LATINOAMERICA
analisi testi dibattiti
M. Cavallini/La trappola del debito estero
C. Fuentes/America latina tra equilibrio e violenza
G. G arda M àrquez/Una cultura di mistero
N. Levré/Haiti: fine di una dinastia
A. Riccio/La scoperta deN'America
J.A. Viera G allo/M em orie dell'esilio
Culture indigene/
Nicaragua/Per la pace e il non intervento
Anno V II, n. 21
gennaio-marzo 1986
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9
A. Riccio
Verso il quinto centenario della scoper
ta dell’America
G. Garcia Màrquez
America latina: una cultura di mistero
c. p. 64^*9i
00100 Roma
tei. 873742
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C. Fuentes
America latina tra equilibrio e violenza
Comitato di redazione:
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M. Cavallini
La trappola del debito estero
Voci della conferenza dell’Avana
Nicaragua: per la pace e il non intervento
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N. Levré
Haiti: fine di una dinastia
Luisa Cortese, Bruno Dallago,
Bruna Gobbi, Nicoletta Ma
nuzzato, Giorgio Oldrini, Alessandra Riccio.
51
Direttore responsabile:
Gabriella Lapasini
La rivista non assume la responsa
bilità delle opinioni espresse negli
articoli firmati.
61
J.A. Viera Gallo
Memorie dell’esilio
69
CULTURE INDIGENE
Marina Mannino
La politica indigenista brasiliana
76
84
In copertina:
da B. Diaz del Castillo,
His torta verdadera de la con
quista de la Nueva Espaha
91
97
Sped. abb. post. gr. IV, 70%
Autorizz. del trib. di Roma
n. 18142 del 6-6-1980
Stampa: ITER
Via G. Raffaelli, 1 - Roma
Chiuso in tipografia
il 10-3-86
E. Balutansky
Caribe francese Champagne, disoccupa
zione...
M. L. Garro
Situazione socio-politica degli indios in
Argentina
L. Arguedas L. Pranzetti
Cosi mi è nata la coscienza
A. Marra
Una voce del Perii « profondo ».
Intervista a Luis Barreda Murillo
A. Aruffo
Canudos: una rivolta messianica?
M. Bonatti
111
La presenza della politica italiana nella
ricerca di José Luis Orozco
115
H. Zumbado
La « Bodeguita del Medio »
121
Giallomais
123
Recensioni e schede
Alessandra Riccio
Verso il quinto centenario
della scoperta dell'America
« La gente di quest’isola e di tutte le altre che ho scoperto o di cui ho
avuto notizia, va tutta ignuda, uomini e donne, come la mamma li ha fatti;
benché alcune donne si coprano un solo posto con una foglia verde o con una
cosa di cotone fatta a posta per questo. Essi non hanno ferro né acciaio né
armi né vi sono portati; e non perché non sia gente ben disposta e di bella
statura, ma perché sono cosi paurosi da far meraviglia. Non posseggono altre
armi che non siano le canne ben cresciute, sulla cui cima mettono un paletto
aguzzo, ma non osano adoperarle: infatti, molte volte mi è accaduto di mandare
a terra due o tre uomini in qualche villaggio, per parlare con loro, e che essi
siano sbucati in gran numero, per poi, all’arrivo dei nostri, fuggire a gambe
levate; e questo non perché sia stato fatto del male a qualcuno, al contrario,
in ogni luogo dove sono sbarcato e dove ho potuto avere qualche contatto,
ho dato loro di tutto, sia tessuti che tante altre cose, senza averne nulla
in cambio; la verità è che sono cosi paurosi per natura. È pur vero che quando
si tranquillizzano e perdono questa paura, sono cosi ingenui e cosi generosi
con le cose che hanno che non lo crederei se non l’avessi visto. Essi non si
rifiutano mai di dare una cosa che hanno, se uno gliela chiede; al contrario,
insistono perché l’altro la prenda e dimostrano tanto amore che ti darebbero
il cuore, e vuoi una cosa di valore, vuoi una cosa di poco conto, per qual
siasi cosuccia e comunque tu gliel’abbia data, se ne dimostrano assai contenti ».
Con queste parole semplici e, all’apparenza, sincere, Cristoforo Colombo, in data
22 marzo 1493, annuncia al mondo la scoperta di una nuova terra e della sua gente.
La lettura di questa lettera conferma un dato già noto, ma che è oppor
tuno ribadire: di ritorno dal suo primo, storico viaggio, il navigatore genovese
conserva ancora intatte la meraviglia e la sorpresa per tutte le novità che i
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suoi occhi hanno visto. La storia ci insegna che, già a partire dal secondo
viaggio e dopo aver potuto constatare durante il soggiorno presso i Re Cat
tolici qual’era l’aria che spirava a Corte, Colombo comincia a cambiare punto
di vista. L’oro e le spezie si trasformano in ossessione e diventa vitale la
necessità di trasformare in affare quella che per lui era stata una meravigliosa
scoperta. Il paradiso descritto dal genovese — uomini e donne nudi, ingenui
e generosi, incapaci di maneggiare le armi — si tradurrà ben presto nell inferno
dei suicidi collettivi e del lavoro forzato.
Tutto questo è ben noto, eppure diventa opportuno ricordarlo ora che
sono già avviati i festeggiamenti per celebrare un avvenimento che ha cam
biato il mondo, poiché non c’è dubbio che la storia del prossimo millennio
vedrà come protagonista — ma la cosa non è una novità assoluta — il continente
americano. Eppure, gli interessi piu contrastanti e le ottiche piu diverse pre
siedono alla logica dei festeggiamenti. Per gli Stati Uniti e il Canada, si tratta
di celebrate la loro nascita come stati occidentali, pragmatici, tecnologici, ga
ranti dei diritti delLuomo e rifugio ospitale per tutti i perseguitati; stati mo
derni ed efficienti che si propongono come modello di uno stile di vita « ci
vile ». Per l’America latina, che come è noto va dal Rio Bravo all’Antartide,
si tratta di ristabilire alcune novità essenziali, prima fra tutte l’idea che se
l’Europa ha scoperto l’America, l ’America a sua volta ha scoperto l’Europa e
che comunque non si trattava di una terra di nessuno ma di un territorio or
ganizzato e funzionante. L’America latina è contraria a festeggiare la conquista
e la colonizzazione, in quanto considera quei secoli di violenza, brutalità e sfruttamerto, gli anni piu bui della sua storia. Ed infine è contraria ad una ce
lebrazione che non condanni la lunga e disumana pratica dello schiavismo. In
questo trovandosi perfettamente d ’accordo con i paesi africani, che fin dall’inizio
di questa vicenda, nel 1982, hanno fieramente protestato, richiamando l’at
tenzione di tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, sulla necessità
di continuare a denunciare e a condannare l’imperdonabile violenza del com
mercio degli schiavi e dell’istituzione della schiavitù. L’Europa — e in primo
luogo la Spagna — che si sente chiamata in causa piti nel ruolo di imputata
che in quello che si era da sempre attribuita, di protagonista di una mera
vigliosa avventura umana, si vede obbligata a preparare un’autodifesa piuttosto
che un encomio. Le cose, insomma, si stanno mettendo male, e non sarà facile
districare la matassa degli opposti interessi e poter presentare per il 1992 un
bilancio equilibrato e concorde dei cinque secoli di presenza americana, ufficiale
e riconosciuta, nella nostra storia.
Particolarmente violenta si sta rivelando, fin da adesso, la polemica fra i paesi di
lingua spagnola e la madrepatria Spagna. E pour cause. La Spagna del dopofranco
vive la sua crisi di identità che può riassumersi sbrigativamente in una tensione non
risolta fra sentirsi europea a pieno titolo o riconoscere una storica diversità
che per essere stata coltivata forse con troppo orgoglio, ha portato quella na
zione potente a rinchiudersi al di qua dei Pirenei e ad esercitare il suo prestigio
nei territori d’oltremare. In questi anni, e sotto la guida di Felipe Gonzales,
il processo di europeizzazione si è intensificato sia a livello politico che di
costume e vi è chi identifica questi mutamenti, talvolta solo superficiali ed
apparenti, come un cambiamento sostanziale del paese, la sua definitiva mo
dernizzazione e, di conseguenza, il suo definitivo allontanamento dalle aree del
sottosviluppo. Messe cosi le cose, questa Spagna, profondamente cambiata e
finalmente moderna, rinnega le colpe degli avi e nell’avventura americana vuole
vedere solo la straordinaria prova di un gruppo di uomini coraggiosi e disposti
a tutto o le sofferenze di altri costretti, da un potere assoluto ed inetto, ad
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un’emigrazione che li trasforma in vittime al pari delle popolazioni conqui
state. La Spagna felipista rifiuta i sensi di colpa, e nell’avventura americana vuole
riscattare la grandezza anche attraverso ragionamenti fini e intelligenti, che
tendono, appunto, a proporre una lettura autocritica di quell’epopea, a patto
che resti ben chiaro che si è trattato di una epopea. Da questo punto di vista
la proposta del governo di Madrid pare certamente piu accettabile di quella
sostenuta dai gruppi piu conservatori che, appellandosi apertamente ai princìpi
tradizionali del nazionalismo e del cattolicesimo, vorrebbero approntare, con parole
di Vàzquez Montalban, « un gigantesco murai di eroi e di sciocchi indigeni
redenti dalla loro barbarie grazie alla fede cattolica » (« E1 Paìs », 23-1-86).
All’ostinata arroganza di conservatori e tradizionalisti si oppone la sinistra an
timperialista che, rinnegando un passato di violenza e di oppressione su po
polazioni indifese, rischia di colpevolizzare troppo tardi, decisamente fuori tempo,
il popolo spagnolo di oggi, del tutto innocente degli eccessi degli avi Se dunque
il Governo di Madrid non riuscirà a chiarire meglio il criterio al quale intende
ispirarsi per la celebrazione del quinto anniversario, rischia di lasciare l’inizia
tiva o a chi di quel passato rivendica perfino gli eccessi o a chi, autoflaggellandosi, rinnega a quell’avventura, qualsiasi grandezza. Ma oltre ad un rischio
per così dire, interno, ve n ’è un altro che riguarda la politica estera; la con
correnza fra chi si vuole fare promotore e gestore di tutta l’operazione è, infatti,
spietata, ed è inutile aggiungere che intorno a quest’avvedimento gireranno pre
stigio e quattrini.
Comunque vadano le cose in Spagna, non sembra che i paesi dell’America
latina accetteranno nessun compromesso. Le polemiche che si sono già scatenate
nelle pagine dei giornali ed in altre sedi lasciano prevedere che la sensibilità
di quei paesi su questo problema è estremamente acuta. Appena un anno fa,
all’Università Autonoma di Madrid, nel corso di un Convegno di Studi delle
Donne, una giovane regista del Costarica, bionda, alta e magra, dopo averci
fatto assistere ad un suo cortometraggio in cui si narrava della violenza subita
da una giovane india ad opera di un bieco conquistador, meritò applausi en
tusiasti quando affermò di vergognarsi di essere discendente di quei bianchi
violentatori e che mille volte avrebbe preferito essere india. Evidentemente,
il ragionamento di quella agguerrita regista non teneva conto, fra l’altro, del
fatto che nei circa centocinquant’anni di indipendenza dalla Spagna, i creoli bianchi
hanno continuato a sfruttare e a discriminare le popolazioni indie quanto e
piu dei conquistatori e dei coloni spagnoli e, per colmo d ’ironia, sotto un
vessillo nazionale che avrebbe dovuto riconoscere proprio alle popolazioni autoctone
diritto di cittadinanza a pieno titolo. Nelle regioni centroamericane come il
Guatemala, le popolazioni indie nutrono un profondo disprezzo per i ladinos
e così dicasi per l’Ecuador, per non parlare dell’oscuro e complesso fenomeno di
Sendero Luminoso in Peru dove certamente uno degli elementi costitutivi è
l’odio razziale verso i non indios. È evidente, dunque, che anche nel variegato
panorama latinoamericano non sarà facile trovare una linea di orientamento
che sdrammatizzi alcune tensioni e che stimoli nuove valutazioni di quell’evento.
Se ne è parlato molto anche all’Avana, al Secondo Incontro degli Intellettuali
per la Sovranità dei Popoli, senza che, per la verità, si sia arrivati a nessuna
conclusione concreta, anche se il ministro della cultura Armando Hart, ha
rivolto un appello, certametne utopico ma sinceramente commosso, affinché si
cerchi un’unità profonda fra i popoli e le razze. Ha detto Hart: « Amiamo
quest’uomo, anche se non vive nella nostra patria, anche se non appartiene
alla nostra stessa famiglia, anche se prima non lo conoscevamo. Amiamolo
come se lo conoscessimo da quando i primi uomini d ’America sono arrivati
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in questo continente molti secoli prima del 1492. Amiamolo come se lo co
noscessimo da millenni ». L’invito del ministro suggerisce, appunto, di con
siderarsi preesistenti alla scoperta e dunque di considerare le vicende del con
tinente come frutto del capriccio della storia, senza piu attribuire colpe né
meriti. Meno conciliante si è dimostrato Fidel Castro che, nel ricevere un folto
gruppo di studenti spagnoli arrivati a Cuba per nave, seguendo l’itinerario
di Colombo, ha avvertito di tenere ben separati Scoperta e Colonizzazione: « Non
abbiamo nulla contro la Scoperta in sé, ma siamo contrari a convertire la com
memorazione in apologia della colonizzazione e della schiavitù, cose che non
erano nelle intenzioni di Colombo » (« El Pais » 10-10-85) ed ha anche ri
cordato che le popolazioni indigene della penisola iberica furono a loro volta
scoperte e colonizzate dai romani, dai quali si difesero eroicamente. Il tono di
queste parole, non deve far pensare ad un antispagnolismo cronico. Al con
trario, i territori d ’America sono profondamente legati alla Spagna e non solo
per la lingua; ma quest’America preferisce ricordare il contributo degli esiliati
della guerra civile spagnola, la loro convivenza in terra americana, la fraterna
ospitalità e l’importante scambio culturale di quegli anni. Lo spagnolo de
mocratico ed antifascista, vittima della stessa violenza di cui, per secoli, erano
stati vittime i fratelli messicani o argentini, ha trovato oltremare una nuova
patria ed ha ricambiato con generosa umiltà quell’accoglienza. I corsi e ricorsi
della storia hanno poi voluto che una emigrazione in senso contrario si ri
stabilisse in questi ultimi anni fra America e Spagna, di modo che oggi la
penisola iberica costituisce rifugio per gli esuli cileni e paraguayani; argentini
ed uruguavani fino a pochi anni fa hanno potuto vivere nella Spagna demo
cratica in attesa del ritorno delle libertà costituzionali nei loro paesi. Attra
verso percorsi tortuosi e non prevedibili i legami fra la ex madre-patria e le
ex-colonie restano dunque molto stretti e proprio in occasione di questa sca
denza sarà bene lavorare sugli aspetti positivi, che sono molti ed innegabili,
piuttosto che irrigidirsi su schematismi obsoleti anche se assolutamente com
prensibili. La vendetta è sterile ed un risarcimento tardivo non potrebbe in
nessun modo cancellare il male fatto. In questo senso, appare assai saggio
l’invito di Roa Bastos, il grande scrittore paraguayano esule da molti anni in
Europa, il quale esorta gli spagnoli a ricordare che la Spagna è stata veramente
grande quando ha saputo difendere la sua sovranità, la sua coesione e la sua
unità nella diversità dei suoi popoli e delle sue regioni, delle sue culture e
delle sue lingue intorno al nucleo agglutinante della nazione-stato. Roa Bastos
si riferisce alla grandezza della Spagna imperiale dei tempi della casa d ’Austria
e sulla base di questa comparazione suggerisce di ricercare l’unità nella «diver
sità multirazziale, multiculturale, materiale e sociale » e perfino in un necessario
antagonismo. Che uno scontro di civiltà non possa dar luogo a una convivenza
idilliaca, è evidente; pure, da quello scontro, che si vorrebbe tradurre, cinque
secoli dopo, in incontro, è nato un territorio politico-culturale incontestabilmente
contiguo alla civiltà occidentale e che oggi si pone, in parole di Arturo Uslar
Pietri, come « viva frontiera » fra l’Occidente e il cosi detto Terzo mondo.
E proprio in questa sua particolarità risiede l’interesse che l’America latina riveste
e va sempre piu rivestendo nel panorama mondiale. Sul ruolo e sulla collo
cazione di quel sub-continente si va facendo sempre maggiore chiarezza e, in
questo senso, la scadenza del quinto centenario può costituire un’occasione
importante di revisione critica e spassionata di una storia conclusa. Alle soglie
del Duemila è forse tempo di aggiornare i libri di scuola e le mentalità, di
fare il necessario salto mentale per collocarsi all’altezza dei nuovi tempi che
chiamano a decisioni e scelte nuove, che stimolano a conservare del passato
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solamente l’indispensabile eredità, dimenticando rancori e vendette o rivendica
zioni assurde, « suscettibilità a doppio taglio » come ricorda ancora Roa Bastos
(« El Pais » 7-10-85), che possono far piu male che bene e che potrebbero
consentire agli Stati Uniti di imporre la propria egemonia anche nell’impo
stazione di queste celebrazioni, e questo non lo vogliono né la Spagna né l’Ame
rica latina. Piu che ai mille episodi della leggenda nera, sarà bene appellarsi
a queste parole di Colombo, scritte in quei giorni di sorpresa e di allegria,
quando da uomo ostinato, fidando sulla propria intelligenza, decise di sfidare
ignoti mari: « E quando fui giunto nelle Indie, nella prima isola che trovai,
presi con la forza alcuni di loro perché mi indicassero e mi dessero notizia
di quel che c’era da quelle parti; e fu cosi che cominciarono ad intenderci
e noi ad intendere loro, sia a voce che a gesti; ed hanno fatto grandi progressi;
ancora oggi credono che io venga dal cielo, pur avendo conversato a lungo con
me. E loro stessi erano i primi a dirlo dovunque io arrivassi, e gli altri lo
ripetevano di casa in casa, e negli altri villaggi a voce alta: “Venite, venite
a vedere la gente venuta dal cielo”. E cosi tutti, uomini e donne, dopo essersi
tutti rassicurati su di noi, accorrevano tutti, grandi e piccoli, e tutti portavano
qualcosa da mangiare e da bere e ce l’offrivano con un amore meraviglioso. »
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HERN AL DIAZ DEL CASTILLO.
Per questo numero, nel quale iniziamo un discorso sulla conquista, abbiamo
scelto alcune delle illustrazioni che hanno accompagnato le diverse edizioni della
« Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva Espana » di Bernal Diaz del
Castillo. Pubblicata per la prima volta a Madrid nel 1632, questa « Historia Ver
dadera » narrata da uno dei protagonisti ebbe grande fortuna sia in Spagna che
in Messico, tanto che le riedizioni furono numerose.
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Gabriel Garcia Màrquez
America latina:
un cultura di mistero
Il incontro degli intellettuali per la sovranità
dei popoli dell'America latina
( 29- 11/
2- 12- 1985)
Mi sono sempre domandato a che cosa servono gli incontri fra intellettuali.
A parte i pochissimi che hanno avuto un significato storico reale ai nostri tempi,
come quello che ha avuto luogo a Valencia in Spagna nel 1937, la maggior
parte non vanno al di là di semplici passatempi da salotto. E tuttavia sor
prende che se ne celebrino tanti, ed ogni volta piu numerosi, piu affollati
e piu costosi quanto pi acuta si fa la crisi internazionale. Un premio Nobel
per la letteratura assicura di aver ricevuto in questo scorcio d ’anno circa
duemila inviti a congressi di scrittori, a festivals artistici, a colloqui, a seminari
di ogni genere: piu di tre al giorno nelle località piu disparate del mondo
intero. C’è un congresso istituzionale, a scadenza costante e con tutte le spese
pagate, le cui riunioni si succedono ogni anno in trentino località differenti,
alcune attraenti come Roma o Adelaide, o stravaganti come Stavanger o Yverdon,
0 addirittura degne di un cruciverba come Polyphenix o Knokke. Insomma,
sono tanti e su tanti e cosi svariati temi, che l’anno scorso, nel castello di
Mouiden, ad Amsterdam, se ne è celebrato uno mondiale per organizzatori di
congressi di poesia. Non è un fatto inverosimile: un intellettuale compiacente
potrebbe nascere in un congresso, e continuare a crescere ed a maturare in
successivi congressi senza altre pause che quelle necessarie a trasferirsi dall’uno
all’altro, fino a morire di serena vecchiaia nel congresso finale.
Ma forse ormai è troppo tardi per cercare di interrompere un’abitudine che
noi artigiani della cultura ci trasciniamo dietro dai tempi in cui Pindaro vince
1 Giochi Olimpici. Erano tempi in cui il corpo e lo spirito andavano piu d ’accordo
di quanto non vadano ora, per cui le voci dei bardi erano apprezzate negli
stadi quanto le imprese degli atleti. Ma i romani, fin dal 508 avanti Cristo,
9
dovettero sospettare che l’abuso dei giochi fosse un vero pericolo. Infatti, in
torno a quell’epoca istaurarono i Giochi Secolari, e piu tardi quelli Terentini
che si celebravano con una periodicità esemplare per oggi: ogni cento o ogni
centotré anni.
Già nel Medioevo erano congressi di cultura le contese e i tornei dei giullari,
poi quelli dei trovatori ed in seguito quelli di giullari e trovatori insieme, che
praticamente inaugurarono una tradizione che ci affligge frequentemente: comin
ciavano come giochi e finivano in litigi. Ma raggiunsero anche un tale splendore
che durante il regno di Luigi XIV venivano inaugurati da un banchetto colos
sale, la cui rievocazione qui — lo giuro — non pretende di costituire un sug
gerimento velato: venivano serviti 19 buoi, 3 mila pasticci e piu di duecento
otri di vino.
Il culmine di questo concerto di giullari e trovatori lo costituirono i Giochi
Floreali di Tolosa, il piu antico e duraturo degli incontri poetici — un modello
di continuità — inaugurato seicentosessanta anni fa. La fondatrice, Clemencia
Isaura, fu una donna intelligente, intraprendente e bella, il cui unico difetto
sembra essere il fatto che non è mai esistita: potrebbe essere stata una pura
invenzione di sette trovatori che organizzarono il certame per impedire l’estin
zione della poesia provenzale. Ma la sua stessa non-esistenza è una prova in
piu del potere creatore della poesia, infatti a Tolosa c’è una tomba di Cle
mencia Isaura nella chiesa della Dorata e una strada col suo nome e perfino
un monumento alla sua memoria.
Detto questo, abbiamo il diritto di chiederci: Ma che ci faccio io, arram
picato su questa pedana d ’onore, io che ho sempre considerato i discorsi come
il più terribile dei doveri umani? Non mi azzardo a formulare una risposta,
faccio solo una proposta: cerchiamo di stare qui per fare in modo che un
incontro fra intellettuali abbia quello che la maggior parte degli incontri non
ha avuto: un’utilità pratica ed una continuità.
Tanto per cominciare, ce qualcosa che distingue quest’incontro. Oltre a
scrittori, pittori, musicisti, sociologi, storici, c’è un gruppo di scienziati eminenti.
Cioè: abbiamo osato sfidare il tanto temuto concubinaggio fra le scienze e le
arti. Abbiamo mischiato in uno stesso crogiuolo coloro che ancora confidano
nella clariveggenza dei presagi, e quelli che credono solo nelle verità verifi
cabili: la vecchia avversità fra ispirazione ed esperienza, fra istinto e ragione.
Saint John-Perse, nel suo memorabile discorso per il premio Nobel, invalidò
questo falso problema con una sola frase: « Sia nello scienziato che nel poeta
— disse — bisogna onorare il disinteresse del pensiero. Che almeno qui non
continuino ad essere considerati come fratelli nemici, poiché gli interrogativi di
entrambi sono gli stessi sopra lo stesso abisso ».
L’idea che la scienza riguardi solo gli scienziati, è tanto antiscientifica come
è antipoetico pretendere che la poesia riguardi solo i poeti. In questo senso,
il nome dell’Unesco — Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione,
la Scienza e la Cultura — contiene una grave inesattezza, perché dà per scon
tato che quelle tre cose siano differenti, mentre in realtà sono tutte una sola
cosa. Infatti la cultura è la forza totalizzante della creazione: il profitto sociale
dell’intelligenza umana. O, come ha detto Jack Lang senza tante storie: « La
cultura è tutto ». Ben venuti, dunque- benvenuti tutti insieme nella casa di tutti.
Non mi azzardo a suggerire che qualche motivo di riflessione per questi
tre giorni di ritiro spirituale. Oso ricordarvi, in primo luogo, qualcosa che
forse ricordate tutti perfettamente: che qualsiasi decisione a medio termine che
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venga presa in questi tempi di fine secolo, è ormai una decisione per il Se
colo XXI. Eppure, noi latinoamericani e gente del Caribe ci avviciniamo a
quel secolo con la sensazione desolante di aver saltato il secolo XX: lo ab
biamo sopportato senza viverlo. Mezzo mondo festeggia l’alba dell’anno 2001
come la culminazione di un millennio, mentre noi cominciamo appena a intra
vedere i benefici della rivoluzione industriale. I bambini che oggi frequentano
la scuola elementare e che si preparano a reggere i nostri destini nei cent’anni
prossimi, sono ancora condannati a contare sulle dita della mano, come i con
tabili della piu remota antichità, mentre esistono calcolatrici in grado di fare
centomila operazioni aritmetiche al secondo. In cambio, abbiamo perso in cent’anni
le migliori virtu umane del secolo XIX: l’idealismo febbrile e la priorità dei
sentimenti: il trasalimento dell’amore.
A un certo punto del prossimo millennio, la genetica intravvedrà l’eternità
della vita umana come una realtà possibile, l’intelligenza elettronica sognerà
l’avventura chimerica di scrivere una nuova Iliade, e nella sua casa sulla Luna
ci sarà una coppia dell’Ohio o dell’Ucraina, intristita dalla nostalgia, che si
amerà in giardini di vetro alla luce della Terra. L’America latina e il Caribe,
invece, sembrano condannati alla schiavitù del presente: gli stravolgimenti tel
lurici, i cataclismi politici e sociali, le urgenze immediate della vita quotidiana,
delle dipendenze di ogni genere, della povertà e l’ingiustizia, non ci hanno
lasciato molto tempo per assimilare le lezioni del passato o per pensare al
futuro. Lo scrittore argentino Rodolfo Terragno ha fatto una sintesi di questo
dramma: « Usiamo i raggi X ed i transistors, i tubi catodici e le momerie
elettroniche, ma non abbiamo incorporato i fondamenti della cultura contempo
ranea nella nostra cultura ».
Per fortuna, la riserva determinante dell’America latina e del Caribe è una
energia capace di smuovere il mondo; è la pericolosa memoria dei nostri popoli.
È un’immenso patrimonio culturale anteriore alla materia prima, una materia
primaria di carattere molteplice che accompagna ogni passo delle nostre vite.
È una cultura di resistenza che si esprime nei nascondigli del linguaggio, nelle
vergini mulatte — le nostre patrone artigianali — veri miracoli del popolo contro
il potere clericale colonizzatore. È una cultura della solidarietà che si esprime
contro gli eccessi criminali della nostra natura indomita, o nell’insorgenza dei
popoli per la propria identità e sovranità. È una cultura di protesta nei volti
indigeni degli angeli artigianali dei nostri templi, o nella musica delle nevi per
petue, che cerca di scongiurare con la nostalgia il sordo potere della morte.
È una cultura della vita quotidiana che si esprime nell’immaginazione della
cucina, del modo di vestire, della superstizione creativa, delle liturgie intime
dell’amore. È una cultura di festa, di trasgressione, di mistero, che rompe la
camicia di forza della realtà e mette pace, finalmente, fra il raziocinio e l ’imma
ginazione, fra la parola e il gesto, e dimostra, di fatto, che non c’è concetto
che prima o poi non sia superato dalla vita.
Questa è la forza della nostra arretratezza. Un’energia di novità e di bel
lezza che ci appartiene completamente e grazie alla quale bastiamo a noi stessi,
che non potrà essere domata né dalla voracità imperiale, né dalla brutalità del
l’oppressione interna, e neppure dalle nostre paure immemoriali di tradurre
in parole i sogni piu reconditi. Perfino la rivoluzione stessa è un’opera cul
turale, l’espressione totale di una vocazione e di una capacità creatrice che giu
stificano ed esigono da tutti noi una profonda fiducia nell’avvenire.
Questo deve essere qualcosa di piu di un altro dei tanti incontri che si
11
svolgono quotidianamente nel mondo, e lo sarà se riusciremo ad intravvedere
almeno nuove forme di organizzazione pratica per canalizzare l’alluvione irre
sistibile delia creatività dei nostri popoli, lo scambio reale e la solidarietà fra i
nostri creatori, ima continuità storica e una più ampia e profonda utilità sociale
della creazione intellettuale, il più misterioso e solitario dei mestieri dell’uomo.
E deve essere, per concludere, un apporto decisivo all’indilazionabiie determi
nazione politica di saltare al di sopra di cinque secoli estranei, e di entrare
con passo fermo, con un orizzonte millenario, nel millennio imminente.
Mappa di Tenochtitlàn, attribuita a Cortes (1524)
12
Carlos Fuentes
America latina
tra equilibrio e violenza
Stati Uniti e America latina condividono un continente di enormi contrasti
e vaste disuguaglianze. Tutti e ciascuno dei paesi latinoamericani sono nazioni
in via di sviluppo. Gli Stati Uniti sono una nazione industrializzata: la piu
industrializzata del mondo, la più forte in termini militari ed economici, anche
se, disgraziatamente, non è la più saggia in termini politici.
Come l’America latina, anche gli Stati Uniti hanno conosciuto la rivoluzione
e la guerra civile. Eppure, quasi sempre i nordamericani si sono dimostrati capaci
di negoziare i loro affari interni. Sarebbe bello che questa stessa capacità fosse
presente nelle loro relazioni con l’America latina.
Immaginiamo per un momento che l’America latina abbia avuto il potere
di determinare il risultato della guerra civile nordamericana intervenendo de
cisamente a favore delle forze sudiste. Cosa che i conservatori latinoamericani
desideravano fortemente. Se avessero realizzato questo loro desiderio, avrebbero
frustrato il progetto nazionale della storia nordamericana.
Ed è proprio una frustrazione simile, quella che sentiamo noi quando gli
Stati Uniti abusano del loro immenso potere e soffocano la volontà nazionale
del Guatemala o del Cile, di Cuba o del Nicaragua, facendo cadere i loro
governi e spingendoli ad allearsi e a dipendere dall’Unione Sovietica. Questi
errori devono essere evitati, ma non saranno evitati fintantoché gli Stati Uniti
non riconosceranno il diritto di ogni paese latinoamericano, grande o piccolo,
a determinare la propria politica interna ed internazionale soprattutto, ed in
particolare quando quella politica non coincide con quella della superpotenza
continentale.
Discorso pronunciato al collegio Mount Saint Mari’s di Los Angeles, ottobre 1985.
13
Il mondo, poi, è cambiato da quando Jacobo Arbenz fu spodestato dai ge
nerali e dalla Cia nel 1954, o da che Salvador Allende è stato destabilizzato
dall’amministrazione Nixon e poi assassinato dai generali nel 1973.
L’America latina non accetterà piu nessun intervento militare, diretto o in
diretto, da parte degli Stati Uniti. L’unica cosa che può unire i popoli ed i
governi di tutto l’emisfero è proprio la resistenza ad un nuovo intervento nordame
ricano in America latina.
Nell’attuale politica dell’Amministrazione Reagan contro il Nicaragua, i go
verni indipendenti dell’America latina vedono una minaccia contro la propria
sovranità.
Se non ci sottoporremo ai dettami di Washington saremo castigati anche noi
con blocchi commerciali, anche noi saremo attaccati da mercenari presentati
come « difensori della libertà » e denunciati come stati antidemocratici poiché
solo gli Stati Uniti avrebbero titolo per sovrintendere a libere elezioni e per
insegnarci, come Woodrow Wilson nel 1914, « a scegliere uomini buoni ».
I popoli dell’America latina non sono disposti a sopportare ancora una
volta tutto ciò. E i governi civili che non appoggeranno i loro popoli, saranno
sostituiti da regimi militari eccitati da convulsioni di ribellione.
II destino dei nuovi regimi democratici — il governo di Alfonsin in Argentina;
quello di Sanguinetti in Uruguay; la presidenza di Alan Garcia in Peru; la tran
sizione verso elezioni dirette e governi civili in Brasile — può essere frustrato
da questo doppio handicap: l’intollerabile invasione di un territorio latinoameri
cano ed il continuo rimandare la soluzione dei veri problemi, che sono economici
e sociali e non bellici.
Non c’è un solo aspetto del conflitto centroamericano che non possa essere
risolto rapidamente e perfino con discrezione, dalla diplomazia o da quello che
in altre parti del mondo viene chiamato « l’impegno costruttivo », che gli Stati
Uniti riservano ai loro amici sudafricani ma che negano ai loro amici latino
americani.
Cuba e il Nicaragua sono delle minoranze, non delle minacce, e rappre
sentano l’inevitabile ascesa delle società marginali, non necessariamente delle so
cietà totalitarie.
Poiché, come Fidel Castro sta dimostrando in questo momento, queste nuove
nazioni, prima o poi, dovranno integrarsi alla realtà dei rapporti economici
globali, che ci si guadagna osteggiandole, assediandole ed armando i contro
rivoluzionari, invece di attrarle e di affrettare il momento della loro presenza
economica e politica normale nel mondo?
Interessa a noi tutti capire ed accettare il cambiamento e la rapida costru
zione delle istituzioni in piccoli paesi che non hanno mai avuto l’opportunità di
creare i propri strumenti nazionali di potere.
Queste nazioni debbono essere lasciate in pace per poter definire i loro
problemi, risolvere le proprie liti familiari e conseguire quel minimo rispetto
di sé che la storia e gli interventi costanti degli Stati Uniti, ha negato loro.
Perché una nazione potente come gli Stati Uniti, accompagnata dai suoi amici
di questo emisfero e dai suoi alleati europei, non può proporre contributi ra
zionali ai problemi dell’area ed offrire a questi paesi un trattamento migliore di
quello dei sovietici?
Ma se la risposta degli Stati Uniti alle rivoluzioni di questo emisfero è l’osti
lità, la rivoluzione diventerà sempre piu radicale, cercherà l’alleanza con l’Urss
come un imperativo di sicurezza, e dividerà la società nordamericana su temi
come l’aiuto alla controrivoluzione e la possibilità di un’invasione armata. E so14
prattutto accrescerà le possibilità stesse della guerra mediante atti di violenza in
controllabili in frontiere estremamente incerte.
Nessuno è del tutto innocente in questa situazione: non credo nell’innocenza
politica. Ma l’importante è risolvere i problemi, non ignorarli per decenni e
poi esacerbarli in pochi mesi. La soluzione centroamericana è a portata di mano,
si chiama diplomazia ed immaginazione politica, e gli Stati Uniti se la vedono
offrire da paesi amici degli Stati Uniti e si tratta di una soluzione latinoamericana
a problemi latinoamericani.
Se gli Stati Uniti non si decideranno ad appoggiare seriamente questa so
luzione, invece di elogiare retoricametne Contadora per poi rinnegarla con atti
di forza, ben presto gli Stati Uniti si vedranno esclusi dalla dinamica politica
dell’America latina.
Castro sta dimostrando di poter rientrare in America latina alle sue condi
zioni, senza curarsi delle condizioni imposte da Washington fin dai tempi della
presidenza Eisenhower. L’America latina ha preso nota di questo fatto e pa
ragona le sue iniziative di pace con la costante contraddizione del governo di
Reagan fra quel che dice e quel che fa in Centroamerica.
Dal momento in cui il Nicaragua ha annunciato la sua decisione di firmare
il Documento di Contadora, gli Stati Uniti hanno cercato tutte le scuse per
posporre, debilitare e perfino sabotare l’accordo centroamericano: l’Ulisse nordame
ricano doveva scorazzare liberamente per la zona mentre la Penelope di Contadora
doveva disfare ogni notte quello che aveva tessuto di giorno.
A partire da questo momento, lo spazio di negoziazione in America Centrale
si è ridotto costantemente. Gli Stati Uniti hanno rifiutato la giurisdizione della
Corte internazionale di giustizia. Le conversazioni bilaterali fra Nicaragua e Stati
Uniti a Manzanillo sono state sospese. Honduras, Salvador e Costarica hanno
subito pressioni ed è stata ricordata loro la posizione di stati clienti di Washington.
Le tensioni militari nell’istmo si sono ingigantite. L’appoggio dato ai controri
voluzionari e l’approvazione di aiuti militari da parte del Congresso degli Stati
Uniti hanno minato ancor di piu il terreno del negoziato ed hanno provocato
l’attesa reazione del Nicaragua: cercare più armi per opporsi alla controrivoluzione.
Un embargo commerciale che nessuno rispetta è sembrato simbolizzare l ’inu
tilità dell’ostilità di Washington verso Managua. Le ragioni di questa ostilità
sono mutate: l’impossibilità di dimostrare pubblicamente la presenza del Nica
ragua nella guerra civile salvadoregna- ha fatto cambiare la giustificazione inter
ventista: ormai non si parla più di vendita di armi, ma « della democrazia in
Nicaragua ». Questo tema, come tutti sappiamo, ha preoccupato enormemente
Jeane Kirkpatrick, Norman Podhoretz ed altri conservatori nordamericani per
tutti i quarantotto anni del somozismo. Per tutto quel periodo, gli attuali pa
ladini di destra della democrazia non hanno mai chiesto ai Somoza quel che
oggi chiedono ai sandinisti esattamente come non l’hanno mai chiesto ai militari
argentini o a Pinochet.
L’Amministrazione Reagan ha attribuito a sé stessa il privilegio divino, simile
a quello dell’Unione Sovietica nella sua sfera di influenza, di intervenire nella
vita dei suoi vicini, di violentarli e di decidere chi debba governarli. I contro
rivoluzionari nicaraguensi sono diretti dal colonnello Enrique Adolfo Bermùdez,
della Guardia nazionale di Somoza. Reagan, in una vera e propria escalation
retorica, li chiama « difensori della libertà », eredi di Bolivar ed « equivalenti
morali » di Washington e Jefferson. Ma in Centroamerica non ci sono dei Jefferson,
dato che niente in quella cultura autorizza una figura di quel tipo.
Vi sono invece molti nuovi Bolivar che difendono il loro paese da un’in15
vasione straniera come ha fatto Juàrez con i francesi in Messico nel 1862 e come
ha fatto Sandino con i « marines » in Nicaragua nel 1927.
Vi sono pure, come in ogni rivoluzione, compresa quella nordamericana, molti
controrivoluzionari che vorrebbero ristabilire l’ordine precedente, cosi comodo
per loro: i contras sono paragonabili agli eserciti di Benedict Arnold, non a quelli
di Giorgio Washington. Ci sono emigrati, come quelli che fuggirono dagli Stati
Uniti nel 1780, dalla Francia nel 1790 o dal Messico nel 1911. Ci sono gli
eterni ribelli come Edén Pastora che finirà combattendo contro i contras se i
contras vinceranno, e ci sono uomini in buona fede, come Arturo Cruz ed Edgar
Chamorro. La loro delusione è sotto gli occhi di tutti. Chamorro ha confidato
al « New York Times » che la sua esperienza come leader ribelle lo ha con
vinto che la controrivoluzione non può contribuire alla democratizzazione del
Nicaragua: Sono — dice Chamorro — antiche guardie nazionali che minacciano
o assassinano chi osa opporsi a loro. Ed aggiunge: sono manovrate dalla Cia
che li ha ridotti ad un semplice fronte. E l’ambasciatore Cruz, appendice civile
dei contras, ha dichiarato la scorsa settimana a Londra che nessun nazionalista
nicaraguense potrà mai accettare che il Nicaragua sia bombardato o invaso dagli
Stati Uniti. I suoi compagni militari, però, non la pensano come lui.
Non ci sono Jefferson in Centroamerica: c’è invece chi è manovrato dagli
Stati Uniti e chi ha la forza del nazionalismo dalla sua parte. Ed ogni volta
che gli Stati Uniti, culla di una rivoluzione nazionalista, hanno cercato di sop
primere il nazionalismo altrui, sono stati sconfitti perché hanno voltato le spalle
alla loro stessa eredità.
Tutto ciò mi induce a considerare due temi che stanno guadagnando terreno
negli Stati Uniti e che riguardano direttamente l’America latina. Il primo è
che la democrazia definita dagli Stati Uniti, e non l’indipendenza definita dal
l’America latina, è il vero problema in Nicaragua. Il secondo — corollario del
primo — è che l ’appoggio alla democrazia autorizza gli Stati Uniti ad intervenire,
direttamente o indirettamente, al fine di « restaurare » la democrazia in un paese
straniero. Ma la democrazia, come la rivoluzione, non è un grappolo di banane:
non può essere esportata.
Non è possibile « restaurare » la democrazia dove questa non è mai esistita
prima: in Nicaragua. Si può invece ripristinare in Cile, dove ha radici pro
fonde. Ma non vedo controrivoluzionari finanziati dalla Cia sulle pendici della
Cordigliera delle Ande.
Cerchiamo di dare un tono elevato a questo importante dibattito storico,
dato che il tema è molto serio.
Antonio Gramsci vide nel Principe di Machiavelli una utopia dinamica sul
modo in cui un Principe deve agire se vuole dirigere il suo popolo verso la
fondazione di un nuovo stato. Il Principe machiavellico lavora su una comunità
polverizzata e senza comunicazione al fine di organizzare la sua volontà col
lettiva. Gramsci fa una distinzione fondamentale tra la politica di Machiavelli in
Italia, che si svolge nel momento della violenza nella città-stato dei Medici, e
la politica di Bodin in Francia che si svolge nel momento dell’equilibrio nello
stato-nazione di Enrico IV e Luigi X II.
Bodin può invocare i diritti delle classi medie — lo stato pacificato —
perché i problemi basilari della fondazione, unità e consenso nazionale sono
stati già risolti in Francia. Machiavelli deve invece invocare i diritti della ri
voluzione perché tutto — integrità territoriale, unità nazionale, una società
senza ostacoli feudali — non è stato ancora raggiunto in Italia.
In America latina, capi rivoluzionari come Obregón e Calles nel Messico
degli anni venti, Castro a Cuba e i Sandinisti in Nicaragua hanno dovuto
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identificare il momento della violenza col momento della fondazione, per poter
ottenere l’unità territoriale, l’identità nazionale e la praticabilità istituzionale. Il
Messico visse il suo momento di violenza dal 1910 al 1930; Cuba ne sta ap
pena uscendo fuori. Il Nicaragua lo vive tuttora drammaticamente.
Per contro i governanti attuali di Messico e Argentina, Venezuela e Brasile,
Peru e Uruguay vivono il momento di Bodin piu che quello di Machiavelli.
Il loro dilemma è quello di mantenere l’equilibrio democratico e nazionalista
per non cadere di nuovo nella violenza. Sapranno gli Stati Uniti aiutare questi
governi passati attraverso l’equilibrio e la violenza? Le forze della democrazia
e dell’equilibrio in America latina sono malservite dalle dottrine reaganiane sul
diritto ad intervenire, che presuppone che i governi marxisti sono cattivi e le
guerriglie che li sfidano sono buone, mentre i governi dienti degli Stati Uniti
sono buoni e le guerriglie che li attaccano sono cattive.
Viviamo in un mondo diviso in blocchi. L ’America latina, l’Africa, l’Asia,
la stessa Europa che vuole darsi un’identità più precisa per il prossimo secolo,
desiderano superare questa divisione verso un mondo più creativo, più diversificato.
Frattanto ogni superpotenza si attribuisce una sfera di influenza e il diritto
a fare e disfare i governi. La storia dell’Europa centrale e delle frontiere a
oriente e a sud dell’Unione Sovietica, ma anche la storia dell’America latina, sono
vulnerate dagli interventi della più grande potenza regionale: Russia o Stati Uniti.
Il criterio per giudicare i governi e le guerriglie in queste zone di influenza
deve rapportarsi al grado di sottomissione alla superpotenza regionale o alla sua
indipendenza da essa. I guerriglieri afghani, opponendosi al governo — mario
netta di Kabul, lottano per la libertà. Ma anche i contras sono burattini del
governo Usa quando cercano di abbattere i sandinisti, primo governo nica
raguense che non riceve ordini da Washington. Se per caso Lech Walesa andasse
al potere in Polonia la sua prima preoccupazione non sarebbe la democrazia
ma l ’indipendenza da Mosca. Lo stesso vale per il Nicaragua: il problema non
è la democrazia se per prima cosa non c’è l ’indipendenza. Non si può avere
una democrazia se non si ha una nazione, e non si può avere una nazione se
non si è indipendenti. Da Washington ma anche da Mosca. L’indipendenza è
l’ostacolo alla pace in Centroamerica: la mancanza, l’affermazione, la negazione
dell ’indipendenza.
La questione di fondo della pace in America Centrale è questa: cessiamo
di essere protettorati americani ma non trasformiamoci in protettorati sovietici.
Diventiamo invece partners commerciali, culturali e economici di tutti i continenti,
di tutti i blocchi. E, se nessuno ci minaccia militarmente non abbiamo motivo
per importare armi da nessun blocco.
Gli Usa devono promettere il non intervento. Noialtri dobbiamo promettere
il non allineamento. Tutti dobbiamo promettere cooperazione. Perché questo è
così difficile da accettare? E chi può credere realmente che la pace sarà rag
giunta non con concessioni diplomatiche ma con sempre maggiori atti di vio
lenza? I generali americani Vassey e Nutting hanno già avvertito che un’inva
sione del Nicaragua non sarebbe una seconda Grenada. Managua verrebbe oc
cupata, i contras prenderebbero il potere, i democratici tra di loro sarebbero
epurati, e sarebbe restaurata nella sua essenza e sottomissione la dittatura so
mozista. Chi tra i contras potrebbe evitarlo? Nessuno. I sandinisti stanno accu
ratamente preparandosi ad affrontare un’invasione e poi a scatenare una guerra
di guerriglia contro l’invasore. Gli Stati Uniti ancora una volta affonderebbero
in un pantano. Solo il ritorno di giovani cadaveri convincerà i nordamericani,
una volta di più, dell’errore della loro politica attuale, delle occasioni perdute?
Un bagno di sangue e poi una guerra di lunga durata. Il Nicaragua ha una
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cultura e un popolo. Il Nicaragua non può essere, alla fine conquistato. Una
invasione non solo aprirebbe una breccia, che occorrerebbero decenni per chiu
derla, tra America latina e Stati Uniti, non solo sarebbe un insulto intolle
rabile alla capacità di negoziato, ma metterebbe a rischio lo stesso tessuto sociale
delle nostre nazioni. Gli spazi per la diplomazia devono essere allargati e quelli
per la guerra ridotti. Le conversazioni tra Usa e Nicaragua devono riannodarsi
a Manzanillo affinché i conflitti bilaterali affievoliscano. La mediazione argentina
a Manzanillo deve essere bene accolta. L'Acta di Contadora deve essere approvata,
firmata e incrementata da ciascuna parte. Essa contiene le migliori formule per
la pace, immediata e di largo respiro. È una creatura latinoamericana e merita
il rispetto degli Stati Uniti. Sottoscriverla — come dice il ministro degli esteri
messicano, Bernardo Sapulveda, — «darebbe respiro alla distensione e alla si
curezza regionale ».
Le democrazie minacciate del Sudamerica — Argentina e Brasile, Uruguay,
Ecuador e Bolivia — daranno indubbiamente un appoggio sempre piu attivo a
Contadora, affinché YActa sia vista come espressione della volontà indipendente
dell’America latina in favore della pace e della cooperazione in Centroamerica.
Io chiedo ai miei amici nordamericani che non prendano per satelliti i loro
amici latinoamericani, che non sottovalutino o facciano pressioni su questi loro
amici, che non dicano che preferiscono aver satelliti che amici, perché l’amico
rispetta ma il satellite inganna.
La Cee che è ora una grande comunità di 320 milioni di persone con l’in
gresso delle democrazie iberiche — piu abitanti degli Usa o dell’Urss — deve
offrire all’America Centrale una opzione economica e morale piu ampia delle
due superpotenze. L’embargo imposto dagli Usa al Nicaragua deve finire quanto
prima: nessuno lo asseconda, fa vergogna a tutti. L’appoggio ai contras deve
finire: è immorale, è illegale, ed è il solo che corrisponde alla visione reaganiana
di guerriglia armata, finanziata e diretta politicamente da un potere estraneo
contro una nazione indipendente, con basi in altri paesi. Le repubbliche centro
americane devono essere lasciate in pace nel risolvere i loro conflitti storici,
senza interferenze esterne. Come ha detto recentemente il presidente messicano
Miguel de la Madrid, i processi interni di riconciliazione nazionali e i dialoghi
corrispondenti tra i gruppi all’interno del paese centroamericano sono questioni
che sfuggono alla natura di Contadora, fondata sul principio di non intervento.
Il Salvador deve trattare con le sue guerriglie interne. Mentre il Nicaragua deve
trattare col governo nordamericano sulle guerriglie manipolate da Washington
contro Managua. Ciò richiede un accordo bilaterale con il burattinaio: Managua
non ha nulla da negoziare con i contras, come Juàrez con Massimiliano perché
mettesse a cuccia i suoi cani.
Ciò che i sandinisti possono, si, fare dovrà accadere all’interno del Nicaragua,
come favorire la diminuzione delle tensioni fra il governo e la stampa, la chiesa,
il settore privato, i gruppi etnici come i miskitos e, in generale, l ’opposizione
nazionalista che non collabora con i contras o con gli americani.
Questo è qualcosa, ne sono sicuro, che il governo popolare del Nicaragua,
legittimamente eletto, farà presto e con serietà, non per allettare Washington o
per far piacere ai contras, ma perché è ciò che serve al Nicaragua, agli amici
del Nicaragua e al destino del Nicaragua in America latina e nel mondo.
Ma, in fondo, anche gli Stati Uniti hanno un obbligo con il proprio futuro
in questo emisfero, ed oggi le cose si stanno muovendo in maniera tale che gli
Usa potrebbero rimanere esclusi dalla dinamica delle Americhe. Ci hanno pensato
i fans di Ronald Reagan in America latina?
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Massimo Cavallini
La trappola del debito estero
« I nuovi dirigenti latinoamericani portano sulle proprie spalle una responsa
bilità immensa. Ripeto la mia convinzione che se non si troverà una soluzione al
problema del debito, se si cercherà di farlo pagare a tutti i costi, se le nefaste for
mule del Fondo Monetario Internazionale continueranno ad essere applicate, si pro
durranno grandi esplosioni sociali... ».
« Io credo che i paesi industrializzati non abbiano ancora veramente preso co
scienza della gravità del problema del debito estero. E gli Stati Uniti meno degli
altri. Non tengono conto delle implicazioni politiche e sociali. L’America latina può
esplodere socialmente se si arresta la crescita. Si può già fermare lo sguardo: l’esplo
sione arriverà quanto prima... ».
Due frasi sostanzialmente identiche uscite dalle bocche di due uomini sostan
zialmente diversi. La prima è di Lidel Castro ed è tratta dall’ormai famosa inter
vista che il leader cubano concesse, poco meno di un anno fa, al direttore del quo
tidiano messicano « Excelsior ». La seconda è di Julio Maria Sanguinetti, presiden
te dell’Uruguay, intervistato da Marcel Niedergang per « Le Monde » ai primi dello
scorso novembre. Lidel Castro è, come noto, sostenitore e simbolo di quella pro
posta di « non pagamento » che, seppur largamente presente nei movimenti di mas
sa latinoamericani, è rimasta fin qui ben lontana dai palazzi dei governi. Il secondo
è un degnissimo rappresentante di quell’ampia maggioranza di capi di stato che
« vogliono pagare ». « Noi uruguavani — dice Sanguinetti a Niedergang — non
preconizziamo né il non pagamento né lo sciopero dei paesi debitori, perché non
vogliamo isolarci dal mondo finanziario... ».
In un punto, tuttavia, queste due posizioni tanto lontane si incontrano e coin
cidono: sulla inevitabilità e sulla imminenza di una esplosione. Ed anche — per
quanto paradossale possa sembrare — sulla necessità di fare il possibile per evi19
tarla. Dice Fidel Castro: « Non ho dubbi che il metodo ideale e più costruttivo è
che questi problemi vengano risolti attraverso il dialogo politico ed il negoziato. Sa
rebbe la forma per portare avanti, ordinatamente, soluzioni essenziali... ». E San
guinetti: « Siamo per una soluzione giusta, responsabile, negoziata... ».
Frasi vecchie di appena qualche mese. Eppure già appartengono, in qualche mi
sura, alla « preistoria » del debito estero. Molti fatti nuovi sono passati sotto i ponti
di chi « vuole » e di chi « non vuole » pagare il debito. Ed è oggi il verbo « potere »
quello che sembra meglio adattarsi ad una realtà che ha di fatto livellato ogni ap
proccio ideologico al problema. Tutti gli indici economici sono peggiorati. Le mani
tese alla ricerca di un serio negoziato non hanno fin qui stretto che l’aria fritta del
cosiddetto « piano Baker ». L’ultima caduta del prezzo del petrolio ha introdotto
una variabile negativa che spinge la situazione ancor più fuori dal controllo. La
preventivata « esplosione », ieri considerata vicina, è oggi vicinissima. Solo che nes
suno, nel mondo sviluppato, sembra desideroso — come diceva Sanguinetti —
di « fissare lo sguardo ». Tutti appaiono allegramente indaffarati attorno ai tavoli
del grande « banchetto deflattivo » che pensano d ’imbandire con materie prime a
prezzi sempre più stracciati. Eppure anche loro sono seduti sulla polveriera.
I dati presentati dal Cepal (la commissione economica dell’Onu per l’America
latina) parlano chiaro. Nel 1985 il debito estero dei paesi latinoamericani è au
mentato da 360 a 368 mila milioni di dollari. Un aumento apparentemente mode
sto, ben lontano dalle percentuali (più 21 per cento nell’81) degli anni del « boom »
creditizio. E tuttavia, proprio in questa piccola quota di incremento c’è la prova
della sua « impagabilità », o meglio, della impossibilità — quantomeno nelle condi
zioni date — di cancellarlo in un qualunque punto del tempo che giunga prima
dell’eternità. Il debito infatti aumenta nonostante, negli ultimi anni, le aperture di
nuovi crediti da parte delle banche si sia fatta comprensibilmente assai più avara.
Ed aumenta, soprattutto, nonostante i paesi dell’America latina abbiano pagato,
solo tra l’82 e l’85 e solo per gli interessi, l’incredibile somma di 106 mila milioni
di dollari. Quasi la terza parte del debito totale. E tutto ciò per vedere crescere,
anziché diminuire, la somma dovuta. Un infernale meccanismo di strozzinaggio.
Ma le cifre assolute, per quanto già eclatanti, non dicono che una parte della
verità. Per comprendere a fondo la realtà del fenomeno, occorre paragonare il
« trasferimento netto di risorse » con la capacità di « produrre risorse », ovvero con
la possibilità che i singoli paesi hanno di incamerare valuta attraverso esportazioni.
Nel solo ’85 — sempre secondo i dati Cepal, che più d ’uno considera ottimisti —
l’America latina ha sborsato, per gli interessi sul debito estero, 30 mila milioni di
dollari. Una cifra appena inferiore ai 34 mila 300 milioni che costituiscono l’utile
complessivo nella bilancia dei pagamenti. Il che, prosaicamente detto, significa che
l’America latina, oggi, usa praticamente tutti i suoi utili commerciali per pagare
gli interessi sul debito. Una situazione insostenibile per qualunque economia ca
pitalista.
E ancora non è tutto. Ciò che più da il segno del rapido deteriorarsi della situa
zione è il progressivo ridursi della « forbice » tra l’emoraggia di risorse provocata
dal pagamento degli interessi e la capacità di produrre utili commerciali. Nel 1984
il « superavit » della bilancia latinoamericana era stato di 38 mila 700 milioni di
dollari. Nell’85, come si è visto, è calato a poco più di 34 mila. E questo al termine
di un quadriennio — 82-85 — nel quale tutti i paesi debitori hanno compiuto uno
sforzo enorme per applicare a se stessi le ricette imposte dal Fmi. Ovvero: restri
zione selvaggia delle importazioni, tagli alla spesa pubblica ed espansione delle espor
tazioni. Uno sforzo pagato durissimamente, in termini di fame, salari, consumi, la
voro, assistenza, salute ed educazione, dalle popolazioni interessate. Una sfida ai
« limiti di sussistenza » interni ed alle avverse condizioni del mercato internazio20
naie che, alla fine dell’84, aveva appunto portato a quel « record storico » — 38
mila 700 milioni — negli utili della bilancia commerciale. Un record che, con tutta
evidenza, ha segnato anche il limite estremo — « fisico », si è tentati di dire —
oltre il quale la cura fondomonetarista non può andare. Ed infatti l’85 già ha se
gnato l’inizio della parabola discendente. L’America latina, spossata da una cura
rivelatasi di gran lunga piu dannosa della malattia, si ritrova con piu miseria, piu
fame, piu analfabetismo, piu disoccupazione. E con piu debiti. Il suo è stato il
più doloroso ed il più inutile dei sacrifici. Perché?
La ragione è fondamentalmente una: il Fmi e le banche creditrici le hanno im
posto di combattere al proprio interno gli effetti di fenomeni che avevano la pro
pria origine all’esterno. E, più precisamente, nella politica di quei paesi sviluppati,
Stati Uniti ovviamente in testa, che ora reclamano il « saldo dei conti ». Contro
la politica della espansione delle esportazioni hanno giocato il rallentamento
della crescita a livello mondiale, il protezionismo ed il dumping delle potenze in
dustriali ai danni delle produzioni latinoamericane. Ma soprattutto il continuo ed
inesorabile deteriorarsi delle ragioni di scambio ai danni di tutte, o quasi, le ma
terie prime. C’è un dato, in questo tragico bilancio dell’85, che ben definisce i con
torni della « trappola » nella quale i paesi debitori si trovano racchiusi: nell’ultimo
anno l’America latina, in virtù del calo dei tassi d ’interesse, ha risparmiato mille
milioni di dollari, ma ne ha perduti quattromila per l’inarrestabile discesa dei prezzi
dei suoi prodotti di esportazione sui mercati internazionali.
Questo è dunque il quadro. Nel 1985 il prodotto interno lordo complessivo
dell’America latina è crescito del 2,8 per cento, con un calo piuttosto marcato ri
spetto al già modestissimo 3,4 per cento dell'84. E se dal calcolo si esclude il Bra
sile (con il suo quasi 8 per cento di crescita, pagato però con una inflazione re
cord del 230 per cento), il dato scende fino allo 0,8. Ed il prodotto pro-capite, ov
viamente, considerato l’alto indice di crescita della popolazione, si inabissa parec
chio sotto lo zero. Il drenaggio di risorse provocato dal pagamento degli interessi
del debito ha portato l’indice degli investimenti un 30 per cento al di sotto dei
livelli dell’80.
I salassi del Fmi — che in questi anni ha davvero usato metodi degni del torvo
empirismo d ’uno di quei lugubri medici seicenteschi — hanno dunque letteralmente
dissanguato l’America latina. E, di fronte alla impossibilità pratica d ’applicare nuo
ve mignatte al corpo del paziente, pena la sua morte, si è deciso di tentare una
nuova cura. L’hanno chiamata « piano Baker », dal nome del segretario al Tesoro
Usa che ha avuto l’onore di presentare la nuova terapia nel corso dell’ultima riunio
ne a Seul del Fondo monetario e della Banca Mondiale. Anche se molti ritengono
che esso sia in realtà opera del segretario aggiunto al Tesoro David Mulford, vero
« sistemizzatore » d ’una decisione coordinata tra la presidenza della repubblica
(ovvero lo stesso Reagan) e la Giunta della riserva federale (di fatto la banca cen
trale degli Usa) diretta da Paul Volcker.
Si tratta, in sostanza, di una trasfusione di sangue. Una trasfusione assai piccola
considerata l’entità dei salassi precedentemente applicati. E, per di più, con lo scopo
palese di consentire, e al più presto, l’applicazione di nuove sanguisughe, o meglio,
di garantire una nutrizione adeguata a quegli ancora numerosi animaletti che re
stano ostinatamente incollati alla pelle del paziente, reclamando nuovo sangue. In
somnia niente di più che un temporaneo sollievo, in vista della ripresa della vec
chia cura. Che ingrassa le mignatte ed uccide il malato.
Fuor di metafora: il « piano Baker » propone che nei prossimi tre anni la ba-nca privata conceda prestiti per 20 mila milioni di dollari ai 15 paesi più indebi
tati del mondo (in gran parte latinoamericani come si vede dalla lista: Argentina,
Bolivia, Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Messico, Perù, Uruguay, Venezuela, Ni21
geria, Costa de Marfil, Marocco. Yugoslavia e Filippine. Ancora giacenti le richie
ste di accesso alla cura di Repubblica Dominicana e Costa Rica). Ad essi gli enti
multilaterali dovrebbero aggiungere una cifra variante dai 9 mila ai 20 mila milioni
di dollari. In tutto, nella migliore delle ipotesi, 40 mila milioni di dollari, quanto
basta, secondo calcoli fatti dagli undici paesi del « gruppo di Cartagena », per pa
gare un terzo degli interessi del debito. Senza contare, ovviamente, i nuovi interessi
(sul cui tasso ancora è mistero fìtto) che i nuovi prestiti genereranno.
Formalmente, la « novità » del piano Baker consiste nel riconoscimento di una
esigenza piu volte avanzata dai paesi debitori. Ovvero: per poter pagare bisogna
crescere. Sicché, teoricamente, i nuovi prestiti dovrebbero essere finalizzati non al
pagamento degli interessi dei debiti precedenti, ma ad investimenti che amplino
la capacità di esportazione dei paesi interessati. Un obiettivo che, in effetti, non si
vede come possa essere realizzato nelle condizioni date. Ed inoltre, per ottenere
i nuovi fondi, i « clienti » del piano dovranno accettare — esattamente come av
veniva in passato — i « programmi di risanamento » imposti dal Fmi, ossia, rien
trando nella metafora, la cura dissanguante dei vecchi medici seicenteschi.
Il piano Baker ha fin qui avuto una storia curiosa. Quasi tutti lo hanno accolto,
se non proprio con entusiasmo, almeno come « un fatto positivo anche se insuf
ficiente » (questo è stato il primo giudizio dei paesi di Cartagena). Ma, all’atto pra
tico, nessuno è apparso particolarmente ansioso di « fungere da cavia ». Poiché, se
il bisogno di « sangue nuovo » è decisamente forte, ancor piu forte e vivo è il ri
cordo, o meglio, l’attualissima sensazione di dolore, lasciata dai salassi che la nuova
trasfusione si prepara a reiterare. Sicché il piano ha deambulato per tutto il con
tinente alla ricerca del « paese modello » destinato a sperimentare la nuova cura.
Prima il Messico, poi l’Argentina, poi il Venezuela e infine, dopo una capatina nel
grande Brasile, un ultimo, momentaneo approdo nell’Ecuador del fedelissimo fondomonetarista Febres Cordero.
Molto difficilmente, tuttavia, la creatura di James Baker (o di David Muldford)
riuscirà a trovare casa. La crisi, negli ultimi mesi, è corsa molto piu rapida delle
sue pretese e della sua credibilità. E già ora, per quanto ancora appartenga al fu
turo, appare decrepito ed inutile, come un patetico reperto archeologico. Un fatto,
soprattutto, ha contribuito ad accelerare gli eventi ben oltre le già limitate capa
cità di resistenza del piano: il crollo del prezzo del petrolio. Li ha accelerati, in
verità, ad un punto tale che oggi la « crisi del debito estero » viaggia più veloce, non
solo del piano Baker, ma anche delle rotative. Tutto quello che si scrive, a questo
punto, potrebbe apparire già irrimediabilmente vecchio al momento della pubbli
cazione.
Il Messico, ad esempio, potrebbe aver già dichiarato quella « moratoria unila
terale involontaria » che, allo stato, appare praticamente inevitabile. Tutte le pre
visioni sono saltate ed i conti, da sempre « in rosso », appaiono oggi arroventati
ed immaneggiabili. Il Messico, semplicemente « non può » pagare. Con due succes
sivi ribassi il prezzo medio del greggio è passato da più di 23 dollari a 15. Sicché,
mantenendosi gli attuali prezzi e gli attuali ritmi di vendita — il che non è affatto
scontato — gli ingressi per esportazioni petrolifere passeranno, nell’86, dai 13 mila
e 100 milioni di dollari preventivati, a poco meno di ottomila. Le esportazioni to
tali del paese non supereranno, nella migliore delle ipotesi i 15 mila e 500 milioni.
E, quest’anno, per il proprio debito estero — tra interessi, ammortamento di capi
tale ed arretrati — il Messico deve pagare 12 mila e 500 milioni di dollari. Le im
portazioni — importazioni ormai di pura sussistenza dopo i ripetuti « piani eco
nomici » imposti dal Fmi — sono previste in 14 mila 500 milioni di dollari. Il « su
perava » commerciale non sarà dunque che di mille milioni, il che significa un
« buco » di 11 mila 500 milioni solo per far fronte alle scadenze del debito estero.
22
Piu della metà dei fondi complessivi previsti — in tre anni e per 15 paesi — dal
piano del signor Baker.
Il Venezuela, le cui entrate in divisa dipendono al 90 per cento dal petrolio, si
trova in una situazione non troppo dissimile. Le esportazioni, dai 15 mila milioni
di dollari, scenderanno a non piu di diecimila milioni. La metà dei quali già è im
pegnata dai cinquemila milioni che il paese — in base all’ultima rinegoziazione, fi
no a ieri considerata « vantaggiosa » — dovrà pagare per gli interessi del debito.
L’Ecuador, ultimo « paese-modello », pubblicamente elogiato dall’amministrazione
Reagan, è in pieno stato d ’allarme. Febres Cordero ha annunciato un immediato
viaggio a Washington per « ridiscutere tutta la questione del debito », mentre il
sucre subiva la piu forte svalutazione della sua storia recente.
E non è tutto. Negli Stati Uniti, per riequilibrare il gigantesco deficit fiscale
di 200 mila milioni di dollari (fonte di molti dei mali dell’economia mondiale), gia
ce di fronte al Congresso una proposta di legge che prevede una tassazione fino a
10 dollari per tutte le importazioni petrolifere. Per Messico e Venezuela, che ven
dono rispettivamente il 70 ed il 60 per cento della propria produzione agli Usa,
sarebbe un colpo mortale. « Si tratterebbe — ha detto il ministro venezuelano al
l’energia Ignacio Moreno — di un autentico atto di guerra economica ».
Ma lo « stato d ’emergenza » si riverbera ormai su tutto il continente, anche su
quei paesi che una valutazione politicamente assai superficiale, vorrebbe beneficiari,
in quanto importatori, del crollo del prezzo del petrolio. Il quale crollo viene, al
contrario, visto come il « volano » di un nuovo prevedibile ribasso di tutte le ma
terie prime. Insomma, una minaccia per tutti. Ed una minaccia mortale.
Si ha l’impressione che, ormai, la situazione stia entrando in una fase politicamente nuova. Nel dicembre scorso gli 11 paesi del gruppo di Cartagena si erano
riuniti a Montevideo per valutare il piano Baker. Avevano, come si è detto, defi
nito il piano « positivo ma insufficiente » ed avevano, ancora una volta, teso agli
Usa ed al mondo sviluppato la mano di una possibile trattativa. Avevano chiesto
una gestione separata tra vecchi e nuovi debiti, una riduzione dei tassi d ’interesse,
la limitazione dei pagamenti a quote definite delle esportazioni e, soprattutto, che
11 valore di queste importazioni venisse in qualche modo garantito sul mercato in
ternazionale. Sopra quella mano tesa, ad appena poche settimane di distanza, è
piombata la mazzata del crollo petrolifero, accompagnata dai canti di vittoria di
Reagan (« Abbiamo messo il ginocchio l’Opec »). Ed ora i paesi Cartagena, final
mente davvero uniti, sembrano rapidamente avviati a prendere decisioni unilate
rali. La « riduzione non contrattata dei tassi d'interesse » in tutti i paesi del gruppo
potrebbe essere già una realtà quando queste righe verranno pubblicate. E questa
volta non si tratterebbe, come fu per il Peru di Alan Garcia, del gesto isolato di un
« ribelle ». Sarà il primo passo verso il « non pagamento »?
Il 4 febbraio, aprendo il 3° congresso del partito comunista cubano, Fidel Castro
aveva detto: « Quando abbiamo postulato la impagabilità del debito estero, ci sia
mo basati su calcoli ed argomentazioni alle quali non hanno potuto ribattere. L’ul
tima caduta del prezzo del petrolio, tanto brutale quanto era stata la sua salita dal
74 in poi, deve ora persuadere anche quei paesi esportatori di petrolio del nostro
emisfero che un giorno avevano cullato l’illusione che un debito tanto gigantesco
fosse pagabile. Siamo certi che alla convinzione che ciò è assolutamente impossibile
arriveranno, prima o poi, tanto i debitori quanto i creditori. E speriamo che sia
attraverso il dialogo e non attraverso catastrofiche crisi, che questi debiti ricevano
il proprio certificato di morte e siano sepolti una volta per sempre. Se si pretenderà
di applicare le formule inumane del Fondo monetario, nessuno potrà prevedere la
grandezza delle esplosioni sociali e le conseguenze che provocheranno, senza rag
giungere mai l’obiettivo del pagamento ».
23
Ed aveva aggiunto: « La formula proposta da Cuba è semplice, comprensibile e
perfettamente applicabile: che gli stati dei paesi debitori sviluppati si facciano ca
rico, presso le proprie banche, del debito dei paesi del Terzo mondo. E che il 12
per cento di quello che oggi si impiega in spese militari si dedichi alla ammortizza
zione di quel debito. Non postuliamo la bancarotta del sistema finanziario interna
zionale, né che i correntisti dei paesi capitalisti industrializzati perdano il proprio
denaro, o che i contribuenti debbano pagare piu tasse... ».
Queste proposte, vecchie di un anno, sono state fin qui qualificate nel mondo
sviluppato, nei casi più favorevoli, come « provocazione » o « utopia ». Eppure fi
no ad oggi i fatti, almeno nelle premesse, non ne hanno che confermato la validità
e la razionalità. L’unica vera utopia — una cinica utopia — apparsa fin qui sulla
scena è stata, caso mai, la convinzione che tutto potesse risolversi dentro i mecca
nismi esistenti, con l’aggiunta dei « quattro soldi » del piano Baker.
Con un paradosso si può dire che persino le banche hanno dato ragione a Ca
stro. È accaduto quando, messe di fronte al piano Baker, hanno fatto sapere, conce
dendo il proprio riluttante appoggio, che avrebbero gradito una « garanzia » dei
singoli stati sui nuovi prestiti. Il che, sia pure tradotto in termini molto « bottegai »
non è cosa molto diversa da quella proposta dal leader cubano. E davvero non fa
rebbe male a nessuno se questa « garanzia » si estendesse, come chiede Castro, fino
a disinnescare per sempre la bomba del debito, liberando contemporaneamente il
mondo da un 12% dei pericoli di guerra che lo angustiano.
Oggi questa è soltanto una battura. Domani — dopo l’« esplosione » — potreb
be essere il rimpianto per una grande occasione perduta.
Voci della Conferenza dell'Avana
Come documentazione, pubblichiamo gli stralci di alcuni interventi pronunciati
alla Conferenza dell’Avana sul debito estero. La scelta è voluta. Abbiamo tralasciato
i nomi più noti, più impegnati, quelli — insomma — dei « professionisti » della
politica e dell’economia, per dare spazio alle voci che rappresentano spaccati della
realtà sociale più diversa.
24
Jaime Quijano Caballero
rettore dell’Università Inca
Colombia
Parlo per il nostro settore: 8.000 studenti, 1.000 lavoratori, accademici e no,
e impiegati direttivi... Il debito estero dell’America latina e dei Caraibi nel conte
sto della crisi internazionale, il Nuovo ordine economico internazionale e la sua
urgenza, sono temi che preoccupano il mondo da ormai dieci anni, in modo sempre
piu concreto e acuto... Secondo noi, la concezione di « debito estero non pagabile »
ha un nuovo contenuto di classe, che affronta il nocciolo dello scontro con l’essenza
delle contraddizioni deH’imperialismo nella sua fase finanziaria transnazionale...
Nell’affrontare questo tema complesso, bisogna tener presenti — penso —
diversi livelli d ’azione politica, visto che tutti abbiamo detto che questo è un
problema politico e non soltanto e semplicemente un problema tecnico. E, nell'azio
ne politica, pensiamo si inserisca il livello dell’azione politica di massa.
Poi c’è un altro livello, da differenziare: quello dell’azione politico-scientifica; e,
infine, esiste il livello dell’azione dei governi, dei parlamenti, della dipomazia.
...Riteniamo che il tema qui in discussione, rispetto all’azione politica di massa,
esiga il mantener ferma la convinzione che il debito è impagabile, anche perché su
questo si sono trovati d ’accordo tutti gli organismi sindacali qui riuniti. Sulla « impagabilità » del debito non abbiamo dubbi; su come lo si debba cancellare si può,
invece, discutere e le strade per farlo sono rimaste aperte: annullamento, moratoria,
sospensione immediata dei pagamenti, rinvio indefinito. Ma voglio sottolineare che,
nell’essenza del problema, vi è una motivazione determinata dalla lotta di classe
tra sistemi, nucleo centrale delle contraddizioni fondamentali della lotta tra capi
talismo e socialismo.
Chiedo che si precisino le linee di lavoro concrete, per i prossimi mesi. A noi,
nelle università, interessa contribuire a preparare le basi di una motivazione delle
condizioni soggettive che — come diceva il comandante Fidel Castro — ancora
non sono emerse. Riteniamo che quanto qui si è fatto con la stampa, con le orga
nizzazioni delle donne, con le organizzazioni sindacali e in questa conferenza, con
sentano di stabilire il criterio dell’unità. Tenendo però conto che, nei passi che si
faranno e nei processi che si svolgeranno, l’unità dovrà essere costruita fondamen
talmente per coloro che sono piu colpiti dalle condizioni del debito estero impaga
bile: i nostri popoli.
È stato qui dimostrato fino alla sazietà quale situazione i popoli abbiano dovuto
subire, in questo processo. Si è dimostrato che qualsiasi situazione di sviluppo, di
attività, di soluzione di problemi globali contemporanei gira, e girerà, intorno al
debito estero impagabile.
Secondo me, l’idea di una azione dei popoli è incentrata sul fatto che questa
nuova forza, questa teoria qui enunciata, venga utilizzata nel modo più completo
per proporre azioni di base dei popoli, azioni di massa, e far si che esse — indipen
dentemente dalle azioni di governo e da quanto si possa fare a livello di negoziati —
diano tutto l’impulso possibile alla decisione qui esposta brillantemente da altri
oratori: il debito estero è impagabile perché rappresenta per i nostri popoli la sog
gezione, la dipendenza. Questa battaglia strategica per l’indipendenza dei nostri
popoli è il grande compito dei nostri tempi: ha il suo sbocco nel Nuovo ordine eco25
nomico internazionale che si sta delincando e si collega alla nuova categoria della
lotta di classe tra sistemi, tenendo conto che il nemico non è tanto forte come
sembra.
Patricio Hales
dirigente del Movimento democratico popolare
Cile
...Il debito non è un’astrazione numerica, né una frase, non è neppure difficile
da esemplificare: 360 mila milioni. Che cosa potrebbe fare, l’America latina, in
vestendo questi 360 mila milioni, piu gli interessi che su di essi si devono pagare?
... C’è chi, nonostante le difficoltà in cui viviamo, è capace di destinare risorse
prodotte dai nostri popoli al pagamento del debito in condizioni di strozzinaggio,
ma, naturalmente non trova — o non vuole trovare — le risorse necessarie per
mettere fine a una situazione che vede, nel nostro continente, 100 milioni di anal
fabeti.
C’è chi trova risorse per pagare, ma non un modo intelligente o ingegnoso
per dar lavoro a quei 50 milioni di persone che lo hanno perduto.
C’è chi ha un atteggiamento disponibile, generoso, supino e può accettare in
ginocchio tutte le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale, e, tutta
via, ci costringe a fare l’impossibile per spiegare domani ai nostri figli, alle gene
razioni future, che abbiamo accettato questa condizione, complici di una barba
rie tale che fa si che in America latina muoia un bambino al minuto.
Dalle cifre dell’indebitamento, e non parlo degli interessi, si potrebbe pen
sare che, per esempio, in un piccolo paese come il nostro si sia verificato un gros
so miglioramento del tenore di vita, per il popolo. Il debito del Cile è di 20 o
23 mila milioni di dollari, e vogliono che il popolo lo paghi. Ora, si potrebbe pen
sare che con questa somma ci sia piu possibilità di lavoro, ma risulta che, mentre
il debito si è moltiplicato per sei, i disoccupati si sono moltiplicati per nove.
Si potrebbe pensare che, grazie a questi soldi, i cileni oggi abbiano piu case,
ma la mancanza di case in Cile è raddoppiata. Si potrebbe pensare che l’Univer
sità, quasi gratuita ai tempi dei presidenti Frei e Allende, possa essere in grado
di offrire agli studenti altri vantaggi, e risulta che oggi gli universitari cileni deb
bono pagare dalle 50 alle 100 volte di piu che ai tempi di Allende, per poter stu
diare. Si potrebbe pensare che con i 20 o i 23 mila milioni di dollari ricevuti dal
governo cileno, dai banchieri cileni, ci sia maggior speranza per la gioventù, e ri
sulta che oggi — secondo i dati della Chiesa cattolica — il 30 per cento dei gio
vani dei settori popolari sono tossicodipendenti. Si potrebbe pensare che con quei
soldi l’alimentazione della gente sia migliorata, e risulta che nella periferia di San
tiago funzionano quelle che noi chiamiamo « pentole comuni ». E, mentre il de
bito è di 20-23 mila milioni di dollari, padre Dubois, alla poblacion La Victoria,
alla periferia della capitale, dispone di 18 centesimi di dollaro a persona, per dar
da mangiare a quei 600 cileni che ogni giorno ricorrono alla pentola comune.
26
Il non pagamento del debito è quindi fondamentale, ma è anche una cosa
ovvia. Esso deve essere seguito da cambiamenti profondi, tali da risolvere defi
nitivamente la dipendenza, tali da creare e produrre uno sviluppo reale.
Lucélia Santos
attrice
Brasile
Sono qui come cittadina brasiliana e anche — il che mi onora molto — in
qualità di attrice, di artista che lavora nel campo della cultura.
... Storicamente, gli artisti sono sempre stati, in modo piu o meno diretto, in
rapporto con le strutture del potere politico, ma in una posizione particolare, che
penso debba essere modificata. Gli artisti sono sempre stati considerati, in un
certo senso, come buffoni di corte: e, forse, qualche volta, questa è proprio una
caratteristica della professione. Parlo soprattutto degli artisti popolari. Succede
che, per le diverse maschere che siamo abituati a usare nella nostra professione,
la gente finisce con il non conoscere la nostra vera identità: ci considera animali
dalle sette teste, e probabilmnete lo siamo, solo che una di queste teste è la no
stra vera identità. Cosi si ingenera confusione e molte volte ci trattano come non
fossimo capaci di pensare...
Vorrei parlare in breve di ciò che penso sul debito estero brasiliano. È sem
plicissimo: il popolo brasiliano non ha nulla a che spartire con questo. Ci sono
stati vent’anni di un regime arbitrario, cui il popolo non ha mai partecipato, in cui
è stato allontanato completamente dal processo politico. I governanti ci sono stati
imposti e, mentre ammazzavano, torturavano, reprimevano (in nulla diversi dal re
sto dei governanti dell’America latina), facevano debiti in nostro nome, in nome
del popolo brasiliano che non ha mai avuto accesso alle decisioni governative.
A checosa sono serviti questi debiti? Alcuni esempi: hanno speso i soldi
per la costruzione, in Brasile, di alcune fabbriche nucleari, con manodopera total
mente straniera, che sono costate 40 mila milioni di dollari e finora non hanno
prodotto neppure un watt; hanno investito a piu non posso nell’industria bellica,
trasformando il Brasile in un forte produttore di armi per vari paesi dell’America
latina e giocando cosi contro la pace nel nostro continente. L’hanno poi fatta
finita con la nostra amata foresta amazzonica, con un progetto di autostrada
che porta dal nulla al nulla, commettendo cosi un grave attentato all’ecologia di
uno dei maggiori — se non il maggiore — polmoni del mondo, con gravi danni
per l’ecosistema e conseguenze che si vedranno in futuro. E sono soltanto alcuni
esempi.
Ora, dopo 21 anni, il nostro debito è di 105 mila milioni di dollari, senza
contare gli interessi, ed è uno dei piu alti — se non il piu alto — dell’America
latina. Loro, sono riusciti a passare indenni attraverso il momento della patata
bollente, senza bruciarsi le mani né dover consegnare gli anelli. Adesso vengono
a riscuotere, vengono a riscuotere dal popolo brasiliano che in questi 21 anni
non ha mai potuto dire la sua su nessun aspetto della vita nazionale; vengono a
riscuotere dai poveri,dai miserabili, sempre piu numerosi nel mio paese. Allora,
ciò che io ho da dire ai sociimperialisti dei militari che sono stati
al potere per
27
tutti questi anni, è che il popolo brasiliano non solo non deve loro nulla, ma è
creditore di un debito morale che loro hanno con noi. E creditore di un giusto in
dennizzo per i tanti anni di angherie, di ingiustizia sociale, di assoggettamento del
la nostra sovranità e della nostra dignità.
Bianca Chancoso
dirigente indigena
Ecuador
...Come tutti sapete, qui, in America latina, e nel mondo, noi indigeni siamo
milioni e milioni e purtroppo non li ho potuti incontrare in questa sala. Ma, anche
se questi milioni di indigeni non mi hanno delegato, come india e come rappre
sentante del popolo indigeno dell’Ecuador, voglio esprimere la posizione del po
polo indio nei confronti del debito estero.
Siamo sempre stati considerati — come si usa dire — l’ultima ruota del car
ro, e cosi noi indigeni siamo sempre stati quelli che hanno dovuto sopportare i
colpi piu duri in tutte le pressioni che sta facendo quel mostro che è il Fondo
monetario internazionale, l’imperialismo.
Quando vennero gli spagnoli, li portò il vento, vennero per sbaglio, vennero
per acqua; e non contenti di averci già preso il nostro territorio, le nostre terre,
continuano a depredarci, a invaderci e hanno sempre voluto disconoscere l’esi
stenza del nostro popolo indigeno. E molti dei nostri governi si sono prestati a
sterminare il nostro popolo indigeno, le culture indigene.
Cosi ci hanno voluto sterminare a poco a poco con i piani e i programmi co
siddetti di integrazione, di civilizzazione, che non han fatto altro che continuare
ad aprire le porte e a consegnare — sotto le pressioni del Fondo monetario inter
nazionale — i pochi pezzi di terra che ancora restavano a noi, popolo indio.
Per questo vogliamo esprimere la nostra posizione, perché davvero noi indi
geni, nelle nostre assemblee e nei nostri congressi, abbiamo rifiutato il pagamento
di questo debito estero. Perché se è vero che i nostri governi hanno firmato
con molta facilità gli accordi e li hanno propagandati come destinati « allo svilup
po, a beneficio delle comunità », è vero che quando andiamo a vedere nelle co
munità, in realtà non abbiamo ricevuto un sucre di questo debito, né dei debiti
privati né di quelli statali. Perché nelle nostre comunità non si vede un ospedale,
non si vede una buona scuola, non ci sono mezzi di comunicazione, né strade che
possano aiutare la comunità, non si vede nessun sviluppo. Per questo abbiamo
negato e rifiutato il pagamento; e diciamo: lo paghino quelli che hanno rice
vuto, e noi non abbiamo niente da pagare.
Così, anche se il rappresentante del governo del nostro paese ha detto d ’essere
d ’accordo con il pagamento del debito, noi, come popolo, che sta soffrendo nella
propria carne, diciamo: no al pagamento del debito estero. Per loro è facile dire
sì al pagamento. Facile, fare un decreto di austerità, un decreto o una legge che
dice « un pacchetto di misure economiche per l’aumento della benzina e adesso
aumentano i prodotti ». È chiaro: l’austerità significa che noi dobbiamo stringere
ogni giorno di piu la nostra cintura e smettere di mangiare. Questo è un decreto
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dissimulato di genocidio di massa che vogliono lentamente applicare al nostro
popolo.
Per questo la nostra organizzazione, il nostro popolo dicono che si faccia un
nuovo ordinamento su questa storia del debito esterno, ma in cui non ci si con
dizioni, in cui non siamo piu sottoposti alle pressioni e agli abusi del Fondo mo
netario internazionale...
Oggi, insieme al rifiuto del pagamento del debito estero, vorrei chiedere anche
un altro pronunciamento di rifiuto, visto che molti governi festeggiano i 500
anni della conquista che hanno fatto del nostro popolo; ma per il nostro popolo
non c’è stata ancora nessuna vittoria. Per questo abbiamo rifiutato anche il 19
di aprile, che è stato dichiarato il giorno dell’indio, perché abbiamo detto che il
giorno dell’indio noi non lo abbiamo ancora visto. Arriverà. E anche per questo
siamo decisi a lottare con fermezza, e anche se questo nostro governo dicesse che
pagherà, noi, come popolo indigeno, insieme a tutti i settori dei lavoratori, e con
tutti gli sfruttati, siamo disposti a mobilitarci e a esigere che non si paghi. E
anche se il governo continuerà a pronunciarsi per il si, il popolo dirà sempre no.
Alberto Pons
industriale
Panama
Devo dire chiaramente chi sono e in nome di che cosa parlo. Sono un indu
striale del settore privato panamense, cioè un capitalista. Per evitare equivoci, vo
glio premettere che non parlo in nome né in rappresentanza di nessuno dei di
versi organismi imprenditoriali di cui, nel mio paese, faccio parte. Parlo a titolo
personale e certo, come industriale, ho un’identità, un’esperienza e un punto di
vista ben definiti.
Le cifre sulla crisi e il debito estero dell’America latina sono spaventose. Sa
rebbe ingenuo pensare che il fenomeno non ci colpisca tutti e non ci costringa
tutti a riflettere: industriali compresi. Il debito, quindi, è anche una nostra pro
fonda preoccupazione, forse anche per ciò che una volta ha detto Omar Torrijos,
e cioè che « i commercianti si preoccupano sul serio quando si attenua il suono
dei registratori di cassa ». Oggi, comunque, nel nostro paese, i gruppi imprendi
toriali e le organizzazioni dei lavoratori sono d ’accordo nel rifiutare le imposta
zioni del Fondo monetario internazionale e le pretese degli aggiotatori.
È difficile trovare una soluzione al debito; dobbiamo però affrontare i cre
ditori con molto coraggio, perché gli aggiotisti sono loro e, come tali, non si con
sentiranno nessuna debolezza nella difesa dei loro interessi...
Chiunque abbia visitato il nostro paese negli anni Sessanta e ci ritorni ora,
può rendersi conto che ogni centesimo investito nel nostro debito è stato distri
buito tra tutti gli strati della società panamense. Il paese si è indebitato perché
cosi esigeva il finanziamento del suo sviluppo: e i diversi settori sociali e le
diverse aree ne hanno tratto tutti beneficio. Noi impresari ne abbiamo ricavato
una parte significativa. Migliaia di panamensi si sono inseriti nel mercato nazio
nale, persone che prima neppure esistevano nelle statistiche del consumo. Le no29
stre vendite e i nostri profitti sono aumentati sostanzialmente. Se ne vedono gli
effetti a città di Panama, dove sorgono straordinari edifici creati dalle banche e
dai centri commerciali.
Contemporaneamente, siamo debitori di una gran somma di denaro, è vero.
Ma è anche vero che, se facciamo un bilancio della situazione, o meglio un inven
tario del nostro attivo, vediamo che non soltanto non dovremmo pagare, ma
anche che dovremmo ottenere più denaro, come succede in ogni affare che, nella
sua fase di sviluppo, ha bisogno di investimenti in capitale fresco. Al contrario,
come tutti gli industriali sanno, trattenendone la crescita si condanna l’impresa a
rallentare lo sviluppo, o se ne affretta la scomparsa.
Mi chiedo, allora: che cosa vogliono gli aggiotisti? Credo che, nell’ansia di
spremerci, non abbiano analizzato adeguatamente le conseguenze: in questo caso,
si identificherebbero con la scomparsa fisica dell’America latina, che è la nostra
grande impresa comune. L’America latina sarebbe ridotta in peggior stato di
quanto non lo fossero l’Europa e il Giappone dopo la seconda guerra mondiale.
E, in effetti, oggi sta peggio che se ci trovassimo sotto il fuoco di una guerra.
Pertanto, l’unica via d ’uscita è dare al problema del servizio e del pagamento
del debito una soluzione consona ai nostri comuni interessi, tale da non frenare
né indebolire lo sviluppo delle aziende nazionali. Bisogna, quindi, procedere a
strutturare un Nuovo Ordine Economico Internazionale. È indispensabile per so
luzioni a breve, medio e lungo termine, per i nostri popoli, per il futuro dei nostri
figli e nipoti, per le generazioni future, cui oggi non stiamo offrendo soluzioni
adeguate.
Ciò che stiamo vivendo mi ricorda un fatto. Ero a pranzo con un banchiere panamente e parlavamo del debito. « Alberto », mi ha detto, « prima di tutto non
possiamo esportare ciò che non abbiamo, cioè capitali — ; in secondo luogo, credo
sarebbe immorale che se tu mi dovessi 500 balboa e ne avessi soltanto 100 — che
costituiscono appena il latte e un pezzo di pane per la tua famiglia — me li dessi
in acconto. Se lo facessi, saresti un criminale! ».
Per fermare un simile crimine, i nostri popoli devono organizzare lo sciopero
dei paesi debitori, sciopero che abbiamo il diritto di fare. Finisco, aderendo senza
riserve né timori alla proposta del dottor Fidel Castro.
Rafael Tudela
deputato e industriale
Venezuela
...Non vi è dubbio sul diritto sovrano che abbiamo di discutere il problema,
né sull’urgente necessità di cercare soluzioni nuove e diverse alla questione del
debito estero dei paesi a minor sviluppo. Il volume del debito e il livello dei tassi
di interesse fanno si che il debito stesso sia impagabile. Se la recessione economica
continua, alcuni paesi debitori potrebbero non essere più in grado di pagare e co
stretti a sospendere i pagamenti. Per questo la soluzione non può essere econo
mica, ma deve essere politica.
...Nel caso dell’America latina, nei dieci paesi più importanti il solo servizio
del debito — il pagamento degli interessi nella prima metà del 1985 — rappre30
senta circa il 36 per cento del valore totale delle esportazioni. Per l’Argentina, il
caso più grave, tocca il 50 per cento; per il Venezuela, che è il caso più fortunato,
il 19. La rinegoziazione del debito venezuelano — ormai quasi conclusa — è del
tutto giustificata: infatti, nella sua struttura attuale è del tutto, o in buona parte,
a breve scadenza ed è indispensabile, invece, trasformarlo in debito a lunga sca
denza. Inoltre, il rifinanziamento migliora sostanzialmente i tassi di interesse e
le condizioni di pagamento ed è stato ottenuto senza accordi di nessun genere
con il Fondo monetario internazionale.
Ma la posizione privilegiata del Venezuela — in virtù di un debito pari a sol
tanto 22 mesi delle sue esportazioni — non è certo quella dell’America latina
e dei Caraibi, cui va tutta la solidarietà del nostro paese.
...La situazione si complica ancor più perché il sistema bancario internazio
nale — o, per lo meno, alcuni dei suoi più importanti componenti — si trovano
mch’essi in condizioni di debolezza, di fronte alla possibilità di un ripudio del
debito. Per questo, la capacità di prestiti addizionali è ridotta e dipende dalla
volontà di pagare dei paesi debitori — questa è la nostra forza — che, a sua
volta, dipende dalla possibilità di accedere a nuovi prestiti.
Un problema molto più serio è che, per il servizio del debito, si è prodotto un
sistema di trasferimento di ricchezza dal mondo in sviluppo al mondo sviluppato,
che va contro le prospettive di sviluppo armonico mondiale. In questo processo,
l’anno scorso i paesi latinoamericani hanno rimesso al mondo in sviluppo ben
50 bilioni di dollari. Pertanto, bisogna che venga accettata l’idea che, per po
ter pagare gli interessi, i paesi debitori devono ricavare sufficienti guadagni dalle
loro esportazioni. In secondo luogo, banche creditrici e paesi debitori, devono ac
cordarsi perché il volume globale del debito esistente venga rifinanziato e possi
bilmente mantenuto allo stesso livello. Infine, ci deve essere la possibilità certa
di ottenere nuovi prestiti per finanziare la crescita e migliorare il tenore di vita
della popolazione.
Perché ciò sia possibile, sono indispensabili alcune condizioni: in primo luogo,
che i tassi di interesse internazionali siano tali da consentire la crescita delle espor
tazioni dei paesi debitori, e che da queste esportazioni si possano ricavare le di
vise necessarie per pagarli. Un’alternativa potrebbe essere un limite massimo
dei tassi che si pagano sui prestiti.
...In secondo luogo, è indispensabile che i prodotti manufatti dei paesi debi
tori abbiano accesso ai mercati dei paesi industrializzati con un trattamento pre
ferenziale. Ne deriverebbe che i paesi debitori cancellerebbero i loro debiti con
prodotti delle loro economie in sviluppo, il che — a sua volta — genererebbe oc
cupazione e migliorerebbe le condizioni di vita della gente.
Il limite massimo dei tassi di interessi variabili dovrebbe essere controllato da
un meccanismo di supporto della Banca Mondiale o di un altro organismo finan
ziario internazionale, in cui intervengano in modo determinante i paesi sviluppati.
Esso dovrebbe pagare le differenze alle banche e rifinanziarne l’ammontare ai
paesi debitori, a lungo termine e bassi interessi.
Come è chiaro, le formule che proponiamo tendono a cercare soluzioni stru
mentali per affrontare il problema immediato, ovvero a breve termine. Rimarrebbe
comunque, il problema strutturale a più lunga scadenza, che non si può risolvere
se non applicando misure di due tipi: un significativo progresso del processo di in
tegrazione latinoamericano per presentare un fronte comune, e creare le condizio
ni propizie ad accordi con il mondo industrializzato che gettino le basi di termini
di intercambio giusti e mettano fine al trasferimento di ricchezze verso i paesi
sviluppati. Senza un intercambio equo tra uguali, le soluzioni di transizione e a
oreve scadenza — o addirittura il ripudio del debito estero — non ci consentireb31
bero di risolvere i nostri problemi, né di avviare uno sviluppo economico e so
ciale con una equa distribuzione del reddito. Pertanto, il vero sbocco sta nell’in
tegrazione latinoamericana per costruire, come ha detto Bolivar, una sola società:
« L’America, cosi unita, potrà essere la regina delle nazioni e la madre delle re
pubbliche ».
Gregorio Iriate
sacerdote
Bolivia
Avevo pronto il mio sermoncino, ma mi limiterò a leggere la dichiarazione con
giunta dei 50 rappresentanti della Bolivia. Penso che questa riunione abbia già
ottenuto un effetto unitario, perché ha fatto il piccolo miracolo di unirci tutti in
un documento generale, pur essendo noi rappresentanti di diversi partiti e diverse
tendenze.
Ecco la dichiarazione:
1. — La maggior parte del debito estero della Bolivia c stata contratta da dit
tature militari, violando i dettami costituzionali e a scapito delle condizioni di
vita della grande maggioranza del popolo.
2. — Le risorse provenienti dal debito sono state, in altissima percentuale,
illegittimamente portate fuori dal paese, trasformando cosi la nostra patria in uno
dei maggiori esportatori di capitale, in rapporto al suo prodotto interno lordo.
3. — Il popolo organizzato continuerà a lottare perché il servizio del debito
non peggiori ancor più le condizioni di vita, che si traducono in altissimi tassi
di mortalità infantile, denutrizione dei bambni e bassa speranza di vita.
4. — Per le sue enormi ripercussioni, il problema del debito estero è, oltre che
economico-finanziario, un gravissimo problema politico, sociale e internazionale
che pregiudica seriamente le nostre istituzioni democratiche.
5. — Le azioni raccomandate, suggerite o imposte dai diversi organismi in
ternazionali impoveriscono ancor più il popolo boliviano e determinano la reces
sione e l’iperinflazione nel paese.
6. — È indilazionabile promuovere un Nuovo Ordine Economico Internazio
nale che garantisca, con equità e giustizia, la stabilità, e consenta alla regione di
trarre profitto dal suo potenziale di sviluppo autonomo e qualitativamente diffe
renziato.
7. — Convinti che sia una necessità nazionale ratificare e mantenere la deci
sione del popolo boliviano di sospendere il pagamento del debito alla banca pri
vata internazionale, ci impegnamo a difendere quella decisione e a partecipare al
grande movimento che, in questo senso, sta nascendo in America latina e nei
Caraibi.
8. — Nella attuale situazione di sviluppo e nel contesto dei rapporti econo
mici internazionali, il debito estero della Bolivia è assolutamente impagabile.
Firmano questa dichiarazione delegati delle forze politiche, parlamentari, sin
dacali, delle organizzazioni religiose, degli impresari, dei militari, dei professio
nisti, degli universitari e dei giornalisti.
32
Elio Garcia
Generale di brigata, presidente dell’Istituto
interamericano di Diritto militare e della guerra
Venezuela
... Forse per la mia formazione militare, giuridica e giudiziaria, voglio fare da
avvocato del diavolo e, pertanto, qualche puntualizzazione. Abbiamo sentito qui
molte dichiarazioni sul debito estero, a volte lamentose, anche da parte di persone
che esercitano o hanno esercitato funzioni di potere. E mi domando: chi ci ha
prestato i quattrini ci ha forse puntato un’arma alla testa per farceli accettare?
Oltre agli elementi strutturali e alle condizioni dell’intercambio, non può aver in
ciso su questa situazione l’irresponsabilità, l’antipatriottismo, la faciloneria e l’in
contenibile desiderio di lucro dei traditori di turno, militari o civili, che, dalle
loro posizioni di governo, hanno macchinato e ingannato per ottenere denaro
straniero a qualsiasi condizione pur di soddisfare i loro appetiti?
Credo che di risposte ed esempi ce ne siano in abbondanza, soprattutto quello
di un paese che si trova al limite sud del Mar dei Caraibi. Li, paradossalmente,
mentre si riempivano le casse del tesoro con una immensa quantità di denaro ri
cavato dalla vendita di materie prime, e mentre era chiaro che il complesso eco
nomico non poteva digerire questa massa monetaria perché si sarebbe scatenata
una gigantesca spirale inflazionista, si stavano negoziando e ottenendo prestiti dai
centri finanziari internazionali. È la triste verità e non possiamo nasconderla. E
mi chiedo anche in nome di quale diritto trascendente e universale i traditori di
turno, all’insaputa del popolo, abbiamo caricato sulle nostre spalle e su quelle
dei figli dei nostri figli questo incredibile e insostenibile peso del debito. Credo
che dovranno risponderne, almeno davanti alla storia.
Ma ora non è il momento di piangere, di lamentarsi, o di lanciare accuse. È
il momento di agire, di riscattare il decoro e la dignità latinoamericana e carai
bica. Per questo, scavalcando ostacoli e distruggendo miti, sono presente all’in
contro che il comandante in capo e presidente della sorella repubblica di Cuba ha
voluto convocare...
Di fronte a questa tragedia, a questa crisi, si comincia già a ribellare lo spirito
unitario dei nostri paesi e l’orgoglio indomabile dell’America latina e dei Caraibi.
Già si comincia a sentire la forte voce dei popoli che, nonostante la mediocrità dei
leader e dei governanti, cominciano a prendere coscienza e a unire volontà e azioni
per affrontare le forze che li soggiogano e li condannano alla miseria e all’infe
licità.
...È necessario stabilire piani e delineare strategie. È necessario far prendere
coscienza ai nostri popoli fino al livello piu basso. E, in questa situazione, non
possiamo dimenticare che nei nostri paesi nessun cambiamento sociale, nessuna
azione nazionalista può consolidarsi senza la partecipazione attiva e militante della
Chiesa e delle Forze armate. Perché esse sono il popolo in armi, perché dal popolo
provengono e al popolo devono render conto e consacrare tutti gli sforzi. La mis
sione di libertà richiede la nostra partecipazione attiva e decisiva per aiutare il
cambiamento sociale. Le Forze armate sono il sostegno e la garanzia delle conqui
ste democratiche compiute dal popolo con lotte e sacrifici; ma sono anche fattore
essenziale di trasformazione quando le necessità e le aspirazioni del popolo lo ri
chiedono.
33
Gli inviati di Montezuma descrivono le armi dei conquistadores
34
Nicaragua:
per la pace e il non intervento
La Conferenza dei partiti politici dell’America latina e dei Caraibi sul non
intervento e la pace nel Centroamerica, è stata il tentativo di riunire, per la
prima volta, i rappresentanti di un ampio arco di forze sul tema scottante
della sicurezza: del Nicaragua, in primo luogo, assediato dalla guerra contro
rivoluzionaria pilotata dall’Amministrazione Reagan, ma anche degli altri paesi
del continente.
Invitati, quasi tutti i rappresentanti dei partiti al governo nel Centroame
rica, e tra essi il Partito rivoluzionario democratico di Panama (Prd); il Partito
di liberazione nazionale del Costa Rica; il Partito Democratico cristiano del
Guatemala. Invitati i movimenti di liberazione che hanno ottenuto un ricono
scimento formale nei loro paesi e che hanno intrapreso, con i loro governi,
un « dialogo » per la pacificazione: come il Fmln del Salvador e le Fare della
Colombia. Invitati, anche, osservatori stranieri, come l’Internazionale socialista,
in Nicaragua ai primi di febbraio con una missione diretta dal venezuelano Carlos
Pérez, l’Internazionale liberale e l’Internazionale democratica cristiana.
Un successo di partecipazione che si riassume nei dati: 170 delegati in
rappresentanza di 115 partiti e organizzazioni politiche latinoamericane, sette dei
quali al governo nel loro paese. 42 segretari generali. 10 presidenti di partito.
41 membri di direzioni nazionali. 17 addetti ai rapporti internazionali. E, so
prattutto, la possibilità di discutere della crisi del Centroamerica, nonostante
le differenze di linea politica, la diversità delle situazioni in cui ciascun partito,
nel suo paese, si trova.
Ha inaugurato la Conferenza, alle sei del pomeriggio del 10 febbraio, il
portoricano Ruben Berrios, seguito dal rappresentante di Haiti, Gerarde Pierre
Charles. Poi, via via, nei due giorni dell’incontro, si sono succeduti sul podio
35
tutti gli altri: da Luis Negreiros, segretario generale dell’Apra, inviato spe
ciale del presidente peruviano Alan Garcia, ad Adelso Gonzales Urdonete, se
gretario generale del Movimento elettorale del popolo venezuelano, a Pablo Gomez,
del Partito socialista unificato del Messico, al vice presidente della Camera dei
deputati argentina, Antonio Caffiero, rappresentante del Partito giustizialista rin
novatore, capo di una delegazione foltissima cui partecipavano membri di tutti i
partiti argentini.
La conferenza, incentrata ovviamente sulle difficoltà della rivoluzione nica
raguense, perno oggi della pace nel Centroamerica, ha ribadito la necessità di
un appoggio totale all’opera del gruppo di Contadora, la cui azione viene li
mitata dalla politica della Casa Bianca. E ha concluso con due suggerimenti:
creare meccanismi per combattere la manipolazione delle informazioni regolar
mente effettuata dalle « multinazionali della notizia » e creare un comitato di
lotta per la pace e il non intervento nel Centroamerica, formato da intel
lettuali, sacerdoti, artisti, scienziati « che rappresentino degnamente le aspirazioni
delle maggioranze latinoamericane », per dar vita ad attività culturali, di infor
mazione e di solidarietà con il Centroamerica.
★
*
*
Discorso d'apertura di Daniel Ortega
L’esito di questo incontro dei rappresentanti di partiti e movimenti politici
dell’America latina e del Caribe ha una speciale importanza dato il momento
che vive questa parte del mondo: stiamo respirando aria di libertà, aria di
speranza, ma ci sono popoli ancora oppressi, ancora sottomessi. Stiamo avan
zando, è vero, però siamo di fronte a pressioni, ad aggressioni, alla politica
ricattatoria del governo degli Stati Uniti.
L’America latina di oggi, è evidente, non è quella degli anni ’60. Allora
fu possibile isolare Cuba, proliferavano le dittature militari, i Somoza, i Duvalier, gli Usa tenevano sottoposti i governi latinoamericani e del Caribe alla
loro politica interventista, di forza, di dominio. Per questo fu abbastanza facile
isolare l’eroica Cuba, trascinare nel blocco di essa i governi latinoamericani;
ma i loro popoli non hanno mai accettato questo blocco e Cuba ha avuto
da sempre la loro solidarietà.
La situazione è cambiata
Questi di oggi sono altri tempi. La situazione è cambiata ed è stata la
forza, la volontà e la decisione dei popoli che ha cambiato la situazione. La
lotta dei militanti delle forze politiche, rivoluzionarie, democratiche, progressi
ste; la lotta dei sindacalisti, degli operai, dei contadini; la lotta degli studenti,
delle donne, dei combattenti armati, rivoluzionari; tutto questo insieme di forze,
questa somma di volontà ha aperto uno spazio democratico in America latina.
Anche in Nicaragua ci siamo creati questo spazio grazie alla decisione e
la volontà del popolo nicaraguense. Qui si è percorso un altro cammino, l’unico
che ci lasciava la dittatura somozista e la dominazione imperialista, e il popolo
nicaraguense fece uso del diritto all’insurrezione, dello stesso diritto di cui
hanno fatto uso i popoli dell’America latina per conquistare la propria indipendenza, per liberarsi dal giogo coloniale. Lo stesso diritto di cui fecero uso
36
anche i nordamericani per liberarsi dal giogo inglese, questo diritto che è sempre
presente come una opzione per i popoli a cui non si lascia altra via se non
ricorrere al diritto all’insurrezione. Per questa via si è liberato il popolo nica
raguense e da allora siamo venuti costruendo qui, in Nicaragua, una democrazia
vera, autentica, non la democrazia che vorrebbero i governanti nordamericani,
ma la democrazia che vuole il nostro popolo, una democrazia che affonda le
radici nella nostra storia, una democrazia che si richiama alla combattività e
alla storia dell’America latina; una democrazia che si afferma nei principi del
non-allineamento, del pluralismo politico e dell’economia mista; una democrazia
che ha la sua impronta: una democrazia pluralista, ad economia mista, ma per
favorire la grande maggioranza, al servizio degli operai, dei contadini e non per
il loro sfruttamento; una democrazia che dà la terra -ai contadini; una de
mocrazia perché il popolo impari a leggere e a scrivere, perché abbia assistenza
sanitaria, sviluppo culturale; una democrazia perché tutti possano accedere ai
mezzi di comunicazione. È questa la democrazia che stiamo costruendo.
E c’è chi vuol suggerirci, chi vuol consigliare ai nicaraguensi quale de
mocrazia si deve stabilire nel nostro paese. C’è chi lo fa attraverso messaggi
amichevoli cercando di subordinare la cooperazione economica al tipo di demo
crazia che essi vogliono per il Nicaragua e dicono che se in Nicaragua non
ci sarà una democrazia con certe caratteristiche, allora non le daranno aiuti.
Abbiamo difeso e continuiamo a difendere questa democrazia, anche quando
non abbiamo la collaborazione economica di quei governi che non sono d ’accordo
con questa democrazia.
Ce ne sono altri ben noti, come i governanti nordamericani che, ripetendo
gli errori passati, vogliono imporre di nuovo il loro modello di democrazia al
Nicaragua e per raggiungere questo obiettivo muovono guerra al Nicaragua,
e al Congresso discutono tranquillamente sul modo migliore di modificare il
tipo di democrazia che abbiamo adottato. C’è chi dice che bisogna farlo con
la forza, utilizzando, s’intende, le stesse truppe nordamericane. Altri dicono al
Congresso che questa forma non è la più conveniente, che bisogna cercare
altre forme di pressione, ma c’è una coincidenza nel c'òmportamento imperialista
degli Stati Uniti: essi vogliono decidere sul futuro della Rivoluzione popolare
sandinista.
Le tesi di Reagan
Si sono imposte in questi anni le tesi dei consiglieri del presidente Reagan,
quelle che avallano la politica terrorista contro il Nicaragua, che sono d ’accordo
con l’uso della forza; queste le tesi che si sono imposte e hanno reso complice
tutto il Congresso in questa azione terrorista contro il Nicaragua.
Quando a metà dell’anno scorso il Congresso degli Stati Uniti ha appro
vato i 27 milioni di dollari per le forze mercenarie, non era tanto significativa
la quantità quanto la decisione politica: il fatto che Reagan voleva rendere com
plice della sua politica terrorista tutto il Congresso. Venne poi l’escalation fino
alla fornitura alle forze mercenarie di missili terra-aria. Per la prima volta nella
storia in tutte le Americhe forze irregolari hanno in dotazione questo tipo di
armamenti. Forze irregolari sono esistite in Canada, negli stessi Stati Uniti, in
tutti i paesi latinoamericani, ma i missili terra-aria che gli Usa hanno dato ai
mercenari di stanza nel territorio honduregno è un armamento che non è stato
dato nemmeno all’esercito dell'Honduras, mentre è stato dato a questo « sesto
esercito » organizzato in Centroamerica dal governo nordamericano.
37
E allora il discorso va ben al di là di parole e azioni. Nell’escalation in
terventista contro il Nicaragua si richiedono al Congresso aiuti militari non
mascherati da « aiuti umanitari », ma per quello che realmente sono: più armi
alle forze mercenarie.
Gli Usa praticano il terrorismo internazionale
Gli Stati Uniti, che si ereggono a campioni nella lotta contra il terrorismo in
ternazionale, lo praticano essi stessi, lo proteggono in varie regioni della terra
e lo sono venuti promuovendo qui, giorno dopo giorno in Nicaragua, assassi
nando il popolo nicaraguense. Sono già più di 12 mila i morti provocati dall’azione
terrorista nordamericana contro il popolo del Nicaragua. I paladini della libertà
del presidente Reagan assassinano bambini, donne, contadini, distruggono coope
rative, centri sanitari, scuole. Non è forse questo terrorismo?
Rifiutando la Corte Internazionale di Giustizia, sfuggendo come un delin
quente la giustizia internazionale, il governo degli Usa cerca di promuovere
le condizioni per poter invadere il nostro paese. E il Nicaragua, difendendosi,
difendendo la sua Rivoluzione, la democrazia che sta costruendo, difendendo
la pace, difendendola con le armi in mano al popolo — e qui sono i contadini,
gli operai, gli studenti che combattono questa battaglia disuguale — difendono
la sua sovranità, l’autodeterminazione del paese.
Difendiamo la pace
Il Nicaragua difende la pace negli organismi internazionali avanzando pro
poste concrete di pace. Sono molte e note le iniziative del Nicaragua in favore
della pace ed è anche conosciuta la posizione degli Usa di rifiutare ogni pro
posta nicaraguense. È noto anche l’appoggio che il Nicaragua ha dato a questi
sforzi latinoamericani che conosciamo come il Gruppo di Contadora e il Gruppo
di Lima. Abbiamo sostenuto questo sforzo nell’arco di tre anni, ma l’azione
aggressiva degli Stati Uniti è stata di un costante rifiuto a questo impegno
latinoamericano. Mentre Contadora si preoccupava di promuovere la discussione
e il dialogo fra i paesi del Centroamerica su tutti i problemi della regione,
gli Stati Uniti hanno risposto con azioni aggressive, con manovre militari, col
finanziamento alle forze mercenarie.
In gennaio abbiamo conosciuto il Documento di Caraballeda, immediatamente
appoggiato dai governi centroamericani. E quale è stata la reazione degli Stati
Uniti? Moltiplicare le manovre nel Congresso, verso l’opinione pubblica ame
ricana, al fine di ottenere il finanziamento delle forniture militari alle forze
mercenarie. Questa è la risposta degli Usa all’America latina: ad un messaggio
di pace risponde con messaggio di morte.
La riunione con Shultz
Oggi si sono riuniti i rappresentanti dei governi latinoamericani che fanno
parte del Gruppo di Contadora e del Gruppo di Lima con il Segretario di
Stato Shultz. Li sta riunita l’America latina che chiede agli Stati Uniti che
cessino i finanziamenti alle forze mercenarie, l’aggressione al Nicaragua, che
venga iniziato un dialogo con essa; ma che cessi anche la pressione, il ricatto,
la minaccia del governo Usa sui paesi latinoamericani.
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Gli Stati Uniti cercheranno di convertire questo sforzo del Gruppo di Contadora, del Gruppo di Lima in uno strumento complementare della loro politica
di forza contro il Nicaragua. Noi latinoamericani siamo obbligati a lottare perché
il gruppo di Contadora e di Lima sia una autentica espressione latinoamericana,
che difenda con dignità, fermezza e decisione, gli interessi latinoamericani.
Una volta di piu è in gioco l’unità latinoamericana, piu necessaria adesso
che mai, questa unità che si salda attorno alla lotta cui diede impulso Bolivar,
che si è rafforzata intorno alla lotta di Omar Torrijos in difesa della sovranità
di Panama. La stessa unità richiesta dal popolo nicaraguense quando insorse
contro la dittatura di Somoza; dal popolo argentino in difesa della sua so
vranità sulle Malvine, l’unità che continua a richiedere la Rivoluzione sandinista, aggredita dal governo degli Stati Uniti; la stessa unità che richiedono
i popoli dell’America latina vittime della crisi economica, di relazioni com
merciali internazionali ingiuste, vittime del debito estero.
Rafforzare in questi momenti l’unità dell’America latina intorno e in difesa
della Rivoluzione nicaraguense vuol dire rafforzare la capacità di lotta dei popoli
latinoamericani, rafforzare ancor piu la capacità di negoziare, perché alla fine
dei conti è un problema di tutti, è un problema che non si risolve cedendo
al ricatto, alle pressioni, alle minacce. Questo aggraverebbe la crisi, cancellerebbe
dalla mappa politica latinoamericana l’avanzata democratica.
fermezza di fronte agli Usa
Questa lotta deve essere portata avanti con decisione, con fermezza, di
fronte agli Stati Uniti. Abbiamo due grandi realtà: l’America latina e il Caribe
e gli Stati Uniti; l’America latina chiede un nuovo tipo di rapporto con gli
Stati Uniti mentre gli Stati Uniti sono arroccati su una politica neocoloniale.
È questa la posta in gioco in questo momento, il futuro dell’America latina,
e questo futuro alla fine non si può decidere se alcuni governi cedono alle
pressioni e al ricatto nordamericano. Questo futuro lo devono decidere i popoli.
Questo stesso nostro incontro è una dimostrazione della decisione e della
dignità latinoamericana, perché venire a Managua oggi significa dar fastidio
al signor Reagan, provocare malessere e protesta degli ambasciatori statunitensi
in America latina e nel Caribe. Già staranno inviando note di protesta, ai
governi dei paesi che sono qui rappresentati. Agli Stati Uniti, contrari a questo
incontro, interessa in primo luogo un Nicaragua isolato in America latina per
poterlo isolare nel mondo e agire impunemente contro il nostro paese.
Solidarietà militante
Questo incontro dimostra che ce dignità e decisione in America latina.
La rappresentatività è ampia, è numerosa, è pluralista. Attraverso voi parle
ranno in questi giorni milioni di latinoamericani e questo fa molto piacere al
popolo nicaraguense. Il nostro popolo saluta la presenza di tutti voi. Sappiamo
che i vostri popoli sono orgogliosi che voi siate qui a manifestare una soli
darietà militante e attiva col popolo del Nicaragua. Siamo sicuri che da questa
nostra riunione usciranno rafforzate le decisioni di lotta dei popoli latinoamericani.
Questo incontro servirà a promuovere piu azioni in difesa dell’autodeter
minazione, dell’indipendenza, della sovranità, della pace. Esso rafforzerà anche
nei governi la posizione in favore degli interessi latinoamericani. Darà maggior
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forza, maggior valore ai governi latinoamericani perché possano affrontare senza
oscillazioni le pressioni statunitensi. Esso dà forza morale anche al popolo nica
raguense che sta lottando giorno dopo giorno, versando il suo sangue contro
l’aggressore imperialista, è salutato dai lavoratori del Nicaragua, dai contadini,
dagli operai; dalle madri che soffrono a causa della politica del terrore.
Questo incontro dà al popolo nicaraguense piu forza nella lotta per affron
tare, resistere e vincere anche l’intervento yanquee, se esso dovesse verificarsi.
A nome della Direzione nazionale del Fronte Sandinista e a nome del popolo
del Nicaragua vi diciamo: grazie!
L'altra voce della Chiesa
Come cittadini nicaraguensi, come cristiani e rivoluzionari, ci spiace profon
damente veder limitate le libertà pubbliche del nostro popolo in stato d ’emer
genza nazionale. E poiché amiamo il nostro popolo e la sua rivoluzione, come
cristiani e nicaraguensi vogliamo riflettere a partire dalla nostra fede e far sentire
la nostra voce in questo grave momento, per far giungere la nostra testimo
nianza a quanti vogliano ascoltarci, nel Nicaragua e fuori.
Pensiamo, anzitutto, che si debbano prendere in considerazione le dimensioni
reali dello stato d ’emergenza. Bisogna partire da dati obiettivi e certi. In caso
contrario, ogni azione e ogni opinione successive sarebbero viziate all’origine.
E diciamo che bisogna partire dalle dimensioni reali dello stato d ’emergenza
perché sappiamo che, in molti paesi del mondo, l’opinione pubblica è stata
manipolata da una informazione sbagliata e, a volte, totalmente falsa: ci sono
stati rapporti di agenzie di stampa nordamericane c britanniche che hanno
parlato della sospensione ufficiale di diritti e libertà di cui lo stesso decreto
di stato d ’emergenza menzionava, invece ed espressamente, il mantenimento. Si
è parlato di stato d ’assedio in Nicaragua, di rottura delle comunicazioni interne
tra le città, di impossibilità di uscire dal paese, di annullamento del diritto d ’asilo...
Tutto ciò è completamente falso, lo è stato fin dall’inizio.
Bisogna tener conto delle dimensioni reali anche in rapporto a situazioni
simili, in primo luogo nello stesso Nicaragua: non è la prima volta che, nel
paese, viene decretato lo stato d ’emergenza. In precedenza, il governo rivolu
zionario lo ha decretato due volte e poi due volte abolito. Non si tratta, quindi,
di una cosa nuova.
E bisogna fare il confronto anche con ciò che succede fuori dal Nicaragua.
Per parlare soltanto dell’America latina, il Nicaragua non è l’unico paese che si
vede costretto a limitare le libertà della sua gente, anche se è, invece, l’unico
paese che possa motivarlo con una situazione di guerra imposta, che ha pro
dotto 12 mila morti in quattro anni, e con un blocco economico dalle con
seguenze fatali per la stabilità interna. In America latina, il coprifuoco, o lo
stato d ’assedio o d ’emergenza, vigono in cinque paesi. E in altri, numerosi, il
problema delle libertà pubbliche provoca sommosse, disordini, incarceramenti e
morti ogni giorno. Nulla di ciò accade in Nicaragua per i diritti civili. Amnesty
International testimonia che nel nostro paese esiste un rispetto fondamentale
per i diritti umani, mentre essi vengono sistematicamente violati in nazioni
vicine. Anche « America’s Watch » ha riconosciuto questo fondamentale rispetto
per i diritti umani in Nicaragua.
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Ci rendiamo conio del significato simbolico che il caso del Nicaragua ha
assunto nel mondo, ma riteniamo si commetta una esagerazione quando si vuol
cogliere il moscherino nel caso del Nicaragua e si inghiotte il cammello nel caso
di altri paesi. Esagerazione che implica una ingiustizia profonda, di cui bisogna
analizzare le ragioni.
Non potranno capire né giudicare giustamente questo stato d ’emergenza,
coloro che non tengono in considerazione la peculiarità della situazione ni
caraguense, coloro che la giudicano soltanto partendo da princìpi etici o politici
astratti, senza aver chiari nella coscienza fattori come i seguenti: una rivolu
zione popolare che ha appena compiuto i sei anni; una rivoluzione popolare
che ha avuto un immenso costo umano (50 mila morti) ed economico; una
rivoluzione generosa che non si disfa dei propri nemici per garantirsi il futuro,
ma elimina — invece — la pena di morte e decreta amnistie in diverse
occasioni; una guerra imposta e di aggressione alle sue due frontiere, finanziata,
rifornita, diretta da consiglieri, armata e sostenuta pubblicamente dagli Stati Uniti,
che ha causato già oltre 12 mila morti e continua, drammaticamente reale,
ogni giorno, al punto da perdere validità di notizia, con sequestri, massacri,
violazioni, soprusi contro la popolazione civile, per non dire della guerra militare
vera e propria. Un blocco economico imposto dagli Usa che si somma alla grave
situazione di crisi economica mondiale e di ripresa, dopo una guerra di liberazione
nazionale... Ignorare tutto ciò, o non metterlo in primo piano, e giudicare
così una situazione di emergenza secondo i
princìpi teorici « universalmente
validi », è un’offesa per tutti coloro che ogni giorno patiscono la morte e l’aggres
sione contro una rivoluzione che essi vorrebbero veder difesa.
Questo popolo ha affrontato con coraggio e dignità la maggiore aggressione
della sua storia; è riuscito, con lo sforzo dei giovani e l’aiuto di tutti, a de
tenere l’aggressione militare o a infliggere sconfitte militari alla controrivo
luzione. Ciò sembra aver portato l’amministrazione nordamericana a capire che
la controrivoluzione armata non ha la capacità — nonostante l’abbondante ap
poggio — di prendere e di occupare un settore, per quanto piccolo, del territorio
nazionale.
Pertanto, si tenta di innescare un nuovo piano di aggressione sulla « frontiera
politica » all’interno del paese, cercando di scatenare ondate di terrorismo che
seminino il caos e favoriscano la possibilità di provocare od organizzare uno
scontento popolare, base di un fronte interno che serva d ’appoggio alla controrivoluzione esterna.
Negli ultimi mesi, tanto il governo quanto la vigilanza popolare hanno
scoperto indizi chiari e preoccupanti dell’esistenza di organizzazioni di gruppi
controrivoluzionari armati, che vengono spinti a dare il via a una nuova offen
siva terrorista.
D ’altro canto, leader religiosi delle diverse chiese hanno sempre manifestato,
nelle loro prediche, atteggiamenti ostili alla legge del Servizio militare pa
triottico, hanno invitato al dialogo con la controrivoluzione con il pretesto
della riconciliazione cristiana, e hanno fatto dei tradizionali spazi di religiosità .
popolare e di altri simboli religiosi un’espressone di confronto politico. In
più di una occasione hanno esortato alla disobbedienza nei confronti delle leggi
dello stato, dando segni di disconoscere l’autorità legittimamente costituita e de
rivante da una libera elezione. In particolare, questi religiosi mancano sistema
ticamente di rispetto alla legge del servizio militare, mentre il Concilio Va
ticano II riconosce espressamente la funzione positiva che gli eserciti possono
svolgere quando servono al bene comune: « Quelli che, al servizio della patria,
fanno parte dell’esercito, devono considerarsi strumenti della sicurezza e libertà
41
dei popoli, perché, svolgendo bene il loro ruolo, contribuiscono realmente a
stabilizzare la pace » (GS, 79).
D ’altra parte, vogliamo dire che, a un mese dallo stato d ’emergenza, la
vita del paese non è, in pratica, cambiata. Si può viaggiare all’interno e all’esterno;
il popolo può riunirsi come finora ha fatto. Non si vede alcun aumento della
presenza militare, tranne quella finora abituale nelle zone di guerra e per motivi
di difesa. I partiti politici possono continuare le loro riunioni e discussioni
in luoghi chiusi e le manifestazioni religiose e pubbliche possono aver luogo
con il permesso delle autorità locali. Nel paese, si continuano a tenere incontri
e congressi nazionali e internazionali.
Partendo da ciò e chiedendo fiducia a quanti ci vogliano ascoltare — come
hanno già fatto in altre occasioni — vogliamo, come cristiani, farvi partecipi delle
seguenti riflessioni:
— Riteniamo che il decreto di stato d ’emergenza, con la conseguente limita
zione delle libertà pubbliche — sia una misura governativa che si inserisce nel
l’ambito della prudenza politica. È una misura strategico-tattica, di cui non si
può giudicare la giustezza o meno partendo da criteri teologici o religiosi, bensì
partendo da un’analisi obiettiva della situazione politica, militare e civile. La
decisione tecnica adottata può essere condivisa o no da altri osservatori, ma
bisogna rispettarne la complessità e il diritto che ciascuno stato ha di governarsi
da solo e di decidere autonomamente e senza ingerenze nei suoi affari interni.
Noi non vogliamo scendere sul terreno tecnico della prudenza politica, ma
vogliamo soprattutto parlare come cristiani, anche se cerchiamo di chiarire la
situazione attuale. E su questo piano vogliamo affermare chiaramente davanti
al mondo e ai nostri governanti il principio cristiano delle libertà pubbliche
consacrato dal Concilio Vaticano II: « Si deve osservare la regola della libertà
completa nella società, secondo la quale bisogna riconoscere all’uomo il mas
simo della libertà e non la si deve restringere se non quando necessario e
nella misura in cui lo sia » (DH7). E il Concilio dice anche: « Lì, dove per
ragioni di bene comune si restringa temporaneamente l’esercizio dei diritti, si
ristabilisca la libertà quanto prima, una volta che le circostanza siano cambiate ».
(GS75).
L’impegno preso dal governo rivoluzionario di abolire lo stato d ’emergenza
quando cesserà l ’aggressione ci pare, per ciò, adeguato.
Solo chi, come noi, sente nella propria carne il dolore e la sofferenza del
nostro popolo, solo chi, come noi, tocca con mano gli enormi sforzi compiuti
per tener alta la difesa della dignità e della sovranità nazionale, capisce che
questa misura — anche nel caso fosse obiettivamente sbagliata — è stata presa
non per reprimere il popolo, ma per proteggerne gli interessi davanti alle mi
nacce che pesano sulla rivoluzione. Respingiamo l’interpretazione che questa
misura sia un passo in avanti per imporre nel nostro paese una dittatura
marxista leninista. Con la nostra esperienza, testimoniamo che il processo de
mocratico ratificato con le elezioni dello scorso anno continua, nonostante le
difficoltà create proprio per ostacolarlo e poter poi dire che non c’è mai stata
la volontà di metterlo in pratica. L’Assemblea nazionale sta ora elaborando una
nuova costituzione; si mantiene il progetto di economia mista e di pluralismo
politico. Le misure preventive imposte con lo stato d ’emergenza cercano di
difendere il progetto dei poveri, minacciato dalla politica degli Stati Uniti, e si
stanno facendo tutti gli sforzi per non adottare misure restrittive al di fuori
di quelle indispensabili e inevitabili per garantire questa difesa.
La nostra presenza di cristiani in questo processo non è una tattica della
rivoluzione, ma una caratteristica nuova e originale. Così noi sentiamo e così si
42
sono espressi i dirigenti della rivoluzione. Questo è un fatto accettato, assunto
e rispettato. Ciò nonostante, il problema religioso è molto complesso, nel nostro
paese. Ci sono coloro che, da posti di responsabilità religiosa, stanno cercando
di mettere il popolo contro il suo stesso processo rivoluzionario, utilizzando i
simboli piu tradizionali della religiosità popolare e approfittando della coscienza
religiosa piu ingenua e meno evangelizzata di alcuni settori della popolazione.
Questo atteggiamento coincide con la strategia dell’amministrazione Reagan
e con quella delle vecchie classi privilegiate, che non hanno mai servito il vero
Dio, bensì gli idoli dello sfruttamento e della morte. Lo stato d ’emergenza
colpisce soltanto le manifestazioni religiose che nascondono azioni politiche de
stabilizzatrici o che tendono a promuovere la disobbedienza a leggi come quella
sul servizio militare, in un momento in cui la patria ha bisogno d ’essere
onestamente difesa. Voler capitalizzare questa situazione per presentare lo stato
d’emergenza come una maschera dietro cui si nasconde una presunta persecuzione
religiosa, ci sembra assolutamente inaccettabile.
Diciamo tutto ciò come Chiesa di Cristo quale siamo, per far sentire la
nostra voce, che non è l’unica nella Chiesa del Nicaragua, ma che è, davvero e
con molto amore, una voce cristiana: l ’altra voce della Chiesa del Nicaragua.
dicembre 1985
Seguono le firme di 115 sacerdoti, frati e suore.
43
La Malinche
44
Nicole Levré
Haiti: fine di una dinastia
È ancora troppo presto per dire se la caduta di Baby Doc e la sua fuga
il 7 febbraio segneranno l’inizio di nuovi e piu profondi rivolgimenti ad Haiti.
Un altro dittatore grottesco e anacronistico è stato cacciato dall’eroismo di un
popolo, sceso nelle strade a gridare la sua protesta dopo anni di silenzio. È
stata questa protesta, e l’isolamento politico in cui ormai si trovava Duvalier
figlio, a convincere gli americani a preparare l’uscita di scena del fedele alleato,
prima che Haiti diventasse un secondo Nicaragua. Del resto da decenni gli av
vicendamenti al vertice di Port-au-Prince avvengono solo dietro pressione, as
senso e suggerimento di Washington. Ripercorrere le tappe della recente storia
del paese può quindi servire a meglio comprendere gli avvenimenti odierni.
Fin dai primi anni del secolo gli Stati Uniti si sostituirono alla Francia
nello sfruttamento dell’ex colonia, giungendo ad occuparla militarmente dal
1915 al 1934. Il pretesto per l’intervento venne fornito dai continui disordini
e dalle lotte intestine che travagliavano la vita della giovane repubblica. La
rivoluzione anticoloniale del 1789-1804, abolendo la schiavitù, aveva modificato
profondamente la struttura agraria del paese. Le grandi piantagioni di canna
da zucchero, sfruttate fino ad allora con capitali francesi, erano passate sotto
il controllo di una classe dominante nera e mulatta priva di capitali sufficienti
e impossibilitata ad introdurre nelle campagne le tecnologie necessarie per pas
sare da un’economia schiavista ad uno sfruttamento moderno. Si era intanto
sviluppata, a fianco dello zucchero, la produzione di caffè destinato al mercato
internazionale. Questo aveva segnato l’emergere di una oligarchia cafetalera formata
da mulatti figli degli ex coloni e da neri che avevano partecipato alla lotta
indipendentista.
La storia haitiana di questo secolo è segnata dal conflitto fra il settore
45
mulatto, legato alla commercializzazione dei prodotti agricoli e maggiormente
urbanizzato, ed il settore nero latifondista. I mulatti hanno dalla loro parte
il maggior peso economico, i neri fanno strumentalmente appello alla « questione
razziale » per aggregare intorno a sé la stragrande maggioranza della popolazione.
Il fattore razziale dunque serve per lo piu a mascherare il contrasto di in
teressi fra queste due frazioni della oligarchia, appoggiate di volta in volta dalla
Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Germania o dagli stessi Stati Uniti. In
questo contesto Washington decide l’occupazione, destinata a garantire la coe
sione delle classi dominanti ed il loro rafforzamento di fronte alle prime proteste
popolari.
Nei 19 anni di presenza militare statunitense il potere viene assunto da
governi fantoccio, mentre si fanno sempre piu stretti i rapporti di dipendenza
neocoloniale. L’economia dell’isola viene assoggettata completamente agli inte
ressi statunitensi e le imprese americane creano delle enclaves agricole e mi
nerarie sottoposte a sfruttamento moderno, mentre il resto del paese rimane
fermo a condizioni precapitalistiche.
Un primo movimento di riscossa nazionalista si sviluppa nel 1928-29, anche
per reazione al razzismo delle truppe di occupazione. La risonanza assunta
dalla repressione induce gli Stati Uniti ad affidare l’ennesimo incarico di go
verno ad un esponente della vecchia oligarchia mulatta, Sténio Vincent, rappre
sentante della tendenza nazionalista.
Il primo agosto 1934 i marines Usa abbandonano il paese. Il periodo di
occupazione ha segnato il definitivo predominio del capitale statunitense a scapito
di quello francese (si veda l’accordo commerciale del marzo ’35). Dal 1922, con
un grosso prestito al governo di Port-au-Prince, è iniziata anche la pratica del
sovvenzionamento, attraverso « aiuti allo sviluppo » e aperture di crediti, dei
regimi in carica. Nel 1935 la classe media nera, numericamente cresciuta per
lo sviluppo della burocrazia e politicizzatasi con la partecipazione al movimento
nazionalista degli anni precedenti, si oppone al tentativo di Vincent di essere
rieletto alla presidenza. Fra quanti accusano il capo dello Stato di essere solo
un burattino nelle mani degli Stati Uniti, vi è il Partito comunista, fondato
l’anno precedente e che lo stesso Vincent si incarica di mettere subito fuori legge.
Nel ’37 il conflitto con il dittatore dominicano Trujillo, che ha fatto mas
sacrare 20.000 contadini haitiani, mette a nudo la debolezza del governo, che
si accontenta di un indennizzo di 750.000 dollari (neppure pagati interamente).
L’opinione pubblica è indignata, gli Usa sono costretti a cercare un altro
candidato e nel ’41 fanno eleggere presidente Elie Lescot, ambasciatore plenipo
tenziario di Haiti a Washington e collaboratore di Trujillo. Sempre nel ’41 ven
gono concessi al paese due ingenti prestitiper la realizzazione di opere pub
bliche e per lo sviluppo agricolo:il programma di « assistenza » è
affidato
ad una ditta statunitense, la Société Haitiano-Americaine de Developpement Agricole
(Shada), che riceve in concessione tutto il caucciù haitiano, oltre a 60.000 ettari
di terreno produttivo ed a 75.000 ettari di bosco. Questo provvedimento signi
fica l’espropriazione, con un indennizzo ridicolo, di migliaia di piccoli contadini.
Lo scontento nelle campagne è molto forte e si assomma alle proteste per la
persecuzione del vudù, decisa dal regime con l’appoggio della Chiesa cattolica.
Nel ’45 la protesta si estende alle città: a scendere in campo sono gli
studenti, la piccola borghesia, le masse della capitale e delle città più importanti.
L’agitazione studentesca del 7 gennaio si trasforma in sciopero generale. Ancora
una volta Washington fa venir meno il suo appoggio al regime e ITI gennaio
una giunta militare prende il potere. È questo un periodo di grandi fermenti
nella società haitiana. Oltre a una rinnovata presenza del Pc, si assiste al sorgere
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del Partito socialista popolare, cui aderiscono intellettuali mulatti di estrazione
piccolo borghese. Nasce inoltre il Mouvement Ouvrier Pay san (Mop), che riesce
a mobilitare vaste masse proletarie e sottoproletarie dietro le parole d ’ordine
populiste del suo leader, Daniel Fignolé.
L’assemblea nazionale nel 1946 proclama presidente il latifondista nero Dumarsais Estimé, ma dietro di lui c’è il colonnello Paul Magloire, figura di punta
della giunta di governo che ha destituito Lescot. Gli anni del governo Estimé
sono fra i piu interessanti dal punto di vista culturale: fiorisce nell’isola un
importante movimento ispirato alla negritudine ed ai valori africani, che si
esprime attraverso la poesia, la musica, il teatro, la pittura, la riscoperta del
folklore.
Il settore mulatto però non demorde e nel maggio ’50 riesce a far deporre
Estimé da un golpe militare. Al suo posto si insedia la stessa giunta di governo
di quattro anni prima e nel suo seno il nero Paul Magloire consolida la sua
posizione. Nonostante la sua appartenenza razziale, Magloire gode anche della
fiducia della borghesia mulatta e con l’appoggio dell’esercito si' fa eleggere
presidente a suffragio diretto. La congiuntura economica favorevole (sono in
ascesa i prezzi di caffè, zucchero, sisal) i prestiti Usa, gli investimenti esteri
permettono al suo governo un periodo di stabilità. Ma nel 1955 la coincidenza
della crisi economica mondiale (con conseguente calo delle esportazioni) e delle
distruzioni causate dal ciclone Hazel mettono a nudo l’effimera prosperità del
regime e ridanno fiato alle opposizioni. Venuto meno il blocco di alleanze che
10 sosteneva, Magloire è costretto all’esilio nel dicembre del ’56. Quattro sono
i candidati alla successione: l’industriale Louis Déjoie, rappresentante dell’alta
borghesia mulatta, che può contare anche sull’appoggio di una frazione della pic
cola borghesia; Clement Jumelle, ministro delle Finanze del passato regime;
11 medico Francois Duvalier, ex ministro del governo Estimé, sostenuto dalla
oligarchia nera e da importanti settori della piccola borghesia (anche alcuni in
tellettuali neri lo vedono con simpatia, per i suoi richiami alla negritudine).
L’ultimo candidato è il leader del Mop, Fignolé, che può contare sul sostegno
entusiasta dei settori sindacali e degli strati popolari della capitale, oltre che
sull’appoggio degli intellettuali progressisti. La sinistra, pur comprendendo che
il populismo di Fignolé non mette in discussione l’ordine costituito, spera infatti
in una radicalizzazione del movimento.
La preparazione delle presidenziali è lunga e laboriosa: si succedono quattro
governi provvisori, incaricati di realizzare « elezioni libere e oneste ». Il 25
maggio ’57, alla guida del terzo governo provvisorio viene nominato proprio
Daniel Fignolé. L’avvenimento è accolto da manifestazioni di entusiasmo nei
sobborghi proletari della capitale e fra i soldati delle guarnigioni. La borghesia
nera e mulatta e la stessa ambasciata Usa sono in allarme e decidono di
correre ai ripari: dopo soli 19 giorni, Fignolé è destituito dal capo di stato
maggiore, gen. Kebreau e spedito in esilio, mentre l’esercito reprime nel sangue
le proteste popolari (tremila morti in due giorni). Ed è sempre l’esercito, con
l’assenso di Washington, ad organizzare elezioni fraudolente e a proclamare
vincitore Francois Duvalier (22 settembre 1957).
Appena giunto al potere, Duvalier inaugura un periodo di terrore, di ar
resti arbitrarii e di assassinii. Anche l’esercito viene drasticamente epurato
(fra le vittime vi è lo stesso Kebreau). Ogni libertà di stampa e di opposi
zione viene annullata. La repressione colpisce anche la Chiesa cattolica: viene
espulso fra gli altri l’arcivescovo della capitale, mons. Poirier, di nazionalità
francese.
Il nuovo regime ha l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Una missione
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militare americana si installa nell’isola per addestrare quei militari che do
vranno diventare a loro volta gli istruttori del corpo paramilitare dei Ton tons
Macoutes. Il sostegno di Washington è un chiaro segnale alla borghesia mulatta,
che in gran parte si allinea dietro Papa Doc.
Mentre il regime si consolida con il sostegno delle vecchie classi domi
nanti, numerosi sono gli episodi di resistenza, che coinvolgono settori sociali
diversi. Alla fine degli anni ’50 è in crescita il movimento rivendicativo della
classe operaia; nell’agosto ’58, con la fondazione dell’Unione Intersindacale, che
raggruppa diverse organizzazioni progressiste e democratiche, il proletariato si
presenta per la prima volta come un gruppo sociale organizzato. L’Unione
Intersindacale verrà sciolta dal regime nel dicembre ’63 ed i suoi dirigenti ar
restati. Anche gli studenti scendono in campo contro Duvalier: la prima mani
festazione dell’opposizione è proprio lo sciopero studentesco iniziato nel novembre
del 1960 e durato ben tre mesi. Altri episodi di lotta al duvalierismo hanno per
protagonisti ex militari ed esponenti della piccola borghesia radicale. Nel luglio ’58
tre ex ufficiali dell’esercito e quattro avventurieri americani tentano un’azione
armata, ma senza successo. La risposta di Papa Doc è il rafforzamento e l’isti
tuzionalizzazione dei Tontons Macoutes. Sotto la presidenza Kennedy, Washington
cerca anche un « sostituto » di Duvalier che, pur garantendo la continuità del
sistema, presenti una « facciata » piu dignitosa. Duvalier reagisce con un so
prassalto « nazionalista »: espelle la missione militare Usa, provocando la sospen
sione delle relazioni diplomatiche fra i due paesi (maggio ’63) e sul piano
interno intensifica la repressione. La situazione ritorna favorevole al dittatore
con la presidenza Johnson, tanto che il gruppo ]eune Haiti, che nel maggio ’64
tenta un’invasione dell’isola con l’appoggio della Già, viene tradito dagli stessi
agenti americani (i 13 componenti del gruppo vengono tutti massacrati). Con
temporaneamente fallisce un tentativo di sbarco, effettuato dalle Forces Armées
Revolutionaires d ’Haiti a partire dalla Repubblica Dominicana. Numerosi sono
anche i complotti in seno all’esercito o allo stesso governo; fra i piu importanti,
quello di un gruppo di ufficiali diretto dal colonnello Honorat, che contava
sull’appoggio (poi venuto meno) della Cia; quello dell’ex capo della polizia
segreta Clément Barbot, infine l’insurrezione della Marina, che bombardò il
palazzo presidenziale nell’aprile ’70. A questi, e ai tanti altri tentativi diretti
contro di lui, Duvalier ha potuto sempre opporre l’appoggio statunitense (tranne
la breve parentesi Kennedy) e quello dei settori piu reazionari dell’oligarchia sia
nera che mulatta. Ma la vera minaccia per il regime è costituita dal movimento
di massa, contro il quale l’unica arma è stata il terrore. Oltre al milione circa
di haitiani che in questi trent’anni hanno abbandonato l’isola (spinti dalla miseria
o dal rifiuto della dittatura) si calcola che il carcere, la tortura, l ’assassinio,
abbiano colpito almeno 40.000 oppositori. La repressione è stata particolar
mente dura nei confronti dei militanti del Partito Unificato dei Comunisti Hai
tiani, sorto nel 1968 dalla fusione del Farti d ’Entente Populaire (fondato nel ’59
dallo scrittore Jacques Stéphen Alexis, poi assassinato da Duvalier) e del Partito
Popolare di Liberazione Nazionale. Nell’aprile ’69 una legge decreta la pena
di morte contro chiunque sia sospettato di attività comunista. Nel corso di
quell’anno centinaia di comunisti vengono uccisi ed altre centinaia arrestati e
torturati.
Il 22 aprile 1971 l’annuncio della morte di Papa Doc è accompagnato dalla
notizia del passaggio dei poteri al figlio diciannovenne Jean-Claude. La successione
è legittimata dall’ambasciatore americano Clinton Knox, che dichiara subito il
suo sostegno a Baby Doc, e dalle navi da guerra Usa che incrociano nelle acque
territoriali haitiane. Del resto il vecchio Duvalier, dopo essersi fatto proclamare
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nel ’64, con una votazione plebiscitaria, presidente a vita, aveva deciso che tale
carica diventasse ereditaria. Nonostante l’anacronismo del regime, le classi domi
nanti si sentono garantite nei propri interessi dalla dinastia Duvalier e già sotto
Papa Doc hanno consolidato il proprio potere economico approfittando della
pace sociale.
Il regime di Duvalier figlio significa un rafforzamento della dipendenza dagli
Stati Uniti e dalle multinazionali. Oltre che nei tradizionali settori agricolo (caffè,
zucchero) e minerario (bauxite, rame), sono cresciuti gli investimenti nell’in
dustria di assemblaggio (tessile, di giocattoli, elettronica) richiamati dalle fa
vorevoli condizioni offerte ai capitali esteri: esenzioni fiscali, bassi salari, niente
scioperi. Questa linea di tendenza è destinata a rafforzarsi nei prossimi anni;
dopo l’accordo fra Cina e Gran Bretagna su Hong Kong, molte multinazionali
stanno spostando i propri investimenti in questa zona del globo.
Dagli Stati Uniti Baby Doc ottiene, fin dall’inizio, concreti e generosi aiuti:
istruttori per addestrare il nuovo corpo repressivo dei Leopards, prestiti e cre
diti sia diretti che attraverso organismi internazionali, armi ed equipaggiamento
militare (attraverso una compagnia privata di Miami).
Fino alla presidenza Nixon Washington garantisce anche un appoggio poli
tico senza riserve. Nel maggio ’76 uno sciopero degli operai del cemento se
gna la ripresa del movimento sindacale organizzato. È il periodo in cui Baby Doc
cerca di accreditare una versione « aperturista » del regime, consentendo una
minima libertà di stampa; ma il giornalista che sul « Petit Samedi Soir » pubblica
la notizia dello sciopero viene trovato assassinato. Con la presidenza Carter Du
valier è costretto ad alcune concessioni: nel 1977 per la prima volta vengono
liberate decine di prigionieri politici, mentre nasce la Lega dei diritti umani e il
panorama politico si arricchisce di un partito di ispirazione democristiana.
Nelle elezioni parlamentari del ’78, ai candidati ufficiali si affiancano alcuni
indipendenti, uno dei quali viene addirittura eletto. L’anima del regime però
non muta: una repressione piu « selettiva » colpisce gli oppositori, mentre la
censura si abbatte sulla stampa e sulle opere teatrali. E comunque l’apertura
ha presto fine con l ’elezione di Reagan alla Casa Bianca.
Sul piano sociale le classi medie, anche in seguito alla congiuntura economica
favorevole che ha contraddistinto quasi tutti gli anni Settanta, hanno maggiore
accesso al consumo. Ma paradossalmente la massa monetaria circolante nel paese
non fa che peggiorare la situazione degli strati piu poveri, per gli effetti
inflazionistici che provoca. E gli strati piu poveri sono la stragrande maggio
ranza della popolazione, se si calcola che un centesimo degli abitanti controlla
la metà delle ricchezze nazionali. Haiti è il paese con il reddito pro capite più
basso di tutta l’America latina (250 dollari annui); il tasso di analfabetismo su
pera l’80%; l’87% dei bambini soffre di denutrizione; la mortalità infantile è
del 150 per mille.
Gli anni Ottanta segnano la crisi del regime: la corruzione presente ad ogni
livello dell’organizzazione statale e l’incompetenza sul piano economico generano
una crisi di sfiducia nelle classi imprenditoriali, messe in allarme dalla ripresa
delle proteste popolari; un chiaro segnale è il calo dell’attività produttiva, ac
compagnato da una massiccia fuga di capitali.
Allo scontento dei lavoratori urbani, che vedono i loro già miseri salari erosi
dall’inflazione (dal ’71 all’84 il potere d ’acquisto è sceso del 62% ) fa riscon
tro il dramma delle campagne, dove l’abbattimento del patrimonio suinicolo, deci
so dal governo nel 1984 in seguito ad un’epidemia di peste suina, ha costituito
un vero colpo per tante famiglie contadine.
Ed è proprio nel 1984 che la protesta popolare si inasprisce: in maggio scop49
piano sommosse a Cap Haitien, Gonaives, Hince. Il 2 febbraio del 1985, in oc
casione di una manifestazione di massa a Port-au-Prince, l’arcivescovo della capi
tale attacca pubblicamente il governo. La Chiesa cattolica scende cosi in campo
a fianco dell’opposizione ponendo fine ad un lungo periodo di compromissione
con il regime. Il 25 aprile nella cattedrale, alla presenza dei rappresentanti del
governo e di migliaia di fedeli, il belga padre Yvan pronuncia un sermone che
suona a definitiva condanna del duvalierismo. Nel novembre altre azioni di pro
testa del clero ottengono l’appoggio della Conferenza Episcopale. In tal modo
la Chiesa consolida la sua presenza nella società haitiana, rispondendo alla penetrazione ideologica delle sette protestanti.
Nel maggio del 1985 la Centrale Autonoma dei Lavoratori Haitiani rilancia,
dalla clandestinità l’iniziativa di lotta. Tredici dirigenti scrivono una lettera aper
ta al ministro delle Finanze, chiedendo miglioramenti salariali e riconoscimento
dei diritti sindacali. Nell’agosto i camionisti di Gona'ives, dopo un duro sciopero,
ottengono pieno successo: per la prima volta il governo è costretto a cedere.
Anche i giovani scendono in agitazione, organizzando marce per le « libertà poli
tiche, economiche e sociali ». La risposta del regime (il referendum del 22 luglio
sull’irrevocabilità della presidenza a vita) suona debole e difensiva: nessuno, né
all’interno né all’estero, crede a quel 99,98% di « si » che Duvalier sostiene
di aver ricevuto.
Il 28 novembre, sempre a Gonaives, quattro giovani vengono uccisi dalla
polizia nel corso di una manifestazione pacifica. Lo sdegno è enorme, in tutto il
paese si scatenano scioperi e manifestazioni. A nulla serve il rimpasto ministe
riale di dicembre (vengono cambiati i ministri delle Finanze, dell’Educazione,
degli Interni e degli Esteri). Il sette gennaio di quest’anno gli studenti decidono
lo sciopero generale, il governo replica facendo chiudere le scuole. Il 30 gen
naio viene annunciata la sospensione degli aiuti americani (26 milioni di dol
lari): dopo gli imprenditori e la Chiesa, anche gli Usa hanno abbandonato Duva
lier. Seguono nuove sommosse a Port-au-Prince e in altre città e la proclamazione
dello stato d ’assedio. Il resto è storia di oggi. La notizia di fonte americana,
rivelatasi poi prematura, della fuga di Baby Doc il 31 gennaio appare a poste
riori un’abile mossa di Washington per liberarsi definitivamente di un alleato
ormai scomodo. Il panorama politico di Haiti, confuso e contraddittorio, non è
tale da mettere in pericolo gli interessi statunitensi. Le opposizioni, sia quella
legale (il Partito democristiano) sia quella clandestina (il Puch), hanno subito
duri colpi sotto la dittatura e appaiono deboli e incerte. Solo la Chiesa, con le
sue comunità di base, si presenta in questo momento come una forza sociale orga
nizzata e compatta. Certo Baby Doc se ne è andato, ma la parte avuta da Washing
ton nella sua partenza getta una pesante ipoteca sul futuro del paese. Solo quando
questa ipoteca verrà a cadere Haiti potrà dirsi veramente libera.
50
Edwige Balutansky
Caribe francese
champagne, disoccupazione...
La Francia, fin dal 17mo secolo, a differenza di Spagna e Inghilterra, era riu
scita ad inserire integralmente le sue colonie caraibiche nella sua struttura econo
mica. Santo Domingo, Guadalupe e Martinica furono dedicate alla produzione zuc
cheriera, mentre l’inospitale Guyana servi come colonia penale. Nel 1804 perse
Santo Domingo (Haiti), la « Perla delle Antille ». La Francia oggi, tra le vecchie
potenze, è l’unica ad aggrapparsi ancora alle sue colonie. Dopo la guerra mon
diale, nel timore di perdere i suoi dominii, decise di « integrarli ». Formalmente,
cessarono di esser colonie nel 1946; però, diventando Dipartimenti (o Territori
d ’Oltremare), si rafforzarono sempre piu i legami tra metropoli e periferia. Nel
Caribe, solo Puerto Rico condivide uno status similare. La popolazione antillana
aspira all’indipendenza? Quelli che si attaccano ai sussidi ottenuti dalla Madrepa
tria difendono la Dipartimentalizzazione. Quelli che temono di cadere nell’orbita
nordamericana chiedono maggiore Autonomia. Gruppi ancora minoritari reclama
no l’Indipendenza...
La « legge di assimilazione » del 1946 trasforma Guadalupe, Martinica, Gu
yana Francese (nei Caraibi) e l’isoletta La Reunion (nell’Oceano Indiano) in Di
partimenti d ’Oltremare: i Doms, mentre le colonie del Pacifico son considerate
Territori d ’Oltremare: i Toms. Il prefetto si sostituisce al governatore. La fun
zione giuridica non cambia la realtà.
I legami tra la Francia e i Doms continuano ad essere di tipo coloniale. La
dipendenza non si interrompe, anzi si accentua. Ieri la colonia generava ricchezza:
lo zucchero. Oggi sono intergate nel circuito commerciale della metropoli: oltre che
mercati, sono « trampolini » di lancio verso gli altri mercati caraibici. Lo sviluppo
delle relazioni commerciali, insieme agl’interessi strategici, giustificano i « sussidi »
* Da « Pensamiento propio », a. Ili, n, 27, ottobre 1985.
51
del governo francese ad economie che hanno cessato di produrre per offrire servizi.
Gli alti livelli di consumo delle Antille, lungi dal riflettere sviluppo econo
mico, risultano dalle distorsioni introdotte dalla metropoli.
Dipartimenti o colonie?
Col nuovo status, la Francia cercava di neutralizzare i sentimenti nazionali che
si stavano sviluppando in quelle colonie: da una parte molti antillani avevano par
tecipato — ed erano morti — nella guerra sotto la bandiera francese; dall’altra la
Francia, occupata dai nazisti — non poteva comunicare con le sue colonie. Le An
tille (Guadalupe e Martinica) e la Guyana si trovarono sull’orlo del collasso: non
arrivavano i beni tradizionalmente importanti dalla metropoli né si poteva espor
tare zucchero. Verso la fine della guerra la Francia aveva perso buona parte del
suo mercato caribegno. Nelle Antille si cominciavano a sviluppare alcune indu
strie locali per sostituire gl inaccessibili beni una volta importati, ed anche a
diversificare la produzione agricola per soddisfare il mercato interno. Ansiosa di
riattivare la sua economia, la metropoli si propose di recuperare i suoi mercati.
Per far ciò doveva però soddisfare alcune richieste delle colonie: questo l’obiet
tivo che si proponeva la legge di assimilazione.
Le colonie accettarono la nuova formula, anche perché un partito di sinistra
era allora al governo in Francia. Il Partito comunista di Guadalupe pensava che
la « dipartimentalizzazione » avrebbe potuto risolvere almeno i problemi piu acuti.
Nella Martinica Aimé Césaire, il politico piu eminente dell’isola e membro del Pc,
optò anch’egli per questa soluzione. Il nuovo status pretendeva di rompere con
la dominazione coloniale, istituendo l’uguaglianza dei diritti tra gli abitanti della
metropoli e quelli d ’Oltremare.
A partire dal 1946 si costruirono scuole, l’analfabetismo fu quasi sradicato. Nel
campo della salute: fognature, acqua potabile e cure mediche gratuite, l’applica
zione della avanzata legislazione sociale francese. Un sostanziale miglioramento
delle infrastrutture fino allora esistenti.
Tuttavia la riforma giuridica non metteva in discussione la natura stessa del
rapporto coloniale. La vita economica dei territori continuò ad essere nelle mani
di poche compagnie zuccheriere controllate dal capitale francese. Si ipertrofizza il
settore amministrativo e dei servizi. I prefetti nei Doms godono di un’autorità
maggiore dei loro omologhi metropolitani, possono intervenire in modo decisivo
nei procedimenti elettorali, sciogliere il Consiglio Generale ed usare la forza pub
blica (nel 1953, ad esempio, il prefetto di Guadalupe sciolse il Consiglio Generale
risultante dalla vittoria di una coalizione di socialisti e comunisti). Gradualmente
i prefetti acquisirono poteri politici maggiori di quelli che avevano i governatori
ai quali si erano sostituiti. Le colonie, oltre ad eleggere i Consigli e i membri dei
municipi locali, designano rappresentanti al Parlamento francese, le cui leggi de
vono rispettare. Guadalupe però ha solo 3 deputati su 420.
Economie sussidiate?
Nel 1949, la bilancia commerciale di Guadalupe non presentava falle. Dopo
trent’anni come Dom, il suo export copre solo un quinto dell’import. I trasferi
menti dello stato francese rappresentano circa il 70% delle spese pubbliche dell’i
sola.
Sul piano economico, i problemi e le tensioni si esprimono piu apertamente.
Fin dal 17mo secolo le colonie erano state destinate alla monocoltura dello zuc
chero (con riferimento specifico a Guadalupe e Martinica).
L’industria zuccheriera cominciò ad incontrare le difficoltà più serie a partire
52
dal 1957, quando la comunità economica europea aderisce alla Convenzione di
Lome, i cui accordi garantiscono a 46 Stati africani, del Caribe e del Pacifico il
libero accesso del 99,2% delle loro esportazioni nella Cee. Questi accordi avreb
bero avuto severe ripercussioni sulle economie dei Doms, i cui prodotti dovevano
competere all’esportazione con quelli di paesi i cui costi di produzione sono
sino a sette volte inferiori.
Con la diminuzione della superficie coltivata a canna da zucchero ed in pre
senza di un’economia poco diversificata, i grandi proprietari cercarono di reagire
introducendo e intensificando altre coltivazioni (ananas, banane, ecc.) che non po
tevano sostituire lo zucchero come fonte di ' aiuta e di occupazione. Il modello
agro-esportatore provocò una regressione costante della coltivazione di ortaggi
come anche dei prodotti dell’allevamento: si importa latte, burro e persino succhi
di frutta! Il settore manifatturiero (in sostanza la lavorazione di alcune piante
industriali), estremamente ridotto, non dinamizza l’economia. Tra il 1980 e il
1983, furono investiti nell’industria appena 145 milioni di franchi, mentre il com
mercio assorbì circa il doppio: 272 milioni. Il turismo rappresenta appena un 3
o 4 per cento del Pii.
Dal canto suo il settore terziario è andato crescendo in modo smisurato. Il
settore amministrativo offre oggi la terza parte dell’occupazione. Nel 1960 il 62%
della manodopera lavorava in setton produttivi: nel 1980 solo il 29% . Questa
« terziarizzazione » dell’economia — crescita sproporzionata delle attività non pro
duttive — è finanziata dallo stato francese attraverso la spesa pubblica: i livelli di
impiego e di reddito, come la domanda, dipendono dalle iniezioni finanziarie della
metropoli.
Circa il 56% della forza-lavoro è composta da disoccupati o sotto-occupati. La
gran parte dei giovani, diplomati o meno, emigrano in Francia, dove scontano il
razzismo dei loro « compatrioti ». La situazione, drammatica di per sé, viene
aggravata dallo spostamento verso le colonie di un gran numero di giovani pro
fessionisti francesi ed ex funzionari pubblici che hanno dovuto abbandonare le
ex colonie arabe. Attratti dagli alti salari — un 40% in piu che nella metropoli —
si accaparrano i pochi posti disponibili dando luogo a un « genocidio per sosti
tuzione ».
Come spiegare, allora, l’alto livello dei consumi che ogni visitatore constata
arrivando nelle Antille?
« Ballerine costose »
È quasi un luogo comune affermare che la Francia compensa il deficit delle
bilance commerciali delle colonie con forti iniezioni finanziarie. Gli uomini poli
tici francesi hanno l’abitudine, nei loro giri elettorali nelle Antille, di sottolineare
le cure e le responsabilità della Francia verso le povere isole. Essa viene presen
tata come « madre nutrice » che sovvenziona la bilancia dei pagamenti. Nel 1979
ad esempio la Martinica esportò per 133 milioni di dollari e importò per 675! Il
deficit fu coperto da tutta una gamma di agenzie che operano nella metropoli.
Questo spiega come in Martinica il reddito nazionale pro capite viene stimato in
4000 dollari annui e in Guadalupe in 3300, molto piu alto dei redditi delle isole
vicine. 1 benefici dell’assistenza sociale sono fatti assommare a 658 dollari pro
capite. Le cifre (media 1976-78) non sono cambiate sostanzialmente nell’attuale de
cennio. Questo circolo vizioso peggiora ogni anno di piu, poiché nella misura in
cui lo stato sovvenziona le Antille francesi (mediante i salari dei funzionari — am
ministrativi e militari — , l ’assistenza sociale, i crediti per equipaggiamenti o il
Fondo di Investimenti per i Doms) le isole producono di meno e dipendono di
piu dalle importazioni.
53
Valery Giscard d ’Estaing, quand’era ministro delle Finanze, paragonò le Antille a « ballerine molto costose da mantenere ».
È costoso per la Francia?
La Francia, vecchia potenza coloniale, assume oggi il ruolo di amante affettuoso
e compiacente? Le proiezioni commerciali suggeriscono una visione meno ro
mantica: il 60% dell’intercambio commerciale della Martinica è con la Francia,
e quello di Guadalupe, ancor più dominato dalla metropoli, è del 70% .
Il commercio spiega l’interesse più immediato della Francia nel conservare le
sue colonie. I suoi « aiuti » consistono soprattutto nei grassi benefici percepiti da
gli importatori e trasportatori francesi che operano in quelle isole. Le colonie
servono per quell’aiuto finanziario che permette di trasformare il denaro pubblico
francese in profitti per il capitale privato. Che cosa rappresentano le spese di « ma
nutenzione » delle colonie per la metropoli? Guardiamo al caso della Guyana:
nella seconda metà degli anni 70, la Francia sborsò appena lo 0,1-0,2 del suo bi
lancio in quel Dom. Calcoli prudenziali riconoscono che circa il 90% dei fondi pub
blici trasferiti in Guyana rientrano in Francia attraverso il settore privato. E la
cosa non cambia nelle Antille: l’economia si basa essenzialmente sul settore ter
ziario e amministrativo, oltre che sull’importazione commerciale. Un dato rivela
tore: nel 1970 il bilancio globale del Ministero d ’Oltremare, per Dorns e Toms,
era di 290 milioni di franchi. Nello stesso anno i francesi spesero per alimenti in
scatola per animali domestici 750 milioni di franchi.
Interessi molteplici
Oltre ai vantaggi commerciali diretti, le isole caraibiche rendono possibile la
circolazione dei prodotti francesi verso l’America centrale e latina, oltre che nel
Caribe. Compagnie metropolitane, con basi in Guadalupe, si installano nelle altre
isole. Una di queste corporazioni ha costruito la strada del Sud a Haiti. Alcuni
progetti stravaganti come il mattatoio regionale e il nuovo ospedale in Martinica
sembra stiano li a dimostrare che la Francia vuol montare una « vetrina » per la
vendita dei suoi prodotti. Il Partito socialista francese progetta di creare una zona
industriale, ma non per la trasformazione dei prodotti locali.
Secondo alcuni storici, la Francia si lanciò nella conquista di nuove colonie
tra la fine del 19mo e l’inizio del 20mo secolo, periodo della sua maggiore espan
sione territoriale, più per ragioni politiche e strategiche che economiche. È que
sta la logica che sembra continui a prevalere. Nel Caribe, come negli altri suoi ter
ritori, la Francia cerca di conservare la sua presenza militare strategica con il Cen
tro spaziale di Kourou in Guyana, creato nel 1968, dove sviluppa attualmente il
Progetto Ariane, destinato alla collocazione in orbita di satelliti per telecomunica
zioni. Queste istallazioni, data l’importanza economica e politica del mercato mon
diale della tecnologia spaziale, permetteranno alla Francia e all’Europa la totale
autonomia nell’uso di satelliti di telecomunicazione e osservazione. I Toms e i
Doms (un altro progetto nucleare è stato incrementato nella Polinesia francese)
sono usati per espandere questi « moderni » progetti di tecnologie di punta che,
per ragioni evidenti, non possono essere sviluppati sul territorio metropolitano.
Importante: le potenze industriali guardano alla regione con rinnovato interesse
da quando il Caribe si è rivelato essere un lago petrolifero.
Non si deve nemmeno sottovalutare l’interesse culturale per l’espansione della
lingua e della cultura francesi. La Francia controlla la radio e la televisione, men
tre il creolo continua ad essere proibito nelle scuole. Questo controllo del campo
culturale marca la differenza tra la colonizzazione francese e quella britannica.
54
L’insegnamento viene impartito esclusivamente in francese. Sulla Francia viene
diffusa un’informazione minuziosa, mentre il minimo viene fatto sul Caribe. Un
maestro antillano afferma che « imparare il francese implica imparare ad entrare
nell’ordine sociale instaurato dal colonizzatore ».
Aimé Césaire, che pure tanto ha predicato per la negritudine e una propria
identità, ammette che attualmente è difficile tagliare il cordone ombelicale. La
Francia viene considerata una benefattrice che distribuisce benefici sociali di va
rio genere. Gli strati piu elevati della società dipendono dalla presenza francese,
dato che il capitale locale dipende, come abbiamo visto, da quello della « madre
patria ». Il paese non ha una propria identità, tanto che, come ci spiega un socio
logo guadalupense, « noialtri, che pure siamo inseriti in un contesto caraibico, ci
sentiamo, in virtu della dominazione francese, completamente estranei rispetto
ai problemi della regione. Stando come stiamo dentro una matrice francese, ogni
relazione che esiste tra noi e i nostri vicini passa necessariamente attraverso la
Francia ».
Le tensioni non si affogano nello champagne
Disoccupazione e sotto-occupazione investono un 56% della popolazione po
tenzialmente attiva. Ciò, malgrado i programmi per creare nuovi posti di lavoro,
maggiori pacchetti di aiuti, un sistema estensivo di assistenza sociale e campagne
di pianificazione familiare. Le tensioni sociali non solo sussstono, ma si fanno più
acute sotto le apparenze di una società « moderna », consumatrice di champagne
francese (la Rivista della Camera di Commercio recava: « Lo champagne: nelle
Antille è il Re Sole delle feste familiari in ogni ambiente... »).
L’emigrazione, incoraggiata dal governo francese, si offre come unica alter
nativa. Dopo una sollevazione popolare in Guadalupe nel 1969, si pose in atto il
Piano Nemo, ideato dal generale dallo stesso nome, che proponeva ai giovani di
recarsi in Francia a fare il servizio militare, con la promessa di una formazione
professionale. Nel 1963 era stato creato l’Ufficio delle Migrazioni dei Doms.
Oggi, una parte significativa della popolazione tra i 18 e i 35 anni è emigrata. Si
calcola che un terzo dei guadalupensi risieda in Francia, facendo quei lavori che
il francese (di Francia) disprezza.
Dopo gli anni 60, sollevamenti popolari mettono alla prova la fragile stabi
lità sociale. L’ultimo scoppio di malcontento popolare occorso in Guadalupe nel
maggio di quest’anno è stato provocato dalla collera per la prepotenza e l’ingiu
stizia dei bianchi. Stanchezza di una popolazione che chiede di essere rispettata.
I guadalupensi pretesero ed ottennero la libertà di Faisans, maestro nero che sim
bolizzava l’orgoglio nazionale contestando la prevaricazione del bianco.
Dall’inizio della colonizzazione, il dominio economico è rafforzato dalla subor
dinazione razziale. I creoli bianchi, oltre a possedere i mezzi di produzione, go
dono di tutto il potere politico. La popolazione nera, discendente dagli schiavi
deportati dall’Africa, non arriva a spezzare le catene della sua emarginazione. In
tanto, la minoranza mulatta cerca di imitare il bianco. Non si spiega il modello
di dominazione coloniale senza la partecipazione di questo settore sociale: il con
cetto di dipendenza implica l’associazione delle classi privilegiate della metropoli
con le donne antillane. La piccola borghesia, rappresentata in gran parte dai fun
zionari, che hanno uno stipendio maggiorato del 40% per il fatto di lavorare in
colonia, si sente coinvolta nell’ordine coloniale.
Mitterrand : una nuova politica?
Nel 1981, il governo socialista di Mitterrand, constatando che la struttura di55
partimentale non lasciava spazio all’iniziativa locale, iniziò una nuova politica veiso
le colonie. Non era in questione la concessione o meno dell’indipendenza, ma come
incrementare una maggiore decentralizzazione e riforme economiche che avreb
bero dovuto creare le prime basi verso l’indipendenza. Il nuovo governo mostrò
la sua buona volontà liberando undici militanti indipendentisti di Guyana e Gua
dalupe, incarcerati in Francia in attesa di processo. Parallelamente, furono ritirati
i 320 poliziotti antisommossa portati in Martinica nel 1980 per combattere il
« terrorismo ».
Andò creaendosi una spaccatura all’interno del Partito socialista fra gli « ideo
logi » e i modc.-nti pragmatici. Sotto l’influenza degli ideologbi — Regis Debray
tra questi — si rafforzarono i rapporti con Cuba, si diede appoggio alle forze nvoluzionarie centro-americane, si diede aiuto economico alla Grenada di Bishop e
si considerò la necessità di avanzare verso l’indipendenza degli enclaves francesi
nei Caraibi. Assumendo per dato che ogni popolo colonizzato desidera la sua li
berazione, gli ideologhi non presero in considerazione la complessità della situa
zione caribegna. Una politica che suscitò il rifiuto tanto della destra come dei
partiti progressisti.
I gruppi indipendentisti ripresero le loro attività nel 1983. In maggio si re
gistrarono una ventina di esplosioni in Martinica, Guadalupe, Guyana, e anche
a Parigi. Una nuova organizzazione l’Alleanza Rivoluzionaria Caribegna (Are) se
ne attribuì la responsabilità. Mitterrand inviò truppe in Guadalupe allorché, in
novembre e dicembre, esplosero altre bombe. La situazione andò aggravandosi: in
aprile dell’84 l’Arc fece scoppiare 14 bombe in Guadalupe. Il governo francese
mise fuori legge l’organizzazione.
Cosi, verso la metà dell’84, il governo socialista si ritrovò ad applicare le stesse
misure repressive che aveva criticato all’amministrazione precedente. I rapporti
con le colonie continuano ad essere un rompicapo per il governo. Su « Caribbean
Review » S. MacDonald e A. Gastmann riassumono cosi l’attuale dilemma della
Francia: « A differenza del governo socialista olandese che portò il Surinam all’in
dipendenza nel 1975 e che cerca di rompere i suoi legami con le Antille Olandesi,
i socialisti francesi si trovano prigionieri di un lungo processo storico di assimila
zione economica e culturale che il loro stesso partito agli inizi appoggiò. In un
certo senso Mitterrand e l’attuale governo francese si vedono immobilizzati. Gli
ideologhi non possono proporre l’indipendenza, gli indipendentisti locali non mo
bilitano la popolazione e i pragmatici non possono risolvere i problemi socio-eco
nomici antillani ».
L’atteggiamento interventista della Francia in Africa, in particolare nel Ciad,
testimonia della sua poca disposizione a rinunciare ad essere potenza coloniale.
Indipendenza? Domani...
Questo complesso rapporto di forze, come anche l’assenza di una struttura
economica autonoma, fanno si che lo scontento delle popolazioni antillane non
abbia potuto essere capitalizzato dai movimenti indipendentisti. Il timore di’
rompere con la metropoli (alimentato sempre dalle autorità: « Indipendenza?
Guardate Haiti... ») si è manifestato piu volte nelle urne. Conservatori come De
Gaulle e Giscard d ’Estaing, che mai hanno considerato come possibile l’indipen
denza, sono stati appoggiati dai voti antillani. Nelle elezioni politiche del 1981
alla destra riusci di far identificare la sinistra con l’opzione di una indipendenza
imposta. Mitterrand ebbe solo il 25% del voto caribegno mentre a livello na
zionale vinse col 52%.
La Autonomia è divenuta la piattaforma dei partiti tradizionali della sinistra.
Aimé Césaire stima che il movimento verso l’indipendenza dovrebbe esser gra56
duale, non immediato: una rottura troppo brusca dei legami coloniali potrebbe pro
vocare un collasso economico che porterebbe all’instaurarsi di dittature militari
come in America latina.
I partiti comunisti e socialisti antillani temono, non senza ragione, l’ingerenza
degli Stati Uniti. Argomentano che queste minute isole lasciando l’orbita francese
cadrebbero in quella nordamericana, piu conservatrice e meno tollerante. Questi
partiti si mantengono distinti dai partiti metropolitani che, apparentemente, non
hanno assunto su di sé la specificità dei problemi coloniali. Né hanno sviluppato
rapporti con i dirigenti politici delle vicine isole anglofone, influenzati dal mo
vimento di Potere Nero. La reciproca misconoscenza che regna tra le nazioni del
Caribe fa si che la politica viene pensata quasi esclusivamente su scala locale.
È anche difficile valutare la forza dei movimenti indipendentisti. Le varie forze
sociali e politiche riconoscono che la « dipartimentalizzazione » non può risolvere
i problemi acuti delle colonie, ma senza dubbio la paura della separazione è piu
forte.
In Guadalupe il Movimento indipendentista pare essere maggiormente radicato
al livello studentesco e, in qualche modo, nel settore bananiero. Soltanto nel 1963
l’indipendenza fu pubblicamente preconizzata da organizzazioni nazionaliste rag
gruppate nel Gong (Grupo de organización nacional de Guadalupe). La situazio
ne politica nelle colonie andava deteriorandosi. Nel marzo e maggio 1967, a causa
di moti sociali, il governo francese arrestò una trentina di militanti guadalupensi,
decimando cosi il Gong Nel decennio degli anni ’70 emergono forze politiche
apertamente indipendentiste slegate dai partiti tradizionali. Nel 1978 nasce la
Uplg (Union popular para la liberación de Guadalupe) a tu tt’oggi la forza princi
pale. Tuttavia, nel 1981 e 1982, sorgono due nuove organizzazioni, il Klpg e
l’Mpgi. Nel 1983 la Are inizia azioni terroristiche al margine della Uplg, che ri
fiutava l’uso di questi metodi (che pure erano il riflesso dell’impazienza di nu
merosi militanti).
In Martinica, il Movimento indipendentista ha avuto meno importanza che
in Guadalupe. Da 40 anni la scena politica è dominata dalla figura di un uomo, Aimé Césaire. Benché avesse sostenuto la necessità dell’Autonomia — esaltando sem
pre l’affermazione della propria identità culturale — il Ppm di Césaire, con la ele
zione di Mitterrand propose una moratoria circa lo status dell’isola. Tale posi
zione sembra aver indebolito l’« effetto Césaire » in Martinica, oltre ad aver pro
vocato scissioni nel Partito, come è il caso di una sezione di Parigi capeggiata dal
lo stesso figlio del leader carismatico, Jean Paul Césaire.
In Guyana, il Fronte nazionale di liberazione di Caienna, partigiano dell’in
dipendenza, ha fissato il 1987 come data limite per ottenerla. Questa organizza
zione ha denunciato i nuovi programmi di colonizzazione portati avanti dai fran
cesi sul suo territorio. Essi si riferiscono piu particolarmente ai Hmongs, rifugiati
laotiani che stanno istallandovisi fin dal 1977. Questi mercenari avevano com
battuto a fianco dei francesi durante la prima guerra d ’Indocina, e furono poi uti
lizzati dalla Cia per combattere i movimenti nazionalisti del Laos e del Sud
Vietnam.
Guyana francese colonia emarginata
Unico paese del continente latinoamericano ancora dipendente totalmente da
uno stato europeo. Colonia occupata da piu di 300 anni, e tuttavia mai sfruttata.
Annesso alla Francia nel 1604, quest’immenso territorio inospitale e sottopopolato
servi da base militare per la difesa dei ricchi possessi caraibici. Quando diminuì
57
il potere coloniale francese, la metropoli pensò di sfruttare questa colonia margi
nale. Nel 1763 inizia una colonizzazione massiccia. Il risultato fu catastrofico:
morirono 7.000 dei 12.000 coloni europei. Da allora la Guyana è conosciuta come
l’« Inferno Verde » o il « Cimitero europeo ». Tale reputazione servi per instal
larvi la famosa colonia penale della Cajenna, che funzionò dal 1851 fino al 1947.
Con i prigionieri la Francia pensava di sviluppare la colonia, oltre a sbarazzarsi
della sua « immondizia umana ». Né ciò contribuì alla evoluzione della popola
zione poiché, una volta liberati, i prigionieri se ne andavano via.
Si può parlare di un popolo guyanese? Oggi i 91.000 kmq della Guyana sono
popolati da 73.000 abitanti: piccoli gruppi di indigeni dell’interno, negri cimar rones discendenti dagli schiavi che vivono lungo il fiume Maroni, i « metropoli
tani » che restano solo pochi anni... qui i coloni non formano un gruppo poderoso
come i bekés antillani. Ci sono anche i 500 Hmongs del sud-est asiatico portati qui
nel 1977, la cui immigrazione delle migliaia previste fu frenata dalla mobilitazione
popolare. Parallelamente si è andata sviluppando una immigrazione incontrollata
di brasiliani, surinamesi e, soprattutto, haitiani. Cosi, la mancanza di una forte
coesione nazionale ostacola l’organizzazione di un movimento indipendentista. La
ristretta base economica non permette uno sviluppo autonomo. La Guyana è una
colonia di alti consumi che non produce quasi niente ed importa quasi tutto, dagli
alimenti ai pali telegrafici.
L’incorporazione della Guyana alla metropoli come Dom nel 1946 migliorò
le condizioni di vita, ma il tutto finanziato dai trasferimenti governativi e non
da uno sviluppo produttivo.
Le poche risorse risultano difficili da sfruttare. Le ricchezze potenziali — le
gname, bauxite, nikel, oro — non vengono sfruttate per l’assenza di una valida
infratsruttura economica. È fallito anche il sistema della piantagione, sia per ra
gioni climatiche che per la bassa densità degli abitanti. Verso la fine del 19mo se
colo la scoperta dell’oro pone fine allo scarso sviluppo agricolo. Il legname, ri
sorsa di gran lunga la piu importante del paese, anche per la fluttuazione del mer
cato internazionale, non è stato mai sfruttato industrialmente dalla Francia. Le
risorse minerarie, troppo limitate, non giustificano i costosi investimenti. La pe
sca, soprattutto crostacei, viene sfruttata da compagnie nordamericane e giapponesi.
La Guyana non è nemmeno un mercato per i prodotti metropolitani. Né c’è
una manodopera di facile impiego. Tutto pare indicare che l’interesse della Fran
cia per questo Dom si riduce quasi escusivamente al valore strategico della base
spaziale di Kourou, « città bianca » incrostata nel paesaggio. La Guyana vive
dunque un dilemma ancor piu lancinante che Martinica e Guadalupe.
*
Vr
Ve
Frantz Fanon, nato in Guadalupe, ha scritto ne I condannati della terra:
« Quando si pensa agli sforzi prodotti per ottenere l’alienazione culturale cosi ca
ratteristica dell’epoca coloniale, si capisce che nulla è stato lasciato al caso. Si do
veva convincere l’indigeno che il colonialismo lo avrebbe strappato alla morte (..)
e che la dipartita del colono lo avrebbe riportato alla barbarie, alla animalizzazione ».
Invertire questo processo... compito delle forze di liberazione.
58
Programma indipendentista
Conferenza Internazionale delle ultime colonie francesi
I movimenti indipendentisti dei Tom e dei Dom si sono riuniti per la prima volta
in Guadalupe dal 5 al 7 aprile del 1985.
Le pressioni della destra sia in Francia che in Guadalupe non sono riuscite
ad impedire lo svolgimento dell’incontro, anche se hanno raggiunto lo scopo di
impedire la partecipazione di invitati stranieri ai quali è stato negato il visto.
Le delegazioni indipendentiste hanno dimostrato di non essere un pugno di
terroristi, tanto per il numero quanto per la piattaforma di alternativa impostata
dalla Commissione per la Decolonizzazione e lo Sviluppo circa la problematica eco
nomica. Dall’analisi della dominazione coloniale emergono come problemi fondamentali la disintegrazione dei settori produttivi, la sottomissione totale alle ne
cessità economiche della metropoli e l’ipertrofia del terziario. A ciò si aggiunge un
tasso di disoccupazione del 30% della forza di lavoro, malgrado l’emigrazione
massiccia dei giovani in Francia.
Sviluppo indipendente. Una volta conquistata l’indipendenza, sarà dato il via
ad uno « sviluppo autocentrato ed integrato ». Ciò è a dire uno sviluppo multila
terale, che privilegi le necessità popolari e che si basi sulle forze e le risorse lo
cali. Si respingono i modelli « produttivisti », il che a sua volta implica il cam
biamento delle abitudini alimentari per ridurre drasticamente le importazioni. Il
ritorno alla autosufficienza alimentare richiede necessariamente una riforma agra
ria, la riconversione delle terre dedicate alla esportazione agricola, il controllo
del commercio estero, una politica industriale subordinata ai bisogni dell’agricol
tura, la pianificazione dello sviluppo e la partecipazione del contadiname al pro
cesso decisionale politico ed economico.
Cultura creola. Tutti i movimenti appoggiano la resistenza all’assimilazione
culturale. La lingua creola — vecchio idioma degli schiavi, mezzo di comunicazio
ne quotidiano della popolazione nera — va usato non solo nella letteratura ma
come strumento di lotta politica. Il creolo è un mezzo di avvicinamento alla popo
lazione contadina, è sfida all’ordine metropolitano, è riflesso di autodifesa ed è
mezzo di comunicazione con altri paesi del Caribe come Haiti e Dominica.
don-allineamento effettivo. Si distanziano dai partiti comunisti locali. « Non
vogliamo uscire da un club per entrare in un altro ». Ciò significa anche rifiuto
del « colonialismo nucleare », americano o francese. Nel Caribe ciò si esprime nella
critica al modello sovietico-cubano, anche se si riconosce il credito morale della
rivoluzione cubana.
Il futuro del movimento indipendentista dei Dom-Tom? Michel Capron e Jean
Chesneaux su « Le Monde Diplomatique » pensano che per rispondere a questa
domanda occorra evitare di paragonare questi movimenti alle lotte di liberazione
di Indocina, Algeria o delle colonie portoghesi; « Lungi dall’essere i sopravvissuti
di un tempo passato, essi sono ancorati al mondo degli anni 80 (...) e, soprattutto,
il modello occidentale che contestano non è — come vent’anni fa — un modello
in entusiasmante espansione. Oggi questo modello è in crisi (...). Agiscono in un
mondo che dubita di se stesso. Questa è la loro originalità, forse la loro fortuna.. ».
59
Battaglia di Otumba
60
José Antonio Viera Gallo
Memorie dell'esilio
Come trasmettere, in brevi istanti, un’esperienza d ’esilio, che nel mio caso,
è durata per oltre dieci anni ed è stata vissuta senza sapere quando potesse finire?
L’esilio è un tempo indeterminato, come la vita. La sua fine sfugge alla volontà
di chi ne è colpito Dipende dalle vicende politiche, dalle decisioni del potere
che lo ha provocato e lo prolunga, o dalle circostanze fortuite della storia.
Da sempre, l’esilio è stato considerato una punizione particolarmente crudele
e, insieme, un archetipo dell’esistenza umana. La norma che lo stabilisce come
sanzione e la decisione che lo applica a un caso particolare, rendono esplicito il
nostro modo d ’essere precari nel mondo. Categorie fondamentali della nostra
cultura si sono costruite intorno ad alcuni elementi propri dell’esilio: una « terra »
che si è costretti ad abbandonare (un paradiso perduto), che si rimpiange, idealiz
zandola nella memoria, che si tenta di ricreare con l’azione; una protezione pri
migenia perduta e una pena da espiare; la condizione di chi va vèrso orizzonti da
scoprire; il darsi totale e definitivo all’imprevisto e all’imprevedibile; vagabondi
in terra di nessuno. Abramo e Ulisse, Mosé ed Enea sono personaggi prototipi del
l’impresa di fondare un popolo nuovo lasciando dietro di sé quello conosciuto, il
ritorno rischioso alla casa, la lotta per uscire dalla schiavitù e trovare una pro
messa realizzata, la costruzione di una nuova città, caduta quella originaria travolta
dalle fiamme della guerra. E ci sono anche Adamo, Èva e Caino, Oreste ed Edipo.
Piu profondamente ci addentriamo nel substrato della nostra cultura, piu scopria
mo la condizione fondamentale dell’abbandono esistenziale, questo nostro essere
attaccati alla vita, spinti alla ricerca della soluzione dell’enigma del labirinto, tra
il ritorno e la creazione, agendo e sperando. Queste categorie culturali che si
muovono in funzione dell’esilio, sono la nostra percezione della storia, del de
stino, della colpa e del dramma che qui rappresentiamo.
61
L’esilio ha molteplici e profondi significati politici e sociali, psicologici e re
ligiosi. L’offesa è il vivere questa condizione comune di viandanti separati dalla co
munità naturale e dalla terra natale, dove la nostra vita acquisisce pieno significato.
11 mio esilio non ha avuto una causa strettamente individuale. È stato conse
guenza del cataclisma sociale, della frattura tagliente della società cilena culmi
nata nella ribellione militare del 1973, le cui conseguenze di rottura e dolore
hanno segnato finora la vita di tutti i cileni. Per molti ha significato la fine di un
progetto personale e collettivo. Per tutti, più o meno, vincitori e vinti, è stata
l’inizio di una spirale di aggressività e violenza che ancora non cessa.
Un’altra sfida, fondamentale, è l’adattarsi a una nuova realtà. Tutto è diverso.
La scala di valori con cui guardare la vita è un’altra. Bisogna affrontare nuove
idee, altre lingue, altre abitudini, altre tradizioni. La prima reazione oscilla tra
il rifiuto e l’assimilazione indiscriminata. A volte i due poli si combinano con
risultati grotteschi. Il problema è come adattarsi e vivere il più normalmente
possibile nel paese d ’esilio, senza perdere la propria identità cilena. Nel giusto
risolvere questa tensione si gioca, in buona parte, l’equilibrio psicologico e fa
miliare. Si mette alla prova la personalità e lo spessore della propria identità.
Il problema non si risolve in un certo periodo di tempo. Si prolunga per
tutto l’esilio. Non è passato giorno, per dieci anni, che io e mia moglie non par
lassimo dell’esilio e del ritorno in Cile. Si ha la coscienza di essere sempre stra
nieri e, come tali, quella della propria estraneità rispetto alla società in cui si vive,
la coscienza di condurre una doppia vita: come cittadino comune e come esiliato
che ha nostalgia di tornare al suo paese. Questa specie di schizofrenia, comune a
ogni straniero, nell’esiliato è più forte, perché è permanente e non ha una fine
prevedibile. Lo straniero è, soprattutto, un osservatore, non un protagonista.
Lo choc con nuova cultura provoca anche un ristrutturarsi dei ruoli familiari.
Cambiano i rapporti tra la coppia, e tra genitori e figli, specie quando questi ulti
mi stanno crescendo. Di solito, l’esilio colpisce legalmente un membro della fa
miglia, quasi sempre l’uomo, e ciò comporta l’espatrio per tutti. I cambiamenti
avvenuti nelle donne durante l’esilio sono stati profondi. Con una nuova coscienza
della loro dignità, le donne hanno contribuito a mettere in crisi un particolare tipo
di famiglia patriarcale o machista. E, poi, si mette sotto tensione l’unità familiare
quando la moglie si domanda se seguire la sorte del marito o tornare in Cile.
L’esilio può unire maggiormente una coppia facendo condividere ai due una espe
rienza tanto dura e lunga, o può portare alla separazione. Con i figli succede lo
stesso. Difficilmente fanno proprio l’esilio dei genitori e le circostanze che lo
hanno provocato. Tendono a inserirsi, ad assimilarsi nel paese e a guardare i ge
nitori come stranieri. La famiglia non può chiudersi alle nuove possibilità. Si pro
ducono, allora, lacerazioni, conflitti. La nascita di una terza figlia è stata, per
noi, un atto di fede nella vita.
L’esilio è anche ricerca di sicurezza. E, tuttavia, la repressione si estende an
che agli esiliati. Basti ricordare l’attentato contro Bernardo Leighton, che abbiamo
vissuto molto da vicino, per non parlare della morte di Carlos Prats e Orlando
Letelier. Neppure la lontananza garantisce la sicurezza. Ho ricordato i casi più
noti e drammatici, ma mi riferisco anche a una componente generale della vita
dell’esiliato, segnata, specie nei primi anni, dall’incertezza del domani.
Ma, indubbiamente, ciò che più caratterizza l ’esilio è il vivere lacerati tra un
passato a cui si cerca di far ritorno e un futuro in cui si spera che il ritorno diventi
possibile. Il presente, invece, appartiene alla disgrazia.
Si vive pensando al Cile. Attenti alla più piccola notizia, ai giornali, alle rivi
ste, ai cable. Uno cerca di conservare il cordone ombelicale che lo lega alla sua
terra. Con il tempo, le immagini del paese si sfuocano, trasformandosi piuttosto
62
in sensazioni; o si ricorda con esattezza fotografica — come dice José Donoso in
El jardin de al lado — luoghi e angoli determinati: un pezzo di mare, un albero,
una strada, la casa, un cinema. Il Cile diventa un’astrazione, oggetto di riflessione
e discussione politica. Ciò che si rimpiange, invece, sono gli elementi della vita
che si è lasciata, immagini inserite in un tempo indefinito, quasi come nei sogni.
Sono i segni del senso della nostra vita trasposti in un gioco di specchi. La spe
ranza di ricuperare il passato diventa nostalgia, sensazione di lontananza, separa
zione. Gli incontri con persone care che di questo significato perduto fanno parte,
sono intensi, ma fugaci, e finiscono sempre in una stazione o in un aeroporto.
Questa nostalgia profonda impedisce a molti di trarre frutto dai beni del presente,
provocando un totale disadattamento all’ambiente. Altre volte si pretende di
soffocare questi sentimenti quasi ancestrali, di vivere come non esistessero. Pas
siamo con facilità da un estremo all’altro, dipendenti da elementi diversi che sfug
gono al nostro controllo: un giorno rimpiangiamo il Cile (o alcuni suoi aspetti)
con tanta forza che tutto il resto non ha piu significato; un altro giorno, invece,
una bella e limpida giornata di sole — per esempio a Roma — ci invade, ci pos
siede, allontanando i ricordi.
Tutti questi elementi — sopravvivenza, adattamento, insicurezza, nostalgia —
provocano in molti esiliati una crisi della vita come progetto, come speranza, co
me significato. La molteplicità dell’esistenza, aperta a differenti possibilità, in cui
la volontà incide, sembra ridursi a un solo scopo — tornare in Cile — che, para
dossalmente, non è nelle facoltà dell’esiliato. La meta del ritorno non può riem
pire una vita. Può provocare maggior disadattamento, se è vissuta in modo osses
sivo. Si perde cosi il significato della vita, per non parlare della gioia di vivere che
appare, ovviamente, fuori luogo. Ci sono stati alcuni casi di suicidio. Ricordo le
drammatiche parole della lettera che Laura Allende ha scritto poco prima di mo
rire chiedendo l’intercessione del Papa per ottenere il permesso di morire in Cile.
C’era, dentro, una profonda tristezza. Pochi anni prima aveva deposto un fiore
rosso sulla bara di un cileno morto suicida a Roma. In quell’occasione abbiamo
saputo che, per un decreto dei primi anni del regime, il corpo di un esiliato può
essere sotterrato in Cile solo dieci anni dopo la sua morte. A meno di un per
messo speciale. Abbiamo pensato, allora: neppure le ossa possono riposare nella
nostra terra! E ci sono stati funerali in cimiteri stranieri. Ma, lasciando da parte
la soluzione estrema della morte, l’esilio inasprisce i fattori di nevrosi insiti in
ogni persona.
Ma offre anche occasioni positive, che si possono riassumere nell’arricchi
mento personale, frutto del contatto con altre realtà e dell’esperienza della solida
rietà.
Il passaggio dal Cile all’Europa si inserisce in una lunga tradizione di malin
tesi culturali. Le élite latinoamericane sono vissute pensando all’Europa, quasi co
me esiliati nella propria terra, cercando di riprodurvi le realtà del vecchio mondo.
E, con il passare del tempo, si sono convinte di aver realizzato il loro proposito
e, pertanto, guardano al mondo come vivessero in Europa, ritenendo il loro par
ticolare punto di osservazione come inserito in uno spazio centrale. Ciò è partico
larmente vero per il Cile. Vivere veramente in Europa consente di porre fine a
questo mito, di porlo in termini relativi e di scoprire, insieme, le vie che portano
al vero Cile e le caratteristiche contraddittorie e peculiari che configurano que
sta entità storico-culturale che con tanta facilità chiamiamo Europa.
Lo sguardo, allora, diventa piu ampio e piu preciso. Si capisce meglio quale
posto occupino il Cile e l’America latina in un sistema internazionale sempre piu
complesso, unificato e transnazionale; si avverte la necessità dell’ammodernamen
to, e che esso metta radici nelle nostre tradizioni e segua rotte originali; si vive
63
il nostro esacerbato nazionalismo non come una virtu tale da dare impulso allo
sforzo collettivo, ma come una specie di provincialismo retorico e sterile; si pren
dono le distanze dalla propria esperienza come nazione e se ne apprezzano altre,
assumendo la diversità come una qualità.
L’esilio può trasformarsi in una scuola obbligata di « mondialità ». Il cosmo
politismo ben digerito arricchisce il paese di origine, se esso è capace di abbattere
le barriere della separazione e assimilare esperienze dissimili, ognuna con la sua
ricchezza. Mi è impossibile dilungarmi sulle particolarità italiane, anzi romane,
del mio esilio. Pensavo spesso all’effetto che avrebbe avuto sul Cile di allora il
ritorno dei gesuiti espulsi, come Lacuza o l’abate Molina, morti in Italia.
Il rifugio alla Nunziatura apostolica, la mia permanenza li per quattro mesi
in attesa del salvacondotto, il viaggio verso l’Italia e l’inizio dell’esilio, sono stati
un itinerario forzato. Ci potevano essere altre alternative? Sono uscito una mat
tina presto da casa mia, lasciando tutto, con la consapevolezza che era una par
tenza definitiva. Tutto lo faceva prevedere. In giorni cosi aspri, carichi di solitu
dine e incertezza, quando ogni costruzione personale crolla, il persistere degli af
fetti, specie quello della moglie, consente di indirizzare le forze della vita verso
nuovi progetti e latitudini. La rottura della partenza, per quanto lacerante, non
è mai definitiva. Ci sono continuità fondamentali che fluiscono e consentono, no
nostante rutto, la speranza.
Lasciare il Cile in quelle circostanze è stato qualcosa di lacerante (anche se
l’addio s’era, in qualche modo, consumato lo stesso 11 settembre) e insieme pieno di
forza di futuro. Alle spalle, rimaneva un mondo di morte. Il rincontrarsi con la
famiglia e la volontà di ricostruire la vita in un altro paese prendeva tutta la co
scienza. Abbiamo preso l’aereo contando soltanto sul nostro slancio e sulle respon
sabilità che avevamo nei nostri confronti e in quelli delle nostre bambine. Ci
aspettava l’ignoto.
L’esilio porta con sé un cambiamento fondamentale delle dimensioni dello
spazio e del tempo in cui trascorre la vita. Essa deve assumere un altro signifi
cato. E ciò pone di fronte a una serie di sfide, cui voglio accennare.
Anzitutto c e quella della sopravvivenza, della sussistenza materiale. Cercare e
trovare lavoro diventa l’ossessione prima di ogni esiliato. Farlo in una società
estranea, dove si parla un’altra lingua, dove c’è un alto indice di disoccupazione
e dove i propri titoli, studi accademici o capacità professionali contano poco, è
molto difficile. Per la prima volta ho sperimentato la precarietà materiale, anche
la povertà relativa, anche l’essere oggetto di solidarietà. C’era un enorme con
trasto tra l’importanza politica che si attribuiva in Europa agli esiliani cileni e le
reali possibilità che ci si offrivano di inserirci nella società. Variavano da paese
a paese. In genere, noi esiliati abbiamo sviluppato una enorme capacità di lottare
per la vita, ci siamo uniti, ci siamo aiutati, a volte anche a rischio della chiusura,
del ghetto. In Cile, interessatamente o no, si è proiettata l’immagine dell’« esilio
dorato », specie in Europa. Niente è piu lontano dalla realtà. L’esiliato cileno —
tranne rare eccezioni — finisce nel settore marginale della società che lo accoglie,
e ne condivide tutti gli svantaggi.
Oltre ad aprire la coscienza alla diversità, l’esilio è anche occasione di solida
rietà. Anzitutto, quella tra cileni che si incontrano lontani dalla patria. Nel no
stro caso, abbiamo avuto la fortuna di viverlo con un gruppo di amici carissimi,
che hanno reso la nostra permanenza a Roma meno solitaria, piu umana. Questi
amici si sono trasformati, per cosi dire, in una nuova famiglia. Forse il ricordo di
una persona morta può essere il simbolo di questo darsi completamente agli altri,
vissuto ogni giorno per otto anni. Gloria Montes, moglie di Julio Silva Solar. Ha
sempre saputo accogliere tutti i cileni, ascoltarli, condividere.
64
A Roma, la convivenza tra cileni era spontanea, senza falsi formalismi: rom
peva le barriere dell’età e della condizione sociale. A volte bisognava tendere la
mano. Altre volte, qualcuno ce la tendeva. I rapporti umani erano più traspa
renti, veri.
La solidarietà italiana con il Cile è stata impressionante. Il popolo italiano e
i suoi dirigenti hanno vissuto gli eventi del Cile con coscienza di fratelli. La nostra
tragedia evocava in loro un passato triste. Sono centinaia le piazze e le strade che
ricordano il Cile, in città grandi e piccole. Sono state molte le braccia che si sono
aperte per accoglierci, da tutte le forze dell’arco politico costituzionale; ma non
si è trattato soltanto di solidarietà affettiva. C’era anche un interesse politico e
culturale. Ci sono stati molti scambi di informazioni e posizioni. Gli avvenimenti
cileni hanno influito in modo decisivo sull’evolversi della situazione politica ita
liana con l’esperienza di « solidarietà nazionale » e anche ora, quando si discute
di alternanza al governo e alternative politiche. Credo di non sbagliarmi affer
mando che, almeno in certi settori politici cileni, l’esperienza italiana e le posi
zioni dei suoi principali partiti hanno avuto un’influenza positiva nel far maturare
una coscienza democratica più solida e aperta. Lo scambio, nato dalla solidarietà,
ha dato i suoi frutti.
Devo parlare anche dell’incontro con altri esiliati latinoamericani (uruguayani,
argentini, brasiliani) e no. Un aneddoto può servire: in una delle prime manife
stazioni per il Cile, mi è capitato d ’essere seduto vicino al poeta Rafael Alberti, che
viveva fuori dalla Spagna — prima a Buenos Aires e poi a Roma — dalla fine
della guerra civile. Quando ha saputo che avevo lasciato il Cile qualche settimana
prima, mi ha guardato con compassione e mi ha detto di essere stanco di queste
manifestazioni e celebrazioni. Si è stabilita subito tra noi una comunicazione franca.
Mi è nato dentro, con tutta la sua drammaticità, il problema della durata dell’e
silio. Quando, in quel periodo, si andava nel sud della Francia, si incontravano
famiglie spagnole che erano vissute pensando al ritorno. In Alberti, che abbiamo
poi incontrato altre volte o vedevamo spesso passeggiare lungo il Tevere, questo
dramma era come personificato. Anche nella Pasionaria. Quando ha festeggiato a
Roma i suoi 80 anni, in una grande manifestazione cui hanno assistito tutti i diri
genti della sinistra europea, ha parlato della riconciliazione e della unificazione
della Spagna, del guarire le ferite della guerra civile: e del ritorno a Madrid. Un
altro caso singolare è stato quello di Paulo Freire, che avevo conosciuto esiliato
in Cile ai tempi governo Frei e ora lavorava in Svizzera, nel Consiglio mondiale
delle chiese, rimpiangendo il Cile e il Brasile.
Abbiamo visto partire molti di questi esiliati. E, invece, pensavamo che sa
remmo stati i primi a tornare. Ma sono partiti prima di noi i brasiliani, i porto
ghesi, i greci, gli spagnoli (anche Alberti), gli argentini, gli uruguayani, gli iraniani.
Alcuni iraniani, poi, sono tornati a Roma: ci siamo allora resi conto che anche
l’esilio può ripetersi
Il turno dei cileni non arrivava mai, e quando è giunto lo è stato in modo del
tutto imprevisto. Immaginavamo il nostro ritorno — come lo racconta la storia
biblica della fuga in Egitto — legato alla fine delle ragioni che lo avevano de
terminato. Non è stato cosi. Sono cominciati a giungere i permessi individuali,
come concessione delle autorità, prima privatamente, poi in elenchi pubblici. Ciò
ha creato una grande ansia nella comunità degli esiliati. Le domande nascevano
spontanee: perché hanno concesso il permesso al tale, e a me no? C’è un criterio?
E, se ce, quale? L’incertezza sul diritto può essere peggiore dell’ingiustizia della
norma. Per questo, l’elenco pubblico dei nomi di tutti quelli che non possono tor
nare deve essere considerato, paradossalmente, come un successo nella difesa dei
diritti umani.
65
Il nostro ritorno non è stato come quello degli altri esiliati. Non è coinciso con
la ritrovata libertà. E non ha avuto neppure carattere di massa. Siamo tornati a
poco a poco e lo abbiamo fatto, praticamente, nelle stesse condizioni in cui era
vamo partiti. Il Cile, anche se in proporzioni diverse, continua a essere radical
mente diviso.
Non voglio dilungarmi a descrivere l’itinerario del ritorno: da quando si riceve
la tanto attesa chiamata telefonica (puoi tornare!) a quando, finalmente, si scor
gono le Ande e si calpesta il suolo della patria, dopo essere passati per le trafile
burocratiche, gli addii e — perché non ammetterlo? — la tristezza di lasciare
l’Italia, questo paese meraviglioso che Neruda ha chiamato la Cina d ’Europa per
la molteplicità del suo ingegno, per la laboriosità, e dove abbiamo vissuto anni
tanto importanti della nostra esistenza. Non abbiamo forse sempre negli occhi,
le pietre di Roma, le sue strade, le piazze, i palazzi, le sue rovine e le sue chiese,
il segno indelebile del ricordo? Questa città non è forse diventata nostra come
Santiago? Due città diverse, addirittura opposte, ma unite nella nostra vita.
E comincia così il reinserimento in Cile. È duro. Le porte non sono spalan
cate, tranne che negli ambienti familiari o affettivamente piu vicini. Le menti non
sono preparate. Il paese è cambiato. Difficile dire in che senso e direzione. Il
tempo è trascorso piu denso e veloce che nella nostra coscienza. L’esiliato ha piu
presente il passato, ma, forse, ha anche piu volontà di futuro. La società cilena
cerca e protesta, ma convive con l’anormalità fino a perdere ogni capacità di stu
pirsi e si afferra alla sicurezza del presente. Poco a poco comincia il difficile ap
prendistato delle nuove norme di condotta, dei valori, degli usi. Questa volta, co
me la prima, e dopo aver respirato la libertà a pieni polmoni, non pretendiamo
un adattamento totale. Comincia cosi una specie di esilio nella propria terra, ali
mentato dalla speranza del cambiamento che adesso, a differenza di prima, dipen
de almeno in piccola parte da noi stessi. È il passaggio dalla categoria di spettatore
a quella di protagonista e ciò vuol dire che l ’esilio è finito.
Voglio chiudere con alcune riflessioni sugli insegnamenti che ho tratto da
questa esperienza.
Anzitutto, ridire una cosa che tutti dicono: nessuno deve piu subire l’esilio.
Dobbiamo costruire un futuro in cui esso non abbia spazio né politico, né giuri
dico, né etico.
In secondo luogo, ripetere che l’esilio ha cambiato la nostra percezione del
mondo e dei suoi problemi. Non siamo piu quelli che eravamo. Questa trasfor
mazione si traduce nel dire che abbiamo preso psicologicamente le distanze dal
complesso dei processi e degli avvenimenti che hanno provocato il cataclisma so
ciale per il quale abbiamo vissuto l’esilio. Lorse possiamo guardare con maggiore
obiettività il dramma in cui tutti siamo stati e continuiamo a essere coinvolti, e
di cui ancora non si vede lo sbocco. In contatto con altre realtà, abbiamo ridimen
sionato le nostre sofferenze, le nostre prospettive e speranze individuali e collet
tive. Anche le legittime scelte ideologiche e politiche, perché abbiamo capito l’im
portanza fondamentale che ha l’adesione reale — non a parole — alla battaglia
per i diritti umani, come codificati dall’attuale diritto internazionale. Questa è la
base del pluralismo e del consenso e deve essere il cemento dello stato. Quando
vengono sistematicamente violati, la società — come diceva Cicerone, che nel
suo esilio greco aveva nostalgia perfino dell’odore delle cloache di Roma — perde
spessore, robustezza e razionalità. Quando il diritto viene sostituito dall’arbitrio,
nell’ordine imposto si ingenerano anarchia e violenza.
In terzo luogo, la convinzione che la politica deve partire dall’analisi dei pro
blemi reali del paese, e non da modelli o schemi generali. Dobbiamo rieducarci al
l’analisi, al dialogo, all’impegno, alla mediazione tra interessi divergenti e anche
66
contrapposti, in una società immersa in un mondo in rapido cambiamento. Le
grandi imprese politiche — e la riconquista della democrazia lo è — si misura
no soprattutto dagli effetti che producono e da ciò che concretamente si raggiunge.
Non chiediamo l’impossibile, raggiungiamo invece il diverso che ci sta a portata
di mano. Ricostruiamo l’unità del Cile. Contribuiamo, per quanto possiamo, a
porre fine alle insanabili divisioni del passato e del presente, per riconoscere le
nostre differenze e proiettarle in un destino comune. Dobbiamo capire che, di
fronte alla nuova epoca che giunge stravolgendo tutte le strutture, gli equilibri e i
rapporti sociali, è in gioco la nostra esistenza come paese degno della propria
storia. O pensiamo, invece, che la sicurezza sta non nella capacità di tener testa
alle sfide e di risolvere i problemi, bensì nel rimandare la crisi volgendo le spalle
alla realtà o cercando rifugio nella retorica ideologica? Come può misurarsi con i
problemi del futuro, un paese diviso, le cui forze non si sommano, ma si annul
lano a vicenda?
Non si può continuare con almeno 5 mila compatrioti privati del diritto di
entrare e vivere nella loro patria. Non ci può essere un Cile al di qua delle fron
tiere e un altro Cile al di là di esse. Se non si chiude questa ferita, non ci sarà
passaggio alla democrazia. L’esperienza insegna che la storia ha le sue scorciatoie
e che le società, come la natura, cercano di mettere fine a squilibri e arbitri di
tanta ampiezza. Allora, perché non risolvere il problema prima, evitando soffe
renze inutili e rendendo così possibile un consenso che apra la strada alla nor
malità sociale e istituzionale?
67
Cuauhtémoc, ultimo capo azteco
68
Culture indigene
La politica indigenista brasiliana *
Gli indios del Brasile sono meno di duecentomila, suddivisi in circa cen
toventi gruppi; la popolazione totale del Brasile è di centoventi milioni di
persone 12. Questi dati possono fornire l’immediata visualizzazione della condizione
di minoranza — non solo etnica — degli indios brasiliani.
Il posto degli indios nella società nazionale è stato sempre oggetto di
discussione in Brasile. L’indio occupa una posizione alquanto ambigua: come
abitante originale del paese, e quindi suo primo possessore, deve essere inte
grato ed incorporato per rendere legittimo il dominio sul territorio da parte
di uno stato che si vuole rappresentante dell’intera nazione. Contemporaneamente,
l’indio — costituendo sempre un ostacolo agli interessi economici del paese —
è considerato come la negazione del processo di progresso e sviluppo che lo stato
brasiliano sta perseguendo con vigore dal 1970 : .
Dunque, se da un lato si deve porre attenzione sulla legislazione relativa
allo status degli indios brasiliani, dall’altro bisogna tener conto della politica
di sviluppo attuata dal Brasile ed incentrata particolarmente sull’Amazzonia.
Proprio da quest’ultimo punto converrà iniziare questa breve analisi della po* Un’ampia documentazione sull’argomento è disponibile presso il Centro Studi Amerin
diani della Fondazione Internazionale Lelio Basso.
' C o u n tr y P rofile: B ra zil , « Survival International News », London, N. 5, 1984, p. 7.
2
Eunice Ribeiro Durham, O lugar do I n d i o , in AA.VV., O I n d io e a cidadania, a cura del
la Comissào Pró-Indio, Sào Paulo, 1983. pp. 10-19.
69
litica indigenista brasiliana, perché i maggiori contrasti e contraddizioni al suo
interno scaturiscono principalmente dagli interessi economici di importanza na
zionale che vengono messi in gioco, quando si tratta di optare tra benessere e
salvaguardia delle popolazioni indigene o benessere ed incremento del bilancio
brasiliano.
L’area della regione amazzonica brasiliana ha una estensione di circa sei mi
lioni di chilometri quadrati ed è il territorio di quasi il 70% dei duecentomila indios
del Brasile. Dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni ’70, cominciò a di
spiegarsi in maniera sensibile il piano di sviluppo del bacino amazzonico, non
senza cospicui interventi di capitali stranieri3. A questo periodo, difatti, risale
il progetto della Transamazzonica, la strada che fu tracciata sulla mappa del
Brasile dallo stato di Paraiba (Nordest) al Perù (Ovest) per 5.400 chilometri,
e da Santarem (Nord! a Cuiabà (Sud) per 1.670 chilometri, in una specie di
croce simbolica che doveva rappresentare la dominazione del progresso e della
civiltà sull’ultima grande foresta del mondo. Il progetto prevedeva anche lo spo
stamento di circa cinque milioni di persone dal Nordest e da altre zone, per
far si che venissero colonizzate le aree limitrofe ai due iati della strada, in
base alla concezione dell’Amazzonia come terra « disabitata » da popolare con
un grande numero di emigranti senza terra.
Le cose però non andarono come previsto: i coloni si trovarono ben presto
a dover lottare contro le malattie, la mancanza di case, l’assenza di assistenza
medica e tecnica, e addirittura contro la terra stessa che, dopo due soli anni
di piantagioni, di rivelò arida e quasi sterile. Ventinove gruppi indiani abitavano
lungo il tracciato della Transamazzonica: poco si sa di essi. Uno di questi gruppi,
gli Arara, fuggi dal proprio villaggio — lasciandolo intatto — quando la strada
lo tagliò in due parti. Fino all’83, la maggior parte degli Arara fuggitivi stava
ancora vagando nelle due metà del loro antico territorio, rifiutando i tentativi
del governo di « attrarli con doni consistenti in cibo e machetes 45.
Dopo il grande insuccesso del progetto della Transamazzonica, fu la volta
del progetto denominato Polamazonia, che stabiliva quindici aree di sviluppo
concentrato in altrettante zone dell’Amazzonia. L’obiettivo era quello di riuscire
a migliorare il tenore di vita degli abitanti — brasiliani — di queste regioni,
evitando cosi di spostarli da una zona all’altra come era avvenuto con la Transamaz
zonica. Per ogni area era previsto lo sviluppo di centrali idroelettriche, di alle
vamento di bestiame, di sfruttamento minerario ed agricolo, oltre al fatto che
ogni zona avrebbe avuto il suo particolare settore emergente (la Roraima l’agri
coltura, l’Aripuana l'energia e l’allevamento e cosi via).
Il progetto di sviluppo più recente — presentato nell’82 e strutturato nel
l’arco di un quinquennio — è il Progetto Carajas \ Il costo totale di esso è
di sessantadue miliardi di dollari; l’area della sua realizzazione è la parte orientale
dell’Amazzonia ed il centro del progetto è la Serra dos Carajas, da cui appunto
prende il nome.
La parte principale del progetto concerne il settore minerario: nella sola
Serra dos Carajas giacciono nel sottosuolo diciotto miliardi di tonnellate di ferro
(che si esauriranno in quattrocento anni), sessanta milioni di tonnellate di man3 Anna Presland, A n acco u n t on c o n te m p o ra ry fig h t fo r su rv iv a l o f th e A m e r in d ia n P eo
p les o f B ra zil . « Survival International Review », London, Spring 1979, pp. 14-40.
4 H ig h w a y s o f d e a th , « Survival International News », London, N. 2, 1983, p. 3.
5 Antonio Carlos Moura, N in e in d ig e n o u s p e o p le s on th e p a th to e x te r m in a tio n , « Sur
vival International Review», London, Autumn/W inter 1982, N. 3/4, pp. 70-3. Si veda anche:
A ssa u lt on A m a z o n , « Survival International News », London, N. 9, 1985, p. 7.
70
ganese, quaranta milioni di tonnellate di bauxite e poi alluminio, zinco, argento,
cromo, amianto ed oro. La quantità di rame del Grande Carajas è di un miliardo
di tonnellate; nella zona di Paragominas la quantità di bauxite arriva a quasi
cinque miliardi di tonnellate.
Gli altri settori del progetto riguardano l’agricoltura, l’allevamento e lo
sfruttamento dell’energia idroelettrica. In questo ultimo campo, la centrale di
Tucurui — che è in funzione dall’85 — con la sua potenza di quasi quattro
milioni di kilowatt generata da dodici turbine, è destinata a diventare la quarta
centrale idroelettrica del mondo; inoltre, l’Eletronorte — sezione settentrionale
della Eletrobras, la società statale per la produzione dell’energia elettrica — ha
calcolato che la potenzialità dell’intero bacino amazzonico è di cento milioni di
kilowatt, che potranno esser sfruttati sull’esempio della centrale di Tucurui6.
Il progetto Carajas prevede ancora, tra l’altro, la costruzione di una ferrovia
della lunghezza di novecento chilometri che collegherà la Serra dos Carajas al
porto di Sào Luis do Maranhào. Nella zona sorgeranno sei grandi centri industriali.
Gran parte del progetto Carajas — come pure gran parte dei progetti di
sviluppo che lo hanno preceduto — è destinato a realizzarsi contro gli interessi
delle comunità indigene che vivono nell’area. La ferrovia attraverserà parecchie
terre di diversi gruppi; la centrale di Tucurui arriverà ad allagare, con la sua
diga, un’area di 216.000 ettari di terreno, inclusi 100.000 ettari della zona ri
servata agli indios Parakana. Questi indios, e gli indios Xikrin, hanno già
accusato disturbi di salute a causa dei defolianti impiegati per la preparazione
delle aree da inondare. A parte l’evidente minaccia per l ’equilibrio ecologico della
zona che l’azione combinata dei defolianti e dell’inondazione comporta, altri
problemi si presentano per gli indios coinvolti nel progetto Carajas. I già citati
Parakana — che sono poco più di duecento individui — dovranno venir spostati
dalla loro riserva; altri, come i Guajajara, i Krikati, i Gavioes, vivendo nelle zone
direttamente interessate dalle esplorazioni minerarie e dai successivi sfruttamenti,
dovranno far fronte ad un contatto prolungato con gli avamposti della società
brasiliana, contatto che non comporta solo una minaccia per la loro identità cul
turale, ma costituisce un serio pericolo per la loro salute fisica, in quanto li
espone alla possibilità di contrarre nuove malattie.
La Companhia do Vale do Rio Doce, responsabile per lo stato del progetto
Carajas, ha stipulato nel luglio dell’82 un contratto con la Funai (Fundagào
National do Indio, di cui parleremo tra breve) in cui è previsto uno stanzia
mento di quasi quattordici milioni di dollari, da spendere in cinque anni; tale
somma costituiva una sorta di « risarcimento » agli oltre quaranta villaggi delle
nove diverse popolazioni indigene viventi negli stati di Maranhào, Parà e Goias,
interessati dal progetto Carajas. Dal momento che questo denaro era (ed è) sog
getto alla gestione della Funai, il compito di decidere in che modo dovesse
venir speso fu competenza della Funai stessa, che decise di riservarne una piccola
parte alla demarcazione delle riserve indigene, e la maggior parte alla creazione
di servizi e strutture (case, scuole, piccoli ospedali, stalle, magazzini, bestiame,
attrezzi, sementi ecc.) da collocare nelle terre abitate dagli indios. È lecito pensare
che « la Funai volesse ’sistemare’ gli indios dell’area, in maniera tale da farli
diventare una forza-lavoro per le compagnie minerarie e di allevamento che si
stavano insediando nel Carajas » 7.
Gli interessi economici della nazione brasiliana sono quindi di una tale
6 Marcos Magalhàes, A energia da fló r e s ta , «Interior», anno XI, N. 61/62, 1985, Bra
silia, pp. 63-4.
7 Antonio Carlos Moura, op. cit. (nota 5), p. 73.
71
entità che spesso non possono mutare le loro condizioni « solo » per salvaguardare
l’integrità fisica e culturale degli indios che vengono a trovarsi sul loro cam
mino, malgrado esista una legislazione che lo garantisca. La costruzione di
autostrade e di centrali idroelettriche, l’attuazione dei progetti agricoli e minerari,
la messa in opera di grandi allevamenti di bestiame (cioè, la realizzazione del
programma di sviluppo economico del Brasile) hanno un grado di priorità as
soluta, che raramente può esser soggetto a compromessi, tantomeno con quelle
popolazioni indigene che rappresentano un cosi scomodo ostacolo allo sviluppo
stesso 8.
Questo non significa che in Brasile non vi sia una legislazione relativa alla
salvaguardia delle popolazioni indigene; anzi, esiste un organismo statale — la
Funai citata prima — che si occupa proprio del rapporto tra lo Stato nazionale
ed i suoi abitanti originali. La Funai nasce, nel 1967 dallo scioglimento del
vecchio Spi {Servilo de Protendo aos Indios) fondato dal Colonnello Rondon,
i cui intenti iniziali erano quelli di proteggere gli indios dall’avanzata — per
loro distruttiva — della società brasiliana. Negli anni ’50, a quarant’anni di
distanza dalla sua creazione, lo Spi aveva evidentemente cambiato le sue inten
zioni ed i suoi obiettivi, se dall’inchiesta sulle sue attività emerse l’accusa di
genocidio, perpetrato mediante la guerra batteriologica, il bombardamento aereo,
la distribuzione di abiti impregnati con virus mortali e di zucchero mescolato
ad arsenico 9.
Malgrado l’entità di questi crimini contro le popolazioni indigene avesse cau
sato lo scioglimento dello Spi, molti dei suoi funzionari vennero reimpiegati nella
nuova Funai, che dipendeva dal Ministero degli Interni. Tale Ministero ha
tu tt’oggi un ruolo di primo piano nella programmazione ed esecuzione della
politica governativa di sviluppo delle aree « vergini », non ancora incorporate
— a livello produttivo — nella società nazionale.
La Funai è dunque l’organismo tutore degli indios del Brasile; un’organiz
zazione che operò con il suo consenso (e con il quale è stato rinnovato l’accordo
nel dicembre dell’83) fu il Summer Institute of Linguistics (Sii), proveniente dagli
Stati Uniti. Il Sii, presente nelle aree indigene fin dal 1959, aveva il compito di
provvedere all’istruzione e all’educazione degli indios, diffondendo contempora
neamente la religione protestante ed introducendo i gruppi indigeni alla lettura
della Bibbia. Il Sii non mancava poi di convincere gli indios dei grandi benefici
che sarebbero potuti provenire dall’acconsentire a cedere parti del loro territorio
per la costruzione di strade, fabbriche ed altri avamposti di quel grande piano di
sviluppo che il governo stava realizzando l0.
Il sottile lavoro di persuasione del Sii si è potuto realizzare anche da
quando l’educazione bilingue (portoghese/lingua locale) è stata sancita dalla legge
* Un caso emblematico è quello dei Waimiri-Atroari. Nell’84 erano meno di 500 indivi
dui, ma nel 1970 erano piu di 3000. Questo enorme calo demografico è stato causato da diversi
fattori legati allo «sviluppo»: la costruzione dell’autostrada Brasilia-Caracas che ha tagliato
in due la loro riserva; l’installazione, nell’81, di un impianto per l’estrazione della cassiterite
nella loro area; l’inondazione di una parte della loro riserva nell’84, a causa della diga co
struita sul fiume Uatuma o Balbina (Mario Juruna, S itu a tio n o f th e In d ia n s o f B r a z il , « IW GIA
Newsletter», Copenhagen, N. 39, October 1984, pp. 52-6).
9 Norman Lewis, W h ite m a n ’s w ild e rn e ss, « Survival International Review », London,
Winter 1979, pp. 8-9. Si veda anche: Marco Colace, La situ a z io n e d eg li I n d io s in B rasile:
a sp e tti sto rico -p o litici, Documento presentato a nome del C.S.A. alla Commissione per i Diritti
dell’Uomo alle Nazioni Unite, Ginevra, 30 luglio/3 agosto 1984.
10 P ro p o sa l fo r a n e w in d ig e n ist p o licy s u b m itte d to th e p re se n t c iv il bra zilia n g o v e r n
m e n t, a cura dell’Uni presentata alla 4a Commissione relativa alle Popolazioni Indigene, pro
mossa dalle Nazioni Unite, Ginevra, 1985, pp. 19-30.
72
6001 del 1973, meglio nota col nome di Estatuto do Indio. Fermo restando
che l’educazione bilingue è un diritto delle popolazioni indigene, si è però
avuta l ’impressione che il Sii abbia approfittato di essa « per un passaggio ancora
piu integrale degli indios nel mondo dell’uomo bianco, dal momento che tutti
i valori potrebbero esser facilmente tradotti nelle lingue native e quindi introdotti
ancor piu profondamente nelle loro menti, perché espressi in termini e forme
concepiti dagli indios stessi » 11.
Da una decina d ’anni, comunque, sono in atto alcuni programmi educativi
alternativi, tra cui quello coordinato dal Cimi (Conselho Indigenista Misionero).
Dove è possibile, viene utilizzato il sistema bilingue, ma lo scopo principale
è quello di fornire i mezzi necessari perché gli indios possano poi difendere se
stessi e porsi adeguatamente in relazione con la società nazionale.
Se dunque il Sii si occupava (e si occupa) di predisporre gli indios all’inte
grazione nella società brasiliana, la Funai stessa ha compiuto diversi tentativi di
attuare quest’integrazione mediante l’inserimento degli indios nel mondo del
lavoro. Questi tentativi si sono rivelati abbastanza fallimentari, data la diffe
renza tra la concezione indigena di lavoro e quella della Funai che, tra l ’altro,
considerava come illegittima ogni forma di lavoro finalizzata esclusivamente alla
sussistenza 12.
A livello strettamente legale, comunque, la posizione degli indios in Brasile
viene definita dalla legge 6001/73, cioè il già citato Statuto dell’Indio. Nel
Codice Civile brasiliano, l’Art. 6 sancisce la relativa incapacità dell’indio13, che
può far valere i suoi diritti solo se assistito da un organismo tutore. La legge
6001 dispone che questa tutela venga esercitata dall’organismo di stato incaricato
della protezione degli indios, che è appunto la Funai 14.
Lo Statuto dell’Indio, se da un lato ha contribuito al riconoscimento legale
dei gruppi indigeni, dall’altro contiene parecchie « scappatoie » che rendono pos
sibili le manovre politiche ed economiche necessarie alla realizzazione del pro
gramma di sviluppo omogeneo del Brasile, a dispetto della reale condizione di
plurietnicità del paese; vediamone alcune, quindi. Il primo articolo dello Statuto
afferma che lo scopo principale della Legge è quello di « integrarli (gli indios),
progressivamente ed armoniosamente, nella comunità nazionale ». Questo signi
fica che gli indios dovranno integrarsi principalmente nel « processo di sviluppo »
(Art. 2/V III) 1S.
Sul diritto al possesso della terra, l’Art. 25 dice: « Il riconoscimento dei
diritti degli indios e dei gruppi tribali al possesso permanente delle terre che
abitano... sarà indipendente dalla loro demarcazione e sarà assicurato dall’organo
federale di assistenza agli indios ». Ma il precedente Art. 20 elenca una serie
di disposizioni che permettono di violare questi diritti. Per qualsiasi delle sei
condizioni stabilite, infatti, gli indios possono venir spostati temporaneamente
o trasferiti definitivamente dal loro territorio in un’altra area; e cioè per far
terminare una guerra tra due gruppi, per combattere le epidemie o qualsiasi
cosa che possa minacciare l’integrità fisica degli indios, per ragioni di sicurezza
11 P ro p o sa l..., op. cit. (nota 10), p. 24.
12 Roque de Barros Laraia, N e w tre n d s in B razilian In d ia n A ffa ir s , Paper N. 39 of EAFORD,
London, January 1985, p. 3.
13 Qualora l’indio non sia « emancipato », cioè avente piu di 18 anni, conosca la lingua
portoghese e abbia un lavoro che lo inserisca nel sistema produttivo brasiliano.
14 Dalmo de Abreu Dallari, In d io s, ctd a d a m a e d ir e ito s , in AA.VV., O I n d io e a cidadania, op. cit. (nota 2), p. 53.
15 Paulo Suess, A lte r id a d e e in tegra^ao, « Porantim », Brasilia, Abril 1985, Ano V II, N. 74,
p. 5.
73
nazionale, per realizzare lavori pubblici che siano di interesse per lo sviluppo
nazionale, per reprimere disordini su vasta scala, per sfruttare le risorse del
sottosuolo 16.
Se da un lato l’Art. 24 afferma che « l’usufrutto assicurato agli indios
comprende il diritto alla proprietà e all’uso delle risorse naturali... nelle terre
occupate, ed anche al prodotto dello sfruttamento economico di quelle risorse »,
l’Art. 42 affida l’amministrazione del patrimonio indigeno alla Funai. Questo
renda indigena (reddito indigeno) « verrà di preferenza riapplicato (dalla Funai)
in attività lucrative o in programmi di assistenza agli indios » (Art. 43). Nel
renda indigena confluiscono anche gli eventuali risarcimenti che il Ministero degli
Interni deve devolvere agli indios in caso si presenti la necessità di compiere
attività minerarie in aree indigene (Art. 45).
Come si può vedere da questi pochi esempi, lo Statuto dell’Indio è una
legge alquanto elastica, pur se presenta parecchi punti che, se rispettati alla
lettera, possono costituire dei vantaggiosi capisaldi per gli indios. L’Art. 65,
che obbligava la Funai a demarcare tutte le terre indigene entro il 21 dicembre
del 1978, è tuttora in via di applicazione, nel senso che la demarcazione delle
terre è ancora abbastanza lontana dall’esser completata. Questo fatto ha portato
ad un rafforzamento e ad una solidarietà maggiore del movimento indigeno che
ha fatto del diritto alla demarcazione delle terre uno dei suoi principali punti
di rivendicazione, in virtu di quell’Articolo 65 che ne ordinava l’attuazione.
Oggi, nel contesto della Nova Republica, la Funai — che non ha mai real
mente difeso gli interessi degli indios, ma piuttosto ha sempre cercato di pre
disporli esclusivamente all’integrazione — attraversa un periodo caratterizzato da
una ulteriore perdita di autonomia nei confronti del Ministero degli Interni. Già
nel 1983, un decreto ministeriale (88.118) ha trasferito il potere di demar
care le terre indigene dalla Funai ad una commissione interministeriale, il che
ha rallentato ulteriormente le relative procedure burocratiche. Dal marzo ’85 al
l’ottobre dello stesso anno, inoltre, la Funai ha cambiato cinque volte il suo
presidente, senza che venissero mai prese in seria considerazione le preferenze
indicate dal movimento indigeno. Uno degli ultimi presidenti, Alvaro Villas Bòas,
in carica nell’ottobre ’85, è stato « scelto » direttamente dal Ministero degli Inter
ni. Già burocrate della Funai, Villas Boas è noto per aver bollato come « agita
tori e comunisti » tutti gli indigenisti, gli antropologi ed i missionari contrari ai
suoi programmi 17.
Se la Nova Republica ha determinato la fine dello stato autoritario e repres
sivo in Brasile, non ha però contribuito a migliorare la situazione delle popo
lazioni indigene, che si trovano ancora a dover lottare perché vengano rico
nosciuti i confini delle loro terre, perché leimprese minerarie non distrug
gano le loro riserve, perché non debbano piu ricorrere allo scontro fisico per
cacciare gli innumerevoli garimpeiros che quotidianamente invadono le loro aree
in cerca di oro 18.
C’è però un movimento indigeno che oggi si sta organizzando per usufruire
dei nuovi strumenti che la ristrutturazione dell’organizzazione statale comporta.
Uno di questi concerne la possibilità di partecipare all’Assemblea nazionale costi
tuente. Già nel 1982 un indio arrivò ad essere eletto come Deputato federale
16 Anna Presland, op. cit. (nota 3), p. 28.
17 A p o litica i in d ig e n ista da « N o v a R e p u b lic a », a cura del Cimi, « Porantim », Outubro
1985, Ano V ili, N. 80, pp. 8-10.
18 M in in g in In d ia n areas in B ra zil , Documento presentato dall’Uni alla 4a Commissione
relativa alle Popolazioni Indigene, promossa dalle Nazioni Unite, Ginevra, 1985.
74
al Parlamento, in rappresentanza dello stato di Rio de Janeiro: Mario Juruna,
soprannominato « l’indio con il registratore », perché registrava ogni promessa
che i « bianchi » facevano. Juruna, votato dagli elettori di Rio de Janeiro — lo
stato che ha probabilmente la piu bassa percentuale di indios del Brasile — fu
in seguito accettato come rappresentante da molti gruppi indigeni 19.
Oggi l’Uni (Uniào das Nagóes Indigenas) sta discutendo le modalità di par
tecipazione alla Costituente. L’Uni ha affermato che il movimento indigeno
parteciperà come nazione indigena, al di fuori di qualsiasi partito politico.
I rappresentanti saranno eletti dalle comunità indigene, senza venir sottomessi al
suffragio universale e segreto; saranno due per ogni regione geografica del Brasile
e parteciperanno principalmente ai lavori relativi agli interessi degli indigeni.
Inoltre, il movimento appoggerà anche quelle candidature indigene che vorranno
presentarsi attraverso un partito 20.
I diritti che i partecipanti indigeni all’Assemblea nazionale costituente do
vranno far riconoscere concernono il diritto alla terra, il riconoscimento della
appartenenza ad una nazione indigena insieme alla cittadinanza brasiliana, il
diritto alla salvaguardia dell’identità indigena senza il pregiudizio dell’integrazione,
e quello di intervenire in prima persona in ogni decisione che riguardi il
presente o il futuro delle comunità indigene21.
Pur se pronto a partecipare alla Costituente, il movimento indigeno non
nutre molta fiducia nel nuovo corso della politica brasiliana, indigenista e non.
Nell’articolo di fondo di « Porantim » 22 del novembre ’85, si legge infatti:
« Nel momento in cui la Nuova Repubblica affronta le sue prime prove, con
statiamo, desolati, che sta diventando deprecabile in tutto. La violenza cresce,
brutale, principalmente negli stati dove i latifondisti sono più potenti; la tanto
decantata riforma agraria... si mostra sempre più conservatrice; la politica eco
nomica è sempre la stessa; la campagna elettorale continua ad essere manipolata
non solo dal potere economico ma dallo stesso governo, che teme di perdere
il controllo della situazione... Il nostro campo di lotta non è la conquista di
spazi nello schema ufficiale delle prefetture e dei parlamenti, ancora dominati
dal potere economico e dagli opportunisti. Questo devono capire gli indios
che nutrivano delle ambizioni in questo parlamento fallito. Il nostro campo
di lotta e le nostre armi saranno altre. E se il cammino è stato finora cosparso
di sangue, dobbiamo credere che da ora in poi sarà guidato dalla speranza » 23.
È chiaro dunque che, al di là di ogni manovra mirante ad una più o
meno forzata integrazione delle popolazioni indigene in nome dello sviluppo
economico nazionale, la politica indigenista brasiliana dovrà fare i conti con
un movimento indigeno sempre più organizzato e deciso nei suoi obiettivi
e nelle sue rivendicazioni: e questo tanto all’interno degli organismi istituzio
nali nei quali gli indios sono pronti ad entrare, quanto — e soprattutto —
all’esterno di essi, dove il movimento indigeno quotidianamente cresce e si rafforza.
Marina Mannino
19 David Maybury-Lewis, In d ia n & P ro -In d ia n O rg a n iza tio n s in B r a z il , « Cultural Sur
vival Quarterly», Voi. 8, N. 4, 1984, pp. 19-21.
20 U n i e stu d a participaqao in d ig en a na C o n s titu in te , « Porantim », Brasilia, Novembro 1985,
Ano V ili, N. 81, p. 3.
21 O I n d io na C o n s titu in te , «Porantim », Brasilia, Outubro 1985, Ano V ili, N. 80, p. 6.
22 « Porantim » è una rivista mensile che si occupa esclusivamente dei problemi indigeni
ed è a cura del Cimi.
23 Benedite Prezia, S a n g ue e esperanpa, « Porantim », Brasilia, Novembri) 1985, Ano V ili.
N. 81. p. 2.
75
Situazione socio-politica degli indios in Argentina *
Nel territorio della repubblica Argentina vivono oggi quindici dei 410 gruppi
etnici del subcontinente latinoamericano; in tutto circa 300 mila persone di
differenti etnie: matacos, choropies, chulupies, tobas, moscovfes, pigalàes, guatanies,
chanes, collas, diaguito-calchaquies, mapuches, quechuas, ayamaràes, tehuelches e
onas. Molti altri gruppi sono scomparsi dopo l’arrivo del conquistatore bianco.
Con gli « aculturati » e i meticci con coscienza indigena — piu o meno 700.000 —
si raggiunge il milione di emarginati '.
Ognuno di questi raggruppamenti è attualmente soggetto a differenti gradi
di integrazione nella società argentina. Questo problema è molto complesso e
polemico per cui al momento lo accantoniamo per fare un poco di storia e
poterlo quindi meglio comprendere in seguito.
L’Argentina ha considerato per molto tempo fatti gloriosi le sue, chiamate
eufemisticamente, « Campagne del deserto » che non sono state altro che ucci
sioni indiscriminate, etnocidi, genocidi ad opera dei nostri governi nel secolo passato.
L’interesse per le terre abitate dagli indigeni era d ’ordine economico e stra
tegico; beneficiari soprattutto gli ufficiali vincitori nella guerra d ’indipendenza,
i già potenti latifondisti e lo stesso governo. La ribellione piu importante che
si conosca è quella capeggiata dal cacique Calcufurà — mapuche — nell’anno
1855. Si difesero coraggiosamente ma furono decimati. Il 25 maggio del 1879
è ricordato come il giorno della vittoria sull’indio. Il narratore di alcune Cro
nache delle « Campagne del deserto » conclude cosi la sua introduzione: « Una
volta di piu l’esercito contribuiva a rinvigorire l’argentinità della terra con il
concetto spirituale che nasce dall’eredità geografica fortificata dai diritti della
civiltà, questa parola d ’oro che ci hanno insegnato gli dei d ’Atene » (Conquista
al desierto. Crónicas de Remigio Lupo, expedición de 1879, recopiladas por
Bartolomé Galindez, Buenos Aires 1938).
Era anche un’altra la causa di questo massacro: si era svegliata in America
l’idea di civilización y barbarie. La filosofia positivista progressista aveva già
dato le direttive per il funzionamento « corretto » di una società. Questi con
cetti sono entrati dalla porta principale nell’Argentina francesizzata ed europeiz
zante e di tendenza liberale. Domingo F. Sarmiento, letterato e presidente della
repubblica dal 1868 al 1874 fu il principale propagatore di queste idee razziste.
Lo studio dell’attuale situazione socio-politica dell’indio è abbastanza diffi
cile e complessa dati i differenti gradi di integrazione a cui è soggetto nella so
cietà e che ci impedisce di vederlo chiaramente nel suo contesto. La nostra
esperienza personale vedendolo mietere i campi, fare il muratore in città o vivendo
in poblaciones allo stato puro, etnicamente parlando, con i suoi costumi tra
dizionali, ci ha fatto pensare ad una classificazione secondo il criterio geografico
che implica conseguenze sociali, politiche, culturali, economiche ecc.
A grandi linee si possono distinguere oggi tre modi di integrazione: 1 - nella
città; 2 - nella campagna; 3 - nel luogo originario.
1. - Nella città: dagli anni ’50 non c’è più immigrazione europea nelle città;
* La documentazione utilizzata per la realizzazione del presente articolo è disponibile
presso il Centro Studi Amerindiani della Fondazione Internazionale Lelio Basso.
1 Dati tratti dal rapporto del Dott. Eulogio Frites: L e terre o ccu p a te da lle c o m u n ità in d i
gene dal p u n to di vista d e l d ir itto p o sitiv o nella R e p u b b lic a A r g e n tin a , Buenos Aires, 1976,
patrocinato dall’Associazione Indigena della Repubblica Argentina. Personalità Giuridica Resi.
1997.IGPJ-76 (D.O. 13-9-76).
76
l’unica è quella dalle nazioni limitrofe e dai settori piu poveri del paese: tutte
e due con forte impronta indigena. I « bianchi » li chiamavano cabecitas negras
(testine nere), oltre ad altri epiteti peggiorativi: se ne vanno dalle loro terre in
cerca di sostentamento e molte volte concretamente dislocati e disgregati. L’indio
è visto come un ostacolo del lavoro di civilizzazione, « non capisce il beneficio
del progresso ». Un esempio potrebbe essere quello dei Parchi nazionali: il sud
nella provincia di Neuquén ha tre parchi nazionali, luoghi bellissimi, protetti
dal governo dal saccheggio della fauna e della flora. L’intenzione è lodevole da
ogni punto di vista, ma in queste zone gli indios hanno vissuto per secoli,
con gli alberi hanno fabbricato e riscaldato le loro case, si sono alimentati
con questi animali e del suo paesaggio hanno fatto la loro letteratura. Ora
tutto ciò può essere solo guardato e non toccato. Li hanno trasferiti in luoghi
inospitali e, come se non bastasse, hanno loro proibito di uccidere le bestie
dannose per essi e per il loro bestiame: i puma hanno piu valore degli uomini.
Bisogna però dire che gli indigeni hanno piena coscienza di ciò che offre loro
la natura e per questo ne hanno cura. Questo è uno dei motivi del loro trasfe
rimento nelle città. Ma ce ne_ sono altri: in alcune zone del nord argentino,
nella regione del Chaco, il disboscamento ha distrutto le case di alcune tribù;
tutta l’ecologia si è modificata e per questo hanno dovuto andarsene in luoghi
più adatti alla loro esistenza. Questo esodo porta conseguenze funeste alla con
figurazione dell’unità e identità del gruppo etnico, non solo economicamente
ma anche psicologicamente, socialmente e culturalmente. Si incide dolorosamente
sul modo di pensare, si combatte con schemi culturali differenti imposti auto
ritariamente dal potere, si sbandierano verità assolute che un popolo pacifico e
aperto non può ne vuole contrastare. È il lavoro della propaganda occidenta
lizzante e capitalista e della chiesa, in alcune zone del paese; relegare le tribù
in riserve isolate è stata la continuazione, con mezzi pacifici, dell’invasore che ha
impedito il mantenimento dei vincoli essenziali per la conservazione delle culture
indigene. Inoltre tutti i governi argentini tolleravano e a volte fomentavano
l’intrusione nei villaggi di non indios che spogliavano queste comunità di gran
parte delle loro già scarse terre.
La realtà della povertà da un lato e la svalorizzazione della loro cultura dal
l’altro, porta quindi i più giovani e i più insicuri a trasferirsi, credendo di
trovare in centri più popolosi maggiori possibilità di benessere. Vivono nelle
città dove si sono trasferiti sempre come stranieri, come paria, e come tali abitano
nei quartieri più bassi. L’ignoranza e il dolore davanti alla terra d ’altri li man
tiene in uno stato totale di sottomissione e diventano un bocconcino facile per
gli speculatori. Fanno i muratori, lavorano nelle fabbriche come peones, perso
nale di pulizia, poliziotti, e le donne fanno le domestiche. I soldi che guada
gnano non bastano assolutamente per vivere, l’obiettivo per cui se ne andarono
dalle loro case non si realizza, con l’aggravante di aver perso le proprie usanze,
i propri costumi, la propria identità, i propri valori.
2.
- Nella campagna: il trattamento non è migliore. A volte fanno parte di
gruppi di braccianti, o hanno altre mansioni, le più pesanti come caricare, arare,
disinfestare ecc. Perdono la loro vita in dodici, quattordici ore di lavoro mal
retribuito. Allo stesso tempo emerge un altro fenomeno: il contadino non-indio,
questo figlio di gaucho dislocato, li disprezza; sembrano essere lo specchio in
cui non vuole guardarsi, non sopporta la passività con cui l’indio accetta la
sua sorte, però l’impotenza è la stessa, solo che il criollo la soffre maggiormente.
I contratti di lavoro sono a termine e sono obbligati a trasferirsi continuamente, il che vuol dire che non si fermano mai il tempo sufficiente per co
struirsi una casa; una volta di più dipendono dalle decisioni dei potenti: quello
77
che non serve si butta via. E cosi rimangono le madri coi bambini piccoli e
i vecchi, mentre i piu giovani seguono il loro cammino dietro le stagioni. Questo
dà luogo a un altro fenomeno: si vanno via via assimilando alla città senza
esserne mai riconosciuti. Ma dato che non si può vivere isolati e rifiutati, i figli
di queste comunità marginali si integrano poco a poco alla società parallela;
cominciano con l’edilizia, poi nelle fabbriche, nel servizio domestico, e cosi di
menticano per sempre i costumi dei loro antenati: se la tradizione porta tanta
sfortuna è meglio seppellirla. La domanda è allora: quale tradizione adottare?
Ed è qui che una gran parte dei nostri compatrioti resta senza radici, senza
storia, senza identità.
3.
- Nel luogo originario: in questa terza posizione si trovano i gruppi etnici
che conservano caratteristiche culturali ed economiche tradizionali. Prima di tutto
dobbiamo far riferimento alla costante ostilità e ingiustizia di cui sono oggetto,
al di là della conosciuta e concreta usurpazione delle terre; questo disprezzo che
si usa anche come pretesto per derubarli: il caso dei mapuches della comunità
di Currihuinca che consta di 550 persone — circa 70 famiglie — sono periodicametne saccheggiati dai cileni e guappi argentini, e persino gli stessi poliziotti
di frontiera collaborano a questi attentati. Impediscono di vendere i loro pro
dotti alle popolazioni dei dintorni, adducendo la mancanza di igiene, di tecnica ecc.,
però quando loro l’accettano credono d ’avere il diritto di imporre prezzi bas
sissimi e se lo ritengono conveniente si portano via anche tutta la mercanzia.
Non è una novità quanto poco è pagato l’artigianato, una coperta mapuche, la
matra, per cui servono due mesi di lavoro, viene pagata come un paio di jeans.
Si critica la loro passività nell’apprendere, ma non ci sono scuole in molti
villaggi e le poche che esistono sono dirette da persone che non si rendono
conto del materiale umano col quale operano: le lezioni sono tenute esclusi
vamente in spagnolo, le materie scelte non servono per aiutarli a migliorare la
loro vita perché non sono di indirizzo pratico: non si insegna a coltivare la terra,
né a curare il bestiame, né si danno nozioni elementari di pronto soccorso, gli
insegnanti non capiscono che c’è assai piu bisogno di loro qui che nelle città,
non sentono gratitudine per il loro popolo generoso. Per essere indios e non
sottomettersi passivamente alle leggi della società, sono privi, fra le altre cose,
di una assistenza medica adeguata. A Neuquen ci sono 28 sanitari per 8.600
indios; non esistono veterinari, agronomi che insegnino loro a individuare le
malattie delle piante, però ci sono le reti metalliche per « civilizzare ». I posti
peggiori, i terreni piu aridi e più freddi, sono destinati a loro, gli antichi padroni
della terra; non ci dimentichiamo che anche loro sono argentini2.
In Argentina, l’indio si identifica con l’oppresso, il relegato, Pignorato, e
la sua classe sociale è quella indicata come bassa o proletaria, vittima delle
convenienze, dell’ambizione, dell’ignoranza o per comodità di un settore dello
stesso popolo argentino. Però malgrado questa già dolorosa identificazione pos
siamo dire che gli indios stanno ancora peggio perché la spogliazione a cui
sono soggetti è ancora più profonda. Dato che finora abbiamo parlato della
situazione economico-sociale, vorrei soffermarmi adesso, sia pur brevemente, sulla
terza divisione o gruppo in cui è più evidente l’oltraggio ideologico e culturale;
2
Abbiamo in nostro possesso il Progetto di legge di « Appoggio alle comunità degli abo
rigeni », approvato dal Senato e che, abbiamo appreso in via non ufficiale, è stato approvato
anche dalla Camera. Purtroppo però non disponiamo del testo pubblicato, né sappiamo nulla
circa i modi che verranno impiegati per la sua attuazione. Questo documento è datato luglio
1985, mentre l’approvazione definitiva è avvenuta a metà novembre.
78
la connessione con quanto detto prima salta agli occhi. Cercherò di riassumere
la visione cosmica dell’indio su certi aspetti della realtà.
E una credenza comune che l’indigeno vive come un selvaggio ignorante e
anarchico, che a lui fa lo stesso una cosa o un’altra, che gli basta solo mangiare,
bere e ballare, che non soffre la solitudine, l ’emarginazione, le sconfitte, l’esilio.
Per contro qualunque sia la sua religione e le sue idiosincrasie, gli è chiaro
il suo posto nel mondo, e cosi i suoi problemi e le sue necessità. Non ci
soffermeremo sulla coscienza indigena — perché è di questo che si tratta —
ma descriveremo il ruolo che giocano certi elementi 3.
Essenziale senza dubbio è la terra: « L’indio senza terra è un indio morto »
— dice un cacique meticcio. D ’economia prettamente rurale, la terra diventa
indispensabile per la sua sussistenza. In quanto allo spirituale, questo è molto
piu importante. L’antropologo Salvador Palomino Llores, quechua peruviano, con
sigliere del Cisa (Consejo indio de America del Sur) dice: « ... amiamo la Natura
perché noi consideriamo la Madre Terra, che in quechua chiamiamo Pacha Mama,
non come qualcosa che si deve conquistare o trasformare al servizio egoista
dell’uomo; è nostra Madre perché tutta la vita viene da lei, noi stessi siamo
parte di questa terra, per questo diventiamo collettività. Il sistema imperialista
conquistatore, depredatore, non ama la Natura, va contro le leggi della Natura ».
Anche i loro morti stanno in questa terra e lasciarli è lasciare una parte
della loro storia, dei loro protettori, dei loro dei; è terribile immaginare il giorno
in cui la poesia e la musica del paesaggio e i costumi non sia piu una realtà
perché manca il referente: perché parlare di pini, di laghi, del pehuen?
Un altro degli elementi da considerare è la comunità, della quale l’indio
ha un’idea molto precisa: tutto è di tutti, tutti lavorano per il benessere di
tutti e questo è possibile perché la Natura è generosa. Il gruppo etnico è una
grande famiglia con ruoli ben definiti; questo non è mancanza di libertà ma
ordine. L’idea comunitaria si basa sul profondo rispetto che l’indio ha per « l’altro »
che non poche volte gli è costato l’invasione o l’appellativo di sciocco. Crede
nel pluralismo delle idee e piu ancora nell’arricchimento mutuo delle culture;
per questo si aspetta aiuti dall’esterno e li gradisce. Nei gruppi indigeni c’è
una chiara posizione politica: pluralismo, rispetto reciproco, sistema di alleanze.
Una riflessione: quanto grande sarà il dolore di fronte alla costante disgregazione
a cui lo sottopone l’uomo bianco? Prima, gli fa credere che non c’è a sufficienza
per tutti, creando cosi una dannosa competitività fino ad arrivare a vedere il
fratello come un nemico. Secondo, il trasferimento in luoghi sterili lo tra
sformano, suo malgrado in un predatore dei beni naturali (ricordiamo che l’idea
di comunità si estende fino agli elementi della Natura). Terzo, tutti gli oggetti
reali, comprese le persone, si possono commerciare; l’indio è la prima vittima
di ciò e di conseguenza deve distoreere anche i suoi valori. Quarto, una cultura
può dominare impunemente su un’altra, quindi l’idea di comunità armonica
universale non ha senso in quanto pecca di ingenuità.
Dario Millain, mapuche, rappresentante di Loncopué (Nequén) e di Nehuén
Mapu (Associazione d ’aborigeni urbani di Neuquén) dice: « (questo fratello) ci
ha chiarito un po’ il significato di quello chiamato impropriamente Impero Pe3
La maggior parte dei concetti qui esposti sono stati tratti dai documenti delle « Prime
giornate dell’indianità », che hanno avuto luogo a Buenos Aires, nei giorni 14 e 15 aprile
1984. Abbiamo anche notizie dalle « Seconde giornate dell’indianità », che hanno avuto luogo
a Buenos Aires il 22 luglio del 1985, ma di queste ultime abbiamo soltanto il ternario pro
posto dall’Assemblea permanente dei diritti umani: I - Analizzare ed unificare i problemi
comuni per regione. II - Ricerca di soluzioni.
79
ruviano che non è mai esistito, perché il termine “impero” è dell’occidente;
cosi come non è mai esistita una famiglia reale nell’alto Peru ». La perdita di
identità cioè dei valori che si esplicano nel quotidiano, si manifesta nello scon
certo, nell’immobilismo, nell’inerzia, nell’inattività.
Un altro elemento importante da analizzare è il lavoro. Tema difficile da
trattare brevemente giacché significa il « fare » dell’indigeno. Gli appellativi di
pigro, passivo, indolente, gli sono stati attribuiti per l’incomprensione altrui del
suo modo di concepire la vita: mi piace definire l’indio come un’essere contem
plativo, per il quale la vita non è progresso nel senso di avere, di costruire,
popolare il mondo di oggetti, oggettivare il mondo per modificarlo. Il lavoro,
il suo fare è sempre in funzione del mantenimento materiale, al quale, d ’altra
parte dà la sua giusta importanza; non vuole accumulare beni aspettando il
giorno in cui potrà sdraiarsi a filosofare senza problemi, come pare essere l’aspi
razione di molti occidentali. L’indio è molto cosciente che la vita passa, la
morte arriva inesorabilmente, lo sa da sempre, non lo dimentica mai, e per
questo sceglie come viverla adesso, senza incognite del futuro. Non è un
fanatico del lavoro anche se non lo sfugge, né vuole sfruttare alcuno per il
proprio benessere; se cosi fosse sappiamo che qualunque essere umano, anche
il più mediocre può sfruttare un altro essere.
Sulla religione è impossibile parlare genericamente, in quanto si tratta di
differenti etnie, però possiamo riferirci alla concezione cosmica in cui tutti gli
elementi sono in armonia. Religione è culto, riti, magia, aiuto spirituale, aiuto
corporale; è Viracocha, Nguenechén, Tokjwaj, Namandu, sono le pratiche me
dicinali, sono le feste, il cordone ombelicale che li unisce all’Universo. Questo
è il punto culminante ancora irrisolto: come si può integrare questo essere cul
turalmente autonomo alla società argentina? I costumi non si possono unificare
se si vogliono rispettare. È un problema complesso pressoché irrisolvibile: loro
stessi hanno fatto delle proposte che citeremo più avanti.
L’antropologo Guillermo Magrassi dice in una intervista apparsa sul « G arin »
del 5 gennaio 1984: « Nessun paese e tanto meno una nazione possono costituirsi
se non hanno le loro radici ben fissate nella loro terra, altrimenti siamo po
tenzialmente dei mercenari permanenti in attesa che qualche giorno ci richiedano
in qualche parte del mondo dove supponiamo di essere più felici ». Più avanti
aggiunge: « Il miglior modo di dominare un paese, un popolo o una persona
è fare in modo che non conosca sé stessa ». Impedire a un popolo di parlare la
propria lingua, di vivere secondo i propri costumi purificati dai secoli, è com
mettere un etnocidio. Di questo si sono accorti a poco a poco gli argentini,
cioè dell’autoetnocidio. È avvenuto anche in altre nazioni latinoamericane. Esiste
una inquietudine già da molto tempo, ma tutte le teorie al riguardo sono state
inutili e impotenti, perché avevano il difetto di rimanere li rinchiuse nei libri.
Per varie ragioni: la prima è senza dubbio l’aver avuto governi dittatoriali che
hanno impedito la formazione di una vera identità, boicottando la diffusione
di queste idee. Ma è stata anche la nostra cecità, quella degli intellettuali che
per convenienza o per comodità hanno rifiutato questi nostri fratelli. Vederli
poteva voler dire amarli, prenderli in considerazione, sostenerli, vivere le loro
miserie ed anche sentirci poveri con quello che abbiamo, che sono solo parole.
Siamo disposti a tornare al popolo con quello che abbiamo imparato, a soffrire
le loro oppressioni? O è più comodo teorizzare dalle cattedre universitarie, dalle
città, in ospedali dagli equipaggiamenti modernissimi, in centri di studi in
ternazionali?
Nessun schema prestabilito può portare rimedio al nostro male vecchio di
80
secoli. Però nella nostra mentalità sono rimaste depositate certe credenze in
digene che non si cancelleranno mai anche se vogliamo ignorarle. Questo ha
creato, insieme ad una apertura democratica, un interesse crescente nei riguardi
delle nostre radici che si sono manifestate in pubblicazioni, studi, filmati ecc.
Questo ha permesso che in Argentina si organizzassero le « Prime giornate
dell’Indianità » patrocinate dall’Assemblea permanente dei diritti umani: le ci
tazioni fatte in precedenza venivano da indios che vi hanno partecipato. Gli
oratori indigeni erano dieci, ma ne erano presenti più di 50 nelle Tavole di
lavoro con un pubblico di più di 300 persone. Ci pare utile pubblicare qui al
cune delle conclusioni a cui si è arrivati, proposte, proteste e denuncie.
Proteste (tratte dalle esposizioni dei fratelli indios).
« Questa azione distruttiva delle comunità ha avuto come conseguenza l’emi
grazione di una grande quantità di giovani, che cercavano la loro salvezza indi
viduale, di fronte all’antico crollo della vita. (Domingo Colleque, rappresentante
mapuche di Rio Negro).
« ...abbiamo messo tutta la volontà per farlo, è stata creata la Confedera
zione indigena delle Valli Calchaquies, ed abbiamo bussato a tutte le porte,
ma non abbiamo avuto alcun risultato... È inoltre inutile dire che sono stato
perseguitato fino a poco tempo fa, sono stato incarcerato... (Pedro Santana,
cacique calchaqui della provincia di Tucumàn).
« Non hanno preso in considerazione gli indios neanche per formare la Co
stituzione Nazionale... La legge 14/932 riconosce l’accordo 107 nella sua incom
pletezza e parla anche dei diritti dei gruppi indigeni, dei gruppi semi tribali
e di quelli tribali. Oltre a non creare una legislazione appropriata, essi non mettono
in pratica neanche i diritti già riconosciuti. Noi chiederemmo, nel caso ci dices
sero che dobbiamo integrarci in questa società nazionale, se sia giusto ed eti
camente morale per i nuovi paesi creati sui territori delle nazioni degli indios,
non riconoscere la totalità dei diritti dei nostri popoli, ma non come gruppi etnici
o gruppi tribali e semitribali. » (Jorge Valiente, rappresentante del Cenko, Cen
tro Colla).
« ...Perché una polveriera in Centroamerica, nel Salvador, quando abbiamo
avuto un sistema di vita ed abbiamo avuto un sistema di governo con i quali
il nostro popolo ha vissuto in armonia, ed in armonia con la Natura. E, guardate
voi a destra, e voi a sinistra, come ci stanno dissanguando. E anche questo
noi rifiutiamo. » (Fausto Duràn, colla del Movimento Indio Peronista).
Denunce (tratte dalle esposizioni dei fratelli indios e da quelle incluse nel rap
porto elaborato nel corso delle stesse « Giornate »).
« ...Siamo gli indigeni chané della provincia di Salta, a 32 Km. dalla fron
tiera con la Bolivia. Ma la terra che abbiamo non ci è sufficiente; sono 100
ettari per 847 indios agricoltori, decisi a lavorare ». (Sergio Rojas, cacique
chané di Salta).
«La fabbrica El Tabacai caccierà l’anno prossimo 300 famiglie, circa 1.500
persone; cancellerà un intero villaggio. Vi sono state pressioni per far loro
firmare l’accettazione dello sfratto. Fratelli che hanno vissuto li per secoli, an
cestralmente, che hanno affondato le loro radici in quei posti, mentre un signore
come Patron Costa si permette il lusso di voler cancellare un popolo. Per
81
questo noi siamo qui » « ...i nostri fratelli sono tenuti rinchiusi come bestie
da cortile. Io ho visto quelle riserve che sembrano campi di concentramento.
Dove la democrazia?, io mi chiedo. Ed ancora non sono state prese delle misure.
Qui le responsabili sono le sette religiose. E se vi è qualche religioso al quale
non piace ciò che dico, bene, che mi perdoni, ma questa è la realtà » (Fausto
Duràn, Colla del Movimento Indio Peronista).
— Nelle saline di Jujuy e Salta, che erano state riconosciute come patrimonio
ancestrale degli abitanti della zona, si stanno consegnando aree per lo sfrutta
mento privato.
— A Iruya, in un luogo chiamato Isla de Canas, vogliono cacciare una intera
comunità. La fattoria Santiago, della fabbrica La Esperanza, ha detto loro che
si devono trasferire alla Puna, che è una zona arida dove non potranno si
curamente vivere, perché ora li devono creare una piantagione di caffè.
— Al Nord esistono comunità come i Mormoni, alcune chiese apocalittiche
e di altro tipo, come nel 1960 fu l ’Alleanza per il Progresso. Questi hanno
il loro programma di colonizzazione e con le loro idee evangelizzatrici occultano
una campagna di sterilizzazione. Parlavano alle nostre donne del parto indolore
ma in realtà le stavano sterilizzando.
Proposte. I temi vennero ordinati nel seguente modo: Diritti territoriali, diritti
culturali, diritti socio-economici, politica ed organizzazione, e validità dei diritti
indios. Le richieste vennero fatte in base a questo schema: 4
I. - Diritti Territoriali (Discriminazione razziale art. 5 Onu, art. 17 punti 1 e 2,
Oit Convenzione 187. Diritti socio-economici art. 2).
a) Rapporto dell’indio con la terra;
b) forme di appropriazione della terra da parte degli abitanti originari di
questo continente e sua configurazione come violazione dei diritti umani;
c) proprietà comune. Proprietà delle Risorse naturali e preservazione del
l’ambiente.
II. - Diritti Culturali (Onu articoli 26 e 27; Diritti Socio-economici artt. 13,
15, 17 e 27; Discriminazione razziale artt. 5 e VII).
a) rivendicazione storica e culturale dei popoli indios;
b) istruzione bilingue, biculturale e impartita da maestri indios;
c) conformazione di una società multietnica e pluriculturale basata sul rispetto
e sul mutuo arricchimento;
d) introduzione di culti estranei alle comunità come elemento di arricchimento
culturale.
III. - Diritti socio-economici (Artt. 22, 23 e 25 Onu; Diritti socio-economici
artt. 2, 9, 10, I l e 12; Diritti civili e politici artt. 23, 14, 24 e 26).
a) diritto a condizioni di vita dignitose (salute, casa, mezzi di sussistenza);
b) riconoscimento della responsabilità dello stato alla concessione di contributi
per attenuare le attuali necessità e promuovere l ’autogestione e la partecipazione;
4
II programma di queste Giornate assomiglia senza dubbio ai punti toccati dal Progetto
di legge, del quale abbiamo parlato anteriormente.
82
c) rivitalizzazione dell’economia comunitaria e collettivista e delle sue or
ganizzazioni;
d) legislazione del lavoro e previdenza sociale.
IV. - Organizzazione politica e partecipazione (Diritti civili e politici, art. 25).
a) protagonismo e partecipazione nelle decisioni nazionali;
b) presenza negli organismi internazionali (Onu, Cmpi);
c) filosofia dell’indianismo.
V. - Genocidio e razzismo.
a) campagna di sterminio delle comunità; campagne militari (Es.: conquista
del deserto); trasferimenti forzati; campagne di sterilizzazione; integrazione for
zata (perdita dell’integrità); emarginazione e sottomissione a condizioni di vita
che li condannano alla estinzione, alla scomparsa della comunità. Razzismo.
b) sviluppo culturale.
VI.
Per
rispetto
siderate
- Genocidio
ogni punto
dei diritti.
come le piu
ed etnocidio contemporaneo.
sono state proposte soluzioni, miglioramenti, rivendicazioni,
Qui abbiamo riportato le parti solo che abbiamo con
significative ed originali.
« Noi, nell’ambito del Tawantisuyu, ci siamo organizzati in base ad alleanze.
La prima unità è stata il ayllu, una unità che più o meno riuniva 100 famiglie.
Vi erano migliaia e migliaia di ayllus in tutto il Sudamerica, « riconosciute in
diverse lingue, con differenti termini, ma unite come una cellula; poi veniva
l’alleanza degli ayllu per creare le nazioni, quindi l’alleanza di queste ultime per
formare i suyus, i quattro suyus del Tawantinsuyu: l’Antisuyu, nella zona delle
foreste, il Chinchasuyu, verso il nord, il Kuntisuyu ad ovest, e il Kollasuyu
verso sud.
E non soltanto il pezzetto delle Ande era un modello per tutto il Sudamerica.
Per questo il Tawantisuyo rappresenta per noi un modello di società col
lettiva e comunitaria. Per noi è un modello e non, come dicono molti, ‘se voi
pensate al Tawantisuvu, è perché state pensando di tornare al passato, e questo
non è possibile’. No, per noi rappresenta un modello che può funzionare anche
da qui a 5000 anni, anche se siamo arrivati sulla Luna. Come modello può
funzionare perché è il modello di una società collettivista e comunitaria » « ...Quindi,
fratelli, se prima l’Occidente ha esercitato l’egoismo sul nostro popolo, domi
nandoci egemonicametne, noi oggi proponiamo, non un egemonismo indio, ma
l’uguaglianza e la diversità; e se vogliamo creare nazioni più grandi, bene, ma
facciamolo sulla base di alleanze. (Salvador Palomino Flores, quechua peruviano).
A conclusione di questo lavoro, e in stretto rapporto con le ultime parole
del fratello indio, non possiamo non dire — anche se la proposta ristruttura
zione politica dell’America latina attraverso il sistema delle alleanze appare uto
pica — che le alleanze esistono già da molto tempo, e che sono quelle stabilite
tra le classi dominatrici. Riassumiamo quindi il problema dell’indio in un con
testo più ampio che, purtroppo, coinvolge troppi latinoamericani.
Maria Lidia Garro
Ricercatrice argentina
83
Cosi mi è nata la coscienza
1
Mi chiamo Rigoberta Menchù
Me IIamo Rigoberta Menchù y asi me nació la conciencia, con questo titolo
la casa editrice messicana Siglo XXI pubblica, nel 1985, un libro di cui appa
rentemente l’autrice è Elisabeth Burgos. In realtà, la Burgos non ne è né l’autri
ce, né la curatrice, giacché non si propone come etnologa che intenda, attraverso
interviste, rimanipolare e rielaborare mentalità altre come oggetti di laboratorio.
Potrebbe essere definita depositaria di una testimonianza, « ... una sorta di dop
pio, uno sfruttamento attraverso il quale la testimonianza passa dalla forma orale
alla forma scritta... » 2, come lei stessa dichiara. Elisabeth Burgos si propone come
doppio di Rigoberta Menchù, giovane ventitreenne quiché che al momento della
stesura dell’opera ha appena imparato la lingua spagnola. Ci troviamo, pertanto
di fronte a un libro di contenuto indigenista che però non risponde agli schemi
della letteratura indigenista, sia per la forma, sia per l’intenzione extraletteraria.
Ma la novità non è da cercarsi in queste divergenze; già nel titolo ci sono due
indizi ben precisi di una innovazione rispetto alla precedente letteratura indigenista di orientamento socio-politico, antropologico o storico-letterario.
La dichiarazione in prima persona, mi chiamo, sposta quest’opera in un ver
sante assolutamente nuovo. Nuovo non tanto per il genere, ma per l’istanza af
fermativa di causa e affetto che esplicita e difende una presa di coscienza. La for
za racchiusa nell’affermazione del proprio nome va oltre una semplice afferma
zione semantica: è il primo segno di riappropriazione di una identità negata. Fin®
a questo momento indios erano stati chiamati: chiamati e battezzati con l’arrivo
degli spagnoli con un nome improprio dovuto all’errore « originale » di Colombo.
Descritti con toni affettuosi, ma non per questo meno paternalistici, nella lettera
tura di denuncia, o ritratti in tutte le loro miserie, per suscitare la pietà. Elevati
a mito, in una visione nostalgica del passato, nel tentativo di restituire a quel mito
un contenuto storico che rafforzasse la denuncia. Ma comunque sempre connotati
dall’esterno.
L’innovazione anticipata dal titolo risiede proprio in quella affermazione per
sonale di identità e non di nominalità, che consente a Rigoberta Menchù, autore
e personaggio, di poter fare pubblica, con la storia della propria vita, attraverso
il tessuto narrativo autobiografico, la vita della comunità cui appartiene.
La parola
Me llamo Rigoberta... potrebbe collocarsi nella linea dei racconti autobiogra
fici di schiavi affidati alla penna di uno scrittore o al registratore di un antropo
logo. Rispetto a quelli inaugura una modalità di contenuto: il mondo indigeno.
Se poi si tiene conto della peculiarità del referente, lo schema potrebbe avere
dei precedenti illustri anche in un tipo particolare di cronache sulle testimonanze dei vinti; mentre il suo configurarsi come denuncia fatta a partire dalla pro
pria esperienza personale, non può non rinviare a certa letteratura testimoniale
1 Questo lavoro è parte di uno studio piu ampio sulle marginalità e la letteratura in A. L.
che sarà pubblicato a cura delle autrici.
2 pag. 18. A partire da questo momento i numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine
delle edizioni citate.
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che, in molti paesi latinoamericani, indaga la realtà con il metodo della finzione,
riuscendo a ricostruire fatti e persone.
Molti dei momenti fondamentali della storia di Rigoberta informano sulla tra
dizione quiché. Lo spunto nasce dalla descrizione della vita familiare in rapporto
alla comunità. Dal rituale della nascita a quello della morte, Rigoberta racconta
il proprio mondo contadino con le sue pratiche magico-religiose legate alla terra;
racconta gli usi, i costumi e le credenze. Quasi sottovoce costruisce una rappre
sentazione di quel mondo con toni idillici. Le rapide annotazioni sul contesto con
tadino e su quello urbano sanciscono un’opposizione insuperabile tra la vita indi
gena della comunità e quella dei ladini. In una spinta utopica di nostalgia Rigoberta cerca di collocare la sua cultura ad un livello etico superiore, fondato sui
valori quali il rispetto e l’amore. Questi stessi valori stanno alla base del rapporto
dell’uomo con la natura. L’uomo quiché è natura, convive e esiste in essa, ma non
per per questo è politeista, si affretta a dire Ribogerta, « ... noi non adoriamo,
rispettiamo la cose della natura... » « Dobbiamo rispettare l’unico Dio, il cuore
del cielo, che è il sole... »; si deve rispettare l’acqua « sacra e pura », perché è
essenziale. In questa cosmogonia anche la terra è sacra: « Figli, la terra è la ma
dre dell’uomo perché lo nutre... La terra può essere ferita solo quando è neces
sario... Prima di seminare la nostra milpa dobbiamo chiedere il permesso alla ter
ra » (p. 80-81). La dolcezza del ricordo non la esime dal riferire una vita di dolore
e di rassegnazione alla quale è condannata.
La visione idilliaca, fatta di memoria storica e di mito, si intreccia nel racconto
autobiografico con un secondo livello narrativo: quello di un mondo di lavoro im
posto con violenza che irrompe nella vita di Rigoberta determinando una quoti
dianità niente affatto idilliaca. Nei campi di caffè o di cotone, dove Rigoberta è
costretta, addirittura predestinata, a lavorare fin da bambina, il sole, « cuore del
cielo », si trasforma in pura scansione temporale che regola un lavoro disumano
dall’alba al tramonto. La terra, fonte di vita, diventa fonte di accumulazione
di ricchezze assolutamente estranee. La visione armonica dell’ordine universale
che regola la natura diventa per Rigoberta, schiacciata, a soli otto anni, sotto il
peso di un lavoro che assoggetta la natura, invece di rispettarla, appena un ricordo
da recuperare.
Da principio rassegnata alla violenza di quel mondo, si ribella quando si vede
negato anche il diritto alla lotta contro la morte. Alla violenza del lavoro, alla
fame, all’abbandono, si aggiunge la violenza dell’isolamento, della impossibilità
di comunicare.
Quando nella piantagione di caffè, Rigoberta bambina assiste alla morte del
fratello per denutrizione, l’assenza di comunicazione verbale con gli altri gruppi
etnici diventa un corollario di una situazione drammatica di sfruttamento che va
oltre le determinazioni economiche e che si radica in uno schema culturale di
negazione — prima imposta e successivamente codificata. Sicché la conoscenza
della lingua dominante si prefigura innanzitutto come valutazione della parola,
intesa come arma da usare, paradossalmente, contro chi è responsabile di quella
negazione e di quello sfruttamento.
Prima di Rigoberta, la scrittrice messicana Rosario Castellanos aveva detto:
« ... e allora collerici, ci hanno saccheggiato, ci hanno strappato ciò che era piu
prezioso, la parola, che è l’arca della memoria... ». Con questa frase che apre il
romanzo Balun Canàn (1957), la Castellanos agglutina in una sintesi improntata
alla rassegnazione il segno piu nascosto e, al tempo stesso, piu drammatico della
conquista: la cancellazione delle culture dei vinti attraverso la loro condanna al
silenzio. Un silenzio ottenuto con l’imposizione di un’altra lingua.
Alla collera Rigoberta risponde con la collera. Il suo racconto, lungo il per85
corso della memoria, si impregna di una rabbia che ha origine nell’impossibilità
di esprimersi in prima persona: « Di solito si dice: poveri indios che non sanno
parlare, al posto loro parlano altri; perciò mi sono decisa a imparare lo spagnolo ».
Questa determinazione codifica il senso di isolamento già provato quando
il fratello muore tra l’indifferenza generale, dovuta sia alla spietatezza del pa
drone, sia alla impossibilità di comunicazione con le altre etnie e che Rigoberta
vive non come puro fatto verbale ma come alternativa tragica tra vita e morte.
La collega di Rigoberta va prendendo forma a poco a poco e alla rassegnata
affermazione della Castellanos oppone una ribellione personale che acquista le
dimensioni di un progetto politico vero e proprio. Ha capito che il primo passo
per attuare quel progetto è l’assunzione della parola altra. Esiste la parola pro
pria che è il passato; la memoria è, per Ribogerta come per la Castellanos, l’og
getto piu prezioso, strappato con la forza. Ma a poco serve commiserarsi; e nem
meno può essere di aiuto che altri piangano sulle miserie degli indigeni. Rigoberta
non riesce a nascondere il proprio atteggiamento critico per ogni espressione di
solidarietà verso gli indigeni che venga dall’esterno. Sa di appartenere a un mon
do che non ha niente a che vedere con quello dei bianchi ed è disposta, pur
di difenderlo, a mediare, ad accettare — per poter parlare — la lingua dei sac
cheggiatori.
Rigoberta assume le parole come armi e annulla nella sintesi implicita nel suo
racconto l’apparente contraddizione tra lo sconforto rassegnato della scrittrice mes
sicana e la considerazione di P. Neruda che, in Confesso che ho vissuto (1974)
dichiara: « E fummo vincitori, si portarono via tutto, ci lasciarono tutto... ci la
sciarono le parole... » Rigoberta forse ha capito che le parole hanno avuto un
esito diverso tra i gruppi che sono nati dalla società coloniale; per gli indigeni
sopravvissuti hanno sancito la condanna al silenzio. Nella tradizione popolare,
per fare un esempio, l’impossibilità di comunicare, è attuata nel Dramma di Oruro,
attraverso un espediente scenico che costringe gli attori che interpretano la parte
degli spagnoli a muovere la labbra senza proferire parola. La metafora letteraria
è andata oltre, in Scorza, il comunero ribelle, Garabombo, diventa invisibile agli
occhi del potere istituzionalizzato; per Garabombo l’invisibilità ha la stessa va
lenza del silenzio3. Nell’universo dei vinti, la parola, in quanto arca della memoria,
rappresenta dunque tutto: passato, e in quanto tale, presente e futuro. In fun
zione di quel passato, per uscire dal silenzio e dall ’invisibilità metaforica, Rigoberta sente l’esigenza di affermarsi come entità cosciente per entrare a far parte
della propria realtà storica come soggetto e non piu come oggetto. È in questa
esigenza che è possibile individuare un elemento nuovo rispetto a tutta una tra
dizione di riflessioni sull’indio, sia letteraria che saggistica.
La scrittura
In genere la letteratura indigenista presenta uno schema obbligato che com
bina quattro variabili: il produttore dell'istanza narrativa, il testo, il referente
e il destinatario 4. L’autore, il testo e il lettore appartengono sempre ad uno stesso
spazio, quello del bianco, mentre il referente appartiene allo spazio dell’indio. Nem
meno la narrativa di J. M. Arguedas, che rappresenta uno dei momenti più intensi
della letteratura indigenista peruviana, sfugge a questa disposizione. In genere, nel3 L. Terracini, I l grado zero della d iffu s io n e , in T erra A m e ric a , Torino, La Rosa, 1979.
4 Cfr. a questo proposito A. Cornejo Polar, S o b re lite ra tu ra y critica la tin o a m erica n a , Cara
cas, Universidad Central de Venezuela. 1981.
86
lo spazio àe\Yindio compare un personaggio che funge da mediatore e accorcia le
distanze tra i due contesti. A questo personaggio spesso viene ascritto un punto di
vista, erroneamente considerato interno al contesto indigeno, che in realtà è sol
tanto vicino o a favore di quel contesto.
In Me llamo Rigoberta... la combinazione delle variabili è diversa. Non essendo
la Burgos autrice ma Rigoberta, india quiché, autore e referente hanno la stessa
segnicità. La Burgos, in questa occasione, svolge il ruolo che nello schema tradi
zionale era del personaggio che accorciava le distanze tra i due spazi. Cosi, quella
mediazione che nella letteratura indigenista era interna al testo, diventa qui espli
citamente esterna. La Burgos, puro mezzo di scrittura, lascia a Rigoberta l’intero
spazio della narrazione. Anche se ancora non ci troviamo di fronte ad un prodotto
letterario perfettamente compiuto in quanto tale, quest'opera apre una prospettiva
per una nuova forma di espressione della cultura degli indigeni. Ed è per questo
che abbiamo individuato parallelismi con le autobiografie di schiavi e la letteratura
indigenista quali Juan Pérez Jolote (1952) di Ricardo Pozas, che si collocano a
metà strada tra la letteratura di finzione e l’analisi antropologica. Juan Pérez Jo
lote, giovane indio del grupo chamula, passa dall’essere mero oggetto di laboratorio
a personaggio narrativo; ma proprio l’operazione mediatrice che rende l’opera piu
raffinata dal punto di vista letterario toglie forza all’indio come oggetto produt
tore. La rimanipolazione dell’antropologo prende il sopravvento, quella che poteva
essere un’autobiografia si trasforma — nonostante la narrazione in prima persona
— in biografia.
Di contro, Rigoberta, cosciente della forza della parola che ha acquisito, ac
cetta di prendere in prestito la scrittura, permettendo cosi che la finzione ceda il
passo alla realtà.
La tradizione della letteratura indigenista è stata alterata. Me llamo Rigoberta...
è, quali che siano gli espedienti, un testo autoreferenziale. Accettando la scrittura
in prestito, Rigoberta riesce a far sopravvivere la realtà cui appartiene, non solo
come esperienza personale ma come vero e proprio documento storico. Quattro
secoli prima, Linea Garcilaso aveva compiuto un’operazione analoga: consacrare
alla posterità la cultura Inca con le parole e la scrittura dei vincitori.
Il progetto di esistere
A questo punto dell’analisi non possiamo fare a meno di prendere in conside
razione un libro pubblicato in Messico, sempre dalla stessa casa editrice Siglo XXI,
nel 1977, « Si me permiten hablar... » Testimonio de Domitila. Una mujer de las
minas de Bolivia. Il confronto non è arbitrario giacché si tratta anche in questo
caso, di una testimonianza affidata alla stesura di un’altra persona. A raccontare
è Domitila, sindacalista del mondo operaio boliviano. È bene però dire subito che,
mentre Rigoberta è un'india pura, Domitila è meticcia. La prima è contadina, la
seconda operaia. Le divergenze sono di rilievo — Domitila si propone fin dall’inizio
esclusivamente come operaia e fa riferimento al contesto indigeno soltanto in poche
occasioni — , tuttavia certe consonante suggeriscono la comparazione tra i due te
sti. Sia Luna che l’altra lottano contro forze sopraffatrici; per Rigoberta sono gene
ricamente quelle dei bianchi, per Domitila l’antagonismo irriducibile è rappresen
tato dal mondo del padrone capitalista che la subordina e la sfrutta.
Domitila racconta, attraverso la propria esperienza, la storia della vita dei mi
natori del grande complesso minerario Siglo X X situato nelle Ande boliviane. Da
bambina ha imparato il quechua, ma si è alfabetizzata nella lingua materna, lo spa
gnolo. Per poter parlare — « sempre che glielo permettano » — , utilizza come
87
Rigoberta un mezzo, un doppio che in questo caso è la pedagoga brasiliana Moema
Viezzer. La sua testimonianza riguarda i meccanismi di un mondo atroce in cui il
lavoratore della miniera trascorre ore e ore nella galleria; in cui la vita media non
supera i trentacinque anni e la causa della morte è per tutti la silicosi; in cui la
violenza e il massacro rappresentano la risposta monotona alle richieste dei lavo
ratori pagati in modo irrisorio. Entrambe donne hanno deciso di parlare — una
dopo avere chiesto il permesso, l’altra affermando il suo diritto a farlo — per
descrivere insieme alla loro vita il percorso che le ha condotte a una presa di co
scienza e a un conseguente punto di arrivo: la adesione a un progetto. Per Domitila si tratta di combattere contro l’imperialismo e di contribuire alla costruzione
del socialismo in Bolivia. La sua è la storia di una donna che partecipa attivamen
te come dirigente di organizzazioni sindacali, che ha subito il carcere e le torture.
Rigoberta, dal canto suo, dichiara molto semplicemente di essere una donna
che lotta per il proprio popolo, qualunque sia il prezzo da pagare. All’obiettivo
della propria lotta non conferisce alcuna specificità di organizzazione socio-econo
mica che faccia riferimento ai grandi sistemi. La giovane quiché mette l’accento
su un impegno personale, finalizzato a ottenere per la propria comunità il diritto
a « essere così come siamo ». I mezzi che utilizza sono il lavoro nelle organizza
zioni di massa e un’ideologia cristiana che invoca i principi fondamentali della Teo
logia della Liberazione: la narratrice dichiara in modo esplicto di non essere piu
disposta ad aspettare che un po’ di speranza le sia concessa solo con il regno dei
cieli: la vuole adesso, la esige subito e sulla terra.
Rigoberta non arriva a delineare una proposta politica in senso stretto, e la
sensazione che si ha è che addirittura una simile idea la infastidisca. La sua mili
tanza, prima nel Comitato di Unità Contadina (Cue) e successivamente nella orga
nizzazione Cristiani Rivoluzionari Vicente M enchu5 è diretta, totale, fondata sul
rischio personale e su una concretezza dove la sua esperienza di contadina indigena
conta quanto quella di donna.
Il distacco, il poco interesse per la discussione intorno alle grandi opzioni ap
pare in Domitila dovuto piu a una forma di antiintellettualismo insofferente ai lin
guaggi complicati delle statistiche e delle teorizzazioni, che a una volontà nuova
di guardare alla politica e di utilizzarla come via di uscita.
Non ci sembra azzardato affermare che in Rigoberta l’assenza di riflessione
politica vada molto oltre la sua condizione di neofita. Quando per esempio afferma:
« C’è qualcosa di importante nelle donne del Guatemala; la donna indigena in par
ticolare esprime qualcosa di importante cioè il suo rapporto con la terra... La terra
alimenta e la donna da la vita... » (p. 245), ha già fondato una prima equazione
essenziale che riguarda, da una parte la conoscenza del mondo quiché e dall’altra
la presa di coscienza come donna raggiunta attraverso quel mondo. La donna, an
che quella quiché, è abituata a rapporti molto personali e concreti. È da questo
tipo di rapporti che Rigoberta trae la propria forza: « ... Esiste un dialogo costante
tra la terra e la donna. Quel sentimento probabilmente nasce nella donna per le
responsabilità che ha e che sono estranee all’uomo. È così che sono riuscita a ana
lizzare i compiti specifici che ho nell’organizzazione » (p. 245).
Rigoberta ci indica una nuova volontà rispetto alla politica, che emerge dalla
esperienza personale quotidiana e che rinvia ai valori della vita, ai valori più in
timi, profondi e essenziali. La coscienza di donna affiora dunque parallelamente
5
II Cue nasce nell’aprile del 1978, col proposito di raggruppare tutte le organizzazioni
contadine e di dare impulso ad una lotta operaio-contadina; mentre il gruppo « Cristiani Rivo
luzionari Vicente Menchu » prende il nome dal padre di Rigoberta, assassinato durante l’occu
pazione, da parte dei contadini, dell’ambasciata di Spagna nel gennaio del 1980.
88
a quella di indigena, e cioè di « condannata della terra ». In questo ambito segnato
dalla repressione, dall’isolamento, dal silenzio, va ricostruendo la propria esperien
za personale per mezzo della quale identifica le radici sociali e storiche della sua
marginalità come indigena, come contadina e come donna.
Domitila, meticcia, non si trova nella stessa condizione di marginalità culturale
perché non subisce alcuna discriminazione razziale. Partecipa a una realtà che, per
quanto dura, non la rifiuta piu di quanto non rifiuti chi, come lei, auspica la costru
zione del socialismo in Bolivia. Per Rigoberta, invece, la lotta è ben più faticosa.
Nel passaggio dal contesto contadino a quello urbano — che avrebbe dovuto mi
gliorare le sue condizioni di vita, grazie al lavoro in una casa di bianchi — è consi
derata meno di un cane: « mi sentivo emarginata. Meno dell’animale della casa »
(p. 118).
Il contenuto fondamentale della rivendicazione di Rigoberta è — e non poteva
essere altrimenti — la difesa della terra. La terra madre, la terra che alimenta e
che i ladinos hanno violato con i loro espropri: « Mio padre combattè ventidue
anni per difenderci, con la sua eroica lotta contro i latifondisti che ci volevano
togliere la terra. Quando il nostro piccolo appezzamento cominciava a dare i suoi
frutti, dopo molti anni, e in tutto il paese c’erano coltivazioni, arrivarono i latifondisti... » (p. 129). Ed è per questo che Rigoberta, nella propria rivendicazione
contadina, fa appello alla cultura degli avi che la lega indissolubilmente alla terra.
La difesa della terra non si fonda certo su ragioni economiche, ma sulla volontà
di garantire la sopravvivenza di un gruppo etnico e della sua cultura. Il passato
diventa cosi un elemento imprescindibile. La spinta verso il futuro nasce appunto
dalla necessità che quel passato sopravviva con i suoi riti, con le sue cerimonie,
con le sue concezioni, al centro delle quali c’è la terra che non può avere un pa
drone e con la quale l’uomo, « fatto di maiz », convive: « Quando quella gente
ci ha tolto la terra... mio nonno piangendo amaramente disse: prima non esisteva
un unico padrone della terra. La terra era di tutti e non esistevano confini » (p. 133).
L’intero discorso di Rigoberta è permeato da una nostalgia che si richiama
a quei valori etici della propria cultura: onestà, rispetto e amore, che la giovane
quiché oppone al mondo ladino. Lungo il percorso che l’ha condotta alla presa di
coscienza, la stessa Rigoberta, pur prescindendo da qualunque teorizzazione spe
cifica, dovrà spontaneamente accettare l’idea di trasgredire alcuni schemi culturali
senza peraltro trasgredire quei valori. La sua dichiarazione in proposito affidata
a una breve frase (« ... fu allora che decidemmo di non tenere più conto di alcuni
schemi culturali, ma soltanto perché era un modo per salvarci ») è il commento di
un’azione di difesa della comunità che deve affrontare un’incursione dell’esercito.
Molti elementi della narrazione inducono a pensare che, anche ai suoi occhi, la
conservazione totale, integra e isolata della propria cultura sia incompatibile con
la sopravvivenza della stessa. La prima trasgressione tangibile è, da parte di Rigoberta, l’acquisizione di una lingua che non le appartiene.
Angosciata dal silenzio, introduce nella propria lotta una nuova arma, che
oltre a consentirle di uscire dall’isolamento, la obbliga a vedere sotto una nuova
luce i ladinos. Nella sua presa di coscienza, Rigoberta applica ài mondo altro, il
diritto alla diversità. Non tutti i bianchi sono sfruttatori, anche in quel mondo
esiste una situazione di miseria che può essere assimilata a quella propria.
Per la seconda volta il suo si afferma come atteggiamento di trasgressione de
gli schemi culturali più profondi del proprio gruppo.
Tutto ciò però non significa l’accettazione o la proposta di un processo di
acculturazione e integrazione subite e passive. C’è un punto sul quale Rigoberta
non è disposta a transigere: rivelare, almeno per il momento, l’identità più remota,
del proprio essere indigeno. Invano gli studiosi cercheranno di scoprire ciò che lei
89
non intende svelare: « Ma ancora continuo a occultare la mia identità di indigena.
Continuo a occultare ciò che nessuno sa, né un antropologo, né un intellettuale,
per quanti libri posseggano non riusciranno a capire i nostri segreti » (p. 271).
Accanto alla volontà di esprimersi la contadina indigena rivendica il diritto a non
parlare, a esistere nella diversità. Qualunque sia la validità del suo progetto, che a
volte assume i toni dell’utopia, è nell’universo della parola che Rigoberta guida
e consuma il diritto a vivere dignitosamente come indigena, come contadina, come
donna. A differenza di Domitila, l’indigena quiché non chiede il permesso di usare
la parola perché se ne è appropriata da sola come arma.
Ledda Arguedas Luisa Pranzetti
90
Alessandra Marra
Una voce del Perù «profondo»
Intervista a Luis Barreda Murillo
Negli anni scorsi, sulle pagine di questa rivista, parlammo del Peru e delle
sue tragedie economiche, così come delle peculiari questioni etniche e storiche.
Parlammo di riforma agraria, di Sendero Luminoso e di indigenismo, di movimenti
culturali e politici" intervistando studiosi peruviani che, a nostro parere, rappre
sentavano la complessità di questo paese la cui lettura era e rimane, per molti
aspetti, non semplice.
Oggi proponiamo un’intervista a Luis Barreda Murillo, una voce del Peru
profondo e, per introdurla, riproponiamo la definizione di America Andina per
quella vasta area geografica comprendente Peni, Bolivia ed Ecuador; tre nazioni
situate nel continente detto « latinoamericano ». Ma, a ben vedere, anche il resto
di questo continente lo si può definire, oggigiorno, latinoamericano?
Perii, Bolivia ed Ecuador oltre a convivere nel medesimo sistema ecologico
hanno in comune la composizione etnica e la storia che le vede, sino all’invasione
spagnola, appartenere al T'a wantinsuyo, meglio conosciuto come impero degli inka.
Questi, ultimi monarchi di un vasto territorio — e i primi monarchi andini cono
sciuti dagli europei — lo unificarono politicamente nell’arco di un secolo. Ma la
storia di quello che divenne il Tawantinsuyo è molto piu antica.
Impero degli inka che i conquistadores incontrarono, nel 1528, percorso da
movimenti politici ed ideologici che contrapponevano « tradizionalisti » — capeg
giati da Atawalpa e dal gruppo piu conservatore della casta sacerdotale — e « ri
formisti » — capeggiati da Waskar e dalla corte di Cuzco — in lotte intestine e
scontri armati. Lotte e scontri che rianimavano le popolazioni assoggettate dagli
inka i quali, sebbene unificarono politicamente l’impero, la rapida espansione non
consentì loro d’integrarlo anche culturalmente.
Ma se la « conquista » depredò il Tawantinsuyo dell’oro e dell'argento deci
di
mando fisicamente le popolazioni andine, dopo averne integrato una parte del
gruppo dirigente, non riuscì ad intaccarne la millenaria cultura e personalità. Co
sicché, sia il viceré di Toledo — che pure era riuscito ad assassinare l’ultimo ìnka
ribelle di Vilcabamba, Tupc Amaru — con la proibizione dell’uso degli abiti tra
dizionali e sia i pur rigorosi distruttori di idolatrie, con la proibizione dell’uso
dei qttipu, non mutarono il rapporto tra le genti andine e la natura. E ancora oggi
la terra è la « fonte di tutte le cose » e l’omaggio alla madreterra, praticato nel
mese di agosto, è identico al rito di mille anni or sono.
La « liberazione » dal gioco spagnolo, operata da Simón Bolivar, in realtà li
berò il gruppo dirigente creolo dal controllo del re di Spagna che, sebbene lon
tano, esigeva puntualmente i tributi. Fu una liberazione fatta in nome « dei figli
del Sole » ma con un respiro politico e culturale ancora rivolto all’Europa; libe
razione da cui trassero profitto bianchi e creoli lasciando le popolazioni andine —
quegli eredi degli inka per cui era stata fatta — nell’abbandono.
Un abbandono che si tradusse in uno sfruttamento « moderno » di queste
genti perché, se al re di Spagna bastavano i « tributi » ai creoli, invece, tesi a par
tecipare al mercato internazionale, serviva forza lavoro a costo bassissimo che
compensasse la mancanza di strutture. I governi che si succedettero riuscirono ad
avviare un processo di espropriazione dell’identità culturale delle popolazioni an
dine, processo in cui erano falliti gli spagnoli. Candii!os e presidenti governarono
pensando in una nazione bianca mentre la maggioranza della popolazione era « in
dia ». E « india » rimane tuttora, sommersa e chiusa, apparentemente « passati
sta » e con il cordone ombelicale legato alla terra e all ’altura.
Eppure oggi, in questi paesi, e in particolare in Perù che ne è lo specchio più
significativo, parlare di progresso e di rinascita nazionale vuol dire parlare di que
ste popolazioni che paiono senza orgoglio. E giustamente il primo grande marxista
latinoamericano, J. C. Mariàtegui vedeva in esse il soggetto politico per la rivo
luzione.
Al problema dell’economia dipendente che strozza i paesi latinoamericani se
ne aggiunge un secondo nell’area andina, consistente nell’impellente necessità di
un recupero della propria identità culturale, questo per poter ritessere l’ordito del
la trama di un giusto orgoglio nazionale. « Poter essere peruviani ». Orgoglio da
contrapporre ai fautori del « passo dell’oca » e della « pax andina » che hanno cu
cito, in mille maniere, i galloni al governo di pochi.
Ci sia consentita una precisazione, necessaria per sgomberare il campo dagli
equivoci: è lontano da noi lo spirito « terzomondista » e ancora di più il folclore
come strumento per conoscere questo paese, protagonista invece di una storia an
tichissima. Una storia che ne determina Yactitud e, nel conoscerla, potremo co
gliere i segnali che, oggi, consentono di intuire il Perù in movimento.
Senza scomodare los dioses ricordiamo che, nel 1982, comparve sui giornali
di tutta Europa la notizia della strage di otto giornalisti perpetrata nella comunità
andina di Uchurracay, nel dipartimento di Ayacucho. Strage che suscitò lo sdegno
più grande e la ricordiamo per dissentire da Mario Vargas Liosa, prolifico roman
ziere peruviano il quale, nelle vesti di membro della Commissione d ’inchiesta par
torita dal regime di Belaunde Terry per far luce sugli avvenimenti, avallò la tesi
— precostituita — del governo, tesa a presentare queste comunità barbare e omi
cide, retaggio del moderno Perù. In realtà si nascosero le stragi e le moderne bar
barie dei sinchis — il corpo speciale antiguerriglia — padroni e signori della
sierra ayacuchana.
Questo « retaggio » del moderno Perù così ispirò la conclusione dell’articolo
di Mario Vargas Liosa, scritto per il « Corriere della Sera » « ... povero paese
mio! », dimostrando non solo l’accomodamento con il regime — sebbene in questi
92
giorni abbia riconosciuto di essersi sbagliato — pure una certa ignoranza a pro
posito del paese reale.
L’immagine dell’« indio » rassegnato equivale, oggi, realmente, a quella del
l’uomo delle Ande, abituato da millenni a fare i conti con una natura ostile, cui
ha strappato ogni palmo di terra coltivabile e che ha sempre prodotto ricchezza
per l’intero paese?
Siamo andati a Cuzco per intervistare un protagonista di quei segnali di cui, poc anzi, abbiamo scritto. Luis Barreda Murillo, 58 anni, archeologo dell’Universidad
National San Abad del Cuzco. Un « operaio » della ricerca sul campo; trentacinque anni di insegnamento universitario e di scavi archeologici nella città e nelle
valli del dipartimento del Cuzco.
Un esistenza, la sua, trascorsa tra i libri, le pietre e gli studenti, attento osser
vatore del passato e del presente in movimento; una democrazia negli studi e
nella ricerca tesa a raccontare la storia del popolo e della sua agricoltura, oltreché
dei suoi generali e dei suoi re.
Della città di Cuzco conosce ogni angolo recondito, ogni magia ed ogni la
mento, oltre ai segreti e ai problemi. Un intellettuale andino ironico nei confronti
di una certa « intelligenza » limena che romanza sull’indio senza conoscerne in
realtà né la lingua né la personalità.
Uno studioso in progress convinto che, per migliorare il Peru, innanzitutto i
peruviani debbono conoscere il proprio paese, nel conoscerlo, ricercare nella sto
ria nazionale il cammino per 1 emancipazione. È l’archeologo conoscitore di quelle
comunità indie che lasciarono perplessa l’Europa con la strage di Uchurracay e con
le quali dialoga in quechua (l’antico idioma andino conosciuto, oggi, da dieci mi
lioni di peruviani su diciotto e parlato da sei milioni) conoscendone la mentalità e
le tradizioni ancestrali, mimetizzate nelle feste religiose cattoliche. E nelle leg
gende indie, gelosamente conservate e tramandate di generazione in generazione, ri
trova quel filo d ’Arianna che consente di dare la storia alle rovine archeologiche.
Affermando che la storia del Perii la si conosce sempre di piu interrogando le
genti andine e sempre meno nelle università, ancora cosi permeate da una visione
ispanista, con i suoi studenti esce dalle aule universitarie per insegnare « direttamente sul campo ».
Pensiamo di dare un contributo alla conoscenza del Peru profondo intervi
stando Luis Barreda Murillo, una voce nuova nel panorama culturale peruviano,
una voce nazionale. Confessiamo che, per vincere la sua ritrosia, lo abbiamo inter
vistato camminando lungo le rovine di Sacsayhaman, a 3.500 metri di altezza, in
un panorama di rara bellezza.
D. Prof. Luis Barreda Murillo che significa, oggi, a Cuzco, «fare archeologia »
e produrre cultura nazionale?
R. L importanza del suo studio e del lavoro di ricerca si fonda nella necessità
irrinunciabile di conoscere scientificamente il passato culturale del Peru e, in par
ticolare della valle di Cuzco. Questo per sradicare speculazioni sul processo e svi
luppo delle culture andine che, in alcuni casi, sono state idealizzate e, in altri,
deformate da interessi politici. Il passato del Peru non sono solamente gli Inka i
« figli del Sole ».
D. Archeologia ed etnostoria. Come spiega lei che i principali studi archeologici ed etnostovici sul Pevu andino sono stati compiuti da studiosi stvanieri?
93
R. Sebbene esistano numerosi studi sul Peru andino pubblicati da ricercatori
stranieri, è innegabile che gli iniziatori dell’archeologia e dell’etnostoria peruviana
sono ricercatori peruviani come J. C. Tello per ciò che riguarda l’archeologia e
L. E. Valcarcel per l’etnostoria. Le loro ricerche e il loro pensiero sono stati pro
seguiti da peruviani e stranieri. Le pubblicazioni degli studiosi stranieri si devono,
principalmente, all’appoggio economico che esse hanno ricevuto dalle università
dei loro paesi. In Peru, invece, avviene un fatto curioso e significativo al con
tempo: le opere dei ricercatori peruviani sono ancora inedite per l’assoluta man
canza di fondi delle università presso cui lavorano. Aggiungerei che questo genere
di ricerche non incontrano ancora l’appoggio ufficiale dello stato e delle sue isti
tuzioni. Appoggiarle significherebbe fare una scelta politica, una politica nazio
nale. Le faccio un esempio. Noi archeologi, antropologi ed etnologi, andiamo di
cendo che la quinua è uno degli alimenti piu antichi sulle Ande e fonte di sosten
tamento tuttora. Perché il governo, anziché favorire le multinazionali importan
do il latte in scatola, non favorisce il potenziamento dell’agricoltura? Oltretutto
il latte è un alimento poco consono alla dieta delle popolazioni andine. Lavorire
la semina della quinua non costa molto...
D. Si parla di un Peru ufficiale e di un Peru profondo o andino. Secondo lei
quale la realtà del Perù, oggi?
R. È evidente che il Peru reale o autentico è un paese eminentemente andino
che, dall’invasione spagnola, ha sofferto una permanente aggressione economica e
culturale. Nonostante tutto questo paese è riuscito, attraverso i secoli, a salvare
valori culturali determinanti, oltre ai propri fondamentali principi ideologici ed
economici, come un profondo spirito democratico e reciprocità e redistribuzione
dei prodotti. Vede, quando si parla del Perù ufficiale si parla del Perù di ascen
denza spagnola. Un Perù meticcio e bianco che ha imposto in passato, e cerca di
imporre ancor oggi attraverso il potere politico ed economico, il proprio modello
di vita, impedendo così lo sviluppo del Perù di ascendenza andina il quale rappre
senta pur sempre tre quarti dell’intera popolazione peruviana. Una vera e propria
tragedia di cui dovrebbero interessarsi anche i democratici europei.
Quindi la preoccupazione di noi archeologi è quella di recuperare i valori cul
turali del Perù non come semplice studio del passato, ed è un passato ancora tutto
da scrivere. Recuperare questi valori significa recuperare il Perù ed emanciparlo.
Recuperarli non per tentare di ristabilie l’antico modello economico e politico oggi
improponibile ma perché siamo convinti che da questo patrimonio di conoscenze
le Ande ritroveranno la loro dignità e il patrimonio di esperienze potrà servire a
delineare un progetto di cambiamento sociale, economico e culturale e mediante
il contributo del passato e le esperienze dell'oggi ricostruire il futuro del Perù. Le
multinazionali penetrando nelle Ande impongono anche modelli di vita inaccet
tabili e lontanissimi da noi.
D. Come lei dice, fare archeologia, oggi, è conoscere il passato e il presente
e prospettare il futuro. Come sarà Cuzco domaniP
R. Il futuro del Cuzco, a nostro parere, dipende dalla volontà politica del
centralismo di Lima.
D. Lima è la capitale del Perù e Cuzco la capitale dell’area andina peruviana.
A suo criterio come ha influito la Capital sullo sviluppo e la salvaguardia del pa
trimonio archeologico e culturale di Cuzco che è stata definita « patrimonio dell’u
manità? ».
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R. La città di Lima fu il primo enclave europeo in Perù che si costituì nella
capitale della dominazione ispana del Perù. E fu creata, storicamente, come oppo
sizione politica e ideologica alla città di Cuzco che era stata la capitale dell’impero
ìnka e da allora Cuzco fu emarginata. Durante il virreynato riacquistò una certa im
portanza ma con l’avvento della Repubblica fu definitivamente relegata al ruolo
di lontana provincia mentre, all’estero, incominciava a sorgere un grande interesse
per la sua storia millenaria e per la sua archeologia. Lima la capitale e sede del go
verno dove in passato, perché oggi la realtà e diversa, la popolazione era bianca
e Cuzco il riferimento ideale per le popolazioni andine o « indie ». Questo spiega
perché l’archeologia del Cuzco non si sia sviluppata come in altri luoghi del paese,
come sulla costa, ad esempio. Le culture della costa si erano integrate con la « con
quista » mentre quelle andine non sono integrate tuttora. Le dirò di più. Gli ar
cheologi del Cuzco non hanno appoggi economici per le loro ricerche e sono limi
tati dalla burocrazia degli organismi del governo centrale. Qui un archeologo per
poter lavorare ad uno scavo deve seguire un iter burocratico lunghissimo oltre al
dover pagare il biglietto di ingresso in un centro archeologico come un qualsiasi
turista. Io stesso pago il biglietto di ingresso e per sostenere le spese degli scavi
che dovrebbe essere a carico dell’università sono costretto ad un secondo e terzo
lavoro che esula completamente dai miei studi.
D. Parlare di archeologia a Cuzco significa parlare di lei e delle sue ricerche.
Ricercatori stranieri che hanno lavorato a Cuzco hanno pubblicato molto, mi con
senta di chiederle qual’è la causa per cui non ha pubblicato i suoi studi.
R. Per risponderle sono costretto a ripeterle più o meno ciò che le ho già
detto. La causa è semplice se, come abbiamo detto, le ricerche non possono con
tare sull appoggio economico dello stato e quindi dell’università, a maggior ra
gione non esistono i mezzi finanziari per pubblicare i risultati delle ricerche per
quanto importanti possano essere. Come le ho detto prima sono spesso costretto a
lavori « straordinari » per poter proseguire le mie ricerche archeologiche e com
prare con i miei propri mezzi il materiale indispensabile. Questo è un motivo per
cui ho accumulato fogli e fogli che rimarranno inediti se qualcosa non cambierà.
E sono piuttosto pessimista a proposito di un cambiamento in tempi ragionevoli.
D. In Europa l’immagine archeologica del Peru è, principalmente, Machu Picchu, nonostante il paese sia ricchissimo di vestigia archeologiche. Che ne pensa lei?
R. È certo che questa famosa citta e la piu conosciuta nel mondo ma non è
l’unica perché in Perù esistono per lo meno centoventotto Machu Picchu e sola
mente nei dintorni di Cuzco quarantasettemila sitios archeologici datati e classifi
cati. Il fatto che Machu Picchu sia la piu conosciuta lo si deve alla grande pubbli
cità che le diede Hiram Bigham nel 1912 con i potenti mezzi di cui poteva dispor
re. Inoltre il suo prestigio è stato esaltato dalle grandi imprese turistiche che lì
hanno concentrato i loro capitali, distraendo l’attenzione dagli altri centri archeologici. Se si tratta di porre i centri archeologici al servizio del turismo, penso in un
turismo europeo intelligente che cerca di conoscere, attraverso il passato, la storia
e la realtà del Perù. E se parliamo di Cuzco dobbiamo dire che molti credono sia
stato un centro urbano inka non conoscendo che prima degli tnka esistevano cul
ture importantissime come quella Wari di Cuzco che costruì Pikillaqta. Pikillaqta
è una gigantesca città dell’anno 800 d.c. che dista 27 chilometri da Cuzco e quattro
volte più grande di Machu Picchu. Rimane il fatto che le agenzie di turismo non
accompagnano i turisti a Pikillaqta perche visitarla costa poco. E li costringono, in
un certo senso, a non conoscere né la gente né l’archeologia andina.
95
D. Un’ultima domanda. Qual’è il suo messaggio agli archeologi peruviani?
Risponde additando la città di Cuzco sottostante mentre si diffonde l’ombra
della sera.
R. Uno solo: confrontarsi con la realtà e le difficoltà che reca con sé e conti
nuare il lavoro scientifico nella fiducia che le istituzioni peruviane si renderanno
conto, prima o poi, che il Peru è un paese ricchissimo e possiede gli strumenti per
la propria rinascita.
E quest’anno, a Cuzco, si laurerà la prima generazione di archeologi che par
lano quechua e scavano le valli che circondano « l’ombelico del mondo », integrati
con le genti che le abitano. Sono i suoi studenti e, alcuni di loro, sono figli delle
comunità indie e, per studiare, hanno imparato lo spagnolo.
96
Alessandro Aruffo
Canudos:
una rivolta messianica?
Il nordest brasiliano, « quasi novecentomila chilometri quadrati di superficie,
che mostra dovunque i segni di una sofferenza cosmica » ', riassume i tratti di
un « sottosviluppo » antico e recente, ossessivo nella sua cornice geografica, ma
tu tt’altro che cristallizzato. Sottoposto storicamente a continue trasformazioni,
ha allevato tensioni sociali — all’interno della storia del Brasile dalla coloniz
zazione all’indipendenza — rivelatrici di una condizione varia e permanente di
sfruttamento e di oppressione di comunità e classi, alimentate dal e nel « sottosviluppo ».
Se a questo destino ha anche condotto la varietà dei climi, determinanti si
sono rivelate le trasformazioni sociali indotte dalla successione dei modi di produ
zione. Ma le tensioni sociali latenti, le ricorrenti e multiformi ribellioni non sono mai
state canalizzate nella forma rivoluzionaria della liberazione popolare, finendo per
essere strumentalizzate da gruppi di lotta per l’egemonia locale o utilizzate demagogicamente come forza di pressione politica.
Nel nordest sertanejo l’uomo e l’ambiente sembrano solidarizzare nella trage
dia. Una tragedia dominata dal senso sociale della morte che incombe palpabilmente
sugli uomini, costretti dalla nascita a nutrire la terra. Siamo nel nordest12 ove la
fame acquista le caratteristiche della crisi acuta e delle carestie periodiche. Un nordest centrale scosso dalla sottoalimentazione, nella morsa della siccità dell’altopiano
semiarido, nel quale la precarietà dell’esistenza impone i suoi miti ed espone i suoi
valori collettivi simbolizzati nel fanatismo religioso strettamente innestato al ban
ditismo sociale e al flagello delle carestie.
1 J. de Castro, U na zo n a esplosiva: il n o rd e ste del B rasile, Torino 1966, p. 37.
2 II nordest comprende gli Stati di Bahia, Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraiba, Rio Gran
de do Norte, Cearà, Piani, Maranhào.
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« Santi », « profeti », banditi, « consiglieri » diventano i portavoce sociali di
masse diseredate, disorientate e predisposte ad accogliere ed adulare i simboli con
creti delle loro aspirazioni a sfuggire alla miseria attraverso la magia o la violenza,
nel desiderio perennemente inseguito e mai realizzato di conquistare orizzonti fer
tili. Misticismo e fame si coniugano opportunamente nel segno del « sottosvi
luppo ». Il fanatismo messianico, spesso, è l’esasperazione e la denuncia di una
frustrazione sociale che non trovando sbocco politico declina nel miracoloso, nel
l’attesa di un evento invocato, magicamente « circuito » 3.
Il Brasile del sec. X IX
Nel corso del sec. XIX lo stato di Bahia — parte integrante del nordest che nel
1872 assorbe il 46,5% della popolazione brasiliana 4 — è investito dalla progres
siva decadenza delle grandi imprese dello zucchero. Inizia l’irreversibile declino del
latifondo monocolturale a lavoro coatto, mentre l’avanzata deH’allevamento pro
duce la dispersione della popolazione, l’involuzione nella divisione del lavoro, l’ar
retramento della tecnica artigiana, l’avvento di una precaria economia di sussisten
za organizzata attorno a comunità di villaggio coi suoi mestieri, fino ad allora,
funzionali alle necessità del proprietario della fazenda patriarcale.
L’intero complesso regionale subisce l’assalto di regioni a ciclo meccanizzato
della produzione dello zucchero, a vocazione industriale complessiva, con conse
guente centralizzazione produttiva. Somma di tecniche e di rapporti di produzione
capaci di scardinare il patriarcalismo schiavistico, esclusivo di ostacolo all’attec
chimento di particolari tradizioni sociali di solidarietà. Per questa via si coglie
il tratto imperialistico del sistema industriale brasiliano, nel piu generale contesto
di collocazione « dipendente » dell’America latina nell’ambito della divisione inter
nazionale del lavoro.
Il processo di destrutturazione della « civiltà dello zucchero » si accompagna
al boom dell’economia mineraria, polo d ’attrazione dell’emigrazione dal nordest,
a fronte di un sistema economico molto articolato ma fondamentalmente ruotan
te attorno ai due assi dello zucchero e dell’o ro 5 — prima della comparsa della
piantagione di caffè — sostenuti dall’entroterra pastorale e, quindi, interessato
al potenziamento dell’allevamento, indispensabile al rifornimento alimentare dei
principali centri economici (Maranhào, regione mineraria, fascia zuccheriera).
Al crollo dei prezzi dello zucchero e del cotone, alla disarticolazione del modo
di produzione schiavo-aristocratico subentra l’affermazione della coltura del caffè,
principale voce delle esportazioni (anni ’30) la cui produzione è concentrata nella
zona montana attorno a Rio. Nonostante alcune flessioni congiunturali, l’economia
del caffè — fondata anch’essa su manodopera schiava 6 ma, a differenza di quella
3 Si veda, al riguardo, l’affascinante saggio di R. Bastide, O M e ssia n ism o e a T o m e , in « O
D ram a U n iversa l da F o m e », Rio de Janeiro 1958.
4 R. Bastide, Il B ra sile , Milano 1960, p. 77.
5 « Articolato al nucleo zuccheriero, sia pure in forma sempre piu debole, era anche l’al
levamento del bestiame del Nord-Est. Articolato al nucleo minerario era l’hinterland pasto
rale del Sud. che si estendeva da Sào Paulo al Rio Grande. Questi due sistemi da parte loro
si legavano debolmente attraverso il fiume Sào Francisco, la cui produzione zootecnica usu
fruiva del fatto di trovarsi a mezza strada tra il Nord-Est e il Centro-Sud, per rivolgersi a
quello dei due mercati che di volta in volta presentasse maggiori vantaggi » (C. Furtado, La fo r
m a zio n e eco n o m ica d el B rasile, Torino 1970, p. 126) .
6 « Il primo censimento demografico realizzato nel 1872 indica che in quell’anno esiste
vano in Brasile pressappoco un milione e mezzo di schiavi » (C. Furtado, op. cit., p. 159).
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dello zucchero, a basso grado di capitalizzazione per la preminenza del fattore
terra — richiama forza-lavoro dal nord, con ulteriore impoverimento economico
e sociale delle aree zuccheriere e capace di esaltare l’articolazione sociale di un
polo urbano (Rio) attivo nel commercio di bestiame e dei generi alimentari, nel
l’acquisto di terre e di manodopera, nell’organizzazione e commercializzazione della
produzione.
Alla guida di un simile processo di riconversione economica complessiva si
pone una classe media urbana operante al di fuori dei condizionamenti monopoli
stici portoghesi tracciando una rotta inversa alle classi aristocratiche zuccheriere,
assenti nelle transazioni, con scarsa consapevolezza « nazionale », confinate nel
ristagno e dell’oziosità dell’ambiente rurale-patriarcale1. Sarà la borghesia urbana
a scorgere nello Stato uno strumento di « copertura » delle iniziative economiche;
a subordinare l’attività politica ai propri interessi di classe; ad avviare il processo
di separazione (1822) dal Portogallo fino alla proclamazione della repubblica (1889).
Esposto alle ricorrenti siccità — quella del 1877-80 causò la totale distru
zione del bestiame del Cearà e la morte di circa 200 mila persone 78 — il nordest,
indebolito nel suo cardine produttivo espelle la popolazione esponendo alla de
bacle economico-politica i gruppi dominanti regionali « espropriati » di manodo
pera. L’emigrazione dal nordest interessa lavoratori, indeboliti già prima di essere
immessi nel ciclo produttivo (rimborsi per spese di viaggio, installazione, strumenti
di lavoro). L’indebitamento e le grandi distanze espongono i migranti ad una vita
di stenti, precaria, legata ad un regime di servitù consumato in capanne rudi
mentali nell’ambito dell’economia coloniale.
Ad aggravare la situazione regionale interviene, nell’ultimo quindicennio del
secolo, la politica monetaria del governo provvisorio — instaurato con la pro
clamazione della repubblica, priva di elasticità e gestita, di fatto, in seguito al
decentramento, dai governatori di provincia. Nel contempo la divaricazione di
di interessi, promossa dalle molteplici forme di organizzazione del lavoro, ridefi
nisce termini ed ambiti della lotta fra le classi dirigenti, dal cui scontro si avvantaggerà il sud urbano con la sua piccola proprietà agricola di colonizzazione
e il suo salariato di piantagione.
Settori di borghesia ricca costiera individuano nel governo imperiale una forma
obsoleta di direzione politica, sostenuta dai vecchi interessi schiavistici e accusata
di non saper avviare né progetti di « modernizzazione » economica né iniziative
di ammodernamento delle istituzioni che rispecchiassero interessi e aspettative dei
capitalisti industriali (organizzazione bancaria, sanità, educazione, formazione pro
fessionale) candidatisi a classe dirigente nazionale. Per questo la proclamazione
della repubblica acquisterà il carattere di sommovimento regionale autonomistico
e antiassolutistico, rispecchiato, tra l’altro, nella concessione del potere di emis
sione riconosciuto a numerose banche regionali (riforma monetaria del 1888) a
vantaggio della politica creditizia che, gravando sulla bilancia dei pagamenti, pro
vocherà la svalutazione e la compressione dei salari. Orientamenti politici ed indi
rizzi economici del Brasile del sec. XIX sono alla base della comprensione della
guerra di Canudos.
Senza questi riferimenti si rischia la mitizzazione idealistica della « libertà »
0 la costrizione della vicenda negli angusti limiti di un sociologismo di maniera.
1 fatti di Canudos vanno interpretati nel quadro storico-sociale del Nordest all’in
terno dell’unità di fondo dell’economia brasiliana, espressa nella complementa7 Per un approccio sociologico suH’argomento si rinvia a G. Freyre, N o r d e s te , L ’u o m o e
Milano 1970.
8 C. Furtado, op. c it., p. 178.
g li e le m e n ti ,
99
rità fra formazioni economiche, spazi regionali, apparentemente disomogenei per
funzioni produttive, relazioni sociali ed etniche complesse e diversificate. Canudos
pone il problema della permanenza e dello sviluppo storico di aree di « arretra
tezza » economica9 nella fase di transizione verso I’industrializzazione distorta e
diseguale.
Ma, si badi, « sottosviluppo » brasiliano, avvitato all’offerta illimitata di terra,
scosso da tradizionali sommosse rurali, attraversato da nuovi emergenti problemi
sociali e segnato dal livello delle tecniche agricole. Canudos è parte della storia
dello stato di Bahia e momento di quella del Brasile le cui moderne contraddi
zioni sociali s’intrecciano nel canovaccio multiculturale e plurietnico di una colonia
sottoposta alla sovrapposizione regionale di sistemi coloniali 10 con le rispettive
modalità di radicamento dell’uomo alla terra secondo tempi e forme che una com
piaciuta letteratura esotica si ostina a simboleggiare nelle molte « anime » del Bra
sile, estranee l’una all’altra.
Disomogeneità produttiva, varietà di climi e di ecosistemi, eterogeneità di
costumi, pluralismo etnico-culturale sono stati evocati come « frontiere » imper
meabili ma coesistenti. Elementi di divisione permanente. Al contrario esiste una
unità brasiliana di matrice economica, storicamente contrassegnata dal movimento
dei bandeiras e dalla diffusione dell’allevamento. Se il nordest, a partire dal
sec. XVI, propone il latifondo zuccheriero a lavoro schiavo, nella zona di Sào Paulo
si coglie la presenza di un’agricoltura di sussistenza, povera ma piu autonoma
dalle metropoli con popolazioni scarsamente sedentarizzate donde usciranno gli
esploratori, le truppe meticce, bianche, indie dirette verso il sertào 11. Alla marcia
paulista di penetrazione (movimento dei bandeirantes) si accompagnano spopo
lamento e razzie che costringono all’arretramento i possedimenti portoghesi a van
taggio dell’estensione del territorio brasiliano e a conferma della « superiorità
militare del bandeirante sul padrone di piantagione » 12.
Complementarità di formazioni economiche esemplata dal « ciclo dell’oro »
contrassegnato dal trasferimento di ricchezza e dalla polarizzazione del processo
di crescita economica verso Rio a spese di Bahia. L’urbanizzazione crescente chiede
ulteriore espansione dell’allevamento (sertào e pampa) e l’attivazione di circuiti
commerciali del bestiame tessono la tela dell’unità economica del Brasile, con le
città che impongono la diversificazione delle funzioni sociali non piu assorbite nella
dicotomia schiavo-padrone. La realtà sociale in movimento dà impulso all’artigianato, sospinge l’affermazione della borghesia dei porti, privilegia il ceto medio
professionistico e colto, nutrito di illuminismo laicizzante 13 anche sotto la spinta
di quella che può essere definita la « seconda conquista dell’America latina « pro9 A. Gerschenkron, I l p ro b le m a sto rico d e l l ’a rretra te zza e c o n o m ic a , Torino 1974, pp. 7-70;
A. Gunder Frank, C a p ita lism o e s o tto s v ilu p p o in A m e ric a L a tin a , Torino 1969, p. 170-320;
A. Mutti, I. Poli, S o tto s v ilu p p o e m e r id io n e , Milano 1975, pp. 9-49.
10 La colonizzazione olandese, prevalentemente urbana, commerciale, armata di calvinismo,
selettiva delle razze, nei suoi 24 anni di dominazione portò alla costituzione della Società
batava di Navigazione. La colonizzazione portoghese era stata prevalentemente rurale, agricola,
tropicale e quella francese del sud attenta a ricompattare le coscienze religiose europee ancora
scosse dalle guerre di religione (Colignv avrebbe voluto riconciliare, nell’orbita politica im
periale di Villegeignon, cattolici, luterani e calvinisti).
11 II primo ad elevare a dignità letteraria il sertào è stato Euclydes da Cunha alla cui
opera « O r se rtò es » (1902) si fa risalire l’origine della letteratura sertaneja. Trad italiana
Brasile ig n o to , Milano 1953.
12 G. Frevre, op. cit., p. 94.
13 Sin dalla prima metà del sec. XIX gli echi dell'illuminismo degli enciclopedisti anti
schiavisti sono raccolti dai rivoluzionari del 1817 e fanno da sfondo ideologico alla rivolu
zione del 1824. Sconfitte le due rivoluzioni regionali, sul piano giuridico-scientifico trovano
100
fondamente modificata, nella sua struttura umana, dall’immigrazione europea su
un continente prevalentemente indio e nero fino a metà del sec. XIX.
Si consolidano le posizioni di quelle classi che porteranno alla separazione
dal Portogallo, all’instaurazione di un regime parlamentare coi suoi partiti poli
tici in un contesto imperiale attraversato da movimenti separatistici e ribellioni
popolari. Con la maggiorità di Pedro II (1840) la macchina amministrativa dello
stato accoglie la riconversione burocratica di rampolli degli agrari e la promozione
di quadri professionistici politicamente accentratori, antiregionalistici, « evoluti »
all’ombra della centralità della capitale, del primato della legge, forti della posi
zione acquisita nell’esercito.
La repubblica non è stata partorita da una rivoluzione popolare, né sulla base
dell’istituzionalizzazione della prassi elettorale, bensì da un colpo di stato pro
mosso dall’alleanza fra esercito e classi medie urbane 14 in un moto liberale di
emancipazione dalla schiavitù (decreto del 1888 sotto la reggenza di Isabella)
politicamente teso a colpire la monarchia spezzandone la spina dorsale rappresen
tata dall’aristocrazia terriera. Nella circostanza decisivo appare il ruolo svolto dal
l’esercito a solida composizione piccolo-medio borghese, in grado di ritagliarsi
margini autonomi di manovra fra consolidati e recenti parassitismi individuali
nel latifondo, nella burocrazia, nei capi politici regionali (coronets) e variamente
interessati ad avvantaggiarsi delle autonomie, allo sfruttamento del lavoro ser
vile attraverso il possesso della terra o per mezzo di un complicato sistema fiscale.
La « autonomia » dell’esercito si sostiene su un’economia militare di approv
vigionamento di forza-lavoro non-schiava, nell’assunzione di compiti di carattere
civile (opere pubbliche) nella progressiva identificazione con l’autorità dello stato
a sua volta identificato col conseguimento e la difesa dell’ordine repubblicano,
ovvero dell’« unità nazionale ». Si è anche parlato di sopravvivenza di un Brasile
feudale 15 espresso dall’arcaismo latifondistico anticapitalistico. Avverte Furtado
che non si può confrondere economia feudale ed economia schiava, essendo quest’ultima « un caso estremo di specializzazione economica. Al contrario dell’unità
produttiva feudale, vive completamente rivolta verso il mercato esterno » 16.
Il nordest fra fazenda e sertao
La canna non copre l’intero nordest. A 50 km dalla costa iniziano la coltura
del cotone, il paesaggio agreste, il regno della caatinga (foresta bianca) figlia
della siccità, simboleggiata da alberi scheletrici e cacti. È il sertào severo, duro,
tragico come tragico è il messianismo del sertanejo. È il nordest che « ruggisce
nei deserti » 17 che costringe l’uomo e l’ambiente a lottare con la vita e con la
morte. Una lotta che vede nel sole « il nemico che bisogna evitare, ingannare, com
battere » 18. Climi impossibili, dominio delle secche; minaccia quotidiana dell’ecoudienza pensatori quali Locke, Voltaire, Montesquieu, Condorcet, Lamartine, Comte, Smith,
Filangieri, Tocqueville. A Bahia fiorisce una cultura medica; a Recife una giuridica.
14 Bastide fa notare come questa classe media « sarebbe certo rimasta impotente di fronte
alla classe dirigente dei rurali. Ma la soppressione del lavoro servile, avvicinando gli interessi
dell’esercito a quello dei proprietari colpiti profondamente nella loro economia in seguito alla
fuga dei loro ex-schiavi, ha consentito ai repubblicani di assumere il potere, del resto senza
spargimento di sangue» (R. Bastide, op. c it., p. 26).
15 G. Marotti, C a n u d o s, storia d i una g u e rra , Roma 1978, p. 12.
16 C. Furtado, op. c it., p. 82.
17 E. da Cunha, op. c it., p. 38.
18 I b id e m , p. 37.
101
sistema. Ma la desertificazione non è da imputare, in esclusiva, alle avversità
climatiche e all’asprezza geofisica. Alla sua avanzata hanno contribuito l’agricol
tura estensiva e povera, i pascoli dei colonizzatori, l’avidità dell’esploratore, l’ascia
e il piccone del bandeirante in cerca di schiavi e di oro, l ’espansione della pian
tagione. Il nordest sertanejo inaugura, cosi, il sec. XIX coi vaccari e i jagungos,
senza neri — poiché l’allevamento non richiede consistente manodopera — coi
suoi meticci e i suoi riti familiari e collettivi intrisi di magia e di superstizione in
una sovrapposizione storica di animismo, antropomorfismo, religiosità indigena del
sogno e della sofferenza.
Sullo sfondo di tale multiforme orizzonte culturale si evidenziano le due
realtà preminenti della fazenda e del sertào, apparentemente contrapposte, ma di
fatto, complementari nella divisione del lavoro, già a partire dal sec. XVII. Se
è vero che la monocoltura predatrice 15*9 respinge il bestiame, avido di germogli,
è anche vero che il mulino, il trasporto, l’alimentazione della fazenda hanno biso
gno dell’animale (specie del bue) che consente l’articolazione del patriarcato ge
rarchico e schiavo della fazenda e l’adozione di un modello di vita più nomade
e « democratico » alla comunità dei vaccari ricoperti di cuoio. « La civiltà della
canna è carnale; quella del sertào ha la durezza dell’osso » 20.
Lo storico Capistano de Abreu (1853-1927) ha parlato di « civiltà del cuoio »
che ricopre l’utensileria (sacchi, otri, corde, ecc.) e riveste le porte, le abitazioni.
Esclusivismo di vita fondato prevalentemente sulla pecuaria, senza casa padronale
e senza schiavi, senza fiumi che giustificassero l’agricoltura verticistica.
Religiosità, banditismo, indigenismo
Il ritmo del tempo e la cadenza delle stagioni inondano le misere abitazioni
di argilla di una religiosità fatta di sortilegi, ancorata agli agenti atmosferici, meno
formale e gioiosa di quella della costa. Religiosità dolente, banditismo, siccità
scolpiscono un’esistenza che si rifugia nel messianismo, nel millenarismo, espres
sioni di modi di produzione che scavano psicologie individuali e collettive radicate
all’ambiente e alla storia e che finiscono con l’attrarre il cristianesimo nella sfera
dell’indigenismo. « Il bovaro stretto dalla miseria, dinanzi ad una terra screpo
lata dal sole, dinanzi alle ossa degli animali o degli uomini morti di fame, sogna
una terra d ’acqua, di frutti zuccherati e di eterno verde. Riprende per proprio
conto, mescolandoli insieme, il mito dell’antenato indiano: “la terra senza male”
e la storia del popolo d ’Israele che cerca all’uscita del paese d ’Egitto “la terra pro
messa” » 21.
È il destino biblico che si confonde col misticismo sciamanico e settario della
pagelance22 con le sue «confessioni», le sue «denunce» radicata nel sertào,
15 La sociologia del nordest ha scritto pagine esemplari sulla cultura dello zucchero. « Pur
troppo la monocoltura non potè non essere latifondiaria e schiavistica a cagione delle sue
stesse condizioni di sistema di sfruttamento agricolo pressoché militare... D ’altra parte essa
non potè non essere conquista massiccia, mediante il fuoco, di spazi sempre nuovi e quanto
mai vergini. Conquista militare senza amore, della natura bruta, appena scalfita nella sua
verginità dall’incipiente coltivazione dell’indio, prima che iniziasse la devastazione del colono
portoghese. Entro tali condizioni non era necessario che tra noi attecchisse la figura del con
tadino: bastava quella del padrone di piantagione imperante sul negro dall’alto della casa
rurale o della groppa del cavallo... » (G. Freyre, op. c it., pp. 65-66).
20 R. Bastide, op. c it., p. 65.
21 R. Bastide, op. c it., p. 69.
22 La setta, di origine indiana, si ispira ad un misticismo estatico con interferenze di culti
misterici e l’utilizzo di narcotici indispensabili, nella stato di trance, per comunicare con la
102
terra di « santi-stregoni » e culla del misticismo politico sebastianista 23, fino alla
sua coniugazione in senso penitente e apocalittico di matrice cristiana alla quale si
ispirerà la religiosità di Antonio Conselheiro la cui biografia « compendia e rias
sume il modo di vivere della società del sertào » 24.
La figura del Conselheiro merita, in questo contesto, un sintetico ritratto. An
tonio Vicente Mendes Maciel nasce in una famiglia di piccoli coltivatori e com
mercianti nella cittadina di Quixeramobim (1828) nel Cearà. Prima di trasfor
marsi in profeta-pellegrino (1876), per necessità familiari esercita vari mestieri
da cassiere a Sobrad (1859) a scrivano. Nel 1876 — dopo essere passato per i
sertoes di Pernambuco — è nel villaggio di Itapicuru. Trova proseliti fra i jagunqos (ex-milizie feudali e bande di avventurieri) i contadini poveri, i bovari, i disoc
cupati che il Brasile sulla via della industrializzazione capitalistica espelle attra
verso la disarticolazione delle formazioni economiche precapitalistiche. La cre
scente popolarità del Conselheiro non sfugge alle autorità di governo che in una
dichiarazione, pubblicata nella capitale dell’impero, denunciano. « È apparso nel
sertào nel nord un individuo che dice di chiamarsi Antonio Conselheiro, il quale
esercita grande influenza sullo spirito delle classi umili, servendosi di un aspetto
misterioso e di costumi ascetici con i quali si impone alla ignoranza e alla sem
plicità. Si lascia crescere la barba e i capelli, veste una tunica di cotone e si ali
menta frugalmente ed è quasi simile a una mummia... Mostra di essere uomo
intelligente ma senza cultura ». Anche la Chiesa ufficiale, nelle sue gerarchie su
periori — fa fede, tra l’altro, una circolare emessa nel 1882 dall’arcivescovo di
Bahia — si oppone alla sua predicazione. Nel 1887 giunge sul litorale ove pre
dica in occasione di festività e fiere. Il momento decisivo di opposizione contro
la legislazione repubblicana coincide con la costituzione di municipalità autonome
e l’insediamento delle camere nell’interno bahiano. Per sfuggire alle ricerche della
polizia, il Conselheiro con i suoi seguaci inizia la diaspora nel sertào, finché giun
ge a Canudos. Qui finirà di dissenteria poco prima dell’assalto definitivo delle
truppe 25.
divinità. Una volta penetrata nel sertào la palange indossa i panni della s a n tid a d e , forma sincretistica di cattolicesimo gesuitico e di religiosità indigena. Quest’ultima si consuma nel
l’attesa del prete-stregone che, agitando una zucca ripiena di grani sonori (la voce degli ante
nati) entra nel villaggio. Attorno a lui le donne si confessano. Su questo rituale-culto attec
chirà l’adorazione di santi presi in prestito dai colonizzatori portoghesi che comporterà l’av
vento di una setta (S a n tid a d e ) dotata di gerarchia sacerdotale con al vertice un « capo *
chiamato Jesu p o cu (Gesti compiuto) e una donna chiamata Vergine Maria. Il mess .g„’o
della setta prefigura la emancipazione degli indigeni dalla prigionia in funzione di un’esistenza
felice e oziosa, premessa alla « redenzione ».
23 II sebastianismo riproduce su scala locale il mito messianico dell’indigenismo sertanejo
della Pietra bella (F edra b o m ta ) dalla «terra senza male». Il termine sebastianismo rinvia alla
leggenda di Don Sebastiano del Portogallo ucciso dai mori ad Alcaba Kebir, all’età di 24 anni
(1554-1578). Un meticcio indiano, Juan Antonio dos Santos della parrocchia di Flores (1836)
identifica il lago di Villa Rica con la soglia del regno di Don Sebastiano. Il luogo venerato
dal misticismo sebastianista è occupato da due pietre dritte alte 33 metri a forma di falli e
sotto le quali Juan Antonio celebra matrimoni e olocausti. Il rituale riproduce quello della
sa n tid a d e e si arricchisce di una serie di «privilegi» per il «profeta» (ad. es. lo ju s p ritn a e
n o c tis ). Il re José Joacquim profetizza l’avvento di un mondo di giustizia che farebbe del
povero un ricco e dello schiavo un libero, ma solo a condizione che fosse versato sangue puri
ficatore in quantità tale da consentire di resuscitare dalla terra lo spirito di don Sebastiano.
Lo stesso José Joacquim fu immolato. Il massacro (cani, donne, bambini, uomini uccisi) è
scoperto dalla polizia, in seguito alle rivelazioni di un bovaro José Gomes, ritenuto, per que
sto, dalla setta un traditore. L’incantesimo magico non è stato spezzato. Don Sebastiano at
tende ancora di essere liberato.
24 E. da Cunha, op. c it., p. 117.
25 Questa rapida « scheda » è ricavata da vari autori, ma l’opera di da Cunha è per tutti
103
C’è continuità fra la vicenda del Conselheiro e la tradizione mistico-sincretistica della religione sertaneja nella sopravvivenza-salvaguardia di una sorta di « iden
tità culturale» indigena. Quando Antonio raggiunge Canudos (1893) «vecchia
fazenda di bestiame sulla riva del Vasa-Barris, era nel 1890, un borgo di circa
cinquanta capanne di legno a picco sul fiume » 26. Nel giro di pochi anni Canudos
conterà 25 mila abitanti e 5.200 casupole.
Il Conselheiro è a Canudos, fuggitivo, dopo aver sobillato la folla di Bon Conselho contro gli editti per la riscossione delle imposte. La Repubblica appare come
il demonio da esorcizzate. La chiesa di Canudos accoglie — in linea con la tradi
zionale integrazione cristiana al modello indigeno di religiosità27 — un’eteroge
nea folla di sbandati, di poveri senza terra e senza lavoro ma composta anche di
vaccari, banditi, artigiani, piccoli commercianti che si trasformano in banditi per
approvvigionarsi e che bruciano le case di coloro che non seguono le leggi del
Conselheiro. Ma « il saccheggio dei paesi conquistati è un loro diritto di guerra
e su questo punto li assolve l’intera storia... I cangageiros nelle incursioni verso
il sud e i jagungos nelle incursioni verso il nord si trovavano di fronte senza
unirsi... L’insurrezione del distretto di Monte Santo le avrebbe collegate » 28. Si
profila, lungo tale asse, un abbozzo di ribellione sociale « nazionale » precorri
trice di movimenti contadini, politicamente organizzati.
Il governo repubblicano reagisce con campagne m ilitari29 concluse con la rasa
al suolo di Canudos e il massacro dell’intera popolazione. L’iniziativa s’inserisce
nella strategia politica di sostegno-copertura al processo di espansione economica
con l’impegno diretto del governo a reprimere con l’apparato amministrativo-militare, le insurrezioni regionali, le ribellioni contadine, l’attività dei bandoleros or
mai evolventisi da tradizionali fenomeni di endemica « patologia sociale » a ribel
lioni aperte, sospinte dalle contraddizioni coeve al modello di sviluppo nazionale
imposto dall’oligarchia borghese bancario-industriale sospinta e sollecitata all’in
tegrazione al mercato capitalistico internazionale.
La base sociale del bandolerismo è nelle masse povere rurali, costrette a sce
gliere fra la rassegnazione alla miseria piu dura, l’emigrazione come salariati sot
topagati nell’Amazzonia del caucciù e la trasformazione in « fuorilegge » gravitanti
in orbite economiche e culturali dei cangageiros30 e di sette mistiche. I cangageiros interpretano la rivolta contadina in attacchi a magazzini di viveri e assalti
alle fattorie, nella prospettiva della sussistenza locale, mentre le sette religiose
si sforzano di convogliare la protesta-opposizione contadina in movimenti armati
di aperta ribellione31.
la fonte principale. Si veda anche Pereira de Queiroz, R ifo r m a e R iv o lu z io n e n ella società
Milano 1970, al cap. « Movimenti messianici contadini in Brasile ».
26 E. da Cunha, op. cit., p. 136.
27 « La chiesa brasiliana, al contrario di quella europea, è una chiesa di sagrestie ». In
questo senso rappresenta la « prima solidarietà comunale » (R. Bastide, op. ci/., p. 45).
28 E. da Cunha, op. c it., pp. 166-67.
29 Sono state necessarie quattro spedizioni militari per sconfiggere i rivoltosi. La prima
(19 nov. 1896) al comando del ten. Pires Ferreira fallisce per una imboscata dei jagungos.
Falliscono pure la seconda (die. 1896) e la terza (3 febbraio 1897) spedizione, rispettiva
mente agli ordini del magg. Febronio de Brito (con 500 uomini) e del col. Moreira Cesar
che riesce ad entrare a Canudos prima di essere respinto. Soltanto coi 5000 soldati del gen.
Artur Oscar, la «cittadina», accerchiata, viene distrutta nella quarta spedizione (giugno 1897).
30 Al riguardo M.I.P. de Queiroz parla di « confraternita laica », in O s C angageiros: les
b a n d its d 'h o n n e u r b r é silie n s , Paris 1968, pp. 142, 164.
31 « Il fenomeno del banditismo sociale si riscontra universalmente nelle società fondate
sull’agricoltura (comprese le economie pastorali) ed è alimentato in larga misura da conta
dini e braccianti non proprietari di terre governati, oppressi, sfruttati da altri - signori, città,
tra d izio n a le ,
104
Si tratta di sollevazioni, con tratti banditeschi, organiche alle condizioni di una
zona « sottosviluppata » di moderna costituzione. Dietro Canudos manca un pro
gramma di società contadina data l’assenza di un progetto rivoluzionario che pre
veda alleanze di classe su scala nazionale e per aver espresso un moto insurrezio
nale socialmente composito, culturalmente sincretistico non integralmente ricon
ducibile alle guerre contadine dell’Europa del sec. XVI, nonostante certe « affi
nità ideali », per cui si può parlare, con Engels, di « eresia plebeo-contadina tesa
ad oltrepassare non solo il presente ma perfino il futuro » 32.
Il Conselheiro, pertanto, rientra tra gli agitatori sociali che popolano la re
gione bahiana e che da sempre hanno sfidato l’autorità costituita (chiesa e stato)
in nome della difesa morale dell’ordine tradizionale e della rivendicazione di una
società di « giustizia ». Il Conselheiro invoca piu giustizia secondo coordinate so
ciali ed etiche in cui prevale il tradizionalismo, l’utopia anacronistica o velleitaria
di masse senza beni e senza diritti le cui « condizioni di vita non il mettevano mai
in contatto diretto con le istituzioni vigenti, dalle quali erano completamente
ignorati » 33.
Quanto piu il bandito — sotto il profilo sociologico — è consapevole del
diritto dei diseredati tanto piu l’autorità politica interpreta la sua ribellione come
un atto politico di rivoluzione sociale. È accaduto al Conselheiro, visto come
rigurgito di atavico anacronismo34 come espressione di reazione legittimista, da
parte dei contemporanei35, alle soglie del sanfedismo vandeano. « Malgrado la
inesattezza del confronto Canudos era la nostra Vandea » dirà da Cunha 36.
Canudos si trasforma, agli occhi degli ambienti colti cosmopolitici borghesi,
in problema politico di rilevanza nazionale e al Conselheiro si fanno indossare
i panni del sovversivo antirepubblicano. Nonostante i prevalenti commenti di
stampa e i rilievi dell’autorità di governo, tesi a denunciare la presunta collu
sione fra insorti ed esponenti dell’ancien régime, molte voci si levano a solle
vare dubbi e ad avanzare dei « distinguo » 37. La politicizzazione del movimento
comuni, governi, uomini di legge o anche banche»
(E. J. Hobsbawm, I
b a n d iti,
Torino
1971> P- 14>32 F. Engels, La guerra d ei c o n ta d in i in G e r m a n ia , in Marx-Engels, O p e r e , X, Roma,
1972, p. 419.
33 I b id e m , p. 419.
34 E. da Cunha, op. c it., pp. 114-16.
35 Nell’opera A G u erra de C a n u d o s Macedo Soares, in qualità di ufficiale è convinto di
aver combattuto una guerra in difesa della repubblica minacciata. Sull’onda dell’indignazione
prodotta dai primi insuccessi militari, i giornali parlano di tentativi di restaurazione monar
chica. Sulle loro pagine compaiono articoli ridondanti di retorica patriottarda, episodi leg
gendari. La « Nación » di Buenos Aires (30 luglio 1897) ipotizza una congiuntura interna
zionale. Walnice Nogueira Galvào — nel libro No C alor da H o ra , Sào Paulo 1974 — riporta
la convinzione del gen. Oscar sull’esistenza di un progetto politico legittimista. La « Gazeta
de Noticias » mette in guardia contro il « monarchismo rivoluzionario » preoccupato di « di
struggere insieme con la Repubblica, l’unità del Brasile » (Cit. in E. da Cunha, op. c it.,
p. 262). Il presidente della Repubblica dirà: « Sappiamo che dietro ai fanatici di Canudos
lavora la politica ».
36 E. da Cunha, op. c it., pp. 153, 182. L’autore era stato corrispondente di guerra del « Estado de Sào Paulo ». L’espressione — ripresa cinque anni dopo in « Os sertòes » — appare
sul giornale dopo il fallimento della spedizione di Cesar (14 marzo 1897). Soltanto in set
tembre, a tre mesi dalla distruzione di Canudos, da Cunha vedrà quello che era stato il
campo di battaglia.
37
W. N. Galào, in un articolo sul giornale « O Comércio de Sào Paulo» (14 ott. 1897)
denuncia il silenzio sul massacro di Canudos. A suo parere la guerra non è scoppiata per
motivi religiosi (stante la libertà di culto riconosciuta dalla Costituzione) né per abbattere
le istituzioni vigenti, sibbene per il rifiuto, opposto dal Conselheiro, ad appoggiare alcune per
sonalità politiche durante le elezioni. L’ex-governatore José Gongalves accenna a cause di
105
si è consumata in un periodo di insorgenti conflitti e sollevazioni locali, in molti
dei quali non erano estranei organi di stampa e settori politici monarchici.
Di contro le classi liberali egemoni mostrano insofferente incomprensione per
fenomeni sociali differenziati, riacutizzatisi e comparsi con lo sviluppo diseguale
e distorto e col varo di misure legislative che cadono in una fase di aumento dei
prezzi e del costo della vita mentre si fanno piu acuti i contrasti all’interno delle
classi dirigenti. Qualsiasi tipo di opposizione compaia, ad essa si fa risalire l’inten
zione di colpire la repubblica, ovvero di mettere in discussione l’integrità della na
zione federata allo Stato, con un impossibile ripiegamento anacronistico nei con
fronti del « mondo moderno » 38.
Da una simile impostazione della « questione nazionale » in Brasile e dalla
interpretazione dei fatti di Canudos emerge, innanzitutto, un corposo sostrato
ideologico eurocentrico — non esente da venature razzistiche39 — riflesso tra
l’altro, nella « coscienza critica » della borghesia colta europeizzata, in uno spac
cato politico di rivendicazione della « nazionalità » brasiliana che fatica ad espri
mersi nell’ultimo ventennio del sec. XIX. E colpisce ancora la deviante conce
zione evoluzionistica della storia — da cui non è esente da Cunha — caratteri
stica positivistica della contrapposizione fra « modernità » ed isolamento. Ad
essa si sono collegati un filone idealistico — Canudos come « regno della liber
tà » 40 — e la concezione intellettualistica dei «due Brasili». Canudos non è a
metà strada fra comunalismo anarchicheggiante e « autogestito » 41 ed esclusivo
banditismo sociale di tipo rurale. È un fenomeno piu complesso che non si esau
risce nell’alveo dell’indigenismo ottocentesco nutrito di millenarismo e di pro
fetismo.
Il Conselheiro, Canudos, la Repubblica
Interprete e rappresentante di questa tendenza si
tivistico del Conselheiro « elemento attivo e passivo
se » 42. Le sue prediche infuocate, cariche di iniziative
lione, rivelano un senso profetico — da « ispirato da
rivela il misticismo sogget
dell’agitazione da cui sor
e di incitamenti alla ribel
dio » — e slancio morale-
ordine politico-sociale sostenendo l’illegalità presente nello stato di Bahia, esposto al dispo
tismo, cosi come riporta W.N. Galvào, op. c it., p. 156.
38 « Dopo aver vissuto quattrocento anni nel vastissimo litorale, su cui non vi erano che
pallidi riflessi di una vita civilizzata, ricevemmo improvvisamente, come eredità inaspettata,
la Repubblica. Ascendemmo di colpo, trascinati nella corrente degli ideali moderni, lasciando
sepolto nella penombra secolare, nel fondo del paese, un terzo della nostra gente. Ci lasciam
mo illudere da una civiltà presa in prestito... Rendemmo cosi, con una rivoluzione, piu pro
fondo il contrasto fra il nostro modo di vivere e quello dei nostri rudi compatrioti, piu stra
nieri in queste terre che gli immigrati europei. Perché da loro non ci separa il mare, ci sepa
rano tre secoli...» (E. da Cunha, op. c it., p. 153).
39 « La straordinaria forza dell’ereditarietà... trascina verso gli ambienti più progrediti degli
autentici trogloditi inguantati e coperti di una vernice di cultura. Il corso normale della
civiltà in generale li trattiene, li domina, li impaccia li deprime e a poco a poco, li distrugge,
ricacciandoli nella penombra di un’esistenza inutile... » (E. da Cunha, op. cit., p. 263).
40 G. Marotti, op. cit., p. 101, ove si riprende la tesi di Machado de Assis, scrittore della
ricca borghesia di Rio, che raffigura gli abitanti di Canudos in questi termini: « I seguaci del
Conselheiro si sono ricordati dei pirati romantici, hanno scosso i loro sandali alla porta della
civiltà e sono usciti alla vita libera».
41 Nella Canudos del Conselheiro non esiste un’amministrazione preposta alla riscossione
delle imposte. La polizia è rappresentata dai jagunqos. La vita quotidiana è regolata dalle leg
gi del capo che vietano la vendita dell’alcool e la prostituzione. Nel sertào il villaggio traduce
una realtà non-burocratica senza servitù.
42 E. da Cunha, op. c it., p. 115.
106
dogmatico di un cristianesimo penitente, esaltatore della precettistica montanista 43.
L’avversione nei confronti della Chiesa ufficiale si traduce nel recupero del misti
cismo indigeno « curato » pietisticamente in assonanza col mito messianico rurale
dell’avvento del « regno di dio ». L’avversione si manifesta — in nome di una
« società naturale » — contro il « modernismo » le cui vesti politiche repubbli
cane (divisione dei poteri, legislazione matrimoniale civile, divisione fra Stato e
Chiesa) hanno alterato i valori tradizionali della società rurale.
Nella reazione morale e nella mobilitazione rurale contro il lassismo etico-giu
ridico attecchisce una metafora messianica44 nella rivolta sociale antistatale 46. Il
Conselheiro, per questa via, non aspira alla creazione di una Chiesa alternativa,
preoccupandosi, invece, di « rigenerare » la Chiesa locale, alla quale, peraltro, non
fa mancare l’afflusso di rendite con la promozione di feste, novene, battesimi,
matrimoni, confessioni. La sua predicazione manca di prospettiva rivoluzionaria
di emancipazione degli oppressi, esaurendosi in un’agitazione riformistica a sfondo
etico-sociale di avversione alle leggi di uno stato, avvertito come strumento del
demonio. Di qui il suo antistatalismo etico che, nella congiuntura politico-econo
mica nel quale cade, occupa un suo « spazio politico ».
La qualcosa è, del resto, confermata dall’organizzazione della vita a Canudos
una volta insediatosi il Conselheiro. Da Cunha riferisce la testimonianza di un
sacerdote: « Già nel 1876... si agglomerava là una popolazione sospetta, oziosa,
aggregata alla fazenda ancora fiorente; questa gente era armata fino ai denti e la
sua occupazione quasi esclusiva consisteva nel bere acquavite e fumare una strana
pipa di terra in tubi di un metro di lunghezza... ».
Popolazione dispersa e impoverita dalla progressiva decadenza economica della
regione che fa dire a Rodrigues de Carvalho che l’individuo del Nordest è il ri
sultato del 50% d ’africano, 40 d ’indio e 10 di ariano intorpidito dal clima. « È
l’uomo della canaglia nordista » 46. Di ben diverso tono e valore è, invece, la rela
zione medica del 1849 sulle condizioni sociali del nordest, imputate alle disfun
zioni produttive, al degrado ambientale che portano al decadimento fisico degli
individui47.
Canudos si presenta priva di strade, con « le piazze che, esclusa quella della
chiesa, non erano altro che lo spazio comune dei cortili; le casupole unite lo ren
devano quasi un unico amplissimo edificio... » 48. Con la sua « amministrazione
autonoma », Canudos si configura come un « regime teocratico » retto dal perso-
43 Attorno al 1850 compaiono compagnie di penitenti (se re n o s ) che, sulla scia della
Chiesa missionaria coloniale, profetizzano la fine del mondo liberato dai peccati. Nei riti
notturni gruppi di flagellanti si impongono cilici di spine, di ortiche a « mortificazione della
carne ». Sul « montanismo » in Brasile qualche cenno in Bastide, op. cit.
44 « In verità io vi dico che quando le nazioni lottano con le nazioni, il Brasile con il
Brasile, l’Inghilterra con l’Inghilterra, la Prussia con la Prussia
dalle onde del mare uscirà
D. Sebastiào con tutto il suo esercito ».
45 « In questo giorno, quando esce col suo esercito, toglie a tutti, passandoli a fil di
spada, le loro attribuzioni nella Repubblica ».
46 In G. Freyre, op. c it., p. 154.
47 Nello studio si rileva: « il male derivante alla salute pubblica dalla distruzione dei bo
schi, dalla mancanza di cure nella conservazione degli animali e nel trattamento delle malattie,
non si limita solo alla loro trasmissione e sfacelo momentaneo, bensì si estende sino a pro
durre un’alterazione organica susseguente e generale, che trova la sua origine nel difetto di
tutta la produzione ». In riferimento al lavoratore libero della regione si osserva che: « Il
salario medio di un uomo è di 640 reis: l’uomo socialmente considerato è il risultato della
riunione di tre persone, marito, moglie e figlio; ed è il primo che deve sopportare il mas
simo del lavoro, il lavoro di permuta che provvede a tutto» (In G. Freyre, op. cit., pp.
155-56).
48 E. da Cunha, op. c it., p. 139.
107
nalismo mistico-autoritario del « capo » le cui relazioni sociali sono agevolate dal
l’affinità morale attinente ad un modo di produzione comunitario nella sussistenza
(uso comune dei pascoli e della terra) e della pratica della consegna dei propri
averi al Conselheiro, da parte di chiunque chieda vitto, alloggio, « assistenza ».
Fuori del villaggio le bande armate del « capo » agiscono con razzie e violenze
nei villaggi e nelle fazendas per rifornirsi di vettovaglie. Lo scontro col governo
diventa inevitabile.
Il processo religioso si salda al fenomeno banditesco estendendosi per ef
fetto della disarticolazione dell’unità produttiva di base della regione, riuscendo
a coagulare un’eterogenea « opposizione ribellistica » dai sbiaditi ed incerti con
torni politici. L’opera di « pacificazione » del sertào, avviata dalle classi domi
nanti al potere, rientra nella piu vasta lotta di sradicamento di fenomeni sociali
di « resistenza » e di opposizione strumentalizzabili da parte della reazione mo
narchica, attivati da un diffuso disagio e malcontento, conseguenti alla crisi eco
nomica (incursioni banditesche, quali quella sul villaggio di Jecqué o insurrezioni
di distretti come quello minerario di Leugóes).
In molte zone l’esaurimento dei filoni auriferi determina l’impoverimento
ulteriore di masse di individui legati a forme precarie di lavoro e di esistenza.
Il banditismo, di conseguenza, viene rinfocolato. Si è anche molto insistito sulla
tattica e sui mezzi impiegati dalle truppe governative per aver ragione degli in
sorti (cannone Krupp d ’assedio) e si sono messi in risalto l’insufficienza della co
noscenza dei luoghi, della popolazione e dei metodi di combattimento dei jagungos. Da piu parti, infatti, si solleva l’opportunità di costituire delle « milizie irre
golari » che adottino sistemi e tecniche di combattimento degli avversari, padroni
del campo per la perfetta conoscenza dell’ambiente.
Ma al di là di queste considerazioni emerge la tendenza del nazionalismo li
berale militarizzato49 attento a « superare » il federalismo nella preoccupazione
di denunciare l’insorgente « cospirazione nazionale » antirepubblicana. Alla ricca
e colta borghesia della costa sfugge la rilevanza da « sottosviluppo » dei fatti di
Canudos interpretati o in chiave esclusivamente politica o in chiave di resistenza
alla modernizzazione. Il processo di formazione di una « coscienza nazionale »,
così, coesiste con l’ignoranza della realtà del sertào, ma soprattutto col ruolo as
segnato a zone dell’interno, nelle fasi di espansione del modo capitalistico di pro
duzione, funzionali, produttivamente, ai disegni del grande capitale brasiliano in
via di internazionalizzazione50. La formazione del mercato nazionale capitalistico
ingloba, nella forma dello « sviluppo associato dipendente » spazi, culture, modi
di produzione sia attraverso la soluzione statalistico-militare, sia attraverso la
« divisione » regionale della produzione e del lavoro. Si ridisegna la geografia
socio-economica dell’interno la cui collocazione commerciale e la cui caratteristica
produttiva e di consumo traducono piu uno schema di sviluppo imperialistico che
colonialistico. Ovvero piu che di antinomie sociali e politiche bisogna parlare
di contraddizioni non necessariamente rispondenti alla rigidità dell’antitesi, peral
tro schematica, fra costa e interno, tipica della visione dualistica dello sviluppo51.
49 « La Repubblica, nata da un « golpe » militare, porta alla ribalta, per la prima volta,
la figura del militarismo-politico... » (P. Cannabrava Filbo, M ilita r ism o e im p e r ia lis m o in B ra
sile, Milano 1969, p. 37).
50 « ... tutta la Nazione dovrà seguire gli interessi dell’oligarchia del caffè soffrendo le
conseguenze di ogni sua crisi... soffrendo, soprattutto, le conseguenze della dipendenza da
gruppi internazionali... » (P. Cannabrava Filho, op. c it., p. 39).
51 Fra i tanti teorici dello sviluppo duale ricordiamo: Afonso Arinos, O b ra s c o m p le ta s ,
Rio de Janeiro, 1969 e soprattutto J. Lambert, O s d o ts B rasis, Rio de Janeiro 1965; C.
108
!
Piu che alla contrapposizione dualistica 52 bisogna prestare attenzione allo svi
luppo diseguale o distorto di strategie economiche, frutto dell’investimento nei
settori produttivi trainanti in un processo di dipendenza integrata dell’interno e
verso l’esterno. Valga per tutti l’esempio dell’abolizione legale della schiavitù
richiesta dall’espansione commerciale sostenuta dalle banche e dall’avvio del pro
cesso d ’industrializzazione che chiede salariati. L’ex-schiavo subisce un riciclag
gio sociale di tipo servile una volta immesso nei circuiti produttivi capitalistici
che ne impedisce la emancipazione reale con la riduzione a manodopera sotto
pagata 53. Di conseguenza si può sostenere che non è stato l’isolamento, ma l’in
tegrazione a determinare il sottosviluppo di Bahia e del Brasile.
Infatti l’economia brasiliana, « nel periodo dal 1891 al 1900, dipendeva an
cora totalmente dallo sfruttamento e dall’esportazione di prodotti tropicali come
il caffè, lo zucchero, il cacao, il tabacco, la gomma, dove il caffè corrispondeva
al 64,5% delle entrate totali dell’Unione. Le necessità di consumo del popolo
erano soddisfatte praticamente dalle importazioni, comprese quelle di alimenti... » M.
La « questione sertaneja » fa parte della « questione nazionale » per incorporazione
forzata di tipo statalistico da parte di un blocco di classe per il quale la formazio
ne della nazione passa per la « riconversione » dell’economia coloniale con le sue
aristocrazie locali, i suoi monopoli agro-commerciali. Si delineano coordinate di in
tegrazione, su scala mondiale, che vede protagonista locale l’oligarchia borghese
nazionale legata all’importazione di manufatti e di consumi di lusso, principal
mente, dall’Europa. Egemonia di classe che spiega sociologicamente il « sottosvi
luppo » come « indigenismo » deteriore e arcaico e quest’ultimo come forma pre
industriale di sopravvivenza cui rinviare ogni contraddizione.
In tal modo si snatura il fattore « indigeno » accusato di incapacità struttu
rale a spezzare l’« isolamento » etnico-regionale che riposa su un’economia ele
mentare. Nel contempo la formazione di un incipiente strato proletario e la consi
stenza di classi subalterne depoliticizzate sono ideologicamente spiegate come
l’inevitabile prezzo da pagare alla « modernizzazione ».
Questa visione d ’insieme favorisce l’attecchimento di una letteratura ad indi
rizzo sociologico che scompone il Brasile nella dicotomia coloniale (litorale contro
interno) improvvisando un « recupero di coscienza » della « questione indigena »
o improvvisando un immobilismo folkloristico di tipo antropologico che nostal
gicamente propone un Brasile « originario » che assorbe surrettiziamente la polie
drica sfaccettatura culturale del paese.
Si finisce, cosi, per spiegare Canudos come un episodio avventuroso di indi
vidui rozzi ma liberi, ingenui e temerari, « figli della fede » o superstiziosi « anar
chici ». In realtà la questione travalica l’ambito esotico-romantico per denunciare
l’esistenza di economie fragili che non resistono ai colpi inferti dalle catastrofi
naturali, che non riescono a proteggere la vita economica né le popolazioni opFurtado, op. cit. Questa interpretazione dualistica è stata fatta propria anche da studiosi
marxisti come W. Martins.
52 L’interpretazione dualistica concepisce l’esistenza di due settori — tra loro indipen
denti — l’uno moderno, capitalistico, l’altro agricolo e feudale la cui distruzione comporta
l’uscita dall’« arretratezza ». In realtà il sottosviluppo non precede lo sviluppo — per que
sto non va scambiato col non-sviluppo — e non è caratterizzato da chiusura. Inoltre lo sche
ma duale non coglie i fenomeni di interdipendenza regionale all’interno del sistema capitali
stico internazionale come rileva R.C. Simonsen, H istó r ia eco n ò m ica d o B rasil, 1 5 0 0 -1 8 2 0 ,
Sào Paulo 1962.
53 A. Gunder Frank parla di «involuzione capitalistica passiva dell’interno», op. c it.,
p. 199.
34 P. Cannabrava Filho, op. c it., p. 39.
109
presse da una fame storica. Sotto tale profilo il « sottosviluppo » — nella forma
della monocoltura latifondistica e dell’insufficiente investimento di capitali nello
sfruttamento delle risorse naturali — sottende una sua trasformazione man mano
che si è profilato il declino degli assetti coloniali piu retrivi.
Odio distruttore e delirio mistico non sono proiezioni di un ribellismo inge
nuo ed incoerente cooptati in versione antistatale, quanto il risvolto di un senti
mento di rivolta impersonato dalle figure sociali dominanti della società agropastorale. Si direbbe l’incarnazione del sogno millenaristico-messianico di popo
lazioni che, prive di diritti, di beni, di garanzie, prefigurano una società abbon
dante di beni e di riconoscimenti verso i poveri55.
Canudos ha rappresentato, contemporaneamente, il disperato tentativo della
società tradizionale di difendere la propria esistenza erosa dall’incalzante « moder
nizzazione » e l ’esordio dell’insurrezione rurale — per ora nella veste di un messianesimo religioso — in progressiva evoluzione verso la rivoluzione contadina, ca
ratterizzata dalla lotta dei « detentori » e delle « Leghe contadine ». La cornice na
zionale, nella quale si inseriranno le future battaglie delle classi povere e sfrut
tate, è ritagliata da un esercito che si identifica con la classe media sorta senza
una struttura economica robusta.
55 R. Facó, Cangaqeiro's e F a n a tic o s , Rio de Janeiro 1963.
no
Maria Bonatti
La presenza
della politica italiana
nella ricerca
di José Luis Orozco
In Messico gli studi politici al loro inizio furono saldamente abbinati alla giu
risprudenza, ma si andarono via via chiarificando a partire dal 1920 con il culmine
della rivoluzione messicana, senza però assumere quel carattere di scientificità che
viceversa sarà riscontrabile a partire dal 1968, in seguito alla crisi politica provo
cata dal movimento studentesco.
Attualmente molti intellettuali si dedicano intensamente e con grande capacità
alle ricerche socio-politiche, stimolati pure dalla generale situazione latinoameri
cana in continuo fermento politico. In questo periodo si moltiplicano gli istituti
e i centri di ricerca.
Alcuni di questi, già prestigiosi prima degli anni sessanta, come la Escitela nanacional de ciencias politicas (fondata nel 1951), VInstitute) de investigaciones so
cieties del 1930 e il Centro de estudios internacionales (1960), contribuiscono a
incentivare gli studi di sociologia politica e ad analizzare quindi in profondità le
conseguenze politiche del processo rivoluzionario con metodi ed elaborazioni cri
tiche attendibili ed estranee al dogmatismo fino allora dominante.
Negli anni settanta molti sono i corsi univeristari di buon livello che trattano
tematiche socio-politiche latinoamericane e in particolare messicane, tenuti da do
centi molto preparati e alieni da influenze straniere, specialmente nordamericane.
In questo ambito, è da considerare un avvenimento importante la pubblica
zione, nella « Revista de administración publica » (Mexico 1980), della traduzione
del primo capitolo degli Elementi di Scienza Politica (ed. 1896) di Gaetano Mosca,
il piu importante degli studiosi delle elites in Italia, e nel 1984 l’antologia di Nor
berto Bobbio La classe politica (Bari 1966) che include i capitoli fondamentali
degli Elementi del Mosca.
Secondo il prof. Rafael Pérez Miranda della Universidad nacional autònoma de
111
Mexico, ciononostante nel panorama politico culturale messicano di questi anni,
pochi studiosi della scienza politica conoscono il pensiero di Gaetano Mosca che
viene studiato prevalentemente nell’ambito di determinati corsi di perfeziona
mento e spesso ricorrendo a fonti indirette.
AH’interno di questa breve panoramica sugli studi politici in Messico si di
staccano con rilevante novità gli studi di José Luis Orozco sugli autori politici
italiani e in particolare i suoi apporti critici alla dottrina moschiana della « difesa
giuridica ». Attualmente responsabile del Corso di perfezionamento della Facoltà
di scienze politiche deWUniversidad nacional autònoma de México, Orozco ha
occupato in passato le cattedre di sociologia e filosofia nella Università di Chihua
hua, ottenendo in questa sede una borsa per specializzarsi in scienze politiche pres
so l’Università del Texas. Questo soggiorno degli Stati Uniti gli ha permesso di
approfondire gli studi sulla scienza politica nordamericana che rielabora criticamente in un lungo saggio del 1978: La pequeha ciencia. Una critica de la ciencia
politica norteamericana.
Per molti intellettuali latinoamericani gli Stati Uniti (il paese darwinista, come
lo chiama Orozco) costituiscono una presenza imponente e mitica che può essere
interpretata solo dopo una attenta analisi delle sue problematiche socioeconomiche.
Orozco, nelle Notas de Pais Darwiniano studia la logica interna del mondo sta
tunitense dove todo lo cmpresarial es racional y todo lo racional es empresarial. Il
senso comune nordamericano ingenuo e brutale ad un tempo, magistralmente de
lineato da José E. Rodò in Ariel (1900) viene analizzato da Orozco con una lucida
prospettiva critica che stimola la comprensione dei meccanismi egemonici del gran
capitai norteamericano.
Ma come ho detto poc’anzi l’apporto piu cospicuo degli studi di Orozco ri
guarda la cultura politica italiana. Vediamo brevemente quali sono gli autori ita
liani che lo studioso messicano conosce e affronta prima di Mosca.
Nella Teoria Social Orozco traccia un quadro piuttosto completo delle tendenze
sistematiche piu rilevanti del pensiero sociale dell’Antica Grecia fino ai nostri
giorni soffermandosi su quegli autori che occupano dei posti chiave nella storia
della sociologia.
Nel clima spirituale dell’Italia rinascimentale Orozco distacca la personalità di
Machiavelli come abile conoscitore delle debolezze umane che nel Principe delinea
gli aspetti aggressivi di un volontarismo politico diretto al desgarrarmento de los
fact ores de determination histórica y a las fuerzas irracionales que actuan en la
sociedad.
Fra gli utopisti Orozco ricorda Campanella che in una visione ottimista è fau
tore di « una società veramente razionale ».
Considerando le scienze speciali che cominciano a sistemizzarsi neH’Uluminismo europeo, lo studioso messicano affronta con sintetica chiarezza la Filosofia
della Storia e l’opera di Giambattista Vico. Del pensatore napoletano lo colpiscono
in particolare l’acuta penetrazione sociologica e filosofica, la formulazione delle
fasi ascensionali e decadenti del divenire umano, i « corsi » e i « ricorsi » con cui
spezza la visione astratta dell’uomo statico, « zavorra sia del razionalismo che del
l’empirismo ». A Vico Orozco ritorna spesso considerandolo il precursore indiscu
tibile del positivismo di Compte. Nel quarto capitolo della sua Teoria Social, inti
tolato « La Sociologia Psicologista », Orozco dedica ampio spazio alla Scuola Criminologica Italiana che ritiene « nonostante il suo carattere eclettico una delle in
fluenze pratiche più decisive nel terreno delle scienze sociali speciali, in partico
lare nella Sociologia e nel Diritto Penale ». Si sofferma a lungo su Enrico Ferri,
fondatore della sociologia criminale. Riconoscendogli l’evidente attrazione per le
idee di Cesare Lombroso, Orozco sostiene che Ferri vuole fissare lo schema di una
112
causalità obiettiva nel delitto modificando le nozioni di responsabilità e di pena
predominanti nel suo tempo, con concetti che diano risalto alle condizioni fisiche
e sociali anormali della condotta. Orozco, pur riconoscendo l’importanza delle tesi
del Ferri, la loro meticolosità metodica, che servono a porre le basi di una politica
criminale eminentemente preventiva, critica una certa debolezza nel concepire la
Società come causa della delinquenza individuale e sottolinea come la sua idea
di evoluzione sociale non sia altro che una combinazione di postulati darwiniani e
marxisti.
Un lungo ed approfondito saggio su Vilfredo Pareto conclude la prima parte
della Teoria Social. Dopo averne esposto dettagliatamente la teoria sociologica, Orozco la commenta come « un insieme teorico di profili disuguali che si conclude
in una generalizzazione cosi ambiziosa che dissolve i caratteri specifici delle società
particolari in uno schema amplissimo ».
Nel 1969 Orozco inizia a occuparsi dell’opera di Gaetano Mosca e pubblica
nel 1970 G. Mosca. Ensayo de Ciencia Politica nei Cuadernos de la Escuela de Administración Publica y Ciancia Politica che Ettore Albertoni nell’Introduzione al
recentissimo Dottrina della classe politica e teoria delle élites (Milano 1985) consi
dera un autentico lavoro da « pioniere per aver presentato l’opera del Mosca nel
suo corretto contesto culturale e ambientale e secondo una conoscenza di prima
mano dei testi ».
Dopo aver studiato a lungo i classici della politica nei tre principali momenti
di apogeo del pensiero borghese: l’illuminismo, il positivismo e il pragmatismo,
Orozco, come dichiara nella Nota introduttiva alla versione italiana della interpre
tazione critica della difesa giuridica ricerca il collegamento di « quelle tre tappe con
il liberalismo, la sostanza che dà loro il nutrimento e l’orientamento » e lo trova in
Mosca « autentico libero pensatore del liberalismo ». Come sottolinea Albertoni
« l’analisi dell’Orozco è assai ben costruita e nei confronti dell’elaborazione moschiana è anche resa agguerrita dall’ottima conoscenza che lo studioso messicano
ha dell’opera sia di Benedetto Croce che di Giovanni Gentile ». Proprio a Gentile,
infatti, Orozco dedica un interessante saggio nel 1979 su cui vorrei soffermarmi
per sottolineare come la cultura politica italiana sia stata approfondita e rielabo
rata originalmente anche fuori dai suoi confini naturali, come ci dimostra questo
problematico ed acuto studioso messicano.
Nel saggio intitolato El joven Gentile y los prolegómenos del fascismo. Orozco
Orozco considera le opere giovanili di Gentile per spiegarne la traiettoria filosofica
che lo porta ad abbracciare l’ideologia fascista. Parte dalla sua tesi di laurea su
Rosmini e Gioberti pubblicata nel 1898 in cui Gentile riprende il programma de
lineato da Spaventa, programma tendente a un’interpretazione dei temi fondamentali della filosofia italiana al fine di evidenziare l’intima correlazione con la
modernità europea. Orozco sottolinea come questo studio abbia marcato l’inizio
di un’ampia esperienza storiografica, orientata soprattutto verso il pensiero ita
liano del Rinascimento, la quale si concretò in una serie di pubblicazioni di opere
che rinnovarono, spesso in modo radicale, un terreno di studio al quale il positivi
smo aveva dato un non trascurabile contributo.
Passando attraverso la « riforma della dialettica hegeliana » che voleva signi
ficare attraverso le parole dello stesso Gentile il concetto fondamentale che la sto
ria (e non soltanto come « historia rerum gestarum » ma come le stesse « res ge
stae ») s’identifica col pensiero pensante o con la filosofia, Orozco arriva « all’as
sedio » che Gentile fa a Marx nei due saggi che costituiscono Ea Filosofia di Marx.
Studi Critici (1899), che Lenin giudicava una delle piu importanti interpretazioni
del pensiero di Marx.
Alla fine di questo saggio di Orozco è interessante notare il riferimento all’eli113
tismo di Mosca che ci dimostra come lo studioso messicano lo avesse già studiato
e approfondito precedentemente.
Per Orozco, la lettura delle opere giovanili di Gentile gli rivela « come la de
stra europea abbia costruito il proprio baluardo nella storia delle idee e si sia arro
gata il merito della sconfitta del nemico (Marx) visto senza sfaccettature ».
Ho già avuto modo di sottolineare precedentemente l’interesse degli studi fatti
da Orozco sulla teoria politica di Gaetano Mosca di cui — sostiene — bisogna
negare la definizione di « machiavellico » attribuitagli da Burnham. « La teoria
politica del Mosca — dice Orozco — si muove in una dimensione etica, costituzio
nalista: il suo sistema di valori si oppone alle modalità spiritualiste e pragmatiche
che si apprestano a sostenere la supremazia normativa di dettati ed energia interagibili tra cui rientrano l’arbitrarietà della forza, la razza, l’evoluzione, l’élan vital,
la cura dello spirito, la volontà del potere, il destino manifesto, l’amministrazione
scientifica o la pura meccanica fisiologica del Behaviorismo ».
Nel saggio del 1970 su Gaetano Mosca, a cui si è già fatto riferimento, Orozco
fa delle interessanti considerazioni sullo storicismo di Mosca che, cosciente che i
fenomeni sociali sono « il prodotto di coefficienti o fattori multipli » inaccessibili
a un semplice psicologismo di matrice individualista, si dirige all’esame di quei vin
coli « sempre costanti e generali » che sottostanno agli avvenimenti particolari per
ché la scienza sociale deve affermarsi nella sintesi di una lunga catena di eventi sia
storici che contemporanei.
In quest’ottica Orozco ferma la sua attenzione sulla teoria dei gruppi di pres
sione che per Mosca sono gruppi al di fuori dell’amministrazione pubblica che in
varie occasioni svolgono attività direttive della società. Lo studioso messicano
nota una certa incongruenza in questa idea perché « se da una parte il liberalismo
moschiano reclama un senso morale disciplinato nella cui formazione gioca una
parte fondamentale l’aspetto moral-religioso della società e, di conseguenza, dei
gruppi dirigenti, dall’altra esige la separazione tra il potere secolare ed ecclesia
stico come requisito per la libera azione delle forze propriamente politiche ».
Inoltre Orozco considera un errore fondamentale l’identificazione del sistema
militare come una forza sociale « concentrata ». Dall’analisi del meccanismo milita
re partirà la trattazione del tema delle due forze sociali, che, benché enunciate
astrattamente si profilano come i poli dialettici della teoria moschiana dell’equili
brio sociale. Equilibrio che porta il Mosca a dire che la difesa giuridica simboleggia
il consenso popolare, il quale manifestando la superiorità della società sull’indivi
duo riconduce ad « un governo onesto e veramente liberale ».
Concludendo il suo approfondito studio su Gaetano Mosca, Orozco nota che
confrontandolo con la tradizione politica del pensiero occidentale moderno, risulta
evidente come egli vada oltre il realismo machiavellico che Burnham gli fa con
dividere con Sorel, Pareto e Michels. Mosca per Orozco è un positivista del secolo
scorso, partecipe della fede nell’uomo e nella scienza che deriva dalla visione dinamico-statica, comptiana, della storia.
Non ho pensato qui di esaurire tutto l’apporto critico dato da J. L. Orozco
allo studio della cultura politica italiana ma solo di indicare alcune tematiche
essenziali dei suoi interessi « italiani » per mettere in risalto come in un paese
come il Messico, cosi diverso per tanti aspetti dal nostro, ci siano intellettuali va
lidi e impegnati nello studio della dottrina della classe politica e piu in generale
del pensiero politico italiano e per sottolineare ancora una volta lo stretto legame
esistente, nonostante la povertà di studi critici sul tema, tra cultura politica ita
liana e cultura politica ispano-americana.
114
H. Zumbado
La «Bodeguita del Medio»
La storia della Bodeguita può cominciare nel 1950, o nel 1942, o fors’anche
nel 1935, quando, partito dal paesetto di Vueltas — nella vecchia provincia d>
Las Villas — giunse all’Avana un giovane turista (aveva 31 anni), allegro ed
entusiasta. Si chiamava Angel Martinez.
Il giovane turista non aveva traveller cheks e neppure credit cards.
E non aveva neppure soldi. Portava con sé soltanto l’esperienza dell’uomc
dell’entroterra, del sudore, dell’aver molto lavorato — quasi per nulla — a
molte cose. Tra l’altro era stato commesso, a Vueltas, in un negozietto — bodega
de campo, come si dice a Cuba — in cui si vendeva di tutto: da un litro di latte
a un paio di scarpe, a un rocchetto di filo, a un pugno di magnesia, a mezza libbra
di pancetta, all’aratro.
Giunse all’Avana deciso a conquistarla, in un periodo in cui il semplice so
pravvivere era considerato un successo. Erano tempi molto brutti, alla si salvi
chi può; la vita era a buon mercato, ma non c’era lavoro. La tazza di caffè, un
centesimo; un aguacate, 2 centesimi; 5 centesimi due uova bollite; 12 un piatto
di picadillo; e per la strada si offrivano « cinque polli per un peso ». (Per carità,
nessun paragone con prezzi d ’oggi. Dopo tutto, stiamo parlando del 1945).
Martinez indossò il suo giubbotto e sopravvisse alla tormenta lavorando da
bracciante, seminando cocchi e palme — ci sono ancora — sull’Avenida del Puer
to; lavorò da guardiano, sorvegliando una statua in un parco; da commesso in
un negozio, dove guadagnava 8 pesos al mese e il vitto; poi in un altro negozio,
nell’Avana coloniale, con un salario molto più aiettante — 18 pesos al mese —
Da H. Zumbado, P rosas en ajiaco, Editorial Letras Cubanas, La Habana 1984.
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e, infine, quando gli aumentarono la paga, con lo straordinario salario di 35 pesos
mensili.
Ci rimase cinque anni, risparmiando quanto piu poteva per uno scopo pre
ciso: metter su un negozio in proprio. L’occasione gli capitò nel 1942 quando,
in calle Empedrado, gli offrirono una bottega piccola e vecchia, male ubicata —
a metà strada, anziché all’angolo — , in un quartiere povero, con una clientela
modestissima che comprava tre centavos di caffè e 2 di zucchero; uno di pane
e 2 di dolce alla guayaba e, talvolta, chiedeva anche una bottiglia di latte dicendo:
«Te la pago domani ».
Cosi nacque, nel 1942, la Casa Martinez (il nome c’è ancora, sul frigorifero
dietro il bar), una piccola bottega di incerto futuro, soprattutto perché in quei
tempi la sua esistenza era seriamente minacciata dai grandi magazzini alimentari,
embrione dei supermercati, che — appunto perché grandi — si stavano man
giando quelli piccoli con prezzi contro i quali non si poteva competere.
Fortunatamente, Casa Martinez vendeva anche rum, che comprava a gal
loni e rivendeva a bicchieri: 3 centavos un bicchiere, 5 due bicchieri.
(Anche qui il lettore è pregato di non far paragoni con i prezzi attuali:
siamo sempre nella preistoria). Martinez mise in fresco un maggior numero di
birre, allargò l’assortimento delle marche, cominciò a offrire e vendere « sala
tini », acciughe e formaggi, sardine e patate ripiene, pancetta arrostita, prosciutto
alla piastra e altre piccole golosità che attrassero un diverso tipo di clientela.
Una clientela che giocava a dadi sopra il bancone, vociava, si divertiva molto e
spendeva di piu. Cosi, Casa Martinez cominciò a passare dal grigio e noioso
mondo del barile di strutto al mondo allegro del barile di rum.
Arrivano i bohemien
Adesso — siamo già al 1948 — , Casa Martinez ha la fortuna, o la sfortuna
(Martinez non saprebbe dirlo) di veder aprirsi, a due porte di distanza, una
tipografia diretta dal grafico Félix Ayón, in cui lavora come direttore artistico il
pittore e disegnatore Luis Alonso.
I due, Felito e Plomito — come li chiamano affettuosamente — sono piu
bohemien che commercianti, e anche se la tipografia non prospera gran che, buona
parte dei suoi introiti cominciano a spostarsi allegramente verso Casa Martinez.
Qualche anno dopo, lo scrittore e poeta venezuelano Miguel Otero Silva, dirà
di Felito:
Il mio amico Felito Ayón
che quando parla grida,
dà sempre ma non prende
e siccome non tiene i conti
volle fondare una tipografia
e fondò la Rodeguita.
Questi due personaggi — Felito e Luis Alonso — non si accontentano di
contribuire agli schiamazzi del bar, a soddisfare la loro inestinguibile sete con
fiumi di birra e mari di rum, a placare il loro appetito vorace con ciccioli gon
fiati e tartine al prosciutto, ma vogliono anche mangiare quello che Armenia, la
moglie di Martinez, prepara per i commessi. E sono carne lardellata o con patate,
coda al pepe, carne macinata, carne secca, rognone, zampette di maiale infarinate
e altre delizie della cucina creola.
Ciò che è peggio, i due strani clienti che parlano di tipografie, veronica e
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bodoni, del manifesto surrealista di André Breton, di Stravinsky e del trio Matamoros, del caos nazionale e di rivoluzione sociale, cominciano a portare i loro
amici.
Dio li fa...
Era naturale che — secondo il principio sociologico dei gruppi affini o,
meglio ancora, il detto popolare « Dio li fa e poi li accoppia » — vi si aggiunges
sero immediatamente scrittori e giornalisti, soprattutto di quelli che — come
Leandro Gracia e Mario Kuchilan, Fermando G. Campoamor e Enrique Serpa —
sapevano distinguere perfettamente un rum collins da un torn collins, una guaracha da un son e un pasticcetto di porco da un porcellino arrosto.
Leandro e Kuchilan, oltre a godere del gradevole ambiente che si stava
creando a Casa Martinez — e a contribuirvi — si occupavano anche (erano gior
nalisti, no?) di farlo conoscere scrivendone sui rispettivi giornali.
LTn esempio che risale al 1950, preso da una colonna intitolata « Buona
sera », che Leandro scriveva sull’ormai scomparso « El Pais »: « Ah, Martinez »,
diceva l’altra sera Rita Montaner al padrone della Bodeguita del Medio « perché
oltre alla trippa all’andalusa non prepari anche una buona insalata di aguacate?
Naturalmente, il capriccio gastronomico dell’Unica è stato accontentato ».
...arriva il poeta
Al gruppo iniziale dei « fondatori » della Bodeguita, si aggiunge poi, quasi
a riaffermare e insieme ad arricchire l’aria poetica che il negozio stava assumendo,
un grande poeta, di profonde radici popolari, già famoso per il suo « Sóngoro
Cosongo », per « Motivos de Son », per « West Indies Ltd »: Nicolas Guillén.
Guillén, il poeta, s’innamora, naturalmente, di questo angoletto, di questa
botteguccia rifugio di scrittori e artisti e le dedica versi che ne ornano le pareti.
La Bodeguita
Gli habitués hanno smesso di chiamarla Casa Martinez e vi si riferiscono o
vi si danno appuntamento con una frase: « Ci vediamo alla Bodeguita ». Basta.
La Bodeguita è la Bodeguita e non può essere altro.
E perché « La Bodeguita del medio »? del mezzo? Lo si aggiunge quando è
necessario spiegarle l’ubicazione a qualcuno che ancora non ci è stato. Per tele
fono, per esempio:
« Mangiamo insieme? »
« Dove? »
« Alla Bodeguita di Calle Empedrado, a mezzo isolato dalla Cattedrale, la
bodeguita a metà dell’isolato, nella metà dell’isolato', la bodeguita di mezzo ».
O,
come ha scritto il giornalista Mongo P., un altro dei primi, entusiasti
clienti:
« Il luogo posto a uguale distanza da due estremi: calle Cuba e calle San
Ingancio... Ai due angoli di Empedrado, ci troviamo a uguale distanza dal sorriso
aperto di Martinez ».
Il nome attacca. E si diffonde a tal punto che un giorno, il 26 aprile 1950,
glielo si attribuisce legalmente. « Casa Martinez », scrive Kuchilan sul suo gior117
naie, « si chiamerà da ora e per sempre La Bodeguita del Medio. Celebreremo
l’evento con una mangiata ».
Per sempre. La Bodeguita del Medio, scanzonata, accogliente, spontanea,
musicale, incredibilmente allegra. Non è strano che, con queste piacevolissime
caratteristiche, si sia trasformata, negli anni Cinquanta, in una vera attrazione
turistica tutta particolare, dove i clienti bevono bene, mangiano stupendamente,
si fanno fotografare per i posteri, chiacchierano animatamente e cantano stonando
a piu non posso.
Ecco, cos e la Bodeguita del Medio. O, detto con i versi di Nicolas Guillen:
La Bodeguita del Medio
è questo posto che vedi,
fatti un bel goccio, amico,
che qui il goccio è un rimedio;
però se mi dici che stai
in corpo e anima bene,
fatti un bel goccio lo stesso
cosi non ti ammalerai.
Da qui comincia la Bodeguita, dal bar, che riceve il visitatore con il suo
vecchio e lustro bancone di caoba — lo stesso del 1942 — , le sue pareti fitte
di ritagli di giornale, foto scolorite, manifesti, disegni, bandierine, decalcomanie,
firme e sgorbi inintelleggibili, in un caos armonioso in cui si inserisce uno sga
bello di bar appeso. Quello su cui sedeva abitualmente il giornalista Leonardo
Garcia che, profeticamente, una volta scrisse: « Bodeguita, tu rimarrai; io passerò ».
Dietro al bancone, file di bottiglie: bottiglie di vino e cognac, di whisky,
di gin e, naturalmente, bottiglie di impareggiabile rum cubano, unico nel suo
genere, di bouquet soave, invecchiato in botti di rovere e secondo una tradi
zione secolare. Alla Bodeguita lo si beve nella pienezza della sua migliore qualità,
nella marca di maggior prestigio nel mondo: Habana Club.
*
Con questo rum favoloso — il Bianco, l’Oro, l’Invecchiato di sette anni — ,
i barman della Bodeguita preparano i famosi cockteil cubani tradizionali: i mi
gliori e i più vari del mondo.
Li, nell’allegro vociare del bar della Bodeguita si possono assaporare i Dai
quiri gelati, bianchi come la neve, battuti in enormi quantità di ghiaccio frappé;
i rinfrescanti e tropicali Rum Collins; i freschi e dorati Presidente Seco; o i mul
ticolori Cuba Bella...
Ma, è chiaro, la grande specialità della casa è il Mojito, un delizioso e ini
mitabile cockteil a base di Habana Club bianco, ghiaccio, zucchero, soda e un
grande segreto, la aromatica hierba buena, una varietà cubana di menta che dà
alla bevanda un sapore e un aroma irripetibili.
Ernest Heminguay, il famoso scrittore nordamericano, che ha trascorso a
Cuba buona parte della sua vita, ha detto, una volta: « Il mio Daiquiri alla
Floridita; il mio Mojito alla Bodeguita ».
Con Heminguay, hanno goduto degli ineguagliabili e geniali mojitos della
Bodeguita, della sua saporosa cucina creola, dei suoi infaticabili e allegri trovieri,
insomma, del suo ambiente spigliato, allegro, cordiale e bohemien, una intermi
nabile fila di personaggi, tra i quali stelle di Hollywood degli anni Cinquanta
come i famosi comici Jimmi Durante e Lou Costello; Carmen Miranda, la sim
patica cantante brasiliana di samba che si metteva in testa grandi ceste di frutta
e di questo posto ha detto: « Quando vengo a Cuba mi sento nella mia patria,
quando vado alla Bodeguita, mi sento in casa mia ». L’ha frequentata anche Errol
Flynn che ne ha lasciato una definizione lapidaria: Best place to get drunk (il mi118
glior posto per ubriacarsi). E il meraviglioso Nat King Kole; splendide attrici
francesi, come Martine Carol e Brigitte Bardot; columnist come Doroty Kilgallen
e Earl Wilson; editori di giornali importanti, come Miguel Otero Silva di « E1 nacional » di Caracas. E poi premi Nobel come Pablo Neruda e Gabriela Mistral;
prime ballerine assolute come Alicia Alonso; famosi cantanti latinoamericani come
Esperanza Iris, Jorge Negrete, Tino Guizar, Rita Montaner e Boia de Nieve;
musicisti come Gonzalo Roig, Moisés Simon, il trio Matamoros, Pérez Prado,
Benny Moré, Sindo Garay, Augustin Lore e, naturalmente, Carlos Puebla che
per anni, con il suo gruppo, ha animato la vita della Bodeguita.
Pittori della grandezza di Wilfrido Lam e scrittori famosi come Frangoise Sa
gan, Gabriel Garcia Marquez, Alejo Carpentier; caricaturisti, come Juan David;
aristocratici come l’infanta Maria Cristina di Borbone, figlia di Alfonso X III;
toreri come Palomo Linares; mannequin quotatissime come Margaux Heminguay
che, proprio come suo nonno, papà Heminguay, ha brindato con Martinez, ora
manager della Bodeguita, con un rinfrescante mojitos.
Ogni tavola un continente
Nella Bodeguita del Medio, tra i suoi tavolini rustici e i suoi sedili di cuoio
si sono aggirati viaggiatori di tutto il mondo: scrittori e poeti, attori e attrici,
soprano e trovieri, fotografi, giocolieri, chimici e alchimisti, architetti, muratori,
psichiatri e pazienti, toreri, compositori, maghi, equilibristi, statisti, sociologhi
e costumisti, pittori, giornalisti, filosofi, storici, marinai, capitani di lungo corso
e aviatori, artisti e turisti, bohemien in genere e — orrore! — persino astemi.
Per la Bodeguita del Medio passa, da sempre, tutto il mondo. Nicolas Guil
len, in un sonetto dedicato a Angel Martinez, la riassume cosi:
La Bodeguita è ormai la bottegona
che allegro al vento il suo vessillo agita,
ma che sia bodeguita o bottegona
di lei, a ragione, l’Avana si adorna.
Si sazia bene li chi è ben fornito
di soldi, guano, parné, pastora, guita *,
ma se non hai un kilo 2 e molta fame,
ci sarà sempre chi di te si cura.
La coppa in alto e mentre Puebla intona
la sua canzone e Martinez porta
mari di rum vecchio, io, di lontano,
brindo perché la storia si ripeta
e quella che è ormai la bottegona
non cessi d ’esser mai la Bodeguita
1 vocaboli per significare denaro.
2 vocabolo popolare: un soldo
119
L’imbarco di Cortés a La Habana
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Alessandra Riccio
Giallomais
Patrizio Esposito in Peru/Nicaragua/Ecuador
Di Patrizio Esposito « Latinoamerica » si è già occupata nel n. 15/16 lugliodicembre 1984, e se ne è occupata a proposito di un sorprendente numero spe
ciale de « L’alfabeto Urbano » dedicato al Nicaragua. Sorprendeva in quel bellis
simo fogliettone, oltre all’accuratezza grafica, la felice scelta di brani, articoli e
schede che offrivano un’introduzione di alta qualità alla conoscenza complessiva
di quel paese. « L’Alfabeto Urbano » offriva un approccio diverso, introduceva
al problema Nicaragua con un’eleganza che nulla toglieva alla drammaticità della
vita di quel paese, ma che piuttosto aggiungeva dignità ed intelligenza. Da allora,
Patrizio Esposito è tornato spesso in America latina, ma è andato sostituendo
alla penna la macchina fotografica, al pennarello la pellicola a colori, ritenendo
che l’obiettivo sia, in questo momento, il miglior testimone di un mondo pieno
di sorprese e degno del massimo rispetto.
Professore di educazione artistica a Napoli, finissimo grafico, scrittore d ’impe
gno e militante a tempo pieno, Patrizio Esposito vive arroccato in quel nido
d ’aquile che è la salita del Petraio, uno dei pochi angoli incontaminati della vec
chia Napoli. Dalle sue finestre a picco sul golfo lascia entrare tutti i colori di un
Mediterraneo ancora affascinante e se ne impregna. Appena può, con penna, pen
narelli, macchina fotografica e una coscienza politica temprata da anni di espe
rienze nei collettivi, lascia i suoi scolari e va in giro per il mondo, ma ormai i
suoi passi lo portano sempre piu spesso verso il continente latino-americano. È
del gennaio 1985 una bella mostra dal suggestivo titolo « Brasile, il ciclo del
granchio ». A marzo di quest’anno presenta Giallomais, il risultato di decine di
rollini scattati da luglio a settembre dell’85 fra Peru, Nicaragua ed Ecuador. È
una mostra che vale davvero la pena di vedere per poter capire quelle terre da
un altro punto di vista, da quello di Patrizio Esposito, la cui vocazione per il
121
bello si sposa in modo sorprendente con una realtà senza maschere né belletti.
Il colore vi regna sovrano, ma è un colore che non strilla, che non si sovrappone
alle cose, si direbbe, piuttosto, parte integrante di una realtà complicata nei cui
labirinti penetra l’obiettivo del fotografo napoletano. Ed ecco Jinoteca bombar
data dai contras descritta attraverso una coltivazione ordinata di ortaggi; due
guardie sandiniste, al fondo, confondono il verde oliva delle loro divise con il
verde tenero degli ortaggi. Un comizio di Ortega è visto attraverso i visi sorri
denti e le camicette candide di due bambine appoggiate ad un tavolato rosso
fuoco. Un autobus coloratissimo, col suo carico di volti tristi, scorre come un
sipario sulla grigia e implacabile facciata del Banco Central di Lima contro cui
si appoggia la sagoma sfumata di un mendicante. La caldaia arrugginita della nave
di Litzcarraldo spunta fra il verde lussureggiante della foresta. Nel giallo polvere
della periferia di Lima, sorgono le traforate capanne di canne degli abusivi. In
terni di bottegucce misere elevate alla dignità di incredibili nature morte in un
gioco di specchi che si aprono su volti ed oggetti imprevisti. Antiche madonne
sopravvivono in angoli di conventi in decadenza. Le acque di un fiume sono una
unica, iridescente macchia di petroli. Un meccanico spunta da una fossa su cui
poggia la vecchia auto da aggiustare.
Scorrono le fotografie di Esposito nella loro perfetta bellezza, ma non sono
oggetti muti: dal fondo nero su cui sono incorniciate vanno formando come un
vocio sommesso e ciascuna invita lo spettatore a guardare meglio ad entrare nel
fotogramma per capire quel che c’è dietro tanta bellezza e tanta perfezione, dietro
quei volti impassibili come oggetti e dietro quegli oggetti piu espressivi di un
volto. In occasione della mostra napoletana Patrizio Esposito ha preparato an
che due bei portafolio che permettono, in formato ridotto, di portarsi a casa
un’inquietante fetta di Peru, Ecuador e Nicaragua.
122
Recensioni e schede
Fidel y la religion. Conversaciones con Frei Betto. Oficina de publicaciones del
Consejo de Estado, La Habana 1985, pp. 379.
La stampa internazionale ha già attirato l’attenzione su alcuni punti che
prendono corpo in questa intervista del domenicano brasiliano Frei Betto al co
mandante Fidel Castro. L’intervista ha avuto la durata di 23 ore distribuite in
quattro giorni, dal 23 al 26 maggio dello scorso anno, e questo spiega l’ampiezza
del resto. Betto l’ha fatta precedere da una settantina di pagine, in cui riper
corre sia la storia del suo interesse, della sua idea di giungere a intervistare il
leader cubano su un argomento insolito e pregnante come questo, sia la « cronaca
di una visita », a Cuba e a Fidel Castro, dal 10 al 22 maggio. La pubblicazione
è apparsa in anteprima in Brasile, nella lingua dell’intervistatore, dove ha avuto
un grande successo; l’edizione cubana, presentata dal ministro della cultura Ar
mando Hart, membro dell’Ufficio politico del Partito comunista cubano, è stata
« lanciata » il 29 novembre nel contesto del secondo Incontro degli intellettuali
per la sovranità dei popoli, promosso da Casa de las Américas.
Dati i limiti di spazio concessi a una normale recensione, in questa sede è
opportuno fare una scelta precisa, offrendo al lettore una informazione artico
lata sugli aspetti per cosi dire « esterni » dell’intervista stessa, raggruppando poi
le principali questioni affrontate nel testo che abbiamo di fronte, rinviando
eventualmente a un secondo momento quelle riflessioni piu approfondite ed estese,
dirette o indirette, che in questo caso si affollano alla mente.
In un certo senso il titolo trae in inganno. Almeno è quanto accaduto a noi,
che avevamo puntato su una lettura critica del problema o fenomeno religioso
123
da parte di un capo rivoluzionario. Invece i momenti « teorici » toccati o anche
sollevati in queste pagine, sono rari. Il lettore deve avere pazienza ed è in
trodotto verso i punti centrali di interesse dopo un cammino abbastanza lungo
apparentemente tortuoso — come accade nella guerriglia — in cui Betto e Fidel
indugiano sul rapporto di quest’ultimo con « la religione », intesa appunto in
senso popolare, che per il Fidel battezzato solo da fanciullo, per il Fidel giovinetto
vuol dire insegnamento religioso, e suoi metodi, nelle scuole di vari ordini, da
Santiago all’Avana, dove studierà nel migliore degli istituti, retto dai gesuiti. Si
scopre cosi che sia Betto che Fidel mettono molta buona volontà nel ricostruire
tracce poco consistenti e significative, di cui nell’animo del futuro rivoluzionario
sarebbe rimasto un sedimento etico (un cubano « non possiamo non dirci cri
stiani »); e tutto questo, ovviamente ci tocca molto limitatamente. Il pensiero
va a quegli italiani che nel XIX secolo, al contrario, divenivano « laici » (e
anticlericali), uscendo dall’educazione ricevuta nelle scuole rette dal clero, al fuoco
della rivoluzione e delle grandi tradizioni del pensiero moderno. Vero è che nelle
conversazioni dei due latinoamericani nell’anno di grazia 1985 è abbastanza accu
ratamente oscurata tutta una fase biografica, tu tt’altro che secondaria, in cui
la « religione » di Fidel era piuttosto dormiente e archiviata e, per contrasto, fra
le molle della rivoluzione non dovevano esservi soltanto le costanti proiezioni
di un’etica « cristiana », ma idee filosofiche, politiche e sociali divergenti da questo
sostrato e piu incisivamente operanti. Tant’è che Betto, in questo o in quel
momento, quando si viene al processo rivoluzionario e alla lotta armata, do
manda informazioni su due o tre personaggi di qualche rilievo che gli sembrano
piu accosti o piu inseriti nelle maglie della problematica religiosa. Le premesse
si allungano cosi, richiedendo al nostro lettore una notevole pazienza, in quanto
Fidel, un po’ per il suo stile e tempo oratorio, che viene riconfermato in pieno,
un po’ per un’astuzia propedeutica, da ex brillante avvocato di scuola latina,
introduce ai punti centrali narrando sotto il profilo della « religione », la storia
della rivoluzione cubana. In tal modo il lettore cubano, il lettore brasiliano, il
lettore dell’America latina e /o di altre culture vengono stretti da una sola con
creta problematica.
Quando si arriva al dunque si scopre che uno dei destinatari (il principale)
è Giovanni Paolo II, il papa polacco che sta puntando — fra qualche difficol
tà e qualche successo — su un bilancio meno avaro per le sue mistiche e politiche
ambizioni della prima decade di pontificato. Si sbaglierebbe tuttavia a ritenere
che la trama di questa iniziativa, del modo come è stata intrapresa e condot
ta, sia solo di natura diplomatica, anche se questo elemento è ben presente.
Una diplomazia, per i due interlocutori, che ha per platea milioni di esseri
umani, intesi pur sempre come attori potenziali. Per essere precisi, occorre
sintetizzare le tappe che hanno portato all’intervista. 1971: incontro di Fidel
Castro, in Cile, con i Cristiani per il socialismo; 1977, altri incontri nella Giamaica; 1980 incontri con i cattolici nicaraguensi nel primo anniversario della
rivoluzione sandinista. Qui è presente anche Frei Betto, che da allora alimenta
nel suo spirito un interesse sempre piu attivo nei confronti dell’esperienza cubana.
Il retroterra politico sociale ideale dell’intervista ha dunque uno spessore piu
recente, stratificato in tre lustri, con incontri diversi nel Caribe, nel Centro
e nel Sud America; ma l’orizzonte si allarga fino a includere contatti con espo
nenti delle chiese sia nordamericane che cubane. Un passo dopo l’altro protago
nista dell’intervista diviene la Chiesa, nel mezzogiorno dell’emisfero occidentale.
L’intervista getta tuttavia una luce anche verso strati piu profondi, oltre la
cronaca politica. Lo fa indirettamente, quando accenna che il movimento dei
Cristiani per il socialismo sorse in diversi luoghi dell’America latina nel pe124
riodo successivo alla rivoluzione cubana, che fu anche il periodo della sua
gestazione. Qui i connotati di una storia sociale, civile, religiosa, si ricongiun
gono davanti alla riflessione laica del protagonista politico. Ne emerge l’espe
rienza castriana — un pensiero per certi versi ovvio per altri interessante —
a suggerire ulteriori e relativamente nuove riflessioni sul secolo, sul tempo
contemporaneo, sulle società e le tendenze dei popoli del Terzo mondo.
Questi sono, a nostro avviso, i principali elementi « esterni » (di struttura)
presenti nell’intervista. Passiamo ora ad alcune questioni, o gruppi di questioni,
che ci sembrano di maggiore o preliminare interesse. Elenchiamo: il « metodo »
di Fidel Castro nell’intervista; le questioni di teoria tradizionali in questo campo,
polarizzate sul rapporto Cristo/Marx o sul problema « religione oppio del po
polo »; il rapporto strategico fra teologia della liberazione e Nuovo ordine eco
nomico internazionale; la chiesa, le chiese a Cuba come tessera di un mosaico
molto piu vasto.
1. Quanto al metodo. Osservazione preliminare con cui l’intervistato si pre
munisce: preso da altri affari non ha potuto né documentarsi né riepilogare lo
stato di una questione — « la religione » — in cui è piu forte il suo interlocutore.
Questa cautela investe interamente il rapporto religione-chiesa lungo tutto il
dialogato di Castro. A un certo punto (pp. 214-315) l’operazione di Fidel si
disvela: il papa presentandosi sotto la duplice veste di capo della Chiesa e capo
dello stato del Vaticano, sul terreno della dottrina, Castro esplicitamente si riser
va mentre sul terreno politico non esita a dare il suo giudizio. Si potrà osservare
che queste cautele tornano utili anche sul terreno inverso, sulla ideologia o dot
trina di Castro, il quale tuttavia su questo versante appare qui assai latitudinario.
Fa personalità di Frei Betto non dovrebbe essere ignorata o sottovalutata. Pone
domande anche sull’« odio di classe » come patrimonio tradizionale, con la lotta
di classe, dei marxisti o leninisti, ma in generale è su posizioni di adesione quasi
entusiastica davanti alla rivoluzione cubana.
2. Fe questoni di teoria. Nelle risposte di Fidel prevalgono due motivi di
fondo: da un lato allarga il campo secondo una visione storica che diremo « pro
gressista » e « progressiva », che latinamente ama ricollegare la rivoluzione cubana
alla rivoluzione francese attraverso le rivoluzioni socialiste; dall’altro antepone
al terreno ideologico o teologico, sul quale non impegna mai una discussione
diretta, quello delle valutazioni morali collettive. Per esempio, quando gli si
domanda in che modo consideri l’amore nelle relazioni fra gli uomini, risponde
evocando le grandi questioni della solidarietà e dell’eguaglianza nella struttura e
nel governo della società. Fa Chiesa tradizionale europea, che storicamente è stata
anche una chiesa controrivoluzionaria, ex colonialista, viene cosi incalzata, con
la leva di argomenti morali e sociali i piu attuali e rilevanti nelle nuove società
in transizione dell’epoca postcoloniale. Quanto alla dottrina vera e propria; per
esempio, a proposito di una domanda sulla « religione oppio del popolo », che
Betto formula citando il Marx del Contributo alla critica della Filosofia del diritto
di Hegel, e osservando che nella prassi su questo punto si è perduta la visione
dialettica ed è cresciuto al suo posto un dogma definitivo, assoluto, metafìsico.
Fidel Castro risponde subito che nell’ottobre del 1980 il Fronte sandinista di
liberazione nazionale per la prima volta nella storia ha riformulato la questione,
con un documento che, caso unico nell’intervista, cita fra virgolette per mezza
pagina. E il rapporto Cristo-Marx? Castro lo affronta sotto due risvolti, storico
sociale e morale, secondo una versione che a noi è sembrata piuttosto vicina
a quella del vecchio socialismo evangelico di casa nostra. E cosi la fluente argo
mentazione castriana — quasi tutta concentrata negli ultimi due giorni, nelle
ultime due pagine — dirime sociologicamente le antinomie dottrinali. Questo
125
sembra rispondere molto intimamente, organicamente, al carattere, alle concezioni,
alla formazione dell’uomo. Affiorano elementi che tornano anche in altri punti:
a Cuba la Chiesa non aveva chiese nelle campagne, dove si concentrava il 75%
della popolazione, non era una chiesa popolare; cosi vi fu qualche scontro, ma
non lo scontro; la stessa fede religiosa era piu che altro di quei ceti e gruppi
sociali che lasciarono a centinaia di migliaia il paese, per non impegnarsi nella
rivoluzione, e che poi presero la cittadinanza americana (statunitense). Gli Stati
Uniti, a loro volta sono un paese ben ricco di analfabeti e semianalfabeti a milioni
(Castro cita cifre precise estranee al patrimonio culturale europeo). Betto chiede
a Fidel se il Partito comunista cubano non si avvìi a mutare il suo vincolo sta
tutario, per consentire ai credenti di militarvi e accedervi e lo chiede definendo
l’attuale organismo come qualcosa di « confessionale ». Castro risponde in primo
luogo che non di questo si tratta. Vi è anche nell’ateismo una posizione per
cosi dire neutrale, di disponibilità. Comunque, Castro è contro ogni « discrimi
nazione » per motivi religiosi; riconosce alle motivazioni religiose una forza di
rompente, in certe situazioni, contro le ingiustizie sociali; non ritiene i tempi
maturi per un mutamento statutario al prossimo congresso del Pcc (quello tenuto
a febbraio 1986). Ma è chiaro che qualcosa matura, sotto questo profilo, e che
anche perciò Betto si è mosso ed è stato accolto tanto favorevolmente. Insomma
Castro evita le secche ideologiche, non ripiega da una interpretazione laica,
lascia spazio alle concezioni materialistiche, qualche volta le adopera in un senso
illuminato e libero, ma secondo una cultura latina, su questi punti piu aperta e
sperimentata, sofisticata del settarismo religioso, organico delle società protestanti
nella loro classica accezione americana.
3.
Teologia della liberazione e Nuovo ordine economico internazionale. L’acco
stamento è nostro, ma emerge dal senso dell’intervista. Il primo termine si rife
risce anche alla « chiesa dei poveri », anzi in un punto Castro parla di « chie
sa della liberazione ». Il secondo termine una volta è esplicitamente riferito ai
programmi e indirizzi dell’Onu. Sono le grandi questioni politiche che uno statista
del Terzo mondo affronta in un’ottica socialista e latinoamericana. Sono questioni
che il dirigente comunista affronta in collegamento col problema del disarmo,
della riforma della politica, nell’intreccio di religione e morale, e in qualche
punto esplicita in connessione con l’esperienza di governo di Cuba (nella metodo
logia dello sviluppo economico, sociale, culturale) e con la tradizione rivoluzio
naria. Direi che qui si tocca il punto alto, la ragion d ’essere dell’intervista, il
significato della sua iniziativa. Castro ha ben presente quanto e come — negli
orrori del potere — i rivoluzionari, i comunisti abbiano condiviso nei tempi
piu recenti — dalla Comune di Parigi alle stragi, ai genocidi dell’Indonesia
e del Vietnam — le sorti dei cristiani antichi, riscuotendo nel mondo il primato
della piu grande e sconfinata persecuzione del secolo (su questo motivo in alcuni
passaggi del suo discorso ha accenti a nostro avviso assai significativi per la
sua visione planetaria a sfondo storico). Ma ora l’interessa ciò che sta emer
gendo in condizioni nuove, dalla struttura, dalle contraddizioni delle società del
XX secolo: una convergenza, una via praticabile all’incontro fra movimenti rivo
luzionari di liberazione e chiese, masse religiose, clero ai fini della liberazione
dell’uomo. Ripete e ribadisce l’espressione usata nel ’77 (Giamaica): non una al
leanza tattica. « No, una alleanza strategica, per venir.e a capo dei cambiamenti
sociali necessari ai nostri popoli » (p. 275). La teologia della liberazione (nei giorni
dell’intervista Castro, secondo quanto confessa a Frei Betto, ordina tutto quanto
disponibile di Gutierrez e L. Boff) lo interessa dunque per questi aspetti. Si
tratta di un riformismo a lungo raggio? T u tt’altro! La sperimentazione a Cuba
è già in atto (Castro cita i dati sulla eliminazione dell’analfabetismo, sulla sa126
nità ecc. che pongono il primo territorio libero e socialista delle Americhe in
testa nel Terzo mondo, consentendogli persino in alcuni settori il confronto con
un paese ricco e potente come gli Usa), e può essere presa ad esempio.
4.
La chiesa, le chiese a Cuba. È il tema piu attuale per i commenti a
breve. Va osservato che con spirito democratico il capo cubano non ignora le
confessioni di minoranza. Si è già detto della prudenza con cui viene affrontato
il rapporto con Giovanni Paolo II in quanto capo della Chiesa. Brillanti sono
le pagine in cui con eguale coraggio e chiarezza Castro auspica — dopo il pre
cedente prematuro e negativo che pure lasciò una traccia del 1979 — una
visita di papa Wojtyla (pp. 314-320). Insiste su un punto: che siano verificate
le condizioni piu propizie, ovvero le condizioni minime perché questo incontro sia
utile. Cosa può ricavarne la Chiesa? Cosa può ricavarne Cuba? Il punto è uno solo:
Cuba è paese del Terzo mondo, paese in sviluppo, paese rivoluzionario, paese
socialista. Occasione unica per un pontefice aperto e forte. I cubani d ’altra parte
hanno interesse a discutere e analizzare con Roma i problemi piu importanti dei
paesi sottosviluppati dell’America latina, Asia e Africa. Perciò la questione chiesastato trascende i termini ristretti e formali dell’isola, per attingere alla vocazione
storica e ideale, in primo luogo latinoamericana, ma non solo, della classica rivo
luzione cubana.
Enzo Santarelli
M. Benedetti, El desexilio y otras conjeturas, ed. El Pais, Madrid 1985, pp. 219.
L’esilio e il desexilio (neologismo coniato dallo stesso Benedetti in Primavera
con una esquina rota, Mexico, Nueva Imagen 1981 e poi usato come titolo
in un articolo pubblicato su « E1 Pais » del 18 aprile 1983) sono alcuni dei
temi ricorrenti di questo libro che permette la rilettura organica di articoli scritti
da M.B. per « E1 Pais » e che in questo modo superano la contingenzialità del
puro fatto di cronaca e di costume che li ha motivati per entrare con pieno
diritto nella storia delle idee e nel multiforme universo saggistico.
Ma la nota determinante, il tema costantemente presente, con discrezione
ma anche con convinzione e caparbietà, è quello della ‘americalatinità’, della affer
mazione di una coscienza e di un destino comuni, di una immagine del latino
americano dignitosa e civile, al di là di stereotipate — in negativo identifica
zioni nel ‘sudaca’ o nel ‘tercermundista’. In tutti gli articoli, dicevamo, è presente
l’America latina, con i suoi problemi, le sue necessità, i suoi errori, ma soprattutto
la sua forza rivoluzionaria e dirompente: da Chicago no nos representa (9-1-83)
e La America por descubrir (12-3-84) in cui si rifiuta la candidatura — recen
temente rientrata — di Chicago quale unica città delle Americhe designata ad
ospitare i festeggiamenti colombiani, a Una lama por el Tercer Mundo (4-4-83)
sulla connotazione dispregiativa del termine tercermundista come sinonimo di
barbaro, che non costituisce poi una condizione cosi abominevole sobre todo si
se recuerda che la picana y la siila eléctrica, el napalm y la bomba de neutrones,
son muestras distinguidas de la civilización. E ancora: in Un Bolivar silenciado
y vigente (25-7-83) si rifiuta il falso mito della paternità bolivariana del pana
mericanismo e si rivendica viceversa la obsesión del Libertador en relación con
la union de los pueblos de la que él llamaba America Meridional... termino que
automàticamente dejaba a Estados Unidos al margen de la apelación Bolivariana-,
in Todo empezó con Walker (1-8-83) e in Chile y su moraleja (22-8-83) sulle
invasioni americane in Nicaragua e sul ruolo dei militari addestrati a Fort Benning,
127
il tono si fa piu duro e piu diretto l ’attacco contro gli Stati Uniti, ma non meno
sferzante e corrosiva è la penna di Benedetti in Reagan y la Bibita (13-2-84,
sentenze bibliche ‘rivedute e corrette’ per avallare la politica statunitense) o nel
Monòlogo de una muneca repollo (27-2-84), aristocratica autodefinizione delle
bambole Cabbage Patch Kid — quelle col passaporto — : nosotras no pertenecemos
a esa casta inferior de criaturas salvadorehas o guatemaltecas o peruanas que...
mueren de hambre y avitaminosis y de falta de atención medica. Algo que no acabo
de entender... es por qué demonios bay parejas norteamericanas que se dedican a
adoptar clandestinamente a ninos argentinos (hijos de desaparecidos) cuando podian
habernos adopt ado a nosotras, que ademàs saiimo s mucho màs baratas.
È indubbiamente questa difesa del tercermundismo, questa ironica capacità
disparatada di capovolgere alcune verità restituendo loro tutta la profonda signi
f ic a la persa per dolo o per pigrizia mentale, questa critica di controsensi, am
biguità e atrocità del Primer Mundo che accomuna spesso al naturale bersaglio,
Reagan e gli Stati Uniti, tutto l’occidente industrializzato e in qualche modo
legato e accondiscendente nei confronti della politica estera degli Stati Uniti,
a far scattare la polemica in Spagna su Benedetti e la figura dell’esiliato intel
lettuale, ‘espécemen importado’, ‘autor orientai domiciliado en la corte’. Polemica
che vede impegnati, tra gli altri, Juan Goytisolo (El argumento y el ardid, 17-9-84)
e José Angel Valente (Causando y Adiós, 30-10-85) e che determina la decisione
di Benedetti di interrompere i suoi interventi su « El Pats », una tribuna que
aprecio y que jamàs me ha censurado una sola linea.
Eppure, come lo stesso Benedetti ha dichiarato nell’ultimo articolo, Causando
y Adiós, vero esame di coscienza e testamento politico e ideologico di un intel
lettuale « scomodo » ma eccezionalmente stimolante e cautivador, en mis articulos
nunca me he referido a los actuales problemas y actitudes politicas de Espaha...
de modo que nadie me puede acusar de falta de respeto, intromisión indébita
o temeridad de juicio. Ma evidentemente l’amore verso la Patria Grande (il capi
talismo internazionale) è piu forte e piu vulnerabile di quell’amor di patria sempre
integralmente rispettato da M.B. (l’articolo incriminato è Lilliam Hellmann y otras
conductas, 9-6-84, sul maccartismo e su inevitabili confronti con la situazione
attuale).
Oltremodo attuale e interessante, ma che per la sua portata travalica i
limiti stessi del libro e della sua recensione, è la polemica con Vargas Liosa
(Ni corruptos ni contentos, 9-4-84, Ni cinicos ni oportunistas, 18-6-84) sulla po
liticizzazione dell’intellettuale latinoamericano e sulla sua inevitabile scelta CubaNicaragua / Stati Uniti (Vedi le interviste di Valerio Riva e Gabriella Lapasini
a M. Vargas Liosa, rispettivamente in « Panorama », 2-1-84, e « Cubana », gennaiomarzo 1985): Latino America è ancora e sempre centro propulsore di riconosci
menti e rifiuti, di affratellamenti e dissensi.
Maria Rosa Grillo
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