuta la bontà di una spiegazione è immaginare o riprodurre delle situazioni, diverse da quella che si è verificata di fatto, e per questo motivo dette situazioni controfattuali, in cui l’explanans della spiegazione non è vero e “controllare” se in tale situazione continuerebbe ad esser vero l’explanandum. Se ciò si verifica allora la spiegazione non è una buona spiegazione. Questo però non significa che una spiegazione, per essere una buona spiegazione, debba possedere una forza modale fisica o metafisica. Una buona spiegazione può però anche avere una forza modale inferiore a quella della necessità fisica o metafisica (senza che tale forza sia di tipo deontico o epistemico). Ad esempio una spiegazione può essere tale che il condizionale che ha come antecedente il suo explanandum e come conseguente il suo explanans è vero solo nei mondi fisicamente possibili ma non in tutti i mondi fisicamente possibili, cioè solo in una sottoclasse di essi: la sottoclasse di quei mondi fisicamente possibili sufficientemente simili al nostro, in cui cioè non cambiano tutti quei fatti che nel fornire la spiegazione vengono considerati 30 Rendere F rilevanti o dati per presupposti. Ad esempio, se penso che Pietro ieri sera era così contento poiché ha baciato Giovanna penso che sia vero il condizionale “se Pietro ieri sera non avesse baciato Giovanna non sarebbe stato così contento”. Ma i mondi possibili, che considero rilevanti per valutare il condizionale in questione non sono tutti i mondi fisicamente possibili; non mi limito ad escludere, ad esempio, i mondi in cui le labbra umane si incendiano al contatto reciproco, bensì escludo anche mondi fisicamente possibili che differiscono da quello attuale per aspetti il cui essere o non essere presenti è rilevante per la valutazione della spiegazione. Ad esempio escluderò i mondi possibili in cui un’altra splendida ragazza presente alla festa bacia Pietro: infatti che Giovanna lo abbia baciato è una spiegazione del suo essere felice in quella situazione (alla festa) proprio perché in quella situazione nessuna altra ragazza lo ha fatto; cioè che nessuna altra ragazza abbia baciato Pietro alla festa è uno di quei fatti che vengono considerati rilevanti ai fini della bontà della spiegazione in questione. Quando si ragiona in questo modo si mette in atto il principio metodologico secondo cui la valutazione di una spiegazione tramite l’esame di condizioni controfattuali deve rispettare la clausola ceteris paribus. 3.1. Il rendere F causale. Il rispetto di condizioni ceteris paribus è centrale nella formulazione del tipo di spiegazioni probabilmente più diffuso: le spiegazioni causali. A questo tipo di spiegazioni appartengono le spiegazioni del gruppo seguente: 1s) Carola è felice poiché Gilda è molto affettuosa con lei. 2s) Le nostre discussioni sono interminabili poiché Andrea ama l’argomentazione. 3s) La strada è impraticabile poiché c’è stata una frana. 5s) Pietro è più colto di tutti noi poiché non ha la televisione. 6s) Berlusconi è antipatico poiché è così arrogante. In tutti i questi casi è infatti possibile metafisicamente che l’explanans sia vero e che non lo sia l’explanandum e viceversa: Berlusconi potrebbe risultare simpaticissimo pur essendo arrogante (sembra del tutto possibile in una comunità di individui che ama l’arroganza) ed essere antipatico pur non essendo arrogante; Pietro potrebbe essere estremamente ignorante pur non avendo la televisione ed essere molto colto pur avendola. È facile rendersi conto che la stessa cosa vale anche per gli altri tre casi. Inoltre i condizionali in questione non sono nemmeno necessari fisicamente: vi sono situazioni fisicamente possibili che li falsificano. Gli enunciati (1s), (2s), (3s), (5s) e (6s) esprimono delle spiegazioni causali contingenti le quali, al più, implicano la verità delle leggi fisiche ma non sono da queste implicate. Allo stesso modo tutti i loro gemelli della forma “a rende b F” (cioè (1), (2), (3), (5) e (6)) esprimono verità contingenti: ad esempio l’essere Berlusconi così 31 Capitolo I arrogante potrebbe non renderlo antipatico e Gilda potrebbe non rendere felice Carola. In tutti questi casi si parlerà, in analogia con le spiegazioni causali, di rendere F causale19. Un filosofo propenso non solo a riconoscere che le espressioni della forma “a rende b F” sono da un punto di vista sintattico espressioni relazionali, ma che considera il rendere F stesso come una relazione, alla stessa stregua di “essere padre di” o “essere a destra di”, descriverà in questo modo la contingenza degli enunciati in questione: tali enunciati sono veri solo contingentemente poiché la relazione “x rende F y” sussiste solo contingentemente fra i suoi membri, è possibile cioè che i suoi membri (ad esempio, Gilda e Carola, o l’essere arrogante di Berlusoni e Berlusconi) esistano senza che la relazione sussista fra essi (nel nostro caso senza che Gilda renda felice Carola e senza che l’essere arrogante di Berlusconi lo renda antipatico). Non è però obbligatorio spiegare le cose in questi termini: si può semplicemente dire che, ad esempio, “l’essere arrogante di Berlusconi lo rende antipatico” è contingentemente vero poiché Berlusconi avrebbe potuto essere arrogante senza essere antipatico poiché arrogante. 3.2. Rendere F necessitanti. I: ciò in cui consiste essere F. Se una spiegazione è tale che è impossibile che il suo explanans sia vero e che il suo explanandum non lo sia, essa ha la forza modale che chiamerò della necessitazione. Gli enunciati della forma “a rende b F” equivalenti a tali spiegazioni esprimono ciò che, di conseguenza, può essere chiamato “rendere F necessitante”. Un primo gruppo di enunciati che esprimono spiegazioni necessitanti è il seguente: 7s) Stefano prova dolore poiché i suoi neuroni Z scaricano 8s) La tua azione è giusta poiché produce la massima felicità per il maggior numero 9s) Alessandro è uno scapolo poiché è un maschio adulto non sposato. Si può sostenere infatti che i bicondizionali che hanno costituenti l’explanans e l’explanandum di tali spiegazioni esprimono delle necessità metafisiche, che cioè: 7nec) †(Stefano prova dolore sse se i suoi neuroni Z scaricano) 8nec) †(la tua azione è giusta sse produce la massima felicità per il maggior numero) 9nec) †(Alessandro è un maschio adulto non sposato sse è uno scapolo). Ma se è vero un enunciato della forma “†(p sse q)” è vero anche il condizionale “†(se p allora q)”, dunque le spiegazioni (7s)-(9s) sono spiegazioni necessitanti. 32 Rendere F I bicondizionali (8nec)-(9nec) non hanno tutti lo stesso status epistemologico. La verità di (9nec) è un’esemplificazione della verità, accettata da chiunque capisca la parola “scapolo”, “†(qualcosa è un maschio adulto non sposato sse è uno scapolo)”. Chi crede che sia possibile che Alessandro sia un maschio adulto non sposato senza essere uno scapolo (o viceversa) non possiede il concetto espresso da “scapolo”. (9s) è dunque un’esemplificazione di un enunciato esplicativo di forma universale in cui l’explanans esprime un’analisi concettuale dell’explanandum20: (U9s) Una persona è uno scapolo poiché è un maschio adulto non sposato. A tale enunciato corrisponde un enunciato universale contenente un’espressione della forma “rendere F”: (U9) L’essere maschi adulti non sposati rende scapoli. Al contrario si può perfettamente comprendere il significato di “essere giusto” e quello di “provare dolore” pur dissentendo da (7nec) e (8nec). Il fatto che non si tratti di verità concettuali non esclude però la necessità metafisica dei condizionali, allo stesso modo che il non essere “l’acqua è H2O” una verità concettuale non rende metafisicamente contingente che l’acqua sia H2O.Tali enunciati saranno accettati solo da chi ha una certa teoria concernente il provare dolore e l’essere giusto; nel primo caso solo da chi condivide un riduzionismo fiscalista riguardo agli stati qualitativi, alle esperienze o qualia, nel secondo solo da chi condivide una teoria utilitarista della giustizia. Tali spiegazioni sono dunque esemplificazioni di enunciati universali in cui l’explanans fornisce non un’analisi concettuale ma una riduzione teorica dell’explanandum. (U7s) Si prova dolore poiché i propri neuroni Z scaricano. (U8s) Un’azione è giusta poiché produce la massima felicità per il maggior numero. Ad essi corrispondono, come già nel caso precedente, due enunciati universali contenenti espressioni della forma “rende F” (o “fa essere F”) e, come sintagmi nominali, nominalizzazioni degli explanans di (U7s) e (U8s) (U7) Lo scaricare dei neuroni Z (il fatto che i neuroni Z scarichino) fa provare dolore (U8) Il produrre la massima felicità per il maggior numero rende un’azione giusta. Ciò che (7s), (8s) e (9s) hanno in comune è però che asserendoli si sta spiegando ciò in cui consiste l’essere in un certo modo (provare dolore, essere giusto, essere scapolo) di una certa cosa, solo che la risposta che viene fornita in (9s) è ovvia mentre quelle fornite negli altri due casi non lo sono. 33 Capitolo I Spiegazioni di questo genere, se vere, sono necessariamente vere nel senso seguente. Sia “p poichécons q” una spiegazione di tale tipo (il pedice “cons” indica che siamo di fronte ad una spiegazione che ci dice ciò in cui consiste l’essere in un certo modo), allora: (Scons) p poichécons q sse †(se p allora (p poiché q) e se q allora (p poiché q)). Ad esempio se Alessandro è scapolo poichécons è un maschio adulto non sposato allora necessariamente se Alessandro è scapolo lo è poiché è un maschio adulto non sposato e se è un maschio adulto non sposato allora, per questo motivo, è scapolo. Data l’equivalenza fra enunciati della forma “a rende b F” con enunciati esplicativi possiamo introdurre la nozione di “rendereconsF” corrispondente a queste spiegazioni. Poiché, inoltre, in §1.2 avevamo distinto tre tipi di rendere F e cioè il rendere* F (quello generico), il rendere + F (quello esistenziale) e il rendere ^ F (quello pleonastico), avremo tre tipi di rendereconsF così caratterizzabili: (RF*cons) a rende*consb F sse ∃G (b è F poichécons a è G) (RF+cons) a rende+consb F sse b è F poichécons a esiste (RF^cons) nom(p) rende^cons b F sse b è F poichécons p. Dati questi tre assiomi e il principio (Scons) possiamo formulare tre assiomi che specificano la forza modale delle tre forme di renderecons in base alla forza modale delle riduzioni teoriche e delle analisi concettuali (cioè del “poichécons”): (RF*cons1) a rende*consb F sse ∃G [a è G e †((se a è G allora b è F poiché a è G) e (se b è F allora b è F poiché a è G))] (RF+cons1) a rende+consb F sse a esiste e †[(se a esiste allora b è F poiché a esiste) e (se b è F allora b è F poiché a esiste)] (RF^cons1) nom(p) rende^cons b F sse p e † [(se p allora b è F poiché p) e (se b è F allora b è F poiché p)]. In questi schemi di assiomi, e in quelli della stessa forma che seguono nel testo, le formule che seguono “†” sono congiunte rispettivamente con le formule “a è G”, “a esiste” e “p”, cioè con le formule che svolgono il ruolo di explanans negli enunciati esplicativi con cui si sono introdotte le varie nozioni di rendere F. Ciò perché un tratto distintivo delle nozioni espresse dai predicati della forma “rende F” è la fattività: se una cosa ne rende F un’altra allora questa è F. Ma le formule che seguono “†” sono dei condizionali dai quali non si può inferire che alcunché sia F. Ad esempio, l’enunciato “necessariamente se Stefano è un maschio adulto non sposato allora è uno scapolo poiché è un maschio adulto non sposato” è vero, anche se Stefano è di fatto sposato: l’enunciato infatti dice solo che non è possibile che sia vero che Stefano è 34 Rendere F maschio adulto non sposato e che non sia vero che Stefano è scapolo poiché è un maschio adulto non sposato; l’enunciato non esclude la possibilità che non sia vero che Stefano è un maschio adulto non sposato (e che dunque non sia scapolo). Dunque che tale enunciato sia vero non è sufficiente affinché sia vero che l’essere un maschio adulto non sposato rende Stefano uno scapolo: infatti se l’essere un maschio adulto non sposato rendesse Stefano uno scapolo Stefano dovrebbe per forza essere uno scapolo21. Essendo le tre forme di rendere F appena introdotte specie delle tre forme descritte in §2.1 (infatti le loro definizioni si ottengono usando “poiché” con un senso più ristretto di quello con cui è usato in §2.1), le loro relazioni logiche rimangono invariate: il rendere+cons F è una specie del rendere*cons F e nessuno dei due è una specie del rendere^consF o viceversa. La forza modale di tutte le forme di renderecons F è la stessa delle spiegazioni di cui stiamo trattando. Ad esempio: l’essere un maschio adulto non sposato rende^cons Alessandro uno scapolo se e solamente se necessariamente se Andrea è uno scapolo allora è reso tale dall’essere un maschio adulto non sposato e se è un maschio adulto non sposato allora l’essere tale lo rende uno scapolo. In generale: (RF*cons2) a rende*cons b F sse ∃G[a è G e †((se a è G allora a rende* b F) e (se b è F allora a rende* b F))] (RF+cons2) a rende+cons b F sse a esiste e †[(se a esiste allora a rende+ b F) e (se b è F allora a rende+ b F)] (RF^cons2) nom(p) rende^cons b F sse p e †[(se p allora nom(p) rende^ b F) e (se b è F allora nom(p) rende^ b F)]. 3.3. Rendere F necessitanti. II: sopravvenienza Vi è anche un’interpretazione di (7s) e (8s), e delle loro generalizzazioni universali (U7s) e (U8s), nella quale essi non implicano (7nec) e (8nec) ma semplicemente: (7nec’) †(se i neuroni Z di Stefano scaricano allora Stefano prova dolore). (8nec’) †(se la tua azione produce la massima felicità per il maggior numero allora è giusta), nonché le corrispondenti generalizzazioni: (U7nec’) †(se i neuroni Z di una persona scaricano allora quella persona prova dolore). U8nec’) †(se un’azione produce la massima felicità per il maggior numero allora è giusta). La forza modale delle spiegazioni in questione non è dunque quella espressa dal principio (Scons). Essa sembra piuttosto catturata dal seguente principio: 35 Capitolo I (Snec) p poichénec q sse necessariamente se q allora p poiché q. Analogamente a quanto fatto nel paragrafo precedente col renderecons F possiamo introdurre tre forme di renderenec F: (RF*nec) a rende*nec b F sse ∃G (b è F poichénec a è G). (RF+nec) a rende+nec b F sse b è F poichénec a esiste. (RF^nec) nom(p) rende^nec b F sse b è F poichénec p. Dati questi tre assiomi e il principio (Snec) possiamo formulare tre assiomi che specificano la forza modale delle tre forme di renderenec F in base alla forza modale delle spiegazioni in questione (cioè del “poichénec”): (RF*nec1) a rende*nec b F sse ∃G[a è G e †(se a è G allora b è F poiché a è G)]. (RF+nec1) a rende+nec b F sse a esiste e †(se a esiste allora b è F poiché a esiste). (RF^nec1) nom(p) rende^nec b F sse p e †(se p allora b è F poiché p). Infine, a partire da (Snec) e dai tre assiomi precedenti possiamo caratterizzare la forza modale delle tre forme di renderenecF: (RF*nec2) a rende*nec b F sse ∃G(a è G e †(se a è G allora a rende* b F)). (RF+nec2) a rende+nec b F sse a esiste e †(se a esiste allora a rende+ b F). (RF^nec2) nom(p) rende^nec b F sse p e †(se p allora nom(p) rende^ b F). Poiché l’enunciato a destra di “sse” in (Scons) implica l’enunciato a destra di “sse” in (Snec) ma non viceversa, “p poichécons q” implica “p poichénec q” ma non viceversa. Lo stesso vale per ciascuna delle tre forme del renderecons F e del renderenec F: se una cosa ne rendecons un’altra F, in una delle tre forme di renderecons F, allora la rendenec F nella corrispondente forma di renderenec F ma non viceversa. Dunque un modo per dimostrare che una cosa ne rendenec F un’altra è dimostrare che la rendecons F ma, d’altra parte, il fatto che una cosa non ne rendacons F un’altra non esclude che la possa renderenec F. Bisogna sottolineare che, come avveniva col renderecons F, anche nell’interpretazione degli enunciati (7) e (8) in cui essi dicono che qualcosa rendenec F qualcos’altro, sono vere le generalizzazioni di (7) e (8), cioè (U7) e (U8): si può pensare che lo scaricare dei neuroni Z faccia provare dolore e che il produrre la massima felicità per il maggior numero renda le azioni giuste senza per ciò pensare che il provare dolore consista nello scaricare di certi neuroni e che l’esser giusto consista nel produrre la massima felicità per il maggior numero. Una spiegazione può infatti implicare necessitazione metafisica (dunque non essere una spiegazione causale) senza pur tuttavia essere una riduzione teorica o un’analisi concettuale, senza cioè essere una spiegazione di ciò in cui consiste essere in un certo modo. Si può non essere riduzionisti, ad esempio non credere che il provare dolore non sia altro che essere in un certo 36 Rendere F stato biochimico, pur ammettendo che non sia possibile essere in quello stato biochimico senza provare dolore e pur pensando che l’essere in quello stato biochimico sia ciò in virtù di cui si prova dolore. Analogamente si può non essere utilitaristi pur pensando che, se un’azione produce la massima felicità per il maggior numero, allora non possa non essere giusta e che il produrre la massima felicità per il maggior numero renda le azioni giuste. Una nozione con cui, nell’ambito soprattutto delle discussioni in filosofia della mente negli anni ’80, si è cercato di catturare tale idea è quella di sopravvenienza. La nozione di sopravvenienza, nelle efficaci parole di Kripke22, vuole catturare appunto l’idea che vi sono proprietà (ad esempio il provare dolore) la cui esemplificazione è garantita metafisicamente dall’esemplificazione di proprietà di altro tipo (ad esempio certe proprietà fisiche dei neuroni), che Dio nel creare un mondo in cui le persone provino dolore non debba fare nulla di più che creare un mondo in cui i alcuni neuroni scarichino. Le definizioni standard di sopravvenienza sono date in termini di covarianza nella distribuzione di proprietà: proprietà di un certo tipo sopravvengono su proprietà di un altro tipo se e solamente se non è possibile che due cose differiscano rispetto alle proprietà del primo tipo senza differire al contempo per le proprietà del secondo tipo23. Bisogna sottolineare che le definizioni standard della nozione di sopravvenienza non riescono a catturare l’idea che le proprietà di un certo tipo siano esemplificate in virtù dell’esemplificazione di proprietà di un altro tipo. Esse non catturano dunque la specificità di spiegazioni come (7s) e (8s) e un principio come (Snec). Il motivo è che esse non forniscono condizioni sufficienti affinché si possa dire che una certa proprietà è esemplificata in virtù dell’esemplificazione di un’altra proprietà24. Un caso che prova ciò è fornito dalle proprietà che tutte le cose possiedono necessariamente: applicando le definizioni standard, tali proprietà risultano sopravvenire su qualsiasi proprietà che le cose possiedono contingentemente. Ad esempio, poiché ogni cosa è tale che se esiste è identica a se stessa, x e y non possono differire riguardo a tale proprietà dunque non può darsi il caso che vi sia una differenza fra x e y riguardo al possesso di tale proprietà e che vi sia una differenza riguardo al possesso della proprietà, ad esempio, di essere bello, (per essere vera una congiunzione di due condizioni le due condizioni debbono verificarsi entrambe e la prima non si verifica). Dunque la proprietà di essere identico a se stesso sopravviene sulla proprietà di essere bello: tuttavia non sembra essere vero che una cosa bella sia identica a se stessa poiché è bella. Preso atto di fatti del genere la conclusione che le definizioni standard di sopravvenienza sono inadeguate non è obbligata. In realtà si è di fronte a un’alternativa. Si può sostenere che la nozione filosofica di sopravvenienza è una nozione che vuole catturare l’idea che certe proprietà sono esemplificate in virtù dell’esemplificazione di altre, e che dunque le definizioni standard di sopravvenienza non sono adeguate25. Oppure si può sostenere che la nozione filosofica di sopravvenienza è una nozione introdotta 37 Capitolo I per stipulazione tramite tali definizioni e che, poiché tali definizioni non catturano ciò che è detto da frasi come “l’essere in un certo stato biochimico rende le persone doloranti” o “le persone sono doloranti poiché si trovano in un certo stato biochimico”, allora semplicemente la nozione di sopravvenienza è una nozione diversa dalla nozione di rendere F e dalle correlate nozioni esplicative26. Quali che siano le preferenze a riguardo rimane il problema di dare conto in qualche modo di spiegazioni come (7s) e (U7s) nella loro interpretazione non riduzionista. Ad esempio perché possiamo asserire una cosa come (26) †(se i neuroni Z di qualcuno scaricano allora questo qualcuno prova dolore poiché i suoi neuroni Z scaricano) e dunque (27) lo scaricare dei neuroni Z rende^nec le persone doloranti? Una soluzione al problema potrebbe essere quella di interpretare le spiegazioni in questione a partire dal modello delle riduzioni teoriche e delle analisi concettuali. Questo non significa che tali spiegazioni esprimano delle analisi concettuali o delle riduzioni teoriche ma che sono deducibili da un insieme di premesse che contiene spiegazioni di tale natura. Ad esempio chi sostiene che lo scaricare dei neuroni Z rende le persone sofferenti, pur negando che la proprietà di provare dolore si riduca ad una proprietà fisica, potrà sostenere quella che viene detta una teoria dell’identità degli stati funzionali, secondo la quale provare dolore è una proprietà di secondo ordine, e cioè la proprietà di avere una qualche proprietà che realizza il ruolo funzionale “dolore” (specificato da una stato di una macchina di Turing che chiameremo “stato D”)27. Questo autorizza ad asserire, in base all’uso di “poiché” mediante il quale si esprimono riduzioni teoriche o analisi concettuali, una spiegazione come: qualcosa prova dolore poichécons quella cosa ha una proprietà che realizza lo stato funzionale D. La nozione di “realizzazione” è di solito definita come una relazione fra eventi ma può analizzarsi anche come una relazione fra proprietà: (R) La proprietà G realizza la proprietà F (nel nostro caso la proprietà di essere nello stato funzionale D) ↔ †∀x(Gx → Fx poiché Gx)28. La proprietà G realizza cioè la proprietà F se e solamente se necessariamente se qualcosa è G allora è F poiché è G29. Dunque, se “G” è una variabile che può prendere come valori proprietà di un certo tipo (proprietà fisiche), la teoria dell’avere dolore sostenuta sarà espressa dal seguente enunciato: (I) †cons∀x[prova dolore x ↔ ∃G(Gx e †∀y (Gy → y è nello stato funzionale D poiché Gy))], 38 Rendere F in cui il pedice “cons” segue il simbolo “†” per indicare che la necessità dell’enunciato è tale in virtù di ciò in cui consiste l’essere in un certo modo (provare dolore e realizzare). Da (I) si può inferire: (II) †∀x[prova dolore x → prova dolore x poichécons(dolore †∀y(Gy → y è nello stato funzionale D poiché Gy))], x) ∃G(Gx e che dice che qualcosa prova dolore poichécons c’è una proprietà fisica di quella cosa tale che necessariamente se qualcosa ha quella proprietà allora essa è nello stato funzionale D poiché ha quella proprietà. Assumiamo infine che la proprietà essere tale che i propri neuroni Z scaricano e la proprietà essere nello stato funzionale D soddisfino la precedente definizione di “G realizza F”, cioè (III) †cons(i neuroni Z di x scaricano/x è in D) ∀x(i neuroni Z di x scaricano → x è nello stato funzionale D poiché i neuroni Z di x scaricano). Il pedice che segue il simbolo “†” indica che l’enunciato che segue il simbolo è vero in virtù di ciò in cui consiste l’essere tale che i propri neuroni scaricano e l’essere nello stato funzionale D.30. Dimostriamo adesso come da tali tre premesse possiamo ricavare (24). Facciamo l’ipotesi che una cosa scelta arbitrariamente, Pincopallo, esemplifichi la proprietà i neuroni di x scaricano, dunque: (IV) i neuroni Z di Pincopallo scaricano. Dati (IV) e (III) possiamo inferire la loro congiunzione: (V) i neuroni Z di Pincopallo scaricano e †∀x(i neuroni Z di x scaricano → x è nello stato funzionale D poiché i neuroni Z di x scaricano). Da (V) si può dedurre, in virtù della regola che in logica si chiama “generalizzazione esistenziale” e generalizzando non su individui ma sulla proprietà “i neuroni di x scaricano”: (VI) ∃G[GPincopallo e †∀x(Gx → x è nello stato funzionale D poiché Gx). Cioè: se qualcosa è vero di una particolare proprietà (nel nostro caso che una cosa ha quella proprietà e che necessariamente se qualcosa ha quella proprietà allora quella cosa è nello stato G poiché ha quella proprietà) allora sarà vero l’enunciato generale che dice che quella stessa cosa è vera di qualche proprietà. Siamo adesso ai due passaggi più critici e cruciali del ragionamento. Innanzitutto sostengo che da (V) e (VI) si può dedurre: 39 Capitolo I (VII) ∃G[GPincopallo e †∀x(Gx → x è nello stato D poiché Gx)] poichécons(∃G) [i neuroni Z di Pincopallo scaricano e †∀x(i neuroni Z di x scaricano → x è nello stato D poiché i neuroni Z di x scaricano)]. Questo passaggio è basato su una regola analoga a quella della generalizzazione esistenziale: se ad un passo di un ragionamento compare un enunciato che dice che una particolare cosa (nel nostro caso la proprietà di essere tale che i propri neuroni Z scaricano) ha una certa caratteristica (essere posseduta da Pincopallo e realizzare lo stato funzionale D) allora si può immediatamente dedurre l’enunciato che dice che qualcosa ha quella caratteristica poiché quella particolare cosa ha quella caratteristica. La regola potrebbe essere giustificata proprio facendo riferimento alla regola logica della generalizzazione esistenziale appena formulata, ad esempio sostenendo che quest’ultima è parte di una definizione implicita del concetto espresso da “qualcosa” (cioè in logica formale dal quantificatore esistenziale) e che dunque vi è una relazione esplicativa di parziale analisi concettuale fra “a è F” e “qualcosa è F”31. Ciò è espresso dal pedice “cons(∃G)”: la spiegazione in questione è cioè vera semplicemente in virtù del concetto dal concetto espresso dal quantificatore (diciamo il concetto di “qualcosa”). L’altro passaggio cruciale è il seguente. Sostengo che da (VII) e (III) si può dedurre: (VIII) ∃G†[GPincopallo e ∀x(Gx → x è nello stato D poiché Gx)] poichécons(scaricano i neuroni di x/∃G) i neuroni Z di Pincopallo scaricano. (VIII) si ottiene da (VII) eliminando dall’explanans uno dei suoi due congiunti e cioè (III). Cosa ci autorizza a fare ciò? L’idea può essere chiarita a partire da un esempio forse più intuitivo. Possiamo dire che è vero in virtù di ciò in cui consiste essere uomo che necessariamente se qualcosa è un uomo allora è un animale. Congiungiamo ora l’enunciato singolare “Stefano è un uomo” con l’enunciato universale e generalizziamo sulla proprietà di essere un uomo ottenendo: c’è un modo in cui Stefano è tale che se qualcosa è in questo modo allora è un animale. La regola di generalizzazione esistenziale delle spiegazioni ci consentirebbe di dire solo: (28) c’è un modo in cui Stefano è tale che necessariamente se qualcosa è in questo modo allora è un animale poichécons(c’è un G) Stefano è un uomo e necessariamente se qualcosa è un uomo è un animale, il pedice “cons(c’è un G)” indicando al solito che tale spiegazione è vera in virtù soltanto del concetto espresso da “c’è un G”. Ma se questo è vero allora è vero (29) c’è un modo in cui Stefano è tale che necessariamente se qualcosa è in questo modo allora è un animale, poichécons (x uomo/c’è un G) Stefano è un uomo. 40 Rendere F La spiegazione precedente essendo vera non solo in virtù del concetto di “c’è un G” ma anche in virtù di ciò in cui consiste l’essere uomo. Il modo in cui ciò in cui consiste l’essere uomo contribuisce alla verità di tale spiegazione è il seguente: essere un animale è parte di ciò in cui consiste essere uomo e dunque necessariamente se qualcosa è un uomo allora è un animale; questa verità è cioè presupposta dalla spiegazione in questione (diciamo che fa parte degli enunciati che descrivono il contesto della spiegazione) e proprio perché è presupposta non deve più far parte della spiegazione stessa. La stessa cosa vale per l’inferenza da (VII) a (VIII). Ma andiamo avanti: (VI) non è altro che l’applicazione al caso particolare di Pincopallo della formula che sta a destra di “↔” in (I). Dunque da (VI) e (I) possiamo dedurre: (IX) Pincopallo prova dolore. Ma (II) ci dice che è vero di ogni cosa che se essa prova dolore lo prova poiché quella cosa ha una qualche proprietà che realizza lo stato D e, se ciò è vero di ogni cosa, sarà vero anche di Pincopallo. Dunque da (II) possiamo inferire: (X) Pincopallo prova dolore → Pincopallo prova dolore poichécons(x prova dolore) ∃G(GPincopallo e †∀y(Gy → y è nello stato funzionale D poiché Gy). Da (IX) e (X) possiamo inferire (XI) Pincopallo prova dolore poichécons(x prova dolore) ∃G(GPincopallo e †∀y(Gy → y è nello stato funzionale D poiché Gy). Ma di solito si ammette che la relazione di spiegazione è transitiva, cioè che se p poiché q e q poiché r allora p poiché r. Dunque da (XI) e (VIII) possiamo inferire (XII) Pincopallo prova dolore poichécons(x prova dolore/∃G/scaricano i neuroni Z di x) i neuroni Z di Pincopallo scaricano. Poiché (XII) è stata ricavata dall’ipotesi (IV) facendo uso soltanto delle premesse (I)-(III), allora è vero solo sulla base di tali premesse che se (I) allora (XII), cioè (XIII) Se i neuroni di Pincopallo scaricano allora Pincopallo prova dolore poichécons(x prova dolore/∃G/scaricano i neuroni Z di x) i neuroni di Pincopallo scaricano. Dato poi che questa conclusione dipende solo da (I)-(III) e non anche da (IV), dunque da premesse in cui non si fa alcun riferimento a Pincopallo, vuol 41 Capitolo I dire che, a partire dalle stesse premesse, avremmo potuto dimostrare un qualsiasi enunciato che differisce da (XIII) solo perché invece che di Pincopallo in esso si parla di qualcun altro, che dunque ciò che vale per Pincopallo vale per tutti gli individui. Dunque possiamo inferire da (XIII), applicando quella che viene detta regola di generalizzazione universale, (XIV) ∀x(i neuroni di x scaricano → x prova dolore poiché i neuroni di x scaricano). Poiché (XIV) è stata dedotta logicamente da premesse della forma “necessariamente p” sarà anch’essa una verità necessaria, dunque possiamo concludere: (XV) †∀x(i neuroni di x scaricano → x prova dolore poiché i neuroni di x scaricano), cioè (26), che è ciò che si voleva dimostrare. (26) si può poi esemplificare con (30) †(se i neuroni Z di Stefano scaricano allora Stefano prova dolore poiché i suoi neuroni Z scaricano) che, per (Snec), è equivalente a (31) Stefano prova dolore poichénec i suoi neuroni Z scaricano il quale è a sua volta equivalente, in base a (RF^nec), a (32) lo scaricare dei suoi neuroni Z rende^nec Stefano dolorante e, in base a (RF*nec) a (33) i neuroni di Stefano lo rendono*nec dolorante. Questa dimostrazione ci dice due cose, la prima palese, la seconda meno ma forse più importante. La cosa palese è che vi sono spiegazioni del tipo di cui stiamo trattando in questo paragrafo, nonché i corrispondenti casi di renderenec F, che sono deducibili da premesse che sono o spiegazioni del tipo “p poichéconsq ”, cioè quelle che esprimono riduzioni teoriche o analisi concettuali, oppure enunciati della forma “†consp”, cioè enunciati necessariamente veri in quanto verità concernenti ciò in cui consiste essere in un certo modo (o in certi modi). La cosa meno palese è, come si può vedere osservando le premesse della dimostrazione, e in particolare la premessa (III), che alcune di queste premesse 42 Rendere F possono essere esse stesse spiegazioni del tipo che stiamo trattando. Vi sono cioè alcune di tali spiegazioni della forma “†(se p, allora q poiché p)”, le quali sono esse stesse vere in virtù di ciò in cui consiste essere in certi modi. Ad esempio “se i neuroni Z di qualcuno scaricano allora quel qualcuno è nello stato funzionale D poiché i suoi neuroni Z scaricano” è, diciamo, una spiegazione primitiva, data una teoria concernente l’essere nello stato funzionale D e l’essere tale che i propri neuroni Z scaricano. Naturalmente ciò non implica, come è già stato osservato, che le spiegazioni in questione siano conosciute a priori. Ci si deve però chiedere: perché tali teorie autorizzano la spiegazione in questione e non la sua conversa, cioè “se qualcuno è nello stato funzionale D allora i neuroni Z di quel qualcuno scaricano poiché egli è nello stato funzionale D”? I motivi per cui è vera una spiegazione e non la sua conversa possono variare da caso a caso. In casi come questi si potrebbe fare questa ipotesi: essere nello stato funzionale D è essere in uno stato causale di un certo tipo; ed essere tale che i propri neuroni Z scaricano è essere in un certo stato fisico che è individuato dalle relazioni causali che intrattiene con altri stati fisici, dunque essere in uno stato causale di un certo tipo è parte di ciò in cui consiste essere tale che i propri neuroni Z scaricano. La relazione fra l’essere nello stato funzionale D e l’essere tale che i propri neuroni Z scaricano è quella fra un genere e una specie, lo stesso tipo di relazione che c’è fra essere uomo ed essere animale. L’idea è che la descrizione di una cosa nei termini dei suoi stati funzionali è semplicemente una descrizione degli stati fisici di quella cosa ad un livello di astrazione maggiore. Ma sembra essere un fatto primitivo riguardo alla spiegazione dati due predicati F e G, il primo dei quali esprime un concetto la cui relazione col concetto espresso dal secondo è quella della specie col genere, che se una cosa è F allora è G poiché è F ma non viceversa. Ad esempio è vero che se qualcosa è un uomo allora è un animale poiché è un uomo, ma non è vero che se qualcosa è un uomo allora è un uomo poiché è un animale. Questo tipo di spiegazioni sono molto importanti poiché è proprio grazie ad esse che si possono formulare definizioni di nozioni come quella di “la proprietà F realizza la proprietà G” e di “sopravvenienza”. Ad esempio, dati due insiemi di proprietà p e Q, si può dire che le proprietà di p sopravvengono sulle proprietà di q (o che il primo insieme di proprietà sopravviene sul secondo) se e solamente se qualcosa ha una proprietà f appartenente al primo insieme solo se ha una proprietà g appartenente al secondo e g è tale che necessariamente se qualcosa ha g allora ha f poiché ha g. Più sinteticamente: (SUP) p soppraviene su q sse ∀x∀f∈P[fx → ∃g∈Q(gx e †∀y(gy → fy poiché gy)]32 Un caso in cui il renderenec F sembra invece potersi ridurre senza residui al renderecons è quello in cui si ha una teoria disgiuntiva di che cos’è essere in un certo modo. Mettiamo che un filosofo difenda una teoria della giustizia simile ad una delle due teorie della santità discusse nell’Eutifrone, sostenendo che ciò che è giusto è tale poiché piace a Dio (e non viceversa), volendo con 43 Capitolo I ciò sostenere che essere giusto consiste nel piacere a Dio. Ipotizziamo che questo filosofo sostenga anche che vi è una lista finita di tipi di azioni che piacciono a Dio e che il volere questi e solo questi tipi di azioni sia ciò in cui consiste la volontà divina (e che dunque non sia un fatto contingente che a Dio piacciano tali azioni). Questo filosofo potrà sostenere che essere giusto non è altro che essere un’azione di questo tipo o essere un’azione di quel tipo o essere un’azione di quell’altro tipo (per quanti sono i tipi di azioni che piacciono a Dio). Ipotizziamo che fra questi tipi di azione vi sia il tipo “essere un’azione che produce la massima felicità per il maggior numero”. Il filosofo in questione, se è coerente, asserirà che necessariamente se un’azione produce la massima felicità per il maggior numero, allora è giusta per tale motivo, cioè che un’azione è giusta poichénec produce la massima felicità per il maggior numero e che dunque il produrre la massima felicità per il maggior numero rende^nec le azioni giuste. Allo stesso tempo però sosterrà una teoria riduzionistica sia dell’esser giusto (per cui l’esser giusto non è altro che essere voluto da Dio) sia dell’esser voluto da Dio (per cui esser voluto da Dio non è altro che essere un’azione di uno dei tipi all’interno di una lista). 3.3.1. Il caso delle promesse (7s) e (8s) (e le loro generalizzazioni) non sono esempi di spiegazioni esistenziali: in essi non si dice che qualcosa si verifica poiché certe cose esistono ma che qualcosa si verifica poiché qualcosa ha una certa caratteristica (ad esempio che Stefano ha mal di testa poiché i suoi neuroni scaricano). Di conseguenza gli enunciati con un’espressione della forma “a rende b F” che si possono inferire da essi e cioè, ad esempio (32) o (33) non esprimono un rendere F esistenziale, cioè un rendere+nec F Se si riuscissero a trovare delle spiegazioni della forma “p poiché esiste a” in cui la spiegazione espressa da “poiché” è del tipo di quella che abbiamo descritto in tale paragrafo, avremmo un caso di rendere F al contempo esistenziale e necessitante. Un caso del genere è, secondo Mulligan, quello delle promesse33. Le promesse sembrano soddisfare infatti le caratteristiche delle cose che ne rendono+nec obbligatorie altre. Ad esempio l’enunciato seguente è vero: (4nec) necessariamente se la tua promessa ha avuto luogo allora una certa tua azione è obbligatoria, pur non essendo vero (*4nec) necessariamente se la tua azione è obbligatoria allora c’è stata una tua promessa a riguardo. Infatti essere obbligatorio non è la stessa cosa che essere stato promesso, un’azione può essere obbligatoria, ad esempio, perché è richiesta dalla legge o 44 Rendere F (se si usa “obbligatorio” come sinonimo di “ciò che è un dovere”) perché è richiesta da una norma morale. L’essere oggetto di una promessa è solo una condizione metafisicamente sufficiente ma non metafisicamente necessaria dell’essere obbligatorio34. Per questo aspetto la relazione fra l’esistenza della promessa e l’obbligatorietà dell’azione è come quella fra il fatto che i miei neuroni Z scaricano e il fatto che provo dolore ed è invece diversa fra quella sussistente fra l’essere Alessandro un maschio adulto non sposato e il suo essere uno scapolo. E infatti mentre è vero: (4snec) †(se c’è stata la tua promessa a riguardo allora la tua azione è obbligatoria poiché c’è stata la tua promessa), non è vero che necessariamente se la tua azione è obbligatoria lo è poiché c’è stata la tua promessa. Siamo dunque in un caso del tipo “p poichénec q” e, dato che in questo caso particolare l’explanans è un enunciato che dice che una certa cosa (la tua promessa) esiste (o è esistita), la tua promessa rende+nec obbligatoria la tua azione. Abbiamo visto col caso dello scaricare dei neuroni che l’enunciato “necessariamente se i neuroni Z scaricano allora si è nello stato funzionale D” può essere considerato una spiegazione primitiva data una teoria concernente l’attività biochimica dei neuroni Z e l’essere nello stato funzionale D. Questo vale anche per (4snec), con la differenza che la sua accettazione sembra essere costitutiva della comprensione della parola “promessa”, che esso dunque è ricavabile da un’analisi concettuale della nozione di “essere una promessa”. Ad esempio in un enciclopedia giuridica si può leggere la seguente definizione di “promessa” Si intende per “promessa” una dichiarazione di volontà in virtù della quale chi la fa si obbliga a dare qualcosa o a fare o a non fare qualcosa in futuro. Promettere significa, per tanto, obbligare la propria condotta, vale a dire comprometterla di modo che il soggetto che compie la promessa sia obbligato a quanto promesso35 Una variante del primo periodo della definizione è: Si intende per “promessa” una dichiarazione di volontà che rende obbligatorio per chi la fa il dare qualcosa o il fare o non fare qualcosa in futuro. E che ha un equivalente, per la generale corrispondenza fra enunciati contenenti l’espressione “rende F” ed enunciati esplicativi in: Si intende per “promessa” una dichiarazione di volontà tale che chi la fa è obbligato a dare qualcosa o a fare o a non fare qualcosa in futuro poiché ha fatto quella dichiarazione. Il concetto di “promessa” è cioè il concetto di qualcosa la cui semplice esistenza spiega l’obbligatorietà di una certa azione. La stessa cosa si può 45 Capitolo I esprimere in quest’altro modo: (4s) e (4snec) sono veri semplicemente perché essere una promessa è essere una dichiarazione tale che una certa azione è obbligatoria poiché c’è stata quella dichiarazione, ovvero, in base all’equivalenza fra enunciati esplicativi ed enunciati col predicato “rendere F”, poiché essere una promessa è essere una dichiarazione che rende+ obbligatorie certe azioni. Si potrebbe pensare che, per spiegare la verità di enunciati come (4s) o (4snec), non sia necessario considerare il riferimento al ruolo esplicativo delle promesse (nei confronti dell’obbligatorietà delle azioni) come parte dell’analisi della nozione di “essere una promessa”. Si potrebbe infatti sostenere che è condizione sufficiente per la verità di tali enunciati che sia una verità concettuale “se la tua promessa esiste allora la tua azione è obbligatoria”. Se però questo fosse vero allora ci sarebbe un uso della parola “poiché” regolato da questo principio: CONC: se è una verità concettuale “p → q” allora q poiché p. Questo principio purtroppo è falsificato dal caso di “scapolo” e “non sposato”. Infatti è una verità concettuale che necessariamente se Alessandro è scapolo allora non è sposato; dunque, se fosse vero CONC, dovrebbe anche essere vero che Alessandro non è sposato poiché è scapolo (nello stesso senso di “poiché” in cui è vero che la tua azione è obbligatoria poiché c’è stata la tua promessa). Ma questo è falso: l’esistenza della promessa infatti spiega l’obbligatorietà dell’azione mentre l’essere Alessandro uno scapolo non sembra poter in alcun modo spiegare il suo non essere sposato. In altre parole, mentre chi volesse sapere perché una certa azione è obbligatoria sarebbe del tutto soddisfatto dalla risposta “poiché me l’aveva promesso”, chi volesse sapere perché Alessandro non è sposato non sarebbe soddisfatto della risposta “poiché è scapolo”. Possiamo concludere che CONC è falso. Dunque l’essere una verità concettuale che se c’è stata la tua promessa allora una certa tua azione è obbligatoria non è sufficiente affinché la tua azione sia obbligatoria poiché c’è stata la tua promessa. 3.3.2. Necessità de dicto e de re. Enunciati come (4nec) e (4snec) possono essere interpretati in due modi diversi a seconda di come viene interpretato il sintagma nominale “la tua promessa”. In generale sintagmi nominali della forma “il G” (in cui “G” è un’espressione descrittiva semplice o complessa), chiamati in filosofia del linguaggio descrizioni definite, possono essere interpretati in due modi: nel primo modo ciò cui essi si riferiscono in ogni situazione possibile in cui l’enunciato in cui compaiono viene valutato è l’unico oggetto (se esiste) che in quella situazione ha la caratteristica G. In questa interpretazione un enunciato della forma “il G F” (in cui a “F” può essere sostituito un qualsiasi sintagma verbale) è vero in una certa situazione se e solamente se in quella situazione esiste un unico oggetto che è G e quell’oggetto F. Quest’uso, chiamato uso attributivo delle descrizioni definite, viene distinto da un uso diverso in cui ciò 46 Rendere F cui esse si riferiscono, in ogni situazione possibile in cui l’enunciato in cui compaiono viene valutato, è l’oggetto cui esse si riferiscono di fatto, l’unico oggetto cioè (se esiste) che di fatto ha la caratteristica G36. In quest’uso, detto rigido, un enunciato della forma “il G F” è vero in una certa situazione se e solamente se l’unico oggetto che di fatto è G in quella situazione è F. A seconda che una descrizione definita venga interpretata nel primo o nel secondo modo cambierà di conseguenza anche l’interpretazione di un enunciato della forma “necessariamente il G F”. Nell’interpretazione attributiva della descrizione l’enunciato esprime quella che viene chiamata una necessità de dicto, l’enunciato è cioè vero se e solamente se non esiste una situazione possibile in cui un individuo soddisfa la descrizione “il G” e non soddisfa il predicato “F”. Nell’interpretazione rigida invece l’enunciato è vero se e solamente se non è possibile che una particolare entità (quella denotata di fatto dalla descrizione “il G”) non abbia una certa caratteristica (la caratteristica cui ci si riferisce con “F”). In tale interpretazione un enunciato della forma “necessariamente il G F” esprime quella che viene chiamata una necessità de re. Nella prima interpretazione, quella de dicto, un enunciato come “necessariamente tua moglie è tua moglie” è vero; infatti in tale interpretazione l’enunciato “tua moglie è tua moglie” dice che è se qualcosa ha la proprietà di essere tua moglie allora ha la proprietà di essere tua moglie: esso è dunque un esempio della verità logica “∀x(Qx → Qx)” e le verità logiche sono verità necessarie. Nella seconda interpretazione, quella de re, l’enunciato è invece falso. In tale interpretazione infatti l’enunciato “tua moglie è tua moglie” dice che una particolare donna (che è di fatto tua moglie), chiamiamola Maria, è tua moglie. Ma Maria avrebbe potuto non essere tua moglie. Dunque in questa interpretazione non è vero che necessariamente tua moglie (Maria) è tua moglie. Prendiamo ora una verità concettuale concernente la proprietà di essere una moglie, ad esempio che se qualcosa è una moglie allora qualcuno è suo marito, l’enunciato “necessariamente se esiste tua moglie allora qualcuno è suo marito” sarà anch’esso vero o falso a seconda che venga interpretato come una necessità de dicto o de re: infatti pur essendo necessario che se qualcosa è tua moglie allora ha un marito, quella donna che è di fatto tua moglie potrebbe non essere una moglie (poiché potrebbe non essere sposata) e di conseguenza potrebbe non avere un marito. Al contrario dell’enunciato precedente, (4nec) risulta vero sia nell’interpretazione de dicto che in quella de re. È cioè vero tanto che qualcosa non può avere la proprietà di essere l’unica promessa che hai fatto senza che vi sia un’azione obbligatoria, quanto che quella cosa che di fatto è la tua promessa non possa esistere senza che una certa azione sia obbligatoria. Il motivo della differenza è che mentre essere tua moglie non è una proprietà essenziale di Maria, essere una promessa è una proprietà essenziale di ciò che è denotato di fatto da “la tua promessa” e dunque mentre Maria può esistere senza essere tua moglie ciò che è di fatto la tua promessa non può esistere senza essere una promessa dunque senza rendere obbligatoria la tua azione. Questo fatto sembrerebbe evidenziare l’inadeguatezza del modello del renderecons F e del 47 Capitolo I renderenecF fin qui presentato, basato sull’equivalenza fra gli enunciati in cui compaiono espressioni di tale forma e spiegazioni che, in un modo o nell’altro, esprimono verità concernenti ciò in cui consiste l’essere in un certo modo (essere una promessa, essere scapolo, essere tale che i propri neuroni Z scaricano). Tale modello sembrerebbe infatti inadeguato al fine di rendere conto di quei casi in cui il rendere F implica una necessità de re, quei casi cioè in cui vogliamo dire di una particolare cosa che essa è tale che necessariamente se esiste allora una certa cosa è F poiché essa esiste; casi dunque in cui il sintagma nominale “a” in espressioni della forma “a rende+nec b F” funziona come un designatore rigido37. Infatti non sembra esserci alcun modo di essere, alcuna proprietà, di quella cosa che è la tua promessa tale che l’enunciato “a è una promessa” (dove “a” è un designatore rigido della promessa) è vero in virtù di ciò in cui consiste essere in tale modo. Se si accetta questa tesi non sembra rimanere altra scelta che sostenere che “necessariamente a è una promessa” è vero in virtù dell’essenza individuale di a38, e che è dunque a stesso, senza alcuna mediazione di modi in cui ha è, a rendere obbligatoria l’azione. Fabrice Correia ha però sostenuto, a mio parere correttamente, che enunciati concernenti ciò che a è essenzialmente, possono essere interpretati come enunciati concernenti l’essere a: dire che a è essenzialmente una promessa è equivalente a dire che essere a è essenzialmente essere una promessa o, nella mia terminologia, che parte di ciò in cui consiste l’essere a è essere una promessa39. Dunque una necessità de re come “la tua promessa è necessariamente tale che se essa esiste allora la tua azione è obbligatoria poiché essa esiste” se è vera, lo è sia in virtù di ciò in cui consiste essere quella cosa (che è la tua promessa) sia in virtù di ciò in cui consiste essere una promessa. Tale enunciato è dunque del tipo di quelli che abbiamo già incontrato nei paragrafi precedenti: †cons(x= a, x promessa) p, in cui l’espressione “x = a” è il predicato “essere a”. CAPITOLO II Rendere vero 1. Dal rendere F al rendere vero. I casi del tipo a rende+necb F sono quelli centrali nel dibattito sul rendere vero e sui fattori di verità. Infatti tutti (o quasi)39a i teorici del rendere vero concordano sul fatto che un fattore di verità debba per lo meno necessitare la verità della proposizione che rende vera: non deve essere possibile cioè che esso esista e che la proposizione non sia vera. Una cosa che non abbia tale caratteristica non merita il titolo di fondamento ontologico della verità della proposizione, di ciò in virtù di cui la proposizione è vera. Il caso delle promesse è di importanza centrale a riguardo perché i filosofi che si occupano di fattori di verità sostengono spesso che un fattore di verità è una cosa che per la sua stessa natura, o in virtù della sua essenza, rende vera una certa proposizione. Tale caso potrebbe dunque fungere da paradigma per rispondere a domande concernenti l’esistenza di fattori di verità e la natura del rendere vero. Chiamerò questo modello del rendere vero il modello della promessa. Se si adotta questo modello chiedersi se esistono fattori di verità significherà domandarsi: ci sono cose che stanno alla verità dei portatori di verità come le promesse stanno all’obbligatorietà delle azioni? Naturalmente si può anche adottare un altro modello paradigmatico per il rendere vero, non basato sul rendere+nec F bensì sul rendere+consF : in tale modello qualcosa rende vera una certa proposizione se e solamente se ciò in cui consiste l’esser vera di quella proposizione è l’esistenza di quella cosa, ovvero se e solamente se “esiste a” conta come analisi concettuale o riduzione teorica di “è vero che p”. Chiamerò questo modello del rendere vero il modello dello scapolo. I due modelli differiscono per un aspetto sostanziale: mentre nel modello della promessa ciò su cui è fondato il rendere vero è la natura del fattore di verità (ciò in cui consiste essere quella particolare cosa), nel modello dello scapolo ciò su cui è fondato il rendere vero è la natura della verità. Vedremo come, nel giustificare perché una cosa renda vero un portatore di verità, i due modelli possano intrecciarsi. 49 Capitolo II Dato che però il rendereconsF implica il renderenecF i caratteri di quest’ultimo possono essere considerati come un vincolo che ogni tentativo di analizzare la nozione di rendere vero deve soddisfare. Ogni analisi estensionalmente corretta della nozione di rendere vero dovrà dunque soddisfare il vincolo espresso dall’assioma che caratterizza il rendere+necF. Chiamerò tale vincolo “vincolo della spiegazione”. Infatti, dati un’entità a e un portatore di verità p tali che, in base all’analisi sotto esame della nozione di rendere vero, a rende vero p, ci si chiederà: è corretto dire che necessariamente se a esiste allora p è vero poiché a esiste? E inversamente: data una cosa di cui sembra corretto dire che necessariamente se essa esiste allora p è vero poiché essa esiste, tale cosa risulta, applicando la nozione di rendere vero sotto esame, un fattore di verità di p? Ci si chiederà cioè se le analisi proposte forniscono condizioni necessarie e sufficienti del rendere+nec vero. Le conclusioni non saranno incoraggianti. 2. Le concezioni modali del rendere vero Con “concezione modale del rendere vero” mi riferisco a tutti i tentativi di definire o comunque caratterizzare la nozione di rendere vero mediante enunciati in cui le uniche espressioni intensionali che formano enunciati a partire da altri enunciati sono “è possibile che” (“◊”) o “è necessario che” (“†”). Un’espressione che forma enunciati a partire da altri enunciati si dice “intensionale” quando il valore di verità degli enunciati che si formano con essa non è determinato dal valore di verità degli enunciati che ne sono costituenti. La conseguenza di ciò è che fallisce in questi casi la sostituibilità salva veritate di enunciati con lo stesso valore di verità: sostituendo in un enunciato complesso che contiene un’espressione di questo tipo uno degli enunciati che ne sono costituenti con un altro enunciato che ha lo stesso valore di verità, può cambiare il valore di verità dell’enunciato complesso. L’espressione “è possibile che”, ad esempio, è intensionale poiché dato un qualsiasi enunciato “p”, il suo valore di verità non determina il valore di verità di “è possibile che p”; di conseguenza se si sostituisce a “p” un enunciato che ha lo stesso valore di verità, il valore di verità dell’enunciato così ottenuto può essere diverso da quello iniziale. Ad esempio anche se “ci sono cerchi quadrati” e “Berlusconi non ha vinto le elezioni nel 2001” sono entrambi falsi “è possibile che ci siano cerchi quadrati” è falso mentre “sarebbe stato possibile che Berlusconi non avesse vinto le elezioni nel 2001” è vero. Al contrario, la congiunzione “non” non è intensionale (è cioè estensionale): infatti dato un qualsiasi enunciato “p”, “non p” è vero se e solamente se “p” non è vero. La congiunzione “poiché” è un altro connettivo intensionale: infatti, ad esempio, anche se “Berlsuconi ha vinto le elezioni nel 2001” e “oggi c’è il sole” sono entrambi veri, “Stefano è felice poiché oggi c’è il sole” è vero, mentre è falso “Stefano è felice poiché Berlsuconi ha vinto le 50 Rendere vero elezioni nel 2001”. Un sostenitore di una concezione modale del rendere vero sosterrà dunque anche che, nel caratterizzare tale nozione, non è necessario fare uso di espressioni come “poiché”. 2.1. Il rendere vero come necessitazione Il fatto che la necessitazione sia una condizione necessaria del rendere+nec vero ha indotto alcuni filosofi a identificare il rendere vero con la necessitazione. Fox, ad esempio, caratterizza in questo modo la nozione di “fattore di verità” Con “fattore di verità di A” intendo qualcosa la cui esistenza implica A40. Poiché tutti questi autori sembrano d’accordo nell’intendere “p implica q” nel senso di “è metafisicamente necessario che se p allora q” (in cui “se…allora” è da intendersi come l’implicazione materiale della logica proposizionale), sostenere che un fattore di verità di una proposizione è una cosa la cui esistenza implica la proposizione vuol dire identificare il rendere vero con la necessitazione, difendere cioè il seguente schema: (1) x RV p =def E!x & †(E!x → p)41 Purtroppo, come è stato notato più volte, la necessitazione non è una condizione sufficiente del rendere vero?. Una cosa infatti può necessitare una certa proposizione anche se non si dà il caso che quella proposizione sia vera poiché quella cosa esiste; dunque la definizione in questione non soddisfa il vincolo della spiegazione. Si prenda una qualsiasi verità necessaria, tale cioè che non esiste una situazione possibile in cui essa è falsa; verità di questo genere sono le verità dell’aritmetica come la proposizione che 2 + 2 = 4. Si prenda adesso una qualsiasi entità, ad esempio il mio gatto: non è possibile che il mio gatto esista e che non sia vero che 2 + 2 = 4. Infatti la proposizione che 2 + 2 = 4 è vera in tutte le situazioni possibili dunque, a maggior ragione, essa è vera in quel sottoinsieme di tutte le situazioni possibili in cui esiste il mio gatto: pertanto il mio gatto necessita la verità della proposizione in questione. D’altra parte sembra sbagliato dire che se il mio gatto esiste allora è vero che 2 + 2 = 4 poiché il mio gatto esiste. In secondo luogo, data la definizione in questione, date due qualsiasi entità a e b tali che necessariamente se a esiste allora esiste anche b, a rende vere tutte le proposizioni rese vere da b; poiché (applicando la definizione), b rende vera la proposizione che b esiste, anche a renderà vera tale proposizione indipendentemente dal fatto che sia vero che b esiste poiché a esiste43. Prendiamo ad esempio una qualsiasi entità la cui esistenza è contingente e un’entità che esiste necessariamente, ad esempio io e Dio: la definizione ci costringe a dire che io rendo vera la proposizione che Dio esiste anche se non è in virtù della mia esistenza che è vero che Dio esiste 51 Capitolo II (se ciò è vero)44. La violazione del vincolo della spiegazione può essere ancor meglio apprezzata ricordando che la verità di “†(E!a → E!b)” è considerata almeno una condizione necessaria affinché a sia ontologicamente dipendente da b. Ciò implica che definire il rendere vero come necessitazione ci costringe a considerare ogni entità dipendente ontologicamente da un’altra come un’entità che rende vero che ciò da cui dipende esiste. Ma questo sembra capovolgere l’ordine delle cose: se a è ontologicamente dipendente da b, sembra più corretto dire che è perché b esiste (eventualmente con l’aggiunta di qualche altra condizione) che è vero che a esiste e non viceversa. Come esempio di tale problema, prendiamo il sorriso di Carola e Carola. La definizione che stiamo esaminando ci costringe a dire che la dolcezza del sorriso di Carola rende vero che Carola esiste anche se le cose sembrano stare al contrario: è vero che la dolcezza del sorriso di Carola esiste poiché Carola esiste, dopotutto infatti la dolcezza del sorriso di Carola è una qualità di un modo di muoversi del volto di Carola, tutte cose che sembrano dovere la loro esistenza a Carola stessa. L’enunciato “è vero che Carola esiste poiché esiste la dolcezza del suo sorriso” può essere considerato vero solo in una particolare interpretazione di “poiché”, quella in cui esso significa che l’esistenza della dolcezza del sorriso di Carola è un indizio dell’esistenza di Carola, così come, poiché il fumo è un indizio del fuoco, possiamo dire “c’è del fuoco perché c’è del fumo”. Tale enunciato sarebbe appropriato come risposta alla domanda “Perché c’è del fuoco?” solo intendendo questa come un modo ellittico per chiedere “Come fai ad essere sicuro che c’è del fuoco?”, dunque come una risposta a una domanda di giustificazione di una propria asserzione: non sarebbe invece appropriato come risposta a quella domanda se essa fosse intesa come una richiesta di un qualche tipo di spiegazione dell’esistenza di un certo fuoco. Il “poiché” della giustificazione è diverso da quello della spiegazione e, a fortiori, da quello della fondazione. 2.2. Il rendere vero come congiunzione di necessitazione e proiezione. La diagnosi di Barry Smith sulla radice di tali problemi è la seguente: la necessitazione è solamente una componente del rendere vero, quella che esplicita una delle due idee contenute nell’intuizione corrispondentista: l’idea secondo cui vi sono delle parti di mondo responsabili della verità delle proposizioni. Con tale idea era stata identificata l’intuizione corrispondentista nell’Introduzione di questo libro. Ma l’intuizione corrispondentista è più esigente. Essa ci dice anche che quale sia la parte di mondo che rende il portatore di verità vero, dipende dal contenuto rappresentativo del portatore di verità stesso; in altre parole: il rendere vero ha due componenti, quella che va dal mondo alla mente, catturata dalla necessitazione, e quella che va dalla mente al mondo, consistente nel fatto che nel formulare giudizi tramite il linguaggio si “mette in rilievo” una porzione specifica di mondo (che dunque diviene l’unica rilevante ai fini della verità del 52 Rendere vero giudizio) prescindendo da tutto il resto45. Questo però ha delle conseguenze problematiche. Innanzitutto bisogna difendere una concezione del contenuto rappresentativo di un enunciato per cui un enunciato rappresenta anche entità diverse da quelle rappresentate dalle sue parti nominali. Infatti ciò che è denotato dalle parti nominali di un enunciato non è, almeno nel caso di molti enunciati, metafisicamente sufficiente per la verità dell’enunciato stesso: Stefano non è metafisicamente sufficiente per la verità di “Stefano corre”. Dunque bisogna sostenere che fra le entità sulla cui esistenza ci impegniamo, usando un enunciato come “Stefano corre”, vi sono cose diverse da Stefano: cose tipicamente denotate da nomi derivati dal verbo dell’enunciato (ma non necessariamente da essi); nel caso del nostro esempio, cose come le corse, cioè eventi di un certo tipo. Questo non significa sostenere che tutte le volte che asseriamo “Stefano corre” ci riferiamo, oltre che a Stefano, ad una particolare corsa; ma che, per lo meno, l’enunciato ci impegna genericamente sull’esistenza di almeno un evento di un certo tipo, cioè sull’esistenza di almeno una cosa che ha due proprietà: essere una corsa ed essere di Stefano46. Si potrà anche sostenere, come ha fatto Barry Smith, che in certi contesti di proferimento la parte verbale dell’enunciato potrà veicolare anche un impegno ontologico singolare: asserendo l’enunciato in quel contesto ci si impegna sull’esistenza della corsa di Stefano. Una semantica di questo tipo però non è affatto scontata. In secondo luogo, il soddisfacimento di un vincolo rappresentativo non sembra essere una condizione necessaria affinché qualcosa renda vera una certa proposizione. Ad esempio: se il mio correre non è altro che il verificarsi di certi eventi descrivibili in termini biochimici, sembra sensato dire che la proposizione che io corro è vera poiché ci sono certi eventi biochimici. Ma è dubbio che “corro” significhi “ci sono certi eventi biochimici”, potendo essere compreso l’enunciato “corro” anche da una persona che non sa niente di tali eventi. Naturalmente a questa osservazione si può obiettare difendendo una concezione dell’impegno ontologico e del contenuto rappresentativo dei portatori di verità che permetta di considerare i processi biochimici che avvengono nei miei muscoli come parte del contenuto rappresentativo di “corro”. Smith infatti difende una concezione del genere, sostenendo che la componente rappresentazionale del rendere vero è catturata dalla nozione di “proiezione” così definita: (2) x P p = def p & †(p → E!x) Un’entità è cioè proiettata da un portatore di verità se e solamente se tale portatore di verità è vero e, necessariamente, se esso è vero allora tale entità esiste. La nozione dovrebbe, nelle intenzioni di Smith, avere due effetti: 1) arricchire la definizione di rendere vero in termini di necessitazione in modo da renderla non solo una condizione necessaria ma anche sufficiente del rendere vero; 2) farlo in modo da non rendere il vincolo rappresentazionale troppo esigente, così da non escludere ingiustamente entità dal ruolo di fattori di verità 53 Capitolo II di certe proposizioni. Purtroppo nessuno dei due obiettivi viene conseguito. Smith ha proposto due diverse definizioni di “x rende vero p”: la prima più semplice ed esigente la seconda meno esigente ma più complessa. 2.2.1. Prima definizione. La definizione più semplice ed esigente consiste nel definire il rendere vero come la congiunzione di necessitazione e proiezione. Dunque: (3) x RV p =def E!x & †(E!x ↔ p)47 Un fattore di verità di p è dunque una cosa la cui esistenza è condizione necessaria e sufficiente della verità di p. Questa definizione non incorre nei casi problematici precedenti: non siamo più costretti a dire che la proposizione che 2 + 2 = 4 è resa vera dal mio gatto perché essa sarebbe stata vera anche se il mio gatto non fosse esistito; allo stesso modo io non rendo vero che il nonno di Stefano è esistito perché avrebbe potuto essere vero che mio nonno è esisto anche se io non fossi esistito. Purtroppo però anche questa definizione continua ad avere problemi simili a quella precedente. Si ipotizzi l’esistenza di due entità che esistono entrambe necessariamente, ad esempio il numero 2 e Dio. In una situazione del genere l’esistenza del numero 2 sarebbe una condizione necessaria e sufficiente della verità della proposizione che Dio esiste, dunque il numero 2, secondo la definizione di Smith, renderebbe vera tale proposizione. Ma questo sembra falso perché l’esistenza del numero 2 non sembra avere alcun ruolo esplicativo nei confronti dell’esser vera della proposizione in questione: se, ad esempio, il Dio in questione fosse un Dio creatore di tutto l’esistente dovrebbe avere creato anche i numeri, dunque sembrerebbe più corretto dire che è la proposizione che il numero 2 esiste a essere vera perché Dio esiste e non la proposizione che Dio esiste ad essere vera perché il numero 2 esiste. Dunque aggiungere la nozione di proiezione a quella di necessitazione non fornisce le sperate condizioni sufficienti perché qualcosa renda un portatore di verità vero. Infatti pur con l’aggiunta di tale nozione la definizione continua a non soddisfare il vincolo della spiegazione. Inoltre la definizione non soddisfa nemmeno il nuovo vincolo rappresentazionale introdotto da Smith: infatti non sembra esserci nessuna plausibile teoria della rappresentazione semantica secondo cui “Dio esiste” rappresenta il numero due (e la sua esistenza). La definizione è perciò inadeguata. A questo tipo di osservazioni si potrebbe rispondere così: questi casi dimostrano solo che, in certi contesti, come ad esempio quelli in cui forniamo delle spiegazioni o quelli in cui attribuiamo credenze, le nostre intuizioni sul contenuto rappresentazionale dei portatori di verità possono essere a grana particolarmente fine. Ma il contenuto rappresentazionale di un portatore di verità è dato dalle condizioni che devono essere soddisfatte perché esso sia vero: la relazione di rendere vero sussiste appunto in quei casi in cui tali condizioni 54 Rendere vero consistono nell’esistenza di una qualche entità (e il portatore di verità è vero). Dunque, se l’esistenza di a fa parte delle condizioni che devono essere soddisfatte affinché p sia vero e necessariamente b esiste se e solamente se esiste a, anche l’esistenza di b farà parte delle condizioni che devono essere soddisfatte affinché p sia vero, indipendentemente da quali siano in certi contesti in nostri giudizi riguardo a ciò48. Contro ciò si può però obiettare che osservazioni come queste presuppongono la concezione modale delle condizioni di verità e se si accetta tale concezione è naturale anche abbracciare una concezione modale del rendere vero. Ma i contro esempi alla definizione modale di rendere vero proposta da Smith (così come quelli alla definizione del rendere vero come necessitazione) tendono proprio a mostrare l’inadeguatezza della concezione modale del rendere vero e, a maggior ragione, della concezione modale della nozione di “condizione di verità”. I contro esempi mostrano ciò proprio mettendo in rilievo come tali concezioni violino intuizioni molto forti concernenti il rendere vero espresse dal vincolo della spiegazione e dal vincolo rappresentazionale (se si pensa, come Smith fa, che sia un vincolo). Smith stesso propone le sue definizioni del rendere vero al fine di superare i problemi della definizione del rendere vero come necessitazione, in particolare il problema dei necessitatori maligni (cose cioè che necessitano una proposizione pur non rendendola vera). Ma per quale altra ragione i necessitatori maligni sarebbero tali se non perché essi violano i vincoli in questione? Se delle cose sono però necessitatori maligni poiché violano tali vincoli non si capisce perché non si dovrebbero giudicare anche altre cose che violano tali vincoli come cattivi fattori di verità e dunque rigettare l’analisi della nozione di rendere vero in base alla quale queste cose risultano essere fattori di verità. Il problema che ha (3) nel fornire condizioni sufficienti per il rendere vero può essere apprezzato in modo ancora più generale con la seguente osservazione. Enunciati della forma “E!a sse p” esprimono una relazione logica simmetrica mentre “poiché” (e dunque “x rende y F” esprime una relazione anti-simmetrica. Per tornare all’esempio precedente, si potrebbe coerentemente credere che ci sia un Dio onnipotente creatore di tutte le cose, e che i numeri siano entità create necessariamente da Dio (e che dunque siano esse stesse entità che esistono necessariamente). Una persona che creda tutte queste cose crederà sia che necessariamente i numeri esistono se e solamente se esiste Dio, sia che Dio rende vero che esistono i numeri ma negherà che i numeri rendono vero che esiste Dio. Ma se la definizione di rendere vero fosse (3) tale persona è incoerente: dovrebbe credere anche che i numeri rendono vero che Dio esiste. La morale di questo esempio è che determinare la verità di enunciati della forma “E!a & †(E!a sse p)” non basta per determinare la verità di “è vero p poiché E!a”. E questo mostra che (3) non esprime una condizione sufficiente del rendere vero. Oltre a non soddisfare il vincolo della spiegazione e quello della rappresentazione (3) ha un altro problema, opposto al precedente: essa sembra anche essere troppo esigente riguardo alle cose che possono rendere vera una 55 Capitolo II proposizione. La definizione dunque non sembra fornire neanche condizioni necessarie del rendere vero. Si ricordi che il rendere+nec F è sembrato fornire un modello paradigmatico per il rendere vero: che una cosa sia tale che necessariamente se essa esiste allora una certa proposizione è vera poiché questa cosa esiste sembra essere una condizione necessaria e sufficiente affinché la cosa in questione sia fondamento ontologico della verità della proposizione. (3) però impedisce di considerare a fattore di verità di p a meno che non sia vero “p → E!a”. Ma vi possono essere casi in cui a e p soddisfano l’assioma del rendere+ Fnec senza che sia vero “p → E!a”: tutti i casi appartenenti al modello della promessa sono casi del genere! La cosa è particolarmente grave per Smith poiché vi sono entità che egli stesso vorrebbe considerare fattori di verità di proposizioni di un certo tipo ma che, data la definizione (3), non possono essere considerate tali. Tali entità sono i tropi, intendendo con questa espressione la categoria ontologica delle entità concrete e ontologicamente dipendenti da altre entità. Fanno parte di tale categoria cose come gli eventi, le qualità individuali, i processi, gli stati. Già nell’articolo del 1984, Mulligan Simons e Smith hanno considerato tali entità come buoni candidati per rendere veri molti portatori di verità ascriventi ad oggetti concreti proprietà contingenti. Ad esempio: una data qualità individuale, il particolare rossore di questa palla, rende vero che questa palla è rossa49. Il problema è, come è riconosciuto dalla stesso Smith, che la condizione a cui un predicato come “è rosso” si applica a una certa entità non è che esista una particolare qualità individuale (ammesso che cose del genere esistano). L’enunciato “questa palla è rossa” sarebbe vero anche in una situazione in cui il particolare rossore di questa palla fosse diverso, di numero, dal particolare rossore che questa palla ha di fatto. Dunque anche se, secondo la concezione più corrente dei tropi, questo rossore non può esistere senza essere il rossore di questa palla (essendo un’entità ontologicamente dipendente dalla palla) e dunque senza che la palla sia rossa è possibile che questa palla sia rossa senza che questo particolare rossore esista. Dunque secondo (3) il rossore non rende vero l’enunciato “questa palla è rossa”. 2.2.2. Seconda definizione Smith propone dunque una definizione meno esigente di (3) che dovrebbe permettere al rossore della palla di rendere vero “questa palla è rossa”. Dato che cose come il rossore sono considerate da Smith come parti dipendenti degli oggetti di cui sono qualità, la mossa naturale è quella di arricchire (3) con delle nozioni mereologiche. La definizione proposta è dunque: (4) x RV p =def E!x & †(E!x → x ≤ σy (y P p))50 “σy (Φy)” è una descrizione definita che significa “la fusione mereologica degli y tali che Φ” (dunque la denotazione dell’espressione varia attraverso mondi). Dunque in particolare “σy (y P p))” significa “la 56 Rendere vero fusione mereologica di tutte le entità proiettate da p” che Smith chiama anche “la proiezione totale di p”. Un fattore di verità di un dato enunciato è un’entità che (oltre ad esistere) necessita la propria appartenenza alla fusione mereologica delle entità proiettate dall’enunciato stesso. L’idea di Smith è questa: un enunciato come “questa palla è rossa” non implica che esista un particolare rossore ma per lo meno implica che esista qualche rossore di questa palla: un predicato come “è rosso” ha, nelle parole di Smith, una proiezione generica, non singolare come un nome proprio o un’espressione dimostrativa. Ma il rossore che è di fatto il rossore di questa palla è necessariamente tale che se esiste è un rossore di questa palla (diciamo che esso è essenzialmente un rossore di questa palla) e questo è sufficiente per farlo considerare un fattore di verità di “questa palla è rossa”. Il problema è però che, anche accettando questo ragionamento, esso non è catturato da (4). Infatti sostituendo in (4) il definiens di (4) a “y P p” otteniamo: (5) x RV p =def E!x & † (E!x → x ≤ σy (p & †(p → E!y))) In base a (5) il particolare rossore della palla risulta rendere vero “la palla è rossa”? Solo se ammettiamo che la relazione “essere parte” si applichi in senso esteso alle qualità individuali e agli oggetti di cui sono qualità51. Ma anche in questo caso, sembra che (5) permetta di considerare il rossore come ciò che rende vero l’enunciato per il motivo sbagliato. Il rossore della palla infatti è tale che necessariamente, se esiste, è parte della fusione mereologica delle entità proiettate da “questa palla è rossa” non perché fra le cose che in ciascun mondo possibile soddisfano il predicato “x è proiettato da p” vi siano dei rossori (tutti quei rossori che in quel mondo sono rossori della palla in questione) e perché il rossore che è di fatto della palla è in ciascun mondo possibile in cui esiste parte della fusione mereologica di tali rossori. Infatti dato che “questa palla è rossa” non implica l’esistenza di nessun particolare rossore, nessun particolare rossore è membro, in nessun mondo possibile, dell’insieme delle cose che sono proiettate da “questa palla è rossa”. Il rossore della palla è invece parte della fusione mereologica delle cose proiettate da “questa palla è rossa” per un altro motivo: perché è necessariamente parte di una cosa che è proiettata dall’enunciato e dunque per la relazione di transitività della relazione di “essere parte”, è parte di tutte le fusioni mereologiche di cui quest’ultima cosa è parte. Di quale cosa stiamo parlando? Della palla stessa naturalmente. Ma questo non è un buon motivo per considerare una certa entità un fattore di verità di “questa palla è rossa”. Infatti se esistono entità come le qualità individuali delle cose, allora tutte le qualità individuali della palla soddisfano (5): tutte infatti sono tali che necessariamente, se esistono, sono parti della palla, dunque sono parti della fusione mereolologica delle entità proiettate da “questa palla è rossa”. Ma allora, in base a (5), dobbiamo dire che la pesantezza di questa palla, la sua sfericità, la sua ruvidezza rendono vero che questa palla è rossa: questo però viola di nuovo 57 Capitolo II sia il vincolo della spiegazione, sia il vincolo della rappresentazione. Inoltre, interpretando in questo modo liberale la nozione di parte, ritornano alcuni dei problemi della definizione del rendere vero come necessitazione. In particolare rimane il problema dell’inversione dell’ordine della fondazione fra qualità individuali e sostanze che possiedono tali qualità individuali. La dolcezza del sorriso di Carola infatti è tale che necessariamente se esiste è parte della proiezione totale di “Carola esiste”. Infatti “Carola esiste” implica “Carola esiste” e la dolcezza del sorriso di Carola (intesa come una qualità individuale di Carola) non può esistere senza essere parte di Carola. Dunque anche in questo caso è la dolcezza del sorriso di Carola a rendere vero “Carola esiste” e non, come ci si aspetterebbe, Carola, eventualmente con qualche ulteriore condizione, a rendere vero “la dolcezza del sorriso di Carola esiste”. Smith, oltre alla definizione ufficiale di “proiezione totale di p” ha fornito anche una chiarificazione informale di tale concetto secondo la quale la proiezione totale di p include non solo le entità la cui esistenza è implicata da p ma anche la somma mereologica delle entità che soddisfano i predicati il cui soddisfacimento è implicato da p52. Il problema però è il seguente: questa chiarificazione o viene o non viene sostituita all'espressione "σy (y P p)" in (4). Se viene sostituita, come ha mostrato Dominique Gregory, si può formulare contro la definizione (5) un argomento di tipo “della fionda” il quale mostra che, in base alla nuove definizione di “proiezione totale”, (5) costringe a considerare qualsiasi necessitatore di p un fattore di verità di p, dunque ritornano tutti i necessitatori maligni della definizione di rendere vero come necessitazione. L’argomento è il seguente. Ipotizziamo che necessariamente se a esiste allora p; prendiamo un qualsiasi predicato “Fx” il cui soddisfacimento è implicato da p; possiamo definire un nuovo predicato “Gx” in questo modo: “Gx =def Fx oppure x = a”, il predicato cioè “essere F oppure essere a”. Il soddisfacimento di “Gx” è implicato da p: infatti p implica che vi siano degli F, ma se vi sono delle cose che sono F, a fortiori vi sono delle cose che o sono F o sono identiche ad a. Da parte sua a è tale che necessariamente se esiste è identico a se stesso, cioè ad a; dunque è tale che necessariamente se esiste o è identico ad a oppure è F. Dunque necessariamente a, se esiste, soddisfa il predicato “Gx”, il cui soddisfacimento è implicato da p. Pertanto a è necessariamente parte della somma mereologica delle cose che soddisfano un predicato il cui soddisfacimento è implicato da p. Inoltre a è tale che necessariamente se esiste allora p. Si può dunque concludere che necessariamente a, se esiste, appartiene alla proiezione totale di p (secondo la nuova definizione di tale nozione). Dunque a rende vero p53. Ma veniamo al secondo corno del dilemma. Se la definizione di proiezione totale rimane immutata allora l’enunciato che asserisce che alla proiezione totale di p appartiene anche la somma mereologica delle cose che soddisfano i predicato il cui soddisfacimento è implicato da p, risulta essere falso. Torniamo all’esempio del rossore della palla. Ammettiamo pure che “la palla è rossa” implichi “ci sono rossori”, poiché il rossore della palla è un rossore 58 Rendere vero e (presumibilmente) lo è necessariamente, allora il rossore della palla è tale che necessariamente se esiste è parte della fusione mereologica della cose che soddisfano i predicati il cui soddisfacimento è implicato da “la palla è rossa”. Ma, come abbiamo visto, è possibile che la palla sia rossa e che questo particolare rossore non esista e dunque il rossore non fa parte della proiezione totale di p (se si applica la definizione ufficiale di "proiezione). Ma, per la transitività della relazione di essere parte di, se il rossore è parte della fusione mereologica delle cose che soddisfano predicati il cui soddisfacimento è implicato da “la palla è rossa” e se (come Smith sostiene) tale fusione mereologica è parte della proiezione totale di “la palla è rossa”, allora il rossore dovrebbe essere parte di tale proiezione totale. Ma il rossore non è parte di tale proiezione totale, pur essendo parte della fusione mereologica delle cose che soddisfano i predicati il cui soddisfacimento è implicato da “la palla è rossa”: dunque la fusione mereologica delle entità che soddisfano i predicati il cui soddisfacimento è implicato da “la palla è rossa” non è parte della proiezione totale di “la palla è rossa”. 2.2.3. Morale Le definizioni proposte da Smith falliscono il loro scopo: esse non eliminano i necessitatori maligni e dunque non forniscono condizioni sufficienti del render vero; sotto questo aspetto non costituiscono un sostanziale progresso rispetto alla definizione del rendere vero come necessitazione. Inoltre le definizioni in questione hanno anche un altro limite che la definizione del rendere vero come necessitazione non aveva: esse non forniscono condizioni necessarie del rendere vero? Qual è la ragione di tutto ciò? Il punto mi sembra essere il seguente. La necessitazione si è rivelata una nozione diversa dalla nozione di rendere vero; questo non è altro che un caso particolare del fatto generale, già osservato nel capitolo I, che l’essere condizione metafisicamente sufficiente di un certo fatto è una nozione diversa che l’essere ciò in virtù di cui questo fatto si verifica, del fatto cioè più generale che la necessitazione non è sufficiente per la fondazione. Smith cerca di superare tale limite della necessitazione aggiungendo ad essa il vincolo della rappresentazione: un fattore di verità per p è una cosa che necessita p e in più è proiettato da p. L’idea sembra essere che la necessitazione sia adeguata a rendere conto della fondazione (e dunque della spiegazione) in generale ma che non sia adeguata a rendere conto del rendere vero perché in questo caso la natura specifica della proprietà in questione (l’esser vero) impone oltre al vincolo della fondazione un vincolo semantico, quello appunto della rappresentazione. Questa mossa appare subito sospetta se si pone mente al fatto, messo in luce dalla discussione delle analisi modali della sopravvenienza nel capitolo precedente, che la semplice necessitazione si è dimostrata non essere una condizione sufficiente del rendere F in generale, 59 Capitolo II dunque anche in casi in cui la proprietà cui si riferisce “F” non è una proprietà semantica. Sembrerebbe sensato dunque pensare che i problemi cui incorre la necessitazione nel rendere conto del rendere vero dipendano dal fatto che la necessitazione non è in grado di rendere conto della fondazione, perché non soddisfa il vincolo della spiegazione, e non dal fatto che la proprietà di esser vero pone un vincolo ulteriore sulle cose che ne possono rendere vere altre. Smith invece la pensa proprio così e dunque pone tale vincolo ulteriore, il vincolo della rappresentazione, costruendo una definizione di rendere vero che risulta essere in alcuni casi troppo esigente (e che dunque non fornisce condizioni necessarie del rendere vero). Inoltre il vincolo della rappresentazione è formulato da Smith facendo uso di nozioni modali (la definizione di proiezione è infatti la conversa della necessitazione). Le nozioni modali sono però a grana troppo grossa per catturare sia le relazioni esplicative sia le proprietà di significato. Il primo fatto comporta che le definizioni proposte continuino a non fornire condizioni sufficienti del rendere vero; il secondo che, nonostante le intenzioni di Smith, non forniscano neanche condizioni sufficienti per il soddisfacimento del vincolo della rappresentazione. Questo ha un’ulteriore conseguenza. Nei casi come quello del rossore della palla e dell’enunciato “la palla è rossa” le definizioni proposte si dimostrano scorrette poiché il rossore della palla, o magari certe onde luminose, rendono vero che la palla è rossa pur essendo falso che quelle particolari onde o quel particolare rossore siano proiettati dall’enunciato. Se si accetta la tesi di Smith secondo cui la definizione di “proiezione” cattura le proprietà semantiche degli enunciati allora, il caso precedente potrà descriversi dicendo che la definizione di rendere vero proposta è sbagliata perché che una cosa sia rappresentata da un portatore di verità non è una condizione necessaria affinché quella cosa renda vero il portatore di verità in questione. Quest’ultima cosa è vera: ad esempio il particolare rossore della palla può rendere vero “la palla è rossa” senza che l’enunciato (in particolare il suo predicato) rappresenti quel particolare rossore. Ma, d’altra parte, la tesi di Smith secondo cui la definizione di “x è proiettato da p” cattura le proprietà semantiche di p è, come si è visto, sbagliata: l’essere proiettato da un portatore di verità è al più una condizione necessaria ma non sufficiente dall’essere rappresentato da quel portatore di verità (altrimenti dovremmo dire che “Dio esiste” rappresenta il numero 2). Dunque che a possa rendere vero p senza che p proietti a implica che a possa rendere vero p senza che p rappresenti a ma non vale l’implicazione conversa: che a possa rendere vero p senza che p rappresenti a non implica che a possa rendere vero p senza che p proietti a. Pertanto potrebbe essere vero che il soddisfacimento del vincolo della rappresentazione non sia una condizione necessaria del rendere vero pur rimanendo vero che la proiezione sia una condizione necessaria del rendere vero. Ma la proiezione non è una condizione necessaria del rendere vero, dunque deve esserci un 60 Rendere vero motivo più a monte, indipendente dal vincolo della rappresentazione, per cui ciò accade. E il vero motivo è nel vincolo della spiegazione, in particolare nell’assioma che caratterizza il rendere+necF: in base a tale assioma infatti che a renda+nec b F non implica che l'esistenza di a sia condizione necessaria dell'essere F di b; l’assioma implica solamente l’implicazione conversa: che se a esiste allora b è F. Il vero motivo per cui le definizioni di Smith risultano scorrette è dunque questo: esse tentano di catturare un presunto vincolo rappresentazionale posto dal rendere vero e lo fanno mediante l’aggiunta di ulteriori condizioni modali alla definizione del rendere vero come necessitazione; tali condizioni se da una parte non sono sufficienti a catturare un vincolo di tipo rappresentazionale, dall’altra impongono sul rendere vero condizioni non necessarie, dato l’assioma che caratterizza il rendere+ nec F mediante la sua relazione con enunciati esplicativi (infatti vengono introdotte condizioni che sarebbero richieste solo dal rendere+consF). 2.3. Rappresentazione e spiegazione In realtà si può formulare un vincolo rappresentazionale concernente il rendere vero ma tale vincolo non è diverso dal vincolo della spiegazione, essendo piuttosto deducibile dal vincolo della spiegazione nel caso specifico in cui ciò che deve essere spiegato è l’esser vero di un portatore di verità. Quali caratteristiche una certa entità debba avere al fine di renderne un’altra F, dipende sempre in qualche modo da ciò in cui consiste essere F (a meno che non si tratti di proprietà primitive e inanalizzabili) e cioè da quali condizioni una cosa debba soddisfare per essere F. Le condizioni che devono essere soddisfatte affinché un certo portatore di verità sia vero sono chiamate condizioni di verità di quel portatore di verità; dunque se una qualche entità rende vero un certo portatore di verità dipenderà da quali sono le sue condizioni di verità. Questa dipendenza può verificarsi in due modi: o la condizione a cui il portatore di verità è vero è che quella certa entità esista, oppure che quella certa entità esista spiega perché si verificano le condizioni di verità del portatore di verità (in gergo: perché le condizioni di verità sono soddisfatte). Ma la nozione di condizione di verità è strettamente legata alla nozione di contenuto semantico o, in altri termini, alla nozione di “ciò che un portatore di verità rappresenta/dice”. Tale connessione è espressa dal seguente principio: se il portatore di verità x dice che p allora la condizione che deve essere soddisfatta affinché y sia vero è che p. In virtù di tale principio si può dire che se una qualche entità rende vero un certo portatore di verità ciò dipende anche da ciò che il portatore di verità rappresenta. Ciò però, per come è stata formulata la dipendenza del rendere vero dalle condizioni di verità, non significa che condizione necessaria affinché qualcosa renda un certo portatore di verità vero sia che tale cosa sia rappresentata dal 61 Capitolo II portatore di verità. Piuttosto ciò significa la seguente cosa: se a rende p vero allora o p dice che a esiste oppure l’esistenza di a spiega perché sono soddisfatte le condizioni che, dato ciò che p dice, devono essere soddisfatte affinché p sia vero. Questo vincolo rappresentazionale è molto meno esigente di quello formulato da Smith. In base a questo vincolo il ruolo appropriato del contenuto di un portatore di verità non è quello di escludere dal ruolo di fattori di verità tutte le cose che non sono rappresentate dal portatore di verità (diciamo quelle di cui esso non parla): il ruolo appropriato del contenuto è semplicemente quello di determinare le condizioni di verità del portatore di verità stesso. 3. Una concezione essenzialista del rendere vero. Il fatto che, anche aggiungendo ulteriori restrizioni concernenti ciò che è possibile o non è possibile alla definizione del rendere vero come necessitazione, non si riesca a fornire una definizione adeguata, può indurre a pensare che il problema sia proprio nelle nozioni come è possibile che/è necessario che. Kit Fine ha sostenuto che tali nozioni sono insufficienti per esprimere verità concernenti l’essenza o la natura delle cose, quelle verità che, fin da Aristotele, si è pensato dovessero rispondere alla domanda: che cos’è a o in cosa consiste essere a? Le verità concernenti l’essenza di una cosa sono, in questa prospettiva, tanto quelle condivise dalle cose dello stesso tipo (ad esempio Stefano è essenzialmente un uomo) quanto quelle che distinguono la cosa da qualsiasi altra cosa anche dello stesso tipo, quelle dunque concernenti l’identità della cosa stessa. Che le nozioni modali siano insufficienti a tale scopo è dimostrato, secondo Fine, dal fatto che ci sono enunciati modali veri concernenti certe entità che non sono allo stesso tempo verità essenziali concernenti tali entità. Ad esempio enunciati come “necessariamente se il mio gatto esiste allora 2 + 2 = 4”, “necessariamente Micio appartiene all’insieme che contiene Micio come unico elemento” “necessariamente Micio è un felino” sono tutte verità necessarie concernenti, fra le altre cose, Micio; ma solo il terzo enunciato ci dice qualcosa su ciò che Micio è. Dunque bisogna concludere che le verità modali, lungi dall’esprimere le essenze delle cose, sono esse stesse fondate su tali essenze: ad esempio la verità dei primi due enunciati citati è fondata rispettivamente sull’essenza di certi numeri e dell’operazione di somma e sull’essenza dell’insieme che contiene Micio come unico elemento ma non sull’essenza di Micio; al contrario la verità del terzo enunciato è fondata sull’essenza di Micio54. Se si è d’accordo con Fine si avrà immediatamente a disposizione una risposta ai problemi sollevati dalle definizioni del rendere vero che fanno uso di nozioni modali: tali definizioni sono inadeguate perché il rendere vero è una relazione fra due entità fondata sulle essenze di tali entità, su ciò che esse sono; dunque l’inadeguatezza delle definizioni modali del rendere vero non è altro che un caso particolare dell’inadeguatezza delle nozioni modali al fine di esprimere verità concernenti le proprietà essenziali delle cose. Questo è il ragionamento 62 Rendere vero che ha condotto Kevin Mulligan, in alcuni recenti articoli, alla seguente naturale conclusione: le analisi modali del rendere vero sono sbagliate poiché il rendere vero è una relazione che sussiste fra un’entità e un portatore di verità in virtù delle loro essenze. Dire che il fatto che p rende immediatamente vera la proposizione che p non è altro che dire che la relazione di rendere vero sussiste in virtù delle essenze di entrambi55. Il primo problema che solleva questa tesi è che essa non rivela molto circa la natura del rendere vero: dopo tutto, se esiste qualcosa come il possedere proprietà in virtù della propria essenza, allora molte relazioni possono essere esemplificate in virtù delle essenze dei loro relata. Ciò che però stiamo cercando di capire non è tanto lo status modale dell’esemplificazione della relazione x rende vero p, quanto piuttosto quale sia la natura della relazione stessa o, almeno, quale sia il contenuto della nozione espressa dal predicato relazionale “x rende vero p”. Lo stesso problema può essere sollevato osservando che nella citazione precedente viene offerta la caratterizzazione di una certa specie di rendere vero (il rendere vero immediato) enunciandone la differenza specifica. Ciò però lascia del tutto oscura la natura del genere rendere vero (e di conseguenza anche quella della specie) 56. Dunque quello che farò è discutere, come se fosse stata proposta esplicitamente da Mulligan, una definizione del rendere vero secondo cui il rendere vero non è semplice necessitazione ma necessitazione indotta dalle essenze del fattore di verità e del portatore di verità. Ci sono del resto, nel testo stesso di Mulligan, delle tracce di tale definizione allorché egli parla in connessione col rendere vero di necessitazione indotta dall’essenza57. Secondo tale definizione, dunque, affinché una certa cosa renda vero un certo portatore di verità, non basta che la cosa in questione non possa esistere senza che il portatore di verità sia vero ma ciò deve accadere in virtù delle essenze tanto della cosa in questione quanto del portatore di verità: (6) x RV p =def E!x & x/p †(E!x → vero p). In (6) “x/p” deve leggersi come un operatore non analizzato “è vero in virtù dell’essenza di x e p che”. L’operatore deve considerarsi come un’espressione non analizzata perché se fosse analizzato in base alle due nozioni di “essenza” e “essere reso vero da” (o “vero in virtù di”), la definizione di rendere vero diverrebbe circolare perché l’espressione definita (“x rende vero y”) entrerebbe nell’analisi del definiens. Siccome una certa verità modale è fondata sull’essenza di determinate entità se e solamente se c’è una corrispondente verità riguardante queste essenze su cui essa è fondata, da (6) si può eliminare l’operatore modale e scrivere direttamente: 63 Capitolo II (7) x RV p =def E!x & x/p (E!x → vero p) Il motivo per cui Mulligan probabilmente non accetterebbe (6) e (7) come definizioni di rendere vero è che egli sembra considerare tale nozione come una nozione primitiva che può al più essere chiarita mediante degli assiomi. In ogni caso sia (6) che (7) implicano (8) x RV p → x/p †(E!x → vero p). Mulligan, d’altra parte, in base alla sua caratterizzazione del rendere vero come relazione indotta dall’essenza dovrebbe accettare un enunciato molto simile a (8) e cioè: (9) x RV p → x/p †(E!x & Ep → vero p) Infatti se è vero, come sostiene Fine, che le espressioni della forma “a è essenzialmente Q” e “a rende vero in virtù della sua essenza “E!a → Qa””, sono modi diversi per esprimere la stessa cosa, allora “è vero in virtù delle essenze di a e p che a rende vero p” è equivalente a “è vero in virtù delle essenze di a e p che necessariamente se a esiste e p esiste allora a rende vero p” e questo, dato l’assioma di fattività del rendere vero (se a rende vero p allora p è vero), implica “è vero in virtù delle essenze di a e p che necessariamente se a esiste allora p è vero”, cioè (8). Le obiezioni che verranno fatte alle definizioni (6) e (7) sono però tutte volte a mostrare che esse non forniscono condizioni necessarie del rendere vero e inoltre gli esempi su cui sono basate non fanno alcun uso dell’ipotesi che in una certa situazione oltre al (supposto) fattore di verità esista anche il portatore di verità. Dunque tali obiezioni sono efficaci anche contro (9). Qual è il ruolo dell’essenza del portatore di verità nella concezione che stiamo discutendo? L’essenza del portatore di verità secondo Mulligan “determina quale porzione di realtà il portatore di verità rappresenta” 58; il riferimento a tale essenza ha dunque come scopo quello di catturare, in modo più efficace di quanto facesse la nozione di proiezione, le proprietà semantiche del portatore di verità. Ciò, congiuntamente al riferimento all’essenza del fattore di verità, dovrebbe evitare, meglio di quanto non facciano le definizioni modali, i fattori di verità indesiderati, i necessitatori maligni. Ad esempio sia l’essenza del mio gatto sia quella della proposizione che 2 + 2 = 4 impediscono al mio gatto di rendere vero che 2 + 2 = 4. Infatti l’essenza del mio gatto non coinvolge numeri e la proposizione che 2 + 2 = 4 non rappresenta il mio gatto. Ugualmente questa concezione evita il controesempio cui incorre la definizione modale di Smith: anche se il numero 2 e Dio esistessero entrambi necessariamente, l’enunciato “necessariamente se il numero 2 esiste allora è vero che Dio esiste” non sarebbe vero in virtù delle essenze rispettivamente del numero 2 e della proposizione che Dio esiste; ciò che il numero 2 è infatti non coinvolge Dio e, d’altra parte, 64 Rendere vero l’essenza della proposizione che Dio esiste è tale che la proposizione non rappresenta il numero 2. Le cose sono diverse nel caso problematico per le definizioni modali costituito dalle qualità individuali di una cosa e dalla proposizione che la cosa in questione esiste. Infatti, soltanto l’essenza della proposizione che Carola esiste impedisce alla dolcezza del sorriso di Carola di rendere vera tale proposizione. Infatti l’identità della dolcezza del sorriso di Carola dipende dall’identità di Carola (ciò che distingue la dolcezza del sorriso di Carola da un’altra dolcezza qualitativamente indistinguibile sembra proprio essere il suo essere di Carola), dunque tale dolcezza è tale che in virtù della propria essenza non possa esistere senza che sia vero che Carola esista59. Ma, fortunatamente, la proposizione che Carola esiste non concerne la dolcezza in questione, dunque queste due cose non soddisfano (7). Questo esempio ci fa apprezzare il fatto che, in alcuni casi critici in cui le definizioni modali soccombevano, (7) è efficace solo in virtù del riferimento all’essenza del portatore di verità, mentre il riferimento all’essenza del fattore di verità rimane inefficace. Questo è provato dal fatto che la definizione: (10) x RV p =def E!x & x†(E!x → p), in cui il definiens non fa riferimento a portatori di verità (e, a fortiori, alle loro essenze) consente alla dolcezza del sorriso di Carola di rendere vera la proposizione che Carola esiste: la necessitazione fondata sull’essenza del solo portatore di verità dunque capovolge l’ordine della fondazione esattamente come facevano le definizioni modali. Una versione più esigente di (10) e cioè (11) x RV p =def E!x & x†(E!x ↔ p), che riesce a sopravvivere al contro esempio precedente, continua ad avere problemi simili. Ipotizziamo che il Dio del contro esempio alla prima definizione di Smith sia un Dio leibniziano che, per la sua stessa essenza (e dunque necessariamente) ha creato il mondo; poniamo inoltre che l’identità del mondo dipenda dall’identità del suo creatore60 (in una prospettiva alla Kripke sulle condizioni di identità). In questo caso (11) ci costringerebbe a dire che il mondo rende vero che il suo creatore esiste poiché è vero sia in virtù dell’essenza del mondo che del suo creatore che necessariamente il mondo esiste se e solamente esiste il creatore. Ma, nuovamente, ciò sembra capovolgere l’ordine della fondazione61. Perché (7) non ha questi problemi? Non ce li ha precisamente grazie al suo fare riferimento all’essenza del portatore di verità, che determina la “porzione” di realtà da esso rappresentata: così come la proposizione che Carola esiste non rappresenta la dolcezza del sorriso di Carola, allo stesso modo la proposizione che Dio esiste non rappresenta il mondo. A questo punto siamo però di fronte allo stesso problema che sorgeva col vincolo della rappresentazione introdotto da Smith: la ragione per la quale ci sembra falso che la proposizione che Carola 65 Capitolo II esiste sia vera poiché esiste la dolcezza del sorriso di Carola e che la proposizione che il Dio leibniziano esiste sia vera poiché esiste il mondo che egli ha creato, sembra essere diversa dalla ragione per cui (10) e (11) differiscono da (7). La ragione per la quale le due spiegazioni precedenti sono false non sembra infatti essere che parlare dell’esistenza di Carola non è parlare del suo sorriso e che parlare dell’esistenza di Dio non è parlare dell’esistenza del mondo. La ragione sembra infatti essere più di natura metafisica che semantica e cioè che non è in virtù dell’esistenza del sorriso di Carola che le condizioni di verità della proposizione che Carola esiste sono soddisfatte (cioè non è in virtù dell’esistenza di tale dolcezza che Carola esiste) e che non è in virtù dell’esistenza del mondo che le condizioni di verità della proposizione che Dio esiste sono soddisfatte (cioè non è in virtù dell’esistenza del mondo che il Dio leibniziano esiste). Naturalmente il sostenitore di (7) obietterà che avere certe condizioni di verità è una proprietà essenziale di un portatore di verità. Ma, anche accettando questo punto, un enunciato come “il mondo rende vera la proposizione che Dio esiste” risulterà falso per due ragioni : che la proposizione in questione è vera se e solamente sono soddisfatte certe condizioni e che il mondo non è ciò in virtù di cui tali condizioni sono soddisfatte. Come abbiamo visto formulando la versione più debole (e corretta) del vincolo della rappresentazione, al fine di rendere un certo portatore di verità vero un’entità deve soddisfare una condizione disgiuntiva: o il portatore di verità dice che essa esiste, oppure le condizioni che, dato ciò che il portatore di verità dice, devono essere soddisfatte affinché esso sia vero lo sono poiché l’entità in questione esiste, indipendentemente dal fatto che tale entità sia o no rappresentata dal portatore di verità. Al contrario, in base a (7), se un’entità non è rappresentata dal portatore di verità essa non può renderlo vero: anche (7) dunque pone erroneamente come condizione necessaria del rendere vero il soddisfacimento di un vincolo rappresentazionale troppo esigente. Siamo dunque allo stesso punto in cui eravamo con le concezioni modali rinforzate dal vincolo della rappresentazione: in base a (7) una frase come “la dolcezza del sorriso di Carola rende vero che Carola esiste” può essere considerata falsa solo invocando il fatto che la dolcezza in questione non è rappresentata dalla proposizione che Carola esiste; se si prescinde infatti da questo vincolo semantico (7) diventa equivalente a (10) che però, come abbiamo visto, lungi dal catturare la nozione di fondazione ontologica la capovolge! Dunque (7) ha lo stesso problema delle definizioni modali di Smith: non cattura il vincolo della spiegazione e fa svolgere al vincolo della rappresentazione un ruolo sbagliato, quello cioè di impedire alle cose che non sono rappresentate da una proposizione di rendere quella proposizione vera. Pertanto, come avveniva con le concezioni modali proposte da Smith, vi sono coppie di una certa entità e di una certa proposizione che soddisfano il vincolo della spiegazione ma che, secondo (7) non sono tali che l’entità rende la proposizione vera. Ritroviamo ancora una volta il contro esempio del rossore della palla e della proposizione che la palla è rossa: un sostenitore di una metafisica dei tropi può sostenere che è vero che la palla è rossa poiché esiste una certa qualità individuale della palla 66 Rendere vero (il rossore della palla, appunto) anche se tale rossore non è rappresentato dalla proposizione che la palla è rossa. In generale mentre, nell’ipotesi della correttezza di una metafisica che considera i tropi le entità fondamentali, sarebbe corretto dire che molti portatori di verità che ascrivono qualità ad individui sono resi veri dai tropi, una definizione come (7) in tale situazione sarebbe costretta a negare ciò per il fatto che un predicato come “è rosso” non sembra rappresentare nessuna qualità individuale in particolare. Il definiens di (7) dunque non esprime una condizione necessaria del rendere vero. Questo fatto è confermato da un altro caso che è interessante perché mostra che (7) non fornisce condizioni necessarie del rendere vero non solo a causa del vincolo della rappresentazione che incorpora ma anche per il suo riferimento all’essenza del fattore di verità. Il caso che segue mostra dunque che, affinché una cosa renda vera una certa proposizione, non è nemmeno necessario che la proposizione sia vera in virtù dell’essenza della cosa, in virtù di ciò che quella cosa è. 3.1. Il caso degli esistenziali singolari I vincoli che (7) pone su una cosa a e su un portatore di verità p affinché a renda vero p sono due: (A) a deve essere tale che in virtù della sua essenza è vero “E!a → vero p”; (B) p deve rappresentare a. Ma consideriamo una qualsiasi proposizione esistenziale singolare vera, per esempio la proposizione che io esisto. Tale proposizione concerne senza dubbio me e sembra che se è vero che io esisto allora ciò è vero poiché io esisto. Ma questo significa che io e la proposizione che io esisto soddisfacciamo sia il vincolo della spiegazione sia il vincolo della rappresentazione (sia quello meno esigente sia quello più esigente). Sembrerebbe dunque perfettamente corretto dire che sono io stesso a rendere vera la proposizione in questione. Sfortunatamente per me che io esista non è vero in virtù della mia essenza! Altrimenti sarei qualcosa che ha l’esistenza fra le sue proprietà essenziali: sarei dunque una cosa cui si applica l’argomento ontologico e dunque un buon candidato ad essere un esistente necessario. Ma io non sono un esistente necessario dunque l’esistenza non è una mia proprietà essenziale. Dunque si può rendere una proposizione vera anche senza farlo in virtù della propria essenza, pertanto (7) non è una buona definizione di rendere vero. A questo ragionamento si potrebbe fare la seguente obiezione. Fine ha sostenuto che, in una prospettiva essenzialista, le verità logiche possono essere considerate verità che sono tali in virtù dell’essenza di tutte le cose62. Ma l’enunciato “Stefano esiste → Stefano esiste” è un’esemplificazione della verità logica “p → p”. Dunque, se si accetta la teoria sopraccitata sulle verità logiche, l’enunciato risulta vero anche in virtù dell’essenza di Stefano63. A questa osservazione vi sono due risposte. La prima è che la definizione di rendere vero che richiede che sia vero, in virtù dell’essenza di Stefano, l’enunciato “Stefano esiste → Stefano esiste” è (10) e non (7). Quest’ultima definizione infatti richiede qualcosa di più: che sia vero in virtù dell’essenza di Stefano l’enunciato 67 Capitolo II “Stefano esiste → è vero “Stefano esiste””. Ora, questo enunciato è equivalente a “Stefano esiste → Stefano esiste” solo modulo l’assioma, concernente la nozione di verità, “è vero “p” se e solamente se p”. Dunque “Stefano esiste → è vero “Stefano esiste”” non è una verità logica ma, almeno secondo una caratterizzazione standard dell’analiticità, una verità analitica, in particolare una verità tale in virtù del contenuto del concetto di essere vero. Dunque, pur accettando la teoria essenzialista di Fine, “Stefano esiste → è vero “Stefano esiste”” non è vero in virtù dell’essenza di Stefano ma in virtù dell’essenza del concetto di essere vero. La seconda risposta riguarda la definizione (10). I filosofi, come Mulligan, che considerano il rendere vero come una relazione fondata sulle essenze, presumibilmente vorranno usare una nozione di essenza in base a cui le esemplificazioni delle verità logiche non fanno parte della cose vere in virtù dell’essenza di una cosa: la nozione infatti viene utilizzata proprio per non far incorrere la definizione del rendere vero nel problema dei fattori di verità indesiderati, e il fatto che una qualsiasi verità logica sia vera in virtù dell’essenza di qualsiasi cosa è un esempio di tale problema64. 3.2. Ritorno ai fatti. Il sostenitore della concezione essenzialista del rendere vero potrebbe reagire a questi problemi semplicemente assumendo un atteggiamento revisionista nei confronti delle nostre intuizioni concernenti il rendere vero: nonostante il fatto che ci sembri essere ovvio che è vero che Stefano esiste poiché Stefano esiste e che dunque Stefano renda vera la proposizione e nonostante il fatto che, nel caso fosse vera una metafisica dei tropi, sembrerebbe corretto sostenere che il rossore della palla rende vero che la palla è rossa, tutte queste cose non sono vere e non lo sono poiché le coppie entitàproposizione in questione non soddisfano la definizione proposta, cioè (7), in quanto non soddisfano i vincoli (A) e (B). A questa strategia si può naturalmente obiettare che essa consiste in ultima analisi nel rifiutare gli assiomi concernenti il rendere+ F enunciati nel primo capitolo e che il rifiuto di tali assiomi comporta semplicemente l’introduzione di una nozione diversa da quella di rendere vero (una nozione definita per convenzione dalle definizioni essenzialiste). Inoltre la strategia revisionista conduce a un risultato che sarebbe considerato scoraggiante da molti teorici del rendere vero. Chiediamoci infatti: data una proposizione contingentemente vera che p quale entità potrebbe essere tale che (A) è vero in virtù della sua essenza che se essa esiste allora la proposizione è vera; (B) è rappresentata dalla proposizione? L’unico plausibile candidato al soddisfacimento di entrambe queste condizioni sembra essere il fatto che p o lo stato di cose che p, ammesso che un’entità del genere esista. Ad esempio non sembra poter esservi nient’altro che lo stato di cose che Stefano esiste a possedere entrambe le caratteristiche (A) e (B). Tale entità soddisferà (A) se si pensa che bicondizionali della forma “lo stato di cose che p sussiste se e solamente se è vero che p” o della forma “il fatto che p esiste 68 Rendere vero se e solamente se è vero che p” siano veri in virtù dell’essenza del fatto che p e dello stato di cose che p (e più in generale in virtù di ciò in cui consiste essere un fatto o essere uno stato di cose). Lo stato di cose che Stefano esiste inoltre soddisferà (B) se si pensa che gli stati di cose siano ciò che è rappresentato dai portatori di verità65. Perché questa conclusione è scoraggiante? Perché, come sottolineato nell’Introduzione, la ragione forse principale che rendeva filosoficamente interessante l’idea del rendere vero consisteva proprio nel fatto che sembrava che tale idea potesse permettere la difesa di intuizioni tradizionalmente connesse alla teoria della corrispondenza (in particolare l’intuizione concernente la fondatezza della verità) senza per ciò essere costretti ad sposare i punti più controversi della teoria della corrispondenza, quali per l’appunto l’ammissione dell’esistenza di fatti o stati di cose. Adesso scopriamo, se la concezione essenzialista del rendere vero è corretta, che tutto questo era un’illusione: solo gli stati di cose, se qualcosa lo fa, possono rendere vere proposizioni contingenti come quelle che ascrivono a qualcosa l’esistenza o una qualsivoglia proprietà che la cosa possiede contingentemente. Possiamo riassumere questo problema dicendo che, ammesso (e non concesso) che il sostenitore della concezione essenzialista sia autorizzato ad assumere un atteggiamento revisionista nei confronti delle nostre intuizioni concernenti il rendere vero, tale concezione è posta di fronte al seguente dilemma: o non c’è nulla che renda vere moltissime proposizioni contingentemente vere e logicamente non complesse, e dunque l’intuizione corrispondentista è falsa, oppure gli stati di cose o i fatti sono fattori di verità di tali proposizioni, e dunque tornano i vecchi problemi della teoria della verità come corrispondenza. 3.2.1. Infiniti fatti Un problema connesso col precedente è che, data l’analisi essenzialista del rendere vero, siamo costretti ad aggiungere un dominio infinito di entità al mondo solamente per giustificare l’intuizione corrispondentista. Si è visto che nessuna entità che non ha l’esistenza fra le su proprietà essenziali può rendere vera la proposizione che tale entità esiste; dunque la proposizione, se vera, deve essere resa vera da una cosa diversa. Ma questo è vero anche per i fatti e gli stati di cose. Il fatto che la neve è bianca non è essenzialmente un esistente e lo stato di cose che la neve è bianca non sussiste essenzialmente: la neve potrebbe non essere bianca e, in tal caso il fatto e lo stato di cose non ci sarebbero66. Dunque nessun fatto può rendere vera la proposizione che esso esiste e nessuno stato di cose può rendere vera la proposizione che esso sussiste: abbiamo bisogno di un altro fatto per svolgere questo ruolo e un altro ancora per rendere vera la proposizione che dice che l’ultimo fatto nella serie esiste e così all’infinito67. Sebbene non ci sia di per sé nulla di male nell’ammettere una gerarchia infinita di qualche tipo di entità (lo facciamo già con le entità matematiche), ciò dovrebbe essere fatto per ragioni interne all’ontologia del dominio in questione (nella fattispecie quello dei fatti) e 69 Capitolo II non per trovare fattori di verità a proposizioni così semplici come le proposizioni esistenziali singolari. Sarebbe desiderabile avere una nozione di rendere vero che permetta di salvare l’intuizione corrispondentista senza pagare un così alto prezzo ontologico. Una nozione che permetta di considerare ciascuna entità come ciò che rende vera la proposizione che essa esiste sarebbe una concezione del genere: purtroppo la nozione essenzialista non è tale. 3.3. Gli stati di cose pleonastici come fattori di verità. Mulligan, per rendere meno drammatico il dilemma in cui incorre la concezione essenzialista, adotta una strategia che ha tre componenti68. La prima è accettare gli stati di cose come fattori di verità. La seconda componente consiste nel difendere una concezione degli stati di cose che dovrebbe evitare tutti le diffidenze che molti filosofi nutrono nei confronti dei fatti: la concezione degli stati di cose come entità pleonastiche. Tale concezione si rifà direttamente al cosiddetto platonismo pleonastico sostenuto da Stephen Schiffer, riguardo allo status ontologico di molte entità astratte69. Secondo Schiffer l’impegno ontologico su entità come le proposizioni, gli eventi, i fatti, le proprietà è garantito dalle stesse trasformazioni linguistiche mediante le quali vengono introdotti nel discorso i concetti corrispondenti a tali entità. Ad esempio il nostro impegno sull’esistenza di proprietà è garantito dalla trasformazione linguistica, che introduce la nozione stessa di proprietà, espressa dall’equivalenza: “a è G sse a ha la proprietà di essere G”; o ancora, il nostro impegno ontologico sulle proposizioni è garantito da equivalenze come “è vero che p sse p”. Dunque, in un certo senso, gli oggetti che cadono nell’estensione di tali concetti sono creati dalla pratica linguistica consistente nell’introdurre nel discorso le equivalenze che in modo stipulativo definiscono implicitamente il nuovo concetto: queste pratiche vengono chiamate da Schiffer “pratiche ipostatizzanti” per la loro peculiare caratteristica di determinare un arricchimento dell’ontologia, hanno cioè la caratteristica che Schiffer chiama “produrre qualcosa dal nulla”. D’altra parte le equivalenze che introducono nell’ontologia le entità astratte vincolano l’esistenza di tali entità unicamente a condizioni il cui sussistere o non sussistere è indipendente da qualsiasi fatto o pratica linguistica. Dunque le entità introdotte in questo modo sono entità platoniche: entità che esisterebbero anche in un mondo in cui non esistessero linguaggi, parlanti e pratiche ipostatizzanti: si tratta di entità in un certo senso create da pratiche linguistiche e allo stesso tempo indipendenti metafisicamente da esse. Indipendenti nel senso che il loro concetto (introdotto mediante una stipulazione) è il concetto di cose che esisterebbero anche se non esistessero menti o linguaggi70. La terza componente della strategia di Mulligan consiste nell’introdurre le nozioni di rendere vero non immediato e di far sussistere (“making obtain”) uno stato di cose: entità non pleonastiche fanno sussistere gli stati di cose pleonastici e, in tal modo, rendono vere, in modo non immediato, le proposizioni che quegli stati di cose rendono immediatamente vere71. 70 Rendere vero La maniera più radicale di criticare tale proposta sarebbe quella di mettere in questione la nozione stessa di entità pleonastica, in modo particolare l’idea, difesa sia da Schiffer che da Mulligan, che le entità pleonastiche siano allo stesso tempo create linguisticamente e indipendenti dal linguaggio (l’idea cioè delle entità pleonastiche come ombre del linguaggio). L’idea da portare avanti sarebbe che tale nozione è o incoerente o confusa e che dunque non ci sono cose cui essa si applica. Un’altra idea potrebbe essere quella di mostrare come, non appena si tenti di caratterizzare in modo più preciso la nozione di entità pleonastica, si sia costretti ad ammettere l’esistenza di molte più entità pleonastiche di quante si desideri e che ogni tentativo di rendere più esigente la caratterizzazione finisca dall’escludere dal novero delle entità pleonastiche anche le cose che si vorrebbero considerare tali72. Ma il punto su cui insisterò qui è un altro e cioè che anche ammettendo che esistano cose come le entità pleonastiche e che gli stati di cose siano fra queste, gli stati di cose pleonastici non sono adatti a svolgere il ruolo di fattori di verità, per lo meno se cerchiamo qualcosa che renda+nec veri i portatori di verità e non semplicemente qualcosa che li renda^nec veri. Il punto è cioè il seguente. Ammesso che sia vero che p, le esemplificazioni di uno schema come “il fatto che p rende vero che p” o “il sussistere dello stato di cose che p rende vero che p”, sono certamente vere; ciò dipende da due fatti: innanzitutto che se è vero che p, allora è vero che p poiché p; in secondo luogo dal fatto, osservato nel capitolo I, che tutti gli enunciati esplicativi della forma “a è F poiché p” hanno degli equivalenti della forma “nom(p) rende a F”, fatto questo che ci aveva indotto a introdurre una terza forma di rendere F, il rendere^F, cioè il rendere F pleonastico. La verità degli enunciati di questa forma non presuppone nemmeno che i sintagmi nominali “nom(p)” siano termini singolari, che cioè denotino delle entità (come si era cercato di dimostrare col caso del non esistere nulla che renderebbe vero che non esiste nulla). Dunque l’esser veri degli enunciati di questo tipo non autorizza scontatamente ad asserire enunciati della forma “a è F poiché nom (p) esiste”. Il ragionamento che segue mira a dimostrare come ciò sia vero in generale per i fatti e gli stati di cose pleonastici: anche ammettendo che queste cose esistano esse non rendono+nec veri i portatori di verità, cioè la loro esistenza non spiega perché i portatori di verità veri sono veri. Ma quest’ultima cosa è proprio quanto sostenuto da Mulligan il quale vuole assimilare il modo in cui i fatti rendono vere le proposizioni al modo in cui le promesse rendono obbligatorie le azioni: solo così facendo infatti si possono considerare i fatti come fondamento ontologico della verità dei portatori di verità: Il rendere vero immediato, fondamentalmente, non è affatto una relazione. Supponiamo che ogni verità, p, sia immediatamente resa vera dallo stato di cose sussistente che p. In questo caso la relazione immediata di rendere vero sussiste chiaramente in virtù della connessione immediata espressa dal connettivo: (Il fatto che p rende la proposizione che p vera) poiché (la proposizione che p è vera poiché lo stato di cose che p sussiste)73. 71 Capitolo II Ecco il ragionamento che a mio parere dimostra come non si possa dire che la proposizione che p è vera poiché lo stato di cose che p sussiste, se lo stato di cose in questione è un’entità pleonastica. Si può pensare che il riferimento agli stati di cose pleonastici sia introdotto da bicondizionali della forma (12) lo stato di cose che p sussiste sse p oppure della forma (13) lo stato di cose che p sussiste sse è vero che p. Il problema è però: che cosa ci autorizza partendo da (12) e (13) a dire che è vero che p perché lo stato di cose che p sussiste? Cominciamo con l’esaminare (13). In primo luogo (13) è un bicondizionale che, in se stesso, non ci dice niente circa la direzione della relazione esplicativa fra “lo stato di cose che p sussiste” e “è vero che p”. In secondo luogo, se si pensa che la nozione di stato di cose sia introdotta dalle esemplificazioni di (14) si dovrebbe anche accettare che vi è una priorità concettuale della nozione di verità rispetto a quella di uno stato di cose che sussiste. Ma la priorità concettuale della nozione espressa da una formula α rispetto a una formula β è una delle ragioni per asserire “β∗ poiché α∗”, come ad esempio in “Alessandro è uno scapolo poiché è un maschio adulto non sposato”74. Dunque, se si considera (13) come uno schema le cui esemplificazioni introducono la nozione di stato di cose, si dovrebbe dire che lo stato di cose che p sussiste poiché è vero che p e non viceversa e questo significa negare che gli stati di cose soddisfino il vincolo della spiegazione. A questo punto la mossa del sostenitore degli stati di cose come fattori di verità sarà quella di negare che la nozione di stato di cose è introdotta tramite (13), sostenendo invece che la nozione è introdotta dai bicondizionali che sono esemplificazioni di (12). Ma il problema cui va incontro questa proposta è che essa deve spiegare come sono connesse la nozione di uno stato di cose che sussiste e quella di verità. La risposta più naturale, per un sostenitore delle trasformazioni pleonastiche, sembrerebbe essere: in virtù dei bicondizionali “tarskiani” della forma (14) è vero che p sse p. Ciò che connette la nozione di uno stato di cose che sussiste e quella di verità sono il lato destro di (14) e di (12) (cioè “p”). Dato ciò che si è detto riguardo alla priorità concettuale fra due nozioni, (12) e (14) dovrebbero autorizzarci ad asserire sia (15) è vero che p poiché p75 sia 72 Rendere vero (16) lo stato di cose che p sussiste poiché p Il problema è però cosa ci autorizzi adesso ad asserire (17) è vero che p poiché lo stato di cose che p sussiste Io credo che nessuno degli enunciati precedenti ci autorizzi a farlo. Infatti “è vero che p” e “lo stato di cose che p sussiste” sono rispettivamente spiegati da “p”: ma il semplice fatto che vi è una relazione esplicativa fra due enunciati “p” e “q” e un terzo enunciato “r” non è una ragione per asserire “p poiché q” o “q poiché p”. Ciò di cui si avrebbe bisogno è qualche ragione indipendente per asserire una spiegazione piuttosto che l’altra. Ma nessuno degli enunciati da (12) a (17) la fornisce. Il sostenitore degli stati di cose pleonastici come fattori di verità potrebbe tentare allora questa strada: sostenere che in (13) il nesso esplicativo va da “lo stato di cose che p sussiste” a “è vero che p” perché è il concetto di verità a essere introdotto dalle esemplificazioni di (13) a partire dal concetto di stato di cose che sussiste il quale è a sua volta introdotto dalle esemplificazioni di (12). Per tale ragione possiamo asserire sia “è vero che p poiché lo stato di cose che p sussiste” sia “lo stato di cose che p sussiste poiché p”. Il limite di questa proposta è che essa sembra essere ad hoc: perché dovremmo ammettere che la nozione di verità è introdotta a partire dalla nozione di stato di cose che sussiste tramite i bicondizionali della forma (13) e non tramite i bicondizionali della forma (14)? In primo luogo non sembra che i bicondizionali della prima forma siano più adeguati di quelli della seconda per rendere conto dell’uso del predicato di verità (e naturalmente se non si è convinti dalle concezioni della verità che vanno sotto il nome di deflazionismo, si penserà che nessuno dei due schemi può rendere conto di tale uso)76. In secondo luogo le esemplificazioni dello schema (12) attraverso le quali dovrebbe essere introdotta la nozione di stato di cose fanno uso degli stessi enunciati che sono usati nei lati destri delle esemplificazioni di (14); dunque sembra che, con le stesse risorse linguistiche con cui viene introdotta la nozione di stato di cose, possa venire introdotta la nozione di verità, senza che a tali risorse debbano essere aggiunti gli enunciati della forma “lo stato di cose che p sussiste”. Un’altra strada per un sostenitore degli stati di cose pleonastici come fattori di verità, che però non condivida il deflazionismo riguardo alla verità, potrebbe essere quella di sostenere che la relazione fra la nozione di verità e quella di stato di cose non è espressa da una lista infinita di bicondizionali ma da una definizione esplicita di verità che coinvolge la nozione di stato di cose (pleonastico). Un filosofo del genere potrebbe sostenere una concezione della verità come corrispondenza pleonastica. In base a questa concezione esser vero può essere definito, come nelle versioni classiche della teoria della corrispondenza, come corrispondere a un fatto (o a uno stato di cose 73 Capitolo II sussistente); ma la nozione di corrispondenza sarebbe essa stessa introdotta tramite gli enunciati della forma (12) i quali determinano quale proposizione corrisponda a quale stato di cose77. Il problema di tale concezione della verità è però che ad essa viene a mancare la caratteristica che più di ogni altra dovrebbe spingere a preferire una teoria della corrispondenza rispetto ad una concezione deflazionista: il fatto che una teoria della corrispondenza, diversamente da una concezione deflazionista, fornisce una definizione esplicita e finita di verità. Infatti la definizione di verità in base alla nozione pleonastica di corrispondenza è solo apparentemente finita, in quanto essa fa uso di un concetto di stato di cose introdotto tramite una lista infinita di bicondizionali. La definizione di verità in base alla nozione di corrispondenza pleonastica è come una casa le cui fondamenta poggiano su un terreno franoso (e, invero, una frana su un pendio infinito). Possiamo concludere dunque che gli stati di cose non sono fattori di verità per lo meno nel senso del rendere+nec vero: infatti il loro sussistere non spiega affatto poiché i portatori di verità sono veri. Ciò che bisognerebbe fare per difendere la tesi che gli stati di cose sono fattori di verità in questo senso è piuttosto l’opposto che sostenere una concezione pleonastica di tali cose: bisognerebbe difendere la tesi che gli stati di cose sono le entità metafisicamente fondamentali, una tesi cioè che giustifichi l’asserzione delle esemplificazioni di tale schema: (18) p poichénec sussiste un certo stato di cose Da (14) e (18) potremmo inferire “è vero che p poichénec un certo stato di cose sussiste”, dimostrando dunque che gli stati di cose soddisfano il vincolo della spiegazione e che dunque rendono+nec vere le proposizioni. Pertanto se si vuole dimostrare che gli stati di cose rendono vere le proposizioni, come le promesse rendono obbligatorie le azioni, bisognerà fare ciò che, in modi diversi, hanno fatto Wittgenstein nel Trattatus Logico Philosophicus, Russell nel La filosofia dell’atomismo logico e, più recentemente, Bergmann in Realism e Armstrong in A World of States of Affairs: sostenere che il mondo è un insieme di fatti, che questa rosa rossa non è altro che un fatto. Questo tipo di metafisica incontra deve far fronte ad obiezioni a mio parere insormontabili, ma in ogni caso essa è l’unica strada percorribile per far svolgere ai fatti o gli stati di cose il ruolo di fattori di verità, di cose la cui esistenza spiega l’esser vere delle proposizioni vere e, con ciò, lo fonda78. Da quanto detto in questo paragrafo possiamo trarre due conclusioni che vanno contro la concezione essenzialista del rendere vero. In primo luogo, se l’argomento contro gli stati di cose pleonastici come fattori di verità è corretto, abbiamo una prova del fatto che per fornire condizioni sufficienti del rendere vero non basta aggiungere a bicondizionali della forma “†(E!a sse p)” la clausola “è vero in virtù dell’essenza di a”; infatti gli stati cose pleonastici, se esistono cose 74 Rendere vero del genere, sono proprio un tipo di entità per cui valgono bicondizionali di tale forma (e cioè “lo stato di cose che p sussiste sse è vero che p”). In secondo luogo, se gli stati di cose pleonastici non sono fattori di verità, il difensore della concezione essenzialista del rendere vero è ancora privo di fattori di verità per proposizioni vere come la proposizione che Stefano esiste o la proposizione che questa palla è rossa, dunque non riesce a salvare l’intuizione corrispondentista. Questo sembra essere vero anche se si combina la concezione essenzialista del rendere vero con una concezione non pleonastica degli stati di cose, una concezione cioè secondo cui gli stati di cose sono i costituenti fondamentali del mondo. Un filosofo che scelga tale strada potrà sostenere che uno o diversi stati di cose rendono vero che Stefano esiste o che la palla è rossa (il filosofo in questione penserà infatti che Stefano e la palla in un certo momento della sua esistenza non sono altro che una molteplicità di stati di cose). Ma, come si è già detto, permane il problema di cosa renda vero che gli stati di cose stessi sussistono; essendo infatti il sussistere di tali stati di cose contingente, ciascuno di tali stati di cose non rende vera in virtù della propria essenza la proposizione che esso esiste. Il sostenitore degli stati di cose come entità metafisicamente fondamentali non può però ricorrere così facilmente, come il sostenitore degli stati di cose pleonastici, a un dominio infinito di stati di cose. Infatti mentre il sussistere di uno stato di cose pleonastico è garantito dalla trasformazione da “p” a “lo stato di cose che p sussiste” la quale è iterabile all’infinito, il sussistere di uno stato di cose non pleonastico dovrebbe essere un fatto primitivo (consistente nell’esemplificazione di proprietà e relazioni da parte di individui)79 che non sembra essere riducibile a stati di cose più fondamentali, pena un regresso metafisico alla Bradley. Mi sembra corretto affermare in generale che in qualsiasi metafisica che ammetta un qualsiasi tipo di entità fondamentali vi saranno entità tali che niente rende vero, in virtù della propria essenza, che tali entità esistono. Dunque, se si vuole difendere l’intuizione corrispondentista sull’esser fondata della verità, è meglio abbandonare la concezione essenzialista del rendere vero. 3.4. Il far sussistere e il rendere vero non immediato La nozione di far sussistere uno stato di cose, unitamente a quella di rendere vero non immediato, ha la funzione di fondare la verità dei portatori di verità su entità non pleonastiche, il riconoscimento della cui esistenza non sia dipendente, come per gli stati di cose pleonastici, da pratiche linguistiche: entità non pleonastiche fanno sussistere gli stati di cose pleonastici e, in tal modo, rendono vere, in modo non immediato, le proposizioni che quegli stati di cose rendono immediatamente vere. Gli stati di cose infatti, nelle parole di Mulligan, sono come cime di icebergs: Se gli stati di cose sono fattori di verità vi saranno altre entità dei quali tali stati di cose sono le cime, entità che faranno sussistere tali stati di cose a, in alcuni casi, renderanno (non immediatamente) vero ciò che tali stati di cose rendono vero80. 75 Capitolo II Ma come dev’essere inteso il far sussistere? Un esempio…è fornito da relazioni come essere il padre di. Un complesso di processi che include il concepimento e il parto rende a il padre di b e così fa sussistere lo stato di cose che a è il padre di b81. Generalizzando l’esempio l’idea potrebbe essere espressa da tale schema: (FS) a fa sussistere lo stato di cose che p sse a fa sì che p Poiché da tutti gli enunciati si possono astrarre diversi predicati, gli enunciati della forma “a fa sì che p” avranno diverse controparti con la forma “a rende y F”. Ad esempio: “a fa sì che c è padre di b” avrà come controparti sia “a rende c [x padre di b]”, sia “a rende b [c padre di x], a rende c, b [x padre di y], a rende b, c [x figlio di y]. Dunque possiamo scrivere anche: (FS1) a fa sussistere lo stato di cose che Rn t1...tn sse a rende t1…tn Rn (FS1) e (FS) sembrano presupporre (16) in base al quale un certo stato di cose sussiste poiché le cose sono in un certo modo. L’aspetto importante di tale nozione è che essa libera il rendere vero dal vincolo della rappresentazione: il far sussistere infatti non impone alcun vincolo del genere. Ad esempio per far sussistere lo stato di cose che la neve è bianca (e dunque per rendere indirettamente vero che la neve è bianca) una cosa deve far essere la neve bianca; ma non è necessario affinché qualcosa faccia essere la neve è bianca che tale cosa sia rappresentata dalla proposizione che la neve è bianca. Dunque le nuove nozioni introdotte permetteranno di giustificare, più facilmente di quanto non faccia la nozione di rendere vero immediato, l’intuizione corrispondentista. Gli schemi (FS) e (FS1) sollevano però due problemi. Innanzitutto poiché in essi la nozione di far sussistere è chiarita tramite la nozione di rendere F (o fare sì che), e “rendere vero” è un’esemplificazione di tale forma, è probabile che i problemi che bisogna affrontare nell’analisi della nozione di rendere vero (in particolare i problemi che incontra la concezione essenzialista del rendere vero) si riproporranno col far sussistere se il rendere F è analizzato in termini essenzialisti. Inoltre, probabilmente, si porranno quei problemi cui la definizione essenzialista del rendere vero riusciva a sfuggire solo per il suo ricorso al vincolo della spiegazione. Poniamo ad esempio che si scelga un analogo di (10) per definire il rendere F, cioè (19) x rende a F =def E!x & x†(E!x → a è F) Quest’analisi incorrerà nel problema dell’inversione della fondazione: la dolcezza del sorriso di Carola, in base, ad essa fa esistere Carola. Si possono proporre analisi essenzialiste più esigenti, come 76 Rendere vero (20) x rende y F =def E!x & x†(E!x ↔ y è F) o addirittura: (21) x rende y F =def E!x & x/y†(E!x ↔ y è F) le quali però avranno il doppio problema del non fornire né condizioni necessarie né sufficienti del rendere F. Il caso degli stati di cose e delle proposizioni vere ha dimostrato, come abbiamo visto, che il soddisfacimento di una condizione come quella precedente, che cioè sia vero in virtù dell’essenza di due cose che la prima esiste se e solamente se la seconda ha una certa proprietà, non è sufficiente per dire che la prima è ciò in virtù di cui la seconda ha la proprietà in questione, non più di quanto sia una ragione per dire che la prima esiste in virtù del fatto che la seconda ha quella proprietà. E la stessa cosa dimostra, come abbiamo visto, il contro-esempio del Dio essenzialmente creatore e del mondo che dipende per la sua identità dal suo creatore. Le stesse difficoltà si avranno di conseguenza nel trovare cose che facciano sussistere uno stato di cose esistenziale singolare se si mantiene questo modello di analisi del rendere F. Si potrebbe ad esempio sostenere che, data la definizione (20), e se si accetta una certa metafisica, vi è un’entità concreta (non dunque degli stati di cose pleonastici) che fa sussistere lo stato di cose che Stefano esiste: il concepimento di Stefano. La metafisica in questione accetta i seguenti due punti: a) le sostanze sono individuate dalle loro origini (condivide cioè le tesi di Kripke)82; b) in certi casi all’origine delle sostanze non vi sono solo altre sostanze (nel caso di Stefano i genitori di Stefano) ma eventi, i quali a loro volta sono essenzialmente tali da originare quelle sostanze, nel senso che essere quell’evento è essere ciò che dà origine a una determinata sostanza. Un evento del genere potrebbe essere considerato da alcuni il concepimento di Stefano. Questa proposta ha però due problemi fondamentali. In primo luogo il problema della simmetria: è vero sia che esistenza di Stefano coinvolge essenzialmente l’esistenza del concepimento sia che l’esistenza del concepimento coinvolge essenzialmente l’esistenza di Stefano, dunque si può dire non solo che il concepimento fa esistere Stefano ma anche che Stefano fa esistere il concepimento. Ma il rendere F è una relazione asimmetrica. Il secondo problema cui la proposta va incontro è che essa non è generalizzabile a tutti i casi di stati di cose esistenziali singolari. Anche ammettendo che la teoria dell’essenzialità delle origini sia vera per le sostanze complesse come Stefano o la sedia su cui siede, sembra che tale teoria non possa essere vera per ogni esistente. Infatti mi sembra essere una tesi metafisica convincente quella secondo cui vi debbano essere entità la cui identità non dipende dall’identità di altre entità: se infatti così non fosse si innescherebbe un regresso all’infinito nell’identità delle cose e questo sembra essere un regresso vizioso83. Esempi di tali entità sono, secondo alcuni metafisici, sostanze primitive (ad esempio i sé, i soggetti di esperienza, oppure i costituenti primitivi 77 Capitolo II della materia), secondo altri tropi primitivi, secondo altri ancora fatti primitivi. Inoltre se il platonismo è corretto bisogna ammettere l’esistenza di entità astratte per le quali non ha senso parlare di origine. Presa una qualsiasi le entità di questo tipo, non sembra esserci nulla che in virtù della sua identità possa fare esistere tale entità e, di conseguenza, nulla che possa far sussistere lo stato di cose che tale entità esiste e, in tal modo, rendere vera la proposizione che tale entità esiste. Si potrebbe rispondere a queste difficoltà dicendo, come Mulligan fa, che è l’entità stessa in questione a fare sussistere, anche se non in virtù della sua essenza, lo stato di cose che tale entità esiste84. A questo punto bisogna però spiegare cosa si intende per “fare sussistere non in virtù della propria essenza” e come una certa entità a possa fare sussistere, in tal senso, lo stato di cose che a esiste. Innanzitutto bisognerà negare la validità generale degli schemi (FS) e (FS1): infatti se tali schemi si applicano al caso in questione a, per far sussistere lo stato di cose che a esiste, dovrebbe fare esistere se stessa, dovrebbe essere causa sui e questo sembra essere falso, per lo meno di ogni entità la cui esistenza è contingente (e probabilmente anche di quelle la cui esistenza è necessaria). Indeboliamo dunque (FS) e (FS1) trasformandoli in semplici condizioni sufficienti ma non necessarie del far sussistere. (FS2) a fa sì che p → a fa sussistere lo stato di cose che p (FS3) a rende t1…tn Rn → a fa sussistere lo stato di cose che Rn t1...tn Una volta apportata tale modifica si potrebbe considerare l’enunciato “a fa sussistere lo stato di cose che a esiste” come una verità primitiva riguardo al far sussistere. Ma questa sembra essere una soluzione ad hoc che ha lo svantaggio di rinunciare ad un’analisi uniforme del rendere F. Ci sarebbe in realtà una soluzione molto semplice ed elegante per il problema che è in accordo con ciò che nel capitolo I si è detto sul rendere F e in particolare sul rendere Fcons e sul rendere Fnec: tutte le esemplificazioni di “se a esiste allora a fa sussistere lo stato di cose che a sussiste” sono vere in virtù del concetto di “stato di cose sussistente” che è introdotto nel linguaggio tramite i bicondizionali della forma “lo stato di cose che p sussiste se e solamente se p”. E’ dunque vero, come dice Mulligan, che Stefano fa sussistere non in virtù della sua essenza lo stato di cose che Stefano esiste ma questo non è un fatto primitivo e inesplicabile: ciò è infatti vero in virtù dell’essere uno stato di cose che sussiste. Infine mi preme notare un’ultima cosa. Abbiamo visto che (FS) e (FS1) (e così anche (FS2) e (FS3)) presuppongono (12) e (16). Ma fra gli enunciati precedenti vi è un enunciato uguale a (16) tranne per il fatto che il suo explanandum è “è vero che p” (e non “lo stato di cose che p sussiste”): (15). Questo fatto sembra autorizzarci a compiere una mossa del tutto naturale, quella cioè di scrivere un analogo di (FS3) contenente il predicato di verità, e cioè: (FV) a rende t1…tn Rn → a rende vero Rn t1...tn 78 Rendere vero Ma una volta accettato (FV), qualsiasi cosa faccia sussistere, in qualsiasi modo (essenziale o no), uno stato di cose renderà vera, nello stesso modo, la proposizione resa vera dallo stato di cose in questione. Dunque la nozione di far sussistere sembra essere superflua al fine di fornire ai portatori di verità fattori di verità meno pleonastici dei fatti. 4. Rendere vero e proprietà intrinseche Sia Mulligan che Armstrong identificano la relazione di rendere vero con una relazione interna anche se differiscono sul modo di analizzare la nozione. Il primo la definisce come una relazione che sussiste in virtù delle essenze individuali dei relata, il secondo come una relazione tale che è impossibile che i relata esistano e che essa non sia da essi esemplificata. Entrambe le definizioni implicano che se una cosa rende vera una certa proposizione allora non può esistere senza rendere vera la proposizione in questione. Questo naturalmente impedisce alle cose di rendere vere tutte le proposizioni che ascrivono loro le proprietà che esse possiedono contingentemente: infatti se una cosa possiede solo contingentemente una certa proprietà, allora è possibile che tale cosa esista senza avere tale proprietà; dunque è possibile che tale cosa esista e che la proposizione che ascrive ad essa la proprietà in questione non sia vera e, di conseguenza, è possibile che la cosa esista senza rendere la proposizione vera. Si potrebbe però anche, a differenza di Armstrong e Mulligan, nel caratterizzare la relazione di rendere vero come relazione interna, identificare l’essere una relazione interna con l’essere una relazione la cui esemplificazione da parte di a e b dipende solo dalle proprietà intrinseche (anche se non necessarie) di a e b. Questa idea è stata formulata da Josh Parsons che infatti propone di considerare la relazione di rendere vero come una relazione che sussiste contingentemente fra un’entità e una proposizione86. Questo modo di intendere la relazione ha il vantaggio di permettere agli oggetti ordinari di rendere vere molte proposizioni contingenti che li riguardano. Secondo Parsons, inoltre, esso rende conto dell’intuizione corrispondentista se con “intuizione corrispondentista” si intende l’intuizione secondo cui l’esser vera o non vera di una proposizione concernente una certa entità non dipende da nient’altro che da come è fatta quella entità. Alla proposta di Parsons un sostenitore del rendere vero che implica necessitazione può rispondere semplicemente dicendo che si sta cambiando argomento: la nozione introdotta da Parsons è semplicemente una nozione diversa da quella che sono interessati ad analizzare la maggior parte dei teorici del rendere vero. Parsons probabilmente controbatterebbe che dire di una cosa rossa che rende vero che tale cosa è rossa è un uso perfettamente corretto dell’espressione “rendere vero”. 79 Capitolo II Le analisi sul rendere F svolte nel primo capitolo permettono di inserire questo che potrebbe essere un dialogo fra sordi in un quadro più ampio. Le due nozioni di rendere vero sono effettivamente due esemplificazioni di due usi altrettanto corretti delle espressioni della forma “a rende b F”: il rendere F generico necessitante (rendere*necF) e il rendere F esistenziale necessitante (rendere+necF)87. La nozione difesa da Parsons è, più precisamente, una forma specifica di rendere F generico necessitante. Infatti, esemplificando l’assioma che caratterizza il rendere*nec F col predicato di verità si ottiene (22) (C) t1…tn rendono*nec p vero sse ∃Gn(Gn <t1…tn> e †( Gn <t1…tn> → p è vero poiché Gn <t1…tn>)). Cioè: n-oggetti rendono vero p se e solamente se un modo in cui essi sono è tale che necessariamente se essi sono in quel modo p è vero poiché essi sono in quel modo. La caratterizzazione del rendere vero difesa da Parsons si ottiene restringendo i modi di essere in questione alle proprietà intrinseche. Questo implica però che mentre il rendere F generico necessitante sia sufficiente per giustificare l’intuizione corrispondentista sulla fondatezza della verità (anche se nel senso molto debole di “fondare” espresso dal rendere F generico), l’analisi di Parsons non lo sia. Infatti, la caratterizzazione del rendere vero basata sulla nozione di proprietà intrinseca, impedisce di dire che io e te, essendo vicini l’uno all’altro, rendiamo vero che io e te siamo vicini, a meno di non impegnarsi su una riduzione delle relazioni spaziali a relazioni interne. Ma anche per queste proposizioni vale l’intuizione corrispondentista. Naturalmente è un’interessante (e difficile da difendere) tesi metafisica che tutte le proprietà o sono proprietà intrinseche o sopravengono su proprietà intrinseche (cioè che esistono solo relazioni interne). Se è vera questa metafisica tutti i fattori di verità secondo (22) sono fattori di verità nel senso di Parsons. 5. Rendere vero e spiegazioni. Le analisi modali ed essenzialista del rendere vero non riescono a soddisfare il vincolo della spiegazione. Di conseguenza non riescono a giustificare l’intuizione corrispondentista. Ciò suggerisce una mossa molto semplice: analizzare il rendere vero, e più in generale il rendere F, tramite il vincolo della spiegazione. Fare ciò significa pensare che gli enunciati di forma relazionale “a rende vero p” debbano essere analizzati a partire da enunciati di forma non relazionale come “p poiché q”. Tutte le concezioni del rendere vero che condividono tale idea possono dunque chiamarsi concezioni non relazionali del rendere vero. Posizioni di questo tipo, fra le quali si inscrive la mia, sono state recentemente sostenute da autori come Jennifer Hornsby e Benjamin Schnieder88. La concezione non relazionale trova appoggio nei dati linguistici osservati nel primo capitolo, i quali mostrano una connessione costante fra enunciati della 80 Rendere vero forma “a rende b F” ed enunciati esplicativi. Ci possono essere due versioni di questo approccio, una più e l’altra meno radicale. In base alla prima, allorché asseriamo enunciati della forma “a rende b F”, stiamo semplicemente asserendo spiegazioni. Questa posizione potrebbe essere chiamata riduzionismo esplicativo riguardo al rendere F (e al rendere vero in particolare). In base alla seconda, invece, un enunciato come “Gilda rende Carola felice” non dice che Carola è felice poiché Gilda è in un certo modo. Dopo tutto, può sostenere il sostenitore di tale versione, un enunciato come “Gilda rende felice Carola” contiene un’espressione come “rendere F” che, dal punto di vista sintattico, funziona come un qualsiasi altro predicato con cui esprimiamo concetti di relazioni, e questo è dimostrato dal fatto che le inferenze che facciamo con enunciati di tale forma sono analoghe a quelle che facciamo con enunciati come “Pippo ama Clarabella” 89. Ciò non toglie che gli enunciati esplicativi siano concettualmente prioritari rispetto agli enunciati della forma “a rende b F”: la nozione di rendere F è cioè introdotta nel nostro repertorio concettuale proprio in virtù delle equivalenze che la connettono agli enunciati che esprimono spiegazioni. E questo è provato dal fatto che non si riesca a trovare alcuna sua chiarificazione se non facendo ricorso a tali enunciati: non c’è nulla di più da sapere sul rendere vero di quello che ci viene detto dalle spiegazioni ad esso correlate. Questa posizione, in analogia ad altre sue più note forme, potrebbe essere chiamato deflazionismo esplicativo riguardo al rendere vero. Io propendo per quest’ultimo approccio perché mi sembra più rispettoso del complesso dei dati linguistici che abbiamo preso in esame. La teoria del rendere vero che propongo consiste dunque delle esemplificazioni con l’aggettivo “vero” degli assiomi sul rendere F che sono stati presentati nel capitolo I. (RV*) a rende* p vero sse ∃G(p è vero poiché a è G) (RV+) a rende+ p vero sse p è vero poiché a esiste (RV^) nom(q) rende^ p vero sse p è vero poiché q Possiamo cioè distinguere un rendere vero generico, un rendere vero esistenziale e un rendere vero pleonastico. Di ciascuna di queste forme di rendere vero ne esisterà una specie necessitante; quest’ultima potrà a sua volta essere intesa o secondo il modello del rendere Fcons (il modello dello scapolo) o secondo il rendere Fnec (il modello della promessa o la sua versione a posteriori esemplificata dal caso dei neuroni Z). Abbiamo visto inoltre che, delle tre forme di rendere F, quella che esprime meglio l’idea che una certa entità sia il fondamento ontologico dell’essere un’altra entità F è quella del rendere+F in una delle due forme necessitanti, quella del rendere+necF. Ciò non toglie che, dato che il rendere+cons F implica il rendere+necF, un buon modo per sostenere che qualcosa è il fondamento ontologico dell’essere un’altra F è sostenere che ciò in cui consiste l’essere F della seconda cosa è l’esistere della prima. Le stesse cose 81 Capitolo II valgono nel caso specifico della verità. Possiamo dunque identificare l’essere fondamento ontologico della verità di una proposizione col renderla+nec vera (FO) a rende+nec p vero sse †(se a esiste allora p è vero poiché a esiste) I due modi fondamentali per sostenere che una cosa soddisfa questo schema sono dati dal modello dello scapolo e da quello della promessa; dunque dal modello della riduzione teorica e dell’analisi concettuale, (in questo caso della proprietà di essere vero), oppure dal modello della spiegazione primitiva dato ciò in cui consiste l’essere una certa particolare cosa (essere a). I due modelli si potranno intrecciare. Anche questa è una conseguenza di un fatto concernente il rendere F in generale e dunque le spiegazioni in generale. Le spiegazioni possono formare catene: posso dire “la strada è bagnata poiché piove, piove poiché l’umidità è alta, l’umidità è alta poiché…..”. In una catena di spiegazioni potranno intrecciarsi spiegazioni di diverso tipo e con diversa forza modale. Poiché le relazioni esplicative sono transitive, se è vera una catena di spiegazioni “p1 poiché ….poiché pn” allora è vera la spiegazione “p1 poiché pn”. Inoltre, come ha sottolineato B. Schnieder, la spiegazione “p1 poiché pn” che congiunge il primo e l’ultimo anello della catena, avrà forza modale uguale a quella della spiegazione nella catena che ha forza modale più bassa90. Alla fine del §2 cap. I si è sottolineato come, pur non potendo essere ricondotte le tre forme del rendere F ad un’unica definizione, il rendere^F, cioè il rendere F pleonastico, gode, rispetto agli altri due tipi, di una peculiare forma di generalità. Si è detto che tale generalità dipende dal fatto che le esemplificazioni dello schema “nom(p) rende b F” sono ricavate tramite nominalizzazione di “p” dalle corrispettive esemplificazioni dello schema b è F poiché p mentre le esemplificazioni delle forme “a rende+/*b F” sono equivalenti solo ad alcuni enunciati della forma “b è F poiché p”. In particolare, gli equivalenti degli enunciati della forma “a rende+ b F” sono solo quelle esemplificazioni della forma “b è F poiché p” in cui “p” è “a esiste”, cioè le spiegazioni esistenziali. La conclusione che possiamo trarre concerne in questo caso non la relazione fra le estensioni dei diversi predicati della forma “rendere F”, bensì la relazione genere-specie sussistente fra la spiegazione in generale e forme specifiche di spiegazione: tutte le spiegazioni che dicono che una certa cosa è F poiché un’altra esiste sono spiegazioni, ma non tutte le spiegazioni sono di questo tipo. La stessa cosa vale per il rendere vero pleonastico (il rendere^ vero) da una parte, e il rendere vero esistenziale (il rendere+ vero) dall’altra. Tutte le esemplificazioni del rendere+vero avranno degli equivalenti della forma “nom(q) rende p vero” ma non viceversa: ciò perché vi può essere una spiegazione dell’esser vera di una certa proposizione senza che tale spiegazione sia esistenziale, senza cioè che la proposizione in questione sia vera poiché esiste una certa cosa. Il deflazionista esplicativo sul rendere F e sul rendere vero può dunque 82 Rendere vero riassumere la sua posizione nel modo seguente. Enunciati contenenti espressioni della forma rende F sono equivalenti a spiegazioni. In particolare quando le espressioni di tale forma sono intese nel senso metafisicamente forte che implica necessitazione le spiegazioni cui sono equivalenti potranno essere o riduzioni teoriche e analisi concettuali oppure spiegazioni primitive dato ciò in cui consiste l’essere in un certo modo o essere un certo individuo (o entrambe le cose, come nel caso delle promesse). Non è detto però che tali spiegazioni siano costituite da proposizioni esistenziali. Ad esempio, una riduzione teorica della proposizione che una certa superficie è rossa potrà essere che quella superficie riflette la luce così e così e quest’ultima non è una proposizione esistenziale ma una proposizione della forma che a è G. In questo caso ciò che rende questa superficie rossa non è una cosa: ciò che rende questa superficie rossa è che questa superficie rifletta la luce così e così o il riflettere la luce così e così. Solo se la spiegazione mette capo ad una proposizione esistenziale siamo di fronte a un rendere F in cui sono coinvolte due entità l’esistenza di una delle quali spiega l’essere F dell’altra. Lo stesso vale per il rendere vero: vi possono essere spiegazioni dell’essere vere delle proposizioni vere, anche se non necessariamente vi sono cose la cui esistenza spiega l’esser vere delle proposizioni. Una spiegazione dell’esser vero che questa superficie è rossa è, ad esempio, che questa superficie è rossa; ma la proposizione che questa superficie è rossa non dice che qualcosa esiste ma che qualcosa (una superficie) è in un certo modo (rossa). 5.1. Il superamento dei controesempi Le analisi modali e quella essenzialista non riuscivano a fornire condizioni necessarie e sufficienti del rendere vero. Ciò dipendeva dal fatto che esse non soddisfacevano il vincolo della spiegazione. Naturalmente, dato che la concezione non relazionale del rendere vero considera fatti primitivi riguardo al rendere vero i fatti concernenti la spiegazione, essa supera tutte difficoltà. Ad esempio il fatto che l’esistenza del numero 2 non costituisca una spiegazione dell’esistenza di Dio è sufficiente, data l’analisi in questione, a negare che il numero 2 renda vero (se è vero) che Dio esiste. Un problema che affliggeva la concezione essenzialista del rendere vero era quello delle proposizioni esistenziali singolari vere: nessuna cosa poteva rendere vera, secondo tale concezione, la proposizione che dice che essa esiste. Adesso invece le proposizioni esistenziali singolari sembrano essere le uniche di cui possiamo dire con assoluta certezza che, se vere, hanno cose che le rendono+nec tali. Ad esempio affinché Andrea renda+nec vero che Andrea esiste è sufficiente che sia vero che Andrea esiste poiché Andrea esiste e che tale spiegazione sia tale che necessariamente se Andrea esiste allora è vero che Andrea esiste poiché Andrea esiste. Ma abbiamo anche qualcosa di più: infatti sembra anche essere vero che necessariamente se è vero che Andrea esiste allora ciò è vero poiché Andrea esiste. La spiegazione “è vero che Andrea esiste poiché Andrea esiste” sembra cioè essere una spiegazione in cui il “poiché” e il “poichécons”: una spiegazione 83 Capitolo II vera in virtù di ciò in cui consiste l’esser vero. Quello che vale per la proposizione che Andrea esiste, vale per tutte le altre proposizioni esistenziali singolare vere: infatti l’enunciato “se è vero che Andrea esiste ciò è vero poiché Andrea esiste” è un’esemplificazione dello schema “se è vero che p ciò è vero poiché p” e sembra che chiunque comprenda il significato di “vero” debba accettare le esemplificazioni dello schema come verità ovvie91. Bisogna sottolineare che anche in base alle definizioni modali del rendere vero ogni cosa, a patto che esista, può essere considerata un fattore di verità della proposizione che dice che essa esiste ma soltanto perché data una qualsiasi delle definizioni modali del rendere vero l’enunciato “a rende vero che a esiste” risulta essere, sotto l’ipotesi che a esista, un’esemplificazione della verità logica “p → p”. Prendiamo l’enunciato “Stefano rende vero che Stefano esiste” e, ad esempio, la definizione del rendere vero come necessitazione (ma è facile vedere che la stessa cosa varrebbe anche con la definizione del rendere vero come congiunzione di necessitazione e proiezione). Esemplificando la definizione su Stefano e sulla proposizione che Stefano esiste si ottiene “Stefano esiste & †(Stefano esiste → Stefano esiste)” che, assumendo che Stefano esista, è equivalente a †(Stefano esiste → Stefano esiste) che è un’esemplificazione della verità logica †(p → p). Dunque è vero, come sostengono i sostenitori delle concezioni modali del rendere vero, che ogni entità rende banalmente vera la proposizione che dice che essa esiste: essi sbagliano soltanto nell’individuare la radice di questo fatto (e della sua banalità). La radice di questo fatto non è nella congiunzione del fatto banale che la proposizione che a esiste (come ogni proposizione) implica se stessa e del fatto non banale che a esiste. La radice di questo fatto sta piuttosto nella congiunzione del fatto non banale che a esiste e del fatto banale, in base alla nozione di verità, che la proposizione che a esiste conta come una spiegazione della proposizione che è vero che a esiste. Usando un’espressione essenzialista, si può dire che a non fonda l’esser vera della proposizione che a esiste in virtù della sua essenza ma in virtù dell’essenza della verità. 5.2. L’intuizione corrispondentista. Un vantaggio della concezione non relazionale del rendere vero è che esso permette di giustificare l’intuizione corrispondentista senza impegnarsi su cose la cui esistenza spiega l’esser vere delle proposizioni vere. Come ha sottolineato Jennifer Hornsby, l’intuizione sulla fondatezza della verità è infatti catturata dal principio enunciato alla fine del paragrafo precedente (G) se è vero che p allora è vero che p poiché p. (G) in congiunzione con lo schema che caratterizza il rendere^ vero, implica, il seguente schema: (c) se è vero che p allora nom(p) rende^ vero che p 84 Rendere vero Generalizzando e universalizzando (c) avremo poi il seguente enunciato che esprime l’intuizione corrispondentista, secondo cui la verità è fondata (C) Se una proposizione è vera allora qualcosa la rende^ vera Si potrebbe sostenere che questo enunciato non dica nent’altro che questo: se una proposizione è vera allora c’è una spiegazione del suo essere vera. Questo però mi sembra sbagliato: infatti i sintagmi nominali “nom (p)” al posto dei quali in (C) viene sostituita, generalizzando, l’espressione “qualcosa”, non si riferiscono, se si riferiscono a qualcosa, a spiegazioni (che sono entità linguistiche): una nominalizzazione di “p” non denota, se denota qualcosa, “p” stesso. Questo non significa però nemmeno che i sintagmi in questione denotino degli oggetti diversi dalle spiegazioni. Non tutti gli usi di espressioni come “qualcosa” o “qualcuno” sembrano infatti portare con sé un impegno ontologico su un insieme di entità: possiamo, ad esempio, inferire da “Stefano è alto” “Stefano è qualcosa” o dire anche “c’è una cosa che Stefano è” (aggiungendo “alto”) ma fare ciò non significa pensare che, ad esempio, oltre alle cose alte, come Stefano, vi siano anche cose come l’altezza che Stefano ha92. Quello che sembra corretto dire è piuttosto la cosa seguente. Vi è sicuramente una priorità concettuale degli enunciati della forma b è F poiché p rispetto agli enunciati della forma “nom (p) rende b F”; infatti la comprensione di una nominalizzazione di un enunciato presuppone la comprensione dell’enunciato stesso. Questo comporta che la ragione per asserire (C), cioè che per ogni proposizione vera c’è qualcosa che la rende vera, risiede nel fatto che tutte le esemplificazioni dello schema (G) sono vere: per ogni proposizione vera c’è qualcosa che la rende vera poiché per ogni proposizione vera c’è una spiegazione del suo esser vera. D’altra parte asserire che per ogni proposizione vera c’è qualcosa che la rende vera non significa asserire che per ogni proposizione vere c’è qualche cosa che la rende vera. La cosa importante è dunque non confondere (C) con un principio più forte e cioè (superC) (superC) Per ogni proposizione vera c’è qualcosa che la rende+ vera Questo principio, che è quello sostenuto da molti teorici dei fattori di verità (in particolare coloro come Armstrong o Mulligan che difendono il cosiddetto massimalismo dei fattori di verità) è equivalente alla tesi che per ogni proposizione vera c’è un entità (pleonastica o non) la cui esistenza spiega perché la proposizione è vera. (C) non implica (superC) per la ragione che non tutte le spiegazioni sono spiegazioni esistenziali. E infatti, anche ammettendo, come fa ad esempio Mulligan, che le nominalizzazioni denotino particolari tipi di entità, non è affatto scontato che tali entità siano tali che la loro esistenza spieghi perché le proposizioni siano vere (i fatti pleonastici ad esempio non sono tali). Naturalmente il fatto che (C) non implichi (superC) non esclude che 85 Capitolo II (superC) sia vero. Ma per accettare (superC) non è sufficiente accettare tutte le esemplificazioni di (G) (mentre lo è per accettare (C)). Cosa bisognerebbe fare per difendere (superC)? Ricordiamo che le spiegazioni formano catene che rispettano la proprietà transitiva. Mettiamo ora di voler difendere la tesi che c’è una cosa che rende+necvera la proposizione che quel fiore è rosso. (G) ci assicura che tale proposizione è vera poiché quel fiore è rosso. Ora, se riusciamo a dimostrare che, ad esempio, quel fiore è rosso poiché esiste una certa sfumatura di colore (nel senso del poichénec o del poichécons), allora avremo, in base alla transitività della spiegazione, dimostrato che è vero che quel fiore è rosso poiché esiste quella sfumatura di colore e dunque che la sfumatura di colore rende+nec vero che quel fiore è rosso. Naturalmente il sostenitore di (superC) dovrebbe dare ragioni per pensare che ciò sia vero in tutti i casi o per lo meno in una classe importante di casi. Sembra dunque che il sostenitore di (superC) debba avere una particolare teoria riguardo all’avere proprietà in generale: una teoria in base a cui le cose hanno proprietà che hanno poichénec certe cose esistono; una teoria cioè in base a cui le spiegazioni metafisicamente fondamentali sono di tipo esistenziale93. 5.3. L’analisi di McFetridge Ian McFetridge è probabilmente stato il primo filosofo a sottolineare la connessione fra rendere vero e spiegazioni sostenendo che il rendere vero deve essere così definito: (23) x rende vero y =def x (un certo fatto) spiega il fatto che y è vero94. È però molto importante distinguere questa concezione del rendere vero dalla concezione di cui stiamo trattando in questo paragrafo, quella cioè che ricorre ad enunciati della forma “è vero che p poiché q”. A differenza di quest’ultima infatti la concezione di McFetridge è una concezione relazionale del rendere vero: essa infatti identifica il rendere vero con la relazione di spiegazione sussistente fra due entità (due fatti o due proposizioni vere). Al contrario enunciati della forma “è vero che p poiché q” non dicono che due entità (due fatti o due proposizioni) sono in una certa relazione (la relazione x spiega y): tali enunciati sono spiegazioni ma non parlano di spiegazioni. Questa differenza è molto importante perché è solo grazie ad essa che la concezione non relazionale del rendere vero non incorre in un’obiezione decisiva che può essere mossa alla definizione proposta da McFetridge. L’obiezione è che enunciati della forma “a rende vero che p” e “il fatto che q spiega il fatto che è vero che p” (in cui il fatto che q è un qualche fatto concernente a, ad esempio il fatto che a esiste) parlano di cose diverse, hanno, come si dice, impegni ontologici differenti. Mentre enunciati del primo tipo parlano dell’oggetto cui si riferisce “a” e della proposizione cui si riferisce “che p”, gli enunciati del secondo tipo parlano anche del fatto cui si riferisce “il fatto che q”. Ciò significa che una persona che non 86 Rendere vero creda all’esistenza di cose come i fatti (molti filosofi sono persone di questo tipo) potrebbe benissimo considerare vero l’enunciato “a rende vero che p” e falso l’enunciato “il fatto che q spiega il fatto che è vero che p”; posso ad esempio credere che un certo pigmento renda una certa superficie rossa senza credere che vi sia un’ulteriore entità, diversa dal pigmento in questione, il fatto che questo pigmento esista. Dunque l’enunciato “il fatto che questo pigmento esista spiega il fatto che questa superficie è rossa” non può essere considerato come un’analisi di ciò che è detto dall’enunciato “questo pigmento rende questa superficie rossa”: se così fosse lo scettico sui fatti che crede che questo pigmento rende questa superficie rossa starebbe asserendo una contraddizione e questo sembra intuitivamente falso. Inoltre posso profferire spiegazioni senza perciò avere il concetto di “spiegazione” (così come posso profferire enunciati senza avere il concetto di "enunciato"). La concezione del rendere vero presentata e difesa in questo paragrafo da parte sua non incorre in questa obiezione proprio per il fatto che un enunciato come “questa superficie è rossa perché esiste un certo pigmento” pur essendo una spiegazione non parla né della relazione di spiegazione né delle entità fra cui questa sussiste. 5.4. Rendere vero e ragion sufficiente. Peter Simons ha posto fortemente l’accento sulla relazione fra la richiesta di fattori di verità e il principio di ragion sufficiente: L’idea che le verità richiedano fattori di verità è una versione ontologica del principio di ragion sufficiente, secondo cui ci deve essere una ragione per cui una verità è tale95. Al tempo stesso egli però distingue il senso di “ragione” in cui i fattori di verità sono ragioni dalla nozione di spiegazione: Disambiguando la parola “ragione” in uno di due modi possibili, i fattori di verità sono entità nel mondo che fondano le verità piuttosto che verità che spiegano o implicano altre verità96. Inoltre egli sembra identificare con l’implicazione il modo in cui l’esistenza di un oggetto può essere una ragione della verità di una proposizione, nel senso che un oggetto è una ragione della verità di p se e solamente se la proposizione che quell’oggetto esiste implica p Gli oggetti A rendono la proposizione p vera se e solamente se l’esistenza di A è sufficiente per la verità di p97 Mi sembra che questa proposta nasconda però un errore. Infatti nel primo passo la nozione di fattore di verità è presentata come uno dei due modi per 87 Capitolo II disambiguare l’espressione “essere una ragione” nel principio di ragione sufficiente. Le ragioni possono essere due cose diverse o proposizioni che implicano o spiegano altre proposizioni vere oppure entità (diverse dalle proposizioni) che fondano proposizioni vere. In questa prima lettura l’espressione “ragione” sembrerebbe appunto un’espressione ambigua o il concetto di ragione un concetto puramente disgiuntivo. Questo dovrebbe già insospettire perché l’espressione “ragione” non sembra ambigua come l’espressione italiana “porta” o quella inglese “bank”, forse è un’espressione non definibile esplicitamente ma ambigua non sembra. Inoltre il primo passo non aiuta a distinguere il senso relazionale dal senso inferenziale di “ragione”, infatti non si offre nessun chiarimento di “fondano”. Il secondo passo offre invece un chiarimento del senso in cui debba intendersi “fondare”: il senso, sorprendentemente, è quello dell’implicazione. Dunque sembra che, essendo partiti con la distinzione di due sensi distinti di “ragione” di cui uno veniva escluso dal rendere vero, adesso il senso di “rendere vero” è chiarito in base a un sotto caso del senso che era stato escluso: una relazione di implicazione fra proposizioni. L’implicazione, sia essa necessaria o essenziale, non è però in grado, come si è visto, di fornire condizioni necessarie e sufficienti del rendere vero. La spiegazione sì. CAPITOLO III Verità e fattori di verità 1. Fattori di verità e teoria della verità Una cosa è ammettere che certe entità abbiano una certa proprietà, un’altra è sostenere che l’ammissione dell’esistenza di entità con quella proprietà svolga un ruolo importante all’interno di una qualche teoria e, di conseguenza, sostenere che ci sono ragioni a priori (indipendenti cioè dall’esistenza, di fatto, di qualcosa che ha quella proprietà) per sostenere che vi sono entità che hanno quella proprietà. Quando, nel 1984, Mulligan, Simons e Smith rivendicarono la centralità filosofica della nozione di “fattore di verità”, lo fecero proprio sostenendo la seconda di queste due tesi (e in effetti non sembra esservi nessun altro modo per sostenere che una certa nozione è centrale in una certa disciplina!): dobbiamo ammettere l’esistenza di cose che rendono veri i portatori di verità per analizzare correttamente l’ontologia della verità, cioè le cose sulla cui esistenza deve impegnarsi una teoria corretta e completa della verità. Tali impegni ontologici includono oltre quello sui portatori di verità, le cose che sono vere, quello sui fattori di verità, le entità in virtù di cui le cose vere sono vere98. Se si accetta questa tesi, si accetterà qualche forma più o meno forte di principio del fattore di verità (“truthmaker principle”): o un principio secondo cui per ogni portatore di verità vale che esso è vero se e soltanto se c’è un’entità che lo rende vero99; oppure, alternativamente, un principio, più debole, secondo cui i portatori di verità si possono dividere in due classi: quella dei portatori di verità che sono veri se e soltanto se esiste un’entità che li rende tali, e quella dei portatori di verità che sono funzioni di verità dei primi100. Il primo principio è stato chiamato massimalismo dei fattori di verità, il secondo si può chiamare, in memoria della posizioni di Russel e Wittgenstein cui si rifà, atomismo dei fattori di verità. Si difenderà infatti uno di questi principi come un principio la cui ammissione è richiesta da una teoria corretta e completa della verità101. Una volta giustificato uno di questi principi si disporrà di un argomento a priori per l’esistenza di fattori di verità (assumendo che vi sia almeno una verità). 89 Capitolo III L’estensione dell’ontologia della verità dalle cose vere alle cose che le rendono tali è giustificata sostenendo che alcune teorie della verità che non compiono questo passo, come la teoria tarskiana della verità e le definizioni modellistiche dei predicati di verità che ad essa si ispirano sono inadeguate. La giustificazione del principio del fattore di verità sembra dunque un’inferenza alla migliore spiegazione: vi sono certi fatti concernenti la verità che le definizioni tarskiane e modellistiche non spiegano e l’introduzione nella teoria della verità di entità la cui funzione è di rendere veri i portatori di verità spiega questi fatti. Quali sono questi fatti? Nell’articolo dell’84 ne vengono enunciati due: 1) la distinzione della verità dall’asseribilità; 2) alcuni fatti importanti concernenti la verità degli enunciati elementari di un linguaggio; le definizioni precedenti non spiegano cioè adeguatamente ciò in cui consiste l’esser veri degli enunciati elementari di un linguaggio. In verità nell’articolo si legge che ciò che le definizioni tarskiane e modellistiche non spiegano è “come siano resi veri o falsi gli enunciati riguardanti il mondo reale”102. “Rendere x F”, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ha sia una lettura relazionale che si impegna sull’esistenza di entità che rendono F altre entità, sia una lettura non relazionale che si impegna solo sull’esistenza di ragioni per cui una cosa F, cioè sul fatto che F è una proprietà analizzabile in qualche mondo, che c’è qualcosa in cui consiste l’essere F. Perché interpretare l’espressione “come siano resi veri o falsi gli enunciati” in questo secondo modo piuttosto che nel modo relazionale? Perché se “essere reso vero” in “spiegare come sono resi veri” fosse inteso nel primo senso di “rendere vero” il fatto da spiegare da cui parte l’inferenza alla migliore spiegazione sarebbe che ci sono entità che rendono i portatori di verità veri; dunque l’enunciato che dice ciò che deve essere spiegato (l’explanandum) implicherebbe l’explanans, l’enunciato cioè che dice che esistono entità che rendono i portatori di verità veri (essi sono infatti lo stesso enunciato). Dunque se il “resi veri” fosse inteso nel senso relazionale l’inferenza alla migliore spiegazione sarebbe una paetitio principi in cui l’explanans è una conseguenza analitica dell’explanandum. Mi sembra dunque meglio interpretare il “come siano resi veri” dell’enunciato precedente nel secondo senso di “rendere vero”, nel senso cioè di “spiegare alcuni fatti essenziali riguardo all’esser veri degli enunciati elementari”. Se si interpreta così “come siano resi veri” il fatto che un portatore di verità sia reso vero da qualcos’altro non implica che esista un qualche individuo metafisicamente sufficiente per il suo esser vero, ma semplicemente che la proprietà di esser vero sia esemplificata da quel portatore e che sia una proprietà analizzabile in qualche modo. In questo senso dell’espressione, quando si nega che ci sia qualcosa che rende vero p ma si afferma che p è vero, si sta dicendo che la verità è una proprietà primitiva e inanalizzabile. Che, in questa interpretazione di “rendere F”, l’inferenza alla migliore spiegazione non sarebbe circolare è dimostrato dal fatto che, in tale interpretazione, tutte le teorie della verità ammettono l’esistenza di qualcosa che rende veri gli enunciati; dunque il fatto da cui parte 90 Verità e fattori di verità l’inferenza alla migliore spiegazione sarebbe effettivamente un fatto condivisibile anche da teorie della verità che non ammettono l’esistenza di entità metafisicamente sufficienti per la verità degli enunciati. Ad esempio per una teoria coerentista ciò che rende vero un enunciato sarà la coerenza con un insieme di enunciati, per una teoria pragmatista la sua utilità per la sopravvivenza dell’individuo o della specie, per una teoria deflazionista ci sarà per ogni portatore di verità qualcosa di diverso che lo rende vero: l’enunciato “la neve è bianca” sarà reso vero dall’esser la neve bianca (e, a posteriori, da tutto ciò che rende la neve bianca), l’enunciato “il sole è caldo” sarà reso vero dall’essere il sole caldo; cioè per ogni enunciato si può enunciare «”p” è vero poiché p»103. In base a una definizione tarskiana ciò che rende vero un enunciato sarà il suo esser soddisfatto da tutte le sequenze e ciò che rende soddisfatto un enunciato s da una sequenza g varierà, come per i deflazionisti, con l’enunciato. La tesi dei sostenitori dei fattori di verità sarà dunque che tutte queste teorie, nella fattispecie quella tarskiana, forniscono un’analisi sbagliata o comunque incompleta di ciò che rende veri gli enunciati elementari, cioè di ciò in cui consiste il loro esser veri e che l’introduzione della nozione di fattore di verità risolve il problema. Qual è il motivo per cui l’analisi tarskiana è insufficiente? Di che genere di fatti concernenti la verità degli enunciati elementari questa teoria non rende conto? Ciò che accomuna i fatti in questione è che essi concernono (o per lo meno dipendono da) le relazioni linguaggio/mondo mente/mondo104: una spiegazione di questi fatti, e dunque una teoria adeguata della verità, potrà dunque venire da “uno studio diretto della connessione fra portatori di verità e fattori di verità, le entità nel mondo in virtù di cui gli enunciati o le proposizioni sono vere”105 . La strategia che seguirò è la seguente: prendendo spunto da una critica, fatta nell’articolo dell’84, nei confronti del modo in cui una definizione in stile tarskiano specifica le condizioni di verità degli enunciati elementari, prenderò in esame alcuni dei fatti concernenti la verità degli enunciati elementari che si potrebbe pensare una teoria di questo genere non spieghi. Per ognuno di tali fatti sosterrò che vale almeno una di queste tre cose: 1) essi non sono fatti riguardanti direttamente la verità; 2) essi sono spiegati dalla definizione tarskiana di verità; 3) essi non sono spiegati né dalla definizione tarskiana di verità né dall’introduzione nella teoria della verità della nozione di fattore di verità (o di cose che svolgano tale ruolo). 2. Un primo presunto limite: specificazione delle condizioni di verità Che un enunciato sia vero a certe condizioni sembra un fatto importante riguardo all’esser vero di quell’enunciato, un fatto che dunque una buona 91 Capitolo III teoria della verità dovrebbe spiegare o per lo meno descrivere. Le condizioni di verità di un enunciato sono espresse da enunciati come il seguente: (1) l’enunciato dell’italiano “la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca. Dunque una buona teoria della verità dovrebbe contenere fra i suoi teoremi enunciati di questo tipo. Se inoltre le condizioni di verità di un enunciato sono intese come quei vincoli che un enunciato pone su come deve essere fatto un mondo perché l’enunciato sia vero in quel mondo, allora il dare conto delle condizioni di verità di un enunciato è un senso in cui si può intendere l’espressione “delucidazione delle relazioni linguaggio-mondo”. Qual è più precisamente il limite, a tale riguardo, delle definizioni tarskiane e modellistiche di verità? Esso è individuato nel fornire “pseudodelucidazioni” di questo tipo: (2) una predicazione monadica “Pa” è vera sse a è un membro dell’insieme che è l’estensione di “P”106. E il loro essere pseudo-delucidazioni dipende dal fatto che esse non specificano quale sia l’insieme che è denotato da ciascun predicato del linguaggio: Quali che siano i loro vantaggi formali, approcci di questo tipo non spiegano per nulla come gli enunciati sul mondo reale siano resi veri o falsi. Poiché l’estensione di “P” è semplicemente l’insieme degli oggetti tali che, se sostituiamo “x” in “Px” con un nome dell’oggetto in questione, otteniamo un enunciato vero107. Su ciò due punti. In primo luogo né la definizione tarskiana né quella modellistica di verità possono essere accusate di cripto-circolarità; nessuna delle due infatti specifica le condizioni di verità (nel caso della definizione modellistica l’estensione dei predicati, nel caso della definizione tarskiana le condizioni di soddisfacimento) usando il predicato di verità definito e una clausola sostituzionale (la definizione modellistica non specifica affatto tali estensioni nel senso che non distingue fra l’estensione di due predicati della stessa molteplicità)108. In secondo luogo, le definizioni modellistiche di verità e le definizioni dei predicati di verità tarskiani sono molto diverse fra loro anche se le prime utilizzano le tecniche logiche tarskiane: la differenza consiste nel fatto che il predicato di verità tarskiano rappresenta una nozione assoluta di verità in L che presuppone che il linguaggio oggetto sia già interpretato e compreso: altrimenti non avrebbe senso che la convenzione T 92 Verità e fattori di verità ponga, come requisito di adeguatezza materiale per la definizione che, nelle esemplificazioni dello schema di equivalenza, il lato destro del bicondizionale sia una traduzione nel metalinguaggio dell’enunciato del linguaggio oggetto citato o descritto nel lato sinistro109. Al contrario, le definizioni modellistiche di verità definiscono il predicato “vero in L relativamente a un’interpretazione” considerando il linguaggio oggetto come un’entità puramente sintattica. Da questa differenza discende che le definizioni modellistiche di verità non sarebbero state considerate da Tarski adeguate materialmente, non potendosi derivare da esse per via puramente logica le esemplificazioni dello schema T: perché ciò sia possibile bisognerebbe infatti aggiungere alle clausole di tali definizioni degli assiomi che specifichino l’interpretazione intesa del linguaggio oggetto. Ma dunque la differenza principale fra una definizione tarskiana e una modellistica del predicato di verità per un linguaggio sembra essere che la prima non soffre di quel limite che Mulligan, Simons, Smith imputano ad entrambe: il non specificare le condizioni di verità degli enunciati atomici del linguaggio. Da una definizione tarskiana di “vero in italiano” per un frammento dell’italiano contenente solo i due enunciati “Pippo corre” e “Pippo dorme” si riesce infatti a derivare i bicondizionali «l’enunciato “Pippo corre” è vero in italiano sse Pippo corre» e «l’enunciato “Pippo dorme” è vero in italiano sse Pippo dorme». Essa infatti conterrà due clausole per il soddisfacimento delle formule atomiche “t corre” e “t dorme” di questo tipo: (3) la formula formata da un termine t e da “corre” è soddisfatta da una sequenza sse a)t è la variabile “xi” e l’i-esimo oggetto della sequenza corre oppure b) t è “Pippo” e Pippo corre. Da ciò deriva che se “Pippo corre” è soddisfatto da una sequenza, allora è soddisfatto da tutte e che definendo la verità in italiano come soddisfacimento da parte di tutte le sequenze potremo derivare dalla definizione entrambi i lati del bicondizionale «“Pippo corre” è vero in italiano sse Pippo corre». Dunque se rendere conto della verità degli enunciati elementari del linguaggio significa essere in grado di derivare per ogni enunciato elementare la sua condizione di verità la definizione tarskiana sembra perfettamente adeguata110. Si potrebbe però concedere questo e sostenere che, anche se la definizione tarskiana specifica le condizioni di verità degli enunciati, non lo fa in maniera informativa riguardo alla conoscenza del significato degli enunciati del linguaggio oggetto. Infatti per riconoscere i bicondizionali materiali derivati da una definizione di un predicato tarskiano (il cui significato non conosco ancora) come espressioni delle condizioni di verità degli enunciati di L devo conoscere il significato degli enunciati di L (se no potrei anche pensare che mi si sta dando la definizione di “falso in L”). D’altra parte se conosco il significato degli enunciati di L, e dunque riconosco i teoremi della definizione come espressioni delle condizioni di verità degli enunciati di L, non ottengo dalla definizione 93 Capitolo III alcuna informazione sul significato degli enunciati di L (infatti queste informazioni le ho già)111. Ma questo è effettivamente un limite per una teoria della verità? Qui è essenziale distinguere tra teoria del significato e definizione di verità. La critica vale solo nei confronti di chi vuole usare la definizione di Tarski sia come definizione di verità sia come teoria del significato, intesa come una teoria che rappresenta la conoscenza linguistica di un parlante competente, così come aveva fatto inizialmente Davidson112. Solo nei confronti di questa tesi è giustificata l’obiezione che se non conosco il significato degli enunciati del linguaggio oggetto non posso riconoscere la definizione tarskiana come qualcosa che mi dice le condizioni di verità per quel linguaggio. Le osservazioni di Dummett sono cioè condizionali: se una definizione tarskiana dà informazioni sulle significato di “vero in L” allora non dà informazioni sul significato degli enunciati di L; viceversa se deve dare informazioni sul significato degli enunciati di L allora non ne dà sul significato di “vero in L” (perché bisogna conoscere già il significato di “vero in L”). Dunque, anche la critica basata sulle osservazioni di Dummett ha un valore condizionale: se la nostra comprensione linguistica consiste nella conoscenza delle condizioni di verità degli enunciati, allora quella verità di cui esse sono condizioni non può essere ciò che è definito da Tarski. Cioè: se la nozione di verità è centrale nella nostra conoscenza linguistica allora la definizione tarskiana non definisce la nostra nozione di verità113. Nella prospettiva di Tarski invece non ha senso chiedere che la conoscenza delle condizioni a cui un enunciato di L è vero in L siano informative sul significato degli enunciati di L: l’informazione che la definizione vuole fornire, infatti, è incompatibile con la precedente. La definizione vuole fornire informazioni sul contenuto di un predicato (“vero in L”), e lo fa fornendo informazioni sulle condizioni della sua applicazione ad enunciati di L, presupponendo che questi siano già compresi. L’intuizione da cui muove Tarski, e che secondo lui rispecchia la nostra nozione di verità, è che tale nozione sia la nozione di una proprietà posseduta da enunciati interpretati e compresi: interpretare “p” come espressione delle condizioni di verità di “q” presuppone la conoscenza del fatto che “p” ha lo stesso significato di “q”, che “p” è una traduzione di “q”; e per sapere una cosa del genere (almeno secondo Tarski), devo già conoscere il significato di “q”. Ciò sembra rispecchiare il carattere della nostra nozione di verità. Quando un parlante dell’italiano deve decidere se un dato enunciato dell’italiano esprime o non esprime le condizioni a cui è vero l’enunciato francese “la neige est blanche” (di cui non conosce la traduzione), egli si chiederà quale sia il significato di tale enunciato: egli penserà ad esempio che la condizione di verità di “la neige est blanche” è che la neve è bianca se e solamente se “la neige est blanche” significa che la neve è bianca, cioè se il significato di “la neige est blanche” è lo stesso di “la neve è bianca” o, equivalentemente, se i due enunciati sono in una relazione di traduzione. Ma se la nozione di verità è tale 94 Verità e fattori di verità che l’individuazione di una condizione di verità dipende dall’individuazione di una relazione di traduzione fra enunciati, o dalla conoscenza della loro identità di significato (individuazione banale nel caso in cui l’enunciato di cui si deve individuare la condizione di verità è un enunciato che si comprende), allora non c’è nulla di sbagliato nel fatto che una definizione di verità non delucidi quali siano le condizioni di verità degli enunciati indipendentemente dalla previa comprensione degli enunciati stessi. Lo schema che descrive la regola mediante cui le condizioni di verità vengono individuate sembra essere cioè: (4) la condizione di verità di s è che p, dove “s” deve essere sostituito col nome di un enunciato e “p” con l’enunciato stesso o con una sua traduzione. E naturalmente (4), se si sostituisce a “la condizione di verità di s è che” “s è vero sse”, diventa lo schema dei bicondizionali che Tarski considera come definizioni parziali di verità. Si potrebbe obiettare che dal fatto che chiedersi se un enunciato abbia una data condizione di verità sia chiedersi se abbia un certo significato non si può inferire che l’individuazione delle condizioni di verità presupponga l’individuazione del significato, dunque la comprensione dell’enunciato. Potrebbe infatti essere vero l’inverso: che l’individuazione del significato di un enunciato, e dunque la sua comprensione, consista nell’individuazione delle sue condizioni di verità. Il problema di questa proposta è che non sembra esserci nessuna nozione di condizione di verità adatta a svolgere questo ruolo. Ognuna delle nozioni proposte sembra infatti non essere in grado di garantire il risultato desiderato: cioè che l’identità di condizioni di verità di due enunciati garantisca l’identità di significato. È questo il caso sia della nozione di condizione di verità come insieme dei mondi possibili in cui l’enunciato è vero, sia quella di condizione di verità come insieme di situazioni (mondi possibili che possono essere anche incoerenti e incompleti) in cui l’enunciato è vero114. Infatti ci sono enunciati dal significato intuitivamente diverso che sono veri negli stessi mondi possibili e nelle stesse situazioni115. La nozione di fattore di verità potrebbe essere introdotta, come un ulteriore raffinamento di questi tentativi. I significati degli enunciati non sono cioè né insiemi di mondi possibili, né situazioni astratte ma complessi di entità che rendono le proposizioni vere. Sembrano però rimanere gli stessi problemi: una stessa entità, Venere, può rendere veri due enunciati dal significato diverso come “Espero = Espero” e “Espero = Fosforo”. Stesso discorso vale anche per i fatti: se un fatto è identificato dai suoi costituenti, il fatto che rende vero l’enunciato “Stefano Caputo scrive il 13 novembre” è lo stesso che rende vero “Io scrivo oggi” (detto da me oggi) anche se i due enunciati sembrano avere un significato diverso. Se, d’altra parte, si dice che i due fatti sono diversi, allora sembra che la loro individuazione (in quanto fatti distinti) sia parassitaria rispetto all’individuazione della differenza semantica fra i due enunciati. 95 Capitolo III Dunque l’alternativa sembra essere: o si appiattiscono i significati di moltissimi enunciati l’uno sull’altro o si moltiplicano le entità ad immagine dei significati. Ma, se si fa questo, è legittimo avanzare il sospetto che si era avanzato nei confronti delle condizioni di verità: che l’identificazione di due diversi fattori di verità dipenda dall’identificazione di due diversi significati e non viceversa; e che dunque siano i significati a classificare i fattori di verità e non viceversa. Tutto ciò sembra confermare che bisognerebbe invertire i termini della spiegazione: non è l’individuazione di una condizione di verità ciò in virtù di cui sappiamo che un enunciato ha un certo significato ma, al contrario, è in virtù del fatto che comprendiamo un enunciato che possiamo individuarne la condizione di verità. Ma questa è per l’appunto la caratteristica del predicato di verità definito da Tarski: sapere se la definizione di un certo predicato è una buona definizione di verità, sapere cioè se certi enunciati esprimono le condizioni di verità di altri enunciati, presuppone la comprensione di questi ultimi e cioè (nel caso si tratti di lingue diverse) la conoscenza del fatto che i primi sono traduzioni dei secondi (questo è infatti il contenuto della convenzione T). 3. Un secondo presunto limite: contingenza delle condizioni di verità C’è un secondo senso in cui si può sostenere che la delucidazione tarskiana delle condizioni di verità di un enunciato di un dato linguaggio è una pseudodelucidazione. Si potrebbe cioè ragionare in questo modo: è certamente un fatto riguardo all’esser vero dell’enunciato italiano “la neve è bianca” che esso è vero se e solo se la neve è bianca. La teoria tarskiana, come si è visto, è in accordo con ciò: infatti dalla definizione tarskiana è deducibile che “la neve è bianca” è vero in italiano se e soltanto se la neve è bianca (mentre non è deducibile che “la neve è bianca” è vero in italiano se e soltanto se la neve è verde). Ma non tutti i fatti concernenti il possesso di una certa proprietà da parte di una cosa sono fatti essenziali riguardo al possesso di quella proprietà da parte di quella cosa. Un modo di intendere l’essere essenziale di un fatto è questo: un fatto è essenziale riguardo al possesso di una certa proprietà da parte di una certa cosa se è impossibile che quella cosa abbia quella proprietà e che quel fatto non sussista e viceversa. Ora sembrerebbe desiderabile che una teoria della verità ci dicesse tutti o almeno alcuni dei fatti essenziali riguardo all’esser vero. Se invece una teoria si limita a descrivere fatti contingenti riguardo all’esser vero, cioè se dai suoi assiomi e definizioni sono derivabili solo enunciati contingentemente veri, allora la teoria sarà insoddisfacente. A meno che essa non spieghi tali fatti contingenti partendo da fatti non contingenti, ovvero deduca gli enunciati contingenti da enunciati necessari più alcune premesse contingenti. In quest’ultimo caso potremo dire che la teoria spiega/delucida perché quei fatti contingenti sussistano piuttosto che non sussistere. Nel primo caso diremo invece che la teoria fornisce 96 Verità e fattori di verità pseudo-delucidazioni di quei fatti (nel senso che si limita ad enunciarli). Ora, il critico può osservare, enunciati come «“la neve è bianca” è vero in italiano sse la neve è bianca» sono enunciati contingenti: l’enunciato italiano “la neve è bianca” avrebbe potuto avere come condizione di verità non che la neve sia bianca ma che la neve sia verde. Se infatti nella comunità di parlanti che vive in Italia le unità sintattiche costituenti l’enunciato fossero state usate in modo diverso da come sono usate di fatto, quell’enunciato avrebbe avuto condizioni di verità diverse. Ma la definizione tarskiana di verità non spiega affatto perché una formula come “x1 è bianco” sia soddisfatta in italiano da una sequenza se e solamente se il primo oggetto della sequenza è bianco piuttosto che se e solamente se il primo oggetto della sequenza è verde. Infatti non c’è alcun enunciato necessario da cui è derivato (unitamente ad alcune premesse contingenti) l’enunciato, secondo il critico, contingente (5) la formula “xi corre” è soddisfatta da una sequenza sse l’i-esimo oggetto della sequenza corre. Enunciati come (5) costituiscono infatti le clausole di base della definizione di verità: tali clausole sono quelle da cui vengono derivati i bicondizionali T, ma esse non vengono derivate, nella teoria, da null’altro. Di conseguenza, essendo definita la verità in base alla nozione di soddisfacimento, la definizione non spiega perché l’enunciato “la neve è bianca” sia vero in italiano se e solamente se la neve è bianca piuttosto che se e solamente se la neve è verde limitandosi semplicemente ad constatare il fatto116. Partendo dalle stesse considerazioni, concernenti la contingenza del possesso di determinate condizioni di verità da parte di un enunciato dell’italiano, si può fare una critica, non all’esplicatività della teoria tarskiana della verità, ma all’adeguatezza della definizione tarskiana di verità. Si può cioè dire: ciò che Tarski chiama “verità in italiano” è una proprietà che l’enunciato italiano “la neve è bianca” avrebbe posseduto se e soltanto se la neve è bianca, anche se i parlanti dell’italiano avessero usato “la neve è bianca” per dire che la neve è verde. Ma ciò che noi chiamiamo “verità in italiano” non è una proprietà di cui “la neve è bianca” avrebbe goduto, in un mondo possibile in cui: a) la neve è bianca e b) gli italiani usano “la neve è bianca” per dire che la neve è verde. Infatti in quel mondo possibile “la neve è bianca” sarebbe stato falso! Dunque ciò che Tarski definisce non è la nostra nozione di verità117. Entrambi gli argomenti presuppongono però che sia un fatto contingente che un enunciato abbia certe condizioni di verità piuttosto che altre. Ma è un fatto contingente riguardo alla verità di un dato enunciato che esso abbia certe condizioni di verità piuttosto che altre solo se l’enunciato e il linguaggio di cui fa parte sono identificati come entità puramente sintattiche, cioè se si assume che un enunciato rimane lo stesso enunciato (e un linguaggio lo stesso linguaggio) al variare dell’interpretazione della sua forma grafica/fonetica. Su ciò alcune osservazioni. 97 Capitolo III Innanzitutto, questo non è certamente il modo in cui nella teoria tarskiana vengono considerati gli enunciati: se gli enunciati cui si applica il predicato di verità tarskiano fossero entità non interpretate non sarebbe possibile nemmeno formulare la teoria perché non sarebbe possibile applicare ad essa la convenzione T che richiede che i lati destri dei bicondizionali derivati dalla teoria siano traduzione degli enunciati del linguaggio oggetto citati a sinistra.118 Non esiste però una traduzione di un’entità individuata sintatticamente (dunque a fortiori non ne esiste una traduzione corretta). “italiano”, nel predicato “vero in italiano” che è definito da Tarski, denota l’italiano, quella lingua in cui “neve” si riferisce alla neve e non un insieme di entità sintattiche che possono ricevere un’interpretazione piuttosto che un’altra. In secondo luogo, questo non sembra il modo ordinario di identificare gli enunciati, i loro costituenti (le parole) e il linguaggio: se gli individui appartenenti a una certa comunità applicano sistematicamente “bianco” alle cose verdi, il modo più naturale di descrivere la situazione sembra quello di dire che in tale comunità non si parla l’italiano ma una lingua in tutto uguale all’italiano tranne per il fatto che la replica sintattica |bianco| è in essa una parola diversa dalla parola dell’italiano “bianco”. E, poiché un enunciato è individuato dalle parole che lo compongono e dalla loro disposizione, se gli individui che abitano nella penisola a Sud delle Alpi avessero usato in questo modo la replica sintattica biancoessi avrebbero proferito un enunciato diverso da quello che di fatto proferiscono: un enunciato vero se e soltanto se la neve è verde. In terzo luogo, l’intendere gli enunciati come entità puramente sintattiche, e dunque il presupporre che le condizioni di verità siano possedute dagli enunciati solo relativamente ad un certo uso che i parlanti fanno di essi, fa dipendere la verità di un enunciato in un mondo dal sussistere in quel mondo di certi fatti concernenti l’uso delle entità sintattiche in questione, dunque dall’esistenza di parlanti in quel mondo. Ma ciò sembra difforme dalla nostra nozione di verità che sembra essere una nozione assoluta, non relativizzata a fatti linguistici: l’unica cosa necessaria e sufficiente per la verità in un mondo dell’enunciato “la neve è bianca” è che in quel mondo la neve sia bianca, indipendentemente dall’esistenza o meno di parlanti in quel mondo119. Un argomento per il fatto che la nostra nozione di verità sia una nozione assoluta è quello basato sull’uso del predicato di verità: come ha sottolineato Field, se la nostra nozione di verità non fosse una nozione assoluta (nel senso di non relativa a fatti linguistici) sarebbe difficile spiegare l’uso del predicato di verità per asserire o negare disgiunzioni o congiunzioni infinite di enunciati120. Se infatti l’esser vero di un enunciato consistesse in due fatti: 1) il fatto che l’enunciato (inteso come entità sintattica) ha una qualche condizione di verità; 2) il fatto che tale condizione di verità sia soddisfatta; allora negare la verità di un enunciato non sarebbe equivalente a negare l’enunciato stesso ma equivarrebbe ad asserire una disgiunzione: o l’enunciato non ha una certa condizione di verità oppure quella certa condizione di verità non è soddisfatta. Viceversa affermare la verità dell’enunciato sarebbe equivalente ad asserire un condizionale: se 98 Verità e fattori di verità l’enunciato ha una certa condizione di verità allora quella condizione di verità sussiste. Dunque da “la neve è bianca” è vero non si potrebbe inferire “la neve è bianca” e viceversa, dunque il predicato di verità non potrebbe essere usato per asserire gli enunciati cui si applica e, a fortiori, non potrebbe essere usato per asserire (o negare) congiunzioni infinite di enunciati. La conclusione è dunque che un controfattuale «”la neve è bianca” avrebbe potuto essere vero anche se la neve fosse stata verde» è falso a meno che non sia interpretato in uno dei due seguenti modi. 1) Come un enunciato vertente non sull’enunciato italiano “la neve è bianca” ma sull’esistenza possibile di un linguaggio, diverso dall’italiano, che contiene un enunciato diverso dall’enunciato italiano “la neve è bianca” (che condivide con esso solo la forma grafica e fonetica), il quale è vero se e soltanto se l’erba è verde. 2) Si può adottare la distinzione, sottolineata da Kripke, fra verità necessarie/contingenti e verità a priori/a posteriori o fra possibilità metafisica e possibilità epistemica. Quando cioè diciamo che l’enunciato “la neve è bianca” avrebbe potuto essere vero se e solamente se la neve è verde, intendiamo dire che non conosciamo a priori l’italiano, che avremmo potuto essere in una situazione in cui, date le nostre conoscenze in quella situazione, non saremmo stati incoerenti se avessimo asserito l’enunciato falso (e necessariamente falso): «l’enunciato italiano “la neve è bianca” è vero sse la neve è verde». Dunque, quando asseriamo che “la neve è bianca” avrebbe potuto essere vero se e solamente se la neve è verde, intendiamo parlare di un nostro stato espistemico non del fatto che una certa cosa possiede contingentemente una certa proprietà. Quando si dice che l’enunciato “la neve è bianca” avrebbe potuto essere vero se e soltanto se la neve è verde non si sta negando che l’enunciato avrebbe potuto essere diverso da quello che è o che il suo esser vero avrebbe potuto consistere in qualcosa di diverso dall’essere la neve bianca. Si sta affermando qualcosa che dipende dal fatto che non abbiamo una conoscenza a priori di un certo linguaggio e ciò non è che un caso particolare del fatto che, in generale, non abbiamo una conoscenza a priori del mondo che ci circonda (ad esempio non abbiamo una conoscenza a priori della natura delle sostanze che ci circondano). Allo stesso modo quando asseriamo che l’acqua avrebbe potuto essere XYZ vogliamo solo dire che date le conoscenze che avevamo su un certo liquido non sarebbe stato contraddittorio asserire: «la struttura chimica di quel liquido è XYZ». Ma così come il fatto che non conosciamo a priori la struttura chimica di un certo liquido non è una buona ragione per sostenere che è una proprietà contingente di quel liquido l’avere quella certa struttura chimica, allo stesso modo il fatto che non conosciamo a priori una certa proprietà di un enunciato (l’avere certe condizioni di verità) non significa che questa proprietà sia posseduta contingentemente da quell’enunciato. Dire che a possiede necessariamente la proprietà di essere F a certe condizioni (di avere certe condizioni di F-ità) è equivalente a dire che è impossibile che a sia F e che tali condizioni non siano soddisfatte, e che dunque l’essere soddisfatte di tali condizioni è un fatto necessario (e 99 Capitolo III sufficiente) perché a sia F. Dunque se un enunciato possiede necessariamente la proprietà di essere vero a certe condizioni (di avere certe condizioni di verità), allora l’essere soddisfatte di tali condizioni è necessario (e sufficiente) perché tale enunciato sia vero. In particolare se l’enunciato italiano “la neve è bianca” possiede necessariamente la proprietà di esser vero se e soltanto se la neve è bianca, l’essere la neve bianca è necessario riguardo a l’essere vero di tale enunciato. Dunque una teoria che contiene l’enunciato «l’enunciato italiano “la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» enuncia un fatto metafisicamente necessario riguardo all’esser vero di tale enunciato. In particolare la teoria tarskiana considererà questo fatto come dipendente da altri fatti necessari considerati come primitivi (che la formula “x1 è bianco” è soddisfatta da una sequenza se il primo oggetto di essa è bianco)121. Ma se ciò che si chiede a una teoria della verità è di descrivere fatti essenziali, dunque necessari, riguardo alla verità, che certi fatti descritti dalla teoria non siano conosciuti a priori non dovrebbe essere considerato come un limite della teoria: un fatto può non essere conosciuto a priori ma essere non di meno un fatto necessario riguardo al possesso una certa proprietà122. Dunque il secondo presunto limite della teoria tarskiana della verità non è un limite. 4. Un terzo presunto limite: discrepanza con la nozione di verità S. Soames ha sostenuto che la definizione tarskiana di “vero in inglese” non cattura la nozione di verità in inglese123. Il suo argomento si può ricostruire così: 1) se un parlante competente è disposto a fare delle inferenze diverse con due predicati “P” e “Q” allora i due predicati esprimono nozioni diverse. 2) Sia s un parlante dell’italiano che: a) impari la definizione tarskiana del predicato di verità in inglese, chiamiamolo “T”, (naturalmente senza sapere che quel predicato è coestensionale al predicato “vero in inglese”)124; b) non sappia l’inglese125. s fa delle inferenze diverse con “T” e “vero in inglese”. Dunque 3) “T” e “vero in inglese” esprimono nozioni diverse126. Le diverse inferenze che s è disposto a fare con “T” e “vero in inglese” sono formulate in (a-d). (a) s è disposto a inferire da «“snow is white” è T» «la neve è bianca» e viceversa. Dunque egli accetta il bicondizionale «“snow is white” è T sse la neve è bianca». Se si osserva che tale bicondizionale è asseribile dal parlante semplicemente in base alla conoscenza della definizione di “T” e se si osserva che tale conoscenza è quella che fa di s un parlante competente riguardo a “T”, si può dire che s conosce il bicondizionale in questione in base alla sua conoscenza del significato di “T”, dunque che tale conoscenza è per s una verità a priori. (b) s non è disposto a inferire da «“snow is white” è vero in inglese» «la neve è bianca» e viceversa. Infatti dato che non sa nulla di inglese non può escludere che “snow is white” sia vero in inglese se e soltanto se la neve non è bianca. Dunque il bicondizionale «“snow is white” è vero sse la neve 100 Verità e fattori di verità è bianca» non è conosciuto a priori da s (in virtù della sua comprensione delle altre espressioni occorrenti nell’enunciato). Bisogna sottolineare come la differenza fra un predicato tarskiano e il predicato di verità riguardo alla conoscenza apriori dei bicondizionali valga, secondo Soames, anche quando i bicondizionali sono omofonici e più in generale quando gli enunciati del linguaggio oggetto sono compresi. Nemmeno bicondizionali omofonici come «”la neve è bianca” è vero in italiano sse la neve è bianca» o «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» sono conosciuti a priori da un parlante dell’italiano. Il parlante infatti può non sapere che l’enunciato citato è identico all’enunciato che egli usa, che è cioè un enunciato della lingua che parla (ciò, nel primo caso, è equivalente a non sapere che la lingua che parla è l’italiano). Quest’osservazione è importante perché sembra escludere la correttezza di qualsiasi teoria della verità che consideri come costituiva della nostra nozione di verità l’accettazione o la disposizione all’asserzione di Tenunciati (anche omofonici)127. Dunque sia di una definizione tarskiana di verità per un linguaggio che si comprende, sia delle teorie decitazionali della verità, le quali appunto considerano i bicondizionali omofonici, in cui il linguaggio oggetto è la lingua che si comprende, come verità a priori. (c) s non ottiene dalla conoscenza del bicondizionale «“snow is white” è T sse la neve è bianca» nessuna informazione sul significato dell’enunciato inglese “snow is white”. Dunque s non accetta il condizionale «se “snow is white” è T sse la neve è bianca allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca». L’argomento per questa tesi è il seguente. Qual è per s il contenuto dell’enunciato «“snow is white” è T sse la neve è bianca»? La risposta dovrebbe risultare sostituendo a “T” il suo definiens; ma il risultato di tale sostituzione è (eliminando i disgiunti contenenti identità false come “snow is white” = “snow is red” e la neve è rossa): «(“snow is white” = “snow is white” e la neve è bianca) sse la neve è bianca». Ma questa informazione è compatibile con l’avere “snow is white” qualsiasi significato in inglese: l’identità di un enunciato con se stesso (“snow is white”) e il fatto che la neve è bianca se e soltanto se la neve è bianca sono fatti indipendenti dall’uso che i parlanti della lingua inglese fanno delle repliche sintattiche /snow/ /is white/ e /snow is white/. Più in generale sono fatti indipendenti da qualsiasi altro fatto la cui conoscenza si possa considerare informativa sul significato. Dunque tali fatti possono essere conosciuti da un parlante dell’italiano senza che questi abbia alcuna informazione sul significato dell’enunciato inglese «snow is white». Se diciamo che il bicondizionale «”snow is white” è T sse la neve è bianca» esprime le condizioni di T-ità di “snow is white”, allora la conoscenza di tali condizioni non fornisce ad s alcuna informazione sul significato di “snow is white”128. Dunque, si può dire, la concezione della verità di Tarski è solo in un certo senso una concezione semantica (come lui stesso la definì) perché il requisito di adeguatezza che la metateoria pone su tutte le definizioni degli specifici 101 Capitolo III predicati di verità, riguarda il rispetto della relazione di traduzione nei teoremi derivati dalle singole definizioni. I singoli predicati definiti da Tarski però non hanno un contenuto semantico: nel senso che non dicono nulla sulle proprietà di significato degli enunciati del linguaggio oggetto. E, in questo senso, si può dire che la nozione definita da Tarski è una nozione non semantica: è cioè la nozione di una proprietà il cui possesso da parte di un enunciato non è relativizzato al soddisfacimento di condizioni concernenti le proprietà di significato dell’enunciato stesso129. (d) Se qualcuno informa s del fatto che “snow is white” è vero sse la neve è bianca, s inferisce che “snow is white” non significa che la neve non è bianca. Dunque dalla conoscenza delle condizioni di verità di “snow is white” s ottiene delle informazioni sul significato di “snow is white”, ovvero egli accetta il condizionale «se “snow is white” è vero in inglese sse la neve è bianca allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca»130. Si potrebbe osservare che se s accetta sia «”snow is white” è vero sse la neve è bianca» sia «”snow is white” è T sse la neve è bianca» sia «”se “snow is white” è vero sse la neve è bianca allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca», allora (logica proposizionale) s accetta anche «se “snow is white” è T sse la neve è bianca allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca». Mi sembra però che ciò non tocchi la differenza fra i ruoli inferenziali dei due predicati: infatti se s non possedesse il predicato “T” continuerebbe ad accettare il condizionale «se “snow is white” è vero in inglese sse la neve è bianca allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca» mentre se non avesse il predicato “è vero in inglese” non accetterebbe il corrispondente condizionale con “T”. (a), (b), (c) e (d) dimostrano che i ruoli inferenziali di “T” e di “vero in inglese” sono diversi dunque il predicato tarskiano di verità per l’inglese esprime una nozione diversa dal nostro predicato di verità ristretto all’inglese131. Un altro modo di descrivere questa differenza fra la nozione espressa dal predicato definito da Tarski e la nostra nozione di verità è la seguente. Se la definizione mediante cui è introdotto “T” fosse un’analisi della nozione di verità allora s dovrebbe, in base alla conoscenza di tale definizione, accettare tutte le esemplificazioni dello schema p è vero in inglese se e soltanto se p è T ottenute sostituendo a “p” un nome virgolettato di un enunciato dell’inglese. Questo è un requisito di una buona analisi applicabile in generale: se la definizione del predicato “R” deve contare come analisi di una nozione espressa dal predicato “Q” allora un parlante che è supposto comprendere “Q” e che comprenda la definizione di “R” dovrebbe accettare l’enunciato «qualcosa è R sse qualcosa è Q». Ma s non accetta nessuna di tali esemplificazioni perché s non comprende l’inglese. Infatti s, in base alla conoscenza della definizione di T, accetta una lista di bicondizionali; ad esempio accetta il bicondizionale «”snow is white” è T sse la neve è bianca». D’altra parte in base alla sua nozione di verità, s 102 Verità e fattori di verità accetta ogni enunciato ottenuto dal seguente schema sostituendo alla lettera “p” un enunciato dell’italiano: (V) ∀x∀y [(x è un enunciato italiano & y è un enunciato inglese & x traduce y) → y è vero sse x = “p” & p]132. È proprio questa caratteristica della nostra nozione di verità che giustifica l’adozione da parte di Tarski della convenzione T come requisito di adeguatezza materiale delle definizioni dei predicati di verità. Ma, non comprendendo l’inglese, s non può escludere che l’enunciato inglese “snow is white” si traduca con l’enunciato “la neve non è bianca”. Dunque non può escludere che, in base alla sua nozione di verità, debba accettare l’enunciato «“snow is white” è vero sse la neve non è bianca». Ma allora egli non accetterà l’enunciato «“snow is white” è T sse “snow is white” è vero»: se lo facesse, e “snow is white” si traducesse con “la neve non è bianca”, allora dovrebbe accettare l’enunciato contraddittorio «la neve è bianca sse la neve non è bianca». Infatti da “la neve è bianca” dovrebbe inferire «“snow is white” è T» (per la definizione di “T”). Ma da «“snow is white” è T» dovrebbe inferire «“snow is white” è vero in inglese» (sotto l’ipotesi della coestensionalità fra “vero in inglese” e “T”). Infine da «“snow is white” è vero in inglese» dovrebbe inferire “la neve non è bianca” (per l’esemplificazione su “snow is white” dell’esemplificazione dello schema in cui a “p” si sostituisce “la neve non è bianca”, data l’assunzione del sussistere della relazione di traduzione fra “snow is white” e “la neve non è bianca”). Stesso discorso vale cominciando da «la neve non è bianca». Non solo s non può escludere che “T” non sia coestensionale a “vero in inglese” ma non può neanche escludere che “T” significhi (o sia per lo meno coestensionale a) “falso in inglese”. Infatti la nozione di “falso in inglese” è tale che s accetta tutte le esemplificazioni dello schema (V*), uno schema identico a (V) tranne per il fatto che al posto della seconda occorrenza di “p” vi è “non p”. Ma se “snow is white” si traduce con “la neve non è bianca”, e si ammette che “la neve è bianca” è equivalente alla negazione di “la neve non è bianca”, allora «”snow is white” è falso sse la neve è bianca» è una conseguenza dello schema V*. Perciò s non può escludere che “T” significhi “falso in inglese”. Quindi la definizione di “T” non è una buona analisi della nostra nozione di verità in inglese anche se i due predicati hanno di fatto la stessa estensione: ma che due predicati abbiano la stessa estensione, come è noto, non è una buona ragione per considerali come sinonimi e come sostituibili in tutti i contesti. 4.1.Che cosa dimostra esattamente questo argomento? Per capire cosa dimostra effettivamente l’argomento bisogna osservare quanto segue: la discrepanza fra le inferenze che siamo disposti a fare con “T” e con “è vero (in inglese)” sparisce non appena comprendiamo (e sappiamo di 103 Capitolo III comprendere) gli enunciati cui si applicano i due predicati. Se, ad esempio, comprendo (e so di comprendere) l’enunciato inglese “snow is white”, allora so che “la neve è bianca” traduce “snow is white”, dunque so che “snow is white” è T se e soltanto se “snow is white” è vero in inglese. Ma in tal caso sarò disposto ad asserire sia «“snow is white” è vero in inglese sse la neve è bianca» sia «se “snow is white” è T allora “snow is white” non significa che la neve non è bianca». E ciò del tutto indipendentemente da quale sia la mia nozione di verità ma, semplicemente, in base al fatto che accetto, in virtù di tale nozione, la convenzione T di Tarski e al fatto che comprendo e so di comprendere “snow is white”. Se dunque tutti noi fossimo onniscienti linguisticamente (e sapessimo di esserlo), e si definisse un predicato tarskiano T* il cui linguaggio oggetto fosse costituito dall’insieme degli enunciati che comprendiamo, cioè da tutti gli enunciati, allora il ruolo inferenziale di T* sarebbe identico al ruolo inferenziale di “è vero” 133. In tale situazione non si potrebbe escludere che “T*” sia il nostro predicato di verità, nel senso che non si potrebbe escludere che “T*” ed “è vero” esprimano la stessa nozione. Ciò mi sembra dimostrare che il cuore della differenza fra “T” e “è vero in inglese” sia questo: “T” (il predicato tarskiano di verità per l’inglese) è un predicato che è stato introdotto presupponendo la comprensione (consapevole) dell’inglese; “T” è dunque un predicato introdotto nel linguaggio per applicarsi ad enunciati che si comprendono (e che si sa di comprendere). Data tale comprensione “T” ed “è vero in inglese” risultano, come si è visto, inferenzialmente indistinguibili. Al contrario “è vero in inglese” è un predicato che possiamo applicare ad enunciati dell’inglese anche se non li comprendiamo: ad esempio se crediamo che la Regina d’Inghilterra sia infallibile, possiamo credere che tutti gli enunciati che essa asserisce siano veri, anche se non capiamo l’inglese. Dunque quando (come nel nostro esperimento) la definizione di “T” viene insegnata ad una persona che non comprende (o non sa di comprendere) l’inglese, le inferenze compiute con i due predicati divergono. Ciò che dimostra l’argomento precedente è dunque questo: un predicato che si applica solo a enunciati che comprendiamo e che sappiamo di comprendere, e dunque anche un predicato tarskiano, non può essere un sostituto del nostro predicato di verità (applicato agli enunciati di un dato linguaggio). In questa misura le definizioni dei predicati tarskiani non costituiscono un’analisi adeguata della nostra nozione di verità in L e, a fortiori, della nostra nozione di verità134. L’argomento invece non dimostra nulla di positivo sulla nostra nozione di verità (tranne quello che sapevamo già: che il nostro predicato di verità è un predicato “universale” mentre quelli tarskiani no). Non dimostra ad esempio, come sostiene Soames, che la verità è una proprietà primariamente di proposizioni ed è una proprietà di enunciati solo relativamente alla proposizione che esprimono. Che l’argomento non dimostri ciò si può vedere dal fatto che quest’ultima reazione all’inadeguatezza del predicato tarskiano non è l’unica possibile. Inoltre mostrerò che i diversi modi possibili di reagire all’inadeguatezza del predicato tarskiano continuano ad avere almeno una cosa in comune con le definizioni tarskiane: non implicano l’impegno ontologico su entità che rendono le proposizioni vere135. 104 Verità e fattori di verità 5. Quattro concezioni della verità Tutte i modi di reagire ai problemi precedenti implicano un’analisi della nostra nozione di verità in quanto nozione generale, cioè la nozione di una proprietà di enunciati in generale non di una proprietà esemplificata solo da enunciati di un particolare linguaggio136. Ecco alcuni modi in cui si potrebbe analizzare tale nozione. (1) La nozione di verità è la nozione di una proprietà posseduta primariamente e assolutamente da proposizioni (dalle cose dette/espresse dagli enunciati) e che gli enunciati possiedono solo relativamente alla proposizione che esprimono. Quando diciamo «“snow is white” è vero in inglese» intendiamo dire che “snow is white” esprime in inglese una proposizione vera. L’esser vero di un enunciato consiste dunque nel fatto che l’enunciato esprime una proposizione vera. La condizione di verità di un enunciato consiste dunque in un fatto semantico: il sussistere di una relazione di espressione fra l’enunciato e una proposizione vera. La nozione di verità per proposizioni è una nozione esaurita dalla disposizione ad accettare le esemplificazioni (non contraddittorie) dello schema è vero che p sse p. Ma la teoria della verità per proposizioni deve avere forma composizionale, cioè dare una definizione composizionale (o meglio strutturale) in stile tarskiano della verità proposizionale137. Si può pensare che ci sia bisogno di questa teoria composizionale per diversi motivi: perché si vuole una definizione esplicita di verità per proposizioni; perché si pensa che le proposizioni siano entità strutturate e che una teoria della verità debba mostrare come le condizioni di verità di una proposizione dipendano dalla sua struttura138; perché si pensa che solo una teoria di questo genere abbia qualche speranza di evitare l’insorgere dei paradossi semantici. La teoria si impegnerà su n-uple di individui (<o1..on>), proprietà a n-posti (P*) a cui verranno associate estensioni e intensioni, e alcuni costituenti logici di proposizioni (ad esempio Qualcuno o Tutti) e avrà delle clausole come (a) Una proposizione <<o1…on>, P*> è vera sse <o1….on> appartiene all’insieme di n-uple che esemplificano P*. (b) Una proposizione < Qualcuno, P* > è vera sse l’insieme di n-uple che esemplificano p non è vuoto. Bisogna notare che i tentativi di dare delle definizioni corrispondentiste di verità ispirati dall’idea wittgensteiniana della proposizione come immagine logica di uno stato di cose, sembrano essere una variante di quello che sarebbe una definizione di verità per enunciati per un sostenitore della teoria proposizionalista, cioè per chi pensasse che la verità è una proprietà primariamente di proposizioni. 105 Capitolo III (C1) p è vero sse p corrisponde a (esprime) uno stato di cose che sussiste139. Oppure si scavalcano gli stati di cose e si assegnano direttamente oggetti e proprietà ai costituenti degli enunciati, impegnandosi invece che su stati di cose e sulla nozione primitiva di sussistenza di uno stato di cose, sulla relazione di esemplificazione; si useranno allora clausole come (C2) “Pnt1..tn” vero sse < Ref(t1)…Ref(tn) > esemplifica Ref (Pn) 140 Queste definizioni come la definizione proposizionalista di verità per enunciati, analizzano la nozione di verità in base a due nozioni 1) una nozione semantica (quella di riferimento); 2) una nozione metafisica (quella di esemplificazione, dove invece la definizione proposizionalista faceva riferimento all’essere soddisfatte delle condizioni di verità della proposizione espressa dall’enunciato)141. Le prossime tre concezioni sono tre forme di deflazionismo. (2) Minimalismo. Tutto quello che si dice in (1) tranne la teoria composizionale. La teoria della verità non è altro che la lista infinita delle esemplificazioni (non contraddittorie) dello schema è vero che p sse p. La nostra nozione di verità consiste nella disposizione ad asserire ciascuno di tali bicondizionali. Questa posizione è quella di Horwich142. (3) Ridondantismo. Identifico questa proposta con una congiunzione di alcune tesi sostenute da Field143. Egli sostiene che “vero” è un predicato che è applicato da ciascun individuo solo a enunciati che l’individuo comprende144. Per tale classe di enunciati: «”p” è vero» è, per il parlante, cognitivamente equivalente (modulo l’esistenza di “p”) a “p”. Questa predicato di verità è chiamato da Field “puramente decitazionale”. Quando noi diciamo che un certo enunciato p che non comprendiamo è vero, stiamo in realtà dicendo che c’è un enunciato vero (cioè un enunciato che comprendiamo vero) che è in una certa relazione con p (una relazione di traduzione). O, equivalentemente, come la mette Field, usiamo un predicato di verità quasi-decitazionale, chiamiamolo “veroquasi”, definito in questo modo: p è veroquasi se e soltanto se esiste un enunciato vero che traduce p. (4) Decitazionalismo puro. Possedere la nozione di verità consiste nell’essere disposti ad asserire tutte le esemplificazioni dello schema s è vero sse p, in cui a “p” sia sostituito un arbitrario enunciato dichiarativo e a “s” il nome virgolettato dell’enunciato. Le differenze fra questa forma di decitazionalismo e la precedente sono due145. La prima è che essa non considera «”p” è vero» e «p» cognitivamente equivalenti. Dice solo che la nostra nozione di verità è costituita dalla disposizione ad accettare tutti i 106 Verità e fattori di verità bicondizionali dello schema. In questo senso non è una concezione secondo cui «”p” è vero» e ”p” sono sinonimi. La seconda differenza è che essa implica che siamo disposti ad asserire anche enunciati che non comprendiamo. Infatti fra i bicondizionali che dobbiamo essere disposti ad asserire vi devono essere anche enunciati in cui l’enunciato citato e usato è un enunciato di una lingua che non comprendiamo. Questo infatti è l’unico modo in cui questa concezione può rendere conto dei fenomeni che sono stati considerati come aspetti della nostra nozione di verità di cui i predicati tarskiani no riescono a rendere conto. Su questo punto tornerò fra breve. Ma intanto vediamo come le quattro concezioni risolvono i problemi sollevati da Soames nei confronti della definizione tarskiana. 5.1. Come le quattro concezioni risolvono i problemi della definizione tarskiana Tutte e quattro le teorie presentate permettono di render conto dei due fenomeni che mostrano i limiti della definizione tarskiana ortodossa: la possibilità di applicare il predicato di verità ad un enunciato senza conoscere il corrispettivo bicondizionale tarskiano (cioè la non conoscenza a priori, dato il possesso della nozione di verità, di tali bicondizionali) e l’informatività sul significato di tali bicondizionali. Soluzioni proposizionaliste (1 e 2). Quando diciamo «“snow is white” è vero in inglese» intendiamo dire che “snow is white” esprime in inglese una proposizione vera. Ciò, unitamente, alla nozione di verità per proposizioni (in base alla quale sono verità a priori e necessarie tutte le esemplificazioni dello schema la proposizione che p è vera sse p) fa sì che noi accettiamo il seguente schema riguardante la verità degli enunciati: (E) se s esprime (in L) la proposizione che p allora s è vero sse p. In questo quadro la non conoscenza a priori dei bicondizionali tarskiani e la loro informatività sul significato sono spiegate in base ai due fatti che noi non conosciamo a priori le proposizioni espresse dagli enunciati e che accettiamo ogni esemplificazione dello schema summenzionato. Il ragionamento che spiega sia perché possiamo non accettare a priori i bicondizionali tarskiani sia perché otteniamo dalla loro conoscenza informazioni sul significato degli enunciati del linguaggio oggetto è il seguente: 1) Se “snow is white” esprime (in inglese) la proposizione che la neve non è bianca e “snow is white” è vero in inglese se e soltanto se la neve è bianca, allora la neve è bianca se e soltanto se la neve non è bianca (per esemplificazione di (E)). 2) Pertanto o “snow is white” non esprime (in inglese) la proposizione che la neve non è bianca o non si dà il caso che “snow is white” sia vero in inglese se e soltanto se la neve è bianca (per negazione dell’antecedente in (1) in base alla negazione del conseguente contraddittorio). 107 Capitolo III Dunque, da una parte se non so se “snow is white” esprime in inglese la proposizione che la neve non è bianca non accetterò «”snow is white” è vero in inglese sse la neve è bianca». Dall’altra se so che “snow is white” è vero in inglese se e soltanto se la neve è bianca posso inferire che “snow is white” non esprime la proposizione che la neve non è bianca. Le stesse considerazioni valgono anche quando il bicondizionale tarskiano è omofonico. Naturalmente lo stesso vale per le definizioni corrispondentiste che ho presentato. Soluzione Ridondantista. Se s è un enunciato che non comprendiamo, accettiamo il principio (Q) s è veroquasi sse ∃p[(p è la traduzione di s) & p è vero] in cui “p” è una variabile oggettuale i cui valori possono essere tutti e soli gli enunciati che comprendiamo. Dato questo principio possiamo fare esattamente lo stesso ragionamento che facevamo con il principio (E) del proposizionalista sostituendo semplicemente la relazione di traduzione a quella di espressione. 1) Se “snow is white” è tradotto dall’enunciato “la neve non è bianca” e “snow is white” è veroquasi se e soltanto se la neve è bianca, allora la neve è bianca è vero in inglese se e soltanto se la neve non è bianca (per esemplificazione di (Q)). 2) O “snow is white” non è tradotto da “la neve non è bianca” o non si dà il caso che “snow is white” sia veroquasi se e soltanto se la neve è bianca (per negazione dell’antecedente in (1) in base alla negazione del conseguente contraddittorio). Dunque, da una parte se non so che “snow is white” non si traduce con “la neve non è bianca” (e se non conosco l’inglese non posso escludere tale possibilità) non accetterò «”snow is white” è veroquasi sse la neve è bianca». D’altra parte, se so che “snow is white” è veroquasi se e soltanto se la neve è bianca posso inferire che “snow is white” non si traduce con “la neve non è bianca”. Siccome accetto a priori tutte le esemplificazioni dello schema ∀ p (se s traduce p allora p significa che s), in cui a “s” bisogna sostituire un enunciato che comprendo, allora quest’ultima conclusione equivale a: se “snow is white” è vero se e soltanto se la neve è bianca allora “snow is white” non significa che “la neve non è bianca”, che è la connessione fra verità e significato che si cercava. Soluzione puramente decitazionale. La mia nozione di verità è tale che io accetto a priori il bicondizionale che non comprendo (se non comprendo l’inglese) (1) «“snow is white” è vero sse snow is white». Ora, dato che non comprendo l’enunciato inglese “snow is white”, non so che l’enunciato che comprendo “la neve è bianca” è la sua traduzione dunque non so che il bicondizionale (1) è equivalente al bicondizionale che comprendo (2) «“snow is white” è vero in inglese sse la neve è bianca». Dunque posso accettare (1) senza accettare (2), che è la conclusione cercata rispetto alla conoscenza a posteriori del bicondizionale tarskiano. Il ragionamento in base a cui dall’informazione che l’enunciato inglese “snow is white” è vero in inglese se e soltanto se la neve è bianca, posso 108 Verità e fattori di verità ricavare per lo meno l’informazione che esso non significa che la neve non è bianca è il seguente: 1) Accetto a priori (in base alla mia definizione implicita di verità) l’enunciato (T) «“snow is white” è vero in inglese sse snow is white», pur non sapendo quale enunciato dell’italiano sia una corretta traduzione dell’enunciato inglese “snow is white”. 2) Ma se “snow is white” si traducesse con “la neve non è bianca” (e dunque significasse che la neve non è bianca), «snow is white” è vero in inglese sse la neve non è bianca» sarebbe una traduzione di T, 3) Ma “snow is white” è vero se e soltanto se la neve è bianca. Dunque (in base a (2)) se “snow is white” significa che la neve non è bianca, allora la neve è bianca se e soltanto se la neve non è bianca. 4) Ma non è vero che la neve è bianca se e soltanto se la neve non è bianca dunque “snow is white” non significa che la neve non è bianca. Quest’ultima è la connessione cercata fra verità e significato. La differenza importante fra questo ragionamento e quelli del ridondantista e del proposizionalista è che nozioni semantiche (o quasi semantiche) come quella di espressione o di traduzione e il riferimento a enunciati che comprendiamo non entrano in principi concernenti la verità o nella caratterizzazione della nozione di verità. La nozione di traduzione e la relazione con un enunciato che comprendiamo entrano nel ragionamento così come vi entrerebbero in tutti i casi in cui accettiamo un bicondizionale Ra sse q (in cui “R” è un qualsiasi predicato monadico e “q” è un qualsiasi enunciato dichiarativo), non comprendendo l’enunciato “q”. In un caso del genere, anche se “s” è un enunciato che comprendiamo che (a nostra insaputa) traduce “q”, non accetteremmo il bicondizionale Ra sse s, a meno che non ci venga detto che, per lo meno, la congiunzione dell’enunciato che traduce “q” e di “s” non è una contraddizione. Le cose non cambierebbero se, per qualche ragione, sapessimo che Ra sse q è un enunciato necessario o vero in virtù del significato di “R”, cioè che “Ra sse q” conta come una definizione parziale di “Rx” (cioè conta come definizione di cos’è per a essere R). Si sostituisca a “R” “vero” ad “a” il nome virgolettato di un enunciato, a “q” l’enunciato stesso e ad “s” la sua traduzione: si avrà il caso della non conoscenza a priori dei bicondizionali non omofonici. D’altra parte se accettiamo, sempre senza comprendere “q”, “Ra sse q”, sapere che Ra sse s ci darà delle informazioni sul significato di “q”: per lo meno ci dirà che “q” non significa che non s, altrimenti dovremmo accettare s se e soltanto se non s. Nuovamente, facendo le debite sostituzioni in “Ra sse q”, con “vero” «”q”» e “q”, si ottiene il caso dell’informatività dei bicondizionali non omofonici per il significato dell’enunciato citato: infatti in questo caso, l’enunciato sul cui significato si ottiene un’informazione (quello usato nel lato destro del bicondizionale) è proprio la stessa cosa cui viene ascritta una certa proprietà nel lato sinistro (l’esser vero). Ma nel caso in cui “R” denoti una proprietà qualsiasi, ad esempio la proprietà di essere radioattivo, e “q” esprima ciò in cui consiste la radioattività di a, il fatto che la conoscenza di un 109 Capitolo III bicondizionale “Ra sse s” ci fornisca informazioni sul significato di “q” (una formula molto complicata di cui non riusciamo a comprendere il significato), o il fatto che potremmo non accettare “Ra sse s” (anche se, a nostra insaputa, “s” è una parafrasi, in parole a noi comprensibili, di “q”), non ci sembra una buona ragione per concludere che “essere radioattivo” è una proprietà che debba essere definita in base a nozioni come quelle di traduzione, di interpretazione, di espressione. Allo stesso modo non bisognerebbe correre alla medesima conclusione nel caso di “vero”: il nesso fra condizioni di verità e significato è un caso particolare della possibilità di accettare enunciati che non si comprendono e di ottenere informazioni sul loro significato tramite le relazioni logiche che sussistono fra essi ed altri enunciati che comprendiamo. Questa concezione della verità potrebbe essere giudicata come del tutto inadeguata proprio perché assume che si possano asserire cose che non si comprendono. Nei prossimi due paragrafi cercherò di difendere la concezione puramente decitazionale da questa obiezione: sia perché userò questa concezione quando discuterò del problema della dipendenza della verità dall’essere, vorrei difenderla contro questa obiezione; sia perché tale concezione mi sembra la forma più coerente di deflazionismo: infatti a differenza della posizione di Horwich non si impegna su entità problematiche come le proposizioni e a differenza della concezione quasi-decitazionale non relativizza la nozione di verità (per enunciati che non si comprendono) alla nozione di traduzione. 5.2. Asserire ciò che non si comprende L’obiezione immediata alla tesi che il predicato di verità si applichi in modo puramente decitazionale a enunciati che non si comprendono è quella stessa osservazione che spinge di solito i deflazionisti a sostenere che il predicato si applica solo a enunciati che si comprendono. Si osserva cioè la seguente cosa: ammettiamo che ciò che è detto quando si applica il predicato di verità a un certo enunciato non sia nulla di più di ciò che è detto dall’enunciato stesso o che il possesso della nozione di verità sia esaurito dall’essere disposti ad accettare ogni esemplificazione dello schema “p” è vero se e soltanto se p ottenuta sostituendo a “p” un enunciato dichiarativo appartenente a una certa classe. Se è così il predicato di verità non può essere un predicato che si applica a enunciati non compresi. Infatti, se così fosse, quando asseriamo s è vero (dove “s” è il nome citazionale di un enunciato che non comprendiamo) asseriremmo qualcosa che non comprendiamo. Inoltre, essendo i bicondizionali omofonici costitutivi della nostra nozione di verità, la non comprensione di alcuni di tali bicondizionali implicherebbe che noi non comprendiamo quello che diciamo quando usiamo il predicato di verità, che noi abbiamo cioè solo una comprensione parziale della nostra nozione di verità. Un altro modo di porre quest’ultimo problema è questo: se noi abbiamo un predicato puramente decitazionale di verità allora tutti i bicondizionali omofonici sono per noi verità a priori; ma poiché alcuni di tali bicondizionali non li comprendiamo, se il 110 Verità e fattori di verità nostro predicato di verità è puramente decitazionale allora dobbiamo ammettere il fatto apparentemente controintuitivo che noi conosciamo a priori qualcosa che non comprendiamo. La risposta a tale obiezione è che non c’è nulla di strano nell’asserire enunciati che non si comprendono (in grado maggiore o minore) e che non c’è nulla di strano nell’usare predicati il cui significato non si comprende pienamente, come è dimostrato dal fenomeno della deferenza. Dunque la nozione di verità posseduta da un individuo può avere le caratteristiche sostenute dal deflazionista. Un argomento a favore del fatto che noi possiamo accettare, e di fatto accettiamo, enunciati che non comprendiamo è quello basato sul processo di apprendimento146. Di solito l’apprendimento (per lo meno quello di soggetti che possiedono già una competenza linguistica sufficientemente ampia) consiste in un processo in cui si comincia con l’accettare enunciati contenenti espressioni che non si comprendono (secondo i normali standard di comprensione). A partire da tale accettazione si possono innescare una serie di inferenze (grazie alla presenza in tali enunciati di espressioni che si comprendono già) e di altri processi (come processi di riconoscimento e di differenziazione mediante esempi concreti) che conducono ad una sempre maggiore comprensione dell’espressione introdotta ex novo147. Le caratteristiche dell’apprendimento sembrano dunque essere due: 1) il passaggio graduale da una comprensione ridotta o quasi nulla di certe espressioni linguistiche ad una comprensione sempre maggiore; 2) il fatto che tale passaggio avviene usando l’espressione in questione nel contesto di asserzioni e inferenze. Dunque il processo presuppone la possibilità da parte del soggetto di accettare enunciati che egli non comprende in diversi gradi. Ciò che, all’inizio del processo, permette di asserire l’enunciato contenente l’espressione che non si comprende è che si presuppone che chi proferisce l’enunciato (nel processo di apprendimento l’insegnante) comprenda meglio di noi l’espressione, cioè che egli conosca meglio di noi il genere di cose cui l’espressione si riferisce. L’asserzione è cioè resa possibile dalla deferenza alla competenza di un parlante più esperto. Se un veterinario mi dice «i cani prendono spesso gli anchilostomi» il mio uso assertorio di enunciati contenenti l’espressione “anchilostomi” dipenderà dalla credenza che gli anchilostomi siano ciò cui il veterinario si riferisce con “anchilostomi”148. L’accettazione di tale enunciato costituisce già l’inizio di un processo di apprendimento; in virtù di essa infatti acquisisco delle credenze sugli anchilostomi che mi permettono di distinguerli da altre cose (anche se non da tutte): ad esempio che essi sono qualcosa che i cani prendono (infatti da «i cani prendono gli anchilostomi» posso inferire logicamente “c’è qualcosa che i cani prendono e questo qualcosa sono gli anchilostomi”). Bisogna notare che il grado di comprensione di un enunciato accettato può essere progressivamente minore aumentando il numero di espressioni non 111 Capitolo III comprese presenti nell’enunciato e secondo il livello di comprensione posseduto su ogni singola espressione. C’è una gradualità continua fra enunciati e/o parole della nostra lingua che comprendiamo molto bene, che comprendiamo così così, che non comprendiamo per niente. Se mi dicono “i cani abbaiano” capisco bene, so riconoscere i cani e l’abbaiare, so compiere molte inferenze con “cane” e “abbaiare”. Se mi dicono i “i cani prendono gli anchilostomi” capisco già un po’ di meno: non ho idea di che cosa siano gli anchilostomi; l’unica informazione che ho su “anchilostomi” è l’informazione sintattica che l’espressione è un SN costituente di una SV e informazioni sul suo ruolo: la comprensione dell’intero enunciato non va oltre «i cani prendono qualcosa». Se mi dicono “il bregma stozza la stearina” non capisco quasi nulla, non ho idea di cosa si stia parlando, sono al più in grado di riconoscere le categorie sintattiche delle espressioni componenti (e la forma attiva del verbo) e di conseguenza di riconoscere l’intera espressione come un enunciato dichiarativo (utilizzando anche indizi contestuali come il discorso precedente o l’intonazione del parlante). Già queste informazioni permettono una comprensione parziale dell’enunciato, la differenziazione del suo contenuto dal contenuto di altri enunciati (anche se non da tutti): ciò che comprendo (e che posso inferire) è che certe cose fanno qualcosa. Tale inferenza (come quella precedente) naturalmente non è compiuta in virtù di ciò che differenzia l’espressione “il bregma” dall’espressione “i cani” ma di ciò che le accomuna, la loro categoria sintattica. Ma questo non mi sembra un buon motivo per negare al parlante una comprensione minima dell’enunciato: io comprendo in misura maggiore un enunciato come il precedente rispetto a un enunciato di una lingua straniera di cui non riesco a fare nemmeno il parsing sintattico149. Ma se la minima comprensione dell’enunciato, unitamente alla deferenza nei confronti di parlanti più esperti, mi basta per poterlo asserire, queste stesse cose dovrebbero bastarmi per asserire che esso è vero se asserire ciò è equivalente cognitivamente ad asserire l’enunciato stesso, come sostengono i ridondandisti. A fortiori ciò dovrebbe essere sufficiente per asserire il bicondizionale «“il bregma stozza la stearina” è vero sse il bregma stozza la stearina», l’enunciato la disposizione all’asserzione del quale è costitutiva, secondo il decitazionalista, della nozione di verità. Se infatti «”il bregma stozza la stearina” è vero» è equivalente a «il bregma stozza la stearina» allora il bicondizionale precedente è equivalente a “il bregma stozza la stearina sse il bregma stozza la stearina”. Ora un bicondizionale come questo è un’esemplificazione della legge logica p ↔ p: ma noi siamo disposti ad asserire ogni esemplificazione di tale legge logica posto che sappiamo che una data espressione è un’esemplificazione di tale legge logica. Ma l’unica cosa necessaria e sufficiente perché una certa espressione sia un’esemplificazione di tale legge è che l’espressione a sinistra e a destra del “sse” sia un enunciato dichiarativo (che cioè il bicondizionale sia ben formato). Ma si può sapere che una certa espressione è un enunciato dichiarativo senza comprendere l’espressione e anche senza volerla o poterla asserire. Dunque: possiamo asserire bicondizionali omofonici non solo indipendentemente dalla 112 Verità e fattori di verità comprensione dell’enunciato citato e usato in essi ma anche indipendentemente dalla possibilità di asserire tale enunciato. Dunque possiamo accettare una teoria della verità, o avere una definizione implicita di verità, in cui vi sono dei bicondizionali omofonici in cui l’enunciato citato e usato appartiene a una lingua che non comprendiamo. Rimane il problema della possibilità di asserire che un certo enunciato appartenente a una lingua che non comprendiamo sia vero. Ciò implica l’ammissione, se si vuole difendere una delle due concezioni deflazioniste presentate, della possibilità di asserire un enunciato di una lingua che non comprendiamo. Ma questo mi sembra essere un caso limite della possibilità di asserire enunciati della nostra lingua che non comprendiamo o comprendiamo molto poco come “il bregma stozza la stearina”. Le differenze fra i due casi sono due: 1) vi è deferenza per il contenuto dell’intero enunciato e non solo di alcune sue parti; 2) gli individui cui si deferisce sono i parlanti della lingua che non si comprende. Quest’ultima differenza (se non si accetta una rigida partizione fra analitico e sintetico) non è una differenza essenziale rispetto ai casi precedenti: anche nei casi precedenti si deferiva agli individui che comprendono meglio di noi l’espressione non compresa e tali individui (i veterinari) contavano sia come esperti su fatti non linguistici sia come esperti su fatti linguistici (il significato dell’espressione “anchilostomi”). In quest’ultimo caso, allo stesso modo, i parlanti della lingua che non comprendiamo contano sia come esperti linguistici (riguardo al significato dell’enunciato che non comprendiamo) sia come esperti sul mondo (riguardo all’individuazione della condizione di verità dell’enunciato). Sia ad esempio “ytr er frt” un enunciato dichiarativo di una lingua che non comprendo: posto che io sappia che esso è un enunciato dichiarativo posso asserirlo perché, deferendo ai parlanti competenti, so che nell’asserirlo asserisco qualcosa anche se non so che cosa. Posso cioè inferire da “ytr er frt” “qualcosa” dove “qualcosa” è una formula quantificata non sostituzionalmente con una variabile proposizionale in posizione enunciativa150. L’individuazione di questo qualcosa è deferita ai parlanti competenti. Si può però obiettare al decitazionalista che l’asseribilità di bicondizionali omofonici che non si comprendono non elimina il problema maggiore: che cioè essendo l’accettazione di tali bicondizionali costitutiva della nostra nozione di verità noi avremmo una nozione di verità che in parte non comprendiamo, o che comprendiamo più o meno tale nozione a seconda che il predicato di verità sia applicato a enunciati che comprendiamo più o meno. E, dato che ognuno di noi comprende enunciati diversi, e che per il medesimo enunciato possono esservi in diversi parlanti diversi livelli di comprensione, non si vede cosa impedisce la conclusione, se il decitazionalista ha ragione, che quando usiamo il predicato “è vero” (o una sua traduzione) in realtà ognuno di noi sta usando un diverso predicato, che cioè non esista un’unica nozione di verità condivisa da ciascun parlante151. Ma questo è chiaramente falso, può continuare il non deflazionista: indipendentemente da quanto e come capiamo un enunciato, dire che questo 113 Capitolo III enunciato è vero significa sempre la stessa cosa. Per il corrispondentista significherà, ad esempio, dire che l’enunciato corrisponde a un fatto, per il proposizionalista che esso esprime una proposizione vera. Le mie obiezioni sono tre: la prima è che la differenza nei gradi di comprensione vale tanto per il predicato di verità quanto per altre espressioni linguistiche. La seconda è che non vi è alcuna differenza a questo riguardo fra la posizione deflazionista e quelle non deflazioniste. La terza che vi è almeno un senso in cui il decitazionalista può dire che abbiamo una nozione comune di verità. Consideriamo la parola “anchilostoma”: io e un veterinario abbiamo una comprensione molto diversa della parola, sappiamo, ad esempio, fare inferenze con essa in misura molto diversa (io di meno che il veterinario); il veterinario inoltre sa riconoscere abbastanza bene la presenza di anchilostomi mentre io per niente. Le nostre conoscenze sugli anchilostomi sono molto diverse e dunque, in un certo senso, le nostre nozioni di anchilostoma sono molto diverse. Ma, nonostante questo, io non uso una parola diversa dal veterinario, con la quale mi riferisco ad una cosa diversa da quella cui si riferisce lui. Ciò grazie al fatto che io riconosco il veterinario come autorità riguardo al corretto uso della parola “anchilostoma”. Lo stesso vale per il predicato di verità: quando dico «”i cani prendono gli anchilostomi” è vero» senza capire o capendo poco il significato di “anchilostomi”, eo ipso deferisco al veterinario per una conoscenza più adeguata di ciò in cui consiste l’esser vero dell’enunciato, delle sue condizioni di verità: l’autorità sui cani e gli anchilostomi è allo stesso tempo autorità sulle condizioni di verità dell’enunciato «i cani prendono gli anchilostomi». Ciò che accomuna me e il veterinario (e chiunque altro usi correttamente il predicato “vero”) è che tutti noi siamo disposti ad asserire «“i cani prendono gli anchilostomi” è vero sse i cani prendono gli anchilostomi» e tutte le altre esemplificazioni dello schema decitazionale. Ognuno di noi avrà una comprensione più o meno vivida di tali esemplificazioni dello schema: i meno competenti fra noi deferiscono però ai più competenti. Questi due elementi (accettazione delle esemplificazioni dello schema decitazionale e deferenza) sembrano sufficienti per dire che quando usiamo la parola “vero” parliamo della stessa cosa e, se non fossero sufficienti, sarebbe difficile sostenere per qualsiasi altra espressione che i parlanti che la usano stanno parlando della stessa cosa, stanno usando la stessa parola. Veniamo alla supposta maggiore uniformità fra diversi soggetti nella comprensione di espressioni come “corrisponde a un fatto” o “esprime una proposizione vera”. Consideriamo due dei quattro enunciati precedenti che comprendiamo uno meno dell’altro: «i cani prendono gli anchilostomi» e “ytr er frt” e applichiamo ad essi il predicato “corrisponde a un fatto”. Quando diciamo «l’enunciato “i cani prendono gli anchilostomi” corrisponde a un fatto», comprendiamo l’espressione “corrisponde a un fatto” in misura minore 114 Verità e fattori di verità di quando diciamo «l’enunciato “ytr er frt” corrisponde a un fatto». Questo è dimostrato dal fatto che siamo in grado di fare meno inferenze nel secondo caso che nel primo; ad esempio inferiamo da «“i cani prendono gli anchilostomi” corrisponde a un fatto» «è un fatto che i migliori amici dell’uomo prendono qualcosa». Al contrario non siamo in grado di fare nessuna inferenza a partire da «“ytr er frt” corrisponde a un fatto» (se non l’inferenza di “ytr er frt” stesso). Lo stesso vale per le capacità di riconoscimento: alcuni italiani che non sono competenti sulla lingua cui appartiene “ytr er frt” (i veterinari) sanno riconoscere i casi in cui «quel cane ha preso gli anchilostomi» corrisponde a un fatto ma non sanno riconoscere i casi in cui “ytr er frt” corrisponde a un fatto. La stessa cosa si può dimostrare se si scelgono locuzioni come “esprime una proposizione vera”, oppure “esprime uno stato di cose sussistente”. In terzo luogo, il decitazionalista può difendersi dall’accusa di non rendere conto dell’esistenza di una nozione condivisa di “essere vero” (e “essere un fatto”), dicendo che ciò che costituisce la nozione comune di “è un fatto”, da una parte, e di “è vero”, dall’altra, è semplicemente la conoscenza di un loro ruolo inferenziale: quello che ci consente di passare da «”p” è vero/è un fatto» a “p” e viceversa. 5.3. Il problema dei bicondizionali omofonici Come è stato osservato da Soames, un parlante competente dell’italiano, che possiede la nozione di verità, può non accettare l’enunciato «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca». Quali esempi si possono addurre? Ad esempio che potrei avere un’amnesia e credere di essere in una terra dove si parla una lingua diversa dalla mia, ma morfologicamente indistinguibile. Poiché non so, allorché Tizio asserisce “la neve è bianca”, se egli stia proferendo un enunciato della mia lingua, allora non mi sento autorizzato ad asserire «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» in cui il nome virgolettato si riferisce all’enunciato tipo proferito proferito da Tizio, anzi posso addirittura essere indotto a negarlo, se credo che quello che dice Tizio sia diverso da quello che dico io con “la neve è bianca”. Ma l’enunciato tipo proferito da Tizio è l’enunciato tipo che io comprendo, infatti Tizio parla l’italiano. Dunque io non sono disposto ad asserire il bicondizionale omofonico «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca». Dunque il bicondizionale non è una verità a priori in base alla mia nozione di verità. Questo fenomeno non è un problema per la teoria proposizionalista: infatti secondo tale teoria l’accettazione dei bicondizionali tarskiani omofonici non è costitutiva della nostra nozione di verità. E ciò semplicemente perché i portatori primari di verità non sono gli enunciati ma le proposizioni. L’accettazione di un bicondizionale tarskiano dipende dalla credenza che un certo enunciato esprime una certa proposizione. Ma per avere tale credenza devo comprendere l’enunciato e credere di comprenderlo: dunque se non credo di comprendere un certo enunciato (ad 115 Capitolo III esempio perché credo che faccia parte di un linguaggio diverso dal mio) allora non crederò neanche che esso esprime una certa proposizione, dunque non accetterò neanche il corrispettivo bicondizionale omofonico. Il caso invece potrebbe sembrare un grosso problema per entrambe le teorie deflazioniste presentate: esse infatti considerano costitutiva della nostra nozione di verità la disposizione ad accettare una classe di bicondizionali omofonici (quella in cui il predicato è applicato ad enunciati che comprendiamo oppure quella di tutti gli enunciati dichiarativi). Mostro qui di seguito come potrebbe rispondere la teoria puramente decitazionale. Il decitazionalista puro potrebbe rispondere così. Se con “bicondizionale omofonico” si intende un bicondizionale della forma “p” è vero se e soltanto se p in cui l’enunciato citato e usato sono lo stesso enunciato (o in cui il nome citazionale che precede il predicato di verità è nome dell’enunciato usato sulla destra), allora possedere la nozione di verità vuol dire accettare questo principio: se q è un bicondizionale omofonico allora q. Noi accettiamo tutti i bicondizionali omofonici posto che sappiamo che lo siano. Ma se “bicondizionale omofonico” significa un bicondizionale della forma “p” è vero se e soltanto se p in cui la replica che compare fra virgolette nel nome citazionale sia dello stesso tipo grafico-fonetico della replica che compare a destra di “sse”, allora noi non accettiamo a priori i bicondizionali omofonici anche se sappiamo che sono omofonici. I due sensi coincidono solo se si identificano gli enunciati con entità sintattiche. Ma, può continuare il decitazionalista, noi non individuiamo gli enunciati come entità sintattiche ma come entità costituite da un’interpretazione. Dunque quando si dice che l’accettazione dei bicondizionali omofonici è costitutiva della nostra nozione di verità si intende “omofonico” nel primo senso. La nostra presunta non accettazione di alcuni bicondizionali omofonici deve essere dunque ridescritta come la non conoscenza del fatto che un dato enunciato è un bicondizionale omofonico e ciò è equivalente a non sapere se l’enunciato usato nel lato destro del bicondizionale è lo stesso enunciato nominato nel lato sinistro dal nome citazionale. Ad esempio quando vacillo sull’accettazione di «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» non so se l’espressione «”la neve è bianca”» che occorre a sinistra denota l’enunciato “la neve è bianca” usato sulla destra. Come è possibile che ciò avvenga? Il nucleo del problema mi sembra quello dell’analisi della semantica delle virgolette. Ipoteticamente si potrebbe interpretare il ruolo semantico delle virgolette in modo analogo a quello in cui Kaplan interpreta la semantica dei dimostrativi. In un bicondizionale omofonico il nome virgolettato funziona come un dimostrativo che denota l’enunciato tipo usato sulla destra del bicondizionale, usando, come “mostrazione” che fissa il riferimento, un’occorrenza della sua forma grafica/fonetica152. In questo senso non ci sono bicondizionali omofonici che non accettiamo sapendo che sono omofonici: infatti quando uso «“la neve è bianca”», in un bicondizionale che accetto in base alla mia nozione di verità, il nome citazionale è inteso come una mostrazione dell’enunciato che uso sulla 116 Verità e fattori di verità destra del bicondizionale. Dunque, dubitare che l’enunciato nominato sulla sinistra sia lo stesso usato sulla destra vorrebbe dire dubitare del fatto che un una cosa sia identica a se stessa: vorrebbe dire dubitare della verità di “questo enunciato = questo enunciato” in cui la seconda occorrenza di “questo” è anaforica rispetto alla prima, si riferisce cioè, in base alle intenzioni del parlante, alla stessa cosa cui si riferisce la prima, qualsiasi cosa essa sia (nel caso specifico degli enunciati ciò significa: qualsivoglia siano le loro proprietà semantiche). Cosa succede allora quando non accettiamo il bicondizionale «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca»? Di solito, quando vedo una persona in una stanza, se l’individuo cui mi trovo di fronte non subisce mutamenti troppo radicali e discontinui, sono convinto di trovarmi, nel tempo, di fronte allo stesso individuo. Si possono certo immaginare casi limite in cui dubbi a riguardo potrebbero sorgere: ad esempio un filosofo potrebbe avermi convinto del fatto che due cose possono sembrare una sola cosa, e sembrarlo ad ogni attento scrutinio, ma non di meno essere numericamente diverse. In questo caso io potrei dubitare dell’enunciato “questa persona = questa persona” se la seconda occorrenza di “questa persona” è intesa non in modo anaforico ma come l’occorrenza di un diverso termine singolare il cui riferimento semantico è dato dall’individuo che è, di fatto, mostrato dal parlante, indipendentemente dalle credenze del parlante su chi questo individuo sia. L’indecisione nei confronti del bicondizionale «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» è un caso analogo a quello precedente. In base alla mia nozione di verità io accetto il bicondizionale omofonico «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca» in cui il nome usato sulla sinistra è il nome dell’enunciato che comprendo, usato sulla destra. Per una serie di circostanze posso però dubitare che una certa persona che proferisce la replica sintattica /la neve è bianca/ parli la mia stessa lingua. Ho dunque un problema ontologico: non esisterà per caso un altro enunciato (diverso dall’enunciato che comprendo) che questa persona sta proferendo? Se così fosse dovrei aggiungere un nuovo bicondizionale alla mia teoria della verità: «”la neve è bianca” è vero sse la neve è bianca», un bicondizionale che accetto senza comprendere e in cui il nome dimostrativo «”la neve è bianca”» sarebbe un nome dell’enunciato di quella lingua che non comprendo. Dunque il mio dubbio non verte sull’accettazione del bicondizionale tipo omofonico in cui l’enunciato citato è l’enunciato “la neve è bianca” che io comprendo, ma sull’essere un certo enunciato una replica di questo bicondizionale tipo o di un altro (sulla cui esistenza sono indeciso). Ciò dipende dal fatto che io sono incerto sulla coreferenzialità di due occorrenze di quello che è (di fatto) uno stesso nome citazionale. Tale dubbio è possibile perché io ho dei dubbi sull’enunciato replica che fissa il riferimento del nome citazionale: tale enunciato replica è una replica dello stesso enunciato tipo che io comprendo? Oppure esiste un diverso enunciato tipo di cui esso è replica? Se così fosse il bicondizionale replica in questione (sulla cui asserzione sono indeciso) sarebbe replica di un bicondizionale tipo diverso da quello che io accetto a priori. In 117 Capitolo III tale bicondizionale il nome virgolettato sulla sinistra denoterebbe un enunciato tipo diverso da quello che io uso, mentre l’enunciato usato sarebbe l’enunciato che io uso: ma tale bicondizionale, se esistesse, non sarebbe omofonico dunque non dovrei accettarlo solamente in base alla mia nozione di verità (potrei accettarlo in base a tale nozione più alcune conoscenze sul sussistere di una relazione di traduzione fra l’enunciato citato in esso e l’enunciato usato in esso). Tutto ciò è dunque possibile perché io non riconosco due enunciati replica (certe repliche che io comprendo e so di comprendere e certe altre repliche proferite da altri) come repliche dello stesso enunciato tipo. Ma in questo non c’è nulla di strano, come non c’è nulla di strano nel vedere due volte la stessa persona senza riconoscerla. Il vincolo imposto dalla nostra nozione di verità su un bicondizionale perché esso sia accettato dal parlante, è infatti unicamente che il nome citazionale sia nome dell’enunciato usato, che l’enunciato citato e usato siano lo stesso enunciato. Ma si può comprendere un enunciato senza sapere che un certo nome virgolettato è nome di quell’enunciato; ad esempio posso avere un’amnesia e credere di essere in una terra dove si parla una lingua diversa dalla mia, ma morfologicamente indistinguibile: in questo caso le virgolette denotano, attraverso la forma fonetica o grafica dell’enunciato replica (che credo di non comprendere), quello stesso enunciato tipo che io comprendo. E, di converso, si può sapere che un enunciato è identico a se stesso senza comprenderlo. 5.4. Le quattro teorie e i fattori di verità In cosa consiste effettivamente la differenza fra le due forme di teoria proposizionale, la teoria puramente decitazionale e la teoria ridondantista? Si tratta di una differenza essenzialmente concernente la verità o qualcos’altro? La mia tesi è che si tratti essenzialmente di una differenza concernente qualcos’altro. Lo si può vedere confrontando le prime due teorie (proposizionali) con la terza (quella puramente decitazionale), poi il ragionamento si potrà estendere anche alla quarta. È vero che il proposizionalista e il decitazionalista accettano una diversa definizione di verità per enunciati. Per il proposizionalista, come si è visto, la verità di un enunciato consiste in due fatti: 1) un fatto semantico, il sussistere di una relazione di espressione fra l’enunciato e una certa proposizione; 2) l’essere tale proposizione vera. La verità di una proposizione è poi analizzata in base a un fatto non semantico: il soddisfacimento delle condizioni di verità della proposizione in questione (ad esempio per la proposizione che la neve è bianca tale fatto consisterà nell’essere la neve bianca o nell’esemplificazione da parte della neve della proprietà di essere bianca). Per il decitazionalista invece la verità di un enunciato è definita direttamente dal soddisfacimento delle sue condizioni di verità, dunque da un fatto non semantico. Tali condizioni di verità saranno espresse dai lati destri dei bicondizionali omofonici (la disposizione ad accettare 118 Verità e fattori di verità i quali esaurisce la nostra nozione di verità) e, naturalmente, dalle loro traduzioni nella lingua di ciascun parlante. Ad esempio ciascun individuo competente sul predicato di verità accetterà in base alla sua nozione di verità il bicondizionale omofonico «“snow is white” è vero sse snow is white». Ovviamente se un individuo non comprende l’inglese egli, pur riconoscendo che la condizione di verità dell’enunciato in questione è espressa dal lato destro del bicondizionale, non saprà individuare tale condizione, non saprà distinguerla dalle condizioni di verità di altri enunciati inglesi. Ma che questo è compatibile col fatto che egli sappia (a priori) che quella è la condizione di verità. La teoria proposizionalista dunque, a differenza di quella decitazionalista, considera gli enunciati come portatori secondari della verità e le proposizioni come portatori primari, nel senso che gli enunciati possiedono la verità solo relativamente alla proposizione che esprimono. In generale però la distinzione fatta da una teoria fra portatori primari e secondari di una certa proprietà si può leggere in questo modo: fare questa distinzione non è altro che dire che vi è un solo tipo di cose che possiedono effettivamente la proprietà in questione: le cose di cui si dice che possiedono primariamente quella proprietà. Le cose di cui si dice che possiedono secondariamente quella proprietà invece non la possiedono: ma, poiché vi è una correlazione sistematica fra queste cose e le cose nella prima categoria, noi abbiamo esteso l’uso del predicato con cui ci riferiamo alla proprietà in questione applicandolo anche a queste cose, secondo questa regola: una cosa nella seconda categoria (quella delle cose di cui si dice che possiedono secondariamente o relativamente la proprietà) possiede la proprietà in questione se e soltanto se essa è correlata a una cosa della prima categoria che possiede la proprietà in questione. Ad esempio se diciamo che un comportamento è buono solo relativamente all’intenzione che lo motiva intendiamo dire che i comportamenti di per sé non sono né buoni né cattivi ma lo sono solo le intenzioni e che però, dato che molti comportamenti sono correlati a intenzioni, si può estendere il predicato “buono” anche ad essi secondo la regola summenzionata. In questo caso la teoria dei comportamenti buoni può essere distinta in due teorie diverse: 1) la teoria della bontà che sarà una teoria delle intenzioni buone; 2) la teoria della motivazione, della correlazione fra comportamenti e intenzioni. Allo stesso modo si può pensare alla teoria della verità degli enunciati sostenuta dal proposizionalista come alla congiunzione di due teorie: 1) la teoria della verità che è una teoria delle proposizioni vere; 2) la teoria del significato, intesa come teoria della correlazione (la relazione di espressione) fra enunciati e proposizioni. Torniamo all’esempio di filosofia morale. Mettiamo che vi siano due filosofi morali: uno di essi ha una metafisica tendenzialmente comportamentista che lo porta a non accettare le intenzioni nella sua ontologia a meno che queste non siano riducibili a comportamenti o disposizioni al comportamento; l’altro invece si trova a suo agio con le intenzioni in quanto entità distinte dai comportamenti e che li motivano. I due filosofi accettano rispettivamente queste teorie della bontà di un comportamento: (a) un comportamento è buono se e soltanto se 119 Capitolo III realizza la massima felicità per il maggior numero di persone; (b) un comportamento è buono se e soltanto se è motivato dall’intenzione di realizzare la massima felicità del maggior numero di persone. Anche se queste sono due diverse teorie della bontà dei comportamenti si può dire che la divergenza fra i due filosofi non sia fondamentalmente una divergenza sulla natura della bontà: entrambi ritengono che la bontà consista nell’essere un “portatore di bontà” tale da realizzare la massima felicità per il maggior numero. La vera divergenza fra i due filosofi risiede sulle cose che secondo loro possiedono effettivamente la proprietà di essere buone: per il primo si tratta dei comportamenti per il secondo delle intenzioni. In base a questa differenza il secondo ha (e il primo no) una teoria della bontà dei comportamenti che è in realtà la congiunzione di due teorie: la teoria della bontà delle intenzioni e la teoria della motivazione, della correlazione fra comportamenti e intenzioni. Anche per questo secondo punto vale l’analogia col dibattito fra decitazionalisti e proposizionalisti. Ciò in cui consiste la verità delle cose che, per ciascuno dei due, godono effettivamente della proprietà di esser vere è per entrambi un fatto non semantico: il soddisfacimento delle condizioni di verità dei portatori di verità in questione. Le due teorie non divergono effettivamente sulla natura della verità ma su quali sono le cose vere. Questa conclusione si può applicare anche alla teoria ridondantista: anche questa teoria può leggersi come una teoria che sostiene che le cose che sono effettivamente vere sono solo gli enunciati che comprendiamo e che, in base a una correlazione fra enunciati che non comprendiamo e enunciati che comprendiamo, estendiamo il predicato di verità dai secondi ai primi153. Queste teorie si impegnano sull’esistenza di fattori di verità? Qui il discorso è più articolato. La versione minimalista del proposizionalismo, e le due versioni di deflazionismo sicuramente no. Infatti, per ciascuna di queste tre teorie ciò in virtù di cui ciascun portatore di verità è vero è il soddisfacimento della propria condizione di verità espressa nel bicondizionale che lo concerne. Questo vale anche per le definizioni tarskiane: le definizioni tarskiane infatti, pur definendo la verità degli enunciati elementari in base alla nozione di soddisfacimento delle formule subenunciative, definiscono a loro volta il soddisfacimento senza impegnarsi su cose in virtù di cui una formula è soddisfatta: una sequenza di oggetti, di per sé, non soddisfa alcuna formula; la soddisfa se e solo se certi oggetti nella sequenza soddisfano una qualche condizione. Ora, esattamente per lo stesso motivo, neanche la definizione in stile tarskiano di verità per proposizioni si impegna sull’esistenza di fattori di verità. Per rendersi conto di ciò basta analizzare la clausola che definisce la verità per una proposizione elementare: (a) una proposizione <<o1…on>, P*> è vera sse <o1….on> appartiene all’insieme di n-uple che esemplificano P* 120 Verità e fattori di verità La definizione si impegna su due entità: una n-upla di individui e un insieme. Nessuna di queste due entità è un fattore di verità perché entrambe possono esistere senza che l’una sia membro dell’altra (tranne nel caso in cui P* sia una proprietà essenziale di <o1…on>). Si può sostenere che il ricorso alla nozione di insieme è superfluo: infatti se un insieme è caratterizzato mediante una caratteristica che devono avere i suoi membri (principio di comprensione) allora dire che un individuo appartiene all’insieme non è altro che dire che l’individuo ha quella caratteristica. Dunque la definizione si può riformulare così: (b) una proposizione <<o1…on>, P*> è vera sse <o1….on> esemplifica P* Ma anche in tale formulazione la definizione non si impegna su fattori di verità: a meno che non si pensi che l’esemplificazione di una proprietà da parte di n individui sia fondata sull’esistenza di entità. Vi possono essere argomenti per sostenere questa tesi ma sicuramente essa non è una conseguenza di questa definizione di verità. Esattamente la stessa cosa vale per la seconda delle definizioni corrispondentiste presentate: essa infatti fa uso, come la definizione proposizionalista, della nozione di esemplificazione. La prima delle due definizioni invece riconosce l’esistenza di fattori di verità: stati di cose sussistenti. Essa però in quanto definizione di verità non sembra avere nulla di meglio rispetto alla definizione proposizionalista della verità per enunciati o alla sua gemella composizionale: infatti non ne differisce per risorse concettuali ma solo per il tipo di ontologia che adotta. Dunque, in quanto definizione di verità, non sembra preferibile ad esse. Pertanto la teoria della verità non sembra una buona ragione per preferirla alle altre: il preferirla sembra dipendere dalla convinzione ontologica che la realtà è fatta di stati di cose sussistenti. Ma questa è una questione che concerne la metafisica non la teoria della verità. Che rapporto c’è fra la definizione strutturale come quella proposizionalista tarskiana o quella corrispondentista per enunciati e una caratterizzazione per lista? Mi sembra che la differenza stia nel potere espressivo: una definizione strutturale può definire in maniera finita quello che una definizione per lista potrebbe caratterizzare solo con un vocabolario molto più dispendioso (se non infinito, se gli oggetti del dominio e le proprietà sono infiniti). Questo non significa che le informazioni effettivamente fornite dalla definizione esplicita siano maggiori di quelle fornite dalla definizione per lista. A questo tipo di definizioni si può cioè applicare lo stesso tipo di considerazioni usate da Horwich per sostenere che le definizioni composizionali di verità che fanno uso di nozioni come quelle di riferimento o applicazione di un predicato per definire la verità degli enunciati elementari del linguaggio o sono incomplete o hanno carattere infinitario154. La definizione esplicita contiene infatti la nozione primitiva di esemplificazione. Sembra necessario dare una qualche caratterizzazione di cosa significhi per un individuo esemplificare una proprietà. Non solo perché se non lo si fa non si potrebbe inferire da “Pippo esemplifica la 121 Capitolo III proprietà di correre” “Pippo corre”; ma anche perché si vorrebbe sapere qualcosa di questa relazione fondamentale, si vorrebbe che non restasse una parola priva di significato. D’altra parte non appena si tenta di dare una caratterizzazione generale di cosa sia l’esemplificazione si incorre facilmente in paradossi simili a quelli che avevano indotto Tarski a non definire un predicato generalizzato di verità: basta prendere la proprietà di non esemplificare nessuna proprietà. L’unica soluzione sembra quella di considerare l’espressione “a esemplifica P” come introdotta a partire da una lista di equivalenze come “a esemplifica la proprietà di essere rosso sse a è rosso” “a esemplifica la proprietà di essere bello sse a è bello”. Ma se è così la definizione di verità per proposizioni elementari data da Soames non sembra essere nulla di diverso da un’abbreviazione di questo: (c) una proposizione <<o1…on>, P*> è vera sse P* è la proprietà di essere rosso e <o1> è rosso o P* è la relazione di amare e o1 ama o2…. Questo è sempre più economico rispetto a una lista di bicondizionali come (d) la proposizione < a, Rosso> è vera sse a è rosso, la proposizione <b, Rosso> è vera sse b è rosso… (e) la proposizione <<a, b>, Amare> è vera sse a ama b….. Ma si tratta appunto di maggiore economicità espressiva non, mi sembra, di maggiore informatività sul significato di “vero”. Anche se nessuna delle quattro concezioni presentate si impegna sull’esistenza di fattori di verità (con l’eccezione di una della due versioni di definizione corrispondentista), nessuna di esse è, di per se stessa, incompatibile con l’ammissione di fattori di verità e nemmeno con una teoria che consideri l’esistenza di un fattore di verità come una condizione metafisicamente necessaria e sufficiente dell’esser vero di un portatore di verità. Ognuna di esse infatti potrebbe essere estesa sostenendo la validità di questo schema: (NEC) †[p sse ∃Γ†(∃y(y=Γ) → p)]155 Il quale però, per concernere realmente l’esistenza di cose in virtù di cui un portatore di verità è vero, dovrebbe essere sostenuto come una conseguenza di (RV) †[p sse ∃Γ (p poichénec E! Γ)] La definizione per proprietà, com’è suo compito, ci offre modo di formulare questi principi in modo generale e finito. (PNEC) †∀x∀y [x è una è n-upla di individui e y è una proprietà → x esemplifica y sse ∃Γ †(∃y (y = Γ) → x esemplifica y)] 122 Verità e fattori di verità (PRV) †∀x∀y [x è una è n-upla di individui e y è una proprietà → x esemplifica y sse ∃Γ (x esemplifica y poiché E! Γ] Avremmo ancora potuto risparmiare fiato e sintetizzare (F) †∀ x (x è un fatto x sse x è un fatto poiché E!Γ) Naturalmente bisognerebbe trovare delle buone ragioni per accogliere nella propria filosofia schemi come i precedenti, ma, se si trovassero, la nozione di fattore di verità entrerebbe nella teoria della verità. Infatti prendiamo (RV): dato ad esempio un assioma di una teoria decitazionale della verità non estesa da «“p” è vero» si potrebbe inferire “p”, e da “p” si potrebbe inferire “∃x(xRVp)”, in base alla corrispettiva esemplificazione di (RV) (e unitamente alla nozione di “x rende vero y” proposta nel capitolo precedente)156. Questo implica che la pretesa di esaustività delle concezioni della verità in questione non è scontata: se infatti si riesce a sostenere la necessità di accettare uno schema come il precedente vi saranno delle cose necessariamente vere sulla verità che non sono espresse dai bicondizionali omofonici. E, se il principio dovesse rivelarsi valido in ambiti specifici di discorso, anche questa sarebbe un’importante scoperta sul ciò che fonda l’esser veri dei portatori di verità veri appartenenti a quell’ambito di discorso. 6. Un quarto presunto limite: la differenza della verità dall’asseribilità. Come ho osservato all’inizio, Mulligan et alii colgono una ragione di inadeguatezza della definizione tarskiana di verità nel fatto che mentre la nostra nozione di verità ha una connotazione realista, la nozione definita da Tarski è neutrale a questo riguardo157. Nel sostenere ciò gli autori si rifanno esplicitamente ad un argomento di Putnam158. Putnam si chiede: il requisito di adeguatezza materiale espresso dalla convenzione T è un vincolo sufficiente per costruire un teoria della verità adeguata? Cioè: il fatto che una teoria della verità contenga una definizione di verità che rispetti la convenzione T è sufficiente perché tale teoria compia un’analisi esauriente del nostro concetto di verità? La risposta di Putnam è: no, perché il requisito di adeguatezza materiale richiede solo che dalla definizione del predicato siano inferibili logicamente i bicondizionali T, senza porre alcuna restrizione (se non strutturale) sul linguaggio oggetto per cui è definito il predicato (se non la restrizione che il linguaggio oggetto non contenga i predicati semantici definiti nel metalinguaggio). Questo implica che non è rilevante per il requisito di adeguatezza materiale che i simboli logici o i predicati non logici del linguaggio abbiano un significato piuttosto che un altro (questo per Tarski era un pregio perché garantiva la generalizzabilità del suo 123 Capitolo III metodo). Ciò comporta, secondo Putnam, che, nel caso di un linguaggio intuizionista, in cui il significato delle costanti logiche (e verosimilmente anche di quelle non logiche) ha un’interpretazione in termini di condizioni di provabilità, il predicato definito con la procedura tarskiana sarebbe interpretabile come “provabile”, sarebbe cioè non il predicato di verità in L ma di provabilità in L. Ma dunque, conclude Putnam, il requisito di adeguatezza materiale sottodetermina la nozione espressa dal nostro predicato di verità, perché il nostro predicato di verità non è nemmeno coestensionale al predicato “provabile”. La nozione espressa dal nostro predicato di verità è cioè una nozione realista in base alla quale ci sono cose provabili e non vere e vere ma non provabili. Dunque la convenzione T, in particolare il requisito di adeguatezza materiale, non è sufficiente per caratterizzare la nostra nozione di verità; di conseguenza le definizioni tarskiane che sono costruite in base ad essa non catturano un aspetto centrale della nostra nozione di verità (pur essendo, secondo Putnam, le uniche possibili definizioni di verità). Conclusione: le definizioni tarskiane vanno benissimo ma la teoria della verità deve andare oltre per analizzare ciò che della nostra nozione di verità quelle definizioni lasciano fuori. Il modo in cui la teoria deve essere ampliata secondo Mulligan et alii (e secondo molti sostenitori di una concezione corrispondentista della verità) è appunto la connessione fra le verità e le cose che le rendono vere. Ora: anche ammettendo la premessa maggiore dell’argomento di Putnam, che cioè il predicato tarskiano per un linguaggio intuizionista sarebbe interpretabile come “provabile”, non mi sembra seguire né la conclusione di Putnam né quella dei corrispondentisti. Infatti, che la nozione espressa da “vero” sia tale che accettiamo enunciati come “può essere vero che sul pianeta più lontano dalla Terra c’è una rosa rossa anche se non sarà mai provabile”, non implica che la nozione espressa dal nostro predicato non è neutrale metafisicamente. Infatti potrebbe esserci fra il nostro predicato di verità e il nostro linguaggio (e le nostre credenze) da una parte, lo stesso rapporto che vi è fra il predicato tarskiano e il linguaggio e le credenze intuizioniste: il nostro predicato di verità è cioè neutrale metafisicamente e, tramite i bicondizionali omofonici, le nostre credenze realiste si esprimono col predicato di verità159. E in effetti questo è proprio il modo in cui Putnam descrive le nostre intuizioni realiste, sostenendo che il carattere realista della nostra nozione di verità si esprime l’accettazione di enunciati come: (A) Venere potrebbe non avere CO2 nell’atmosfera anche se segue dalla nostra migliore teoria che Venere ha CO2 nell’atmosfera Dal quale, assumendo il teorema rilevante che è conseguenza della definizione tarskiana, segue (sostituendo nel contesto modale “è vero che p” a “p”): (B) Potrebbe non essere vero che Venere ha CO2 nell’atmosfera, anche se dalla nostra migliore teoria segue che Venere ha CO2 nell’atmosfera 124 Verità e fattori di verità Da (B) tramite generalizzazione esistenziale si ottiene (C) È possibile che una proposizione non sia vera anche se è una conseguenza della nostra migliore teoria160 Dunque non solo non c’è ragione di trarre dalla nostra accettazione di enunciati come (C) conclusioni negative circa la differenza fra la nozione espressa dal nostro predicato di verità e quella espressa dai predicati tarskiani. Anzi l’asserzione di enunciati come (C) sembra dipendere dalla congiunzione di un predicato di verità “formale” e di robuste intuizioni realiste sulle atmosfere dei pianeti e sul loro contenuto. O per lo meno non è scontato che sia il contrario. Enunciati come (B) e (C) sono senza dubbio estensioni della teoria tarskiana ma non si vede perché non li si dovrebbe considerare anche estensioni della nostra nozione di verità. E questa ipotesi sembra trovare supporto dal fatto che in (A), da cui sono partite le inferenze, il predicato di verità non compare. Come potrebbe essere giustificato un enunciato come (A) dal quale, unitamente ai bicondizionali derivati da una definizione tarskiana, potrebbe ottenersi l’estensione voluta della teoria tarskiana della verità? Potrebbe essere giustificato sulla base di considerazioni semantiche (per esempio sul fatto che il nostro modo di comprendere parole come “e” “se allora” non è intuizionista e che dunque ci è per lo meno concepibile, ad esempio, che una disgiunzione sia vera ma che nessuno dei suoi membri sia provabile), oppure sulla base di considerazioni epistemologiche (ad esempio che le nostre capacità conoscitive sono intrinsecamente soggette ad errore e limitate, e che dunque anche in stati epistemicamente ideali è possibile essere giustificati nell’asserire che p anche se non p e che, viceversa, può darsi il caso che p, anche se non abbiamo e non potremo mai avere modi per stabilire se p o non p), oppure sulla base di considerazioni metafisiche (che l’esistenza o non esistenza di cose come l’atmosfera di Venere o le molecole di CO2 sono fatti indipendenti dalle nostre capacità cognitive)161. Che l’insieme di queste considerazioni possa essere rilevante per sostenere la distinzione (o non distinzione) fra la verità e l’asseribilità è quello che fa dire a Putnam (sulla base della sua teoria esternista dell’individuazione dei concetti) che la parola “vero” è una di quelle per cui La distinzione fra significato e intera teoria è inutile. Ma “intera teoria” significa proprio teoria intera, non solo l’intera teoria logica ma anche l’intera teoria della conoscenza e questa coinvolge la nostra teoria della natura e delle nostre interazioni con essa162. La nozione di fattore di verità può essere utile a esplicitare o a giustificare le intuizioni realiste espresse da enunciati come (A) o (C)? Mi sembra di no. L’analisi della nozione infatti fa riferimento alla nozione di esistenza; un fattore di verità per “p” è un’entità che ha (per lo meno) queste caratteristiche: 125 Capitolo III esiste ed è tale che la sua esistenza è la ragion sufficiente (mediata o immediata) della verità di p. Ipotizziamo di accettare tutte le esemplificazioni dello schema p è vero poiché esiste Γ . Di per sé le esemplificazioni di tale schema non sono meno neutrali riguardo al problema del realismo di quanto lo siano i bicondizionali omofonici e la definizione tarskiana di verità. La loro interpretazione realista o non realista dipende da come sono comprese le espressioni che compaiono nel lato destro dei bicondizionali: dunque sia da come è compreso “p” sia da come è compreso “esiste”, cioè da quale nozione di esistenza abbiamo. Ad esempio se si ha una nozione intrateorica di esistenza come: x esiste =def esiste una descrizione α tale che è provabile x = α, allora la nozione di fattore di verità sarebbe una nozione vincolata epistemicamente e dunque, se si estendesse tramite essa la teoria della verità, la verità diverrebbe una proprietà connotata in termini epistemici. Lo stesso accadrebbe se avessimo una comprensione intuizionista di “p”. Per escludere l’interpretazione epistemica della nozione di fattore di verità bisognerebbe aggiungere alla sua definizione degli assiomi come: qualcosa può esistere anche se nessuno mai ne avrà la prova. Ma questi assiomi non riguardano più né la nozione di fattore di verità né, a fortiori, quella di verità ma, appunto, la nozione di esistenza e ne esplicitano una concezione realista. Facciamo un esempio con una proposizione appartenente a un tipo che, nella concezione in esame, è considerato come il candidato ideale per la spiegazione della verità in base all’esistenza di un fattore di verità: una proposizione esistenziale singolare come che Pippo esiste. Ogni entità rende vera la proposizione che dice che essa esiste per il solo fatto di esistere; ma ciò non dice nulla sul dibattito realismo-antirealismo: in una prospettiva antirealista, ad esempio verificazionista, il fatto che Pippo esista non è un fatto che potrebbe anche essere di principio inverificabile: fatti di questo tipo, per il verificazionista, non ne esistono. Dire che Pippo esiste in questa prospettiva è dire che possiamo provare degli enunciati vertenti su Pippo (ad esempio che possiamo dimostrare per un qualche particolare individuo che esso è identico a Pippo). Dunque affermare che Pippo può esistere anche se nessuno potrà mai dimostrarlo è affermare una contraddizione. Dunque anche inserendo la nozione di fattore di verità nella teoria della verità, non avremmo fatto grossi passi avanti nella difesa di una nozione realista di verità, a meno di non estendere la teoria con assiomi come “Pippo esisterebbe anche se nessuno fosse mai in grado di provarlo”. A questo punto però sarebbero questi assiomi a catturare le intuizioni realiste, e non la definizione di fattore di verità163. Questo, come si è visto, è esattamente quello che succede con una definizione tarskiana, dunque dove sta il progresso? Se il dibattito realismoantirealismo concerne la distinzione e l’indipendenza metafisica, sostenuta dai realisti e negata dagli antirealisti, fra l’essere il mondo in un certo modo e l’essere noi capaci di dimostrare che il mondo è in un certo modo, allora il dibattito può ripetersi sull’esistenza dei fattori di verità stessi. 126 Verità e fattori di verità L’esito del dibattito (imperniato su questioni di teoria del significato, di teoria della conoscenza e di metafisica) darà poi un contenuto piuttosto che un altro (realista o antirealista) alla nozione di verità e a quella di fattore di verità (se la si vorrà accogliere). Questo vale più in generale per le definizioni corrispondentiste di verità. Un idealista potrebbe benissimo accettare una definizione corrispondentista di verità: per essere un idealista gli basterebbe sostenere una particolare teoria concernente la natura dei fatti o, più in generale, su cosa siano le entità prescelte per rendere vere le proposizioni: una teoria che sostenga appunto che tali entità sono dipendenti dalla mente o astrazioni rispetto al divenire dello spirito assoluto. Allo stesso modo un verificazionista non ha alcun motivo di rifiutare una definizione corrispondentista di verità: gli basta sostenere che il sussistere di un certo stato di cose è identico al (o metafisicamente dipendente dal) darsi delle condizioni che giustificano l’asserzione del suo sussistere; o, equivalentemente, che il fatto che p è identico o metafisicamente dipendente dal sussistere delle condizioni di asseribilità di “p” (il verificazionista non è necessariamente un idealista perché nulla lo costringe ad affermare che il sussistere o non sussistere delle condizioni di asseribilità sia un fatto dipendente dalla mente, gli basta sostenere che ogni fatto è epistemicamente accessibile)164. 7. La dipendenza della verità dall’essere Abbiamo già notato, nel capitolo precedente, che tutte le esemplificazioni dello schema (G) se è vero che p allora è vero che p poiché p sono accettate come vere da chiunque comprenda il significato di “vero”. Ciò vale anche per la variante di (G) in cui i portatori di verità sono enunciati, cioè (G1) se “p” è vero allora “p” è vero poiché p165. Molti corrispondentisti hanno fatto appello a fatti del genere per sostenere che le teorie non corrispondentiste della verità sono per lo meno non esaustive, che c’è qualcosa della nozione di verità che esse non catturano. Questo qualcosa è appunto l’intuizione, espressa negli enunciati di cui sopra, che vi è una dipendenza asimmetrica di qualche tipo fra la verità di una proposizione e il modo in cui è il mondo166. I sostenitori della teoria della corrispondenza pensano che l’unico modo per rendere conto di tale intuizione sia ammettere che l’esser vero non è altro che essere in una certa relazione con delle entità che popolano il mondo, i fatti. I sostenitori dei fattori di verità, pur rinunciando ad una definizione della verità come corrispondenza ai fatti, condividono con i 127 Capitolo III corrispondentisti l’idea che il fatto che la verità sia fondata dal mondo può essere spiegato solo ammettendo che ci siano delle cose che fondano l’esser vere delle proposizioni, che dunque non ci può essere fondazione senza fondamenti. Si può dunque formulare un argomento di questo tipo a favore del massimalismo dei fattori di verità: se non ci sono cose che fondano non ci può essere fondazione, ma la verità è fondata, dunque per ogni proposizioni vera ci sono cose che ne fondano l’esser vera cioè fattori di verità. Gonzalo Rodriguez Pereyra ha formulato con chiarezza l’argomento, esplicitandone un presupposto fondamentale, in questo modo: (1) La verità è fondata (2) Fondare è una relazione (3) Se c’è una relazione allora ci devono essere i suo relata. (4) Dunque ci sono cose che fondano la verità delle cose vere167. La premessa cruciale è la (2). Si può infatti mettere in dubbio che la fondazione possa intendersi solo come una relazione (il rendere vero appunto) fra proposizioni ed altre entità (diverse dalle proposizioni). 7.1. La fondazione come sopravvenienza della verità sull’essere John Bigelow ha sostenuto, ad esempio, che l’intuizione sulla fondatezza della verità può essere catturata anche senza impegnarsi su uno dei due principi dei fattori di verità e in generale, senza far ricorso alla nozione di rendere vero. L’intuizione corrispondentista è infatti catturata dal principio detto della sopravvenenienza della verità sull’essere: il principio dice che non ci può essere una differenza fra le cose vere in un mondo possibile e le cose vere in un altro mondo possibile se non c’è una differenza fra le cose che esistono nei due mondi possibili, se essi non differiscono in popolazione168. L’attrattiva del principio della sopravvenienza consiste nel fatto che esso permette di considerare fondate alcune proposizioni vere per cui è difficile trovare sia fattori di verità sia una classe qualsiasi di proposizioni che sono vere se e solamente se hanno fattori di verità e delle quali le prime sono funzioni di verità: dunque proposizioni che rappresentano degli scogli sia per il massimalismo dei fattori di verità, sia per l’atomismo. Proposizioni di questo tipo sono quelle universali. Prendiamo la definizione meno esigente del rendere vero: quella del rendere vero come necessitazione (naturalmente le considerazioni seguenti varranno a maggior ragione per le definizioni più esigenti). Quale entità è tale che è impossibile che essa esista e che non sia vero che tutti gli uomini sono nati sulla terra? Si potrebbe essere tentati di rispondere: la totalità degli uomini finora esistiti. Tale totalità però non è tale che necessariamente se essa esiste è vero che tutti gli uomini sono nati sulla terra: infatti non sarebbe stato impossibile che fossero esistiti più uomini di quelli che sono esistiti di fatto e che alcuni di tali uomini in più non fossero nati 128 Verità e fattori di verità sulla terra (ma, ad esempio, su una base spaziale su Marte). In tale situazione possibile la totalità degli uomini finora (di fatto) esistiti esisterebbe ma non sarebbe vero che tutti gli uomini sono nati sulla terra. Dunque tale totalità non è ciò che rende vero che tutti gli uomini sono nati sulla terra perché è possibile che essa esista e che la proposizione non sia vera. L’unica entità che assicura la necessitazione sembra essere il fatto che tutti gli uomini finora esistiti sono nati sulla terra o, come sostiene Armstrong (riprendendo un’osservazione di Russell contro il Tractatus), un fatto di secondo ordine (che concerne cioè fatti e non individui): il fatto che questi sono tutti i fatti in qui “questi” si riferisce a fatti come il fatto che Gigi è un uomo ed è nato sulla terra, il fatto che Alessandro Magno è un uomo ed è nato sulla terra ecc. L’atomista logico, per parte sua, non sostiene che perché una proposizione sia vera è necessario che abbia un fattore di verità. Vi sono proposizioni, dette “atomiche” perché non contengono altre proposizioni come componenti, che sono vere se e solamente se qualcosa le rende vere. Il valore di verità delle proposizioni non atomiche dipende dal valore di verità delle proposizioni atomiche e, poiché questo dipende dall’esistenza o non esistenza di un fattore di verità, anche la verità delle proposizioni non atomiche potrà dirsi indirettamente fondata dal mondo anche senza che queste abbiano fattori di verità. Purtroppo questa strategia non ha successo con le proposizioni universali. Infatti non sembra esserci nessun insieme di proposizioni atomiche dal cui valore di verità dipenda il valore di verità delle proposizioni universali. Il problema è sempre lo stesso di prima: ipotizziamo che tutte le rose siano rosse e che esistano tante proposizioni quante sono le rose ciascuna delle quali ascrive a una diversa rosa la proprietà di essere rossa: l’esser vere di tutte queste proposizioni implicherebbe l’esser vera della proposizione che ogni rosa è rossa? Sembra di no, perché potrebbero esistere più rose di quelle che esistono di fatto, rose per di più non rosse: in questa situazione tutte le proposizioni della classe in questione continuerebbero ad essere vere ma sarebbe falso che tutte le rose sono rosse. L’atomista può reagire a questo problema accontentandosi di un senso molto debole in cui si può dire che il valore di verità di una proposizione dipende dal valore di verità di altre proposizioni: l’implicazione materiale, cioè quell’interpretazione degli enunciati della forma “se p allora q” in base alla quale un enunciato di tale forma è falso solo se l’antecedente è vero e il conseguente è falso. In tale interpretazione perché si possa dire che il valore di verità di q dipenda da quello di p basta che q e p siano di fatto entrambi veri. La dipendenza diventa però in tal modo una relazione poco significativa: il valore di verità di ogni proposizione vera dipende dal valore di verità di ogni altra proposizione vera. Il principio della sopravvenienza non incorre invece in questi problemi, esso è infatti meno esigente dei principi dei fattori di verità. Ad esempio, anche se si nega l’esistenza di un entità tale che è impossibile che essa esista e che non sia vero che tutte le rose sono rosse, e anche se si nega che il valore di verità della proposizione in questione dipenda dal valore di verità di un qualsivoglia insieme di proposizioni atomiche, si può pur sempre ammettere che se in una 129 Capitolo III certa situazione tutte le rose sono rosse e in un’altra no allora nelle due situazioni deve esistere qualcosa diverso; infatti ammettere questo non implica ammettere che in tutte le situazioni possibili in cui non è vero che tutte le rose sono rosse manca una medesima cosa (cioè il fattore di verità). Nonostante questi pregi il principio della sopravvenienza sembra non riuscire a catturare l’intuizione sulla fondatezza della verità espressa da (G) e (G1). Questo è stato sottolineato da diversi sostenitori dei principi dei fattori di verità. Rodriguez-Pereyra ha ad esempio sottolineato che la covarianza, attraverso mondi, di valori di verità e oggetti è simmetrica: due mondi possibili cioè, non possono differire per le cose che esistono in essi senza che vi sia qualche proposizione vera in uno e non vera nell’altro o viceversa (nella fattispecie le proposizioni concernenti le cose per l’esistenza o non esistenza delle quali in essi i due mondi differiscono). Se è vero dunque che la verità sopravviene sull’essere è anche vero che l’essere sopravviene sulla verità. Ma il “poiché” in (G) e (G1) è asimmetrico: è la verità ad essere fondata sull’essere e non viceversa.169 Un sostenitore di tali principi può inoltre osservare che il principio della sopravvenienza tradisce l’intuizione corrispondentista: tale intuizione infatti non concerne una generica dipendenza di quello che è vero da quello che c’è ma il fatto che l’esser vero di ciascun portatore di verità (o di una classe importante di essi) dipende da specifici modi in cui il mondo è, dunque, per il corrispondentista, da specifiche entità. Un caso, sollevato da Armstrong, in cui emergono le divergenze fra l’intuizione corrispondentista e il principio della sopravvenienza è quello delle verità necessarie, come le verità della matematica. Dato che non esiste alcuna situazione possibile in cui le proposizioni della matematica non sono vere, il sostenitore della sopravvenienza non ha nulla da dire sulla dipendenza della verità di tali proposizioni dall’essere. Ma l’intuizione corrispondentista vorrebbe che anche per queste verità ci fosse qualcosa che le rende vere170. Questo esempio fa parte della famiglia di controesempi, citati nel capitolo I, all’idea che le definizioni standard di sopravvenienza catturino l’idea della dipendenza dell’esemplificazione di una proprietà dall’esemplificazione di un’altra proprietà. 7.2. Fondazione è spiegazione Un sostenitore dell’analisi non relazionale del rendere vero può però sollevare un’obiezione radicale tanto nei confronti di una posizione come quella di Bigelow quanto contro l’argomento con cui i sostenitori dei fattori di verità sostengono che per la fondazione della verità siano necessari dei fondamenti della verità. L’obiezione, sollevata da Hornsby contro l’argomento di Pereyra, è semplicissima: (G) e (G1) sono sufficienti di per sé a giustificare l’intuizione sulla fondatezza della verità; tale intuizione non è altro che la nostra convinzione inamovibile che tutte le esemplificazioni di 130 Verità e fattori di verità (G) e (G1) siano vere. (G) e (G1) esprimono però l’intuizione della fondazione senza fare ricorso alcuno ad una relazione sussistente fra portatori di verità e cose che li rendono veri. La premessa (2) dell’argomento di Pereyra è falsa: ci può essere fondazione senza fondamenti. Nel precedente capitolo ho cercato di mostrare come l’accettazione del principio del fattore di verità necessita di un passo in più rispetto a (G) e (G1), un passo che potrà essere difeso per ragioni metafisiche, concernenti il problema di che cos’è per le cose avere proprietà. Un passo però che non è necessario compiere per giustificare la fondatezza della verità. Un sostenitore della teoria della verità come corrispondenza potrebbe però sostenere che bisogna in qualche modo spiegare in base a quale carattere della nozione di verità siamo autorizzati ad asserire tutte le esemplificazioni di (G) e (G1). E, può continuare, il filosofo in questione, nessuna concezione della verità diversa da quella della corrispondenza può spiegare questo fatto. La parte corretta di questa obiezione è la prima: bisogna in qualche modo dare qualche spiegazione della verità di (G) e (G1). Ma è proprio vero che nessuna delle concezioni della verità che non si impegnano sull’esistenza di cose in virtù di cui i portatori di verità sono veri riesce a rendere conto della nostra accettazione delle esemplificazioni di (G) o (G1)? Nel paragrafo successivo presento alcune delle ragioni in base a cui è stato sostenuto che una o l’altra concezione deflazionista della verità non rende conto di questo fatto. Cerco inoltre di mostrare come tali concezioni possano rendere conto di questo fatto. 7.3. E vero che p poichécons p Gerald Vision ha sostenuto che se quello che dicono i ridondantisti è vero, se cioè «“p” è vero» significa “p” è impossibile giustificare l’accettazione delle esemplificazioni di (G1)171. Infatti, se «“p” è vero» e “p” esprimono la stessa proposizione, possiamo sostituire salvo sensu, oltre che salva veritate, il secondo enunciato al primo in qualsiasi esemplificazione di (G1). Ma così facendo otteniamo “p poiché p” che è falso, in quanto “poiché” non si può usare riflessivamente, mentre le esemplificazioni di (G1) vengono accettate come vere. L’obiezione sembra fuori misura: se essa fosse corretta dovremmo negare casi paradigmatici di sinonimia come quella fra “scapolo” e “uomo adulto non sposato”. Infatti, sembra corretto dire che Tizio è scapolo poiché è un maschio adulto non sposato, mentre non è corretto dire che Tizio è un maschio adulto non sposato poiché è un maschio adulto non sposato172. Ma questo non è di solito considerato un buon motivo per affermare che “maschio adulto non sposato” significhi qualcosa di diverso da “scapolo”. Dunque, allo stesso modo, non si vede perché che si possa dire che è vero “p” poiché p, ma non che p poiché p, dovrebbe costituire una prova che non vi sia una relazione di sinonimia o di equivalenza cognitiva fra “p” e d “«è vero “p”». La seconda e la terza obiezione sono rivolte contro tutte le teorie che, pur non ritenendo l’accettazione dei bicondizionali conseguenza di un’identità di 131 Capitolo III significato dei lati destro e sinistro, considerano la disposizione ad accettare tali bicondizionali come esaustiva della nostra nozione di verità. Entrambe le obiezioni sono state sollevate contro il tentativo fatto da Horwich di rendere conto della nostra accettazione delle esemplificazioni di (G). Horwich ha sostenuto che un’esemplificazioni di (G) come “è vero che la neve è bianca poiché la neve è bianca” è l’ultimo anello di un processo esplicativo che parte da alcuni fatti fondamentali, presumibilmente descritti dalla fisica, che spiegano perché la neve è bianca e, attraverso il bicondizionale rilevante della teoria minimale, giunge all’esser vero che la neve è bianca. È però stato osservato, a mio parere correttamente, che la strategia di Horwich non coglie il bersaglio173. Se infatti “poiché” in (G) significasse “è spiegato da” nel senso in cui tale espressione è intesa quando si dice che l’esser la neve bianca è spiegato da alcune leggi della fisica e da alcuni fatti concernenti le caratteristiche fisiche della neve, allora considereremmo le esemplificazioni di (G) false o comunque poco felici. Infatti la verità concettuale è vero che p se e soltanto se p non costituisce un ulteriore passo del processo esplicativo (nel modo in cui Horwich intende “spiegazione”), ma semmai, in virtù di essa, noi possiamo considerare ogni spiegazione del fatto che p come una spiegazione del fatto che è vero che p. Il processo esplicativo descritto da Horwich giustificherebbe al più l’asserzione di “è vero che la neve è bianca poiché la neve riflette così e così i raggi del sole” (dove l’ultimo enunciato è uno di quelli invocati nella spiegazione dell’essere la neve bianca). Dunque il “poiché” di (G) non sembra esprimere una relazione esplicativa come quelle di cui parla Horwich. Ciò sembra mostrato anche dal fatto che noi accetteremmo le esemplificazioni di (G) indipendentemente dalla possibilità di spiegare che la neve è bianca in base a qualche fatto più fondamentale: che la neve sia bianca potrebbe anche essere un fatto primitivo, un fatto fondamentale della fisica, ma rimarrebbe vero che è vero che la neve è bianca poiché la neve è bianca. La seconda obiezione è rivolta al modo in cui Horwich ha tentato di rispondere a questa critica. Osservando cioè che proprio l’inferibilità di “è vero che p” da “p”, dati i bicondizionali che costituiscono la teoria della verità, è sufficiente a giustificare lo schema (G). Il “poiché” in (G) esprimerebbe cioè l’inferibilità di “è vero che la neve è bianca” da “la neve è bianca” dipendente dalla nostra accettazione della teoria minimale. Ma i bicondizionali della teoria minimale sono, appunto, bicondizionali: essi dunque autorizzano anche l’inferenza di “p” da “è vero che p”, mentre noi non accettiamo il converso di (G)174. Bisogna sottolineare che il fatto che tali obiezioni siano corrette non implica che il possesso della nozione di verità non consista nella disposizione ad accettare la teoria minimale (dunque non implica che il minimalismo sia falso). Tale fatto implica piuttosto che: 1) nessun assioma della teoria minimale ha lo stesso significato della corrispettiva esemplificazione di è vero che p poiché p; 2) il modo in cui Horwich tenta di rendere conto della nostra accettazione delle esemplificazioni di (G) è sbagliato. Si può infatti, come stiamo per vedere, spiegare la nostra accettazione di tutte le esemplificazioni di (G) non in base a fatti concernenti il significato dei 132 Verità e fattori di verità bicondizionali della teoria minimale, quanto piuttosto in base fatti concernenti il modo in cui tali bicondizionali sono appresi da un parlante. Si è visto che l’ammissione di identità di significato fra «”p” è vero» e “p” non esclude che si possano accettare le esemplificazioni di (G1). Questo non significa però che l’identità di significato di per sé giustifichi l’asserzione di tali esemplificazioni. Se così fosse saremmo infatti autorizzati a dire, per ogni enunciato p, “p poiché p”, dato che l’identità di significato è riflessiva. Ma questo è chiaramente falso. Quale altra relazione fra «“p” è vero» e “p” può esservi che giustifichi l’asserzione delle esemplificazioni di (G1) (o fra “è vero che p” e “p” che giustifichi l’asserzione delle esemplificazioni di (G))? Mi sembra corretta, a questo proposito, la tesi di Kuenne, secondo cui “poiché” in «”p” è vero poiché p» debba intendersi nel senso dell’analisi concettuale175. Se questo è vero, la nostra accettazione delle esemplificazioni di (G1), lungi dall’essere un motivo per rifiutare un’analisi ridondantista di «“p” è vero», dovrebbe essere un motivo per accettarla. Infatti un’analisi di tipo ridondantista può dire riguardo alla relazione fra «”p” è vero» e “p” che fra le due espressioni sussiste la stessa relazione che sussiste fra “a è uno scapolo” e “a è un maschio adulto non sposato”. Ciò non solo nel senso che entrambi i membri di entrambe le coppie sono in relazione di parafrasi, ma anche nel senso che in entrambe le coppie vi è una relazione asimmetrica fra “a è un maschio adulto non sposato”/“p”, da una parte, e “a è uno scapolo”/«”p” è vero», dall’altra. Tale relazione è la seguente: “a è un maschio adulto non sposato” e “p” spiegano il senso rispettivamente di “scapolo” ed «“p” è vero», ma “a è scapolo” e «“p” è vero» non spiegano il senso rispettivamente di “a è un maschio adulto non sposato” e “p”. Lo stesso può dirsi della relazione fra “è vero che p” e “p”. A supporto della sua tesi il ridondantista può continuare nel mostrare punti in comune fra il comportamento delle due coppie di espressioni in contesti dove compare “poiché”. Sovente quando usiamo la parola “poiché” in frasi interrogative lo facciamo per chiedere spiegazioni non concettuali. Se una parlante competente su “scapolo” chiede a qualcuno “Perché Tizio è uno scapolo?”, e questi gli risponde dicendo “Tizio è uno scapolo poiché è un maschio adulto e non è sposato”, la risposta sembrerà inappropriata. Quello che il parlante competente vuole sapere è infatti perché Tizio non è sposato e, poiché sa (in virtù della sua competenza linguistica) che “scapolo” si riferisce ai maschi adulti non sposati, formula la domanda usando l’espressione “scapolo” invece che l’espressione complessa “maschio adulto non sposato”. La risposta data dall’interlocutore è dunque per il parlante in questione, dal punto di vista informativo, equivalente a “Tizio non è sposato poiché non è sposato”. Una risposta più appropriata sembrerebbe invece, ad esempio: “Tizio è scapolo poiché non ha mai incontrato una donna che facesse per lui”. Allo stesso modo, di solito, chi chiede perché è vero che la neve è bianca vuole conoscere (considerando una conoscenza condivisa fra tutti i parlanti 133 Capitolo III competenti della sua lingua che è vero che la neve è bianca se e soltanto se la neve è bianca), una spiegazione dell’esser la neve bianca, un qualche fatto più fondamentale del fatto che la neve è bianca da cui, unitamente a qualche legge, presumibilmente fisica, possa dedursi che la neve è bianca. Questo non può essere il fatto che la neve è bianca: la relazione di spiegazione non è riflessiva. Per tale motivo anche la risposta “è vero che la neve è bianca poiché la neve è bianca” può risultare inappropriata ed equivalente a “la neve è bianca poiché la neve è bianca”. Una risposta accettata sarebbe invece “è vero che la neve è bianca poiché la neve riflette tutte le lunghezze d’onda nello spettro”. Le coppie “Tizio è scapolo”/”Tizio è un maschio adulto non sposato” e “è vero che p”/”p” mostrano dunque la stessa riottosità a comparire in enunciati che esemplificano (G) allorché “poiché” è inteso nei termini di una spiegazione non puramente concettuale. D’altra parte (F) “se una persona è uno scapolo lo è poiché è un maschio adulto non sposato”, anche se non costituisce una spiegazione del fatto che ci siano scapoli può esprimere un’analisi del concetto espresso dalla parola “scapolo”. Per chi possieda tale concetto (F) è banale ma non è falso e non è nemmeno inappropriato: a patto che egli non pensi che con l’enunciato in questione gli si voglia fornire una spiegazione dell’esistenza degli scapoli176. Bisogna osservare che enunciati del genere non vengono neanche considerati banali in certi contesti: i contesti in cui uno dei due interlocutori non ha una sufficiente competenza linguistica su una parola e un interlocutore competente lo corregge. Facciamo un esempio. Caio usa scorrettamente la parola “scapolo” per riferirsi non solo ai maschi adulti non sposati ma a qualsiasi essere umano che non sia sposato. Allorché egli fa in mia presenza uno di questi usi erronei della parola, per esempio dicendo che una bambino di cinque anni è uno scapolo, io posso correggerlo asserendo «no, Pierino non è uno scapolo poiché anche se non è sposato è solo un bambino, invece tu sei uno scapolo poiché oltre a non essere sposato sei anche un adulto». Dunque gli enunciati “Caio è scapolo poiché è un adulto non sposato” e “Pierino non è scapolo poiché non è un adulto non sposato” sono veri e informativi in questo contesto. Su cosa sono informativi? Sul concetto espresso da “scapolo” e, trattandosi di un termine introdotto per definizione, sulla proprietà denotata dal termine177. Questi stessi enunciati, una volta che si è diventati parlanti competenti, non sono più informativi perché l’informazione che essi fornivano la si possiede già. Ma essi possono essere accettati in quanto verità concettuali. Ma che cosa si intende più precisamente quando si dice che un certo uso di “poiché” esprime una relazione di analisi concettuale? Nel caso di “scapolo” e “maschio adulto non sposato” si intende, a mio parere, che il predicato complesso usato nell’enunciato a destra del “poiché” esprime una descrizione strutturale del concetto espresso da “scapolo”: il concetto <scapolo> è il concetto complesso consistente nella congiunzione dei 134 Verità e fattori di verità concetti <adulto>, <maschio> <non-sposato> che ne sono dunque costituenti. Di conseguenza la proprietà di essere uno scapolo è la proprietà complessa consistente nell’ essere adulto maschio e non sposato che ha come costituenti le proprietà di essere adulto, essere maschio ed essere non sposato. Ora, la relazione “essere un costituente di” o “consistere in” è non riflessiva: nessuna cosa è un costituente di se stessa o consiste in se stessa. Se dunque x è identico al concetto consistente nella congiunzione di a, b e c e la congiunzione di a, b e c ha a, b e c come costituenti, allora la congiunzione di a, b e c non può consistere nel concetto x né può avere x fra i suoi costituenti, se no x consisterebbe in se stesso e sarebbe un costituente di se stesso. Dunque il concetto <maschio & adulto & non sposato>) non potrà consistere nel concetto <scapolo> né potrà avere come costituente il concetto <scapolo> perché se no consisterebbe di se stesso e avrebbe come costituente se stesso. Pensare che almeno alcuni concetti abbiano una struttura i cui costituenti sono altri concetti non mi sembra più problematico che pensare che alcune cose abbiano una struttura i cui costituenti siano altre cose. Qui però non voglio impegnarmi su una particolare teoria dei concetti e su una particolare metafisica dei concetti. Mi basta infatti l’accettazione di un senso minimale in cui si possa dire che un concetto è costituito da altri concetti. Il senso minimale è che si possa osservare un’asimmetria fra la competenza linguistica nell’uso di una parola e la competenza linguistica nell’uso di altre parole e di espressioni composte a partire da tali parole, qualunque sia la teoria della competenza linguistica che si adotta. Ora, questa asimmetria mi sembra osservabile nel caso della parola “scapolo” e dell’espressione complessa “maschio adulto non sposato”. L’asimmetria si può osservare a diversi livelli. 1) L’apprendimento della parola, il suo ingresso nel vocabolario del parlante. Verosimilmente una parola come “scapolo” entra nel vocabolario di un parlante in virtù del fatto che il parlante comprende già parole come “maschio”, “sposato”, “adulto”, e enunciati della forma “non P” “P e Q”. Questo non significa che un parlante impari la parola “scapolo” mediante la definizione “x è scapolo = def x è un maschio adulto non sposato”. Ma che l’acquisizione della competenza presupponga la competenza sulle altre parole; per lo meno per correggere gli errori che vengono compiuti nell’usare la parola. Ad esempio: qualcuno può avere detto a Pierino che lo zio Carlo è scapolo poiché non è sposato; Pierino va dalla mamma e le dice “mamma, io non voglio più essere uno scapolo!”; la mamma lo corregge dicendo: “ma no Pierino tu non sei uno scapolo poiché, anche se non sei sposato, sei solo un bambino e solo degli adulti che non sono sposati si può dire che sono scapoli”. 2) Il fatto che né la comprensione delle parole che costituiscono l’espressione complessa né la comprensione dell’espressione complessa presuppongono la comprensione della parola “scapolo”: posso capire “Pino è un maschio adulto non sposato” senza capire “Pino è uno scapolo” se non mi è ancora stato insegnato che gli scapoli sono i maschi adulti non sposati. 135 Capitolo III Al contrario la comprensione di “scapolo” presuppone la comprensione dell’espressione complessa e dei suoi costituenti: questo se guardiamo sia agli aspetti inferenziali che agli aspetti applicativi della comprensione. Se uno non è disposto a inferire da “x è un maschio” “x non è una femmina” la sua competenza inferenziale su “scapolo” ne sarà ugualmente penalizzata. Naturalmente non avviene il contrario: se uno non è disposto a inferire da “x è scapolo” “x non è una femmina” (o “x è un maschio”), potrebbe saper inferire da “x è un maschio adulto non sposato” “x non è una femmina”, semplicemente perché non ha ancora imparato ad usare correttamente la parola “scapolo”. Lo stesso vale per gli aspetti applicativi: l’incapacità di applicare correttamente la parola “maschio” verosimilmente risulterà in un’incapacità di applicare correttamente la parola “scapolo”, mentre non necessariamente l’incapacità di applicare correttamente la parola “scapolo” sarà accompagnata dall’incapacità di applicare la parola “maschio” e l’intera espressione “maschio adulto non sposato”. 3) Sembra esservi anche un determinato ordine cronologico negli atti di riconoscimento: un atto di riconoscimento di uno scapolo dovrà essere preceduto da un atto di riconoscimento di un maschio adulto non sposato, ma non viceversa. Vi è dunque una dipendenza asimmetrica fra la competenza linguistica su “scapolo” e la competenza su “maschio adulto non sposato” e, di conseguenza, fra la competenza su “scapolo” e ciò da cui dipende la competenza su “maschio adulto non sposato”. Tale dipendenza è ciò che autorizza a considerare “x è un maschio adulto non sposato” come un’analisi (una descrizione strutturale) del concetto espresso da “x è scapolo” e non “x è scapolo” come un’analisi (una descrizione strutturale) del concetto espresso da “x è un maschio adulto non sposato”. Questo ci autorizza a dire che il concetto <scapolo> consiste nella congiunzione dei concetti <maschio> <adulto> <non sposato> (ed è da questi costituito) e che non ci autorizza a dire che la congiunzione di questi tre concetti consiste nel (è costituita dal) concetto <scapolo> (anche se siamo autorizzati a dire che tale congiunzione è identica al concetto <scapolo>). Per tale motivo essere uno scapolo è essere un maschio adulto non sposato ma non viceversa. Tale asimmetria è la ragione per è vero che se uno è scapolo lo è poiché è un maschio adulto non sposato ma non è vero che se uno è un maschio adulto non sposato lo è poiché è scapolo. L’asimmetria nella relazione di analisi concettuale dipende, almeno in questi casi, dalle relazioni di dipendenza asimmetrica nella competenza linguistica fra diversi livelli del lessico. La non riflessività sia dell’analisi che della spiegazione spiega anche il seguente fatto: mentre “a è scapolo poiché è un adulto non sposato” può essere considerato corretto (anche se banale), ammesso che il “poiché” sia usato nel senso dell’analisi concettuale, l’enunciato “a è un adulto non sposato poiché a è un adulto non sposato” è falso indipendentemente da come si intenda il “poiché”178. 136 Verità e fattori di verità Nello stesso modo si può spiegare la nostra accettazione delle esemplificazioni di (G) o (G1). Tali esemplificazioni sono analisi concettuali parziali di «vero», dunque il “poiché” in (G) e (G1) deve essere inteso sul modello del “poichécons”, il modello dello scapolo. La ragione per cui è corretto dire di “p” che è vero è che p, così come la ragione per cui è corretto dire di Pino che è scapolo è che egli è un maschio adulto non sposato. La differenza fra “scapolo” e “vero” è che, nel caso di “vero”, l’analisi concettuale del predicato non fa riferimento, come nel caso di “scapolo”, a proprietà dell’oggetto cui il predicato è ascritto (l’enunciato) ma a proprietà di qualche altra cosa (ciò di cui si parla in “p”). Ma in questo non c’è nulla di strano: il predicato è stato introdotto così nel linguaggio! 179 La parzialità dell’analisi dipende dal fatto che, a differenza di quanto avviene con “scapolo” e “maschio adulto non sposato”, la nozione espressa da “vero” è costituita dalla nostra disposizione all’accettazione di tutti i bicondizionali omofonici. Ciò, unitamente al fatto che in «”p” è vero» si parli di cose diverse da quelle di cui si parla in “p” (si parla di un certo enunciato e gli si ascrive una proprietà), fa sì che, a differenza di quanto sostenga il ridondantista, i due enunciati non siano in una relazione di parafrasi. Quest’ultimo fatto accresce l’asimmetria del “poiché” nel caso di «”p” è vero» e “p”: infatti “p” (quando è usato) non descrive “p” (l’oggetto cui è ascritta la verità, cioè se stesso). Mentre “a è un maschio adulto non sposato” descrive lo stesso oggetto descritto da “a è scapolo”. Dunque la soluzione migliore per rendere conto di dell’accettazione delle esemplificazioni di (G1) mi sembra non il ridondantismo ma il decitazionalismo puro; così come il minimalismo mi sembra la teoria che meglio rende conto dell’accettazione delle esemplificazioni di (G). Che l’acquisizione della competenza su “vero” sia parassitaria della competenza sugli enunciati cui “vero” si applica sembra un’ipotesi verosimile. Verosimilmente infatti, il termine “vero” è introdotto nel nostro linguaggio sulla base della comprensione degli enunciati del linguaggio cui esso si applica, secondo la regola: se tu dici “la neve è bianca” e la neve è bianca allora quello che dici è vero, se tu dici “l’erba è verde” e l’erba è verde quello che dici è vero (o meglio: hai detto “l’erba è verde” e l’erba è verde dunque quello che hai detto è vero, quello che hai detto è vero poiché hai detto “la neve è bianca” e la neve è bianca)180. Non c’è dunque alcun bisogno di postulare una relazione metafisica di fondazione fra l’enunciato “la neve è bianca” e un’entità per giustificare la nostra accettazione delle esemplificazioni di (G) e (G1). La concezione non relazionale del rendere vero implica, come abbiamo visto nell’ultimo paragrafo del capitolo II, l’accettazione di una sorta di principio del fattore di verità. Ciò però solo intendendo il rendere vero come rendere^vero. Ma in questo caso dire “se una proposizione è vera c’è qualcosa che la rende tale” è solo una riformulazione di (G) che usa un predicato relazionale come “x rende y vero”, non una sua analisi concettualmente o metafisicamente illuminante che si impegni su entità diverse da quelle su cui si impegna (G). Ci sono tantissime 137 Capitolo III cose la cui possibile verità non ci costringe ad ammettere la possibile esistenza di entità in virtù di cui sarebbero vere. Potrebbe essere vero che nulla esiste e vi sarebbe una ragione di ciò, che nulla esiste, ma non ci sarebbe nessuna cosa in virtù di cui questa proposizione è vera: e fatti del genere non intaccano la nostra credenza che la verità sia fondata. 8. Essere ed esistenza Mi sembra corretta, in ultima analisi, questa tesi di Lewis: i princìpi del rendere vero esprimono in realtà non una tesi concernente la verità ma una tesi metafisica secondo cui la distribuzione delle proprietà in un mondo possibile, i modi in cui quel mondo è, ha un fondamento esistenziale: chi sostiene che c’è un’entità che rende vera la proposizione che i gatti fanno le fusa sta sostenendo che vi è un fondamento esistenziale del fare le fusa dei gatti181. Secondo tale concezione l’“essere” della predicazione (l’esser così) è fondato sull’“essere” dell’esistenza. Una tale concezione nega quella che Heidegger chiamava la differenza ontologica: riduce l’essere all’essere dell’ente182. Lewis, influenzato probabilmente dal principio della sopravvenienza, ha identificato tale concezione con una risposta al problema di ciò che fa la differenza fra mondi possibili183: pensare che qualcosa renda vero che questa rosa è rossa significa pensare che ciò che fa la differenza fra un mondo possibile in cui questa rosa è rossa e uno in cui non lo è l’esistenza di qualche entità. Questa formulazione incorre però nello stesso problema del principio della sopravvenienza: non vi sono mondi possibili in cui le proposizioni della matematica non sono vere, dunque non vi sono differenze fra mondi possibili riguardo alle verità della matematica, sebbene sembri sensato chiedersi cosa renda vere tali proposizioni. Una formulazione che non incorre in tale problema è quella nei termini del fondamento ontologico dell’esemplificazione di proprietà e relazioni: pensare che qualche entità renda vero che questa rosa è rossa significa pensare che ciò che spiega perchénec questa rosa è rossa è l’esistenza di qualche entità: questo significa pensare, per lo meno, che per ogni modo in cui il mondo è ci sono cose che stanno a tale modo come le promesse stanno all’essere obbligatorie delle azioni. I sostenitori dei principi dei fattori di verità ritengono dunque che i fatti fondamentali siano fatti esistenziali. Se tale teoria è vera allora l’impegno ontologico su fattori di verità entrerà in un’estensione della teoria della verità. Mi sembra che affinché tale teoria sia vera debbono essere vere le seguenti due cose. 1) Non vi sono relazioni la cui esemplificazione non è spiegata dall’esistenza di qualche entità. Questo non vuol dire che tutte le relazioni devono essere interne. Vuol dire che ogni relazione o è una relazione interna (tale che cioè la sua esemplificazione è spiegata dalla sola esistenza dei suoi membri) o è tale che la sua esemplificazione consiste nell’esistenza di una qualche entità. Ad esempio, un sostenitore di questa tesi metafisica potrà sostenere che l’esemplificazione della relazione x urta y consiste nell’esistenza di un’entità di un certo tipo: un certo evento, un certo urto184. Questo primo punto della 138 Verità e fattori di verità strategia incontra un grosso ostacolo nei casi più tipici di relazioni esterne: le relazioni spaziali e temporali. Non sembra infatti perseguibile la prima ipotesi: che l’esemplificazione di una relazione spaziale non sia altro che l’esistenza di una certa entità, a meno di non adottare l’ipotesi ad hoc che esistano entità come quella particolare cosa che esiste se e soltanto se la mia chitarra è sul letto e quella diversa particolare cosa che esiste se e soltanto se la tua chitarra è sul letto (sempre lo stesso letto). Il tentativo di considerare queste relazioni come relazioni interne è stato più volte perseguito nella storia della filosofia e anche questo incorre in diversi problemi: il principale forse è che per considerare le relazioni spaziali come relazioni interne bisogna scegliere dei membri di tali relazioni diversi dagli oggetti ordinari che consideriamo ordinariamente membri di tali relazioni. Ad esempio bisogna dire che esse sussistono fra luoghi dello spazio e che gli oggetti ordinari sono in tali relazioni solo in virtù dell’occupare certi luoghi dello spazio. Ma ci si può chiedere se cose come i luoghi dello spazio esistano effettivamente o se essi non siano identificabili solo in base agli oggetti che li occupano. 2) Tutte le proprietà monadiche fondamentali sono tali che o la loro esemplificazione consiste nell’esistenza di una qualche entità o sopravvengono (nel senso esplicativo della nozione) sull’esistenza di qualche entità. Un lavoro arduo, anche per il più volenteroso dei metafisici. Note NOTE Note all’Introduzione 1. Aristotele, La Metafisica, G7, 1011b 26-7. 2. Tarski (1935), pp. 187-188 (tr. ing.). Sulla condizione di adeguatezza materiale che Tarski impone sulle definizioni di verità vedi cap. III, §2. 3. Per una disamina sia storica che teorica della teoria della corrispondenza Cfr.: Kuenne (2003), cap. 3. 4. Moore (1950), cap. 15; Russell (1918), cap. 1; Wittgenstein (1921) (tutta la sezione che va dalla proposizione 2.1 alla 4.1); Austin (1950). 5. Esempi del primo gruppo di critiche sono lo scetticismo di Strawson (1950) e successivamente di Davidson (1969) riguardo ai fatti. Esempi del secondo gruppo sono le osservazioni di Frege (1918, tr.it. pp. 45-46) contro l’interpretazione della corrispondenza come relazione di somiglianza e quelle che Wittgenstein (1950, parr. 1-64) mosse alla concezione raffigurativa del linguaggio. L’argomento detto “slingshot” cioè “della fionda”, usato da Davidson (1969) per sostenere che se i portatori di verità veri corrispondono ai fatti allora corrispondono tutti ad unico “grande fatto”, è rivolto sia contro l’esistenza dei fatti sia contro la nozione di corrispondenza, per lo meno per come i corrispondentisti intendono tali nozioni: la corrispondenza è infatti intesa dai corrispondentisti come una relazione che connette diversi portatori di verità a diversi fatti. 6. Mulligan, Simons, Smith (1984). 7. Armstrong (1997), cap. 8.1, pp. 113-115; Bigelow (1984), p. 133. 8. Armstrong (1991, p. 190) riprende l’espressione “fondamento ontologico” da Gustav Bergmann (1967). In filosofia analitica si usa l’espressione “portatori di verità” per riferirsi alle cose cui attribuiamo la proprietà di essere vere Ci sono diversi tipi di portatori di verità: enunciati come “la neve è bianca”, stati mentali come il mio credere che la neve è bianca, proferimenti come il mio dire adesso che la neve è bianca e, infine, proposizioni, le cose che diciamo quando proferiamo certi enunciati e che pensiamo quando abbiamo certe credenze; ci si riferisce normalmente a tali cose con espressioni della forma che p in cui a “p” può essere sostituito qualsiasi enunciato dichiarativo (in italiano in certi contesti col verbo al congiuntivo). Esempi di riferimento a proposizioni sono: “Pietro e Andrea credono che la neve sia bianca” “è proprio vero che la neve è bianca”. Nel seguito di questo testo i portatori di verità cui si farà per lo più riferimento saranno proprio le proposizioni anche se gli argomenti presentati potrebbero applicarsi anche ad altri portatori di verità. 9. Le domande contenenti espressioni della forma “fa essere F” o “fa F” sembrano essere semplici varianti delle domande in cui compaiono espressioni della forma “rende F”. Ad esempio un personaggio di un noto film a un certo punto ne apostrofa un altro così: “Che cos’è che fa di un uomo un uomo, Drugo?” avendo l’aria di voler porre una profonda questione concernente ciò che rende tale un uomo. Cfr. J. Cohen, E. Cohen, (1998). 10. Heidegger (1929). Note al primo capitolo 11. In alcuni degli enunciati della lista “qualcos’altro” in “qualcosa rende F qualcos’altro” si riferisce a più cose (ad esempio in (1) alle nostre discussioni). Questo vale anche per il sintagma nominale, come, ad esempio, in “le piogge degli ultimi mesi hanno reso il livello del fiume preoccupante”. Vi è però un importante differenza fra (1) e quest’ultimo esempio. (1) dice che qualsiasi cosa che sia uno nostra discussione Andrea la rende interminabile. L’enunciato concernente le piogge invece non dice che ogni cosa che è una pioggia avvenuta negli ultimi mesi ha reso il livello del fiume preoccupante, bensì che tutele piogge collettivamente hanno avuto tale effetto (se ce ne fosse stata solo una il livello del fiume non sarebbe stato preoccupante). Vi sono dunque dei casi di rendere F irriducibilmente collettivi. Nel seguito del testo anche se verranno sempre fatti casi di rendere F individuale, è sottinteso che alle lettere “a” e “b” in “a rende b F” possono essere sostituiti sia sintagmi nominali che denotano un solo individuo sia sintagmi nominali che denotano una pluralità di individui. 140 Note 12. Alla lettera schematica “R” bisognerà quindi sostituire per ottenere gli enunciati nella lista le espressioni come “rende vero”, “rende impraticabile” etc. La tesi che la forma degli enunciati sia relazionale non è incompatibile con quella secondo cui il concetto con cui ci riferiamo alla relazione sia un concetto complesso analizzabile come la combinazione del concetto funzionale espresso da “rendere F” e dai vari concetti espressi dagli aggettivi che lo seguono. Tale combinazione potrebbe funzionare alla maniera della funzioni intensionali descritte dalla semantica formale di Montague. 13. Su questo punto vedi il paragrafo successivo e cap. II § 5.2, nonché la nota 92. 14. Nel linguaggio giuridico espressioni come “il fatto sussiste/non sussiste” sono di uso ordinario. 15. “sse” sta per “se e solamente se”. 16. Cfr. Hornsby 2005. In realtà lo schema proposto da Hornsby è: nom (p) spiega nom (q) se e solamente se q poiché p. Gli esempi (5)-(9) mostrano che nell’uso ordinario del linguaggio le versioni nominalizzate di enunciati esplicativi non devono necessariamente contenere un’espressione come “spiega”. Sulla proposta della Hornsby vedi cap. II, § 5. 17. Sulla concezione di Mulligan vedi cap II §3. Mulligan ha esteso la nozione di entità e relazioni pleonastiche alla discussione sul rendere vero ma l’idea è stata elaborata originariamente e nella sua generalità da S. Shiffer in diversi scritti (Schiffer, 1996, 2003). 18. Nel linguaggio formale della logica modale le espressioni della forma “è necessario che p” ed “è possibile che p” vengono rappresentate da enunciati della forma “†p” “◊p”; i simboli a forma di quadrato e di rombo hanno la funzione sintattica di formare enunciati ogni qualvolta sono preposti a enunciati, una funzione dunque simile a quella degli avverbi italiani “necessariamente” e “possibilmente”. Il modo più diffuso in cui in italiano si esprimono giudizi modali è però quello di usare enunciati della forma “è possibile/necessario che p” piuttosto che enunciati della forma “possibilmente/necessariamente p”. L’interpretazione sintattica più naturale degli enunciati della forma “è possibile/necessario che p” è quella per cui essi sono formati da un predicato “è possibile/necessario” e dal sintagma nominale “che p”. La costruzione sintattica in uso nella logica modale può però essere applicata anche a tali forme distinguendo in esse non un predicato e un sintagma nominale ma l’espressione “è possibile/necessario che” che si applica direttamente ad enunciati per formare altri enunciati. Nel seguito del testo farò uso, per concisione, del simbolo “†” al posto dell’espressione “è necessario che”. 19. La distinzione fra rendere F causali e non causali è stata fatta è evidenziata in Mulligan (2003). 20. Sul questo tipo di spiegazioni e sull’asimmetria della relazione di analisi con concettuale, vedi cap. III § 7.3. 21. Questo è stato osservato, nel caso specifico del rendere vero, da Restall (1996). Vedi cap. II §1. 22. Kripke, (1980), 153-154. 23. In realtà questa definizione informale nasconde un’ambiguità: si può infatti intendere o come se dicesse che dato un qualsiasi mondo possibile se x e y in esso differiscono rispetto a certe proprietà A allora differiscono anche rispetto a certe proprietà B, oppure come se dicesse che dati due qualsiasi mondi possibili w1 e w2 se x in w1 e y in w2 differiscono riguardo all’esemplificazione delle proprietà A allora differiscono anche riguardo all’esemplificazione nelle proprietà B (potendosi “x” e “y” riferire anche allo stesso individuo in w1 e w2). Quando si adotta la prima interpretazione si parla di “sopravvenienza debole”, quando si adotta la seconda di “sopravvenienza forte”. Cfr. Kim (1993). 24. Questo punto, così come gli esempi che seguono, è stato ampiamente sottolineato nella letteratura. Cfr Kim (1990), (1993), McLaughlin, Bennett (2005). Un’approfondita discussione dei limiti delle definizioni standard di sopravvenienza si trova in Correia (2002). 25. Correia (2002). 26. McLaughlin, Bennet (2005). 27. Cfr. Levin (2004). 28. Per tutta la dimostrazione che segue userò un linguaggio con qualche simbolo artificiale in più semplicemente per rendere più perspicua e meno prolissa la dimostrazione. “∀x” seguito da una formula arbitrariamente complessa posta fra parentesi forma enunciati che sono veri se e solamente la formula fra parentesi è vera di qualsiasi individuo. Ad esempio “∀x(Fx)” è vero se e solamente se tutte le cose sono F. Dunque “∀x” è l’equivalente di un’espressione come “ogni cosa”. Il simbolo “→” è l’equivalente di “se…allora”. Il simbolo “↔” è equivalente a “se e solamente se”. 141 Note 29. Questa è una definizione che assume che si possa dire che una proprietà ne realizza un’altra anche se di fatto non c’è niente che esemplifica la prima proprietà, ad esempio che si possa dire che la proprietà di essere tale che i propri neuroni Z scaricano realizza la proprietà di essere nello stato D anche se di fatto, fortunatamente, nessuno prova dolore. L’analisi standard della nozione di realizzazione è diversa da quella proposta solo per il fatto che introduce delle clausole volte ad assicurare la fattività della nozione. Ad esempio in Bickle (1994) si legge la definizione: l’essere G di x realizza l’essere F di x se e soltanto se (i) x è G, (ii) x è F, (iii) necessariamente se una cosa è G allora è F ed è F poiché è G. Ma (iii) è equivalente a “necessariamente se una cosa è G allora è F poiché è G”, e le prime due clausole servono solo ad assicurare la fattività della nozione di realizzazione. 30. Correia (2004) sostiene, a mio parere correttamente, che non solo non è necessario interpretare enunciati come “essere G è essenzialmente essere F” o “essere G consiste nell’essere F” come enunciati che parlano di cose di un particolare tipo, è cioè di proprietà; ma che tale mossa è sbagliata, essendoci alcuni di tali enunciati intuitivamente veri che se, interpretati nel modo precedente, risultano invece falsi. 31. Si dice che gli enunciati appartenenti ad un certo insieme costituiscono una definizione implicita di un certo predicato quando: 1) tali enunciati contengono il predicato in questione; 2) la comprensione del predicato consiste nella disposizione ad asserire tali enunciati. Il punto (1) è ciò che distingue una definizione implicita da una definizione esplicita. 32. Questa definizione è identica a quella proposta in Correia (2002) con l’unica variante che Correia, invece di fare uso di nozioni esplicative, fa uso della nozione relazionale di fondazione “x fonda y” (che nel caso specifico della definizione di sopravvenienza sussiste fra fatti) definita così: x fonda y se e soltanto se l’esistere di x fa esistere y. Naturalmente data la mia analisi di espressioni come “l’essere F di x rende y G” (per cui esse sono equivalenti ad espressioni della forma “y è G poiché x è F”), tutto ciò che può essere detto usando la nozione relazionale di fondazione definita da Correia può essere detto usando enunciati esplicativi. 33. Mulligan (2003). 34. Le nozioni di obbligatorietà e di obbligazione possono essere intese in senso più o meno ampio; ma anche nel senso giuridico più ristretto, quello per cui l’obbligazione è “una relazione giuridica in virtù della quale una persona, chiamate creditore, ha il diritto di esigere da un’altra persona, chiamata debitore, una determinata prestazione” (Pellisé Prats 1993, pp. 785 sgg.), l’essere oggetto di una promessa non è una condizione necessaria di un’obbligazione: un’obbligazione infatti può sorgere anche a causa del trovarsi più soggetti in certe relazioni giuridiche con certi beni (esempi di ciò le obbligazioni reciproche derivanti dalla comproprietà su un bene) o all’interno di certe istituzioni (ad esempio le obbligazioni derivanti dalle relazioni familiari). 35. Pellisé Prats (1993), p. 877. 36. Donnellan (1966), Kaplan (1977). 37. Un designatore rigido è un sintagma nominale, semplice o complesso, che denota lo stesso individuo, se esiste, in tutte le circostanze in cui gli enunciati che lo contengono vengono valutati. I casi tipi di designatori rigidi nel linguaggio naturale sono, almeno secondo la concezione difesa da Kripke (1980), i nomi propri; ma possono funzionare come designatori rigidi anche descrizioni definite come “la tua promessa”. 38. Che verità di questo tipo siano verità fondate sull’essenza individuale di un oggetto è stato sostenuto, da Fine (1994a, 1994b). Kevin Mulligan ha preso spunto dalle idee di Fine per la sua analisi del rendere vero. Su questo vedi, cap. II, §3 39. Correia (2004). Note al secondo capitolo 39a. Per un’eccezione vedi il §4 di questo capitolo. 40. Fox (1987), p. 189. Della stessa opinione sono J. Bigelow (1988, p.126), G. Rodriguez-Pereyra, (2002, p. 29) e A. Oliver (1996, p. 69). 41. “E!x” significa “esiste x” ed è equivalente a “∃y (y=x)”, cioè “qualcosa è identico a x”. “&” 142 Note rappresenta la congiunzione “e”. Uso questi simboli poiché vengono spesso usati nei testi concernenti il rendere vero. Ma uno schema come (1), o come quelli che seguono, si potrebbe esprimere anche senza farne uso, a patto di usare la parola “vero” Ad esempio quello che lo schema (1) dice si può esprimere in modo finito dicendo “x esiste e necessariamente se x esiste allora p è vero”. 42. Cfr. Restall (1996); Smith (1999). 43. Restall (1996, p. 4) ha dimostrato inoltre che se si accetta sia la definizione del rendere vero come necessitazione sia il principio plausibile (A) a RV (p v q) sse (a RV p) v (a RV q) (cioè la distribuzione del rendere vero attraverso la disgiunzione), allora si può costruire un argomento analogo allo slingshot. L’argomento è analogo allo slingshot perché entrambi sono argomenti che vogliono compiere una reductio ad unum. In questo caso la reductio ad unum è la seguente: se una cosa renda vera una proposizione contingente, allora rende vere tutte le altre proposizioni contingenti. Siano p e q due proposizioni contingenti vere, abbiamo: 1) p → ( q v ¬ q); dunque, per la transitività dell’implicazione e per la definizione del rendere vero come necessitazione, abbiamo che: 2) se a rende vero p allora a rende vero (q v ¬ q); inoltre per la tesi della disgiunzione abbiamo 3) se a rende vero (q v ¬ q) allora a rende vero q o rende vero ¬ q. Ma ¬ q è falso dunque a rende vero q: dunque il fattore di verità di una qualsiasi proposizione contingente è fattore di verità di una qualsiasi altra proposizione contingente. I simboli “v” e “¬” esprimono rispettivamente la negazione “non” e la disgiunzione non esclusiva (quella per cui si può decidere coerentemente di prendere sia la frutta sia il dolce se sul menù c’è scritto “frutta o dolce”). 44. Se entità necessarie come Dio o i numeri non esistono, allora il ragionamento non prova che la definizione è estensionalmente corretta. Ma da un’analisi di una certa nozione ci si aspetta qualcosa di più della correttezza estensionale; ad esempio: anche se tutti e soli gli italiani sono cittadini di uno stato che ha capitale Roma, “cittadino di uno stato che ha come capitale Roma” non è una buona definizione di “italiano”. Da una buona analisi di un concetto, ci si dovrebbe aspettare che non sia concepibile (per chi comprenda tanto il concetto quanto la sua analisi) una situazione in cui il definiendum si applica a qualcosa senza che vi si applichi anche il definiens e viceversa. Ora anche se Dio non dovesse esistere non sembra essere incoerente assumerne l’esistenza e non siamo disposti a descrivere un’ipotetica situazione in cui sia io che Dio (o qualsiasi altra entità necessaria) esistiamo come una situazione in cui è vero che Dio esiste poiché io esisto e di conseguenza non sembra corretto descrivere questa situazione come una situazione in cui io rendo vero che Dio esiste. Ma una situazione del genere è una situazione in cui io necessito la proposizione che Dio esiste. 45. Smith (1999) 46. Armstrong (1997), Simons (2003). 47. Smith, (1999), Smith, Simon (in corso di stampa). 48. Questa risposta era effettivamente contenuta in una prima versione di Smith, Simon (in corso di stampa) presentata dagli autori alla conferenza “Ontologie analitiche”, svoltasi a Torino nell’ottobre del 2002. Smith successivamente ha dichiarato (corrispondenza personale) di non riconoscersi in questa risposta e dunque probabilmente essa non comparirà nella versione definitiva dell’articolo in questione. Per questo deve essere considerata solo come un’osservazione che, in linea di principio, potrebbe essere fatta. 49. Cfr. Mulligan, Simons, Smith, (1984), pp. 304-308. 50. Smith (1999). 51. B. Schnieder (in corso di stampa (b)) nega che in base a (5) i tropi possano essere considerati fattori di verità di proposizioni contingenti proprio perché nega l’estendibilità della relazione di essere parte ai tropi e agli oggetti di cui sono qualità. A parte questo, le nostre obiezioni alla definizione proposta da Smith coincidono in larga parte, pur essendo state elaborate autonomamente. 52. Smith (1999), pp. 281-282 53. Gregory (2001), pp. 422-427. 54. Fine (1994a). 55. Mulligan (2003), p. 547. Vedi anche Mulligan (in corso di stampa). 56. Un problema simile sorge con la caratterizzazione del rendere vero come relazione interna fornita da Armstrong (1997, p. 87), (2004, cap. I) Che una relazione sia interna significa, data la teoria di 143 Note Armstrong delle relazioni interne, che la relazione è tale che è impossibile che i suoi relata esistano e che essa non sia esemplificata (da essi). Ma questo, come nel caso della caratterizzazione di Mulligan, lascia senza risposta la questione riguardo a che cosa sia il rendere vero. 57. Mulligan (2003) 58. Mulligan (2003), p. 547. 59. Per la tesi, molto diffusa, che le condizioni di identità dei tropi dipendano dalle condizioni di identità dei loro portatori (e che dunque un certo tropo è essenzialmente la qualità di una certa cosa) cfr. Lowe (1998), cap. IV, pp. 147-151. 60. Ciò è vero se si adotta una prospettiva kripkeana sulle proprietà essenziali delle sostanze: secondo Kripke (1980, pp. 110 sgg) infatti tali proprietà sono proprietà genetiche, coinvolgono cioè l’identità di ciò da cui è stata originata la sostanza. 61. Questo caso è una versione leggermente modificata di un controesempio fatto da Correia (2002) alle concezioni essenzialiste della dipendenza ontologica. L’applicabilità dell’esempio al nostro argomento non dovrebbe sorprendere: il rendere F è infatti la relazione inversa alla dipendenza nell’essere F e la dipendenza ontologica può essere concepita come un caso particolare della dipendenza nell’essere F, la dipendenza cioè riguardo all’esistenza. 62. Fine (1994a). 63. Questa osservazione mi è stata fatta da Philipp Keller in occasione di una mia presentazione al V Convegno della Società europea di filosofia analitica, svoltosi nell’agosto 2005 a Lisbona. 64. A questo proposito Fine (1994b, pp. 58-59) distingue una nozione consequenzialista di “essenza” (una nozione per cui la classe di enunciati che descrivono l’essenza è chiusa rispetto alla conseguenza logica) dalla nozione di “essenza costitutiva”. Un criterio per delimitare l’essenza costitutiva di un oggetto è, secondo Fine, il seguente: un enunciato fa parte dell’insieme di enunciati che descrivono l’essenza costitutiva di un oggetto se e soltanto se la sua generalizzazione universale non è vera in virtù dell’essenza (in senso consequenzialista) dell’oggetto. Ad esempio “2 + 2 = 4” non descrive l’essenza costitutiva di Stefano perché la sua generalizzazione esistenziale è una verità logica che, fa parte degli enunciati veri in virtù dell’essenza di Stefano. Dunque le esemplificazioni di verità logiche non fanno parte dell’insieme di enunciati che descrivono l’essenza dell’oggetto. Ora, la generalizzazione di «Stefano esiste → Stefano esiste» è “∀x (E!x → E!x)” che è una verità logica. Dunque in base a questo criterio “Stefano esiste → Stefano esiste” non fa parte degli enunciati che descrivono l’essenza di Stefano, dunque l’esistenza non è una proprietà essenziale di Stefano. 65. In questo passo, e in quelli che seguono, la sussistenza è intesa (come avveniva in Meinong) come una forma di esistenza, come il modo in cui gli stati di cose esistono. Il discorso sulla sussistenza degli stati di cose può essere parafrasato come un discorso vertente sui fatti se si pensa (come fa Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus) che un fatto non sia altro che il sussistere di uno stato di cose. Questa sembra la concezione degli stati di cose e dei fatti abbracciata da Mulligan: “Dire che uno stato di cose sussiste è predicare un modo di esistenza di esso. Questo modo di esistenza, come altre forme di esistenza quali esser vivo, durare, persistere, implica l’esistenza nel senso del quantificatore esistenziale [cioè l’esistenza non qualificata] ma non è identico ad essa. Dunque se uno stato di cose sussiste allora un fatto esiste” (Mulligan 2003, p. 549). Si potrebbe sostenere che, data la concezione dei fatti come stati di cose sussistenti e quella del sussistere come la forma di esistenza propria degli stati di cose, è un errore dire di un fatto sia che esiste sia che non esiste. Infatti dire di un fatto che esiste è dire di uno stato di cose sussistente che esiste ma questo è ridondante poiché il sussistere è semplicemente il modo in cui gli stati di cose esistono; proprio per questo dire di un fatto che non esiste è dire di una cosa esistente (un certo stato di cose) che non esiste è questo è contraddittorio. Alla prima osservazione si può replicare che dopo tutto la ridondanza non crea problemi logici; alla seconda che l’enunciato “il fatto che p non esiste” non significa nulla di più che l’enunciato “lo stato di cose che p non sussiste”; in alternativa si potrebbe fare ricorso a una distinzione di stampo neo-meinongiano fra due modi di predicazione (come la codificazione e l’esemplificazione in Zalta (1983)), in modo che dire di un fatto che non esiste significherebbe negare l’esemplificazione della proprietà di esistere a un oggetto che codifica tale proprietà. Anche se nel resto del testo, seguendo Mulligan, dico talvolta che un fatto esiste o non esiste, la correttezza degli argomenti presentati non dipende dalla correttezza di 144 Note tale modo di parlare. 66. In questo ragionamento presuppongo il principio: se x esiste essenzialmente allora x esiste necessariamente. 67. Questo ragionamento è una versione del cosiddetto regresso di Bradley. 68. Mulligan (2003), (in corso di stampa). 69. Cfr. ad esempio Schiffer, (1996), (2003). Un’altra fonte della posizione di Mulligan è la nozione di “ontological free lunch” che è stata usata da Armstrong (1997, pp. 12-14) per caratterizzare lo statuto di relazione interna, o sopravveniente, del rendere vero. 70. Il senso in cui gli oggetti astratti sono dipendenti dal linguaggio è catturato, secondo Schiffer (1996), da due differenze fra il nostro rapporto epistemologico con essi e con gli oggetti concreti: 1) l’unica cosa che una popolazione dotata esattamente del nostro stesso linguaggio e delle nostre stesse pratiche linguistiche ordinarie tranne quella ipostatizzante, dovrebbe fare per scoprire l’esistenza degli oggetti astratti in questione sarebbe acquisire la nostra pratica linguistica ipostatizzante, cioè un certo modo di parlare (mentre per la scoperta di un oggetto indipendente dal linguaggio sarebbero necessarie indagini sul mondo). 2) Tutto ciò che vi è da sapere sugli oggetti astratti (in quanto tali) è acquisibile sulla base di una riflessione sulle stesse pratiche linguistiche che li generano e su cui sono fondati; dunque essi a differenza degli oggetti mente indipendenti non possiedono una natura “nascosta” oggetto di una possibile ricerca empirica. 71. Mulligan (2003). 72. Un argomento di questo tipo è stato presentato da Paolo Casalegno nel suo intervento al convegno Propositions, svoltosi a Padova nel maggio 2004. 73. Mulligan (2003) p. 548. 74. β* e α* sono le formule chiuse ottenute da β e α. Ad esempio se β è “lo stato di cose x sussiste”, β* è “lo stato di cose che p sussiste e se α is “x è vero”, α* è “che p è vero”. La differenza fra il caso di “scapolo” e quello di “stato di cose che sussiste” è che mentre “maschio adulto non sposato” è una definizione esplicita di “scapolo”, la nozione di “stato di cose che sussiste” è definita implicitamente da tutte le esemplificazioni dello schema “lo stato di cose che p sussiste sse è vero che p” (sempre nell’ipotesi che si sia convinti che essa è introdotta nel linguaggio dalle esemplificazioni di questo schema). Su questo vedi cap. III, §. 7.3 75. Anche in questo caso si può sostenere che (14) ci autorizzi ad asserire (15) sulla base dell’idea che vi sia una priorità concettuale di “p” rispetto a “è vero che p”. Vedi cap. III §7. 76. Sulle concezioni della verità deflazioniste vedi cap. III. 77. Tale concezione è stata difesa da Volpe (2004). Idee analoghe sono state difese per la prima volta, almeno per quanto è a mia conoscenza, da Hill (1999), (2001) nella prospettiva di conciliare le intuizioni corrispondentiste con gli approcci deflazionisti alla verità. Proprio per questo Hill, non sostiene, come fa invece Volpe, che le nozioni di corrispondenza e di stato di cose siano parte di una definizione di verità: si limita invece a sostenere che vi siano principi a priori che connettono la nozione di verità alle nozioni in questione. 78. Per una carrellata delle più classiche obiezioni a tale teoria vedi Dodd (1999). 79. Così è, ad esempio, in Armstrong (1997). 80. Mulligan (2003). 81. Mulligan (2003), p. 552 82. Vedi n. 60. 83. Lowe (1998). 84. Mulligan (2003), p. 551. 86. Parsons (1999), pp. 329-333. 87. Vedi cap. I § 3.3. 88. Hornsby (2005), Schnieder (2002), (in corso di stampa (a)). Hornsby sostiene la tesi generale che enunciati della forma “nom(p) è spiegato da nom(q)” sono equivalenti ad enunciati della forma “p poiché q”. Il riferimento alla forma “nom(p) è spiegato da nom(q)” è dovuto al fatto che l’autore le cui tesi vengono discusse nell’articolo considera gli enunciati di tale forma come equivalenti agli enunciati della forma “l’essere così e così di a fonda l’essere così e così di b” che 145 Note sono a loro volta considerati come gli enunciati con cui tipicamente si esprimono tesi concernenti il rendere F. Dunque l’equivalenza della Hornsby esprime una tesi concernente il rendere F. Schnieder per parte sua difende una concezione del rendere vero con la quale la concezione sviluppata in questo libro ha moltissimi punti di contatto, in particolare egli sostiene l’equivalenza fra “a rende vero p” e “p è vero poiché a esiste”. 89. Su questo vedi cap. I §1. 90. Schnieder (in corso di stampa (a)). 91. Su perché ciò sia vero, vedi cap. III §7.3. 92. Questo uso non impegnato ontologicamente di espressioni come “qualcosa” “c’è qualcosa” corrisponde a quello che viene chiamato, nel dare una semantica dei linguaggi formali del primo ordine, quantificazione sostituzionale. La semantica del quantificatore esistenziale sostituzionale “∃x” è chiarita ad esempio dicendo che una formula come “∃xPx” è vera se e solamente se è vero almeno un enunciato ottenuto sostituendo una costante individuale alla variabile nella formula “Px” Questo implica che le cose che devono esistere affinché “∃xPx” sia vera non sono diverse dalle cose che devono esistere affinché uno qualsiasi degli enunciati della forma “Pa” sia vero. Dunque “∃xPx” non ha alcun impegno ontologico ulteriore rispetto a uno qualsiasi degli enunciati di tale forma. 93. Su questo punto vedi cap. III, §8. 94. McFetridge (1990). Sulla concezione di McFetridge cfr. Liggins (2005). 95. Simons, (2000), p. 17 96. Simons (2000), 17-18. 97. Simons, (2003), p. 557. Note al terzo capitolo 98. Mulligan, Simons, Smith, (1984), pp. 288-289. 99. Come in Armstrong (1997) o Mulligan (2003) 100. Come in Mulligan, Simons, Smith (1984), Smith (in corso di stampa) e Simons (2000). 101. Non è detto naturalmente, come è già emerso nel cap. II §5.2, che i principi del fattore di verità si possano difendere solo in questo modo. Su ciò vedi il §8 di questo capitolo. 102. Mulligan, Simons, Smith, (1984), p. 288. 103. Sui problemi che un approccio deflazionista potrebbe incontrare nel rendere conto di enunciati di questo tipo, vedi §7.3 di questo capitolo 104. Mulligan, Simons, Smith, (1984), p. 288. 105. Mulligan, Simons, Smith (1984). 106. Mulligan, Simons, Smith, (1984), p. 288 107. Mulligan, Simons, Smith (1984). 108. Fra l’altro la specificazione dell’estensione dei predicati mediante una clausola sostituzionale dà condizioni di verità sbagliate per gli enunciati quantificati a meno di non ammettere che la classe di espressioni sostituibili alle variabili sia data da possibili estensioni delle costanti di fatto presenti nel vocabolario del linguaggio. 109. Cfr. Tarski, (1935), pp. 187-188. La convenzione T esprime quella che Tarski chiama “condizione di adeguatezza materiale” per una definizione di un predicato di verità per un determinato linguaggio. Tale convenzione dice che è che una definizione di “enunciato vero in L” (in cui a “L” si deve sostituire il nome del linguaggio per cui si vuole definire la verità) è corretta solo se dalla definizione si possono dedurre per via puramente logica tutti gli enunciati della forma “p è vero in L se e solamente se s” in cui p è il nome di un qualsiasi enunciato dichiarativo di L e s la sua traduzione in Italiano (più in generale nella lingua in cui si sta formulando la definizione, chiamata metalinguaggio). Ad esempio, nel caso in cui L sia l’Inglese la definizione sarà corretta solo se da essa si possono dedurre per via puramente logica tutti gli enunciati come “l’enunciato ‘the sky is blue’ è vero in Inglese se e solamente se il cielo è blu”. Nel caso in cui L sia l’Italiano gli enunciati in questione saranno quelli come “l’enunciato ‘il cielo è blu’ è vero in Italiano se e solamente se il cielo è blu”. La convenzione T è detta di “adeguatezza materiale” perché concerne il contenuto del predicato definito: il suo rispetto garantisce 146 Note cioè, secondo Tarski, che il predicato che viene definito si possa considerare almeno coestensionale al predicato “vero” (applicato ad un determinato linguaggio): che cioè il predicato si applichi a tutti e soli gli enunciati veri del linguaggio in questione. 110. Questo esempio differisce dall’originale tarskiano perché, nel linguaggio del calcolo delle classi per cui Tarski definisce la verità non vi sono costanti individuali. 111. Ciò è stato osservato per la prima volta da Dummett (1978, xxi) ai fini di sottolineare la problematicità dell’identificazione, da parte di Davidson, di teoria del significato e costruzione di una definizione tarskiana di verità per un linguaggio naturale. 112. Davidson (1984). Davidson (1990, p. 286) ha riconosciuto che il progetto di costruire una teoria del significato come teoria delle condizioni di verità, presuppone che la nozione di verità sia considerata come primitiva. 113. Soames, (1999), pp. 102-107; Kuenne (2003), pp. 114 sgg. 114. Cfr. Soames (1989), (1992). 115. Sulla nozione di “situazione astratta” come nozione centrale di una teoria del significato cfr. Barwise, Perry (1983). 116. E’ questo il senso in cui Field (1972) ha sostenuto che la teoria tarskiana della verità soddisfa solo parzialmente i desiderata di una teoria esplicativa della verità; infatti essa “riduce” le condizioni di verità degli enunciati complessi alle condizioni di soddisfacimento delle formule atomiche ma non spiega perché queste ultime hanno le condizioni di verità che hanno. 117. Cfr. Putnam (1994), Etchemendy (1988). 118. Cfr. Marconi (1984), Soames (1984). 119. Cfr. Iacona (2002). 120. Cfr. Field (1986), pp. 56-59. 121. Una teoria può considerare bicondizionali come quello citato, come esprimenti fatti metafisicamente necessari riguardo alla verità di un enunciato senza pensare che siano derivabili da altri enunciati (come quelli vertenti sul soddisfacimento delle formule), perché non considera la composizionalità del linguaggio come un fatto rilevante per una teoria della verità. Non è un fatto rilevante nel senso che un linguaggio può essere o può non essere composizionale, ma ciò è indifferente per ciò in cui consiste l’esser veri degli enunciati di quel linguaggio. Le teorie deflazioniste sono teorie di questo genere. 122. Si potrebbe osservare che un requisito di adeguatezza di una teoria è descrivere tutti i fatti necessari riguardo al possesso di una certa proprietà. E dunque che, anche se i bicondizionali tarskiani enunciano fatti necessari riguardo alla verità di un enunciato, il fatto che una teoria contenga tali bicondizionali non è sufficiente perché essa sia una teoria adeguata (anche se è necessario): infatti la teoria potrebbe non contenere altri enunciati che enunciano altri fatti metafisicamente necessari sulla verità. Questo è vero, ma non tocca il mio ragionamento: esso vuole solo dimostrare che non si può sostenere che una teoria della verità è inadeguata perché contiene come teoremi i bicondizionali tarskiani, sulla base della considerazione che tali bicondizionali sono verità contingenti e derivati da assiomi contingentemente veri (nel nostro caso le clausole per il soddisfacimento della definizione tarskiana,). Infatti tali bicondizionali (e le clausole da cui sono derivati) non sono contingentemente veri. 123. Soames (1999), pp. 102-107. 124. Il parlante conosce la definizione di Tarski non la metateoria: dunque non sa che la definizione di Tarski è una definizione di verità per l’inglese, cioè non sa che tale definizione soddisfa la convenzione T. 125. Si potrebbe osservare che l’esempio rappresenta una situazione impossibile perché la definizione del predicato tarskiano presuppone la comprensione del linguaggio oggetto da parte di chi usa il metalinguaggio. Questo è vero (vedi infra), ma non mi sembra impossibile la seguente situazione: Tizio comprende l’inglese e definisce “T” (il predicato tarskiano di verità per l’inglese) poi va da Caio che non conosce l’inglese e gli insegna la definizione di “T”, senza informarlo del fatto che “T” è coestensionale al predicato di verità applicato all’inglese, cioè senza informarlo che la definizione di “T” soddisfa la convenzione T. Caio è s dell’esempio. 147 Note 126. Si può dubitare che l’identità di ruolo inferenziale sia una condizione sufficiente per l’identità fra le nozione espressa da due predicati ma essa sembra per lo meno esserne una condizione necessaria, per lo meno per espressioni apparentemente non indicali come “vero in L”. 127. Soames (1999), pp. 238-242. Cfr. anche David (1994), pp. 135-139. 128. Si potrebbe osservare che ciò presuppone l’interpretazione dei “sse” presenti nelle definizioni tarskiane non come bicondizionali materiali ma come espressione di una relazione più forte, ad esempio la sinonimia. Ora, i “sse” contenuti nella definizione di Tarski (sia nella definizione di soddisfacimento che in quella di verità) e contenuti nella teoria (i bicondizionali derivati dalla definizione) possono anche essere interpretati come bicondizionali materiali ma questo è del tutto irrilevante per gli argomenti che stiamo affrontando. Infatti i “sse” sono contenuti nella definizione di soddisfacimento e di verità, sono dunque ciò mediante cui si introducono i predicati “S” (soddisfacimento in L) e “T” (verità in L). Dunque le clausole della definizione, anche interpretando come equivalenza materiale i “sse”, sono interpretabili come una serie di assiomi che definiscono implicitamente un predicato introdotto ex novo nel linguaggio. Se è così non è sbagliato dire che quando un ipotetico parlante dice «“snow is white” è T» dice ciò che si ottiene da tale enunciato sostituendo a “T” ciò che compare a destra del “sse” nella definizione di “T”: che altro potrebbe dire, dato che “T” è stato introdotto così nel linguaggio? L’importante non è dunque che tutti i bicondizionali di cui si parla siano o non siano bicondizionali materiali ma che essi siano veri in virtù della definizione dei predicati coinvolti o perché sono parte della definizione o perché ne sono derivabili logicamente. Che questo sia anche il modo in cui Tarski vedeva le cose mi sembra confermato dal fatto che egli parla dei bicondizionali derivabili dalla definizione come di enunciati che «esauriscono il significato della parola “vero in L” quando essa è applicata ad un singolo enunciato» e che, se il linguaggio oggetto contenesse un numero finito di enunciati, il significato di “vero in L” sarebbe compiutamente analizzato dalla lista dei bicondizionali. Cfr., Tarski, (1935), pp. 155 sgg. 129. Si potrebbe osservare che se “snow is white” significasse “l’erba è verde”, la definizione di ‘T” dovrebbe implicare il bicondizionale «“snow is white” è T sse l’erba è verde», e quindi, presumibilmente, le condizioni di verità di “snow is white” sarebbero definite diversamente. Dunque la nozione definita da Tarski è la nozione di una proprietà posseduta da “snow is white” relativamente a fatti semantici come il fatto che “snow is white” non significa lo stesso di “l’erba è verde”. A ciò si può rispondere che se “snow is white” significasse che l’erba è verde avremmo un altro predicato tarskiano di verità il predicato “T*” coestensionale al nostro predicato di verità applicato all’inglese*, una lingua che differisce dall’inglese per il significato che in essa ha la replica sintattica “snow is white”, cioè per il fatto di contenere un enunciato che l’inglese standard non contiene. Dunque, ogni singolo predicato tarskiano non è un predicato le cui condizioni di applicazione sono relativizzate a fatti concernenti il significato, semmai quale predicato sia il predicato tarskiano di verità per un dato linguaggio è un fatto relativo a fatti concernenti il significato. Assumere questa posizione non significa pensare che sia falsa l’intuizione per cui la verità di un enunciato dipenda sia da come è fatto il mondo sia da fatti linguistici, il fatto ad esempio che “uccise” in “Bruto uccise Cesare” non significhi “generò” (Quine, 1951); significa solo (vedi §2) interpretare tale intuizione come vertente sulla contingenza dell’esistenza dei linguaggi e degli enunciati, intesi come entità che possiedono essenzialmente le loro proprietà semantiche. 130. Qui l’espressione “conoscenza delle condizioni di verità” è intesa come “conoscenza di ciò che è detto dal bicondizionale” indipendentemente da come si interpreti il “sse”. Le informazioni sul significato ottenute saranno tanto maggiori quanto mento estensionalmente sarà interpretato il “sse”: minime se esso è interpretato come equivalenza materiale, maggiori se esso interpretato come equivalenza necessaria, massime se esso è interpretato come “significa che”, come sinonimia. 131. Come è stato notato prima, la discrepanza fra le inferenze compiute a partire dai due predicati sparirebbe se s venisse a sapere che tutte e sole le cose che sono T sono vere, cioè che T è il predicato tarskiano di verità per l’inglese. Ma è un fenomeno molto comune che si possa essere competenti su due espressioni coestensionali senza sapere che sono coestensionali. 132. Due precisazioni: s per lo meno, accetta tutte le istanze dello schema in cui l’enunciato sostituito a “p” non contiene espressioni sensibili al contesto. Inoltre qui non si sta sostenendo che l’accettazione 148 Note delle istanze dello schema esaurisca la nostra nozione di verità ma, che in base a tale nozione, noi accettiamo le istanze dello schema. 133. La clausola che tutti noi siamo in questa condizione e sappiamo di esserlo (nel senso che ognuno di noi sa che gli altri lo sono) è necessaria per evitare discrepanze fra le inferenze compiute con “T*” ed “è vero” in contesti di credenza. 134. La misura è sufficientemente piccola: la differenza si riduce a quella fra un predicato di verità per uno specifico linguaggio e un predicato generale, al più relativizzato a linguaggi. Per chi voglia analizzare la nozione di verità è comunque una differenza importante. 135. Non so se sono gli unici modi possibili. Io non ne conosco altri sostanzialmente diversi. 136. Tarski naturalmente non era interessato a questo tipo di analisi. 137. S. Soames (1999), pp. 246-251, (1989), pp. 415. 138. Cosa si intenda quando si dice che le proposizioni sono entità strutturate è chiaro solo in parte. Non è sempre chiaro se i filosofi che usano questa espressione pensino le proposizioni come entità insiemistiche o come entità modellizzabili da entità insiemistiche. Queste ultime hanno una struttura nel senso che sono individuate da i loro membri e da un ordine, sono cioè n-uple ordinate. Un filosofo che sostiene che tali entità siano un buon modello delle proposizioni sostiene che vi è una relazione uno a uno fra le proposizioni e tali n-uple e che le cose intuitivamente vere sulle proposizioni sono traducibili in cose vere su tali n-uple. Dunque tale filosofo quando dice che le proposizioni sono entità strutturate può voler dire che sono modellizzabili da entità strutturate. A fortiori è chiaro cosa intenda un filosofo che identifica le proposizioni con n-uple ordinate quando dice che le proposizioni sono strutturate. È meno chiaro invece cosa intenda dire un filosofo che non identifica le proposizioni con n-uple ordinate quando intende l’essere strutturate delle proposizioni non solo come il loro essere modellizzabili da entità strutturate nel senso matematico-insiemistico di “strutturato” ma in un senso più ordinario, quello per cui un’entità strutturata è un’entità dotata di parti in una qualche relazione fra loro. Infatti in questo caso bisognerebbe specificare, nel caso delle proposizioni, quali siano le parti e che tipo di relazioni ci siano fra di loro. 139. Così Forbes (1986, pp. 42-49), con la sola differenza che egli fa la distinzione fra stato di cose tipo, assegnato da un’interpretazione (cioè dalla relazione di espressione) all’enunciato e stato di cose replica in base al cui sussistere è definita la verità dello stato di cose. 140. Così propone David (1994), pp. 40-46 e 119-124. 141. Alcuni dei sostenitori di tali definizioni potranno sostenere, come Field (1972), che è possibile una riduzione naturalistica del riferimento. La cosa curiosa del saggio di Field è che egli parla di una naturalizzazione della verità. Ma, in base a una definizione come (C2) sembra impossibile una naturalizzazione della verità: infatti anche ammettendo che si possa naturalizzare il riferimento, rimarrebbe un’altra componente della teoria della verità: la “teoria” dell’esemplificazione. E risulta difficile pensare come si possa naturalizzare l’esemplificazione. Non sembra esserci infatti una qualche proprietà naturale comune all’essere giallo di quel fiore, l’essere di ferro di un minerale e l’abbaiare di un cucciolo: ma questi sono tutti casi di esemplificazioni di proprietà (naturali) da parte di individui. Field forse è sviato dal fatto che egli formula la sua definizione senza la nozione di esemplificazione usando la nozione di “applicazione di un predicato” e considerando quest’ultima forse analoga alla nozione modellistica di interpretazione di un predicato, così come la nozione di riferimento di un termine ha il suo parallelo nella nozione modellistica di interpretazione di una costante individuale. Ma le due nozioni non sono analoghe! La nozione di riferimento è una nozione di una relazione fra una parola e una cosa che, forse, si può analizzare nei termini di altre relazioni fra entità linguistiche e realtà (ad esempio fra proferimenti o disposizioni a proferimenti e occorrenze degli oggetti rilevanti). Ma la nozione di applicazione non è nulla del genere: essa è infatti il corrispettivo (nel discorso di Field) della nozione tarskiana di soddisfacimento e la nozione di soddisfacimento di una formula non è ciò a cui corrisponde la nozione di interpretazione di un predicato. Il soddisfacimento di una formula consiste nell’essere il mondo in un certo modo. Se fosse possibile una teoria come quella di Field avremmo una teoria naturalizzata di quali cose sono vere! Sarebbe la scienza assoluta. 142. Horwich (1994). 143. Field (1986), (2001). Anche se Field usa l’espressione “puramente decitazionale” per denominare 149 Note la sua concezione mi sembra più appropriato riservare questo nome per la concezione che segue. Inoltre quella di Field mi sembra effettivamente una posizione più vicina a quelle tipicamente definite “teorie della ridondanza”: infatti egli sostiene che vi è un’equivalenza cognitiva fra «”p” è vero» e «p». Il primo esempio di questa concezione è di solito considerato Ramsey (1927). Più recentemente: Groover, Kamp, Belnap (1975). 144. Credo che questo sia il modo più adatto di esprimere quello che dice asserendo che per una persona dire di un enunciato che è vero è dire che esso è vero-così-come-essa-lo-comprende. Se si intendono infatti le espressioni connesse a “vero” dai trattini come caratterizzazioni del contenuto del predicato (o del suo “carattere”) si è costretti, come ha sottolineato David, a interpretare il predicato di verità come un’espressione indicale, con l’esisto che ogni proferimento di “vero” da parte di una persona diversa esprime un concetto diverso. Ma soprattutto la caratterizzazione del predicato presupporrebbe la nozione di verità (anche se questa dovesse entrare solo nel significato linguistico del predicato, nel “carattere”). Mi sembra meglio dunque interpretare le espressioni fra trattini come un modo per sottolineare che il predicato viene applicato dal parlante solo ad enunciati che comprende. Cfr. David, (1994), pp. 139-148. 145. La posizione decitazionalista è fatta risalire a Quine (1970, p. 11) perché Quine ha formulato per primo con chiarezza l’idea, comune a tutte le forme di deflazionismo, che l’utilità del predicato di verità consista nell’incrementare la capacità espressiva del nostro linguaggio, permettendoci di esprimere, mediante l’ascesa semantica, cose che altrimenti richiederebbero un numero infinito di enunciati per essere espresse (ad esempio di asserire tutte le istanze di “p v non p”). La posizione che descrivo sopra non è però identificabile con quella di Quine (che probabilmente non voleva fare un’analisi della nostra nozione di verità ma sottolineare quelle che secondo lui erano delle caratteristiche interessanti del nostro predicato di verità). Essa è un’idealizzazione. Qualcosa del genere è descritto, con intenti critici, in David (1994). 146. Cfr Recanati (1996). 147. Tale descrizione presuppone la non accettazione di una differenza netta fra informazioni semantiche e informazioni non semantiche, fra informazioni sul significato e informazioni sul mondo. 148. Dire che l’uso dell’espressione dipende da una credenza deferenziale nei confronti dei veterinari non implica dire che il significato linguistico dell’espressione, o il concetto che essa esprime, siano essi stessi deferenziali. Quest’ultima mi sembra la posizione di Recanati (1996). Mi sembra però che si possa ammettere che ciò in virtù di cui un certo concetto entra nel nostro repertorio sia una rappresentazione deferenziale, senza dover ammettere che tale rappresentazione sia una componente di tale concetto. Se infatti fosse così si dovrebbe ammettere che in qualche misura il concetto di “anchilostomi” sia per un profano di veterinaria un concetto metalinguistica. Quale che sia la verità, la scelta fra l’una o l’altra di queste opzioni (o di altre possibili) per analizzare il fenomeno della deferenza non pregiudica il mio ragionamento: esso si basa solo sull’esistenza del fenomeno della deferenza. 149. Per la comprensione degli enunciati mi sembra che cioè valga quello che vale per il riconoscimento degli oggetti: possono esservi diversi livelli di riconoscimento di un oggetto visto, a seconda di quante proprietà dell’oggetto si riescano a individuare. Quando diciamo a qualcuno “non ti avevo riconosciuto” intendiamo dire che non riuscivamo a discernere un numero di sue caratteristiche sufficienti a distinguerlo da un’altra persona ma non intendiamo dire che non riuscivamo a distinguere nessuna sua caratteristica o che avremmo potuto confonderlo con qualsiasi altra cosa. 150. Kuenne (2003, pp. 356 sgg.) fa uso di questa interpretazione della quantificazione del secondo ordine (come quantificazione oggettuale in posizione enunciativa) per dare una definizione di verità. 151. Cfr. David, (1994), pp. 139 sgg. 152. Cfr. Kaplan, (1977). 153. Questo rende la posizione ridondantista problematica: infatti essa implica che un enunciato di una lingua diversa dalla nostra può essere vero solo se esiste un enunciato della nostra lingua che lo traduce. Ma sembra, intuitivamente, che l’esser veri di enunciati di altre lingue non dipenda dall’esistenza di enunciati della nostra lingua che li traducono. Potrebbero essere veri anche se la nostra lingua non esistesse o se fossero intraducibili. 154. Cfr Horwich, (1990), pp. 141-144. Lo stessa osservazione era stata sollevata da Field (1972) nei 150 Note confronti di una definizione di verità (identificata erroneamente da Field con la definizione tarskiana o comunque col suo spirito) che elimini la nozione di verità a favore di quella di riferimento. Solo che Field usa il ragionamento per sostenere che bisogna naturalizzare il riferimento se non si vuole una pseudo definizione per lista della verità e se si vuole una teoria robusta e naturalistica della verità. Horwich per sostenere la tesi opposta che una definizione di verità non può che essere una definizione per lista e che l’esigenza di una teoria della verità e del riferimento come quelle difese da Field (1972) si basano sull’incomprensione di che cosa siano la verità e il riferimento (che non sono proprietà naturalistiche ma nozioni logiche). 155. “Γ” è una variabile che può denotare anche una pluralità di entità. 156. Nel caso della teoria tarskiana si tratterebbe di estendere i lati destri delle clausole che definiscono il soddisfacimento delle formule atomiche. Ad esempio se “Px1” è una tale formula (e il linguaggio oggetto fa parte del metalinguaggio) bisognerebbe sostenere che l’i-esimo oggetto di una sequenza è P perché E!Γ. 157. Dire che la nostra nozione di verità ha una connotazione realista significa dire che noi distinguiamo la verità dall’asseribilità giustificata o dalla provabilità, che cioè non accettiamo tutte le istanze dello schema “p” è asseribile giustificatamente se e soltanto se “p” è vero (potremmo accettarne alcune, ad esempio: è provabile che è provabile che la neve è bianca se e soltanto se è vero che è provabile che la neve è bianca). 158. Putnam (1978), pp. 25-29. 159. Questo punto è stato sostenuto da diversi autori. Cfr. Horwich (1996), Soames (1999, pp. 32-39). 160. Putnam (1978), pp. 34-35. 161. Per dimostrare la distinzione fra la proprietà denotata da “vero” e quella denotata da “asseribile giustificatamente” (o qualche sua variante) basta mostrare che, almeno per un enunciato, non vale “necessariamente “p” è asseribile sse p” (sostituendo alla lettera “p” l’enunciato in questione). Viceversa per sostenere la non distinzione fra le due proprietà bisogna avere un qualche argomento per la generalizzazione universale di tale equivalenza necessaria. Di solito l’argomento sarà un argomento per assurdo volto a sostenere che l’ammissione di un arbitrario caso singolo che violi la generalizzazione conduce a una conseguenza non accettabile: ad esempio, nell’argomento di Dummett (1977, pp. 371-375) per l’antirealismo semantico, che tale bicondizionale sarebbe privo di senso o comunque incomprensibile ad un essere umano, perché la comprensione di un enunciato consiste nella capacità di discriminare le condizioni in cui esso risulterebbe asseribile. 162. Putnam (1978) p. 37. Enunciati come (A) possono essere difesi non solo cioè come verità concettuali ma anche come verità fattuali suffragate dallo studio scientifico dei processi mediante cui acquisiamo credenze. (A) deve cioè secondo Putnam essere interpretato come asserente che un certo fatto (l’erroneità di quella che di volta in volta è considerata la teoria più affidabile) è probabile non solo metafisicamente possibile. 163. Cfr. Kuenne (2003), pp. 170-173.. 164. Cfr. anche Kirkham (1992), pp. 133 sg. 165. Nel dibattito filosofico di cui trattiamo in questo paragrafo si fa riferimento a uno o all’altro di tali schemi a seconda che si la concezione della verità che si sta discutendo consideri gli enunciati o le proposizioni come portatori di verità. Questa alternativa non è però rilevante riguardo al dibattito sull’intuizione corrispondentista. Nel seguito del paragrafo alternerò dunque esempi in cui i portatori di verità sono proposizioni (e in cui dunque lo schema discusso è (G) ed esempi in cui i portatori di verità sono enunciati (e in cui dunque lo schema discusso è in realtà (G1). 166. Cfr. ad esempio Vision, (1997), pp. 116-124. 167. Rodriguez-Pereyra (2005). 168. Bigelow (1988), pp. 132-133. 169. Rodriguez Pereyra (2005). 170. Armstrong (2004), cap. I. 171. Vision (1997). 172. Che enunciate di questo tipo siano veri è stato sottolineato da Kuenne (2003, pp. 154-155). 173. Cfr. Vision (1997) e Wright (1992), pp. 25-32. 151 Note 174. Kuenne (2003, pp. 157) ha sostenuto correttamente, a mio parere, che anche il tentativo di spiegare (G) compiuto da Wright (1992, p. 27) non funziona. Infatti Wright sostiene che noi accettiamo (G) in virtù del fatto che accettiamo come una verità ovvia, l’enunciato (1) ““p” è vero sse le cose sono come dice “p”” e che in più accettiamo (2) “le cose sono come dice “p” perché p”. Ma questo sposta semplicemente il problema: perché accettiamo (2)? 175. Kuenne (2003, pp. 154-157). 176. Kuenne (2003, pp. 154-155). 177. Mi sembra che quando un termine è introdotto tramite una definizione e non tramite un battesimo di un campione, come probabilmente avviene per i predicati denotanti specie e sostanze naturali, sia più difficile distinguere concetti e proprietà o dimensione inferenziale e dimensione referenziale del concetto: mentre è possibile che un liquido trasparente che si trova nei mari e nei fiumi non sia acqua, non è possibile che un maschio adulto non sposato non sia uno scapolo. 178. L’unica interpretazione in cui enunciati come questi possono essere accettati è questa: “non c’è nessuna spiegazione del fatto che x è scapolo”. Un’interpretazione che può essere indotta da una massima conversazionale che prescrive di sostituire l’interpretazione letterale di un proferimento se questa risulta in una proposizione evidentemente falsa. In questo caso, siccome è considerata un’ovvia falsità che un fatto spieghi se stesso, un enunciato il cui significato letterale è appunto che un certo fatto spiega se stesso viene interpretato come la negazione dell’esistenza di fatti diversi dal fatto in questione che lo spieghino e, sulla base dell’ascrizione della conoscenza condivisa che la spiegazione non è riflessiva, come l’asserzione che non esiste una spiegazione di quel fatto. 179. Come ho detto, questo modo di intendere (G1) è sostenuto da Kuenne (2003). Mi sembra però che Kuenne non spieghi perché la direzione dell’analisi concettuale sia quella che è. Inoltre egli, avendo preso in considerazione la spiegazione del “poiché” in termini di riduzione teorica la esclude. Mi sembra che nel caso di “vero” come in quello di “scapolo” i due casi coincidano, concetto e proprietà cioè non divergono. Questo sembra dimostrato da un lato dal fatto che la disposizione a inferire “la neve è bianca” da “è vero che la neve è bianca” non sembra avere lo stesso statuto della disposizione a inferire “qui c’è H2O” da “qui c’è acqua” e dall’altro dal fatto che l’enunciato “è vero che la neve è bianca sse la neve è bianca” sembra avere non meno forza modale di “x = acqua sse x = H2O”. 180. Hornsby (2005) fornisce una spiegazione diversa del perché la verità di enunciati come (1) può essere spiegata senza far ricorso a fattori di verità. La spiegazione è basata sul fatto che mentre per asserire “p” non è necessario riconoscere l’esistenza di portatori di verità per asserire “è vero che p” bisogna riconoscere l’esistenza, oltre che delle cose di cui si riconosce l’esistenza asserendo “p”, anche di portatori di verità. Questa soluzione mi sembra incorrere in questo problema: per asserire, in un certo momento, che ci sono 5 mele sul tavolo devo riconoscere l’esistenza di 4 mele sul tavolo e, d’altra parte, per asserire ci sono 4 mele sul tavolo non devo riconoscere l’esistenza di 5 mele sul tavolo. Ma questa non mi sembra una buona ragione per dire che ci sono 5 mele sul tavolo poiché ci sono quattro mele sul tavolo. 181. Lewis (2001a). 182. Heidegger (1929). La nozione di “differenza ontologica” è contenuta nella premessa alla terza edizione dell’opera pubblicato nel 1949. 183. Lewis (2001b). 184. Cff. Simons (2003) pp. 559. BIBLIOGRAFIA ARISTOTELE, La Metafisica, C.A. Viano (a c. di), Torino, Utet, 1974. ARMSTRONG, D. M., (1997), A World of States of Affairs, Cambridge, UK, Cambridge University Press. ARMSTRONG, D.M, (2004) Truth and Truthmakers, Cambridge (UK), Cambridge University Press. AUSTIN, J. L. 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PEREGO, E. S. STORACE, R. VISONE, CARLO MICHELSTAEDTER. Un’introduzione, a cura di L. PEREGO, E. S. STORACE e R. VISONE. Collana Netica Diretta da Massimiliano CAPPUCCIO 1. F. BERTOSSA, M. BESA, A. CARONIA, E. CASETTA, C. CONSONNI, P. D’ALESSANDRO, R. FERRARI, M. FERRARIS, C. FORMENTI, G. C. GIACOBBE, G. O. LONGO, D. MARCONI, A. OLIVERIO, A. PATERNOSTER, G. POLIZZI, C. A. REDI, C. SINI, A. TURSI, A. VARZI, N. VASSALLO, DENTRO LA MATRICE. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix, a cura di M. CAPPUCCIO. 2. E. Ballo, S. Bozzi, M. Cappuccio, M. D’Agostino, P. D’Alessandro, R. Fabbrichesi Leo, M. Frixione, B. Giolito, G. Giorello, G. Lolli, G. Longo, L. Magnani, T. Numerico, P. Odifreddi, V. Patera, I. Saltalamacchia, C. Sinigaglia, L’EREDITÀ DI ALAN TURING. 50 anni di intelligenza artificiale, a cura di M. Cappuccio 3. (in preparazione) AA.VV., NEUROFENOMENOLOGIA, a cura di M. Cappuccio Collana Laboratorio di Ontologia Diretta da Maurizio FERRARIS 1. T. ANDINA, IL PROBLEMA DELLA PERCEZIONE NELLA FILOSOFIA DI NIETZSCHE, prefazione di M. FERRARIS 2. C. BARBERO, MADAME BOVARY: SOMETHING LIKE A MELODY 3. P. KOBAU, ONTOLOGIE ANALITICHE DELL’ARTE 4. S. CAPUTO, FATTORI DI VERITÀ 5. (in preparazione) F. MARTINELLO, L’IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI IN G. W. LEIBNIZ Collana Pragmata Diretta da Carlo SINI 1. M. CAPPUCCIO, L’UOMO, LA MACCHINA, L’ENIGMA. Per una genealogia dell’incomputabile. prefazione di C. SINI. 2. F. VIMERCATI, LA SCRITTURA DEL PENSIERO. Semiotica e fenomenologia nei grafi esistenziali di C. S. Peirce Collana Asia Edizioni Diretta da Franco BERTOSSA 1. F. BERTOSSA - R. FERRARI, LO SGUARDO SENZA OCCHIO. Esperimenti sulla mente cosciente tra scienza e meditazione 2. (in preparazione) P. BASILE FIGLI DEL NULLA. Il disagio giovanile tra nichilismo e buddismo Collana Libri da ascoltare Diretta da Massimo DONÀ 1. M. CACCIARI, E. 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