Academia.eduAcademia.edu

LATINOAMERICA_21_1986

INDICE: Riccio Alessandra, Verso il quinto centenario della scoperta dell'America, 3-7. García Márquez Gabriel, America latina: una cultura di mistero, 9-12. Fuentes Carlos, America latina tra equilibrio e violenza, 13-18. Cavallini Massimo, La trappola del debito estero, 19-24. Quijano Caballero Jaime, Hales Patricio, Santos Lucélia, Chancoso Blanca, Pons Alberto, Tuleda Rafael, Iriate Gregorio, García Elio, Voci della Conferenza dell'Avana, 24-33. Documento, Nicaragua: per la pace e il non intervento, 35-43. Levré Nicole, Haiti: fine di una dinastia, 45- 50. Balutansky Edwige, Caribe francese, champagne, disoccupazione..., 51-58. Documento della Conferenza Internazionale delle ultime colonie francesi, Programma indipendentista, 59. Viera Gallo José Antonio, Memorie dell'esilio, 61-67. Culture indigene Mannino Marina, La politica indigenista brasiliana, 69-75. Garro Maria Lidia, Situazione socio-politica degli indios in Argentina, 76-83. Arguedas Ledda, Pranzetti Luisa, Così mi è nata la coscienza, [Rigoberta Menchú], 84-90; Quaderno: 41-47. Marra Alessandra, Una voce del Perú "profondo". Intervista a Luis Barreda Murillo, 91-96. Aruffo Alessandro, Canudos: una rivolta messianica?, 97-110. Bonatti Maria, La presenza della politica italiana nella ricerca di José Luis Orozco, 111-114. Zumbado H., La "Bodeguita del Medio", 115-119. Riccio Alessandra, Giallomais, 121-122. Recensioni e schede, 123-128. Il fascicolo è illustrato con incisioni tratte dalla Historia verdadera de la Nueva España, di Bernal Díaz del Castillo. In copertina: Da B. Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España.

LATINOAMERICA analisi testi dibattiti M. Cavallini/La trappola del debito estero C. Fuentes/America latina tra equilibrio e violenza G. G arda M àrquez/Una cultura di mistero N. Levré/Haiti: fine di una dinastia A. Riccio/La scoperta deN'America J.A. Viera G allo/M em orie dell'esilio Culture indigene/ Nicaragua/Per la pace e il non intervento Anno V II, n. 21 gennaio-marzo 1986 3 9 A. Riccio Verso il quinto centenario della scoper­ ta dell’America G. Garcia Màrquez America latina: una cultura di mistero c. p. 64^*9i 00100 Roma tei. 873742 13 C. Fuentes America latina tra equilibrio e violenza Comitato di redazione: 19 24 35 M. Cavallini La trappola del debito estero Voci della conferenza dell’Avana Nicaragua: per la pace e il non intervento 45 N. Levré Haiti: fine di una dinastia Luisa Cortese, Bruno Dallago, Bruna Gobbi, Nicoletta Ma­ nuzzato, Giorgio Oldrini, Alessandra Riccio. 51 Direttore responsabile: Gabriella Lapasini La rivista non assume la responsa­ bilità delle opinioni espresse negli articoli firmati. 61 J.A. Viera Gallo Memorie dell’esilio 69 CULTURE INDIGENE Marina Mannino La politica indigenista brasiliana 76 84 In copertina: da B. Diaz del Castillo, His torta verdadera de la con­ quista de la Nueva Espaha 91 97 Sped. abb. post. gr. IV, 70% Autorizz. del trib. di Roma n. 18142 del 6-6-1980 Stampa: ITER Via G. Raffaelli, 1 - Roma Chiuso in tipografia il 10-3-86 E. Balutansky Caribe francese Champagne, disoccupa­ zione... M. L. Garro Situazione socio-politica degli indios in Argentina L. Arguedas L. Pranzetti Cosi mi è nata la coscienza A. Marra Una voce del Perii « profondo ». Intervista a Luis Barreda Murillo A. Aruffo Canudos: una rivolta messianica? M. Bonatti 111 La presenza della politica italiana nella ricerca di José Luis Orozco 115 H. Zumbado La « Bodeguita del Medio » 121 Giallomais 123 Recensioni e schede Alessandra Riccio Verso il quinto centenario della scoperta dell'America « La gente di quest’isola e di tutte le altre che ho scoperto o di cui ho avuto notizia, va tutta ignuda, uomini e donne, come la mamma li ha fatti; benché alcune donne si coprano un solo posto con una foglia verde o con una cosa di cotone fatta a posta per questo. Essi non hanno ferro né acciaio né armi né vi sono portati; e non perché non sia gente ben disposta e di bella statura, ma perché sono cosi paurosi da far meraviglia. Non posseggono altre armi che non siano le canne ben cresciute, sulla cui cima mettono un paletto aguzzo, ma non osano adoperarle: infatti, molte volte mi è accaduto di mandare a terra due o tre uomini in qualche villaggio, per parlare con loro, e che essi siano sbucati in gran numero, per poi, all’arrivo dei nostri, fuggire a gambe levate; e questo non perché sia stato fatto del male a qualcuno, al contrario, in ogni luogo dove sono sbarcato e dove ho potuto avere qualche contatto, ho dato loro di tutto, sia tessuti che tante altre cose, senza averne nulla in cambio; la verità è che sono cosi paurosi per natura. È pur vero che quando si tranquillizzano e perdono questa paura, sono cosi ingenui e cosi generosi con le cose che hanno che non lo crederei se non l’avessi visto. Essi non si rifiutano mai di dare una cosa che hanno, se uno gliela chiede; al contrario, insistono perché l’altro la prenda e dimostrano tanto amore che ti darebbero il cuore, e vuoi una cosa di valore, vuoi una cosa di poco conto, per qual­ siasi cosuccia e comunque tu gliel’abbia data, se ne dimostrano assai contenti ». Con queste parole semplici e, all’apparenza, sincere, Cristoforo Colombo, in data 22 marzo 1493, annuncia al mondo la scoperta di una nuova terra e della sua gente. La lettura di questa lettera conferma un dato già noto, ma che è oppor­ tuno ribadire: di ritorno dal suo primo, storico viaggio, il navigatore genovese conserva ancora intatte la meraviglia e la sorpresa per tutte le novità che i 3 suoi occhi hanno visto. La storia ci insegna che, già a partire dal secondo viaggio e dopo aver potuto constatare durante il soggiorno presso i Re Cat­ tolici qual’era l’aria che spirava a Corte, Colombo comincia a cambiare punto di vista. L’oro e le spezie si trasformano in ossessione e diventa vitale la necessità di trasformare in affare quella che per lui era stata una meravigliosa scoperta. Il paradiso descritto dal genovese — uomini e donne nudi, ingenui e generosi, incapaci di maneggiare le armi — si tradurrà ben presto nell inferno dei suicidi collettivi e del lavoro forzato. Tutto questo è ben noto, eppure diventa opportuno ricordarlo ora che sono già avviati i festeggiamenti per celebrare un avvenimento che ha cam­ biato il mondo, poiché non c’è dubbio che la storia del prossimo millennio vedrà come protagonista — ma la cosa non è una novità assoluta — il continente americano. Eppure, gli interessi piu contrastanti e le ottiche piu diverse pre­ siedono alla logica dei festeggiamenti. Per gli Stati Uniti e il Canada, si tratta di celebrate la loro nascita come stati occidentali, pragmatici, tecnologici, ga­ ranti dei diritti delLuomo e rifugio ospitale per tutti i perseguitati; stati mo­ derni ed efficienti che si propongono come modello di uno stile di vita « ci­ vile ». Per l’America latina, che come è noto va dal Rio Bravo all’Antartide, si tratta di ristabilire alcune novità essenziali, prima fra tutte l’idea che se l’Europa ha scoperto l’America, l ’America a sua volta ha scoperto l’Europa e che comunque non si trattava di una terra di nessuno ma di un territorio or­ ganizzato e funzionante. L’America latina è contraria a festeggiare la conquista e la colonizzazione, in quanto considera quei secoli di violenza, brutalità e sfruttamerto, gli anni piu bui della sua storia. Ed infine è contraria ad una ce­ lebrazione che non condanni la lunga e disumana pratica dello schiavismo. In questo trovandosi perfettamente d ’accordo con i paesi africani, che fin dall’inizio di questa vicenda, nel 1982, hanno fieramente protestato, richiamando l’at­ tenzione di tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, sulla necessità di continuare a denunciare e a condannare l’imperdonabile violenza del com­ mercio degli schiavi e dell’istituzione della schiavitù. L’Europa — e in primo luogo la Spagna — che si sente chiamata in causa piti nel ruolo di imputata che in quello che si era da sempre attribuita, di protagonista di una mera­ vigliosa avventura umana, si vede obbligata a preparare un’autodifesa piuttosto che un encomio. Le cose, insomma, si stanno mettendo male, e non sarà facile districare la matassa degli opposti interessi e poter presentare per il 1992 un bilancio equilibrato e concorde dei cinque secoli di presenza americana, ufficiale e riconosciuta, nella nostra storia. Particolarmente violenta si sta rivelando, fin da adesso, la polemica fra i paesi di lingua spagnola e la madrepatria Spagna. E pour cause. La Spagna del dopofranco vive la sua crisi di identità che può riassumersi sbrigativamente in una tensione non risolta fra sentirsi europea a pieno titolo o riconoscere una storica diversità che per essere stata coltivata forse con troppo orgoglio, ha portato quella na­ zione potente a rinchiudersi al di qua dei Pirenei e ad esercitare il suo prestigio nei territori d’oltremare. In questi anni, e sotto la guida di Felipe Gonzales, il processo di europeizzazione si è intensificato sia a livello politico che di costume e vi è chi identifica questi mutamenti, talvolta solo superficiali ed apparenti, come un cambiamento sostanziale del paese, la sua definitiva mo­ dernizzazione e, di conseguenza, il suo definitivo allontanamento dalle aree del sottosviluppo. Messe cosi le cose, questa Spagna, profondamente cambiata e finalmente moderna, rinnega le colpe degli avi e nell’avventura americana vuole vedere solo la straordinaria prova di un gruppo di uomini coraggiosi e disposti a tutto o le sofferenze di altri costretti, da un potere assoluto ed inetto, ad 4 un’emigrazione che li trasforma in vittime al pari delle popolazioni conqui­ state. La Spagna felipista rifiuta i sensi di colpa, e nell’avventura americana vuole riscattare la grandezza anche attraverso ragionamenti fini e intelligenti, che tendono, appunto, a proporre una lettura autocritica di quell’epopea, a patto che resti ben chiaro che si è trattato di una epopea. Da questo punto di vista la proposta del governo di Madrid pare certamente piu accettabile di quella sostenuta dai gruppi piu conservatori che, appellandosi apertamente ai princìpi tradizionali del nazionalismo e del cattolicesimo, vorrebbero approntare, con parole di Vàzquez Montalban, « un gigantesco murai di eroi e di sciocchi indigeni redenti dalla loro barbarie grazie alla fede cattolica » (« E1 Paìs », 23-1-86). All’ostinata arroganza di conservatori e tradizionalisti si oppone la sinistra an­ timperialista che, rinnegando un passato di violenza e di oppressione su po­ polazioni indifese, rischia di colpevolizzare troppo tardi, decisamente fuori tempo, il popolo spagnolo di oggi, del tutto innocente degli eccessi degli avi Se dunque il Governo di Madrid non riuscirà a chiarire meglio il criterio al quale intende ispirarsi per la celebrazione del quinto anniversario, rischia di lasciare l’inizia­ tiva o a chi di quel passato rivendica perfino gli eccessi o a chi, autoflaggellandosi, rinnega a quell’avventura, qualsiasi grandezza. Ma oltre ad un rischio per così dire, interno, ve n ’è un altro che riguarda la politica estera; la con­ correnza fra chi si vuole fare promotore e gestore di tutta l’operazione è, infatti, spietata, ed è inutile aggiungere che intorno a quest’avvedimento gireranno pre­ stigio e quattrini. Comunque vadano le cose in Spagna, non sembra che i paesi dell’America latina accetteranno nessun compromesso. Le polemiche che si sono già scatenate nelle pagine dei giornali ed in altre sedi lasciano prevedere che la sensibilità di quei paesi su questo problema è estremamente acuta. Appena un anno fa, all’Università Autonoma di Madrid, nel corso di un Convegno di Studi delle Donne, una giovane regista del Costarica, bionda, alta e magra, dopo averci fatto assistere ad un suo cortometraggio in cui si narrava della violenza subita da una giovane india ad opera di un bieco conquistador, meritò applausi en­ tusiasti quando affermò di vergognarsi di essere discendente di quei bianchi violentatori e che mille volte avrebbe preferito essere india. Evidentemente, il ragionamento di quella agguerrita regista non teneva conto, fra l’altro, del fatto che nei circa centocinquant’anni di indipendenza dalla Spagna, i creoli bianchi hanno continuato a sfruttare e a discriminare le popolazioni indie quanto e piu dei conquistatori e dei coloni spagnoli e, per colmo d ’ironia, sotto un vessillo nazionale che avrebbe dovuto riconoscere proprio alle popolazioni autoctone diritto di cittadinanza a pieno titolo. Nelle regioni centroamericane come il Guatemala, le popolazioni indie nutrono un profondo disprezzo per i ladinos e così dicasi per l’Ecuador, per non parlare dell’oscuro e complesso fenomeno di Sendero Luminoso in Peru dove certamente uno degli elementi costitutivi è l’odio razziale verso i non indios. È evidente, dunque, che anche nel variegato panorama latinoamericano non sarà facile trovare una linea di orientamento che sdrammatizzi alcune tensioni e che stimoli nuove valutazioni di quell’evento. Se ne è parlato molto anche all’Avana, al Secondo Incontro degli Intellettuali per la Sovranità dei Popoli, senza che, per la verità, si sia arrivati a nessuna conclusione concreta, anche se il ministro della cultura Armando Hart, ha rivolto un appello, certametne utopico ma sinceramente commosso, affinché si cerchi un’unità profonda fra i popoli e le razze. Ha detto Hart: « Amiamo quest’uomo, anche se non vive nella nostra patria, anche se non appartiene alla nostra stessa famiglia, anche se prima non lo conoscevamo. Amiamolo come se lo conoscessimo da quando i primi uomini d ’America sono arrivati 5 in questo continente molti secoli prima del 1492. Amiamolo come se lo co­ noscessimo da millenni ». L’invito del ministro suggerisce, appunto, di con­ siderarsi preesistenti alla scoperta e dunque di considerare le vicende del con­ tinente come frutto del capriccio della storia, senza piu attribuire colpe né meriti. Meno conciliante si è dimostrato Fidel Castro che, nel ricevere un folto gruppo di studenti spagnoli arrivati a Cuba per nave, seguendo l’itinerario di Colombo, ha avvertito di tenere ben separati Scoperta e Colonizzazione: « Non abbiamo nulla contro la Scoperta in sé, ma siamo contrari a convertire la com­ memorazione in apologia della colonizzazione e della schiavitù, cose che non erano nelle intenzioni di Colombo » (« El Pais » 10-10-85) ed ha anche ri­ cordato che le popolazioni indigene della penisola iberica furono a loro volta scoperte e colonizzate dai romani, dai quali si difesero eroicamente. Il tono di queste parole, non deve far pensare ad un antispagnolismo cronico. Al con­ trario, i territori d ’America sono profondamente legati alla Spagna e non solo per la lingua; ma quest’America preferisce ricordare il contributo degli esiliati della guerra civile spagnola, la loro convivenza in terra americana, la fraterna ospitalità e l’importante scambio culturale di quegli anni. Lo spagnolo de­ mocratico ed antifascista, vittima della stessa violenza di cui, per secoli, erano stati vittime i fratelli messicani o argentini, ha trovato oltremare una nuova patria ed ha ricambiato con generosa umiltà quell’accoglienza. I corsi e ricorsi della storia hanno poi voluto che una emigrazione in senso contrario si ri­ stabilisse in questi ultimi anni fra America e Spagna, di modo che oggi la penisola iberica costituisce rifugio per gli esuli cileni e paraguayani; argentini ed uruguavani fino a pochi anni fa hanno potuto vivere nella Spagna demo­ cratica in attesa del ritorno delle libertà costituzionali nei loro paesi. Attra­ verso percorsi tortuosi e non prevedibili i legami fra la ex madre-patria e le ex-colonie restano dunque molto stretti e proprio in occasione di questa sca­ denza sarà bene lavorare sugli aspetti positivi, che sono molti ed innegabili, piuttosto che irrigidirsi su schematismi obsoleti anche se assolutamente com­ prensibili. La vendetta è sterile ed un risarcimento tardivo non potrebbe in nessun modo cancellare il male fatto. In questo senso, appare assai saggio l’invito di Roa Bastos, il grande scrittore paraguayano esule da molti anni in Europa, il quale esorta gli spagnoli a ricordare che la Spagna è stata veramente grande quando ha saputo difendere la sua sovranità, la sua coesione e la sua unità nella diversità dei suoi popoli e delle sue regioni, delle sue culture e delle sue lingue intorno al nucleo agglutinante della nazione-stato. Roa Bastos si riferisce alla grandezza della Spagna imperiale dei tempi della casa d ’Austria e sulla base di questa comparazione suggerisce di ricercare l’unità nella «diver­ sità multirazziale, multiculturale, materiale e sociale » e perfino in un necessario antagonismo. Che uno scontro di civiltà non possa dar luogo a una convivenza idilliaca, è evidente; pure, da quello scontro, che si vorrebbe tradurre, cinque secoli dopo, in incontro, è nato un territorio politico-culturale incontestabilmente contiguo alla civiltà occidentale e che oggi si pone, in parole di Arturo Uslar Pietri, come « viva frontiera » fra l’Occidente e il cosi detto Terzo mondo. E proprio in questa sua particolarità risiede l’interesse che l’America latina riveste e va sempre piu rivestendo nel panorama mondiale. Sul ruolo e sulla collo­ cazione di quel sub-continente si va facendo sempre maggiore chiarezza e, in questo senso, la scadenza del quinto centenario può costituire un’occasione importante di revisione critica e spassionata di una storia conclusa. Alle soglie del Duemila è forse tempo di aggiornare i libri di scuola e le mentalità, di fare il necessario salto mentale per collocarsi all’altezza dei nuovi tempi che chiamano a decisioni e scelte nuove, che stimolano a conservare del passato 6 solamente l’indispensabile eredità, dimenticando rancori e vendette o rivendica­ zioni assurde, « suscettibilità a doppio taglio » come ricorda ancora Roa Bastos (« El Pais » 7-10-85), che possono far piu male che bene e che potrebbero consentire agli Stati Uniti di imporre la propria egemonia anche nell’impo­ stazione di queste celebrazioni, e questo non lo vogliono né la Spagna né l’Ame­ rica latina. Piu che ai mille episodi della leggenda nera, sarà bene appellarsi a queste parole di Colombo, scritte in quei giorni di sorpresa e di allegria, quando da uomo ostinato, fidando sulla propria intelligenza, decise di sfidare ignoti mari: « E quando fui giunto nelle Indie, nella prima isola che trovai, presi con la forza alcuni di loro perché mi indicassero e mi dessero notizia di quel che c’era da quelle parti; e fu cosi che cominciarono ad intenderci e noi ad intendere loro, sia a voce che a gesti; ed hanno fatto grandi progressi; ancora oggi credono che io venga dal cielo, pur avendo conversato a lungo con me. E loro stessi erano i primi a dirlo dovunque io arrivassi, e gli altri lo ripetevano di casa in casa, e negli altri villaggi a voce alta: “Venite, venite a vedere la gente venuta dal cielo”. E cosi tutti, uomini e donne, dopo essersi tutti rassicurati su di noi, accorrevano tutti, grandi e piccoli, e tutti portavano qualcosa da mangiare e da bere e ce l’offrivano con un amore meraviglioso. » 7 HERN AL DIAZ DEL CASTILLO. Per questo numero, nel quale iniziamo un discorso sulla conquista, abbiamo scelto alcune delle illustrazioni che hanno accompagnato le diverse edizioni della « Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva Espana » di Bernal Diaz del Castillo. Pubblicata per la prima volta a Madrid nel 1632, questa « Historia Ver­ dadera » narrata da uno dei protagonisti ebbe grande fortuna sia in Spagna che in Messico, tanto che le riedizioni furono numerose. 8 Gabriel Garcia Màrquez America latina: un cultura di mistero Il incontro degli intellettuali per la sovranità dei popoli dell'America latina ( 29- 11/ 2- 12- 1985) Mi sono sempre domandato a che cosa servono gli incontri fra intellettuali. A parte i pochissimi che hanno avuto un significato storico reale ai nostri tempi, come quello che ha avuto luogo a Valencia in Spagna nel 1937, la maggior parte non vanno al di là di semplici passatempi da salotto. E tuttavia sor­ prende che se ne celebrino tanti, ed ogni volta piu numerosi, piu affollati e piu costosi quanto pi acuta si fa la crisi internazionale. Un premio Nobel per la letteratura assicura di aver ricevuto in questo scorcio d ’anno circa duemila inviti a congressi di scrittori, a festivals artistici, a colloqui, a seminari di ogni genere: piu di tre al giorno nelle località piu disparate del mondo intero. C’è un congresso istituzionale, a scadenza costante e con tutte le spese pagate, le cui riunioni si succedono ogni anno in trentino località differenti, alcune attraenti come Roma o Adelaide, o stravaganti come Stavanger o Yverdon, 0 addirittura degne di un cruciverba come Polyphenix o Knokke. Insomma, sono tanti e su tanti e cosi svariati temi, che l’anno scorso, nel castello di Mouiden, ad Amsterdam, se ne è celebrato uno mondiale per organizzatori di congressi di poesia. Non è un fatto inverosimile: un intellettuale compiacente potrebbe nascere in un congresso, e continuare a crescere ed a maturare in successivi congressi senza altre pause che quelle necessarie a trasferirsi dall’uno all’altro, fino a morire di serena vecchiaia nel congresso finale. Ma forse ormai è troppo tardi per cercare di interrompere un’abitudine che noi artigiani della cultura ci trasciniamo dietro dai tempi in cui Pindaro vince 1 Giochi Olimpici. Erano tempi in cui il corpo e lo spirito andavano piu d ’accordo di quanto non vadano ora, per cui le voci dei bardi erano apprezzate negli stadi quanto le imprese degli atleti. Ma i romani, fin dal 508 avanti Cristo, 9 dovettero sospettare che l’abuso dei giochi fosse un vero pericolo. Infatti, in­ torno a quell’epoca istaurarono i Giochi Secolari, e piu tardi quelli Terentini che si celebravano con una periodicità esemplare per oggi: ogni cento o ogni centotré anni. Già nel Medioevo erano congressi di cultura le contese e i tornei dei giullari, poi quelli dei trovatori ed in seguito quelli di giullari e trovatori insieme, che praticamente inaugurarono una tradizione che ci affligge frequentemente: comin­ ciavano come giochi e finivano in litigi. Ma raggiunsero anche un tale splendore che durante il regno di Luigi XIV venivano inaugurati da un banchetto colos­ sale, la cui rievocazione qui — lo giuro — non pretende di costituire un sug­ gerimento velato: venivano serviti 19 buoi, 3 mila pasticci e piu di duecento otri di vino. Il culmine di questo concerto di giullari e trovatori lo costituirono i Giochi Floreali di Tolosa, il piu antico e duraturo degli incontri poetici — un modello di continuità — inaugurato seicentosessanta anni fa. La fondatrice, Clemencia Isaura, fu una donna intelligente, intraprendente e bella, il cui unico difetto sembra essere il fatto che non è mai esistita: potrebbe essere stata una pura invenzione di sette trovatori che organizzarono il certame per impedire l’estin­ zione della poesia provenzale. Ma la sua stessa non-esistenza è una prova in piu del potere creatore della poesia, infatti a Tolosa c’è una tomba di Cle­ mencia Isaura nella chiesa della Dorata e una strada col suo nome e perfino un monumento alla sua memoria. Detto questo, abbiamo il diritto di chiederci: Ma che ci faccio io, arram­ picato su questa pedana d ’onore, io che ho sempre considerato i discorsi come il più terribile dei doveri umani? Non mi azzardo a formulare una risposta, faccio solo una proposta: cerchiamo di stare qui per fare in modo che un incontro fra intellettuali abbia quello che la maggior parte degli incontri non ha avuto: un’utilità pratica ed una continuità. Tanto per cominciare, ce qualcosa che distingue quest’incontro. Oltre a scrittori, pittori, musicisti, sociologi, storici, c’è un gruppo di scienziati eminenti. Cioè: abbiamo osato sfidare il tanto temuto concubinaggio fra le scienze e le arti. Abbiamo mischiato in uno stesso crogiuolo coloro che ancora confidano nella clariveggenza dei presagi, e quelli che credono solo nelle verità verifi­ cabili: la vecchia avversità fra ispirazione ed esperienza, fra istinto e ragione. Saint John-Perse, nel suo memorabile discorso per il premio Nobel, invalidò questo falso problema con una sola frase: « Sia nello scienziato che nel poeta — disse — bisogna onorare il disinteresse del pensiero. Che almeno qui non continuino ad essere considerati come fratelli nemici, poiché gli interrogativi di entrambi sono gli stessi sopra lo stesso abisso ». L’idea che la scienza riguardi solo gli scienziati, è tanto antiscientifica come è antipoetico pretendere che la poesia riguardi solo i poeti. In questo senso, il nome dell’Unesco — Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura — contiene una grave inesattezza, perché dà per scon­ tato che quelle tre cose siano differenti, mentre in realtà sono tutte una sola cosa. Infatti la cultura è la forza totalizzante della creazione: il profitto sociale dell’intelligenza umana. O, come ha detto Jack Lang senza tante storie: « La cultura è tutto ». Ben venuti, dunque- benvenuti tutti insieme nella casa di tutti. Non mi azzardo a suggerire che qualche motivo di riflessione per questi tre giorni di ritiro spirituale. Oso ricordarvi, in primo luogo, qualcosa che forse ricordate tutti perfettamente: che qualsiasi decisione a medio termine che 10 venga presa in questi tempi di fine secolo, è ormai una decisione per il Se­ colo XXI. Eppure, noi latinoamericani e gente del Caribe ci avviciniamo a quel secolo con la sensazione desolante di aver saltato il secolo XX: lo ab­ biamo sopportato senza viverlo. Mezzo mondo festeggia l’alba dell’anno 2001 come la culminazione di un millennio, mentre noi cominciamo appena a intra­ vedere i benefici della rivoluzione industriale. I bambini che oggi frequentano la scuola elementare e che si preparano a reggere i nostri destini nei cent’anni prossimi, sono ancora condannati a contare sulle dita della mano, come i con­ tabili della piu remota antichità, mentre esistono calcolatrici in grado di fare centomila operazioni aritmetiche al secondo. In cambio, abbiamo perso in cent’anni le migliori virtu umane del secolo XIX: l’idealismo febbrile e la priorità dei sentimenti: il trasalimento dell’amore. A un certo punto del prossimo millennio, la genetica intravvedrà l’eternità della vita umana come una realtà possibile, l’intelligenza elettronica sognerà l’avventura chimerica di scrivere una nuova Iliade, e nella sua casa sulla Luna ci sarà una coppia dell’Ohio o dell’Ucraina, intristita dalla nostalgia, che si amerà in giardini di vetro alla luce della Terra. L’America latina e il Caribe, invece, sembrano condannati alla schiavitù del presente: gli stravolgimenti tel­ lurici, i cataclismi politici e sociali, le urgenze immediate della vita quotidiana, delle dipendenze di ogni genere, della povertà e l’ingiustizia, non ci hanno lasciato molto tempo per assimilare le lezioni del passato o per pensare al futuro. Lo scrittore argentino Rodolfo Terragno ha fatto una sintesi di questo dramma: « Usiamo i raggi X ed i transistors, i tubi catodici e le momerie elettroniche, ma non abbiamo incorporato i fondamenti della cultura contempo­ ranea nella nostra cultura ». Per fortuna, la riserva determinante dell’America latina e del Caribe è una energia capace di smuovere il mondo; è la pericolosa memoria dei nostri popoli. È un’immenso patrimonio culturale anteriore alla materia prima, una materia primaria di carattere molteplice che accompagna ogni passo delle nostre vite. È una cultura di resistenza che si esprime nei nascondigli del linguaggio, nelle vergini mulatte — le nostre patrone artigianali — veri miracoli del popolo contro il potere clericale colonizzatore. È una cultura della solidarietà che si esprime contro gli eccessi criminali della nostra natura indomita, o nell’insorgenza dei popoli per la propria identità e sovranità. È una cultura di protesta nei volti indigeni degli angeli artigianali dei nostri templi, o nella musica delle nevi per­ petue, che cerca di scongiurare con la nostalgia il sordo potere della morte. È una cultura della vita quotidiana che si esprime nell’immaginazione della cucina, del modo di vestire, della superstizione creativa, delle liturgie intime dell’amore. È una cultura di festa, di trasgressione, di mistero, che rompe la camicia di forza della realtà e mette pace, finalmente, fra il raziocinio e l ’imma­ ginazione, fra la parola e il gesto, e dimostra, di fatto, che non c’è concetto che prima o poi non sia superato dalla vita. Questa è la forza della nostra arretratezza. Un’energia di novità e di bel­ lezza che ci appartiene completamente e grazie alla quale bastiamo a noi stessi, che non potrà essere domata né dalla voracità imperiale, né dalla brutalità del­ l’oppressione interna, e neppure dalle nostre paure immemoriali di tradurre in parole i sogni piu reconditi. Perfino la rivoluzione stessa è un’opera cul­ turale, l’espressione totale di una vocazione e di una capacità creatrice che giu­ stificano ed esigono da tutti noi una profonda fiducia nell’avvenire. Questo deve essere qualcosa di piu di un altro dei tanti incontri che si 11 svolgono quotidianamente nel mondo, e lo sarà se riusciremo ad intravvedere almeno nuove forme di organizzazione pratica per canalizzare l’alluvione irre­ sistibile delia creatività dei nostri popoli, lo scambio reale e la solidarietà fra i nostri creatori, ima continuità storica e una più ampia e profonda utilità sociale della creazione intellettuale, il più misterioso e solitario dei mestieri dell’uomo. E deve essere, per concludere, un apporto decisivo all’indilazionabiie determi­ nazione politica di saltare al di sopra di cinque secoli estranei, e di entrare con passo fermo, con un orizzonte millenario, nel millennio imminente. Mappa di Tenochtitlàn, attribuita a Cortes (1524) 12 Carlos Fuentes America latina tra equilibrio e violenza Stati Uniti e America latina condividono un continente di enormi contrasti e vaste disuguaglianze. Tutti e ciascuno dei paesi latinoamericani sono nazioni in via di sviluppo. Gli Stati Uniti sono una nazione industrializzata: la piu industrializzata del mondo, la più forte in termini militari ed economici, anche se, disgraziatamente, non è la più saggia in termini politici. Come l’America latina, anche gli Stati Uniti hanno conosciuto la rivoluzione e la guerra civile. Eppure, quasi sempre i nordamericani si sono dimostrati capaci di negoziare i loro affari interni. Sarebbe bello che questa stessa capacità fosse presente nelle loro relazioni con l’America latina. Immaginiamo per un momento che l’America latina abbia avuto il potere di determinare il risultato della guerra civile nordamericana intervenendo de­ cisamente a favore delle forze sudiste. Cosa che i conservatori latinoamericani desideravano fortemente. Se avessero realizzato questo loro desiderio, avrebbero frustrato il progetto nazionale della storia nordamericana. Ed è proprio una frustrazione simile, quella che sentiamo noi quando gli Stati Uniti abusano del loro immenso potere e soffocano la volontà nazionale del Guatemala o del Cile, di Cuba o del Nicaragua, facendo cadere i loro governi e spingendoli ad allearsi e a dipendere dall’Unione Sovietica. Questi errori devono essere evitati, ma non saranno evitati fintantoché gli Stati Uniti non riconosceranno il diritto di ogni paese latinoamericano, grande o piccolo, a determinare la propria politica interna ed internazionale soprattutto, ed in particolare quando quella politica non coincide con quella della superpotenza continentale. Discorso pronunciato al collegio Mount Saint Mari’s di Los Angeles, ottobre 1985. 13 Il mondo, poi, è cambiato da quando Jacobo Arbenz fu spodestato dai ge­ nerali e dalla Cia nel 1954, o da che Salvador Allende è stato destabilizzato dall’amministrazione Nixon e poi assassinato dai generali nel 1973. L’America latina non accetterà piu nessun intervento militare, diretto o in­ diretto, da parte degli Stati Uniti. L’unica cosa che può unire i popoli ed i governi di tutto l’emisfero è proprio la resistenza ad un nuovo intervento nordame­ ricano in America latina. Nell’attuale politica dell’Amministrazione Reagan contro il Nicaragua, i go­ verni indipendenti dell’America latina vedono una minaccia contro la propria sovranità. Se non ci sottoporremo ai dettami di Washington saremo castigati anche noi con blocchi commerciali, anche noi saremo attaccati da mercenari presentati come « difensori della libertà » e denunciati come stati antidemocratici poiché solo gli Stati Uniti avrebbero titolo per sovrintendere a libere elezioni e per insegnarci, come Woodrow Wilson nel 1914, « a scegliere uomini buoni ». I popoli dell’America latina non sono disposti a sopportare ancora una volta tutto ciò. E i governi civili che non appoggeranno i loro popoli, saranno sostituiti da regimi militari eccitati da convulsioni di ribellione. II destino dei nuovi regimi democratici — il governo di Alfonsin in Argentina; quello di Sanguinetti in Uruguay; la presidenza di Alan Garcia in Peru; la tran­ sizione verso elezioni dirette e governi civili in Brasile — può essere frustrato da questo doppio handicap: l’intollerabile invasione di un territorio latinoameri­ cano ed il continuo rimandare la soluzione dei veri problemi, che sono economici e sociali e non bellici. Non c’è un solo aspetto del conflitto centroamericano che non possa essere risolto rapidamente e perfino con discrezione, dalla diplomazia o da quello che in altre parti del mondo viene chiamato « l’impegno costruttivo », che gli Stati Uniti riservano ai loro amici sudafricani ma che negano ai loro amici latino­ americani. Cuba e il Nicaragua sono delle minoranze, non delle minacce, e rappre­ sentano l’inevitabile ascesa delle società marginali, non necessariamente delle so­ cietà totalitarie. Poiché, come Fidel Castro sta dimostrando in questo momento, queste nuove nazioni, prima o poi, dovranno integrarsi alla realtà dei rapporti economici globali, che ci si guadagna osteggiandole, assediandole ed armando i contro­ rivoluzionari, invece di attrarle e di affrettare il momento della loro presenza economica e politica normale nel mondo? Interessa a noi tutti capire ed accettare il cambiamento e la rapida costru­ zione delle istituzioni in piccoli paesi che non hanno mai avuto l’opportunità di creare i propri strumenti nazionali di potere. Queste nazioni debbono essere lasciate in pace per poter definire i loro problemi, risolvere le proprie liti familiari e conseguire quel minimo rispetto di sé che la storia e gli interventi costanti degli Stati Uniti, ha negato loro. Perché una nazione potente come gli Stati Uniti, accompagnata dai suoi amici di questo emisfero e dai suoi alleati europei, non può proporre contributi ra­ zionali ai problemi dell’area ed offrire a questi paesi un trattamento migliore di quello dei sovietici? Ma se la risposta degli Stati Uniti alle rivoluzioni di questo emisfero è l’osti­ lità, la rivoluzione diventerà sempre piu radicale, cercherà l’alleanza con l’Urss come un imperativo di sicurezza, e dividerà la società nordamericana su temi come l’aiuto alla controrivoluzione e la possibilità di un’invasione armata. E so14 prattutto accrescerà le possibilità stesse della guerra mediante atti di violenza in­ controllabili in frontiere estremamente incerte. Nessuno è del tutto innocente in questa situazione: non credo nell’innocenza politica. Ma l’importante è risolvere i problemi, non ignorarli per decenni e poi esacerbarli in pochi mesi. La soluzione centroamericana è a portata di mano, si chiama diplomazia ed immaginazione politica, e gli Stati Uniti se la vedono offrire da paesi amici degli Stati Uniti e si tratta di una soluzione latinoamericana a problemi latinoamericani. Se gli Stati Uniti non si decideranno ad appoggiare seriamente questa so­ luzione, invece di elogiare retoricametne Contadora per poi rinnegarla con atti di forza, ben presto gli Stati Uniti si vedranno esclusi dalla dinamica politica dell’America latina. Castro sta dimostrando di poter rientrare in America latina alle sue condi­ zioni, senza curarsi delle condizioni imposte da Washington fin dai tempi della presidenza Eisenhower. L’America latina ha preso nota di questo fatto e pa­ ragona le sue iniziative di pace con la costante contraddizione del governo di Reagan fra quel che dice e quel che fa in Centroamerica. Dal momento in cui il Nicaragua ha annunciato la sua decisione di firmare il Documento di Contadora, gli Stati Uniti hanno cercato tutte le scuse per posporre, debilitare e perfino sabotare l’accordo centroamericano: l’Ulisse nordame­ ricano doveva scorazzare liberamente per la zona mentre la Penelope di Contadora doveva disfare ogni notte quello che aveva tessuto di giorno. A partire da questo momento, lo spazio di negoziazione in America Centrale si è ridotto costantemente. Gli Stati Uniti hanno rifiutato la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia. Le conversazioni bilaterali fra Nicaragua e Stati Uniti a Manzanillo sono state sospese. Honduras, Salvador e Costarica hanno subito pressioni ed è stata ricordata loro la posizione di stati clienti di Washington. Le tensioni militari nell’istmo si sono ingigantite. L’appoggio dato ai controri­ voluzionari e l’approvazione di aiuti militari da parte del Congresso degli Stati Uniti hanno minato ancor di piu il terreno del negoziato ed hanno provocato l’attesa reazione del Nicaragua: cercare più armi per opporsi alla controrivoluzione. Un embargo commerciale che nessuno rispetta è sembrato simbolizzare l ’inu­ tilità dell’ostilità di Washington verso Managua. Le ragioni di questa ostilità sono mutate: l’impossibilità di dimostrare pubblicamente la presenza del Nica­ ragua nella guerra civile salvadoregna- ha fatto cambiare la giustificazione inter­ ventista: ormai non si parla più di vendita di armi, ma « della democrazia in Nicaragua ». Questo tema, come tutti sappiamo, ha preoccupato enormemente Jeane Kirkpatrick, Norman Podhoretz ed altri conservatori nordamericani per tutti i quarantotto anni del somozismo. Per tutto quel periodo, gli attuali pa­ ladini di destra della democrazia non hanno mai chiesto ai Somoza quel che oggi chiedono ai sandinisti esattamente come non l’hanno mai chiesto ai militari argentini o a Pinochet. L’Amministrazione Reagan ha attribuito a sé stessa il privilegio divino, simile a quello dell’Unione Sovietica nella sua sfera di influenza, di intervenire nella vita dei suoi vicini, di violentarli e di decidere chi debba governarli. I contro­ rivoluzionari nicaraguensi sono diretti dal colonnello Enrique Adolfo Bermùdez, della Guardia nazionale di Somoza. Reagan, in una vera e propria escalation retorica, li chiama « difensori della libertà », eredi di Bolivar ed « equivalenti morali » di Washington e Jefferson. Ma in Centroamerica non ci sono dei Jefferson, dato che niente in quella cultura autorizza una figura di quel tipo. Vi sono invece molti nuovi Bolivar che difendono il loro paese da un’in15 vasione straniera come ha fatto Juàrez con i francesi in Messico nel 1862 e come ha fatto Sandino con i « marines » in Nicaragua nel 1927. Vi sono pure, come in ogni rivoluzione, compresa quella nordamericana, molti controrivoluzionari che vorrebbero ristabilire l’ordine precedente, cosi comodo per loro: i contras sono paragonabili agli eserciti di Benedict Arnold, non a quelli di Giorgio Washington. Ci sono emigrati, come quelli che fuggirono dagli Stati Uniti nel 1780, dalla Francia nel 1790 o dal Messico nel 1911. Ci sono gli eterni ribelli come Edén Pastora che finirà combattendo contro i contras se i contras vinceranno, e ci sono uomini in buona fede, come Arturo Cruz ed Edgar Chamorro. La loro delusione è sotto gli occhi di tutti. Chamorro ha confidato al « New York Times » che la sua esperienza come leader ribelle lo ha con­ vinto che la controrivoluzione non può contribuire alla democratizzazione del Nicaragua: Sono — dice Chamorro — antiche guardie nazionali che minacciano o assassinano chi osa opporsi a loro. Ed aggiunge: sono manovrate dalla Cia che li ha ridotti ad un semplice fronte. E l’ambasciatore Cruz, appendice civile dei contras, ha dichiarato la scorsa settimana a Londra che nessun nazionalista nicaraguense potrà mai accettare che il Nicaragua sia bombardato o invaso dagli Stati Uniti. I suoi compagni militari, però, non la pensano come lui. Non ci sono Jefferson in Centroamerica: c’è invece chi è manovrato dagli Stati Uniti e chi ha la forza del nazionalismo dalla sua parte. Ed ogni volta che gli Stati Uniti, culla di una rivoluzione nazionalista, hanno cercato di sop­ primere il nazionalismo altrui, sono stati sconfitti perché hanno voltato le spalle alla loro stessa eredità. Tutto ciò mi induce a considerare due temi che stanno guadagnando terreno negli Stati Uniti e che riguardano direttamente l’America latina. Il primo è che la democrazia definita dagli Stati Uniti, e non l’indipendenza definita dal­ l’America latina, è il vero problema in Nicaragua. Il secondo — corollario del primo — è che l ’appoggio alla democrazia autorizza gli Stati Uniti ad intervenire, direttamente o indirettamente, al fine di « restaurare » la democrazia in un paese straniero. Ma la democrazia, come la rivoluzione, non è un grappolo di banane: non può essere esportata. Non è possibile « restaurare » la democrazia dove questa non è mai esistita prima: in Nicaragua. Si può invece ripristinare in Cile, dove ha radici pro­ fonde. Ma non vedo controrivoluzionari finanziati dalla Cia sulle pendici della Cordigliera delle Ande. Cerchiamo di dare un tono elevato a questo importante dibattito storico, dato che il tema è molto serio. Antonio Gramsci vide nel Principe di Machiavelli una utopia dinamica sul modo in cui un Principe deve agire se vuole dirigere il suo popolo verso la fondazione di un nuovo stato. Il Principe machiavellico lavora su una comunità polverizzata e senza comunicazione al fine di organizzare la sua volontà col­ lettiva. Gramsci fa una distinzione fondamentale tra la politica di Machiavelli in Italia, che si svolge nel momento della violenza nella città-stato dei Medici, e la politica di Bodin in Francia che si svolge nel momento dell’equilibrio nello stato-nazione di Enrico IV e Luigi X II. Bodin può invocare i diritti delle classi medie — lo stato pacificato — perché i problemi basilari della fondazione, unità e consenso nazionale sono stati già risolti in Francia. Machiavelli deve invece invocare i diritti della ri­ voluzione perché tutto — integrità territoriale, unità nazionale, una società senza ostacoli feudali — non è stato ancora raggiunto in Italia. In America latina, capi rivoluzionari come Obregón e Calles nel Messico degli anni venti, Castro a Cuba e i Sandinisti in Nicaragua hanno dovuto 16 identificare il momento della violenza col momento della fondazione, per poter ottenere l’unità territoriale, l’identità nazionale e la praticabilità istituzionale. Il Messico visse il suo momento di violenza dal 1910 al 1930; Cuba ne sta ap­ pena uscendo fuori. Il Nicaragua lo vive tuttora drammaticamente. Per contro i governanti attuali di Messico e Argentina, Venezuela e Brasile, Peru e Uruguay vivono il momento di Bodin piu che quello di Machiavelli. Il loro dilemma è quello di mantenere l’equilibrio democratico e nazionalista per non cadere di nuovo nella violenza. Sapranno gli Stati Uniti aiutare questi governi passati attraverso l’equilibrio e la violenza? Le forze della democrazia e dell’equilibrio in America latina sono malservite dalle dottrine reaganiane sul diritto ad intervenire, che presuppone che i governi marxisti sono cattivi e le guerriglie che li sfidano sono buone, mentre i governi dienti degli Stati Uniti sono buoni e le guerriglie che li attaccano sono cattive. Viviamo in un mondo diviso in blocchi. L ’America latina, l’Africa, l’Asia, la stessa Europa che vuole darsi un’identità più precisa per il prossimo secolo, desiderano superare questa divisione verso un mondo più creativo, più diversificato. Frattanto ogni superpotenza si attribuisce una sfera di influenza e il diritto a fare e disfare i governi. La storia dell’Europa centrale e delle frontiere a oriente e a sud dell’Unione Sovietica, ma anche la storia dell’America latina, sono vulnerate dagli interventi della più grande potenza regionale: Russia o Stati Uniti. Il criterio per giudicare i governi e le guerriglie in queste zone di influenza deve rapportarsi al grado di sottomissione alla superpotenza regionale o alla sua indipendenza da essa. I guerriglieri afghani, opponendosi al governo — mario­ netta di Kabul, lottano per la libertà. Ma anche i contras sono burattini del governo Usa quando cercano di abbattere i sandinisti, primo governo nica­ raguense che non riceve ordini da Washington. Se per caso Lech Walesa andasse al potere in Polonia la sua prima preoccupazione non sarebbe la democrazia ma l ’indipendenza da Mosca. Lo stesso vale per il Nicaragua: il problema non è la democrazia se per prima cosa non c’è l ’indipendenza. Non si può avere una democrazia se non si ha una nazione, e non si può avere una nazione se non si è indipendenti. Da Washington ma anche da Mosca. L’indipendenza è l’ostacolo alla pace in Centroamerica: la mancanza, l’affermazione, la negazione dell ’indipendenza. La questione di fondo della pace in America Centrale è questa: cessiamo di essere protettorati americani ma non trasformiamoci in protettorati sovietici. Diventiamo invece partners commerciali, culturali e economici di tutti i continenti, di tutti i blocchi. E, se nessuno ci minaccia militarmente non abbiamo motivo per importare armi da nessun blocco. Gli Usa devono promettere il non intervento. Noialtri dobbiamo promettere il non allineamento. Tutti dobbiamo promettere cooperazione. Perché questo è così difficile da accettare? E chi può credere realmente che la pace sarà rag­ giunta non con concessioni diplomatiche ma con sempre maggiori atti di vio­ lenza? I generali americani Vassey e Nutting hanno già avvertito che un’inva­ sione del Nicaragua non sarebbe una seconda Grenada. Managua verrebbe oc­ cupata, i contras prenderebbero il potere, i democratici tra di loro sarebbero epurati, e sarebbe restaurata nella sua essenza e sottomissione la dittatura so­ mozista. Chi tra i contras potrebbe evitarlo? Nessuno. I sandinisti stanno accu­ ratamente preparandosi ad affrontare un’invasione e poi a scatenare una guerra di guerriglia contro l’invasore. Gli Stati Uniti ancora una volta affonderebbero in un pantano. Solo il ritorno di giovani cadaveri convincerà i nordamericani, una volta di più, dell’errore della loro politica attuale, delle occasioni perdute? Un bagno di sangue e poi una guerra di lunga durata. Il Nicaragua ha una 17 cultura e un popolo. Il Nicaragua non può essere, alla fine conquistato. Una invasione non solo aprirebbe una breccia, che occorrerebbero decenni per chiu­ derla, tra America latina e Stati Uniti, non solo sarebbe un insulto intolle­ rabile alla capacità di negoziato, ma metterebbe a rischio lo stesso tessuto sociale delle nostre nazioni. Gli spazi per la diplomazia devono essere allargati e quelli per la guerra ridotti. Le conversazioni tra Usa e Nicaragua devono riannodarsi a Manzanillo affinché i conflitti bilaterali affievoliscano. La mediazione argentina a Manzanillo deve essere bene accolta. L'Acta di Contadora deve essere approvata, firmata e incrementata da ciascuna parte. Essa contiene le migliori formule per la pace, immediata e di largo respiro. È una creatura latinoamericana e merita il rispetto degli Stati Uniti. Sottoscriverla — come dice il ministro degli esteri messicano, Bernardo Sapulveda, — «darebbe respiro alla distensione e alla si­ curezza regionale ». Le democrazie minacciate del Sudamerica — Argentina e Brasile, Uruguay, Ecuador e Bolivia — daranno indubbiamente un appoggio sempre piu attivo a Contadora, affinché YActa sia vista come espressione della volontà indipendente dell’America latina in favore della pace e della cooperazione in Centroamerica. Io chiedo ai miei amici nordamericani che non prendano per satelliti i loro amici latinoamericani, che non sottovalutino o facciano pressioni su questi loro amici, che non dicano che preferiscono aver satelliti che amici, perché l’amico rispetta ma il satellite inganna. La Cee che è ora una grande comunità di 320 milioni di persone con l’in­ gresso delle democrazie iberiche — piu abitanti degli Usa o dell’Urss — deve offrire all’America Centrale una opzione economica e morale piu ampia delle due superpotenze. L’embargo imposto dagli Usa al Nicaragua deve finire quanto prima: nessuno lo asseconda, fa vergogna a tutti. L’appoggio ai contras deve finire: è immorale, è illegale, ed è il solo che corrisponde alla visione reaganiana di guerriglia armata, finanziata e diretta politicamente da un potere estraneo contro una nazione indipendente, con basi in altri paesi. Le repubbliche centro­ americane devono essere lasciate in pace nel risolvere i loro conflitti storici, senza interferenze esterne. Come ha detto recentemente il presidente messicano Miguel de la Madrid, i processi interni di riconciliazione nazionali e i dialoghi corrispondenti tra i gruppi all’interno del paese centroamericano sono questioni che sfuggono alla natura di Contadora, fondata sul principio di non intervento. Il Salvador deve trattare con le sue guerriglie interne. Mentre il Nicaragua deve trattare col governo nordamericano sulle guerriglie manipolate da Washington contro Managua. Ciò richiede un accordo bilaterale con il burattinaio: Managua non ha nulla da negoziare con i contras, come Juàrez con Massimiliano perché mettesse a cuccia i suoi cani. Ciò che i sandinisti possono, si, fare dovrà accadere all’interno del Nicaragua, come favorire la diminuzione delle tensioni fra il governo e la stampa, la chiesa, il settore privato, i gruppi etnici come i miskitos e, in generale, l ’opposizione nazionalista che non collabora con i contras o con gli americani. Questo è qualcosa, ne sono sicuro, che il governo popolare del Nicaragua, legittimamente eletto, farà presto e con serietà, non per allettare Washington o per far piacere ai contras, ma perché è ciò che serve al Nicaragua, agli amici del Nicaragua e al destino del Nicaragua in America latina e nel mondo. Ma, in fondo, anche gli Stati Uniti hanno un obbligo con il proprio futuro in questo emisfero, ed oggi le cose si stanno muovendo in maniera tale che gli Usa potrebbero rimanere esclusi dalla dinamica delle Americhe. Ci hanno pensato i fans di Ronald Reagan in America latina? 18 Massimo Cavallini La trappola del debito estero « I nuovi dirigenti latinoamericani portano sulle proprie spalle una responsa­ bilità immensa. Ripeto la mia convinzione che se non si troverà una soluzione al problema del debito, se si cercherà di farlo pagare a tutti i costi, se le nefaste for­ mule del Fondo Monetario Internazionale continueranno ad essere applicate, si pro­ durranno grandi esplosioni sociali... ». « Io credo che i paesi industrializzati non abbiano ancora veramente preso co­ scienza della gravità del problema del debito estero. E gli Stati Uniti meno degli altri. Non tengono conto delle implicazioni politiche e sociali. L’America latina può esplodere socialmente se si arresta la crescita. Si può già fermare lo sguardo: l’esplo­ sione arriverà quanto prima... ». Due frasi sostanzialmente identiche uscite dalle bocche di due uomini sostan­ zialmente diversi. La prima è di Lidel Castro ed è tratta dall’ormai famosa inter­ vista che il leader cubano concesse, poco meno di un anno fa, al direttore del quo­ tidiano messicano « Excelsior ». La seconda è di Julio Maria Sanguinetti, presiden­ te dell’Uruguay, intervistato da Marcel Niedergang per « Le Monde » ai primi dello scorso novembre. Lidel Castro è, come noto, sostenitore e simbolo di quella pro­ posta di « non pagamento » che, seppur largamente presente nei movimenti di mas­ sa latinoamericani, è rimasta fin qui ben lontana dai palazzi dei governi. Il secondo è un degnissimo rappresentante di quell’ampia maggioranza di capi di stato che « vogliono pagare ». « Noi uruguavani — dice Sanguinetti a Niedergang — non preconizziamo né il non pagamento né lo sciopero dei paesi debitori, perché non vogliamo isolarci dal mondo finanziario... ». In un punto, tuttavia, queste due posizioni tanto lontane si incontrano e coin­ cidono: sulla inevitabilità e sulla imminenza di una esplosione. Ed anche — per quanto paradossale possa sembrare — sulla necessità di fare il possibile per evi19 tarla. Dice Fidel Castro: « Non ho dubbi che il metodo ideale e più costruttivo è che questi problemi vengano risolti attraverso il dialogo politico ed il negoziato. Sa­ rebbe la forma per portare avanti, ordinatamente, soluzioni essenziali... ». E San­ guinetti: « Siamo per una soluzione giusta, responsabile, negoziata... ». Frasi vecchie di appena qualche mese. Eppure già appartengono, in qualche mi­ sura, alla « preistoria » del debito estero. Molti fatti nuovi sono passati sotto i ponti di chi « vuole » e di chi « non vuole » pagare il debito. Ed è oggi il verbo « potere » quello che sembra meglio adattarsi ad una realtà che ha di fatto livellato ogni ap­ proccio ideologico al problema. Tutti gli indici economici sono peggiorati. Le mani tese alla ricerca di un serio negoziato non hanno fin qui stretto che l’aria fritta del cosiddetto « piano Baker ». L’ultima caduta del prezzo del petrolio ha introdotto una variabile negativa che spinge la situazione ancor più fuori dal controllo. La preventivata « esplosione », ieri considerata vicina, è oggi vicinissima. Solo che nes­ suno, nel mondo sviluppato, sembra desideroso — come diceva Sanguinetti — di « fissare lo sguardo ». Tutti appaiono allegramente indaffarati attorno ai tavoli del grande « banchetto deflattivo » che pensano d ’imbandire con materie prime a prezzi sempre più stracciati. Eppure anche loro sono seduti sulla polveriera. I dati presentati dal Cepal (la commissione economica dell’Onu per l’America latina) parlano chiaro. Nel 1985 il debito estero dei paesi latinoamericani è au­ mentato da 360 a 368 mila milioni di dollari. Un aumento apparentemente mode­ sto, ben lontano dalle percentuali (più 21 per cento nell’81) degli anni del « boom » creditizio. E tuttavia, proprio in questa piccola quota di incremento c’è la prova della sua « impagabilità », o meglio, della impossibilità — quantomeno nelle condi­ zioni date — di cancellarlo in un qualunque punto del tempo che giunga prima dell’eternità. Il debito infatti aumenta nonostante, negli ultimi anni, le aperture di nuovi crediti da parte delle banche si sia fatta comprensibilmente assai più avara. Ed aumenta, soprattutto, nonostante i paesi dell’America latina abbiano pagato, solo tra l’82 e l’85 e solo per gli interessi, l’incredibile somma di 106 mila milioni di dollari. Quasi la terza parte del debito totale. E tutto ciò per vedere crescere, anziché diminuire, la somma dovuta. Un infernale meccanismo di strozzinaggio. Ma le cifre assolute, per quanto già eclatanti, non dicono che una parte della verità. Per comprendere a fondo la realtà del fenomeno, occorre paragonare il « trasferimento netto di risorse » con la capacità di « produrre risorse », ovvero con la possibilità che i singoli paesi hanno di incamerare valuta attraverso esportazioni. Nel solo ’85 — sempre secondo i dati Cepal, che più d ’uno considera ottimisti — l’America latina ha sborsato, per gli interessi sul debito estero, 30 mila milioni di dollari. Una cifra appena inferiore ai 34 mila 300 milioni che costituiscono l’utile complessivo nella bilancia dei pagamenti. Il che, prosaicamente detto, significa che l’America latina, oggi, usa praticamente tutti i suoi utili commerciali per pagare gli interessi sul debito. Una situazione insostenibile per qualunque economia ca­ pitalista. E ancora non è tutto. Ciò che più da il segno del rapido deteriorarsi della situa­ zione è il progressivo ridursi della « forbice » tra l’emoraggia di risorse provocata dal pagamento degli interessi e la capacità di produrre utili commerciali. Nel 1984 il « superavit » della bilancia latinoamericana era stato di 38 mila 700 milioni di dollari. Nell’85, come si è visto, è calato a poco più di 34 mila. E questo al termine di un quadriennio — 82-85 — nel quale tutti i paesi debitori hanno compiuto uno sforzo enorme per applicare a se stessi le ricette imposte dal Fmi. Ovvero: restri­ zione selvaggia delle importazioni, tagli alla spesa pubblica ed espansione delle espor­ tazioni. Uno sforzo pagato durissimamente, in termini di fame, salari, consumi, la­ voro, assistenza, salute ed educazione, dalle popolazioni interessate. Una sfida ai « limiti di sussistenza » interni ed alle avverse condizioni del mercato internazio20 naie che, alla fine dell’84, aveva appunto portato a quel « record storico » — 38 mila 700 milioni — negli utili della bilancia commerciale. Un record che, con tutta evidenza, ha segnato anche il limite estremo — « fisico », si è tentati di dire — oltre il quale la cura fondomonetarista non può andare. Ed infatti l’85 già ha se­ gnato l’inizio della parabola discendente. L’America latina, spossata da una cura rivelatasi di gran lunga piu dannosa della malattia, si ritrova con piu miseria, piu fame, piu analfabetismo, piu disoccupazione. E con piu debiti. Il suo è stato il più doloroso ed il più inutile dei sacrifici. Perché? La ragione è fondamentalmente una: il Fmi e le banche creditrici le hanno im­ posto di combattere al proprio interno gli effetti di fenomeni che avevano la pro­ pria origine all’esterno. E, più precisamente, nella politica di quei paesi sviluppati, Stati Uniti ovviamente in testa, che ora reclamano il « saldo dei conti ». Contro la politica della espansione delle esportazioni hanno giocato il rallentamento della crescita a livello mondiale, il protezionismo ed il dumping delle potenze in­ dustriali ai danni delle produzioni latinoamericane. Ma soprattutto il continuo ed inesorabile deteriorarsi delle ragioni di scambio ai danni di tutte, o quasi, le ma­ terie prime. C’è un dato, in questo tragico bilancio dell’85, che ben definisce i con­ torni della « trappola » nella quale i paesi debitori si trovano racchiusi: nell’ultimo anno l’America latina, in virtù del calo dei tassi d ’interesse, ha risparmiato mille milioni di dollari, ma ne ha perduti quattromila per l’inarrestabile discesa dei prezzi dei suoi prodotti di esportazione sui mercati internazionali. Questo è dunque il quadro. Nel 1985 il prodotto interno lordo complessivo dell’America latina è crescito del 2,8 per cento, con un calo piuttosto marcato ri­ spetto al già modestissimo 3,4 per cento dell'84. E se dal calcolo si esclude il Bra­ sile (con il suo quasi 8 per cento di crescita, pagato però con una inflazione re­ cord del 230 per cento), il dato scende fino allo 0,8. Ed il prodotto pro-capite, ov­ viamente, considerato l’alto indice di crescita della popolazione, si inabissa parec­ chio sotto lo zero. Il drenaggio di risorse provocato dal pagamento degli interessi del debito ha portato l’indice degli investimenti un 30 per cento al di sotto dei livelli dell’80. I salassi del Fmi — che in questi anni ha davvero usato metodi degni del torvo empirismo d ’uno di quei lugubri medici seicenteschi — hanno dunque letteralmente dissanguato l’America latina. E, di fronte alla impossibilità pratica d ’applicare nuo­ ve mignatte al corpo del paziente, pena la sua morte, si è deciso di tentare una nuova cura. L’hanno chiamata « piano Baker », dal nome del segretario al Tesoro Usa che ha avuto l’onore di presentare la nuova terapia nel corso dell’ultima riunio­ ne a Seul del Fondo monetario e della Banca Mondiale. Anche se molti ritengono che esso sia in realtà opera del segretario aggiunto al Tesoro David Mulford, vero « sistemizzatore » d ’una decisione coordinata tra la presidenza della repubblica (ovvero lo stesso Reagan) e la Giunta della riserva federale (di fatto la banca cen­ trale degli Usa) diretta da Paul Volcker. Si tratta, in sostanza, di una trasfusione di sangue. Una trasfusione assai piccola considerata l’entità dei salassi precedentemente applicati. E, per di più, con lo scopo palese di consentire, e al più presto, l’applicazione di nuove sanguisughe, o meglio, di garantire una nutrizione adeguata a quegli ancora numerosi animaletti che re­ stano ostinatamente incollati alla pelle del paziente, reclamando nuovo sangue. In­ somnia niente di più che un temporaneo sollievo, in vista della ripresa della vec­ chia cura. Che ingrassa le mignatte ed uccide il malato. Fuor di metafora: il « piano Baker » propone che nei prossimi tre anni la ba-nca privata conceda prestiti per 20 mila milioni di dollari ai 15 paesi più indebi­ tati del mondo (in gran parte latinoamericani come si vede dalla lista: Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Messico, Perù, Uruguay, Venezuela, Ni21 geria, Costa de Marfil, Marocco. Yugoslavia e Filippine. Ancora giacenti le richie­ ste di accesso alla cura di Repubblica Dominicana e Costa Rica). Ad essi gli enti multilaterali dovrebbero aggiungere una cifra variante dai 9 mila ai 20 mila milioni di dollari. In tutto, nella migliore delle ipotesi, 40 mila milioni di dollari, quanto basta, secondo calcoli fatti dagli undici paesi del « gruppo di Cartagena », per pa­ gare un terzo degli interessi del debito. Senza contare, ovviamente, i nuovi interessi (sul cui tasso ancora è mistero fìtto) che i nuovi prestiti genereranno. Formalmente, la « novità » del piano Baker consiste nel riconoscimento di una esigenza piu volte avanzata dai paesi debitori. Ovvero: per poter pagare bisogna crescere. Sicché, teoricamente, i nuovi prestiti dovrebbero essere finalizzati non al pagamento degli interessi dei debiti precedenti, ma ad investimenti che amplino la capacità di esportazione dei paesi interessati. Un obiettivo che, in effetti, non si vede come possa essere realizzato nelle condizioni date. Ed inoltre, per ottenere i nuovi fondi, i « clienti » del piano dovranno accettare — esattamente come av­ veniva in passato — i « programmi di risanamento » imposti dal Fmi, ossia, rien­ trando nella metafora, la cura dissanguante dei vecchi medici seicenteschi. Il piano Baker ha fin qui avuto una storia curiosa. Quasi tutti lo hanno accolto, se non proprio con entusiasmo, almeno come « un fatto positivo anche se insuf­ ficiente » (questo è stato il primo giudizio dei paesi di Cartagena). Ma, all’atto pra­ tico, nessuno è apparso particolarmente ansioso di « fungere da cavia ». Poiché, se il bisogno di « sangue nuovo » è decisamente forte, ancor piu forte e vivo è il ri­ cordo, o meglio, l’attualissima sensazione di dolore, lasciata dai salassi che la nuova trasfusione si prepara a reiterare. Sicché il piano ha deambulato per tutto il con­ tinente alla ricerca del « paese modello » destinato a sperimentare la nuova cura. Prima il Messico, poi l’Argentina, poi il Venezuela e infine, dopo una capatina nel grande Brasile, un ultimo, momentaneo approdo nell’Ecuador del fedelissimo fondomonetarista Febres Cordero. Molto difficilmente, tuttavia, la creatura di James Baker (o di David Muldford) riuscirà a trovare casa. La crisi, negli ultimi mesi, è corsa molto piu rapida delle sue pretese e della sua credibilità. E già ora, per quanto ancora appartenga al fu­ turo, appare decrepito ed inutile, come un patetico reperto archeologico. Un fatto, soprattutto, ha contribuito ad accelerare gli eventi ben oltre le già limitate capa­ cità di resistenza del piano: il crollo del prezzo del petrolio. Li ha accelerati, in verità, ad un punto tale che oggi la « crisi del debito estero » viaggia più veloce, non solo del piano Baker, ma anche delle rotative. Tutto quello che si scrive, a questo punto, potrebbe apparire già irrimediabilmente vecchio al momento della pubbli­ cazione. Il Messico, ad esempio, potrebbe aver già dichiarato quella « moratoria unila­ terale involontaria » che, allo stato, appare praticamente inevitabile. Tutte le pre­ visioni sono saltate ed i conti, da sempre « in rosso », appaiono oggi arroventati ed immaneggiabili. Il Messico, semplicemente « non può » pagare. Con due succes­ sivi ribassi il prezzo medio del greggio è passato da più di 23 dollari a 15. Sicché, mantenendosi gli attuali prezzi e gli attuali ritmi di vendita — il che non è affatto scontato — gli ingressi per esportazioni petrolifere passeranno, nell’86, dai 13 mila e 100 milioni di dollari preventivati, a poco meno di ottomila. Le esportazioni to­ tali del paese non supereranno, nella migliore delle ipotesi i 15 mila e 500 milioni. E, quest’anno, per il proprio debito estero — tra interessi, ammortamento di capi­ tale ed arretrati — il Messico deve pagare 12 mila e 500 milioni di dollari. Le im­ portazioni — importazioni ormai di pura sussistenza dopo i ripetuti « piani eco­ nomici » imposti dal Fmi — sono previste in 14 mila 500 milioni di dollari. Il « su­ perava » commerciale non sarà dunque che di mille milioni, il che significa un « buco » di 11 mila 500 milioni solo per far fronte alle scadenze del debito estero. 22 Piu della metà dei fondi complessivi previsti — in tre anni e per 15 paesi — dal piano del signor Baker. Il Venezuela, le cui entrate in divisa dipendono al 90 per cento dal petrolio, si trova in una situazione non troppo dissimile. Le esportazioni, dai 15 mila milioni di dollari, scenderanno a non piu di diecimila milioni. La metà dei quali già è im­ pegnata dai cinquemila milioni che il paese — in base all’ultima rinegoziazione, fi­ no a ieri considerata « vantaggiosa » — dovrà pagare per gli interessi del debito. L’Ecuador, ultimo « paese-modello », pubblicamente elogiato dall’amministrazione Reagan, è in pieno stato d ’allarme. Febres Cordero ha annunciato un immediato viaggio a Washington per « ridiscutere tutta la questione del debito », mentre il sucre subiva la piu forte svalutazione della sua storia recente. E non è tutto. Negli Stati Uniti, per riequilibrare il gigantesco deficit fiscale di 200 mila milioni di dollari (fonte di molti dei mali dell’economia mondiale), gia­ ce di fronte al Congresso una proposta di legge che prevede una tassazione fino a 10 dollari per tutte le importazioni petrolifere. Per Messico e Venezuela, che ven­ dono rispettivamente il 70 ed il 60 per cento della propria produzione agli Usa, sarebbe un colpo mortale. « Si tratterebbe — ha detto il ministro venezuelano al­ l’energia Ignacio Moreno — di un autentico atto di guerra economica ». Ma lo « stato d ’emergenza » si riverbera ormai su tutto il continente, anche su quei paesi che una valutazione politicamente assai superficiale, vorrebbe beneficiari, in quanto importatori, del crollo del prezzo del petrolio. Il quale crollo viene, al contrario, visto come il « volano » di un nuovo prevedibile ribasso di tutte le ma­ terie prime. Insomma, una minaccia per tutti. Ed una minaccia mortale. Si ha l’impressione che, ormai, la situazione stia entrando in una fase politicamente nuova. Nel dicembre scorso gli 11 paesi del gruppo di Cartagena si erano riuniti a Montevideo per valutare il piano Baker. Avevano, come si è detto, defi­ nito il piano « positivo ma insufficiente » ed avevano, ancora una volta, teso agli Usa ed al mondo sviluppato la mano di una possibile trattativa. Avevano chiesto una gestione separata tra vecchi e nuovi debiti, una riduzione dei tassi d ’interesse, la limitazione dei pagamenti a quote definite delle esportazioni e, soprattutto, che 11 valore di queste importazioni venisse in qualche modo garantito sul mercato in­ ternazionale. Sopra quella mano tesa, ad appena poche settimane di distanza, è piombata la mazzata del crollo petrolifero, accompagnata dai canti di vittoria di Reagan (« Abbiamo messo il ginocchio l’Opec »). Ed ora i paesi Cartagena, final­ mente davvero uniti, sembrano rapidamente avviati a prendere decisioni unilate­ rali. La « riduzione non contrattata dei tassi d'interesse » in tutti i paesi del gruppo potrebbe essere già una realtà quando queste righe verranno pubblicate. E questa volta non si tratterebbe, come fu per il Peru di Alan Garcia, del gesto isolato di un « ribelle ». Sarà il primo passo verso il « non pagamento »? Il 4 febbraio, aprendo il 3° congresso del partito comunista cubano, Fidel Castro aveva detto: « Quando abbiamo postulato la impagabilità del debito estero, ci sia­ mo basati su calcoli ed argomentazioni alle quali non hanno potuto ribattere. L’ul­ tima caduta del prezzo del petrolio, tanto brutale quanto era stata la sua salita dal 74 in poi, deve ora persuadere anche quei paesi esportatori di petrolio del nostro emisfero che un giorno avevano cullato l’illusione che un debito tanto gigantesco fosse pagabile. Siamo certi che alla convinzione che ciò è assolutamente impossibile arriveranno, prima o poi, tanto i debitori quanto i creditori. E speriamo che sia attraverso il dialogo e non attraverso catastrofiche crisi, che questi debiti ricevano il proprio certificato di morte e siano sepolti una volta per sempre. Se si pretenderà di applicare le formule inumane del Fondo monetario, nessuno potrà prevedere la grandezza delle esplosioni sociali e le conseguenze che provocheranno, senza rag­ giungere mai l’obiettivo del pagamento ». 23 Ed aveva aggiunto: « La formula proposta da Cuba è semplice, comprensibile e perfettamente applicabile: che gli stati dei paesi debitori sviluppati si facciano ca­ rico, presso le proprie banche, del debito dei paesi del Terzo mondo. E che il 12 per cento di quello che oggi si impiega in spese militari si dedichi alla ammortizza­ zione di quel debito. Non postuliamo la bancarotta del sistema finanziario interna­ zionale, né che i correntisti dei paesi capitalisti industrializzati perdano il proprio denaro, o che i contribuenti debbano pagare piu tasse... ». Queste proposte, vecchie di un anno, sono state fin qui qualificate nel mondo sviluppato, nei casi più favorevoli, come « provocazione » o « utopia ». Eppure fi­ no ad oggi i fatti, almeno nelle premesse, non ne hanno che confermato la validità e la razionalità. L’unica vera utopia — una cinica utopia — apparsa fin qui sulla scena è stata, caso mai, la convinzione che tutto potesse risolversi dentro i mecca­ nismi esistenti, con l’aggiunta dei « quattro soldi » del piano Baker. Con un paradosso si può dire che persino le banche hanno dato ragione a Ca­ stro. È accaduto quando, messe di fronte al piano Baker, hanno fatto sapere, conce­ dendo il proprio riluttante appoggio, che avrebbero gradito una « garanzia » dei singoli stati sui nuovi prestiti. Il che, sia pure tradotto in termini molto « bottegai » non è cosa molto diversa da quella proposta dal leader cubano. E davvero non fa­ rebbe male a nessuno se questa « garanzia » si estendesse, come chiede Castro, fino a disinnescare per sempre la bomba del debito, liberando contemporaneamente il mondo da un 12% dei pericoli di guerra che lo angustiano. Oggi questa è soltanto una battura. Domani — dopo l’« esplosione » — potreb­ be essere il rimpianto per una grande occasione perduta. Voci della Conferenza dell'Avana Come documentazione, pubblichiamo gli stralci di alcuni interventi pronunciati alla Conferenza dell’Avana sul debito estero. La scelta è voluta. Abbiamo tralasciato i nomi più noti, più impegnati, quelli — insomma — dei « professionisti » della politica e dell’economia, per dare spazio alle voci che rappresentano spaccati della realtà sociale più diversa. 24 Jaime Quijano Caballero rettore dell’Università Inca Colombia Parlo per il nostro settore: 8.000 studenti, 1.000 lavoratori, accademici e no, e impiegati direttivi... Il debito estero dell’America latina e dei Caraibi nel conte­ sto della crisi internazionale, il Nuovo ordine economico internazionale e la sua urgenza, sono temi che preoccupano il mondo da ormai dieci anni, in modo sempre piu concreto e acuto... Secondo noi, la concezione di « debito estero non pagabile » ha un nuovo contenuto di classe, che affronta il nocciolo dello scontro con l’essenza delle contraddizioni deH’imperialismo nella sua fase finanziaria transnazionale... Nell’affrontare questo tema complesso, bisogna tener presenti — penso — diversi livelli d ’azione politica, visto che tutti abbiamo detto che questo è un problema politico e non soltanto e semplicemente un problema tecnico. E, nell'azio­ ne politica, pensiamo si inserisca il livello dell’azione politica di massa. Poi c’è un altro livello, da differenziare: quello dell’azione politico-scientifica; e, infine, esiste il livello dell’azione dei governi, dei parlamenti, della dipomazia. ...Riteniamo che il tema qui in discussione, rispetto all’azione politica di massa, esiga il mantener ferma la convinzione che il debito è impagabile, anche perché su questo si sono trovati d ’accordo tutti gli organismi sindacali qui riuniti. Sulla « impagabilità » del debito non abbiamo dubbi; su come lo si debba cancellare si può, invece, discutere e le strade per farlo sono rimaste aperte: annullamento, moratoria, sospensione immediata dei pagamenti, rinvio indefinito. Ma voglio sottolineare che, nell’essenza del problema, vi è una motivazione determinata dalla lotta di classe tra sistemi, nucleo centrale delle contraddizioni fondamentali della lotta tra capi­ talismo e socialismo. Chiedo che si precisino le linee di lavoro concrete, per i prossimi mesi. A noi, nelle università, interessa contribuire a preparare le basi di una motivazione delle condizioni soggettive che — come diceva il comandante Fidel Castro — ancora non sono emerse. Riteniamo che quanto qui si è fatto con la stampa, con le orga­ nizzazioni delle donne, con le organizzazioni sindacali e in questa conferenza, con­ sentano di stabilire il criterio dell’unità. Tenendo però conto che, nei passi che si faranno e nei processi che si svolgeranno, l’unità dovrà essere costruita fondamen­ talmente per coloro che sono piu colpiti dalle condizioni del debito estero impaga­ bile: i nostri popoli. È stato qui dimostrato fino alla sazietà quale situazione i popoli abbiano dovuto subire, in questo processo. Si è dimostrato che qualsiasi situazione di sviluppo, di attività, di soluzione di problemi globali contemporanei gira, e girerà, intorno al debito estero impagabile. Secondo me, l’idea di una azione dei popoli è incentrata sul fatto che questa nuova forza, questa teoria qui enunciata, venga utilizzata nel modo più completo per proporre azioni di base dei popoli, azioni di massa, e far si che esse — indipen­ dentemente dalle azioni di governo e da quanto si possa fare a livello di negoziati — diano tutto l’impulso possibile alla decisione qui esposta brillantemente da altri oratori: il debito estero è impagabile perché rappresenta per i nostri popoli la sog­ gezione, la dipendenza. Questa battaglia strategica per l’indipendenza dei nostri popoli è il grande compito dei nostri tempi: ha il suo sbocco nel Nuovo ordine eco25 nomico internazionale che si sta delincando e si collega alla nuova categoria della lotta di classe tra sistemi, tenendo conto che il nemico non è tanto forte come sembra. Patricio Hales dirigente del Movimento democratico popolare Cile ...Il debito non è un’astrazione numerica, né una frase, non è neppure difficile da esemplificare: 360 mila milioni. Che cosa potrebbe fare, l’America latina, in­ vestendo questi 360 mila milioni, piu gli interessi che su di essi si devono pagare? ... C’è chi, nonostante le difficoltà in cui viviamo, è capace di destinare risorse prodotte dai nostri popoli al pagamento del debito in condizioni di strozzinaggio, ma, naturalmente non trova — o non vuole trovare — le risorse necessarie per mettere fine a una situazione che vede, nel nostro continente, 100 milioni di anal­ fabeti. C’è chi trova risorse per pagare, ma non un modo intelligente o ingegnoso per dar lavoro a quei 50 milioni di persone che lo hanno perduto. C’è chi ha un atteggiamento disponibile, generoso, supino e può accettare in ginocchio tutte le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale, e, tutta­ via, ci costringe a fare l’impossibile per spiegare domani ai nostri figli, alle gene­ razioni future, che abbiamo accettato questa condizione, complici di una barba­ rie tale che fa si che in America latina muoia un bambino al minuto. Dalle cifre dell’indebitamento, e non parlo degli interessi, si potrebbe pen­ sare che, per esempio, in un piccolo paese come il nostro si sia verificato un gros­ so miglioramento del tenore di vita, per il popolo. Il debito del Cile è di 20 o 23 mila milioni di dollari, e vogliono che il popolo lo paghi. Ora, si potrebbe pen­ sare che con questa somma ci sia piu possibilità di lavoro, ma risulta che, mentre il debito si è moltiplicato per sei, i disoccupati si sono moltiplicati per nove. Si potrebbe pensare che, grazie a questi soldi, i cileni oggi abbiano piu case, ma la mancanza di case in Cile è raddoppiata. Si potrebbe pensare che l’Univer­ sità, quasi gratuita ai tempi dei presidenti Frei e Allende, possa essere in grado di offrire agli studenti altri vantaggi, e risulta che oggi gli universitari cileni deb­ bono pagare dalle 50 alle 100 volte di piu che ai tempi di Allende, per poter stu­ diare. Si potrebbe pensare che con i 20 o i 23 mila milioni di dollari ricevuti dal governo cileno, dai banchieri cileni, ci sia maggior speranza per la gioventù, e ri­ sulta che oggi — secondo i dati della Chiesa cattolica — il 30 per cento dei gio­ vani dei settori popolari sono tossicodipendenti. Si potrebbe pensare che con quei soldi l’alimentazione della gente sia migliorata, e risulta che nella periferia di San­ tiago funzionano quelle che noi chiamiamo « pentole comuni ». E, mentre il de bito è di 20-23 mila milioni di dollari, padre Dubois, alla poblacion La Victoria, alla periferia della capitale, dispone di 18 centesimi di dollaro a persona, per dar da mangiare a quei 600 cileni che ogni giorno ricorrono alla pentola comune. 26 Il non pagamento del debito è quindi fondamentale, ma è anche una cosa ovvia. Esso deve essere seguito da cambiamenti profondi, tali da risolvere defi­ nitivamente la dipendenza, tali da creare e produrre uno sviluppo reale. Lucélia Santos attrice Brasile Sono qui come cittadina brasiliana e anche — il che mi onora molto — in qualità di attrice, di artista che lavora nel campo della cultura. ... Storicamente, gli artisti sono sempre stati, in modo piu o meno diretto, in rapporto con le strutture del potere politico, ma in una posizione particolare, che penso debba essere modificata. Gli artisti sono sempre stati considerati, in un certo senso, come buffoni di corte: e, forse, qualche volta, questa è proprio una caratteristica della professione. Parlo soprattutto degli artisti popolari. Succede che, per le diverse maschere che siamo abituati a usare nella nostra professione, la gente finisce con il non conoscere la nostra vera identità: ci considera animali dalle sette teste, e probabilmnete lo siamo, solo che una di queste teste è la no­ stra vera identità. Cosi si ingenera confusione e molte volte ci trattano come non fossimo capaci di pensare... Vorrei parlare in breve di ciò che penso sul debito estero brasiliano. È sem­ plicissimo: il popolo brasiliano non ha nulla a che spartire con questo. Ci sono stati vent’anni di un regime arbitrario, cui il popolo non ha mai partecipato, in cui è stato allontanato completamente dal processo politico. I governanti ci sono stati imposti e, mentre ammazzavano, torturavano, reprimevano (in nulla diversi dal re­ sto dei governanti dell’America latina), facevano debiti in nostro nome, in nome del popolo brasiliano che non ha mai avuto accesso alle decisioni governative. A checosa sono serviti questi debiti? Alcuni esempi: hanno speso i soldi per la costruzione, in Brasile, di alcune fabbriche nucleari, con manodopera total­ mente straniera, che sono costate 40 mila milioni di dollari e finora non hanno prodotto neppure un watt; hanno investito a piu non posso nell’industria bellica, trasformando il Brasile in un forte produttore di armi per vari paesi dell’America latina e giocando cosi contro la pace nel nostro continente. L’hanno poi fatta finita con la nostra amata foresta amazzonica, con un progetto di autostrada che porta dal nulla al nulla, commettendo cosi un grave attentato all’ecologia di uno dei maggiori — se non il maggiore — polmoni del mondo, con gravi danni per l’ecosistema e conseguenze che si vedranno in futuro. E sono soltanto alcuni esempi. Ora, dopo 21 anni, il nostro debito è di 105 mila milioni di dollari, senza contare gli interessi, ed è uno dei piu alti — se non il piu alto — dell’America latina. Loro, sono riusciti a passare indenni attraverso il momento della patata bollente, senza bruciarsi le mani né dover consegnare gli anelli. Adesso vengono a riscuotere, vengono a riscuotere dal popolo brasiliano che in questi 21 anni non ha mai potuto dire la sua su nessun aspetto della vita nazionale; vengono a riscuotere dai poveri,dai miserabili, sempre piu numerosi nel mio paese. Allora, ciò che io ho da dire ai sociimperialisti dei militari che sono stati al potere per 27 tutti questi anni, è che il popolo brasiliano non solo non deve loro nulla, ma è creditore di un debito morale che loro hanno con noi. E creditore di un giusto in­ dennizzo per i tanti anni di angherie, di ingiustizia sociale, di assoggettamento del­ la nostra sovranità e della nostra dignità. Bianca Chancoso dirigente indigena Ecuador ...Come tutti sapete, qui, in America latina, e nel mondo, noi indigeni siamo milioni e milioni e purtroppo non li ho potuti incontrare in questa sala. Ma, anche se questi milioni di indigeni non mi hanno delegato, come india e come rappre­ sentante del popolo indigeno dell’Ecuador, voglio esprimere la posizione del po­ polo indio nei confronti del debito estero. Siamo sempre stati considerati — come si usa dire — l’ultima ruota del car­ ro, e cosi noi indigeni siamo sempre stati quelli che hanno dovuto sopportare i colpi piu duri in tutte le pressioni che sta facendo quel mostro che è il Fondo monetario internazionale, l’imperialismo. Quando vennero gli spagnoli, li portò il vento, vennero per sbaglio, vennero per acqua; e non contenti di averci già preso il nostro territorio, le nostre terre, continuano a depredarci, a invaderci e hanno sempre voluto disconoscere l’esi­ stenza del nostro popolo indigeno. E molti dei nostri governi si sono prestati a sterminare il nostro popolo indigeno, le culture indigene. Cosi ci hanno voluto sterminare a poco a poco con i piani e i programmi co­ siddetti di integrazione, di civilizzazione, che non han fatto altro che continuare ad aprire le porte e a consegnare — sotto le pressioni del Fondo monetario inter­ nazionale — i pochi pezzi di terra che ancora restavano a noi, popolo indio. Per questo vogliamo esprimere la nostra posizione, perché davvero noi indi­ geni, nelle nostre assemblee e nei nostri congressi, abbiamo rifiutato il pagamento di questo debito estero. Perché se è vero che i nostri governi hanno firmato con molta facilità gli accordi e li hanno propagandati come destinati « allo svilup­ po, a beneficio delle comunità », è vero che quando andiamo a vedere nelle co­ munità, in realtà non abbiamo ricevuto un sucre di questo debito, né dei debiti privati né di quelli statali. Perché nelle nostre comunità non si vede un ospedale, non si vede una buona scuola, non ci sono mezzi di comunicazione, né strade che possano aiutare la comunità, non si vede nessun sviluppo. Per questo abbiamo negato e rifiutato il pagamento; e diciamo: lo paghino quelli che hanno rice­ vuto, e noi non abbiamo niente da pagare. Così, anche se il rappresentante del governo del nostro paese ha detto d ’essere d ’accordo con il pagamento del debito, noi, come popolo, che sta soffrendo nella propria carne, diciamo: no al pagamento del debito estero. Per loro è facile dire sì al pagamento. Facile, fare un decreto di austerità, un decreto o una legge che dice « un pacchetto di misure economiche per l’aumento della benzina e adesso aumentano i prodotti ». È chiaro: l’austerità significa che noi dobbiamo stringere ogni giorno di piu la nostra cintura e smettere di mangiare. Questo è un decreto 28 dissimulato di genocidio di massa che vogliono lentamente applicare al nostro popolo. Per questo la nostra organizzazione, il nostro popolo dicono che si faccia un nuovo ordinamento su questa storia del debito esterno, ma in cui non ci si con­ dizioni, in cui non siamo piu sottoposti alle pressioni e agli abusi del Fondo mo­ netario internazionale... Oggi, insieme al rifiuto del pagamento del debito estero, vorrei chiedere anche un altro pronunciamento di rifiuto, visto che molti governi festeggiano i 500 anni della conquista che hanno fatto del nostro popolo; ma per il nostro popolo non c’è stata ancora nessuna vittoria. Per questo abbiamo rifiutato anche il 19 di aprile, che è stato dichiarato il giorno dell’indio, perché abbiamo detto che il giorno dell’indio noi non lo abbiamo ancora visto. Arriverà. E anche per questo siamo decisi a lottare con fermezza, e anche se questo nostro governo dicesse che pagherà, noi, come popolo indigeno, insieme a tutti i settori dei lavoratori, e con tutti gli sfruttati, siamo disposti a mobilitarci e a esigere che non si paghi. E anche se il governo continuerà a pronunciarsi per il si, il popolo dirà sempre no. Alberto Pons industriale Panama Devo dire chiaramente chi sono e in nome di che cosa parlo. Sono un indu­ striale del settore privato panamense, cioè un capitalista. Per evitare equivoci, vo­ glio premettere che non parlo in nome né in rappresentanza di nessuno dei di­ versi organismi imprenditoriali di cui, nel mio paese, faccio parte. Parlo a titolo personale e certo, come industriale, ho un’identità, un’esperienza e un punto di vista ben definiti. Le cifre sulla crisi e il debito estero dell’America latina sono spaventose. Sa­ rebbe ingenuo pensare che il fenomeno non ci colpisca tutti e non ci costringa tutti a riflettere: industriali compresi. Il debito, quindi, è anche una nostra pro­ fonda preoccupazione, forse anche per ciò che una volta ha detto Omar Torrijos, e cioè che « i commercianti si preoccupano sul serio quando si attenua il suono dei registratori di cassa ». Oggi, comunque, nel nostro paese, i gruppi imprendi­ toriali e le organizzazioni dei lavoratori sono d ’accordo nel rifiutare le imposta­ zioni del Fondo monetario internazionale e le pretese degli aggiotatori. È difficile trovare una soluzione al debito; dobbiamo però affrontare i cre­ ditori con molto coraggio, perché gli aggiotisti sono loro e, come tali, non si con­ sentiranno nessuna debolezza nella difesa dei loro interessi... Chiunque abbia visitato il nostro paese negli anni Sessanta e ci ritorni ora, può rendersi conto che ogni centesimo investito nel nostro debito è stato distri­ buito tra tutti gli strati della società panamense. Il paese si è indebitato perché cosi esigeva il finanziamento del suo sviluppo: e i diversi settori sociali e le diverse aree ne hanno tratto tutti beneficio. Noi impresari ne abbiamo ricavato una parte significativa. Migliaia di panamensi si sono inseriti nel mercato nazio­ nale, persone che prima neppure esistevano nelle statistiche del consumo. Le no29 stre vendite e i nostri profitti sono aumentati sostanzialmente. Se ne vedono gli effetti a città di Panama, dove sorgono straordinari edifici creati dalle banche e dai centri commerciali. Contemporaneamente, siamo debitori di una gran somma di denaro, è vero. Ma è anche vero che, se facciamo un bilancio della situazione, o meglio un inven­ tario del nostro attivo, vediamo che non soltanto non dovremmo pagare, ma anche che dovremmo ottenere più denaro, come succede in ogni affare che, nella sua fase di sviluppo, ha bisogno di investimenti in capitale fresco. Al contrario, come tutti gli industriali sanno, trattenendone la crescita si condanna l’impresa a rallentare lo sviluppo, o se ne affretta la scomparsa. Mi chiedo, allora: che cosa vogliono gli aggiotisti? Credo che, nell’ansia di spremerci, non abbiano analizzato adeguatamente le conseguenze: in questo caso, si identificherebbero con la scomparsa fisica dell’America latina, che è la nostra grande impresa comune. L’America latina sarebbe ridotta in peggior stato di quanto non lo fossero l’Europa e il Giappone dopo la seconda guerra mondiale. E, in effetti, oggi sta peggio che se ci trovassimo sotto il fuoco di una guerra. Pertanto, l’unica via d ’uscita è dare al problema del servizio e del pagamento del debito una soluzione consona ai nostri comuni interessi, tale da non frenare né indebolire lo sviluppo delle aziende nazionali. Bisogna, quindi, procedere a strutturare un Nuovo Ordine Economico Internazionale. È indispensabile per so­ luzioni a breve, medio e lungo termine, per i nostri popoli, per il futuro dei nostri figli e nipoti, per le generazioni future, cui oggi non stiamo offrendo soluzioni adeguate. Ciò che stiamo vivendo mi ricorda un fatto. Ero a pranzo con un banchiere panamente e parlavamo del debito. « Alberto », mi ha detto, « prima di tutto non possiamo esportare ciò che non abbiamo, cioè capitali — ; in secondo luogo, credo sarebbe immorale che se tu mi dovessi 500 balboa e ne avessi soltanto 100 — che costituiscono appena il latte e un pezzo di pane per la tua famiglia — me li dessi in acconto. Se lo facessi, saresti un criminale! ». Per fermare un simile crimine, i nostri popoli devono organizzare lo sciopero dei paesi debitori, sciopero che abbiamo il diritto di fare. Finisco, aderendo senza riserve né timori alla proposta del dottor Fidel Castro. Rafael Tudela deputato e industriale Venezuela ...Non vi è dubbio sul diritto sovrano che abbiamo di discutere il problema, né sull’urgente necessità di cercare soluzioni nuove e diverse alla questione del debito estero dei paesi a minor sviluppo. Il volume del debito e il livello dei tassi di interesse fanno si che il debito stesso sia impagabile. Se la recessione economica continua, alcuni paesi debitori potrebbero non essere più in grado di pagare e co­ stretti a sospendere i pagamenti. Per questo la soluzione non può essere econo­ mica, ma deve essere politica. ...Nel caso dell’America latina, nei dieci paesi più importanti il solo servizio del debito — il pagamento degli interessi nella prima metà del 1985 — rappre30 senta circa il 36 per cento del valore totale delle esportazioni. Per l’Argentina, il caso più grave, tocca il 50 per cento; per il Venezuela, che è il caso più fortunato, il 19. La rinegoziazione del debito venezuelano — ormai quasi conclusa — è del tutto giustificata: infatti, nella sua struttura attuale è del tutto, o in buona parte, a breve scadenza ed è indispensabile, invece, trasformarlo in debito a lunga sca­ denza. Inoltre, il rifinanziamento migliora sostanzialmente i tassi di interesse e le condizioni di pagamento ed è stato ottenuto senza accordi di nessun genere con il Fondo monetario internazionale. Ma la posizione privilegiata del Venezuela — in virtù di un debito pari a sol­ tanto 22 mesi delle sue esportazioni — non è certo quella dell’America latina e dei Caraibi, cui va tutta la solidarietà del nostro paese. ...La situazione si complica ancor più perché il sistema bancario internazio­ nale — o, per lo meno, alcuni dei suoi più importanti componenti — si trovano mch’essi in condizioni di debolezza, di fronte alla possibilità di un ripudio del debito. Per questo, la capacità di prestiti addizionali è ridotta e dipende dalla volontà di pagare dei paesi debitori — questa è la nostra forza — che, a sua volta, dipende dalla possibilità di accedere a nuovi prestiti. Un problema molto più serio è che, per il servizio del debito, si è prodotto un sistema di trasferimento di ricchezza dal mondo in sviluppo al mondo sviluppato, che va contro le prospettive di sviluppo armonico mondiale. In questo processo, l’anno scorso i paesi latinoamericani hanno rimesso al mondo in sviluppo ben 50 bilioni di dollari. Pertanto, bisogna che venga accettata l’idea che, per po­ ter pagare gli interessi, i paesi debitori devono ricavare sufficienti guadagni dalle loro esportazioni. In secondo luogo, banche creditrici e paesi debitori, devono ac­ cordarsi perché il volume globale del debito esistente venga rifinanziato e possi­ bilmente mantenuto allo stesso livello. Infine, ci deve essere la possibilità certa di ottenere nuovi prestiti per finanziare la crescita e migliorare il tenore di vita della popolazione. Perché ciò sia possibile, sono indispensabili alcune condizioni: in primo luogo, che i tassi di interesse internazionali siano tali da consentire la crescita delle espor­ tazioni dei paesi debitori, e che da queste esportazioni si possano ricavare le di­ vise necessarie per pagarli. Un’alternativa potrebbe essere un limite massimo dei tassi che si pagano sui prestiti. ...In secondo luogo, è indispensabile che i prodotti manufatti dei paesi debi­ tori abbiano accesso ai mercati dei paesi industrializzati con un trattamento pre­ ferenziale. Ne deriverebbe che i paesi debitori cancellerebbero i loro debiti con prodotti delle loro economie in sviluppo, il che — a sua volta — genererebbe oc­ cupazione e migliorerebbe le condizioni di vita della gente. Il limite massimo dei tassi di interessi variabili dovrebbe essere controllato da un meccanismo di supporto della Banca Mondiale o di un altro organismo finan­ ziario internazionale, in cui intervengano in modo determinante i paesi sviluppati. Esso dovrebbe pagare le differenze alle banche e rifinanziarne l’ammontare ai paesi debitori, a lungo termine e bassi interessi. Come è chiaro, le formule che proponiamo tendono a cercare soluzioni stru­ mentali per affrontare il problema immediato, ovvero a breve termine. Rimarrebbe comunque, il problema strutturale a più lunga scadenza, che non si può risolvere se non applicando misure di due tipi: un significativo progresso del processo di in­ tegrazione latinoamericano per presentare un fronte comune, e creare le condizio­ ni propizie ad accordi con il mondo industrializzato che gettino le basi di termini di intercambio giusti e mettano fine al trasferimento di ricchezze verso i paesi sviluppati. Senza un intercambio equo tra uguali, le soluzioni di transizione e a oreve scadenza — o addirittura il ripudio del debito estero — non ci consentireb31 bero di risolvere i nostri problemi, né di avviare uno sviluppo economico e so­ ciale con una equa distribuzione del reddito. Pertanto, il vero sbocco sta nell’in­ tegrazione latinoamericana per costruire, come ha detto Bolivar, una sola società: « L’America, cosi unita, potrà essere la regina delle nazioni e la madre delle re­ pubbliche ». Gregorio Iriate sacerdote Bolivia Avevo pronto il mio sermoncino, ma mi limiterò a leggere la dichiarazione con­ giunta dei 50 rappresentanti della Bolivia. Penso che questa riunione abbia già ottenuto un effetto unitario, perché ha fatto il piccolo miracolo di unirci tutti in un documento generale, pur essendo noi rappresentanti di diversi partiti e diverse tendenze. Ecco la dichiarazione: 1. — La maggior parte del debito estero della Bolivia c stata contratta da dit­ tature militari, violando i dettami costituzionali e a scapito delle condizioni di vita della grande maggioranza del popolo. 2. — Le risorse provenienti dal debito sono state, in altissima percentuale, illegittimamente portate fuori dal paese, trasformando cosi la nostra patria in uno dei maggiori esportatori di capitale, in rapporto al suo prodotto interno lordo. 3. — Il popolo organizzato continuerà a lottare perché il servizio del debito non peggiori ancor più le condizioni di vita, che si traducono in altissimi tassi di mortalità infantile, denutrizione dei bambni e bassa speranza di vita. 4. — Per le sue enormi ripercussioni, il problema del debito estero è, oltre che economico-finanziario, un gravissimo problema politico, sociale e internazionale che pregiudica seriamente le nostre istituzioni democratiche. 5. — Le azioni raccomandate, suggerite o imposte dai diversi organismi in­ ternazionali impoveriscono ancor più il popolo boliviano e determinano la reces­ sione e l’iperinflazione nel paese. 6. — È indilazionabile promuovere un Nuovo Ordine Economico Internazio­ nale che garantisca, con equità e giustizia, la stabilità, e consenta alla regione di trarre profitto dal suo potenziale di sviluppo autonomo e qualitativamente diffe­ renziato. 7. — Convinti che sia una necessità nazionale ratificare e mantenere la deci­ sione del popolo boliviano di sospendere il pagamento del debito alla banca pri­ vata internazionale, ci impegnamo a difendere quella decisione e a partecipare al grande movimento che, in questo senso, sta nascendo in America latina e nei Caraibi. 8. — Nella attuale situazione di sviluppo e nel contesto dei rapporti econo­ mici internazionali, il debito estero della Bolivia è assolutamente impagabile. Firmano questa dichiarazione delegati delle forze politiche, parlamentari, sin­ dacali, delle organizzazioni religiose, degli impresari, dei militari, dei professio­ nisti, degli universitari e dei giornalisti. 32 Elio Garcia Generale di brigata, presidente dell’Istituto interamericano di Diritto militare e della guerra Venezuela ... Forse per la mia formazione militare, giuridica e giudiziaria, voglio fare da avvocato del diavolo e, pertanto, qualche puntualizzazione. Abbiamo sentito qui molte dichiarazioni sul debito estero, a volte lamentose, anche da parte di persone che esercitano o hanno esercitato funzioni di potere. E mi domando: chi ci ha prestato i quattrini ci ha forse puntato un’arma alla testa per farceli accettare? Oltre agli elementi strutturali e alle condizioni dell’intercambio, non può aver in­ ciso su questa situazione l’irresponsabilità, l’antipatriottismo, la faciloneria e l’in­ contenibile desiderio di lucro dei traditori di turno, militari o civili, che, dalle loro posizioni di governo, hanno macchinato e ingannato per ottenere denaro straniero a qualsiasi condizione pur di soddisfare i loro appetiti? Credo che di risposte ed esempi ce ne siano in abbondanza, soprattutto quello di un paese che si trova al limite sud del Mar dei Caraibi. Li, paradossalmente, mentre si riempivano le casse del tesoro con una immensa quantità di denaro ri­ cavato dalla vendita di materie prime, e mentre era chiaro che il complesso eco­ nomico non poteva digerire questa massa monetaria perché si sarebbe scatenata una gigantesca spirale inflazionista, si stavano negoziando e ottenendo prestiti dai centri finanziari internazionali. È la triste verità e non possiamo nasconderla. E mi chiedo anche in nome di quale diritto trascendente e universale i traditori di turno, all’insaputa del popolo, abbiamo caricato sulle nostre spalle e su quelle dei figli dei nostri figli questo incredibile e insostenibile peso del debito. Credo che dovranno risponderne, almeno davanti alla storia. Ma ora non è il momento di piangere, di lamentarsi, o di lanciare accuse. È il momento di agire, di riscattare il decoro e la dignità latinoamericana e carai­ bica. Per questo, scavalcando ostacoli e distruggendo miti, sono presente all’in­ contro che il comandante in capo e presidente della sorella repubblica di Cuba ha voluto convocare... Di fronte a questa tragedia, a questa crisi, si comincia già a ribellare lo spirito unitario dei nostri paesi e l’orgoglio indomabile dell’America latina e dei Caraibi. Già si comincia a sentire la forte voce dei popoli che, nonostante la mediocrità dei leader e dei governanti, cominciano a prendere coscienza e a unire volontà e azioni per affrontare le forze che li soggiogano e li condannano alla miseria e all’infe­ licità. ...È necessario stabilire piani e delineare strategie. È necessario far prendere coscienza ai nostri popoli fino al livello piu basso. E, in questa situazione, non possiamo dimenticare che nei nostri paesi nessun cambiamento sociale, nessuna azione nazionalista può consolidarsi senza la partecipazione attiva e militante della Chiesa e delle Forze armate. Perché esse sono il popolo in armi, perché dal popolo provengono e al popolo devono render conto e consacrare tutti gli sforzi. La mis­ sione di libertà richiede la nostra partecipazione attiva e decisiva per aiutare il cambiamento sociale. Le Forze armate sono il sostegno e la garanzia delle conqui­ ste democratiche compiute dal popolo con lotte e sacrifici; ma sono anche fattore essenziale di trasformazione quando le necessità e le aspirazioni del popolo lo ri­ chiedono. 33 Gli inviati di Montezuma descrivono le armi dei conquistadores 34 Nicaragua: per la pace e il non intervento La Conferenza dei partiti politici dell’America latina e dei Caraibi sul non intervento e la pace nel Centroamerica, è stata il tentativo di riunire, per la prima volta, i rappresentanti di un ampio arco di forze sul tema scottante della sicurezza: del Nicaragua, in primo luogo, assediato dalla guerra contro­ rivoluzionaria pilotata dall’Amministrazione Reagan, ma anche degli altri paesi del continente. Invitati, quasi tutti i rappresentanti dei partiti al governo nel Centroame­ rica, e tra essi il Partito rivoluzionario democratico di Panama (Prd); il Partito di liberazione nazionale del Costa Rica; il Partito Democratico cristiano del Guatemala. Invitati i movimenti di liberazione che hanno ottenuto un ricono­ scimento formale nei loro paesi e che hanno intrapreso, con i loro governi, un « dialogo » per la pacificazione: come il Fmln del Salvador e le Fare della Colombia. Invitati, anche, osservatori stranieri, come l’Internazionale socialista, in Nicaragua ai primi di febbraio con una missione diretta dal venezuelano Carlos Pérez, l’Internazionale liberale e l’Internazionale democratica cristiana. Un successo di partecipazione che si riassume nei dati: 170 delegati in rappresentanza di 115 partiti e organizzazioni politiche latinoamericane, sette dei quali al governo nel loro paese. 42 segretari generali. 10 presidenti di partito. 41 membri di direzioni nazionali. 17 addetti ai rapporti internazionali. E, so­ prattutto, la possibilità di discutere della crisi del Centroamerica, nonostante le differenze di linea politica, la diversità delle situazioni in cui ciascun partito, nel suo paese, si trova. Ha inaugurato la Conferenza, alle sei del pomeriggio del 10 febbraio, il portoricano Ruben Berrios, seguito dal rappresentante di Haiti, Gerarde Pierre Charles. Poi, via via, nei due giorni dell’incontro, si sono succeduti sul podio 35 tutti gli altri: da Luis Negreiros, segretario generale dell’Apra, inviato spe­ ciale del presidente peruviano Alan Garcia, ad Adelso Gonzales Urdonete, se­ gretario generale del Movimento elettorale del popolo venezuelano, a Pablo Gomez, del Partito socialista unificato del Messico, al vice presidente della Camera dei deputati argentina, Antonio Caffiero, rappresentante del Partito giustizialista rin­ novatore, capo di una delegazione foltissima cui partecipavano membri di tutti i partiti argentini. La conferenza, incentrata ovviamente sulle difficoltà della rivoluzione nica­ raguense, perno oggi della pace nel Centroamerica, ha ribadito la necessità di un appoggio totale all’opera del gruppo di Contadora, la cui azione viene li­ mitata dalla politica della Casa Bianca. E ha concluso con due suggerimenti: creare meccanismi per combattere la manipolazione delle informazioni regolar­ mente effettuata dalle « multinazionali della notizia » e creare un comitato di lotta per la pace e il non intervento nel Centroamerica, formato da intel­ lettuali, sacerdoti, artisti, scienziati « che rappresentino degnamente le aspirazioni delle maggioranze latinoamericane », per dar vita ad attività culturali, di infor­ mazione e di solidarietà con il Centroamerica. ★ * * Discorso d'apertura di Daniel Ortega L’esito di questo incontro dei rappresentanti di partiti e movimenti politici dell’America latina e del Caribe ha una speciale importanza dato il momento che vive questa parte del mondo: stiamo respirando aria di libertà, aria di speranza, ma ci sono popoli ancora oppressi, ancora sottomessi. Stiamo avan­ zando, è vero, però siamo di fronte a pressioni, ad aggressioni, alla politica ricattatoria del governo degli Stati Uniti. L’America latina di oggi, è evidente, non è quella degli anni ’60. Allora fu possibile isolare Cuba, proliferavano le dittature militari, i Somoza, i Duvalier, gli Usa tenevano sottoposti i governi latinoamericani e del Caribe alla loro politica interventista, di forza, di dominio. Per questo fu abbastanza facile isolare l’eroica Cuba, trascinare nel blocco di essa i governi latinoamericani; ma i loro popoli non hanno mai accettato questo blocco e Cuba ha avuto da sempre la loro solidarietà. La situazione è cambiata Questi di oggi sono altri tempi. La situazione è cambiata ed è stata la forza, la volontà e la decisione dei popoli che ha cambiato la situazione. La lotta dei militanti delle forze politiche, rivoluzionarie, democratiche, progressi­ ste; la lotta dei sindacalisti, degli operai, dei contadini; la lotta degli studenti, delle donne, dei combattenti armati, rivoluzionari; tutto questo insieme di forze, questa somma di volontà ha aperto uno spazio democratico in America latina. Anche in Nicaragua ci siamo creati questo spazio grazie alla decisione e la volontà del popolo nicaraguense. Qui si è percorso un altro cammino, l’unico che ci lasciava la dittatura somozista e la dominazione imperialista, e il popolo nicaraguense fece uso del diritto all’insurrezione, dello stesso diritto di cui hanno fatto uso i popoli dell’America latina per conquistare la propria indipendenza, per liberarsi dal giogo coloniale. Lo stesso diritto di cui fecero uso 36 anche i nordamericani per liberarsi dal giogo inglese, questo diritto che è sempre presente come una opzione per i popoli a cui non si lascia altra via se non ricorrere al diritto all’insurrezione. Per questa via si è liberato il popolo nica­ raguense e da allora siamo venuti costruendo qui, in Nicaragua, una democrazia vera, autentica, non la democrazia che vorrebbero i governanti nordamericani, ma la democrazia che vuole il nostro popolo, una democrazia che affonda le radici nella nostra storia, una democrazia che si richiama alla combattività e alla storia dell’America latina; una democrazia che si afferma nei principi del non-allineamento, del pluralismo politico e dell’economia mista; una democrazia che ha la sua impronta: una democrazia pluralista, ad economia mista, ma per favorire la grande maggioranza, al servizio degli operai, dei contadini e non per il loro sfruttamento; una democrazia che dà la terra -ai contadini; una de­ mocrazia perché il popolo impari a leggere e a scrivere, perché abbia assistenza sanitaria, sviluppo culturale; una democrazia perché tutti possano accedere ai mezzi di comunicazione. È questa la democrazia che stiamo costruendo. E c’è chi vuol suggerirci, chi vuol consigliare ai nicaraguensi quale de­ mocrazia si deve stabilire nel nostro paese. C’è chi lo fa attraverso messaggi amichevoli cercando di subordinare la cooperazione economica al tipo di demo­ crazia che essi vogliono per il Nicaragua e dicono che se in Nicaragua non ci sarà una democrazia con certe caratteristiche, allora non le daranno aiuti. Abbiamo difeso e continuiamo a difendere questa democrazia, anche quando non abbiamo la collaborazione economica di quei governi che non sono d ’accordo con questa democrazia. Ce ne sono altri ben noti, come i governanti nordamericani che, ripetendo gli errori passati, vogliono imporre di nuovo il loro modello di democrazia al Nicaragua e per raggiungere questo obiettivo muovono guerra al Nicaragua, e al Congresso discutono tranquillamente sul modo migliore di modificare il tipo di democrazia che abbiamo adottato. C’è chi dice che bisogna farlo con la forza, utilizzando, s’intende, le stesse truppe nordamericane. Altri dicono al Congresso che questa forma non è la più conveniente, che bisogna cercare altre forme di pressione, ma c’è una coincidenza nel c'òmportamento imperialista degli Stati Uniti: essi vogliono decidere sul futuro della Rivoluzione popolare sandinista. Le tesi di Reagan Si sono imposte in questi anni le tesi dei consiglieri del presidente Reagan, quelle che avallano la politica terrorista contro il Nicaragua, che sono d ’accordo con l’uso della forza; queste le tesi che si sono imposte e hanno reso complice tutto il Congresso in questa azione terrorista contro il Nicaragua. Quando a metà dell’anno scorso il Congresso degli Stati Uniti ha appro­ vato i 27 milioni di dollari per le forze mercenarie, non era tanto significativa la quantità quanto la decisione politica: il fatto che Reagan voleva rendere com­ plice della sua politica terrorista tutto il Congresso. Venne poi l’escalation fino alla fornitura alle forze mercenarie di missili terra-aria. Per la prima volta nella storia in tutte le Americhe forze irregolari hanno in dotazione questo tipo di armamenti. Forze irregolari sono esistite in Canada, negli stessi Stati Uniti, in tutti i paesi latinoamericani, ma i missili terra-aria che gli Usa hanno dato ai mercenari di stanza nel territorio honduregno è un armamento che non è stato dato nemmeno all’esercito dell'Honduras, mentre è stato dato a questo « sesto esercito » organizzato in Centroamerica dal governo nordamericano. 37 E allora il discorso va ben al di là di parole e azioni. Nell’escalation in­ terventista contro il Nicaragua si richiedono al Congresso aiuti militari non mascherati da « aiuti umanitari », ma per quello che realmente sono: più armi alle forze mercenarie. Gli Usa praticano il terrorismo internazionale Gli Stati Uniti, che si ereggono a campioni nella lotta contra il terrorismo in­ ternazionale, lo praticano essi stessi, lo proteggono in varie regioni della terra e lo sono venuti promuovendo qui, giorno dopo giorno in Nicaragua, assassi­ nando il popolo nicaraguense. Sono già più di 12 mila i morti provocati dall’azione terrorista nordamericana contro il popolo del Nicaragua. I paladini della libertà del presidente Reagan assassinano bambini, donne, contadini, distruggono coope­ rative, centri sanitari, scuole. Non è forse questo terrorismo? Rifiutando la Corte Internazionale di Giustizia, sfuggendo come un delin­ quente la giustizia internazionale, il governo degli Usa cerca di promuovere le condizioni per poter invadere il nostro paese. E il Nicaragua, difendendosi, difendendo la sua Rivoluzione, la democrazia che sta costruendo, difendendo la pace, difendendola con le armi in mano al popolo — e qui sono i contadini, gli operai, gli studenti che combattono questa battaglia disuguale — difendono la sua sovranità, l’autodeterminazione del paese. Difendiamo la pace Il Nicaragua difende la pace negli organismi internazionali avanzando pro­ poste concrete di pace. Sono molte e note le iniziative del Nicaragua in favore della pace ed è anche conosciuta la posizione degli Usa di rifiutare ogni pro­ posta nicaraguense. È noto anche l’appoggio che il Nicaragua ha dato a questi sforzi latinoamericani che conosciamo come il Gruppo di Contadora e il Gruppo di Lima. Abbiamo sostenuto questo sforzo nell’arco di tre anni, ma l’azione aggressiva degli Stati Uniti è stata di un costante rifiuto a questo impegno latinoamericano. Mentre Contadora si preoccupava di promuovere la discussione e il dialogo fra i paesi del Centroamerica su tutti i problemi della regione, gli Stati Uniti hanno risposto con azioni aggressive, con manovre militari, col finanziamento alle forze mercenarie. In gennaio abbiamo conosciuto il Documento di Caraballeda, immediatamente appoggiato dai governi centroamericani. E quale è stata la reazione degli Stati Uniti? Moltiplicare le manovre nel Congresso, verso l’opinione pubblica ame­ ricana, al fine di ottenere il finanziamento delle forniture militari alle forze mercenarie. Questa è la risposta degli Usa all’America latina: ad un messaggio di pace risponde con messaggio di morte. La riunione con Shultz Oggi si sono riuniti i rappresentanti dei governi latinoamericani che fanno parte del Gruppo di Contadora e del Gruppo di Lima con il Segretario di Stato Shultz. Li sta riunita l’America latina che chiede agli Stati Uniti che cessino i finanziamenti alle forze mercenarie, l’aggressione al Nicaragua, che venga iniziato un dialogo con essa; ma che cessi anche la pressione, il ricatto, la minaccia del governo Usa sui paesi latinoamericani. 38 Gli Stati Uniti cercheranno di convertire questo sforzo del Gruppo di Contadora, del Gruppo di Lima in uno strumento complementare della loro politica di forza contro il Nicaragua. Noi latinoamericani siamo obbligati a lottare perché il gruppo di Contadora e di Lima sia una autentica espressione latinoamericana, che difenda con dignità, fermezza e decisione, gli interessi latinoamericani. Una volta di piu è in gioco l’unità latinoamericana, piu necessaria adesso che mai, questa unità che si salda attorno alla lotta cui diede impulso Bolivar, che si è rafforzata intorno alla lotta di Omar Torrijos in difesa della sovranità di Panama. La stessa unità richiesta dal popolo nicaraguense quando insorse contro la dittatura di Somoza; dal popolo argentino in difesa della sua so­ vranità sulle Malvine, l’unità che continua a richiedere la Rivoluzione sandinista, aggredita dal governo degli Stati Uniti; la stessa unità che richiedono i popoli dell’America latina vittime della crisi economica, di relazioni com­ merciali internazionali ingiuste, vittime del debito estero. Rafforzare in questi momenti l’unità dell’America latina intorno e in difesa della Rivoluzione nicaraguense vuol dire rafforzare la capacità di lotta dei popoli latinoamericani, rafforzare ancor piu la capacità di negoziare, perché alla fine dei conti è un problema di tutti, è un problema che non si risolve cedendo al ricatto, alle pressioni, alle minacce. Questo aggraverebbe la crisi, cancellerebbe dalla mappa politica latinoamericana l’avanzata democratica. fermezza di fronte agli Usa Questa lotta deve essere portata avanti con decisione, con fermezza, di fronte agli Stati Uniti. Abbiamo due grandi realtà: l’America latina e il Caribe e gli Stati Uniti; l’America latina chiede un nuovo tipo di rapporto con gli Stati Uniti mentre gli Stati Uniti sono arroccati su una politica neocoloniale. È questa la posta in gioco in questo momento, il futuro dell’America latina, e questo futuro alla fine non si può decidere se alcuni governi cedono alle pressioni e al ricatto nordamericano. Questo futuro lo devono decidere i popoli. Questo stesso nostro incontro è una dimostrazione della decisione e della dignità latinoamericana, perché venire a Managua oggi significa dar fastidio al signor Reagan, provocare malessere e protesta degli ambasciatori statunitensi in America latina e nel Caribe. Già staranno inviando note di protesta, ai governi dei paesi che sono qui rappresentati. Agli Stati Uniti, contrari a questo incontro, interessa in primo luogo un Nicaragua isolato in America latina per poterlo isolare nel mondo e agire impunemente contro il nostro paese. Solidarietà militante Questo incontro dimostra che ce dignità e decisione in America latina. La rappresentatività è ampia, è numerosa, è pluralista. Attraverso voi parle­ ranno in questi giorni milioni di latinoamericani e questo fa molto piacere al popolo nicaraguense. Il nostro popolo saluta la presenza di tutti voi. Sappiamo che i vostri popoli sono orgogliosi che voi siate qui a manifestare una soli­ darietà militante e attiva col popolo del Nicaragua. Siamo sicuri che da questa nostra riunione usciranno rafforzate le decisioni di lotta dei popoli latinoamericani. Questo incontro servirà a promuovere piu azioni in difesa dell’autodeter­ minazione, dell’indipendenza, della sovranità, della pace. Esso rafforzerà anche nei governi la posizione in favore degli interessi latinoamericani. Darà maggior 39 forza, maggior valore ai governi latinoamericani perché possano affrontare senza oscillazioni le pressioni statunitensi. Esso dà forza morale anche al popolo nica­ raguense che sta lottando giorno dopo giorno, versando il suo sangue contro l’aggressore imperialista, è salutato dai lavoratori del Nicaragua, dai contadini, dagli operai; dalle madri che soffrono a causa della politica del terrore. Questo incontro dà al popolo nicaraguense piu forza nella lotta per affron­ tare, resistere e vincere anche l’intervento yanquee, se esso dovesse verificarsi. A nome della Direzione nazionale del Fronte Sandinista e a nome del popolo del Nicaragua vi diciamo: grazie! L'altra voce della Chiesa Come cittadini nicaraguensi, come cristiani e rivoluzionari, ci spiace profon­ damente veder limitate le libertà pubbliche del nostro popolo in stato d ’emer­ genza nazionale. E poiché amiamo il nostro popolo e la sua rivoluzione, come cristiani e nicaraguensi vogliamo riflettere a partire dalla nostra fede e far sentire la nostra voce in questo grave momento, per far giungere la nostra testimo­ nianza a quanti vogliano ascoltarci, nel Nicaragua e fuori. Pensiamo, anzitutto, che si debbano prendere in considerazione le dimensioni reali dello stato d ’emergenza. Bisogna partire da dati obiettivi e certi. In caso contrario, ogni azione e ogni opinione successive sarebbero viziate all’origine. E diciamo che bisogna partire dalle dimensioni reali dello stato d ’emergenza perché sappiamo che, in molti paesi del mondo, l’opinione pubblica è stata manipolata da una informazione sbagliata e, a volte, totalmente falsa: ci sono stati rapporti di agenzie di stampa nordamericane c britanniche che hanno parlato della sospensione ufficiale di diritti e libertà di cui lo stesso decreto di stato d ’emergenza menzionava, invece ed espressamente, il mantenimento. Si è parlato di stato d ’assedio in Nicaragua, di rottura delle comunicazioni interne tra le città, di impossibilità di uscire dal paese, di annullamento del diritto d ’asilo... Tutto ciò è completamente falso, lo è stato fin dall’inizio. Bisogna tener conto delle dimensioni reali anche in rapporto a situazioni simili, in primo luogo nello stesso Nicaragua: non è la prima volta che, nel paese, viene decretato lo stato d ’emergenza. In precedenza, il governo rivolu­ zionario lo ha decretato due volte e poi due volte abolito. Non si tratta, quindi, di una cosa nuova. E bisogna fare il confronto anche con ciò che succede fuori dal Nicaragua. Per parlare soltanto dell’America latina, il Nicaragua non è l’unico paese che si vede costretto a limitare le libertà della sua gente, anche se è, invece, l’unico paese che possa motivarlo con una situazione di guerra imposta, che ha pro­ dotto 12 mila morti in quattro anni, e con un blocco economico dalle con­ seguenze fatali per la stabilità interna. In America latina, il coprifuoco, o lo stato d ’assedio o d ’emergenza, vigono in cinque paesi. E in altri, numerosi, il problema delle libertà pubbliche provoca sommosse, disordini, incarceramenti e morti ogni giorno. Nulla di ciò accade in Nicaragua per i diritti civili. Amnesty International testimonia che nel nostro paese esiste un rispetto fondamentale per i diritti umani, mentre essi vengono sistematicamente violati in nazioni vicine. Anche « America’s Watch » ha riconosciuto questo fondamentale rispetto per i diritti umani in Nicaragua. 40 Ci rendiamo conio del significato simbolico che il caso del Nicaragua ha assunto nel mondo, ma riteniamo si commetta una esagerazione quando si vuol cogliere il moscherino nel caso del Nicaragua e si inghiotte il cammello nel caso di altri paesi. Esagerazione che implica una ingiustizia profonda, di cui bisogna analizzare le ragioni. Non potranno capire né giudicare giustamente questo stato d ’emergenza, coloro che non tengono in considerazione la peculiarità della situazione ni­ caraguense, coloro che la giudicano soltanto partendo da princìpi etici o politici astratti, senza aver chiari nella coscienza fattori come i seguenti: una rivolu­ zione popolare che ha appena compiuto i sei anni; una rivoluzione popolare che ha avuto un immenso costo umano (50 mila morti) ed economico; una rivoluzione generosa che non si disfa dei propri nemici per garantirsi il futuro, ma elimina — invece — la pena di morte e decreta amnistie in diverse occasioni; una guerra imposta e di aggressione alle sue due frontiere, finanziata, rifornita, diretta da consiglieri, armata e sostenuta pubblicamente dagli Stati Uniti, che ha causato già oltre 12 mila morti e continua, drammaticamente reale, ogni giorno, al punto da perdere validità di notizia, con sequestri, massacri, violazioni, soprusi contro la popolazione civile, per non dire della guerra militare vera e propria. Un blocco economico imposto dagli Usa che si somma alla grave situazione di crisi economica mondiale e di ripresa, dopo una guerra di liberazione nazionale... Ignorare tutto ciò, o non metterlo in primo piano, e giudicare così una situazione di emergenza secondo i princìpi teorici « universalmente validi », è un’offesa per tutti coloro che ogni giorno patiscono la morte e l’aggres­ sione contro una rivoluzione che essi vorrebbero veder difesa. Questo popolo ha affrontato con coraggio e dignità la maggiore aggressione della sua storia; è riuscito, con lo sforzo dei giovani e l’aiuto di tutti, a de­ tenere l’aggressione militare o a infliggere sconfitte militari alla controrivo­ luzione. Ciò sembra aver portato l’amministrazione nordamericana a capire che la controrivoluzione armata non ha la capacità — nonostante l’abbondante ap­ poggio — di prendere e di occupare un settore, per quanto piccolo, del territorio nazionale. Pertanto, si tenta di innescare un nuovo piano di aggressione sulla « frontiera politica » all’interno del paese, cercando di scatenare ondate di terrorismo che seminino il caos e favoriscano la possibilità di provocare od organizzare uno scontento popolare, base di un fronte interno che serva d ’appoggio alla controrivoluzione esterna. Negli ultimi mesi, tanto il governo quanto la vigilanza popolare hanno scoperto indizi chiari e preoccupanti dell’esistenza di organizzazioni di gruppi controrivoluzionari armati, che vengono spinti a dare il via a una nuova offen­ siva terrorista. D ’altro canto, leader religiosi delle diverse chiese hanno sempre manifestato, nelle loro prediche, atteggiamenti ostili alla legge del Servizio militare pa­ triottico, hanno invitato al dialogo con la controrivoluzione con il pretesto della riconciliazione cristiana, e hanno fatto dei tradizionali spazi di religiosità . popolare e di altri simboli religiosi un’espressone di confronto politico. In più di una occasione hanno esortato alla disobbedienza nei confronti delle leggi dello stato, dando segni di disconoscere l’autorità legittimamente costituita e de­ rivante da una libera elezione. In particolare, questi religiosi mancano sistema­ ticamente di rispetto alla legge del servizio militare, mentre il Concilio Va­ ticano II riconosce espressamente la funzione positiva che gli eserciti possono svolgere quando servono al bene comune: « Quelli che, al servizio della patria, fanno parte dell’esercito, devono considerarsi strumenti della sicurezza e libertà 41 dei popoli, perché, svolgendo bene il loro ruolo, contribuiscono realmente a stabilizzare la pace » (GS, 79). D ’altra parte, vogliamo dire che, a un mese dallo stato d ’emergenza, la vita del paese non è, in pratica, cambiata. Si può viaggiare all’interno e all’esterno; il popolo può riunirsi come finora ha fatto. Non si vede alcun aumento della presenza militare, tranne quella finora abituale nelle zone di guerra e per motivi di difesa. I partiti politici possono continuare le loro riunioni e discussioni in luoghi chiusi e le manifestazioni religiose e pubbliche possono aver luogo con il permesso delle autorità locali. Nel paese, si continuano a tenere incontri e congressi nazionali e internazionali. Partendo da ciò e chiedendo fiducia a quanti ci vogliano ascoltare — come hanno già fatto in altre occasioni — vogliamo, come cristiani, farvi partecipi delle seguenti riflessioni: — Riteniamo che il decreto di stato d ’emergenza, con la conseguente limita­ zione delle libertà pubbliche — sia una misura governativa che si inserisce nel­ l’ambito della prudenza politica. È una misura strategico-tattica, di cui non si può giudicare la giustezza o meno partendo da criteri teologici o religiosi, bensì partendo da un’analisi obiettiva della situazione politica, militare e civile. La decisione tecnica adottata può essere condivisa o no da altri osservatori, ma bisogna rispettarne la complessità e il diritto che ciascuno stato ha di governarsi da solo e di decidere autonomamente e senza ingerenze nei suoi affari interni. Noi non vogliamo scendere sul terreno tecnico della prudenza politica, ma vogliamo soprattutto parlare come cristiani, anche se cerchiamo di chiarire la situazione attuale. E su questo piano vogliamo affermare chiaramente davanti al mondo e ai nostri governanti il principio cristiano delle libertà pubbliche consacrato dal Concilio Vaticano II: « Si deve osservare la regola della libertà completa nella società, secondo la quale bisogna riconoscere all’uomo il mas­ simo della libertà e non la si deve restringere se non quando necessario e nella misura in cui lo sia » (DH7). E il Concilio dice anche: « Lì, dove per ragioni di bene comune si restringa temporaneamente l’esercizio dei diritti, si ristabilisca la libertà quanto prima, una volta che le circostanza siano cambiate ». (GS75). L’impegno preso dal governo rivoluzionario di abolire lo stato d ’emergenza quando cesserà l ’aggressione ci pare, per ciò, adeguato. Solo chi, come noi, sente nella propria carne il dolore e la sofferenza del nostro popolo, solo chi, come noi, tocca con mano gli enormi sforzi compiuti per tener alta la difesa della dignità e della sovranità nazionale, capisce che questa misura — anche nel caso fosse obiettivamente sbagliata — è stata presa non per reprimere il popolo, ma per proteggerne gli interessi davanti alle mi­ nacce che pesano sulla rivoluzione. Respingiamo l’interpretazione che questa misura sia un passo in avanti per imporre nel nostro paese una dittatura marxista leninista. Con la nostra esperienza, testimoniamo che il processo de­ mocratico ratificato con le elezioni dello scorso anno continua, nonostante le difficoltà create proprio per ostacolarlo e poter poi dire che non c’è mai stata la volontà di metterlo in pratica. L’Assemblea nazionale sta ora elaborando una nuova costituzione; si mantiene il progetto di economia mista e di pluralismo politico. Le misure preventive imposte con lo stato d ’emergenza cercano di difendere il progetto dei poveri, minacciato dalla politica degli Stati Uniti, e si stanno facendo tutti gli sforzi per non adottare misure restrittive al di fuori di quelle indispensabili e inevitabili per garantire questa difesa. La nostra presenza di cristiani in questo processo non è una tattica della rivoluzione, ma una caratteristica nuova e originale. Così noi sentiamo e così si 42 sono espressi i dirigenti della rivoluzione. Questo è un fatto accettato, assunto e rispettato. Ciò nonostante, il problema religioso è molto complesso, nel nostro paese. Ci sono coloro che, da posti di responsabilità religiosa, stanno cercando di mettere il popolo contro il suo stesso processo rivoluzionario, utilizzando i simboli piu tradizionali della religiosità popolare e approfittando della coscienza religiosa piu ingenua e meno evangelizzata di alcuni settori della popolazione. Questo atteggiamento coincide con la strategia dell’amministrazione Reagan e con quella delle vecchie classi privilegiate, che non hanno mai servito il vero Dio, bensì gli idoli dello sfruttamento e della morte. Lo stato d ’emergenza colpisce soltanto le manifestazioni religiose che nascondono azioni politiche de­ stabilizzatrici o che tendono a promuovere la disobbedienza a leggi come quella sul servizio militare, in un momento in cui la patria ha bisogno d ’essere onestamente difesa. Voler capitalizzare questa situazione per presentare lo stato d’emergenza come una maschera dietro cui si nasconde una presunta persecuzione religiosa, ci sembra assolutamente inaccettabile. Diciamo tutto ciò come Chiesa di Cristo quale siamo, per far sentire la nostra voce, che non è l’unica nella Chiesa del Nicaragua, ma che è, davvero e con molto amore, una voce cristiana: l ’altra voce della Chiesa del Nicaragua. dicembre 1985 Seguono le firme di 115 sacerdoti, frati e suore. 43 La Malinche 44 Nicole Levré Haiti: fine di una dinastia È ancora troppo presto per dire se la caduta di Baby Doc e la sua fuga il 7 febbraio segneranno l’inizio di nuovi e piu profondi rivolgimenti ad Haiti. Un altro dittatore grottesco e anacronistico è stato cacciato dall’eroismo di un popolo, sceso nelle strade a gridare la sua protesta dopo anni di silenzio. È stata questa protesta, e l’isolamento politico in cui ormai si trovava Duvalier figlio, a convincere gli americani a preparare l’uscita di scena del fedele alleato, prima che Haiti diventasse un secondo Nicaragua. Del resto da decenni gli av­ vicendamenti al vertice di Port-au-Prince avvengono solo dietro pressione, as­ senso e suggerimento di Washington. Ripercorrere le tappe della recente storia del paese può quindi servire a meglio comprendere gli avvenimenti odierni. Fin dai primi anni del secolo gli Stati Uniti si sostituirono alla Francia nello sfruttamento dell’ex colonia, giungendo ad occuparla militarmente dal 1915 al 1934. Il pretesto per l’intervento venne fornito dai continui disordini e dalle lotte intestine che travagliavano la vita della giovane repubblica. La rivoluzione anticoloniale del 1789-1804, abolendo la schiavitù, aveva modificato profondamente la struttura agraria del paese. Le grandi piantagioni di canna da zucchero, sfruttate fino ad allora con capitali francesi, erano passate sotto il controllo di una classe dominante nera e mulatta priva di capitali sufficienti e impossibilitata ad introdurre nelle campagne le tecnologie necessarie per pas­ sare da un’economia schiavista ad uno sfruttamento moderno. Si era intanto sviluppata, a fianco dello zucchero, la produzione di caffè destinato al mercato internazionale. Questo aveva segnato l’emergere di una oligarchia cafetalera formata da mulatti figli degli ex coloni e da neri che avevano partecipato alla lotta indipendentista. La storia haitiana di questo secolo è segnata dal conflitto fra il settore 45 mulatto, legato alla commercializzazione dei prodotti agricoli e maggiormente urbanizzato, ed il settore nero latifondista. I mulatti hanno dalla loro parte il maggior peso economico, i neri fanno strumentalmente appello alla « questione razziale » per aggregare intorno a sé la stragrande maggioranza della popolazione. Il fattore razziale dunque serve per lo piu a mascherare il contrasto di in­ teressi fra queste due frazioni della oligarchia, appoggiate di volta in volta dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Germania o dagli stessi Stati Uniti. In questo contesto Washington decide l’occupazione, destinata a garantire la coe­ sione delle classi dominanti ed il loro rafforzamento di fronte alle prime proteste popolari. Nei 19 anni di presenza militare statunitense il potere viene assunto da governi fantoccio, mentre si fanno sempre piu stretti i rapporti di dipendenza neocoloniale. L’economia dell’isola viene assoggettata completamente agli inte­ ressi statunitensi e le imprese americane creano delle enclaves agricole e mi­ nerarie sottoposte a sfruttamento moderno, mentre il resto del paese rimane fermo a condizioni precapitalistiche. Un primo movimento di riscossa nazionalista si sviluppa nel 1928-29, anche per reazione al razzismo delle truppe di occupazione. La risonanza assunta dalla repressione induce gli Stati Uniti ad affidare l’ennesimo incarico di go­ verno ad un esponente della vecchia oligarchia mulatta, Sténio Vincent, rappre­ sentante della tendenza nazionalista. Il primo agosto 1934 i marines Usa abbandonano il paese. Il periodo di occupazione ha segnato il definitivo predominio del capitale statunitense a scapito di quello francese (si veda l’accordo commerciale del marzo ’35). Dal 1922, con un grosso prestito al governo di Port-au-Prince, è iniziata anche la pratica del sovvenzionamento, attraverso « aiuti allo sviluppo » e aperture di crediti, dei regimi in carica. Nel 1935 la classe media nera, numericamente cresciuta per lo sviluppo della burocrazia e politicizzatasi con la partecipazione al movimento nazionalista degli anni precedenti, si oppone al tentativo di Vincent di essere rieletto alla presidenza. Fra quanti accusano il capo dello Stato di essere solo un burattino nelle mani degli Stati Uniti, vi è il Partito comunista, fondato l’anno precedente e che lo stesso Vincent si incarica di mettere subito fuori legge. Nel ’37 il conflitto con il dittatore dominicano Trujillo, che ha fatto mas­ sacrare 20.000 contadini haitiani, mette a nudo la debolezza del governo, che si accontenta di un indennizzo di 750.000 dollari (neppure pagati interamente). L’opinione pubblica è indignata, gli Usa sono costretti a cercare un altro candidato e nel ’41 fanno eleggere presidente Elie Lescot, ambasciatore plenipo­ tenziario di Haiti a Washington e collaboratore di Trujillo. Sempre nel ’41 ven­ gono concessi al paese due ingenti prestitiper la realizzazione di opere pub­ bliche e per lo sviluppo agricolo:il programma di « assistenza » è affidato ad una ditta statunitense, la Société Haitiano-Americaine de Developpement Agricole (Shada), che riceve in concessione tutto il caucciù haitiano, oltre a 60.000 ettari di terreno produttivo ed a 75.000 ettari di bosco. Questo provvedimento signi­ fica l’espropriazione, con un indennizzo ridicolo, di migliaia di piccoli contadini. Lo scontento nelle campagne è molto forte e si assomma alle proteste per la persecuzione del vudù, decisa dal regime con l’appoggio della Chiesa cattolica. Nel ’45 la protesta si estende alle città: a scendere in campo sono gli studenti, la piccola borghesia, le masse della capitale e delle città più importanti. L’agitazione studentesca del 7 gennaio si trasforma in sciopero generale. Ancora una volta Washington fa venir meno il suo appoggio al regime e ITI gennaio una giunta militare prende il potere. È questo un periodo di grandi fermenti nella società haitiana. Oltre a una rinnovata presenza del Pc, si assiste al sorgere 46 del Partito socialista popolare, cui aderiscono intellettuali mulatti di estrazione piccolo borghese. Nasce inoltre il Mouvement Ouvrier Pay san (Mop), che riesce a mobilitare vaste masse proletarie e sottoproletarie dietro le parole d ’ordine populiste del suo leader, Daniel Fignolé. L’assemblea nazionale nel 1946 proclama presidente il latifondista nero Dumarsais Estimé, ma dietro di lui c’è il colonnello Paul Magloire, figura di punta della giunta di governo che ha destituito Lescot. Gli anni del governo Estimé sono fra i piu interessanti dal punto di vista culturale: fiorisce nell’isola un importante movimento ispirato alla negritudine ed ai valori africani, che si esprime attraverso la poesia, la musica, il teatro, la pittura, la riscoperta del folklore. Il settore mulatto però non demorde e nel maggio ’50 riesce a far deporre Estimé da un golpe militare. Al suo posto si insedia la stessa giunta di governo di quattro anni prima e nel suo seno il nero Paul Magloire consolida la sua posizione. Nonostante la sua appartenenza razziale, Magloire gode anche della fiducia della borghesia mulatta e con l’appoggio dell’esercito si' fa eleggere presidente a suffragio diretto. La congiuntura economica favorevole (sono in ascesa i prezzi di caffè, zucchero, sisal) i prestiti Usa, gli investimenti esteri permettono al suo governo un periodo di stabilità. Ma nel 1955 la coincidenza della crisi economica mondiale (con conseguente calo delle esportazioni) e delle distruzioni causate dal ciclone Hazel mettono a nudo l’effimera prosperità del regime e ridanno fiato alle opposizioni. Venuto meno il blocco di alleanze che 10 sosteneva, Magloire è costretto all’esilio nel dicembre del ’56. Quattro sono i candidati alla successione: l’industriale Louis Déjoie, rappresentante dell’alta borghesia mulatta, che può contare anche sull’appoggio di una frazione della pic­ cola borghesia; Clement Jumelle, ministro delle Finanze del passato regime; 11 medico Francois Duvalier, ex ministro del governo Estimé, sostenuto dalla oligarchia nera e da importanti settori della piccola borghesia (anche alcuni in­ tellettuali neri lo vedono con simpatia, per i suoi richiami alla negritudine). L’ultimo candidato è il leader del Mop, Fignolé, che può contare sul sostegno entusiasta dei settori sindacali e degli strati popolari della capitale, oltre che sull’appoggio degli intellettuali progressisti. La sinistra, pur comprendendo che il populismo di Fignolé non mette in discussione l’ordine costituito, spera infatti in una radicalizzazione del movimento. La preparazione delle presidenziali è lunga e laboriosa: si succedono quattro governi provvisori, incaricati di realizzare « elezioni libere e oneste ». Il 25 maggio ’57, alla guida del terzo governo provvisorio viene nominato proprio Daniel Fignolé. L’avvenimento è accolto da manifestazioni di entusiasmo nei sobborghi proletari della capitale e fra i soldati delle guarnigioni. La borghesia nera e mulatta e la stessa ambasciata Usa sono in allarme e decidono di correre ai ripari: dopo soli 19 giorni, Fignolé è destituito dal capo di stato maggiore, gen. Kebreau e spedito in esilio, mentre l’esercito reprime nel sangue le proteste popolari (tremila morti in due giorni). Ed è sempre l’esercito, con l’assenso di Washington, ad organizzare elezioni fraudolente e a proclamare vincitore Francois Duvalier (22 settembre 1957). Appena giunto al potere, Duvalier inaugura un periodo di terrore, di ar­ resti arbitrarii e di assassinii. Anche l’esercito viene drasticamente epurato (fra le vittime vi è lo stesso Kebreau). Ogni libertà di stampa e di opposi­ zione viene annullata. La repressione colpisce anche la Chiesa cattolica: viene espulso fra gli altri l’arcivescovo della capitale, mons. Poirier, di nazionalità francese. Il nuovo regime ha l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Una missione 47 militare americana si installa nell’isola per addestrare quei militari che do­ vranno diventare a loro volta gli istruttori del corpo paramilitare dei Ton tons Macoutes. Il sostegno di Washington è un chiaro segnale alla borghesia mulatta, che in gran parte si allinea dietro Papa Doc. Mentre il regime si consolida con il sostegno delle vecchie classi domi­ nanti, numerosi sono gli episodi di resistenza, che coinvolgono settori sociali diversi. Alla fine degli anni ’50 è in crescita il movimento rivendicativo della classe operaia; nell’agosto ’58, con la fondazione dell’Unione Intersindacale, che raggruppa diverse organizzazioni progressiste e democratiche, il proletariato si presenta per la prima volta come un gruppo sociale organizzato. L’Unione Intersindacale verrà sciolta dal regime nel dicembre ’63 ed i suoi dirigenti ar­ restati. Anche gli studenti scendono in campo contro Duvalier: la prima mani­ festazione dell’opposizione è proprio lo sciopero studentesco iniziato nel novembre del 1960 e durato ben tre mesi. Altri episodi di lotta al duvalierismo hanno per protagonisti ex militari ed esponenti della piccola borghesia radicale. Nel luglio ’58 tre ex ufficiali dell’esercito e quattro avventurieri americani tentano un’azione armata, ma senza successo. La risposta di Papa Doc è il rafforzamento e l’isti­ tuzionalizzazione dei Tontons Macoutes. Sotto la presidenza Kennedy, Washington cerca anche un « sostituto » di Duvalier che, pur garantendo la continuità del sistema, presenti una « facciata » piu dignitosa. Duvalier reagisce con un so­ prassalto « nazionalista »: espelle la missione militare Usa, provocando la sospen­ sione delle relazioni diplomatiche fra i due paesi (maggio ’63) e sul piano interno intensifica la repressione. La situazione ritorna favorevole al dittatore con la presidenza Johnson, tanto che il gruppo ]eune Haiti, che nel maggio ’64 tenta un’invasione dell’isola con l’appoggio della Già, viene tradito dagli stessi agenti americani (i 13 componenti del gruppo vengono tutti massacrati). Con­ temporaneamente fallisce un tentativo di sbarco, effettuato dalle Forces Armées Revolutionaires d ’Haiti a partire dalla Repubblica Dominicana. Numerosi sono anche i complotti in seno all’esercito o allo stesso governo; fra i piu importanti, quello di un gruppo di ufficiali diretto dal colonnello Honorat, che contava sull’appoggio (poi venuto meno) della Cia; quello dell’ex capo della polizia segreta Clément Barbot, infine l’insurrezione della Marina, che bombardò il palazzo presidenziale nell’aprile ’70. A questi, e ai tanti altri tentativi diretti contro di lui, Duvalier ha potuto sempre opporre l’appoggio statunitense (tranne la breve parentesi Kennedy) e quello dei settori piu reazionari dell’oligarchia sia nera che mulatta. Ma la vera minaccia per il regime è costituita dal movimento di massa, contro il quale l’unica arma è stata il terrore. Oltre al milione circa di haitiani che in questi trent’anni hanno abbandonato l’isola (spinti dalla miseria o dal rifiuto della dittatura) si calcola che il carcere, la tortura, l ’assassinio, abbiano colpito almeno 40.000 oppositori. La repressione è stata particolar­ mente dura nei confronti dei militanti del Partito Unificato dei Comunisti Hai­ tiani, sorto nel 1968 dalla fusione del Farti d ’Entente Populaire (fondato nel ’59 dallo scrittore Jacques Stéphen Alexis, poi assassinato da Duvalier) e del Partito Popolare di Liberazione Nazionale. Nell’aprile ’69 una legge decreta la pena di morte contro chiunque sia sospettato di attività comunista. Nel corso di quell’anno centinaia di comunisti vengono uccisi ed altre centinaia arrestati e torturati. Il 22 aprile 1971 l’annuncio della morte di Papa Doc è accompagnato dalla notizia del passaggio dei poteri al figlio diciannovenne Jean-Claude. La successione è legittimata dall’ambasciatore americano Clinton Knox, che dichiara subito il suo sostegno a Baby Doc, e dalle navi da guerra Usa che incrociano nelle acque territoriali haitiane. Del resto il vecchio Duvalier, dopo essersi fatto proclamare 48 nel ’64, con una votazione plebiscitaria, presidente a vita, aveva deciso che tale carica diventasse ereditaria. Nonostante l’anacronismo del regime, le classi domi­ nanti si sentono garantite nei propri interessi dalla dinastia Duvalier e già sotto Papa Doc hanno consolidato il proprio potere economico approfittando della pace sociale. Il regime di Duvalier figlio significa un rafforzamento della dipendenza dagli Stati Uniti e dalle multinazionali. Oltre che nei tradizionali settori agricolo (caffè, zucchero) e minerario (bauxite, rame), sono cresciuti gli investimenti nell’in­ dustria di assemblaggio (tessile, di giocattoli, elettronica) richiamati dalle fa­ vorevoli condizioni offerte ai capitali esteri: esenzioni fiscali, bassi salari, niente scioperi. Questa linea di tendenza è destinata a rafforzarsi nei prossimi anni; dopo l’accordo fra Cina e Gran Bretagna su Hong Kong, molte multinazionali stanno spostando i propri investimenti in questa zona del globo. Dagli Stati Uniti Baby Doc ottiene, fin dall’inizio, concreti e generosi aiuti: istruttori per addestrare il nuovo corpo repressivo dei Leopards, prestiti e cre­ diti sia diretti che attraverso organismi internazionali, armi ed equipaggiamento militare (attraverso una compagnia privata di Miami). Fino alla presidenza Nixon Washington garantisce anche un appoggio poli­ tico senza riserve. Nel maggio ’76 uno sciopero degli operai del cemento se­ gna la ripresa del movimento sindacale organizzato. È il periodo in cui Baby Doc cerca di accreditare una versione « aperturista » del regime, consentendo una minima libertà di stampa; ma il giornalista che sul « Petit Samedi Soir » pubblica la notizia dello sciopero viene trovato assassinato. Con la presidenza Carter Du­ valier è costretto ad alcune concessioni: nel 1977 per la prima volta vengono liberate decine di prigionieri politici, mentre nasce la Lega dei diritti umani e il panorama politico si arricchisce di un partito di ispirazione democristiana. Nelle elezioni parlamentari del ’78, ai candidati ufficiali si affiancano alcuni indipendenti, uno dei quali viene addirittura eletto. L’anima del regime però non muta: una repressione piu « selettiva » colpisce gli oppositori, mentre la censura si abbatte sulla stampa e sulle opere teatrali. E comunque l’apertura ha presto fine con l ’elezione di Reagan alla Casa Bianca. Sul piano sociale le classi medie, anche in seguito alla congiuntura economica favorevole che ha contraddistinto quasi tutti gli anni Settanta, hanno maggiore accesso al consumo. Ma paradossalmente la massa monetaria circolante nel paese non fa che peggiorare la situazione degli strati piu poveri, per gli effetti inflazionistici che provoca. E gli strati piu poveri sono la stragrande maggio­ ranza della popolazione, se si calcola che un centesimo degli abitanti controlla la metà delle ricchezze nazionali. Haiti è il paese con il reddito pro capite più basso di tutta l’America latina (250 dollari annui); il tasso di analfabetismo su­ pera l’80%; l’87% dei bambini soffre di denutrizione; la mortalità infantile è del 150 per mille. Gli anni Ottanta segnano la crisi del regime: la corruzione presente ad ogni livello dell’organizzazione statale e l’incompetenza sul piano economico generano una crisi di sfiducia nelle classi imprenditoriali, messe in allarme dalla ripresa delle proteste popolari; un chiaro segnale è il calo dell’attività produttiva, ac­ compagnato da una massiccia fuga di capitali. Allo scontento dei lavoratori urbani, che vedono i loro già miseri salari erosi dall’inflazione (dal ’71 all’84 il potere d ’acquisto è sceso del 62% ) fa riscon­ tro il dramma delle campagne, dove l’abbattimento del patrimonio suinicolo, deci­ so dal governo nel 1984 in seguito ad un’epidemia di peste suina, ha costituito un vero colpo per tante famiglie contadine. Ed è proprio nel 1984 che la protesta popolare si inasprisce: in maggio scop49 piano sommosse a Cap Haitien, Gonaives, Hince. Il 2 febbraio del 1985, in oc­ casione di una manifestazione di massa a Port-au-Prince, l’arcivescovo della capi­ tale attacca pubblicamente il governo. La Chiesa cattolica scende cosi in campo a fianco dell’opposizione ponendo fine ad un lungo periodo di compromissione con il regime. Il 25 aprile nella cattedrale, alla presenza dei rappresentanti del governo e di migliaia di fedeli, il belga padre Yvan pronuncia un sermone che suona a definitiva condanna del duvalierismo. Nel novembre altre azioni di pro­ testa del clero ottengono l’appoggio della Conferenza Episcopale. In tal modo la Chiesa consolida la sua presenza nella società haitiana, rispondendo alla penetrazione ideologica delle sette protestanti. Nel maggio del 1985 la Centrale Autonoma dei Lavoratori Haitiani rilancia, dalla clandestinità l’iniziativa di lotta. Tredici dirigenti scrivono una lettera aper­ ta al ministro delle Finanze, chiedendo miglioramenti salariali e riconoscimento dei diritti sindacali. Nell’agosto i camionisti di Gona'ives, dopo un duro sciopero, ottengono pieno successo: per la prima volta il governo è costretto a cedere. Anche i giovani scendono in agitazione, organizzando marce per le « libertà poli­ tiche, economiche e sociali ». La risposta del regime (il referendum del 22 luglio sull’irrevocabilità della presidenza a vita) suona debole e difensiva: nessuno, né all’interno né all’estero, crede a quel 99,98% di « si » che Duvalier sostiene di aver ricevuto. Il 28 novembre, sempre a Gonaives, quattro giovani vengono uccisi dalla polizia nel corso di una manifestazione pacifica. Lo sdegno è enorme, in tutto il paese si scatenano scioperi e manifestazioni. A nulla serve il rimpasto ministe­ riale di dicembre (vengono cambiati i ministri delle Finanze, dell’Educazione, degli Interni e degli Esteri). Il sette gennaio di quest’anno gli studenti decidono lo sciopero generale, il governo replica facendo chiudere le scuole. Il 30 gen­ naio viene annunciata la sospensione degli aiuti americani (26 milioni di dol­ lari): dopo gli imprenditori e la Chiesa, anche gli Usa hanno abbandonato Duva­ lier. Seguono nuove sommosse a Port-au-Prince e in altre città e la proclamazione dello stato d ’assedio. Il resto è storia di oggi. La notizia di fonte americana, rivelatasi poi prematura, della fuga di Baby Doc il 31 gennaio appare a poste­ riori un’abile mossa di Washington per liberarsi definitivamente di un alleato ormai scomodo. Il panorama politico di Haiti, confuso e contraddittorio, non è tale da mettere in pericolo gli interessi statunitensi. Le opposizioni, sia quella legale (il Partito democristiano) sia quella clandestina (il Puch), hanno subito duri colpi sotto la dittatura e appaiono deboli e incerte. Solo la Chiesa, con le sue comunità di base, si presenta in questo momento come una forza sociale orga­ nizzata e compatta. Certo Baby Doc se ne è andato, ma la parte avuta da Washing­ ton nella sua partenza getta una pesante ipoteca sul futuro del paese. Solo quando questa ipoteca verrà a cadere Haiti potrà dirsi veramente libera. 50 Edwige Balutansky Caribe francese champagne, disoccupazione... La Francia, fin dal 17mo secolo, a differenza di Spagna e Inghilterra, era riu­ scita ad inserire integralmente le sue colonie caraibiche nella sua struttura econo­ mica. Santo Domingo, Guadalupe e Martinica furono dedicate alla produzione zuc­ cheriera, mentre l’inospitale Guyana servi come colonia penale. Nel 1804 perse Santo Domingo (Haiti), la « Perla delle Antille ». La Francia oggi, tra le vecchie potenze, è l’unica ad aggrapparsi ancora alle sue colonie. Dopo la guerra mon­ diale, nel timore di perdere i suoi dominii, decise di « integrarli ». Formalmente, cessarono di esser colonie nel 1946; però, diventando Dipartimenti (o Territori d ’Oltremare), si rafforzarono sempre piu i legami tra metropoli e periferia. Nel Caribe, solo Puerto Rico condivide uno status similare. La popolazione antillana aspira all’indipendenza? Quelli che si attaccano ai sussidi ottenuti dalla Madrepa­ tria difendono la Dipartimentalizzazione. Quelli che temono di cadere nell’orbita nordamericana chiedono maggiore Autonomia. Gruppi ancora minoritari reclama­ no l’Indipendenza... La « legge di assimilazione » del 1946 trasforma Guadalupe, Martinica, Gu­ yana Francese (nei Caraibi) e l’isoletta La Reunion (nell’Oceano Indiano) in Di­ partimenti d ’Oltremare: i Doms, mentre le colonie del Pacifico son considerate Territori d ’Oltremare: i Toms. Il prefetto si sostituisce al governatore. La fun­ zione giuridica non cambia la realtà. I legami tra la Francia e i Doms continuano ad essere di tipo coloniale. La dipendenza non si interrompe, anzi si accentua. Ieri la colonia generava ricchezza: lo zucchero. Oggi sono intergate nel circuito commerciale della metropoli: oltre che mercati, sono « trampolini » di lancio verso gli altri mercati caraibici. Lo sviluppo delle relazioni commerciali, insieme agl’interessi strategici, giustificano i « sussidi » * Da « Pensamiento propio », a. Ili, n, 27, ottobre 1985. 51 del governo francese ad economie che hanno cessato di produrre per offrire servizi. Gli alti livelli di consumo delle Antille, lungi dal riflettere sviluppo econo­ mico, risultano dalle distorsioni introdotte dalla metropoli. Dipartimenti o colonie? Col nuovo status, la Francia cercava di neutralizzare i sentimenti nazionali che si stavano sviluppando in quelle colonie: da una parte molti antillani avevano par­ tecipato — ed erano morti — nella guerra sotto la bandiera francese; dall’altra la Francia, occupata dai nazisti — non poteva comunicare con le sue colonie. Le An­ tille (Guadalupe e Martinica) e la Guyana si trovarono sull’orlo del collasso: non arrivavano i beni tradizionalmente importanti dalla metropoli né si poteva espor­ tare zucchero. Verso la fine della guerra la Francia aveva perso buona parte del suo mercato caribegno. Nelle Antille si cominciavano a sviluppare alcune indu­ strie locali per sostituire gl inaccessibili beni una volta importati, ed anche a diversificare la produzione agricola per soddisfare il mercato interno. Ansiosa di riattivare la sua economia, la metropoli si propose di recuperare i suoi mercati. Per far ciò doveva però soddisfare alcune richieste delle colonie: questo l’obiet­ tivo che si proponeva la legge di assimilazione. Le colonie accettarono la nuova formula, anche perché un partito di sinistra era allora al governo in Francia. Il Partito comunista di Guadalupe pensava che la « dipartimentalizzazione » avrebbe potuto risolvere almeno i problemi piu acuti. Nella Martinica Aimé Césaire, il politico piu eminente dell’isola e membro del Pc, optò anch’egli per questa soluzione. Il nuovo status pretendeva di rompere con la dominazione coloniale, istituendo l’uguaglianza dei diritti tra gli abitanti della metropoli e quelli d ’Oltremare. A partire dal 1946 si costruirono scuole, l’analfabetismo fu quasi sradicato. Nel campo della salute: fognature, acqua potabile e cure mediche gratuite, l’applica­ zione della avanzata legislazione sociale francese. Un sostanziale miglioramento delle infrastrutture fino allora esistenti. Tuttavia la riforma giuridica non metteva in discussione la natura stessa del rapporto coloniale. La vita economica dei territori continuò ad essere nelle mani di poche compagnie zuccheriere controllate dal capitale francese. Si ipertrofizza il settore amministrativo e dei servizi. I prefetti nei Doms godono di un’autorità maggiore dei loro omologhi metropolitani, possono intervenire in modo decisivo nei procedimenti elettorali, sciogliere il Consiglio Generale ed usare la forza pub­ blica (nel 1953, ad esempio, il prefetto di Guadalupe sciolse il Consiglio Generale risultante dalla vittoria di una coalizione di socialisti e comunisti). Gradualmente i prefetti acquisirono poteri politici maggiori di quelli che avevano i governatori ai quali si erano sostituiti. Le colonie, oltre ad eleggere i Consigli e i membri dei municipi locali, designano rappresentanti al Parlamento francese, le cui leggi de­ vono rispettare. Guadalupe però ha solo 3 deputati su 420. Economie sussidiate? Nel 1949, la bilancia commerciale di Guadalupe non presentava falle. Dopo trent’anni come Dom, il suo export copre solo un quinto dell’import. I trasferi­ menti dello stato francese rappresentano circa il 70% delle spese pubbliche dell’i­ sola. Sul piano economico, i problemi e le tensioni si esprimono piu apertamente. Fin dal 17mo secolo le colonie erano state destinate alla monocoltura dello zuc­ chero (con riferimento specifico a Guadalupe e Martinica). L’industria zuccheriera cominciò ad incontrare le difficoltà più serie a partire 52 dal 1957, quando la comunità economica europea aderisce alla Convenzione di Lome, i cui accordi garantiscono a 46 Stati africani, del Caribe e del Pacifico il libero accesso del 99,2% delle loro esportazioni nella Cee. Questi accordi avreb­ bero avuto severe ripercussioni sulle economie dei Doms, i cui prodotti dovevano competere all’esportazione con quelli di paesi i cui costi di produzione sono sino a sette volte inferiori. Con la diminuzione della superficie coltivata a canna da zucchero ed in pre­ senza di un’economia poco diversificata, i grandi proprietari cercarono di reagire introducendo e intensificando altre coltivazioni (ananas, banane, ecc.) che non po­ tevano sostituire lo zucchero come fonte di ' aiuta e di occupazione. Il modello agro-esportatore provocò una regressione costante della coltivazione di ortaggi come anche dei prodotti dell’allevamento: si importa latte, burro e persino succhi di frutta! Il settore manifatturiero (in sostanza la lavorazione di alcune piante industriali), estremamente ridotto, non dinamizza l’economia. Tra il 1980 e il 1983, furono investiti nell’industria appena 145 milioni di franchi, mentre il com­ mercio assorbì circa il doppio: 272 milioni. Il turismo rappresenta appena un 3 o 4 per cento del Pii. Dal canto suo il settore terziario è andato crescendo in modo smisurato. Il settore amministrativo offre oggi la terza parte dell’occupazione. Nel 1960 il 62% della manodopera lavorava in setton produttivi: nel 1980 solo il 29% . Questa « terziarizzazione » dell’economia — crescita sproporzionata delle attività non pro­ duttive — è finanziata dallo stato francese attraverso la spesa pubblica: i livelli di impiego e di reddito, come la domanda, dipendono dalle iniezioni finanziarie della metropoli. Circa il 56% della forza-lavoro è composta da disoccupati o sotto-occupati. La gran parte dei giovani, diplomati o meno, emigrano in Francia, dove scontano il razzismo dei loro « compatrioti ». La situazione, drammatica di per sé, viene aggravata dallo spostamento verso le colonie di un gran numero di giovani pro­ fessionisti francesi ed ex funzionari pubblici che hanno dovuto abbandonare le ex colonie arabe. Attratti dagli alti salari — un 40% in piu che nella metropoli — si accaparrano i pochi posti disponibili dando luogo a un « genocidio per sosti­ tuzione ». Come spiegare, allora, l’alto livello dei consumi che ogni visitatore constata arrivando nelle Antille? « Ballerine costose » È quasi un luogo comune affermare che la Francia compensa il deficit delle bilance commerciali delle colonie con forti iniezioni finanziarie. Gli uomini poli­ tici francesi hanno l’abitudine, nei loro giri elettorali nelle Antille, di sottolineare le cure e le responsabilità della Francia verso le povere isole. Essa viene presen­ tata come « madre nutrice » che sovvenziona la bilancia dei pagamenti. Nel 1979 ad esempio la Martinica esportò per 133 milioni di dollari e importò per 675! Il deficit fu coperto da tutta una gamma di agenzie che operano nella metropoli. Questo spiega come in Martinica il reddito nazionale pro capite viene stimato in 4000 dollari annui e in Guadalupe in 3300, molto piu alto dei redditi delle isole vicine. 1 benefici dell’assistenza sociale sono fatti assommare a 658 dollari pro­ capite. Le cifre (media 1976-78) non sono cambiate sostanzialmente nell’attuale de­ cennio. Questo circolo vizioso peggiora ogni anno di piu, poiché nella misura in cui lo stato sovvenziona le Antille francesi (mediante i salari dei funzionari — am­ ministrativi e militari — , l ’assistenza sociale, i crediti per equipaggiamenti o il Fondo di Investimenti per i Doms) le isole producono di meno e dipendono di piu dalle importazioni. 53 Valery Giscard d ’Estaing, quand’era ministro delle Finanze, paragonò le Antille a « ballerine molto costose da mantenere ». È costoso per la Francia? La Francia, vecchia potenza coloniale, assume oggi il ruolo di amante affettuoso e compiacente? Le proiezioni commerciali suggeriscono una visione meno ro­ mantica: il 60% dell’intercambio commerciale della Martinica è con la Francia, e quello di Guadalupe, ancor più dominato dalla metropoli, è del 70% . Il commercio spiega l’interesse più immediato della Francia nel conservare le sue colonie. I suoi « aiuti » consistono soprattutto nei grassi benefici percepiti da­ gli importatori e trasportatori francesi che operano in quelle isole. Le colonie servono per quell’aiuto finanziario che permette di trasformare il denaro pubblico francese in profitti per il capitale privato. Che cosa rappresentano le spese di « ma­ nutenzione » delle colonie per la metropoli? Guardiamo al caso della Guyana: nella seconda metà degli anni 70, la Francia sborsò appena lo 0,1-0,2 del suo bi­ lancio in quel Dom. Calcoli prudenziali riconoscono che circa il 90% dei fondi pub­ blici trasferiti in Guyana rientrano in Francia attraverso il settore privato. E la cosa non cambia nelle Antille: l’economia si basa essenzialmente sul settore ter­ ziario e amministrativo, oltre che sull’importazione commerciale. Un dato rivela­ tore: nel 1970 il bilancio globale del Ministero d ’Oltremare, per Dorns e Toms, era di 290 milioni di franchi. Nello stesso anno i francesi spesero per alimenti in scatola per animali domestici 750 milioni di franchi. Interessi molteplici Oltre ai vantaggi commerciali diretti, le isole caraibiche rendono possibile la circolazione dei prodotti francesi verso l’America centrale e latina, oltre che nel Caribe. Compagnie metropolitane, con basi in Guadalupe, si installano nelle altre isole. Una di queste corporazioni ha costruito la strada del Sud a Haiti. Alcuni progetti stravaganti come il mattatoio regionale e il nuovo ospedale in Martinica sembra stiano li a dimostrare che la Francia vuol montare una « vetrina » per la vendita dei suoi prodotti. Il Partito socialista francese progetta di creare una zona industriale, ma non per la trasformazione dei prodotti locali. Secondo alcuni storici, la Francia si lanciò nella conquista di nuove colonie tra la fine del 19mo e l’inizio del 20mo secolo, periodo della sua maggiore espan­ sione territoriale, più per ragioni politiche e strategiche che economiche. È que­ sta la logica che sembra continui a prevalere. Nel Caribe, come negli altri suoi ter­ ritori, la Francia cerca di conservare la sua presenza militare strategica con il Cen­ tro spaziale di Kourou in Guyana, creato nel 1968, dove sviluppa attualmente il Progetto Ariane, destinato alla collocazione in orbita di satelliti per telecomunica­ zioni. Queste istallazioni, data l’importanza economica e politica del mercato mon­ diale della tecnologia spaziale, permetteranno alla Francia e all’Europa la totale autonomia nell’uso di satelliti di telecomunicazione e osservazione. I Toms e i Doms (un altro progetto nucleare è stato incrementato nella Polinesia francese) sono usati per espandere questi « moderni » progetti di tecnologie di punta che, per ragioni evidenti, non possono essere sviluppati sul territorio metropolitano. Importante: le potenze industriali guardano alla regione con rinnovato interesse da quando il Caribe si è rivelato essere un lago petrolifero. Non si deve nemmeno sottovalutare l’interesse culturale per l’espansione della lingua e della cultura francesi. La Francia controlla la radio e la televisione, men­ tre il creolo continua ad essere proibito nelle scuole. Questo controllo del campo culturale marca la differenza tra la colonizzazione francese e quella britannica. 54 L’insegnamento viene impartito esclusivamente in francese. Sulla Francia viene diffusa un’informazione minuziosa, mentre il minimo viene fatto sul Caribe. Un maestro antillano afferma che « imparare il francese implica imparare ad entrare nell’ordine sociale instaurato dal colonizzatore ». Aimé Césaire, che pure tanto ha predicato per la negritudine e una propria identità, ammette che attualmente è difficile tagliare il cordone ombelicale. La Francia viene considerata una benefattrice che distribuisce benefici sociali di va­ rio genere. Gli strati piu elevati della società dipendono dalla presenza francese, dato che il capitale locale dipende, come abbiamo visto, da quello della « madre­ patria ». Il paese non ha una propria identità, tanto che, come ci spiega un socio­ logo guadalupense, « noialtri, che pure siamo inseriti in un contesto caraibico, ci sentiamo, in virtu della dominazione francese, completamente estranei rispetto ai problemi della regione. Stando come stiamo dentro una matrice francese, ogni relazione che esiste tra noi e i nostri vicini passa necessariamente attraverso la Francia ». Le tensioni non si affogano nello champagne Disoccupazione e sotto-occupazione investono un 56% della popolazione po­ tenzialmente attiva. Ciò, malgrado i programmi per creare nuovi posti di lavoro, maggiori pacchetti di aiuti, un sistema estensivo di assistenza sociale e campagne di pianificazione familiare. Le tensioni sociali non solo sussstono, ma si fanno più acute sotto le apparenze di una società « moderna », consumatrice di champagne francese (la Rivista della Camera di Commercio recava: « Lo champagne: nelle Antille è il Re Sole delle feste familiari in ogni ambiente... »). L’emigrazione, incoraggiata dal governo francese, si offre come unica alter­ nativa. Dopo una sollevazione popolare in Guadalupe nel 1969, si pose in atto il Piano Nemo, ideato dal generale dallo stesso nome, che proponeva ai giovani di recarsi in Francia a fare il servizio militare, con la promessa di una formazione professionale. Nel 1963 era stato creato l’Ufficio delle Migrazioni dei Doms. Oggi, una parte significativa della popolazione tra i 18 e i 35 anni è emigrata. Si calcola che un terzo dei guadalupensi risieda in Francia, facendo quei lavori che il francese (di Francia) disprezza. Dopo gli anni 60, sollevamenti popolari mettono alla prova la fragile stabi­ lità sociale. L’ultimo scoppio di malcontento popolare occorso in Guadalupe nel maggio di quest’anno è stato provocato dalla collera per la prepotenza e l’ingiu­ stizia dei bianchi. Stanchezza di una popolazione che chiede di essere rispettata. I guadalupensi pretesero ed ottennero la libertà di Faisans, maestro nero che sim­ bolizzava l’orgoglio nazionale contestando la prevaricazione del bianco. Dall’inizio della colonizzazione, il dominio economico è rafforzato dalla subor­ dinazione razziale. I creoli bianchi, oltre a possedere i mezzi di produzione, go­ dono di tutto il potere politico. La popolazione nera, discendente dagli schiavi deportati dall’Africa, non arriva a spezzare le catene della sua emarginazione. In­ tanto, la minoranza mulatta cerca di imitare il bianco. Non si spiega il modello di dominazione coloniale senza la partecipazione di questo settore sociale: il con­ cetto di dipendenza implica l’associazione delle classi privilegiate della metropoli con le donne antillane. La piccola borghesia, rappresentata in gran parte dai fun­ zionari, che hanno uno stipendio maggiorato del 40% per il fatto di lavorare in colonia, si sente coinvolta nell’ordine coloniale. Mitterrand : una nuova politica? Nel 1981, il governo socialista di Mitterrand, constatando che la struttura di55 partimentale non lasciava spazio all’iniziativa locale, iniziò una nuova politica veiso le colonie. Non era in questione la concessione o meno dell’indipendenza, ma come incrementare una maggiore decentralizzazione e riforme economiche che avreb­ bero dovuto creare le prime basi verso l’indipendenza. Il nuovo governo mostrò la sua buona volontà liberando undici militanti indipendentisti di Guyana e Gua­ dalupe, incarcerati in Francia in attesa di processo. Parallelamente, furono ritirati i 320 poliziotti antisommossa portati in Martinica nel 1980 per combattere il « terrorismo ». Andò creaendosi una spaccatura all’interno del Partito socialista fra gli « ideo­ logi » e i modc.-nti pragmatici. Sotto l’influenza degli ideologbi — Regis Debray tra questi — si rafforzarono i rapporti con Cuba, si diede appoggio alle forze nvoluzionarie centro-americane, si diede aiuto economico alla Grenada di Bishop e si considerò la necessità di avanzare verso l’indipendenza degli enclaves francesi nei Caraibi. Assumendo per dato che ogni popolo colonizzato desidera la sua li­ berazione, gli ideologhi non presero in considerazione la complessità della situa­ zione caribegna. Una politica che suscitò il rifiuto tanto della destra come dei partiti progressisti. I gruppi indipendentisti ripresero le loro attività nel 1983. In maggio si re­ gistrarono una ventina di esplosioni in Martinica, Guadalupe, Guyana, e anche a Parigi. Una nuova organizzazione l’Alleanza Rivoluzionaria Caribegna (Are) se ne attribuì la responsabilità. Mitterrand inviò truppe in Guadalupe allorché, in novembre e dicembre, esplosero altre bombe. La situazione andò aggravandosi: in aprile dell’84 l’Arc fece scoppiare 14 bombe in Guadalupe. Il governo francese mise fuori legge l’organizzazione. Cosi, verso la metà dell’84, il governo socialista si ritrovò ad applicare le stesse misure repressive che aveva criticato all’amministrazione precedente. I rapporti con le colonie continuano ad essere un rompicapo per il governo. Su « Caribbean Review » S. MacDonald e A. Gastmann riassumono cosi l’attuale dilemma della Francia: « A differenza del governo socialista olandese che portò il Surinam all’in­ dipendenza nel 1975 e che cerca di rompere i suoi legami con le Antille Olandesi, i socialisti francesi si trovano prigionieri di un lungo processo storico di assimila­ zione economica e culturale che il loro stesso partito agli inizi appoggiò. In un certo senso Mitterrand e l’attuale governo francese si vedono immobilizzati. Gli ideologhi non possono proporre l’indipendenza, gli indipendentisti locali non mo­ bilitano la popolazione e i pragmatici non possono risolvere i problemi socio-eco­ nomici antillani ». L’atteggiamento interventista della Francia in Africa, in particolare nel Ciad, testimonia della sua poca disposizione a rinunciare ad essere potenza coloniale. Indipendenza? Domani... Questo complesso rapporto di forze, come anche l’assenza di una struttura economica autonoma, fanno si che lo scontento delle popolazioni antillane non abbia potuto essere capitalizzato dai movimenti indipendentisti. Il timore di’ rompere con la metropoli (alimentato sempre dalle autorità: « Indipendenza? Guardate Haiti... ») si è manifestato piu volte nelle urne. Conservatori come De Gaulle e Giscard d ’Estaing, che mai hanno considerato come possibile l’indipen­ denza, sono stati appoggiati dai voti antillani. Nelle elezioni politiche del 1981 alla destra riusci di far identificare la sinistra con l’opzione di una indipendenza imposta. Mitterrand ebbe solo il 25% del voto caribegno mentre a livello na­ zionale vinse col 52%. La Autonomia è divenuta la piattaforma dei partiti tradizionali della sinistra. Aimé Césaire stima che il movimento verso l’indipendenza dovrebbe esser gra56 duale, non immediato: una rottura troppo brusca dei legami coloniali potrebbe pro­ vocare un collasso economico che porterebbe all’instaurarsi di dittature militari come in America latina. I partiti comunisti e socialisti antillani temono, non senza ragione, l’ingerenza degli Stati Uniti. Argomentano che queste minute isole lasciando l’orbita francese cadrebbero in quella nordamericana, piu conservatrice e meno tollerante. Questi partiti si mantengono distinti dai partiti metropolitani che, apparentemente, non hanno assunto su di sé la specificità dei problemi coloniali. Né hanno sviluppato rapporti con i dirigenti politici delle vicine isole anglofone, influenzati dal mo­ vimento di Potere Nero. La reciproca misconoscenza che regna tra le nazioni del Caribe fa si che la politica viene pensata quasi esclusivamente su scala locale. È anche difficile valutare la forza dei movimenti indipendentisti. Le varie forze sociali e politiche riconoscono che la « dipartimentalizzazione » non può risolvere i problemi acuti delle colonie, ma senza dubbio la paura della separazione è piu forte. In Guadalupe il Movimento indipendentista pare essere maggiormente radicato al livello studentesco e, in qualche modo, nel settore bananiero. Soltanto nel 1963 l’indipendenza fu pubblicamente preconizzata da organizzazioni nazionaliste rag­ gruppate nel Gong (Grupo de organización nacional de Guadalupe). La situazio­ ne politica nelle colonie andava deteriorandosi. Nel marzo e maggio 1967, a causa di moti sociali, il governo francese arrestò una trentina di militanti guadalupensi, decimando cosi il Gong Nel decennio degli anni ’70 emergono forze politiche apertamente indipendentiste slegate dai partiti tradizionali. Nel 1978 nasce la Uplg (Union popular para la liberación de Guadalupe) a tu tt’oggi la forza princi­ pale. Tuttavia, nel 1981 e 1982, sorgono due nuove organizzazioni, il Klpg e l’Mpgi. Nel 1983 la Are inizia azioni terroristiche al margine della Uplg, che ri­ fiutava l’uso di questi metodi (che pure erano il riflesso dell’impazienza di nu­ merosi militanti). In Martinica, il Movimento indipendentista ha avuto meno importanza che in Guadalupe. Da 40 anni la scena politica è dominata dalla figura di un uomo, Aimé Césaire. Benché avesse sostenuto la necessità dell’Autonomia — esaltando sem­ pre l’affermazione della propria identità culturale — il Ppm di Césaire, con la ele­ zione di Mitterrand propose una moratoria circa lo status dell’isola. Tale posi­ zione sembra aver indebolito l’« effetto Césaire » in Martinica, oltre ad aver pro­ vocato scissioni nel Partito, come è il caso di una sezione di Parigi capeggiata dal­ lo stesso figlio del leader carismatico, Jean Paul Césaire. In Guyana, il Fronte nazionale di liberazione di Caienna, partigiano dell’in­ dipendenza, ha fissato il 1987 come data limite per ottenerla. Questa organizza­ zione ha denunciato i nuovi programmi di colonizzazione portati avanti dai fran­ cesi sul suo territorio. Essi si riferiscono piu particolarmente ai Hmongs, rifugiati laotiani che stanno istallandovisi fin dal 1977. Questi mercenari avevano com­ battuto a fianco dei francesi durante la prima guerra d ’Indocina, e furono poi uti­ lizzati dalla Cia per combattere i movimenti nazionalisti del Laos e del Sud Vietnam. Guyana francese colonia emarginata Unico paese del continente latinoamericano ancora dipendente totalmente da uno stato europeo. Colonia occupata da piu di 300 anni, e tuttavia mai sfruttata. Annesso alla Francia nel 1604, quest’immenso territorio inospitale e sottopopolato servi da base militare per la difesa dei ricchi possessi caraibici. Quando diminuì 57 il potere coloniale francese, la metropoli pensò di sfruttare questa colonia margi­ nale. Nel 1763 inizia una colonizzazione massiccia. Il risultato fu catastrofico: morirono 7.000 dei 12.000 coloni europei. Da allora la Guyana è conosciuta come l’« Inferno Verde » o il « Cimitero europeo ». Tale reputazione servi per instal­ larvi la famosa colonia penale della Cajenna, che funzionò dal 1851 fino al 1947. Con i prigionieri la Francia pensava di sviluppare la colonia, oltre a sbarazzarsi della sua « immondizia umana ». Né ciò contribuì alla evoluzione della popola­ zione poiché, una volta liberati, i prigionieri se ne andavano via. Si può parlare di un popolo guyanese? Oggi i 91.000 kmq della Guyana sono popolati da 73.000 abitanti: piccoli gruppi di indigeni dell’interno, negri cimar rones discendenti dagli schiavi che vivono lungo il fiume Maroni, i « metropoli­ tani » che restano solo pochi anni... qui i coloni non formano un gruppo poderoso come i bekés antillani. Ci sono anche i 500 Hmongs del sud-est asiatico portati qui nel 1977, la cui immigrazione delle migliaia previste fu frenata dalla mobilitazione popolare. Parallelamente si è andata sviluppando una immigrazione incontrollata di brasiliani, surinamesi e, soprattutto, haitiani. Cosi, la mancanza di una forte coesione nazionale ostacola l’organizzazione di un movimento indipendentista. La ristretta base economica non permette uno sviluppo autonomo. La Guyana è una colonia di alti consumi che non produce quasi niente ed importa quasi tutto, dagli alimenti ai pali telegrafici. L’incorporazione della Guyana alla metropoli come Dom nel 1946 migliorò le condizioni di vita, ma il tutto finanziato dai trasferimenti governativi e non da uno sviluppo produttivo. Le poche risorse risultano difficili da sfruttare. Le ricchezze potenziali — le­ gname, bauxite, nikel, oro — non vengono sfruttate per l’assenza di una valida infratsruttura economica. È fallito anche il sistema della piantagione, sia per ra­ gioni climatiche che per la bassa densità degli abitanti. Verso la fine del 19mo se­ colo la scoperta dell’oro pone fine allo scarso sviluppo agricolo. Il legname, ri­ sorsa di gran lunga la piu importante del paese, anche per la fluttuazione del mer­ cato internazionale, non è stato mai sfruttato industrialmente dalla Francia. Le risorse minerarie, troppo limitate, non giustificano i costosi investimenti. La pe­ sca, soprattutto crostacei, viene sfruttata da compagnie nordamericane e giapponesi. La Guyana non è nemmeno un mercato per i prodotti metropolitani. Né c’è una manodopera di facile impiego. Tutto pare indicare che l’interesse della Fran­ cia per questo Dom si riduce quasi escusivamente al valore strategico della base spaziale di Kourou, « città bianca » incrostata nel paesaggio. La Guyana vive dunque un dilemma ancor piu lancinante che Martinica e Guadalupe. * Vr Ve Frantz Fanon, nato in Guadalupe, ha scritto ne I condannati della terra: « Quando si pensa agli sforzi prodotti per ottenere l’alienazione culturale cosi ca­ ratteristica dell’epoca coloniale, si capisce che nulla è stato lasciato al caso. Si do­ veva convincere l’indigeno che il colonialismo lo avrebbe strappato alla morte (..) e che la dipartita del colono lo avrebbe riportato alla barbarie, alla animalizzazione ». Invertire questo processo... compito delle forze di liberazione. 58 Programma indipendentista Conferenza Internazionale delle ultime colonie francesi I movimenti indipendentisti dei Tom e dei Dom si sono riuniti per la prima volta in Guadalupe dal 5 al 7 aprile del 1985. Le pressioni della destra sia in Francia che in Guadalupe non sono riuscite ad impedire lo svolgimento dell’incontro, anche se hanno raggiunto lo scopo di impedire la partecipazione di invitati stranieri ai quali è stato negato il visto. Le delegazioni indipendentiste hanno dimostrato di non essere un pugno di terroristi, tanto per il numero quanto per la piattaforma di alternativa impostata dalla Commissione per la Decolonizzazione e lo Sviluppo circa la problematica eco­ nomica. Dall’analisi della dominazione coloniale emergono come problemi fondamentali la disintegrazione dei settori produttivi, la sottomissione totale alle ne­ cessità economiche della metropoli e l’ipertrofia del terziario. A ciò si aggiunge un tasso di disoccupazione del 30% della forza di lavoro, malgrado l’emigrazione massiccia dei giovani in Francia. Sviluppo indipendente. Una volta conquistata l’indipendenza, sarà dato il via ad uno « sviluppo autocentrato ed integrato ». Ciò è a dire uno sviluppo multila­ terale, che privilegi le necessità popolari e che si basi sulle forze e le risorse lo­ cali. Si respingono i modelli « produttivisti », il che a sua volta implica il cam­ biamento delle abitudini alimentari per ridurre drasticamente le importazioni. Il ritorno alla autosufficienza alimentare richiede necessariamente una riforma agra­ ria, la riconversione delle terre dedicate alla esportazione agricola, il controllo del commercio estero, una politica industriale subordinata ai bisogni dell’agricol­ tura, la pianificazione dello sviluppo e la partecipazione del contadiname al pro­ cesso decisionale politico ed economico. Cultura creola. Tutti i movimenti appoggiano la resistenza all’assimilazione culturale. La lingua creola — vecchio idioma degli schiavi, mezzo di comunicazio­ ne quotidiano della popolazione nera — va usato non solo nella letteratura ma come strumento di lotta politica. Il creolo è un mezzo di avvicinamento alla popo­ lazione contadina, è sfida all’ordine metropolitano, è riflesso di autodifesa ed è mezzo di comunicazione con altri paesi del Caribe come Haiti e Dominica. don-allineamento effettivo. Si distanziano dai partiti comunisti locali. « Non vogliamo uscire da un club per entrare in un altro ». Ciò significa anche rifiuto del « colonialismo nucleare », americano o francese. Nel Caribe ciò si esprime nella critica al modello sovietico-cubano, anche se si riconosce il credito morale della rivoluzione cubana. Il futuro del movimento indipendentista dei Dom-Tom? Michel Capron e Jean Chesneaux su « Le Monde Diplomatique » pensano che per rispondere a questa domanda occorra evitare di paragonare questi movimenti alle lotte di liberazione di Indocina, Algeria o delle colonie portoghesi; « Lungi dall’essere i sopravvissuti di un tempo passato, essi sono ancorati al mondo degli anni 80 (...) e, soprattutto, il modello occidentale che contestano non è — come vent’anni fa — un modello in entusiasmante espansione. Oggi questo modello è in crisi (...). Agiscono in un mondo che dubita di se stesso. Questa è la loro originalità, forse la loro fortuna.. ». 59 Battaglia di Otumba 60 José Antonio Viera Gallo Memorie dell'esilio Come trasmettere, in brevi istanti, un’esperienza d ’esilio, che nel mio caso, è durata per oltre dieci anni ed è stata vissuta senza sapere quando potesse finire? L’esilio è un tempo indeterminato, come la vita. La sua fine sfugge alla volontà di chi ne è colpito Dipende dalle vicende politiche, dalle decisioni del potere che lo ha provocato e lo prolunga, o dalle circostanze fortuite della storia. Da sempre, l’esilio è stato considerato una punizione particolarmente crudele e, insieme, un archetipo dell’esistenza umana. La norma che lo stabilisce come sanzione e la decisione che lo applica a un caso particolare, rendono esplicito il nostro modo d ’essere precari nel mondo. Categorie fondamentali della nostra cultura si sono costruite intorno ad alcuni elementi propri dell’esilio: una « terra » che si è costretti ad abbandonare (un paradiso perduto), che si rimpiange, idealiz­ zandola nella memoria, che si tenta di ricreare con l’azione; una protezione pri­ migenia perduta e una pena da espiare; la condizione di chi va vèrso orizzonti da scoprire; il darsi totale e definitivo all’imprevisto e all’imprevedibile; vagabondi in terra di nessuno. Abramo e Ulisse, Mosé ed Enea sono personaggi prototipi del­ l’impresa di fondare un popolo nuovo lasciando dietro di sé quello conosciuto, il ritorno rischioso alla casa, la lotta per uscire dalla schiavitù e trovare una pro­ messa realizzata, la costruzione di una nuova città, caduta quella originaria travolta dalle fiamme della guerra. E ci sono anche Adamo, Èva e Caino, Oreste ed Edipo. Piu profondamente ci addentriamo nel substrato della nostra cultura, piu scopria­ mo la condizione fondamentale dell’abbandono esistenziale, questo nostro essere attaccati alla vita, spinti alla ricerca della soluzione dell’enigma del labirinto, tra il ritorno e la creazione, agendo e sperando. Queste categorie culturali che si muovono in funzione dell’esilio, sono la nostra percezione della storia, del de­ stino, della colpa e del dramma che qui rappresentiamo. 61 L’esilio ha molteplici e profondi significati politici e sociali, psicologici e re­ ligiosi. L’offesa è il vivere questa condizione comune di viandanti separati dalla co­ munità naturale e dalla terra natale, dove la nostra vita acquisisce pieno significato. 11 mio esilio non ha avuto una causa strettamente individuale. È stato conse­ guenza del cataclisma sociale, della frattura tagliente della società cilena culmi­ nata nella ribellione militare del 1973, le cui conseguenze di rottura e dolore hanno segnato finora la vita di tutti i cileni. Per molti ha significato la fine di un progetto personale e collettivo. Per tutti, più o meno, vincitori e vinti, è stata l’inizio di una spirale di aggressività e violenza che ancora non cessa. Un’altra sfida, fondamentale, è l’adattarsi a una nuova realtà. Tutto è diverso. La scala di valori con cui guardare la vita è un’altra. Bisogna affrontare nuove idee, altre lingue, altre abitudini, altre tradizioni. La prima reazione oscilla tra il rifiuto e l’assimilazione indiscriminata. A volte i due poli si combinano con risultati grotteschi. Il problema è come adattarsi e vivere il più normalmente possibile nel paese d ’esilio, senza perdere la propria identità cilena. Nel giusto risolvere questa tensione si gioca, in buona parte, l’equilibrio psicologico e fa­ miliare. Si mette alla prova la personalità e lo spessore della propria identità. Il problema non si risolve in un certo periodo di tempo. Si prolunga per tutto l’esilio. Non è passato giorno, per dieci anni, che io e mia moglie non par­ lassimo dell’esilio e del ritorno in Cile. Si ha la coscienza di essere sempre stra­ nieri e, come tali, quella della propria estraneità rispetto alla società in cui si vive, la coscienza di condurre una doppia vita: come cittadino comune e come esiliato che ha nostalgia di tornare al suo paese. Questa specie di schizofrenia, comune a ogni straniero, nell’esiliato è più forte, perché è permanente e non ha una fine prevedibile. Lo straniero è, soprattutto, un osservatore, non un protagonista. Lo choc con nuova cultura provoca anche un ristrutturarsi dei ruoli familiari. Cambiano i rapporti tra la coppia, e tra genitori e figli, specie quando questi ulti­ mi stanno crescendo. Di solito, l’esilio colpisce legalmente un membro della fa­ miglia, quasi sempre l’uomo, e ciò comporta l’espatrio per tutti. I cambiamenti avvenuti nelle donne durante l’esilio sono stati profondi. Con una nuova coscienza della loro dignità, le donne hanno contribuito a mettere in crisi un particolare tipo di famiglia patriarcale o machista. E, poi, si mette sotto tensione l’unità familiare quando la moglie si domanda se seguire la sorte del marito o tornare in Cile. L’esilio può unire maggiormente una coppia facendo condividere ai due una espe­ rienza tanto dura e lunga, o può portare alla separazione. Con i figli succede lo stesso. Difficilmente fanno proprio l’esilio dei genitori e le circostanze che lo hanno provocato. Tendono a inserirsi, ad assimilarsi nel paese e a guardare i ge­ nitori come stranieri. La famiglia non può chiudersi alle nuove possibilità. Si pro­ ducono, allora, lacerazioni, conflitti. La nascita di una terza figlia è stata, per noi, un atto di fede nella vita. L’esilio è anche ricerca di sicurezza. E, tuttavia, la repressione si estende an­ che agli esiliati. Basti ricordare l’attentato contro Bernardo Leighton, che abbiamo vissuto molto da vicino, per non parlare della morte di Carlos Prats e Orlando Letelier. Neppure la lontananza garantisce la sicurezza. Ho ricordato i casi più noti e drammatici, ma mi riferisco anche a una componente generale della vita dell’esiliato, segnata, specie nei primi anni, dall’incertezza del domani. Ma, indubbiamente, ciò che più caratterizza l ’esilio è il vivere lacerati tra un passato a cui si cerca di far ritorno e un futuro in cui si spera che il ritorno diventi possibile. Il presente, invece, appartiene alla disgrazia. Si vive pensando al Cile. Attenti alla più piccola notizia, ai giornali, alle rivi­ ste, ai cable. Uno cerca di conservare il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra. Con il tempo, le immagini del paese si sfuocano, trasformandosi piuttosto 62 in sensazioni; o si ricorda con esattezza fotografica — come dice José Donoso in El jardin de al lado — luoghi e angoli determinati: un pezzo di mare, un albero, una strada, la casa, un cinema. Il Cile diventa un’astrazione, oggetto di riflessione e discussione politica. Ciò che si rimpiange, invece, sono gli elementi della vita che si è lasciata, immagini inserite in un tempo indefinito, quasi come nei sogni. Sono i segni del senso della nostra vita trasposti in un gioco di specchi. La spe­ ranza di ricuperare il passato diventa nostalgia, sensazione di lontananza, separa­ zione. Gli incontri con persone care che di questo significato perduto fanno parte, sono intensi, ma fugaci, e finiscono sempre in una stazione o in un aeroporto. Questa nostalgia profonda impedisce a molti di trarre frutto dai beni del presente, provocando un totale disadattamento all’ambiente. Altre volte si pretende di soffocare questi sentimenti quasi ancestrali, di vivere come non esistessero. Pas­ siamo con facilità da un estremo all’altro, dipendenti da elementi diversi che sfug­ gono al nostro controllo: un giorno rimpiangiamo il Cile (o alcuni suoi aspetti) con tanta forza che tutto il resto non ha piu significato; un altro giorno, invece, una bella e limpida giornata di sole — per esempio a Roma — ci invade, ci pos­ siede, allontanando i ricordi. Tutti questi elementi — sopravvivenza, adattamento, insicurezza, nostalgia — provocano in molti esiliati una crisi della vita come progetto, come speranza, co­ me significato. La molteplicità dell’esistenza, aperta a differenti possibilità, in cui la volontà incide, sembra ridursi a un solo scopo — tornare in Cile — che, para­ dossalmente, non è nelle facoltà dell’esiliato. La meta del ritorno non può riem­ pire una vita. Può provocare maggior disadattamento, se è vissuta in modo osses­ sivo. Si perde cosi il significato della vita, per non parlare della gioia di vivere che appare, ovviamente, fuori luogo. Ci sono stati alcuni casi di suicidio. Ricordo le drammatiche parole della lettera che Laura Allende ha scritto poco prima di mo­ rire chiedendo l’intercessione del Papa per ottenere il permesso di morire in Cile. C’era, dentro, una profonda tristezza. Pochi anni prima aveva deposto un fiore rosso sulla bara di un cileno morto suicida a Roma. In quell’occasione abbiamo saputo che, per un decreto dei primi anni del regime, il corpo di un esiliato può essere sotterrato in Cile solo dieci anni dopo la sua morte. A meno di un per­ messo speciale. Abbiamo pensato, allora: neppure le ossa possono riposare nella nostra terra! E ci sono stati funerali in cimiteri stranieri. Ma, lasciando da parte la soluzione estrema della morte, l’esilio inasprisce i fattori di nevrosi insiti in ogni persona. Ma offre anche occasioni positive, che si possono riassumere nell’arricchi­ mento personale, frutto del contatto con altre realtà e dell’esperienza della solida­ rietà. Il passaggio dal Cile all’Europa si inserisce in una lunga tradizione di malin­ tesi culturali. Le élite latinoamericane sono vissute pensando all’Europa, quasi co­ me esiliati nella propria terra, cercando di riprodurvi le realtà del vecchio mondo. E, con il passare del tempo, si sono convinte di aver realizzato il loro proposito e, pertanto, guardano al mondo come vivessero in Europa, ritenendo il loro par­ ticolare punto di osservazione come inserito in uno spazio centrale. Ciò è partico­ larmente vero per il Cile. Vivere veramente in Europa consente di porre fine a questo mito, di porlo in termini relativi e di scoprire, insieme, le vie che portano al vero Cile e le caratteristiche contraddittorie e peculiari che configurano que­ sta entità storico-culturale che con tanta facilità chiamiamo Europa. Lo sguardo, allora, diventa piu ampio e piu preciso. Si capisce meglio quale posto occupino il Cile e l’America latina in un sistema internazionale sempre piu complesso, unificato e transnazionale; si avverte la necessità dell’ammodernamen­ to, e che esso metta radici nelle nostre tradizioni e segua rotte originali; si vive 63 il nostro esacerbato nazionalismo non come una virtu tale da dare impulso allo sforzo collettivo, ma come una specie di provincialismo retorico e sterile; si pren­ dono le distanze dalla propria esperienza come nazione e se ne apprezzano altre, assumendo la diversità come una qualità. L’esilio può trasformarsi in una scuola obbligata di « mondialità ». Il cosmo­ politismo ben digerito arricchisce il paese di origine, se esso è capace di abbattere le barriere della separazione e assimilare esperienze dissimili, ognuna con la sua ricchezza. Mi è impossibile dilungarmi sulle particolarità italiane, anzi romane, del mio esilio. Pensavo spesso all’effetto che avrebbe avuto sul Cile di allora il ritorno dei gesuiti espulsi, come Lacuza o l’abate Molina, morti in Italia. Il rifugio alla Nunziatura apostolica, la mia permanenza li per quattro mesi in attesa del salvacondotto, il viaggio verso l’Italia e l’inizio dell’esilio, sono stati un itinerario forzato. Ci potevano essere altre alternative? Sono uscito una mat­ tina presto da casa mia, lasciando tutto, con la consapevolezza che era una par­ tenza definitiva. Tutto lo faceva prevedere. In giorni cosi aspri, carichi di solitu­ dine e incertezza, quando ogni costruzione personale crolla, il persistere degli af­ fetti, specie quello della moglie, consente di indirizzare le forze della vita verso nuovi progetti e latitudini. La rottura della partenza, per quanto lacerante, non è mai definitiva. Ci sono continuità fondamentali che fluiscono e consentono, no­ nostante rutto, la speranza. Lasciare il Cile in quelle circostanze è stato qualcosa di lacerante (anche se l’addio s’era, in qualche modo, consumato lo stesso 11 settembre) e insieme pieno di forza di futuro. Alle spalle, rimaneva un mondo di morte. Il rincontrarsi con la famiglia e la volontà di ricostruire la vita in un altro paese prendeva tutta la co­ scienza. Abbiamo preso l’aereo contando soltanto sul nostro slancio e sulle respon­ sabilità che avevamo nei nostri confronti e in quelli delle nostre bambine. Ci aspettava l’ignoto. L’esilio porta con sé un cambiamento fondamentale delle dimensioni dello spazio e del tempo in cui trascorre la vita. Essa deve assumere un altro signifi­ cato. E ciò pone di fronte a una serie di sfide, cui voglio accennare. Anzitutto c e quella della sopravvivenza, della sussistenza materiale. Cercare e trovare lavoro diventa l’ossessione prima di ogni esiliato. Farlo in una società estranea, dove si parla un’altra lingua, dove c’è un alto indice di disoccupazione e dove i propri titoli, studi accademici o capacità professionali contano poco, è molto difficile. Per la prima volta ho sperimentato la precarietà materiale, anche la povertà relativa, anche l’essere oggetto di solidarietà. C’era un enorme con­ trasto tra l’importanza politica che si attribuiva in Europa agli esiliani cileni e le reali possibilità che ci si offrivano di inserirci nella società. Variavano da paese a paese. In genere, noi esiliati abbiamo sviluppato una enorme capacità di lottare per la vita, ci siamo uniti, ci siamo aiutati, a volte anche a rischio della chiusura, del ghetto. In Cile, interessatamente o no, si è proiettata l’immagine dell’« esilio dorato », specie in Europa. Niente è piu lontano dalla realtà. L’esiliato cileno — tranne rare eccezioni — finisce nel settore marginale della società che lo accoglie, e ne condivide tutti gli svantaggi. Oltre ad aprire la coscienza alla diversità, l’esilio è anche occasione di solida­ rietà. Anzitutto, quella tra cileni che si incontrano lontani dalla patria. Nel no­ stro caso, abbiamo avuto la fortuna di viverlo con un gruppo di amici carissimi, che hanno reso la nostra permanenza a Roma meno solitaria, piu umana. Questi amici si sono trasformati, per cosi dire, in una nuova famiglia. Forse il ricordo di una persona morta può essere il simbolo di questo darsi completamente agli altri, vissuto ogni giorno per otto anni. Gloria Montes, moglie di Julio Silva Solar. Ha sempre saputo accogliere tutti i cileni, ascoltarli, condividere. 64 A Roma, la convivenza tra cileni era spontanea, senza falsi formalismi: rom­ peva le barriere dell’età e della condizione sociale. A volte bisognava tendere la mano. Altre volte, qualcuno ce la tendeva. I rapporti umani erano più traspa­ renti, veri. La solidarietà italiana con il Cile è stata impressionante. Il popolo italiano e i suoi dirigenti hanno vissuto gli eventi del Cile con coscienza di fratelli. La nostra tragedia evocava in loro un passato triste. Sono centinaia le piazze e le strade che ricordano il Cile, in città grandi e piccole. Sono state molte le braccia che si sono aperte per accoglierci, da tutte le forze dell’arco politico costituzionale; ma non si è trattato soltanto di solidarietà affettiva. C’era anche un interesse politico e culturale. Ci sono stati molti scambi di informazioni e posizioni. Gli avvenimenti cileni hanno influito in modo decisivo sull’evolversi della situazione politica ita­ liana con l’esperienza di « solidarietà nazionale » e anche ora, quando si discute di alternanza al governo e alternative politiche. Credo di non sbagliarmi affer­ mando che, almeno in certi settori politici cileni, l’esperienza italiana e le posi­ zioni dei suoi principali partiti hanno avuto un’influenza positiva nel far maturare una coscienza democratica più solida e aperta. Lo scambio, nato dalla solidarietà, ha dato i suoi frutti. Devo parlare anche dell’incontro con altri esiliati latinoamericani (uruguayani, argentini, brasiliani) e no. Un aneddoto può servire: in una delle prime manife­ stazioni per il Cile, mi è capitato d ’essere seduto vicino al poeta Rafael Alberti, che viveva fuori dalla Spagna — prima a Buenos Aires e poi a Roma — dalla fine della guerra civile. Quando ha saputo che avevo lasciato il Cile qualche settimana prima, mi ha guardato con compassione e mi ha detto di essere stanco di queste manifestazioni e celebrazioni. Si è stabilita subito tra noi una comunicazione franca. Mi è nato dentro, con tutta la sua drammaticità, il problema della durata dell’e­ silio. Quando, in quel periodo, si andava nel sud della Francia, si incontravano famiglie spagnole che erano vissute pensando al ritorno. In Alberti, che abbiamo poi incontrato altre volte o vedevamo spesso passeggiare lungo il Tevere, questo dramma era come personificato. Anche nella Pasionaria. Quando ha festeggiato a Roma i suoi 80 anni, in una grande manifestazione cui hanno assistito tutti i diri­ genti della sinistra europea, ha parlato della riconciliazione e della unificazione della Spagna, del guarire le ferite della guerra civile: e del ritorno a Madrid. Un altro caso singolare è stato quello di Paulo Freire, che avevo conosciuto esiliato in Cile ai tempi governo Frei e ora lavorava in Svizzera, nel Consiglio mondiale delle chiese, rimpiangendo il Cile e il Brasile. Abbiamo visto partire molti di questi esiliati. E, invece, pensavamo che sa­ remmo stati i primi a tornare. Ma sono partiti prima di noi i brasiliani, i porto­ ghesi, i greci, gli spagnoli (anche Alberti), gli argentini, gli uruguayani, gli iraniani. Alcuni iraniani, poi, sono tornati a Roma: ci siamo allora resi conto che anche l’esilio può ripetersi Il turno dei cileni non arrivava mai, e quando è giunto lo è stato in modo del tutto imprevisto. Immaginavamo il nostro ritorno — come lo racconta la storia biblica della fuga in Egitto — legato alla fine delle ragioni che lo avevano de­ terminato. Non è stato cosi. Sono cominciati a giungere i permessi individuali, come concessione delle autorità, prima privatamente, poi in elenchi pubblici. Ciò ha creato una grande ansia nella comunità degli esiliati. Le domande nascevano spontanee: perché hanno concesso il permesso al tale, e a me no? C’è un criterio? E, se ce, quale? L’incertezza sul diritto può essere peggiore dell’ingiustizia della norma. Per questo, l’elenco pubblico dei nomi di tutti quelli che non possono tor­ nare deve essere considerato, paradossalmente, come un successo nella difesa dei diritti umani. 65 Il nostro ritorno non è stato come quello degli altri esiliati. Non è coinciso con la ritrovata libertà. E non ha avuto neppure carattere di massa. Siamo tornati a poco a poco e lo abbiamo fatto, praticamente, nelle stesse condizioni in cui era­ vamo partiti. Il Cile, anche se in proporzioni diverse, continua a essere radical­ mente diviso. Non voglio dilungarmi a descrivere l’itinerario del ritorno: da quando si riceve la tanto attesa chiamata telefonica (puoi tornare!) a quando, finalmente, si scor­ gono le Ande e si calpesta il suolo della patria, dopo essere passati per le trafile burocratiche, gli addii e — perché non ammetterlo? — la tristezza di lasciare l’Italia, questo paese meraviglioso che Neruda ha chiamato la Cina d ’Europa per la molteplicità del suo ingegno, per la laboriosità, e dove abbiamo vissuto anni tanto importanti della nostra esistenza. Non abbiamo forse sempre negli occhi, le pietre di Roma, le sue strade, le piazze, i palazzi, le sue rovine e le sue chiese, il segno indelebile del ricordo? Questa città non è forse diventata nostra come Santiago? Due città diverse, addirittura opposte, ma unite nella nostra vita. E comincia così il reinserimento in Cile. È duro. Le porte non sono spalan­ cate, tranne che negli ambienti familiari o affettivamente piu vicini. Le menti non sono preparate. Il paese è cambiato. Difficile dire in che senso e direzione. Il tempo è trascorso piu denso e veloce che nella nostra coscienza. L’esiliato ha piu presente il passato, ma, forse, ha anche piu volontà di futuro. La società cilena cerca e protesta, ma convive con l’anormalità fino a perdere ogni capacità di stu­ pirsi e si afferra alla sicurezza del presente. Poco a poco comincia il difficile ap­ prendistato delle nuove norme di condotta, dei valori, degli usi. Questa volta, co­ me la prima, e dopo aver respirato la libertà a pieni polmoni, non pretendiamo un adattamento totale. Comincia cosi una specie di esilio nella propria terra, ali­ mentato dalla speranza del cambiamento che adesso, a differenza di prima, dipen­ de almeno in piccola parte da noi stessi. È il passaggio dalla categoria di spettatore a quella di protagonista e ciò vuol dire che l ’esilio è finito. Voglio chiudere con alcune riflessioni sugli insegnamenti che ho tratto da questa esperienza. Anzitutto, ridire una cosa che tutti dicono: nessuno deve piu subire l’esilio. Dobbiamo costruire un futuro in cui esso non abbia spazio né politico, né giuri­ dico, né etico. In secondo luogo, ripetere che l’esilio ha cambiato la nostra percezione del mondo e dei suoi problemi. Non siamo piu quelli che eravamo. Questa trasfor­ mazione si traduce nel dire che abbiamo preso psicologicamente le distanze dal complesso dei processi e degli avvenimenti che hanno provocato il cataclisma so­ ciale per il quale abbiamo vissuto l’esilio. Lorse possiamo guardare con maggiore obiettività il dramma in cui tutti siamo stati e continuiamo a essere coinvolti, e di cui ancora non si vede lo sbocco. In contatto con altre realtà, abbiamo ridimen­ sionato le nostre sofferenze, le nostre prospettive e speranze individuali e collet­ tive. Anche le legittime scelte ideologiche e politiche, perché abbiamo capito l’im­ portanza fondamentale che ha l’adesione reale — non a parole — alla battaglia per i diritti umani, come codificati dall’attuale diritto internazionale. Questa è la base del pluralismo e del consenso e deve essere il cemento dello stato. Quando vengono sistematicamente violati, la società — come diceva Cicerone, che nel suo esilio greco aveva nostalgia perfino dell’odore delle cloache di Roma — perde spessore, robustezza e razionalità. Quando il diritto viene sostituito dall’arbitrio, nell’ordine imposto si ingenerano anarchia e violenza. In terzo luogo, la convinzione che la politica deve partire dall’analisi dei pro­ blemi reali del paese, e non da modelli o schemi generali. Dobbiamo rieducarci al­ l’analisi, al dialogo, all’impegno, alla mediazione tra interessi divergenti e anche 66 contrapposti, in una società immersa in un mondo in rapido cambiamento. Le grandi imprese politiche — e la riconquista della democrazia lo è — si misura­ no soprattutto dagli effetti che producono e da ciò che concretamente si raggiunge. Non chiediamo l’impossibile, raggiungiamo invece il diverso che ci sta a portata di mano. Ricostruiamo l’unità del Cile. Contribuiamo, per quanto possiamo, a porre fine alle insanabili divisioni del passato e del presente, per riconoscere le nostre differenze e proiettarle in un destino comune. Dobbiamo capire che, di fronte alla nuova epoca che giunge stravolgendo tutte le strutture, gli equilibri e i rapporti sociali, è in gioco la nostra esistenza come paese degno della propria storia. O pensiamo, invece, che la sicurezza sta non nella capacità di tener testa alle sfide e di risolvere i problemi, bensì nel rimandare la crisi volgendo le spalle alla realtà o cercando rifugio nella retorica ideologica? Come può misurarsi con i problemi del futuro, un paese diviso, le cui forze non si sommano, ma si annul­ lano a vicenda? Non si può continuare con almeno 5 mila compatrioti privati del diritto di entrare e vivere nella loro patria. Non ci può essere un Cile al di qua delle fron­ tiere e un altro Cile al di là di esse. Se non si chiude questa ferita, non ci sarà passaggio alla democrazia. L’esperienza insegna che la storia ha le sue scorciatoie e che le società, come la natura, cercano di mettere fine a squilibri e arbitri di tanta ampiezza. Allora, perché non risolvere il problema prima, evitando soffe­ renze inutili e rendendo così possibile un consenso che apra la strada alla nor­ malità sociale e istituzionale? 67 Cuauhtémoc, ultimo capo azteco 68 Culture indigene La politica indigenista brasiliana * Gli indios del Brasile sono meno di duecentomila, suddivisi in circa cen­ toventi gruppi; la popolazione totale del Brasile è di centoventi milioni di persone 12. Questi dati possono fornire l’immediata visualizzazione della condizione di minoranza — non solo etnica — degli indios brasiliani. Il posto degli indios nella società nazionale è stato sempre oggetto di discussione in Brasile. L’indio occupa una posizione alquanto ambigua: come abitante originale del paese, e quindi suo primo possessore, deve essere inte­ grato ed incorporato per rendere legittimo il dominio sul territorio da parte di uno stato che si vuole rappresentante dell’intera nazione. Contemporaneamente, l’indio — costituendo sempre un ostacolo agli interessi economici del paese — è considerato come la negazione del processo di progresso e sviluppo che lo stato brasiliano sta perseguendo con vigore dal 1970 : . Dunque, se da un lato si deve porre attenzione sulla legislazione relativa allo status degli indios brasiliani, dall’altro bisogna tener conto della politica di sviluppo attuata dal Brasile ed incentrata particolarmente sull’Amazzonia. Proprio da quest’ultimo punto converrà iniziare questa breve analisi della po* Un’ampia documentazione sull’argomento è disponibile presso il Centro Studi Amerin­ diani della Fondazione Internazionale Lelio Basso. ' C o u n tr y P rofile: B ra zil , « Survival International News », London, N. 5, 1984, p. 7. 2 Eunice Ribeiro Durham, O lugar do I n d i o , in AA.VV., O I n d io e a cidadania, a cura del­ la Comissào Pró-Indio, Sào Paulo, 1983. pp. 10-19. 69 litica indigenista brasiliana, perché i maggiori contrasti e contraddizioni al suo interno scaturiscono principalmente dagli interessi economici di importanza na­ zionale che vengono messi in gioco, quando si tratta di optare tra benessere e salvaguardia delle popolazioni indigene o benessere ed incremento del bilancio brasiliano. L’area della regione amazzonica brasiliana ha una estensione di circa sei mi­ lioni di chilometri quadrati ed è il territorio di quasi il 70% dei duecentomila indios del Brasile. Dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni ’70, cominciò a di­ spiegarsi in maniera sensibile il piano di sviluppo del bacino amazzonico, non senza cospicui interventi di capitali stranieri3. A questo periodo, difatti, risale il progetto della Transamazzonica, la strada che fu tracciata sulla mappa del Brasile dallo stato di Paraiba (Nordest) al Perù (Ovest) per 5.400 chilometri, e da Santarem (Nord! a Cuiabà (Sud) per 1.670 chilometri, in una specie di croce simbolica che doveva rappresentare la dominazione del progresso e della civiltà sull’ultima grande foresta del mondo. Il progetto prevedeva anche lo spo­ stamento di circa cinque milioni di persone dal Nordest e da altre zone, per far si che venissero colonizzate le aree limitrofe ai due iati della strada, in base alla concezione dell’Amazzonia come terra « disabitata » da popolare con un grande numero di emigranti senza terra. Le cose però non andarono come previsto: i coloni si trovarono ben presto a dover lottare contro le malattie, la mancanza di case, l’assenza di assistenza medica e tecnica, e addirittura contro la terra stessa che, dopo due soli anni di piantagioni, di rivelò arida e quasi sterile. Ventinove gruppi indiani abitavano lungo il tracciato della Transamazzonica: poco si sa di essi. Uno di questi gruppi, gli Arara, fuggi dal proprio villaggio — lasciandolo intatto — quando la strada lo tagliò in due parti. Fino all’83, la maggior parte degli Arara fuggitivi stava ancora vagando nelle due metà del loro antico territorio, rifiutando i tentativi del governo di « attrarli con doni consistenti in cibo e machetes 45. Dopo il grande insuccesso del progetto della Transamazzonica, fu la volta del progetto denominato Polamazonia, che stabiliva quindici aree di sviluppo concentrato in altrettante zone dell’Amazzonia. L’obiettivo era quello di riuscire a migliorare il tenore di vita degli abitanti — brasiliani — di queste regioni, evitando cosi di spostarli da una zona all’altra come era avvenuto con la Transamaz­ zonica. Per ogni area era previsto lo sviluppo di centrali idroelettriche, di alle­ vamento di bestiame, di sfruttamento minerario ed agricolo, oltre al fatto che ogni zona avrebbe avuto il suo particolare settore emergente (la Roraima l’agri­ coltura, l’Aripuana l'energia e l’allevamento e cosi via). Il progetto di sviluppo più recente — presentato nell’82 e strutturato nel­ l’arco di un quinquennio — è il Progetto Carajas \ Il costo totale di esso è di sessantadue miliardi di dollari; l’area della sua realizzazione è la parte orientale dell’Amazzonia ed il centro del progetto è la Serra dos Carajas, da cui appunto prende il nome. La parte principale del progetto concerne il settore minerario: nella sola Serra dos Carajas giacciono nel sottosuolo diciotto miliardi di tonnellate di ferro (che si esauriranno in quattrocento anni), sessanta milioni di tonnellate di man3 Anna Presland, A n acco u n t on c o n te m p o ra ry fig h t fo r su rv iv a l o f th e A m e r in d ia n P eo ­ p les o f B ra zil . « Survival International Review », London, Spring 1979, pp. 14-40. 4 H ig h w a y s o f d e a th , « Survival International News », London, N. 2, 1983, p. 3. 5 Antonio Carlos Moura, N in e in d ig e n o u s p e o p le s on th e p a th to e x te r m in a tio n , « Sur­ vival International Review», London, Autumn/W inter 1982, N. 3/4, pp. 70-3. Si veda anche: A ssa u lt on A m a z o n , « Survival International News », London, N. 9, 1985, p. 7. 70 ganese, quaranta milioni di tonnellate di bauxite e poi alluminio, zinco, argento, cromo, amianto ed oro. La quantità di rame del Grande Carajas è di un miliardo di tonnellate; nella zona di Paragominas la quantità di bauxite arriva a quasi cinque miliardi di tonnellate. Gli altri settori del progetto riguardano l’agricoltura, l’allevamento e lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. In questo ultimo campo, la centrale di Tucurui — che è in funzione dall’85 — con la sua potenza di quasi quattro milioni di kilowatt generata da dodici turbine, è destinata a diventare la quarta centrale idroelettrica del mondo; inoltre, l’Eletronorte — sezione settentrionale della Eletrobras, la società statale per la produzione dell’energia elettrica — ha calcolato che la potenzialità dell’intero bacino amazzonico è di cento milioni di kilowatt, che potranno esser sfruttati sull’esempio della centrale di Tucurui6. Il progetto Carajas prevede ancora, tra l’altro, la costruzione di una ferrovia della lunghezza di novecento chilometri che collegherà la Serra dos Carajas al porto di Sào Luis do Maranhào. Nella zona sorgeranno sei grandi centri industriali. Gran parte del progetto Carajas — come pure gran parte dei progetti di sviluppo che lo hanno preceduto — è destinato a realizzarsi contro gli interessi delle comunità indigene che vivono nell’area. La ferrovia attraverserà parecchie terre di diversi gruppi; la centrale di Tucurui arriverà ad allagare, con la sua diga, un’area di 216.000 ettari di terreno, inclusi 100.000 ettari della zona ri­ servata agli indios Parakana. Questi indios, e gli indios Xikrin, hanno già accusato disturbi di salute a causa dei defolianti impiegati per la preparazione delle aree da inondare. A parte l’evidente minaccia per l ’equilibrio ecologico della zona che l’azione combinata dei defolianti e dell’inondazione comporta, altri problemi si presentano per gli indios coinvolti nel progetto Carajas. I già citati Parakana — che sono poco più di duecento individui — dovranno venir spostati dalla loro riserva; altri, come i Guajajara, i Krikati, i Gavioes, vivendo nelle zone direttamente interessate dalle esplorazioni minerarie e dai successivi sfruttamenti, dovranno far fronte ad un contatto prolungato con gli avamposti della società brasiliana, contatto che non comporta solo una minaccia per la loro identità cul­ turale, ma costituisce un serio pericolo per la loro salute fisica, in quanto li espone alla possibilità di contrarre nuove malattie. La Companhia do Vale do Rio Doce, responsabile per lo stato del progetto Carajas, ha stipulato nel luglio dell’82 un contratto con la Funai (Fundagào National do Indio, di cui parleremo tra breve) in cui è previsto uno stanzia­ mento di quasi quattordici milioni di dollari, da spendere in cinque anni; tale somma costituiva una sorta di « risarcimento » agli oltre quaranta villaggi delle nove diverse popolazioni indigene viventi negli stati di Maranhào, Parà e Goias, interessati dal progetto Carajas. Dal momento che questo denaro era (ed è) sog­ getto alla gestione della Funai, il compito di decidere in che modo dovesse venir speso fu competenza della Funai stessa, che decise di riservarne una piccola parte alla demarcazione delle riserve indigene, e la maggior parte alla creazione di servizi e strutture (case, scuole, piccoli ospedali, stalle, magazzini, bestiame, attrezzi, sementi ecc.) da collocare nelle terre abitate dagli indios. È lecito pensare che « la Funai volesse ’sistemare’ gli indios dell’area, in maniera tale da farli diventare una forza-lavoro per le compagnie minerarie e di allevamento che si stavano insediando nel Carajas » 7. Gli interessi economici della nazione brasiliana sono quindi di una tale 6 Marcos Magalhàes, A energia da fló r e s ta , «Interior», anno XI, N. 61/62, 1985, Bra­ silia, pp. 63-4. 7 Antonio Carlos Moura, op. cit. (nota 5), p. 73. 71 entità che spesso non possono mutare le loro condizioni « solo » per salvaguardare l’integrità fisica e culturale degli indios che vengono a trovarsi sul loro cam­ mino, malgrado esista una legislazione che lo garantisca. La costruzione di autostrade e di centrali idroelettriche, l’attuazione dei progetti agricoli e minerari, la messa in opera di grandi allevamenti di bestiame (cioè, la realizzazione del programma di sviluppo economico del Brasile) hanno un grado di priorità as­ soluta, che raramente può esser soggetto a compromessi, tantomeno con quelle popolazioni indigene che rappresentano un cosi scomodo ostacolo allo sviluppo stesso 8. Questo non significa che in Brasile non vi sia una legislazione relativa alla salvaguardia delle popolazioni indigene; anzi, esiste un organismo statale — la Funai citata prima — che si occupa proprio del rapporto tra lo Stato nazionale ed i suoi abitanti originali. La Funai nasce, nel 1967 dallo scioglimento del vecchio Spi {Servilo de Protendo aos Indios) fondato dal Colonnello Rondon, i cui intenti iniziali erano quelli di proteggere gli indios dall’avanzata — per loro distruttiva — della società brasiliana. Negli anni ’50, a quarant’anni di distanza dalla sua creazione, lo Spi aveva evidentemente cambiato le sue inten­ zioni ed i suoi obiettivi, se dall’inchiesta sulle sue attività emerse l’accusa di genocidio, perpetrato mediante la guerra batteriologica, il bombardamento aereo, la distribuzione di abiti impregnati con virus mortali e di zucchero mescolato ad arsenico 9. Malgrado l’entità di questi crimini contro le popolazioni indigene avesse cau­ sato lo scioglimento dello Spi, molti dei suoi funzionari vennero reimpiegati nella nuova Funai, che dipendeva dal Ministero degli Interni. Tale Ministero ha tu tt’oggi un ruolo di primo piano nella programmazione ed esecuzione della politica governativa di sviluppo delle aree « vergini », non ancora incorporate — a livello produttivo — nella società nazionale. La Funai è dunque l’organismo tutore degli indios del Brasile; un’organiz­ zazione che operò con il suo consenso (e con il quale è stato rinnovato l’accordo nel dicembre dell’83) fu il Summer Institute of Linguistics (Sii), proveniente dagli Stati Uniti. Il Sii, presente nelle aree indigene fin dal 1959, aveva il compito di provvedere all’istruzione e all’educazione degli indios, diffondendo contempora­ neamente la religione protestante ed introducendo i gruppi indigeni alla lettura della Bibbia. Il Sii non mancava poi di convincere gli indios dei grandi benefici che sarebbero potuti provenire dall’acconsentire a cedere parti del loro territorio per la costruzione di strade, fabbriche ed altri avamposti di quel grande piano di sviluppo che il governo stava realizzando l0. Il sottile lavoro di persuasione del Sii si è potuto realizzare anche da quando l’educazione bilingue (portoghese/lingua locale) è stata sancita dalla legge * Un caso emblematico è quello dei Waimiri-Atroari. Nell’84 erano meno di 500 indivi­ dui, ma nel 1970 erano piu di 3000. Questo enorme calo demografico è stato causato da diversi fattori legati allo «sviluppo»: la costruzione dell’autostrada Brasilia-Caracas che ha tagliato in due la loro riserva; l’installazione, nell’81, di un impianto per l’estrazione della cassiterite nella loro area; l’inondazione di una parte della loro riserva nell’84, a causa della diga co­ struita sul fiume Uatuma o Balbina (Mario Juruna, S itu a tio n o f th e In d ia n s o f B r a z il , « IW GIA Newsletter», Copenhagen, N. 39, October 1984, pp. 52-6). 9 Norman Lewis, W h ite m a n ’s w ild e rn e ss, « Survival International Review », London, Winter 1979, pp. 8-9. Si veda anche: Marco Colace, La situ a z io n e d eg li I n d io s in B rasile: a sp e tti sto rico -p o litici, Documento presentato a nome del C.S.A. alla Commissione per i Diritti dell’Uomo alle Nazioni Unite, Ginevra, 30 luglio/3 agosto 1984. 10 P ro p o sa l fo r a n e w in d ig e n ist p o licy s u b m itte d to th e p re se n t c iv il bra zilia n g o v e r n ­ m e n t, a cura dell’Uni presentata alla 4a Commissione relativa alle Popolazioni Indigene, pro­ mossa dalle Nazioni Unite, Ginevra, 1985, pp. 19-30. 72 6001 del 1973, meglio nota col nome di Estatuto do Indio. Fermo restando che l’educazione bilingue è un diritto delle popolazioni indigene, si è però avuta l ’impressione che il Sii abbia approfittato di essa « per un passaggio ancora piu integrale degli indios nel mondo dell’uomo bianco, dal momento che tutti i valori potrebbero esser facilmente tradotti nelle lingue native e quindi introdotti ancor piu profondamente nelle loro menti, perché espressi in termini e forme concepiti dagli indios stessi » 11. Da una decina d ’anni, comunque, sono in atto alcuni programmi educativi alternativi, tra cui quello coordinato dal Cimi (Conselho Indigenista Misionero). Dove è possibile, viene utilizzato il sistema bilingue, ma lo scopo principale è quello di fornire i mezzi necessari perché gli indios possano poi difendere se stessi e porsi adeguatamente in relazione con la società nazionale. Se dunque il Sii si occupava (e si occupa) di predisporre gli indios all’inte­ grazione nella società brasiliana, la Funai stessa ha compiuto diversi tentativi di attuare quest’integrazione mediante l’inserimento degli indios nel mondo del lavoro. Questi tentativi si sono rivelati abbastanza fallimentari, data la diffe­ renza tra la concezione indigena di lavoro e quella della Funai che, tra l ’altro, considerava come illegittima ogni forma di lavoro finalizzata esclusivamente alla sussistenza 12. A livello strettamente legale, comunque, la posizione degli indios in Brasile viene definita dalla legge 6001/73, cioè il già citato Statuto dell’Indio. Nel Codice Civile brasiliano, l’Art. 6 sancisce la relativa incapacità dell’indio13, che può far valere i suoi diritti solo se assistito da un organismo tutore. La legge 6001 dispone che questa tutela venga esercitata dall’organismo di stato incaricato della protezione degli indios, che è appunto la Funai 14. Lo Statuto dell’Indio, se da un lato ha contribuito al riconoscimento legale dei gruppi indigeni, dall’altro contiene parecchie « scappatoie » che rendono pos­ sibili le manovre politiche ed economiche necessarie alla realizzazione del pro­ gramma di sviluppo omogeneo del Brasile, a dispetto della reale condizione di plurietnicità del paese; vediamone alcune, quindi. Il primo articolo dello Statuto afferma che lo scopo principale della Legge è quello di « integrarli (gli indios), progressivamente ed armoniosamente, nella comunità nazionale ». Questo signi­ fica che gli indios dovranno integrarsi principalmente nel « processo di sviluppo » (Art. 2/V III) 1S. Sul diritto al possesso della terra, l’Art. 25 dice: « Il riconoscimento dei diritti degli indios e dei gruppi tribali al possesso permanente delle terre che abitano... sarà indipendente dalla loro demarcazione e sarà assicurato dall’organo federale di assistenza agli indios ». Ma il precedente Art. 20 elenca una serie di disposizioni che permettono di violare questi diritti. Per qualsiasi delle sei condizioni stabilite, infatti, gli indios possono venir spostati temporaneamente o trasferiti definitivamente dal loro territorio in un’altra area; e cioè per far terminare una guerra tra due gruppi, per combattere le epidemie o qualsiasi cosa che possa minacciare l’integrità fisica degli indios, per ragioni di sicurezza 11 P ro p o sa l..., op. cit. (nota 10), p. 24. 12 Roque de Barros Laraia, N e w tre n d s in B razilian In d ia n A ffa ir s , Paper N. 39 of EAFORD, London, January 1985, p. 3. 13 Qualora l’indio non sia « emancipato », cioè avente piu di 18 anni, conosca la lingua portoghese e abbia un lavoro che lo inserisca nel sistema produttivo brasiliano. 14 Dalmo de Abreu Dallari, In d io s, ctd a d a m a e d ir e ito s , in AA.VV., O I n d io e a cidadania, op. cit. (nota 2), p. 53. 15 Paulo Suess, A lte r id a d e e in tegra^ao, « Porantim », Brasilia, Abril 1985, Ano V II, N. 74, p. 5. 73 nazionale, per realizzare lavori pubblici che siano di interesse per lo sviluppo nazionale, per reprimere disordini su vasta scala, per sfruttare le risorse del sottosuolo 16. Se da un lato l’Art. 24 afferma che « l’usufrutto assicurato agli indios comprende il diritto alla proprietà e all’uso delle risorse naturali... nelle terre occupate, ed anche al prodotto dello sfruttamento economico di quelle risorse », l’Art. 42 affida l’amministrazione del patrimonio indigeno alla Funai. Questo renda indigena (reddito indigeno) « verrà di preferenza riapplicato (dalla Funai) in attività lucrative o in programmi di assistenza agli indios » (Art. 43). Nel renda indigena confluiscono anche gli eventuali risarcimenti che il Ministero degli Interni deve devolvere agli indios in caso si presenti la necessità di compiere attività minerarie in aree indigene (Art. 45). Come si può vedere da questi pochi esempi, lo Statuto dell’Indio è una legge alquanto elastica, pur se presenta parecchi punti che, se rispettati alla lettera, possono costituire dei vantaggiosi capisaldi per gli indios. L’Art. 65, che obbligava la Funai a demarcare tutte le terre indigene entro il 21 dicembre del 1978, è tuttora in via di applicazione, nel senso che la demarcazione delle terre è ancora abbastanza lontana dall’esser completata. Questo fatto ha portato ad un rafforzamento e ad una solidarietà maggiore del movimento indigeno che ha fatto del diritto alla demarcazione delle terre uno dei suoi principali punti di rivendicazione, in virtu di quell’Articolo 65 che ne ordinava l’attuazione. Oggi, nel contesto della Nova Republica, la Funai — che non ha mai real­ mente difeso gli interessi degli indios, ma piuttosto ha sempre cercato di pre­ disporli esclusivamente all’integrazione — attraversa un periodo caratterizzato da una ulteriore perdita di autonomia nei confronti del Ministero degli Interni. Già nel 1983, un decreto ministeriale (88.118) ha trasferito il potere di demar­ care le terre indigene dalla Funai ad una commissione interministeriale, il che ha rallentato ulteriormente le relative procedure burocratiche. Dal marzo ’85 al­ l’ottobre dello stesso anno, inoltre, la Funai ha cambiato cinque volte il suo presidente, senza che venissero mai prese in seria considerazione le preferenze indicate dal movimento indigeno. Uno degli ultimi presidenti, Alvaro Villas Bòas, in carica nell’ottobre ’85, è stato « scelto » direttamente dal Ministero degli Inter­ ni. Già burocrate della Funai, Villas Boas è noto per aver bollato come « agita­ tori e comunisti » tutti gli indigenisti, gli antropologi ed i missionari contrari ai suoi programmi 17. Se la Nova Republica ha determinato la fine dello stato autoritario e repres­ sivo in Brasile, non ha però contribuito a migliorare la situazione delle popo­ lazioni indigene, che si trovano ancora a dover lottare perché vengano rico­ nosciuti i confini delle loro terre, perché leimprese minerarie non distrug­ gano le loro riserve, perché non debbano piu ricorrere allo scontro fisico per cacciare gli innumerevoli garimpeiros che quotidianamente invadono le loro aree in cerca di oro 18. C’è però un movimento indigeno che oggi si sta organizzando per usufruire dei nuovi strumenti che la ristrutturazione dell’organizzazione statale comporta. Uno di questi concerne la possibilità di partecipare all’Assemblea nazionale costi­ tuente. Già nel 1982 un indio arrivò ad essere eletto come Deputato federale 16 Anna Presland, op. cit. (nota 3), p. 28. 17 A p o litica i in d ig e n ista da « N o v a R e p u b lic a », a cura del Cimi, « Porantim », Outubro 1985, Ano V ili, N. 80, pp. 8-10. 18 M in in g in In d ia n areas in B ra zil , Documento presentato dall’Uni alla 4a Commissione relativa alle Popolazioni Indigene, promossa dalle Nazioni Unite, Ginevra, 1985. 74 al Parlamento, in rappresentanza dello stato di Rio de Janeiro: Mario Juruna, soprannominato « l’indio con il registratore », perché registrava ogni promessa che i « bianchi » facevano. Juruna, votato dagli elettori di Rio de Janeiro — lo stato che ha probabilmente la piu bassa percentuale di indios del Brasile — fu in seguito accettato come rappresentante da molti gruppi indigeni 19. Oggi l’Uni (Uniào das Nagóes Indigenas) sta discutendo le modalità di par­ tecipazione alla Costituente. L’Uni ha affermato che il movimento indigeno parteciperà come nazione indigena, al di fuori di qualsiasi partito politico. I rappresentanti saranno eletti dalle comunità indigene, senza venir sottomessi al suffragio universale e segreto; saranno due per ogni regione geografica del Brasile e parteciperanno principalmente ai lavori relativi agli interessi degli indigeni. Inoltre, il movimento appoggerà anche quelle candidature indigene che vorranno presentarsi attraverso un partito 20. I diritti che i partecipanti indigeni all’Assemblea nazionale costituente do­ vranno far riconoscere concernono il diritto alla terra, il riconoscimento della appartenenza ad una nazione indigena insieme alla cittadinanza brasiliana, il diritto alla salvaguardia dell’identità indigena senza il pregiudizio dell’integrazione, e quello di intervenire in prima persona in ogni decisione che riguardi il presente o il futuro delle comunità indigene21. Pur se pronto a partecipare alla Costituente, il movimento indigeno non nutre molta fiducia nel nuovo corso della politica brasiliana, indigenista e non. Nell’articolo di fondo di « Porantim » 22 del novembre ’85, si legge infatti: « Nel momento in cui la Nuova Repubblica affronta le sue prime prove, con­ statiamo, desolati, che sta diventando deprecabile in tutto. La violenza cresce, brutale, principalmente negli stati dove i latifondisti sono più potenti; la tanto decantata riforma agraria... si mostra sempre più conservatrice; la politica eco­ nomica è sempre la stessa; la campagna elettorale continua ad essere manipolata non solo dal potere economico ma dallo stesso governo, che teme di perdere il controllo della situazione... Il nostro campo di lotta non è la conquista di spazi nello schema ufficiale delle prefetture e dei parlamenti, ancora dominati dal potere economico e dagli opportunisti. Questo devono capire gli indios che nutrivano delle ambizioni in questo parlamento fallito. Il nostro campo di lotta e le nostre armi saranno altre. E se il cammino è stato finora cosparso di sangue, dobbiamo credere che da ora in poi sarà guidato dalla speranza » 23. È chiaro dunque che, al di là di ogni manovra mirante ad una più o meno forzata integrazione delle popolazioni indigene in nome dello sviluppo economico nazionale, la politica indigenista brasiliana dovrà fare i conti con un movimento indigeno sempre più organizzato e deciso nei suoi obiettivi e nelle sue rivendicazioni: e questo tanto all’interno degli organismi istituzio­ nali nei quali gli indios sono pronti ad entrare, quanto — e soprattutto — all’esterno di essi, dove il movimento indigeno quotidianamente cresce e si rafforza. Marina Mannino 19 David Maybury-Lewis, In d ia n & P ro -In d ia n O rg a n iza tio n s in B r a z il , « Cultural Sur­ vival Quarterly», Voi. 8, N. 4, 1984, pp. 19-21. 20 U n i e stu d a participaqao in d ig en a na C o n s titu in te , « Porantim », Brasilia, Novembro 1985, Ano V ili, N. 81, p. 3. 21 O I n d io na C o n s titu in te , «Porantim », Brasilia, Outubro 1985, Ano V ili, N. 80, p. 6. 22 « Porantim » è una rivista mensile che si occupa esclusivamente dei problemi indigeni ed è a cura del Cimi. 23 Benedite Prezia, S a n g ue e esperanpa, « Porantim », Brasilia, Novembri) 1985, Ano V ili. N. 81. p. 2. 75 Situazione socio-politica degli indios in Argentina * Nel territorio della repubblica Argentina vivono oggi quindici dei 410 gruppi etnici del subcontinente latinoamericano; in tutto circa 300 mila persone di differenti etnie: matacos, choropies, chulupies, tobas, moscovfes, pigalàes, guatanies, chanes, collas, diaguito-calchaquies, mapuches, quechuas, ayamaràes, tehuelches e onas. Molti altri gruppi sono scomparsi dopo l’arrivo del conquistatore bianco. Con gli « aculturati » e i meticci con coscienza indigena — piu o meno 700.000 — si raggiunge il milione di emarginati '. Ognuno di questi raggruppamenti è attualmente soggetto a differenti gradi di integrazione nella società argentina. Questo problema è molto complesso e polemico per cui al momento lo accantoniamo per fare un poco di storia e poterlo quindi meglio comprendere in seguito. L’Argentina ha considerato per molto tempo fatti gloriosi le sue, chiamate eufemisticamente, « Campagne del deserto » che non sono state altro che ucci­ sioni indiscriminate, etnocidi, genocidi ad opera dei nostri governi nel secolo passato. L’interesse per le terre abitate dagli indigeni era d ’ordine economico e stra­ tegico; beneficiari soprattutto gli ufficiali vincitori nella guerra d ’indipendenza, i già potenti latifondisti e lo stesso governo. La ribellione piu importante che si conosca è quella capeggiata dal cacique Calcufurà — mapuche — nell’anno 1855. Si difesero coraggiosamente ma furono decimati. Il 25 maggio del 1879 è ricordato come il giorno della vittoria sull’indio. Il narratore di alcune Cro­ nache delle « Campagne del deserto » conclude cosi la sua introduzione: « Una volta di piu l’esercito contribuiva a rinvigorire l’argentinità della terra con il concetto spirituale che nasce dall’eredità geografica fortificata dai diritti della civiltà, questa parola d ’oro che ci hanno insegnato gli dei d ’Atene » (Conquista al desierto. Crónicas de Remigio Lupo, expedición de 1879, recopiladas por Bartolomé Galindez, Buenos Aires 1938). Era anche un’altra la causa di questo massacro: si era svegliata in America l’idea di civilización y barbarie. La filosofia positivista progressista aveva già dato le direttive per il funzionamento « corretto » di una società. Questi con­ cetti sono entrati dalla porta principale nell’Argentina francesizzata ed europeiz­ zante e di tendenza liberale. Domingo F. Sarmiento, letterato e presidente della repubblica dal 1868 al 1874 fu il principale propagatore di queste idee razziste. Lo studio dell’attuale situazione socio-politica dell’indio è abbastanza diffi­ cile e complessa dati i differenti gradi di integrazione a cui è soggetto nella so­ cietà e che ci impedisce di vederlo chiaramente nel suo contesto. La nostra esperienza personale vedendolo mietere i campi, fare il muratore in città o vivendo in poblaciones allo stato puro, etnicamente parlando, con i suoi costumi tra­ dizionali, ci ha fatto pensare ad una classificazione secondo il criterio geografico che implica conseguenze sociali, politiche, culturali, economiche ecc. A grandi linee si possono distinguere oggi tre modi di integrazione: 1 - nella città; 2 - nella campagna; 3 - nel luogo originario. 1. - Nella città: dagli anni ’50 non c’è più immigrazione europea nelle città; * La documentazione utilizzata per la realizzazione del presente articolo è disponibile presso il Centro Studi Amerindiani della Fondazione Internazionale Lelio Basso. 1 Dati tratti dal rapporto del Dott. Eulogio Frites: L e terre o ccu p a te da lle c o m u n ità in d i­ gene dal p u n to di vista d e l d ir itto p o sitiv o nella R e p u b b lic a A r g e n tin a , Buenos Aires, 1976, patrocinato dall’Associazione Indigena della Repubblica Argentina. Personalità Giuridica Resi. 1997.IGPJ-76 (D.O. 13-9-76). 76 l’unica è quella dalle nazioni limitrofe e dai settori piu poveri del paese: tutte e due con forte impronta indigena. I « bianchi » li chiamavano cabecitas negras (testine nere), oltre ad altri epiteti peggiorativi: se ne vanno dalle loro terre in cerca di sostentamento e molte volte concretamente dislocati e disgregati. L’indio è visto come un ostacolo del lavoro di civilizzazione, « non capisce il beneficio del progresso ». Un esempio potrebbe essere quello dei Parchi nazionali: il sud nella provincia di Neuquén ha tre parchi nazionali, luoghi bellissimi, protetti dal governo dal saccheggio della fauna e della flora. L’intenzione è lodevole da ogni punto di vista, ma in queste zone gli indios hanno vissuto per secoli, con gli alberi hanno fabbricato e riscaldato le loro case, si sono alimentati con questi animali e del suo paesaggio hanno fatto la loro letteratura. Ora tutto ciò può essere solo guardato e non toccato. Li hanno trasferiti in luoghi inospitali e, come se non bastasse, hanno loro proibito di uccidere le bestie dannose per essi e per il loro bestiame: i puma hanno piu valore degli uomini. Bisogna però dire che gli indigeni hanno piena coscienza di ciò che offre loro la natura e per questo ne hanno cura. Questo è uno dei motivi del loro trasfe­ rimento nelle città. Ma ce ne_ sono altri: in alcune zone del nord argentino, nella regione del Chaco, il disboscamento ha distrutto le case di alcune tribù; tutta l’ecologia si è modificata e per questo hanno dovuto andarsene in luoghi più adatti alla loro esistenza. Questo esodo porta conseguenze funeste alla con­ figurazione dell’unità e identità del gruppo etnico, non solo economicamente ma anche psicologicamente, socialmente e culturalmente. Si incide dolorosamente sul modo di pensare, si combatte con schemi culturali differenti imposti auto­ ritariamente dal potere, si sbandierano verità assolute che un popolo pacifico e aperto non può ne vuole contrastare. È il lavoro della propaganda occidenta­ lizzante e capitalista e della chiesa, in alcune zone del paese; relegare le tribù in riserve isolate è stata la continuazione, con mezzi pacifici, dell’invasore che ha impedito il mantenimento dei vincoli essenziali per la conservazione delle culture indigene. Inoltre tutti i governi argentini tolleravano e a volte fomentavano l’intrusione nei villaggi di non indios che spogliavano queste comunità di gran parte delle loro già scarse terre. La realtà della povertà da un lato e la svalorizzazione della loro cultura dal­ l’altro, porta quindi i più giovani e i più insicuri a trasferirsi, credendo di trovare in centri più popolosi maggiori possibilità di benessere. Vivono nelle città dove si sono trasferiti sempre come stranieri, come paria, e come tali abitano nei quartieri più bassi. L’ignoranza e il dolore davanti alla terra d ’altri li man­ tiene in uno stato totale di sottomissione e diventano un bocconcino facile per gli speculatori. Fanno i muratori, lavorano nelle fabbriche come peones, perso­ nale di pulizia, poliziotti, e le donne fanno le domestiche. I soldi che guada­ gnano non bastano assolutamente per vivere, l’obiettivo per cui se ne andarono dalle loro case non si realizza, con l’aggravante di aver perso le proprie usanze, i propri costumi, la propria identità, i propri valori. 2. - Nella campagna: il trattamento non è migliore. A volte fanno parte di gruppi di braccianti, o hanno altre mansioni, le più pesanti come caricare, arare, disinfestare ecc. Perdono la loro vita in dodici, quattordici ore di lavoro mal retribuito. Allo stesso tempo emerge un altro fenomeno: il contadino non-indio, questo figlio di gaucho dislocato, li disprezza; sembrano essere lo specchio in cui non vuole guardarsi, non sopporta la passività con cui l’indio accetta la sua sorte, però l’impotenza è la stessa, solo che il criollo la soffre maggiormente. I contratti di lavoro sono a termine e sono obbligati a trasferirsi continuamente, il che vuol dire che non si fermano mai il tempo sufficiente per co­ struirsi una casa; una volta di più dipendono dalle decisioni dei potenti: quello 77 che non serve si butta via. E cosi rimangono le madri coi bambini piccoli e i vecchi, mentre i piu giovani seguono il loro cammino dietro le stagioni. Questo dà luogo a un altro fenomeno: si vanno via via assimilando alla città senza esserne mai riconosciuti. Ma dato che non si può vivere isolati e rifiutati, i figli di queste comunità marginali si integrano poco a poco alla società parallela; cominciano con l’edilizia, poi nelle fabbriche, nel servizio domestico, e cosi di­ menticano per sempre i costumi dei loro antenati: se la tradizione porta tanta sfortuna è meglio seppellirla. La domanda è allora: quale tradizione adottare? Ed è qui che una gran parte dei nostri compatrioti resta senza radici, senza storia, senza identità. 3. - Nel luogo originario: in questa terza posizione si trovano i gruppi etnici che conservano caratteristiche culturali ed economiche tradizionali. Prima di tutto dobbiamo far riferimento alla costante ostilità e ingiustizia di cui sono oggetto, al di là della conosciuta e concreta usurpazione delle terre; questo disprezzo che si usa anche come pretesto per derubarli: il caso dei mapuches della comunità di Currihuinca che consta di 550 persone — circa 70 famiglie — sono periodicametne saccheggiati dai cileni e guappi argentini, e persino gli stessi poliziotti di frontiera collaborano a questi attentati. Impediscono di vendere i loro pro­ dotti alle popolazioni dei dintorni, adducendo la mancanza di igiene, di tecnica ecc., però quando loro l’accettano credono d ’avere il diritto di imporre prezzi bas­ sissimi e se lo ritengono conveniente si portano via anche tutta la mercanzia. Non è una novità quanto poco è pagato l’artigianato, una coperta mapuche, la matra, per cui servono due mesi di lavoro, viene pagata come un paio di jeans. Si critica la loro passività nell’apprendere, ma non ci sono scuole in molti villaggi e le poche che esistono sono dirette da persone che non si rendono conto del materiale umano col quale operano: le lezioni sono tenute esclusi­ vamente in spagnolo, le materie scelte non servono per aiutarli a migliorare la loro vita perché non sono di indirizzo pratico: non si insegna a coltivare la terra, né a curare il bestiame, né si danno nozioni elementari di pronto soccorso, gli insegnanti non capiscono che c’è assai piu bisogno di loro qui che nelle città, non sentono gratitudine per il loro popolo generoso. Per essere indios e non sottomettersi passivamente alle leggi della società, sono privi, fra le altre cose, di una assistenza medica adeguata. A Neuquen ci sono 28 sanitari per 8.600 indios; non esistono veterinari, agronomi che insegnino loro a individuare le malattie delle piante, però ci sono le reti metalliche per « civilizzare ». I posti peggiori, i terreni piu aridi e più freddi, sono destinati a loro, gli antichi padroni della terra; non ci dimentichiamo che anche loro sono argentini2. In Argentina, l’indio si identifica con l’oppresso, il relegato, Pignorato, e la sua classe sociale è quella indicata come bassa o proletaria, vittima delle convenienze, dell’ambizione, dell’ignoranza o per comodità di un settore dello stesso popolo argentino. Però malgrado questa già dolorosa identificazione pos­ siamo dire che gli indios stanno ancora peggio perché la spogliazione a cui sono soggetti è ancora più profonda. Dato che finora abbiamo parlato della situazione economico-sociale, vorrei soffermarmi adesso, sia pur brevemente, sulla terza divisione o gruppo in cui è più evidente l’oltraggio ideologico e culturale; 2 Abbiamo in nostro possesso il Progetto di legge di « Appoggio alle comunità degli abo­ rigeni », approvato dal Senato e che, abbiamo appreso in via non ufficiale, è stato approvato anche dalla Camera. Purtroppo però non disponiamo del testo pubblicato, né sappiamo nulla circa i modi che verranno impiegati per la sua attuazione. Questo documento è datato luglio 1985, mentre l’approvazione definitiva è avvenuta a metà novembre. 78 la connessione con quanto detto prima salta agli occhi. Cercherò di riassumere la visione cosmica dell’indio su certi aspetti della realtà. E una credenza comune che l’indigeno vive come un selvaggio ignorante e anarchico, che a lui fa lo stesso una cosa o un’altra, che gli basta solo mangiare, bere e ballare, che non soffre la solitudine, l ’emarginazione, le sconfitte, l’esilio. Per contro qualunque sia la sua religione e le sue idiosincrasie, gli è chiaro il suo posto nel mondo, e cosi i suoi problemi e le sue necessità. Non ci soffermeremo sulla coscienza indigena — perché è di questo che si tratta — ma descriveremo il ruolo che giocano certi elementi 3. Essenziale senza dubbio è la terra: « L’indio senza terra è un indio morto » — dice un cacique meticcio. D ’economia prettamente rurale, la terra diventa indispensabile per la sua sussistenza. In quanto allo spirituale, questo è molto piu importante. L’antropologo Salvador Palomino Llores, quechua peruviano, con­ sigliere del Cisa (Consejo indio de America del Sur) dice: « ... amiamo la Natura perché noi consideriamo la Madre Terra, che in quechua chiamiamo Pacha Mama, non come qualcosa che si deve conquistare o trasformare al servizio egoista dell’uomo; è nostra Madre perché tutta la vita viene da lei, noi stessi siamo parte di questa terra, per questo diventiamo collettività. Il sistema imperialista conquistatore, depredatore, non ama la Natura, va contro le leggi della Natura ». Anche i loro morti stanno in questa terra e lasciarli è lasciare una parte della loro storia, dei loro protettori, dei loro dei; è terribile immaginare il giorno in cui la poesia e la musica del paesaggio e i costumi non sia piu una realtà perché manca il referente: perché parlare di pini, di laghi, del pehuen? Un altro degli elementi da considerare è la comunità, della quale l’indio ha un’idea molto precisa: tutto è di tutti, tutti lavorano per il benessere di tutti e questo è possibile perché la Natura è generosa. Il gruppo etnico è una grande famiglia con ruoli ben definiti; questo non è mancanza di libertà ma ordine. L’idea comunitaria si basa sul profondo rispetto che l’indio ha per « l’altro » che non poche volte gli è costato l’invasione o l’appellativo di sciocco. Crede nel pluralismo delle idee e piu ancora nell’arricchimento mutuo delle culture; per questo si aspetta aiuti dall’esterno e li gradisce. Nei gruppi indigeni c’è una chiara posizione politica: pluralismo, rispetto reciproco, sistema di alleanze. Una riflessione: quanto grande sarà il dolore di fronte alla costante disgregazione a cui lo sottopone l’uomo bianco? Prima, gli fa credere che non c’è a sufficienza per tutti, creando cosi una dannosa competitività fino ad arrivare a vedere il fratello come un nemico. Secondo, il trasferimento in luoghi sterili lo tra­ sformano, suo malgrado in un predatore dei beni naturali (ricordiamo che l’idea di comunità si estende fino agli elementi della Natura). Terzo, tutti gli oggetti reali, comprese le persone, si possono commerciare; l’indio è la prima vittima di ciò e di conseguenza deve distoreere anche i suoi valori. Quarto, una cultura può dominare impunemente su un’altra, quindi l’idea di comunità armonica universale non ha senso in quanto pecca di ingenuità. Dario Millain, mapuche, rappresentante di Loncopué (Nequén) e di Nehuén Mapu (Associazione d ’aborigeni urbani di Neuquén) dice: « (questo fratello) ci ha chiarito un po’ il significato di quello chiamato impropriamente Impero Pe3 La maggior parte dei concetti qui esposti sono stati tratti dai documenti delle « Prime giornate dell’indianità », che hanno avuto luogo a Buenos Aires, nei giorni 14 e 15 aprile 1984. Abbiamo anche notizie dalle « Seconde giornate dell’indianità », che hanno avuto luogo a Buenos Aires il 22 luglio del 1985, ma di queste ultime abbiamo soltanto il ternario pro­ posto dall’Assemblea permanente dei diritti umani: I - Analizzare ed unificare i problemi comuni per regione. II - Ricerca di soluzioni. 79 ruviano che non è mai esistito, perché il termine “impero” è dell’occidente; cosi come non è mai esistita una famiglia reale nell’alto Peru ». La perdita di identità cioè dei valori che si esplicano nel quotidiano, si manifesta nello scon­ certo, nell’immobilismo, nell’inerzia, nell’inattività. Un altro elemento importante da analizzare è il lavoro. Tema difficile da trattare brevemente giacché significa il « fare » dell’indigeno. Gli appellativi di pigro, passivo, indolente, gli sono stati attribuiti per l’incomprensione altrui del suo modo di concepire la vita: mi piace definire l’indio come un’essere contem­ plativo, per il quale la vita non è progresso nel senso di avere, di costruire, popolare il mondo di oggetti, oggettivare il mondo per modificarlo. Il lavoro, il suo fare è sempre in funzione del mantenimento materiale, al quale, d ’altra parte dà la sua giusta importanza; non vuole accumulare beni aspettando il giorno in cui potrà sdraiarsi a filosofare senza problemi, come pare essere l’aspi­ razione di molti occidentali. L’indio è molto cosciente che la vita passa, la morte arriva inesorabilmente, lo sa da sempre, non lo dimentica mai, e per questo sceglie come viverla adesso, senza incognite del futuro. Non è un fanatico del lavoro anche se non lo sfugge, né vuole sfruttare alcuno per il proprio benessere; se cosi fosse sappiamo che qualunque essere umano, anche il più mediocre può sfruttare un altro essere. Sulla religione è impossibile parlare genericamente, in quanto si tratta di differenti etnie, però possiamo riferirci alla concezione cosmica in cui tutti gli elementi sono in armonia. Religione è culto, riti, magia, aiuto spirituale, aiuto corporale; è Viracocha, Nguenechén, Tokjwaj, Namandu, sono le pratiche me­ dicinali, sono le feste, il cordone ombelicale che li unisce all’Universo. Questo è il punto culminante ancora irrisolto: come si può integrare questo essere cul­ turalmente autonomo alla società argentina? I costumi non si possono unificare se si vogliono rispettare. È un problema complesso pressoché irrisolvibile: loro stessi hanno fatto delle proposte che citeremo più avanti. L’antropologo Guillermo Magrassi dice in una intervista apparsa sul « G arin » del 5 gennaio 1984: « Nessun paese e tanto meno una nazione possono costituirsi se non hanno le loro radici ben fissate nella loro terra, altrimenti siamo po­ tenzialmente dei mercenari permanenti in attesa che qualche giorno ci richiedano in qualche parte del mondo dove supponiamo di essere più felici ». Più avanti aggiunge: « Il miglior modo di dominare un paese, un popolo o una persona è fare in modo che non conosca sé stessa ». Impedire a un popolo di parlare la propria lingua, di vivere secondo i propri costumi purificati dai secoli, è com­ mettere un etnocidio. Di questo si sono accorti a poco a poco gli argentini, cioè dell’autoetnocidio. È avvenuto anche in altre nazioni latinoamericane. Esiste una inquietudine già da molto tempo, ma tutte le teorie al riguardo sono state inutili e impotenti, perché avevano il difetto di rimanere li rinchiuse nei libri. Per varie ragioni: la prima è senza dubbio l’aver avuto governi dittatoriali che hanno impedito la formazione di una vera identità, boicottando la diffusione di queste idee. Ma è stata anche la nostra cecità, quella degli intellettuali che per convenienza o per comodità hanno rifiutato questi nostri fratelli. Vederli poteva voler dire amarli, prenderli in considerazione, sostenerli, vivere le loro miserie ed anche sentirci poveri con quello che abbiamo, che sono solo parole. Siamo disposti a tornare al popolo con quello che abbiamo imparato, a soffrire le loro oppressioni? O è più comodo teorizzare dalle cattedre universitarie, dalle città, in ospedali dagli equipaggiamenti modernissimi, in centri di studi in­ ternazionali? Nessun schema prestabilito può portare rimedio al nostro male vecchio di 80 secoli. Però nella nostra mentalità sono rimaste depositate certe credenze in­ digene che non si cancelleranno mai anche se vogliamo ignorarle. Questo ha creato, insieme ad una apertura democratica, un interesse crescente nei riguardi delle nostre radici che si sono manifestate in pubblicazioni, studi, filmati ecc. Questo ha permesso che in Argentina si organizzassero le « Prime giornate dell’Indianità » patrocinate dall’Assemblea permanente dei diritti umani: le ci­ tazioni fatte in precedenza venivano da indios che vi hanno partecipato. Gli oratori indigeni erano dieci, ma ne erano presenti più di 50 nelle Tavole di lavoro con un pubblico di più di 300 persone. Ci pare utile pubblicare qui al­ cune delle conclusioni a cui si è arrivati, proposte, proteste e denuncie. Proteste (tratte dalle esposizioni dei fratelli indios). « Questa azione distruttiva delle comunità ha avuto come conseguenza l’emi­ grazione di una grande quantità di giovani, che cercavano la loro salvezza indi­ viduale, di fronte all’antico crollo della vita. (Domingo Colleque, rappresentante mapuche di Rio Negro). « ...abbiamo messo tutta la volontà per farlo, è stata creata la Confedera­ zione indigena delle Valli Calchaquies, ed abbiamo bussato a tutte le porte, ma non abbiamo avuto alcun risultato... È inoltre inutile dire che sono stato perseguitato fino a poco tempo fa, sono stato incarcerato... (Pedro Santana, cacique calchaqui della provincia di Tucumàn). « Non hanno preso in considerazione gli indios neanche per formare la Co­ stituzione Nazionale... La legge 14/932 riconosce l’accordo 107 nella sua incom­ pletezza e parla anche dei diritti dei gruppi indigeni, dei gruppi semi tribali e di quelli tribali. Oltre a non creare una legislazione appropriata, essi non mettono in pratica neanche i diritti già riconosciuti. Noi chiederemmo, nel caso ci dices­ sero che dobbiamo integrarci in questa società nazionale, se sia giusto ed eti­ camente morale per i nuovi paesi creati sui territori delle nazioni degli indios, non riconoscere la totalità dei diritti dei nostri popoli, ma non come gruppi etnici o gruppi tribali e semitribali. » (Jorge Valiente, rappresentante del Cenko, Cen­ tro Colla). « ...Perché una polveriera in Centroamerica, nel Salvador, quando abbiamo avuto un sistema di vita ed abbiamo avuto un sistema di governo con i quali il nostro popolo ha vissuto in armonia, ed in armonia con la Natura. E, guardate voi a destra, e voi a sinistra, come ci stanno dissanguando. E anche questo noi rifiutiamo. » (Fausto Duràn, colla del Movimento Indio Peronista). Denunce (tratte dalle esposizioni dei fratelli indios e da quelle incluse nel rap­ porto elaborato nel corso delle stesse « Giornate »). « ...Siamo gli indigeni chané della provincia di Salta, a 32 Km. dalla fron­ tiera con la Bolivia. Ma la terra che abbiamo non ci è sufficiente; sono 100 ettari per 847 indios agricoltori, decisi a lavorare ». (Sergio Rojas, cacique chané di Salta). «La fabbrica El Tabacai caccierà l’anno prossimo 300 famiglie, circa 1.500 persone; cancellerà un intero villaggio. Vi sono state pressioni per far loro firmare l’accettazione dello sfratto. Fratelli che hanno vissuto li per secoli, an­ cestralmente, che hanno affondato le loro radici in quei posti, mentre un signore come Patron Costa si permette il lusso di voler cancellare un popolo. Per 81 questo noi siamo qui » « ...i nostri fratelli sono tenuti rinchiusi come bestie da cortile. Io ho visto quelle riserve che sembrano campi di concentramento. Dove la democrazia?, io mi chiedo. Ed ancora non sono state prese delle misure. Qui le responsabili sono le sette religiose. E se vi è qualche religioso al quale non piace ciò che dico, bene, che mi perdoni, ma questa è la realtà » (Fausto Duràn, Colla del Movimento Indio Peronista). — Nelle saline di Jujuy e Salta, che erano state riconosciute come patrimonio ancestrale degli abitanti della zona, si stanno consegnando aree per lo sfrutta­ mento privato. — A Iruya, in un luogo chiamato Isla de Canas, vogliono cacciare una intera comunità. La fattoria Santiago, della fabbrica La Esperanza, ha detto loro che si devono trasferire alla Puna, che è una zona arida dove non potranno si­ curamente vivere, perché ora li devono creare una piantagione di caffè. — Al Nord esistono comunità come i Mormoni, alcune chiese apocalittiche e di altro tipo, come nel 1960 fu l ’Alleanza per il Progresso. Questi hanno il loro programma di colonizzazione e con le loro idee evangelizzatrici occultano una campagna di sterilizzazione. Parlavano alle nostre donne del parto indolore ma in realtà le stavano sterilizzando. Proposte. I temi vennero ordinati nel seguente modo: Diritti territoriali, diritti culturali, diritti socio-economici, politica ed organizzazione, e validità dei diritti indios. Le richieste vennero fatte in base a questo schema: 4 I. - Diritti Territoriali (Discriminazione razziale art. 5 Onu, art. 17 punti 1 e 2, Oit Convenzione 187. Diritti socio-economici art. 2). a) Rapporto dell’indio con la terra; b) forme di appropriazione della terra da parte degli abitanti originari di questo continente e sua configurazione come violazione dei diritti umani; c) proprietà comune. Proprietà delle Risorse naturali e preservazione del­ l’ambiente. II. - Diritti Culturali (Onu articoli 26 e 27; Diritti Socio-economici artt. 13, 15, 17 e 27; Discriminazione razziale artt. 5 e VII). a) rivendicazione storica e culturale dei popoli indios; b) istruzione bilingue, biculturale e impartita da maestri indios; c) conformazione di una società multietnica e pluriculturale basata sul rispetto e sul mutuo arricchimento; d) introduzione di culti estranei alle comunità come elemento di arricchimento culturale. III. - Diritti socio-economici (Artt. 22, 23 e 25 Onu; Diritti socio-economici artt. 2, 9, 10, I l e 12; Diritti civili e politici artt. 23, 14, 24 e 26). a) diritto a condizioni di vita dignitose (salute, casa, mezzi di sussistenza); b) riconoscimento della responsabilità dello stato alla concessione di contributi per attenuare le attuali necessità e promuovere l ’autogestione e la partecipazione; 4 II programma di queste Giornate assomiglia senza dubbio ai punti toccati dal Progetto di legge, del quale abbiamo parlato anteriormente. 82 c) rivitalizzazione dell’economia comunitaria e collettivista e delle sue or­ ganizzazioni; d) legislazione del lavoro e previdenza sociale. IV. - Organizzazione politica e partecipazione (Diritti civili e politici, art. 25). a) protagonismo e partecipazione nelle decisioni nazionali; b) presenza negli organismi internazionali (Onu, Cmpi); c) filosofia dell’indianismo. V. - Genocidio e razzismo. a) campagna di sterminio delle comunità; campagne militari (Es.: conquista del deserto); trasferimenti forzati; campagne di sterilizzazione; integrazione for­ zata (perdita dell’integrità); emarginazione e sottomissione a condizioni di vita che li condannano alla estinzione, alla scomparsa della comunità. Razzismo. b) sviluppo culturale. VI. Per rispetto siderate - Genocidio ogni punto dei diritti. come le piu ed etnocidio contemporaneo. sono state proposte soluzioni, miglioramenti, rivendicazioni, Qui abbiamo riportato le parti solo che abbiamo con­ significative ed originali. « Noi, nell’ambito del Tawantisuyu, ci siamo organizzati in base ad alleanze. La prima unità è stata il ayllu, una unità che più o meno riuniva 100 famiglie. Vi erano migliaia e migliaia di ayllus in tutto il Sudamerica, « riconosciute in diverse lingue, con differenti termini, ma unite come una cellula; poi veniva l’alleanza degli ayllu per creare le nazioni, quindi l’alleanza di queste ultime per formare i suyus, i quattro suyus del Tawantinsuyu: l’Antisuyu, nella zona delle foreste, il Chinchasuyu, verso il nord, il Kuntisuyu ad ovest, e il Kollasuyu verso sud. E non soltanto il pezzetto delle Ande era un modello per tutto il Sudamerica. Per questo il Tawantisuyo rappresenta per noi un modello di società col­ lettiva e comunitaria. Per noi è un modello e non, come dicono molti, ‘se voi pensate al Tawantisuvu, è perché state pensando di tornare al passato, e questo non è possibile’. No, per noi rappresenta un modello che può funzionare anche da qui a 5000 anni, anche se siamo arrivati sulla Luna. Come modello può funzionare perché è il modello di una società collettivista e comunitaria » « ...Quindi, fratelli, se prima l’Occidente ha esercitato l’egoismo sul nostro popolo, domi­ nandoci egemonicametne, noi oggi proponiamo, non un egemonismo indio, ma l’uguaglianza e la diversità; e se vogliamo creare nazioni più grandi, bene, ma facciamolo sulla base di alleanze. (Salvador Palomino Flores, quechua peruviano). A conclusione di questo lavoro, e in stretto rapporto con le ultime parole del fratello indio, non possiamo non dire — anche se la proposta ristruttura­ zione politica dell’America latina attraverso il sistema delle alleanze appare uto­ pica — che le alleanze esistono già da molto tempo, e che sono quelle stabilite tra le classi dominatrici. Riassumiamo quindi il problema dell’indio in un con­ testo più ampio che, purtroppo, coinvolge troppi latinoamericani. Maria Lidia Garro Ricercatrice argentina 83 Cosi mi è nata la coscienza 1 Mi chiamo Rigoberta Menchù Me IIamo Rigoberta Menchù y asi me nació la conciencia, con questo titolo la casa editrice messicana Siglo XXI pubblica, nel 1985, un libro di cui appa­ rentemente l’autrice è Elisabeth Burgos. In realtà, la Burgos non ne è né l’autri­ ce, né la curatrice, giacché non si propone come etnologa che intenda, attraverso interviste, rimanipolare e rielaborare mentalità altre come oggetti di laboratorio. Potrebbe essere definita depositaria di una testimonianza, « ... una sorta di dop­ pio, uno sfruttamento attraverso il quale la testimonianza passa dalla forma orale alla forma scritta... » 2, come lei stessa dichiara. Elisabeth Burgos si propone come doppio di Rigoberta Menchù, giovane ventitreenne quiché che al momento della stesura dell’opera ha appena imparato la lingua spagnola. Ci troviamo, pertanto di fronte a un libro di contenuto indigenista che però non risponde agli schemi della letteratura indigenista, sia per la forma, sia per l’intenzione extraletteraria. Ma la novità non è da cercarsi in queste divergenze; già nel titolo ci sono due indizi ben precisi di una innovazione rispetto alla precedente letteratura indigenista di orientamento socio-politico, antropologico o storico-letterario. La dichiarazione in prima persona, mi chiamo, sposta quest’opera in un ver­ sante assolutamente nuovo. Nuovo non tanto per il genere, ma per l’istanza af­ fermativa di causa e affetto che esplicita e difende una presa di coscienza. La for­ za racchiusa nell’affermazione del proprio nome va oltre una semplice afferma­ zione semantica: è il primo segno di riappropriazione di una identità negata. Fin® a questo momento indios erano stati chiamati: chiamati e battezzati con l’arrivo degli spagnoli con un nome improprio dovuto all’errore « originale » di Colombo. Descritti con toni affettuosi, ma non per questo meno paternalistici, nella lettera­ tura di denuncia, o ritratti in tutte le loro miserie, per suscitare la pietà. Elevati a mito, in una visione nostalgica del passato, nel tentativo di restituire a quel mito un contenuto storico che rafforzasse la denuncia. Ma comunque sempre connotati dall’esterno. L’innovazione anticipata dal titolo risiede proprio in quella affermazione per­ sonale di identità e non di nominalità, che consente a Rigoberta Menchù, autore e personaggio, di poter fare pubblica, con la storia della propria vita, attraverso il tessuto narrativo autobiografico, la vita della comunità cui appartiene. La parola Me llamo Rigoberta... potrebbe collocarsi nella linea dei racconti autobiogra­ fici di schiavi affidati alla penna di uno scrittore o al registratore di un antropo­ logo. Rispetto a quelli inaugura una modalità di contenuto: il mondo indigeno. Se poi si tiene conto della peculiarità del referente, lo schema potrebbe avere dei precedenti illustri anche in un tipo particolare di cronache sulle testimonanze dei vinti; mentre il suo configurarsi come denuncia fatta a partire dalla pro­ pria esperienza personale, non può non rinviare a certa letteratura testimoniale 1 Questo lavoro è parte di uno studio piu ampio sulle marginalità e la letteratura in A. L. che sarà pubblicato a cura delle autrici. 2 pag. 18. A partire da questo momento i numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine delle edizioni citate. 84 che, in molti paesi latinoamericani, indaga la realtà con il metodo della finzione, riuscendo a ricostruire fatti e persone. Molti dei momenti fondamentali della storia di Rigoberta informano sulla tra­ dizione quiché. Lo spunto nasce dalla descrizione della vita familiare in rapporto alla comunità. Dal rituale della nascita a quello della morte, Rigoberta racconta il proprio mondo contadino con le sue pratiche magico-religiose legate alla terra; racconta gli usi, i costumi e le credenze. Quasi sottovoce costruisce una rappre­ sentazione di quel mondo con toni idillici. Le rapide annotazioni sul contesto con­ tadino e su quello urbano sanciscono un’opposizione insuperabile tra la vita indi­ gena della comunità e quella dei ladini. In una spinta utopica di nostalgia Rigoberta cerca di collocare la sua cultura ad un livello etico superiore, fondato sui valori quali il rispetto e l’amore. Questi stessi valori stanno alla base del rapporto dell’uomo con la natura. L’uomo quiché è natura, convive e esiste in essa, ma non per per questo è politeista, si affretta a dire Ribogerta, « ... noi non adoriamo, rispettiamo la cose della natura... » « Dobbiamo rispettare l’unico Dio, il cuore del cielo, che è il sole... »; si deve rispettare l’acqua « sacra e pura », perché è essenziale. In questa cosmogonia anche la terra è sacra: « Figli, la terra è la ma­ dre dell’uomo perché lo nutre... La terra può essere ferita solo quando è neces­ sario... Prima di seminare la nostra milpa dobbiamo chiedere il permesso alla ter­ ra » (p. 80-81). La dolcezza del ricordo non la esime dal riferire una vita di dolore e di rassegnazione alla quale è condannata. La visione idilliaca, fatta di memoria storica e di mito, si intreccia nel racconto autobiografico con un secondo livello narrativo: quello di un mondo di lavoro im­ posto con violenza che irrompe nella vita di Rigoberta determinando una quoti­ dianità niente affatto idilliaca. Nei campi di caffè o di cotone, dove Rigoberta è costretta, addirittura predestinata, a lavorare fin da bambina, il sole, « cuore del cielo », si trasforma in pura scansione temporale che regola un lavoro disumano dall’alba al tramonto. La terra, fonte di vita, diventa fonte di accumulazione di ricchezze assolutamente estranee. La visione armonica dell’ordine universale che regola la natura diventa per Rigoberta, schiacciata, a soli otto anni, sotto il peso di un lavoro che assoggetta la natura, invece di rispettarla, appena un ricordo da recuperare. Da principio rassegnata alla violenza di quel mondo, si ribella quando si vede negato anche il diritto alla lotta contro la morte. Alla violenza del lavoro, alla fame, all’abbandono, si aggiunge la violenza dell’isolamento, della impossibilità di comunicare. Quando nella piantagione di caffè, Rigoberta bambina assiste alla morte del fratello per denutrizione, l’assenza di comunicazione verbale con gli altri gruppi etnici diventa un corollario di una situazione drammatica di sfruttamento che va oltre le determinazioni economiche e che si radica in uno schema culturale di negazione — prima imposta e successivamente codificata. Sicché la conoscenza della lingua dominante si prefigura innanzitutto come valutazione della parola, intesa come arma da usare, paradossalmente, contro chi è responsabile di quella negazione e di quello sfruttamento. Prima di Rigoberta, la scrittrice messicana Rosario Castellanos aveva detto: « ... e allora collerici, ci hanno saccheggiato, ci hanno strappato ciò che era piu prezioso, la parola, che è l’arca della memoria... ». Con questa frase che apre il romanzo Balun Canàn (1957), la Castellanos agglutina in una sintesi improntata alla rassegnazione il segno piu nascosto e, al tempo stesso, piu drammatico della conquista: la cancellazione delle culture dei vinti attraverso la loro condanna al silenzio. Un silenzio ottenuto con l’imposizione di un’altra lingua. Alla collera Rigoberta risponde con la collera. Il suo racconto, lungo il per85 corso della memoria, si impregna di una rabbia che ha origine nell’impossibilità di esprimersi in prima persona: « Di solito si dice: poveri indios che non sanno parlare, al posto loro parlano altri; perciò mi sono decisa a imparare lo spagnolo ». Questa determinazione codifica il senso di isolamento già provato quando il fratello muore tra l’indifferenza generale, dovuta sia alla spietatezza del pa­ drone, sia alla impossibilità di comunicazione con le altre etnie e che Rigoberta vive non come puro fatto verbale ma come alternativa tragica tra vita e morte. La collega di Rigoberta va prendendo forma a poco a poco e alla rassegnata affermazione della Castellanos oppone una ribellione personale che acquista le dimensioni di un progetto politico vero e proprio. Ha capito che il primo passo per attuare quel progetto è l’assunzione della parola altra. Esiste la parola pro­ pria che è il passato; la memoria è, per Ribogerta come per la Castellanos, l’og­ getto piu prezioso, strappato con la forza. Ma a poco serve commiserarsi; e nem­ meno può essere di aiuto che altri piangano sulle miserie degli indigeni. Rigoberta non riesce a nascondere il proprio atteggiamento critico per ogni espressione di solidarietà verso gli indigeni che venga dall’esterno. Sa di appartenere a un mon­ do che non ha niente a che vedere con quello dei bianchi ed è disposta, pur di difenderlo, a mediare, ad accettare — per poter parlare — la lingua dei sac­ cheggiatori. Rigoberta assume le parole come armi e annulla nella sintesi implicita nel suo racconto l’apparente contraddizione tra lo sconforto rassegnato della scrittrice mes­ sicana e la considerazione di P. Neruda che, in Confesso che ho vissuto (1974) dichiara: « E fummo vincitori, si portarono via tutto, ci lasciarono tutto... ci la­ sciarono le parole... » Rigoberta forse ha capito che le parole hanno avuto un esito diverso tra i gruppi che sono nati dalla società coloniale; per gli indigeni sopravvissuti hanno sancito la condanna al silenzio. Nella tradizione popolare, per fare un esempio, l’impossibilità di comunicare, è attuata nel Dramma di Oruro, attraverso un espediente scenico che costringe gli attori che interpretano la parte degli spagnoli a muovere la labbra senza proferire parola. La metafora letteraria è andata oltre, in Scorza, il comunero ribelle, Garabombo, diventa invisibile agli occhi del potere istituzionalizzato; per Garabombo l’invisibilità ha la stessa va­ lenza del silenzio3. Nell’universo dei vinti, la parola, in quanto arca della memoria, rappresenta dunque tutto: passato, e in quanto tale, presente e futuro. In fun­ zione di quel passato, per uscire dal silenzio e dall ’invisibilità metaforica, Rigoberta sente l’esigenza di affermarsi come entità cosciente per entrare a far parte della propria realtà storica come soggetto e non piu come oggetto. È in questa esigenza che è possibile individuare un elemento nuovo rispetto a tutta una tra­ dizione di riflessioni sull’indio, sia letteraria che saggistica. La scrittura In genere la letteratura indigenista presenta uno schema obbligato che com­ bina quattro variabili: il produttore dell'istanza narrativa, il testo, il referente e il destinatario 4. L’autore, il testo e il lettore appartengono sempre ad uno stesso spazio, quello del bianco, mentre il referente appartiene allo spazio dell’indio. Nem­ meno la narrativa di J. M. Arguedas, che rappresenta uno dei momenti più intensi della letteratura indigenista peruviana, sfugge a questa disposizione. In genere, nel3 L. Terracini, I l grado zero della d iffu s io n e , in T erra A m e ric a , Torino, La Rosa, 1979. 4 Cfr. a questo proposito A. Cornejo Polar, S o b re lite ra tu ra y critica la tin o a m erica n a , Cara­ cas, Universidad Central de Venezuela. 1981. 86 lo spazio àe\Yindio compare un personaggio che funge da mediatore e accorcia le distanze tra i due contesti. A questo personaggio spesso viene ascritto un punto di vista, erroneamente considerato interno al contesto indigeno, che in realtà è sol­ tanto vicino o a favore di quel contesto. In Me llamo Rigoberta... la combinazione delle variabili è diversa. Non essendo la Burgos autrice ma Rigoberta, india quiché, autore e referente hanno la stessa segnicità. La Burgos, in questa occasione, svolge il ruolo che nello schema tradi­ zionale era del personaggio che accorciava le distanze tra i due spazi. Cosi, quella mediazione che nella letteratura indigenista era interna al testo, diventa qui espli­ citamente esterna. La Burgos, puro mezzo di scrittura, lascia a Rigoberta l’intero spazio della narrazione. Anche se ancora non ci troviamo di fronte ad un prodotto letterario perfettamente compiuto in quanto tale, quest'opera apre una prospettiva per una nuova forma di espressione della cultura degli indigeni. Ed è per questo che abbiamo individuato parallelismi con le autobiografie di schiavi e la letteratura indigenista quali Juan Pérez Jolote (1952) di Ricardo Pozas, che si collocano a metà strada tra la letteratura di finzione e l’analisi antropologica. Juan Pérez Jo­ lote, giovane indio del grupo chamula, passa dall’essere mero oggetto di laboratorio a personaggio narrativo; ma proprio l’operazione mediatrice che rende l’opera piu raffinata dal punto di vista letterario toglie forza all’indio come oggetto produt­ tore. La rimanipolazione dell’antropologo prende il sopravvento, quella che poteva essere un’autobiografia si trasforma — nonostante la narrazione in prima persona — in biografia. Di contro, Rigoberta, cosciente della forza della parola che ha acquisito, ac­ cetta di prendere in prestito la scrittura, permettendo cosi che la finzione ceda il passo alla realtà. La tradizione della letteratura indigenista è stata alterata. Me llamo Rigoberta... è, quali che siano gli espedienti, un testo autoreferenziale. Accettando la scrittura in prestito, Rigoberta riesce a far sopravvivere la realtà cui appartiene, non solo come esperienza personale ma come vero e proprio documento storico. Quattro secoli prima, Linea Garcilaso aveva compiuto un’operazione analoga: consacrare alla posterità la cultura Inca con le parole e la scrittura dei vincitori. Il progetto di esistere A questo punto dell’analisi non possiamo fare a meno di prendere in conside­ razione un libro pubblicato in Messico, sempre dalla stessa casa editrice Siglo XXI, nel 1977, « Si me permiten hablar... » Testimonio de Domitila. Una mujer de las minas de Bolivia. Il confronto non è arbitrario giacché si tratta anche in questo caso, di una testimonianza affidata alla stesura di un’altra persona. A raccontare è Domitila, sindacalista del mondo operaio boliviano. È bene però dire subito che, mentre Rigoberta è un'india pura, Domitila è meticcia. La prima è contadina, la seconda operaia. Le divergenze sono di rilievo — Domitila si propone fin dall’inizio esclusivamente come operaia e fa riferimento al contesto indigeno soltanto in poche occasioni — , tuttavia certe consonante suggeriscono la comparazione tra i due te­ sti. Sia Luna che l’altra lottano contro forze sopraffatrici; per Rigoberta sono gene­ ricamente quelle dei bianchi, per Domitila l’antagonismo irriducibile è rappresen­ tato dal mondo del padrone capitalista che la subordina e la sfrutta. Domitila racconta, attraverso la propria esperienza, la storia della vita dei mi­ natori del grande complesso minerario Siglo X X situato nelle Ande boliviane. Da bambina ha imparato il quechua, ma si è alfabetizzata nella lingua materna, lo spa­ gnolo. Per poter parlare — « sempre che glielo permettano » — , utilizza come 87 Rigoberta un mezzo, un doppio che in questo caso è la pedagoga brasiliana Moema Viezzer. La sua testimonianza riguarda i meccanismi di un mondo atroce in cui il lavoratore della miniera trascorre ore e ore nella galleria; in cui la vita media non supera i trentacinque anni e la causa della morte è per tutti la silicosi; in cui la violenza e il massacro rappresentano la risposta monotona alle richieste dei lavo­ ratori pagati in modo irrisorio. Entrambe donne hanno deciso di parlare — una dopo avere chiesto il permesso, l’altra affermando il suo diritto a farlo — per descrivere insieme alla loro vita il percorso che le ha condotte a una presa di co­ scienza e a un conseguente punto di arrivo: la adesione a un progetto. Per Domitila si tratta di combattere contro l’imperialismo e di contribuire alla costruzione del socialismo in Bolivia. La sua è la storia di una donna che partecipa attivamen­ te come dirigente di organizzazioni sindacali, che ha subito il carcere e le torture. Rigoberta, dal canto suo, dichiara molto semplicemente di essere una donna che lotta per il proprio popolo, qualunque sia il prezzo da pagare. All’obiettivo della propria lotta non conferisce alcuna specificità di organizzazione socio-econo­ mica che faccia riferimento ai grandi sistemi. La giovane quiché mette l’accento su un impegno personale, finalizzato a ottenere per la propria comunità il diritto a « essere così come siamo ». I mezzi che utilizza sono il lavoro nelle organizza­ zioni di massa e un’ideologia cristiana che invoca i principi fondamentali della Teo­ logia della Liberazione: la narratrice dichiara in modo esplicto di non essere piu disposta ad aspettare che un po’ di speranza le sia concessa solo con il regno dei cieli: la vuole adesso, la esige subito e sulla terra. Rigoberta non arriva a delineare una proposta politica in senso stretto, e la sensazione che si ha è che addirittura una simile idea la infastidisca. La sua mili­ tanza, prima nel Comitato di Unità Contadina (Cue) e successivamente nella orga­ nizzazione Cristiani Rivoluzionari Vicente M enchu5 è diretta, totale, fondata sul rischio personale e su una concretezza dove la sua esperienza di contadina indigena conta quanto quella di donna. Il distacco, il poco interesse per la discussione intorno alle grandi opzioni ap­ pare in Domitila dovuto piu a una forma di antiintellettualismo insofferente ai lin­ guaggi complicati delle statistiche e delle teorizzazioni, che a una volontà nuova di guardare alla politica e di utilizzarla come via di uscita. Non ci sembra azzardato affermare che in Rigoberta l’assenza di riflessione politica vada molto oltre la sua condizione di neofita. Quando per esempio afferma: « C’è qualcosa di importante nelle donne del Guatemala; la donna indigena in par­ ticolare esprime qualcosa di importante cioè il suo rapporto con la terra... La terra alimenta e la donna da la vita... » (p. 245), ha già fondato una prima equazione essenziale che riguarda, da una parte la conoscenza del mondo quiché e dall’altra la presa di coscienza come donna raggiunta attraverso quel mondo. La donna, an­ che quella quiché, è abituata a rapporti molto personali e concreti. È da questo tipo di rapporti che Rigoberta trae la propria forza: « ... Esiste un dialogo costante tra la terra e la donna. Quel sentimento probabilmente nasce nella donna per le responsabilità che ha e che sono estranee all’uomo. È così che sono riuscita a ana­ lizzare i compiti specifici che ho nell’organizzazione » (p. 245). Rigoberta ci indica una nuova volontà rispetto alla politica, che emerge dalla esperienza personale quotidiana e che rinvia ai valori della vita, ai valori più in­ timi, profondi e essenziali. La coscienza di donna affiora dunque parallelamente 5 II Cue nasce nell’aprile del 1978, col proposito di raggruppare tutte le organizzazioni contadine e di dare impulso ad una lotta operaio-contadina; mentre il gruppo « Cristiani Rivo­ luzionari Vicente Menchu » prende il nome dal padre di Rigoberta, assassinato durante l’occu­ pazione, da parte dei contadini, dell’ambasciata di Spagna nel gennaio del 1980. 88 a quella di indigena, e cioè di « condannata della terra ». In questo ambito segnato dalla repressione, dall’isolamento, dal silenzio, va ricostruendo la propria esperien­ za personale per mezzo della quale identifica le radici sociali e storiche della sua marginalità come indigena, come contadina e come donna. Domitila, meticcia, non si trova nella stessa condizione di marginalità culturale perché non subisce alcuna discriminazione razziale. Partecipa a una realtà che, per quanto dura, non la rifiuta piu di quanto non rifiuti chi, come lei, auspica la costru­ zione del socialismo in Bolivia. Per Rigoberta, invece, la lotta è ben più faticosa. Nel passaggio dal contesto contadino a quello urbano — che avrebbe dovuto mi­ gliorare le sue condizioni di vita, grazie al lavoro in una casa di bianchi — è consi­ derata meno di un cane: « mi sentivo emarginata. Meno dell’animale della casa » (p. 118). Il contenuto fondamentale della rivendicazione di Rigoberta è — e non poteva essere altrimenti — la difesa della terra. La terra madre, la terra che alimenta e che i ladinos hanno violato con i loro espropri: « Mio padre combattè ventidue anni per difenderci, con la sua eroica lotta contro i latifondisti che ci volevano togliere la terra. Quando il nostro piccolo appezzamento cominciava a dare i suoi frutti, dopo molti anni, e in tutto il paese c’erano coltivazioni, arrivarono i latifondisti... » (p. 129). Ed è per questo che Rigoberta, nella propria rivendicazione contadina, fa appello alla cultura degli avi che la lega indissolubilmente alla terra. La difesa della terra non si fonda certo su ragioni economiche, ma sulla volontà di garantire la sopravvivenza di un gruppo etnico e della sua cultura. Il passato diventa cosi un elemento imprescindibile. La spinta verso il futuro nasce appunto dalla necessità che quel passato sopravviva con i suoi riti, con le sue cerimonie, con le sue concezioni, al centro delle quali c’è la terra che non può avere un pa­ drone e con la quale l’uomo, « fatto di maiz », convive: « Quando quella gente ci ha tolto la terra... mio nonno piangendo amaramente disse: prima non esisteva un unico padrone della terra. La terra era di tutti e non esistevano confini » (p. 133). L’intero discorso di Rigoberta è permeato da una nostalgia che si richiama a quei valori etici della propria cultura: onestà, rispetto e amore, che la giovane quiché oppone al mondo ladino. Lungo il percorso che l’ha condotta alla presa di coscienza, la stessa Rigoberta, pur prescindendo da qualunque teorizzazione spe­ cifica, dovrà spontaneamente accettare l’idea di trasgredire alcuni schemi culturali senza peraltro trasgredire quei valori. La sua dichiarazione in proposito affidata a una breve frase (« ... fu allora che decidemmo di non tenere più conto di alcuni schemi culturali, ma soltanto perché era un modo per salvarci ») è il commento di un’azione di difesa della comunità che deve affrontare un’incursione dell’esercito. Molti elementi della narrazione inducono a pensare che, anche ai suoi occhi, la conservazione totale, integra e isolata della propria cultura sia incompatibile con la sopravvivenza della stessa. La prima trasgressione tangibile è, da parte di Rigoberta, l’acquisizione di una lingua che non le appartiene. Angosciata dal silenzio, introduce nella propria lotta una nuova arma, che oltre a consentirle di uscire dall’isolamento, la obbliga a vedere sotto una nuova luce i ladinos. Nella sua presa di coscienza, Rigoberta applica ài mondo altro, il diritto alla diversità. Non tutti i bianchi sono sfruttatori, anche in quel mondo esiste una situazione di miseria che può essere assimilata a quella propria. Per la seconda volta il suo si afferma come atteggiamento di trasgressione de­ gli schemi culturali più profondi del proprio gruppo. Tutto ciò però non significa l’accettazione o la proposta di un processo di acculturazione e integrazione subite e passive. C’è un punto sul quale Rigoberta non è disposta a transigere: rivelare, almeno per il momento, l’identità più remota, del proprio essere indigeno. Invano gli studiosi cercheranno di scoprire ciò che lei 89 non intende svelare: « Ma ancora continuo a occultare la mia identità di indigena. Continuo a occultare ciò che nessuno sa, né un antropologo, né un intellettuale, per quanti libri posseggano non riusciranno a capire i nostri segreti » (p. 271). Accanto alla volontà di esprimersi la contadina indigena rivendica il diritto a non parlare, a esistere nella diversità. Qualunque sia la validità del suo progetto, che a volte assume i toni dell’utopia, è nell’universo della parola che Rigoberta guida e consuma il diritto a vivere dignitosamente come indigena, come contadina, come donna. A differenza di Domitila, l’indigena quiché non chiede il permesso di usare la parola perché se ne è appropriata da sola come arma. Ledda Arguedas Luisa Pranzetti 90 Alessandra Marra Una voce del Perù «profondo» Intervista a Luis Barreda Murillo Negli anni scorsi, sulle pagine di questa rivista, parlammo del Peru e delle sue tragedie economiche, così come delle peculiari questioni etniche e storiche. Parlammo di riforma agraria, di Sendero Luminoso e di indigenismo, di movimenti culturali e politici" intervistando studiosi peruviani che, a nostro parere, rappre­ sentavano la complessità di questo paese la cui lettura era e rimane, per molti aspetti, non semplice. Oggi proponiamo un’intervista a Luis Barreda Murillo, una voce del Peru profondo e, per introdurla, riproponiamo la definizione di America Andina per quella vasta area geografica comprendente Peni, Bolivia ed Ecuador; tre nazioni situate nel continente detto « latinoamericano ». Ma, a ben vedere, anche il resto di questo continente lo si può definire, oggigiorno, latinoamericano? Perii, Bolivia ed Ecuador oltre a convivere nel medesimo sistema ecologico hanno in comune la composizione etnica e la storia che le vede, sino all’invasione spagnola, appartenere al T'a wantinsuyo, meglio conosciuto come impero degli inka. Questi, ultimi monarchi di un vasto territorio — e i primi monarchi andini cono­ sciuti dagli europei — lo unificarono politicamente nell’arco di un secolo. Ma la storia di quello che divenne il Tawantinsuyo è molto piu antica. Impero degli inka che i conquistadores incontrarono, nel 1528, percorso da movimenti politici ed ideologici che contrapponevano « tradizionalisti » — capeg­ giati da Atawalpa e dal gruppo piu conservatore della casta sacerdotale — e « ri­ formisti » — capeggiati da Waskar e dalla corte di Cuzco — in lotte intestine e scontri armati. Lotte e scontri che rianimavano le popolazioni assoggettate dagli inka i quali, sebbene unificarono politicamente l’impero, la rapida espansione non consentì loro d’integrarlo anche culturalmente. Ma se la « conquista » depredò il Tawantinsuyo dell’oro e dell'argento deci­ di mando fisicamente le popolazioni andine, dopo averne integrato una parte del gruppo dirigente, non riuscì ad intaccarne la millenaria cultura e personalità. Co­ sicché, sia il viceré di Toledo — che pure era riuscito ad assassinare l’ultimo ìnka ribelle di Vilcabamba, Tupc Amaru — con la proibizione dell’uso degli abiti tra­ dizionali e sia i pur rigorosi distruttori di idolatrie, con la proibizione dell’uso dei qttipu, non mutarono il rapporto tra le genti andine e la natura. E ancora oggi la terra è la « fonte di tutte le cose » e l’omaggio alla madreterra, praticato nel mese di agosto, è identico al rito di mille anni or sono. La « liberazione » dal gioco spagnolo, operata da Simón Bolivar, in realtà li­ berò il gruppo dirigente creolo dal controllo del re di Spagna che, sebbene lon­ tano, esigeva puntualmente i tributi. Fu una liberazione fatta in nome « dei figli del Sole » ma con un respiro politico e culturale ancora rivolto all’Europa; libe­ razione da cui trassero profitto bianchi e creoli lasciando le popolazioni andine — quegli eredi degli inka per cui era stata fatta — nell’abbandono. Un abbandono che si tradusse in uno sfruttamento « moderno » di queste genti perché, se al re di Spagna bastavano i « tributi » ai creoli, invece, tesi a par­ tecipare al mercato internazionale, serviva forza lavoro a costo bassissimo che compensasse la mancanza di strutture. I governi che si succedettero riuscirono ad avviare un processo di espropriazione dell’identità culturale delle popolazioni an­ dine, processo in cui erano falliti gli spagnoli. Candii!os e presidenti governarono pensando in una nazione bianca mentre la maggioranza della popolazione era « in­ dia ». E « india » rimane tuttora, sommersa e chiusa, apparentemente « passati­ sta » e con il cordone ombelicale legato alla terra e all ’altura. Eppure oggi, in questi paesi, e in particolare in Perù che ne è lo specchio più significativo, parlare di progresso e di rinascita nazionale vuol dire parlare di que­ ste popolazioni che paiono senza orgoglio. E giustamente il primo grande marxista latinoamericano, J. C. Mariàtegui vedeva in esse il soggetto politico per la rivo­ luzione. Al problema dell’economia dipendente che strozza i paesi latinoamericani se ne aggiunge un secondo nell’area andina, consistente nell’impellente necessità di un recupero della propria identità culturale, questo per poter ritessere l’ordito del­ la trama di un giusto orgoglio nazionale. « Poter essere peruviani ». Orgoglio da contrapporre ai fautori del « passo dell’oca » e della « pax andina » che hanno cu­ cito, in mille maniere, i galloni al governo di pochi. Ci sia consentita una precisazione, necessaria per sgomberare il campo dagli equivoci: è lontano da noi lo spirito « terzomondista » e ancora di più il folclore come strumento per conoscere questo paese, protagonista invece di una storia an­ tichissima. Una storia che ne determina Yactitud e, nel conoscerla, potremo co­ gliere i segnali che, oggi, consentono di intuire il Perù in movimento. Senza scomodare los dioses ricordiamo che, nel 1982, comparve sui giornali di tutta Europa la notizia della strage di otto giornalisti perpetrata nella comunità andina di Uchurracay, nel dipartimento di Ayacucho. Strage che suscitò lo sdegno più grande e la ricordiamo per dissentire da Mario Vargas Liosa, prolifico roman­ ziere peruviano il quale, nelle vesti di membro della Commissione d ’inchiesta par­ torita dal regime di Belaunde Terry per far luce sugli avvenimenti, avallò la tesi — precostituita — del governo, tesa a presentare queste comunità barbare e omi­ cide, retaggio del moderno Perù. In realtà si nascosero le stragi e le moderne bar­ barie dei sinchis — il corpo speciale antiguerriglia — padroni e signori della sierra ayacuchana. Questo « retaggio » del moderno Perù così ispirò la conclusione dell’articolo di Mario Vargas Liosa, scritto per il « Corriere della Sera » « ... povero paese mio! », dimostrando non solo l’accomodamento con il regime — sebbene in questi 92 giorni abbia riconosciuto di essersi sbagliato — pure una certa ignoranza a pro­ posito del paese reale. L’immagine dell’« indio » rassegnato equivale, oggi, realmente, a quella del­ l’uomo delle Ande, abituato da millenni a fare i conti con una natura ostile, cui ha strappato ogni palmo di terra coltivabile e che ha sempre prodotto ricchezza per l’intero paese? Siamo andati a Cuzco per intervistare un protagonista di quei segnali di cui, poc anzi, abbiamo scritto. Luis Barreda Murillo, 58 anni, archeologo dell’Universidad National San Abad del Cuzco. Un « operaio » della ricerca sul campo; trentacinque anni di insegnamento universitario e di scavi archeologici nella città e nelle valli del dipartimento del Cuzco. Un esistenza, la sua, trascorsa tra i libri, le pietre e gli studenti, attento osser­ vatore del passato e del presente in movimento; una democrazia negli studi e nella ricerca tesa a raccontare la storia del popolo e della sua agricoltura, oltreché dei suoi generali e dei suoi re. Della città di Cuzco conosce ogni angolo recondito, ogni magia ed ogni la­ mento, oltre ai segreti e ai problemi. Un intellettuale andino ironico nei confronti di una certa « intelligenza » limena che romanza sull’indio senza conoscerne in realtà né la lingua né la personalità. Uno studioso in progress convinto che, per migliorare il Peru, innanzitutto i peruviani debbono conoscere il proprio paese, nel conoscerlo, ricercare nella sto­ ria nazionale il cammino per 1 emancipazione. È l’archeologo conoscitore di quelle comunità indie che lasciarono perplessa l’Europa con la strage di Uchurracay e con le quali dialoga in quechua (l’antico idioma andino conosciuto, oggi, da dieci mi­ lioni di peruviani su diciotto e parlato da sei milioni) conoscendone la mentalità e le tradizioni ancestrali, mimetizzate nelle feste religiose cattoliche. E nelle leg­ gende indie, gelosamente conservate e tramandate di generazione in generazione, ri­ trova quel filo d ’Arianna che consente di dare la storia alle rovine archeologiche. Affermando che la storia del Perii la si conosce sempre di piu interrogando le genti andine e sempre meno nelle università, ancora cosi permeate da una visione ispanista, con i suoi studenti esce dalle aule universitarie per insegnare « direttamente sul campo ». Pensiamo di dare un contributo alla conoscenza del Peru profondo intervi­ stando Luis Barreda Murillo, una voce nuova nel panorama culturale peruviano, una voce nazionale. Confessiamo che, per vincere la sua ritrosia, lo abbiamo inter­ vistato camminando lungo le rovine di Sacsayhaman, a 3.500 metri di altezza, in un panorama di rara bellezza. D. Prof. Luis Barreda Murillo che significa, oggi, a Cuzco, «fare archeologia » e produrre cultura nazionale? R. L importanza del suo studio e del lavoro di ricerca si fonda nella necessità irrinunciabile di conoscere scientificamente il passato culturale del Peru e, in par­ ticolare della valle di Cuzco. Questo per sradicare speculazioni sul processo e svi­ luppo delle culture andine che, in alcuni casi, sono state idealizzate e, in altri, deformate da interessi politici. Il passato del Peru non sono solamente gli Inka i « figli del Sole ». D. Archeologia ed etnostoria. Come spiega lei che i principali studi archeologici ed etnostovici sul Pevu andino sono stati compiuti da studiosi stvanieri? 93 R. Sebbene esistano numerosi studi sul Peru andino pubblicati da ricercatori stranieri, è innegabile che gli iniziatori dell’archeologia e dell’etnostoria peruviana sono ricercatori peruviani come J. C. Tello per ciò che riguarda l’archeologia e L. E. Valcarcel per l’etnostoria. Le loro ricerche e il loro pensiero sono stati pro­ seguiti da peruviani e stranieri. Le pubblicazioni degli studiosi stranieri si devono, principalmente, all’appoggio economico che esse hanno ricevuto dalle università dei loro paesi. In Peru, invece, avviene un fatto curioso e significativo al con­ tempo: le opere dei ricercatori peruviani sono ancora inedite per l’assoluta man­ canza di fondi delle università presso cui lavorano. Aggiungerei che questo genere di ricerche non incontrano ancora l’appoggio ufficiale dello stato e delle sue isti­ tuzioni. Appoggiarle significherebbe fare una scelta politica, una politica nazio­ nale. Le faccio un esempio. Noi archeologi, antropologi ed etnologi, andiamo di­ cendo che la quinua è uno degli alimenti piu antichi sulle Ande e fonte di sosten­ tamento tuttora. Perché il governo, anziché favorire le multinazionali importan­ do il latte in scatola, non favorisce il potenziamento dell’agricoltura? Oltretutto il latte è un alimento poco consono alla dieta delle popolazioni andine. Lavorire la semina della quinua non costa molto... D. Si parla di un Peru ufficiale e di un Peru profondo o andino. Secondo lei quale la realtà del Perù, oggi? R. È evidente che il Peru reale o autentico è un paese eminentemente andino che, dall’invasione spagnola, ha sofferto una permanente aggressione economica e culturale. Nonostante tutto questo paese è riuscito, attraverso i secoli, a salvare valori culturali determinanti, oltre ai propri fondamentali principi ideologici ed economici, come un profondo spirito democratico e reciprocità e redistribuzione dei prodotti. Vede, quando si parla del Perù ufficiale si parla del Perù di ascen­ denza spagnola. Un Perù meticcio e bianco che ha imposto in passato, e cerca di imporre ancor oggi attraverso il potere politico ed economico, il proprio modello di vita, impedendo così lo sviluppo del Perù di ascendenza andina il quale rappre­ senta pur sempre tre quarti dell’intera popolazione peruviana. Una vera e propria tragedia di cui dovrebbero interessarsi anche i democratici europei. Quindi la preoccupazione di noi archeologi è quella di recuperare i valori cul­ turali del Perù non come semplice studio del passato, ed è un passato ancora tutto da scrivere. Recuperare questi valori significa recuperare il Perù ed emanciparlo. Recuperarli non per tentare di ristabilie l’antico modello economico e politico oggi improponibile ma perché siamo convinti che da questo patrimonio di conoscenze le Ande ritroveranno la loro dignità e il patrimonio di esperienze potrà servire a delineare un progetto di cambiamento sociale, economico e culturale e mediante il contributo del passato e le esperienze dell'oggi ricostruire il futuro del Perù. Le multinazionali penetrando nelle Ande impongono anche modelli di vita inaccet­ tabili e lontanissimi da noi. D. Come lei dice, fare archeologia, oggi, è conoscere il passato e il presente e prospettare il futuro. Come sarà Cuzco domaniP R. Il futuro del Cuzco, a nostro parere, dipende dalla volontà politica del centralismo di Lima. D. Lima è la capitale del Perù e Cuzco la capitale dell’area andina peruviana. A suo criterio come ha influito la Capital sullo sviluppo e la salvaguardia del pa­ trimonio archeologico e culturale di Cuzco che è stata definita « patrimonio dell’u­ manità? ». 94 R. La città di Lima fu il primo enclave europeo in Perù che si costituì nella capitale della dominazione ispana del Perù. E fu creata, storicamente, come oppo­ sizione politica e ideologica alla città di Cuzco che era stata la capitale dell’impero ìnka e da allora Cuzco fu emarginata. Durante il virreynato riacquistò una certa im­ portanza ma con l’avvento della Repubblica fu definitivamente relegata al ruolo di lontana provincia mentre, all’estero, incominciava a sorgere un grande interesse per la sua storia millenaria e per la sua archeologia. Lima la capitale e sede del go­ verno dove in passato, perché oggi la realtà e diversa, la popolazione era bianca e Cuzco il riferimento ideale per le popolazioni andine o « indie ». Questo spiega perché l’archeologia del Cuzco non si sia sviluppata come in altri luoghi del paese, come sulla costa, ad esempio. Le culture della costa si erano integrate con la « con­ quista » mentre quelle andine non sono integrate tuttora. Le dirò di più. Gli ar­ cheologi del Cuzco non hanno appoggi economici per le loro ricerche e sono limi­ tati dalla burocrazia degli organismi del governo centrale. Qui un archeologo per poter lavorare ad uno scavo deve seguire un iter burocratico lunghissimo oltre al dover pagare il biglietto di ingresso in un centro archeologico come un qualsiasi turista. Io stesso pago il biglietto di ingresso e per sostenere le spese degli scavi che dovrebbe essere a carico dell’università sono costretto ad un secondo e terzo lavoro che esula completamente dai miei studi. D. Parlare di archeologia a Cuzco significa parlare di lei e delle sue ricerche. Ricercatori stranieri che hanno lavorato a Cuzco hanno pubblicato molto, mi con­ senta di chiederle qual’è la causa per cui non ha pubblicato i suoi studi. R. Per risponderle sono costretto a ripeterle più o meno ciò che le ho già detto. La causa è semplice se, come abbiamo detto, le ricerche non possono con­ tare sull appoggio economico dello stato e quindi dell’università, a maggior ra­ gione non esistono i mezzi finanziari per pubblicare i risultati delle ricerche per quanto importanti possano essere. Come le ho detto prima sono spesso costretto a lavori « straordinari » per poter proseguire le mie ricerche archeologiche e com­ prare con i miei propri mezzi il materiale indispensabile. Questo è un motivo per cui ho accumulato fogli e fogli che rimarranno inediti se qualcosa non cambierà. E sono piuttosto pessimista a proposito di un cambiamento in tempi ragionevoli. D. In Europa l’immagine archeologica del Peru è, principalmente, Machu Picchu, nonostante il paese sia ricchissimo di vestigia archeologiche. Che ne pensa lei? R. È certo che questa famosa citta e la piu conosciuta nel mondo ma non è l’unica perché in Perù esistono per lo meno centoventotto Machu Picchu e sola­ mente nei dintorni di Cuzco quarantasettemila sitios archeologici datati e classifi­ cati. Il fatto che Machu Picchu sia la piu conosciuta lo si deve alla grande pubbli­ cità che le diede Hiram Bigham nel 1912 con i potenti mezzi di cui poteva dispor­ re. Inoltre il suo prestigio è stato esaltato dalle grandi imprese turistiche che lì hanno concentrato i loro capitali, distraendo l’attenzione dagli altri centri archeologici. Se si tratta di porre i centri archeologici al servizio del turismo, penso in un turismo europeo intelligente che cerca di conoscere, attraverso il passato, la storia e la realtà del Perù. E se parliamo di Cuzco dobbiamo dire che molti credono sia stato un centro urbano inka non conoscendo che prima degli tnka esistevano cul­ ture importantissime come quella Wari di Cuzco che costruì Pikillaqta. Pikillaqta è una gigantesca città dell’anno 800 d.c. che dista 27 chilometri da Cuzco e quattro volte più grande di Machu Picchu. Rimane il fatto che le agenzie di turismo non accompagnano i turisti a Pikillaqta perche visitarla costa poco. E li costringono, in un certo senso, a non conoscere né la gente né l’archeologia andina. 95 D. Un’ultima domanda. Qual’è il suo messaggio agli archeologi peruviani? Risponde additando la città di Cuzco sottostante mentre si diffonde l’ombra della sera. R. Uno solo: confrontarsi con la realtà e le difficoltà che reca con sé e conti­ nuare il lavoro scientifico nella fiducia che le istituzioni peruviane si renderanno conto, prima o poi, che il Peru è un paese ricchissimo e possiede gli strumenti per la propria rinascita. E quest’anno, a Cuzco, si laurerà la prima generazione di archeologi che par­ lano quechua e scavano le valli che circondano « l’ombelico del mondo », integrati con le genti che le abitano. Sono i suoi studenti e, alcuni di loro, sono figli delle comunità indie e, per studiare, hanno imparato lo spagnolo. 96 Alessandro Aruffo Canudos: una rivolta messianica? Il nordest brasiliano, « quasi novecentomila chilometri quadrati di superficie, che mostra dovunque i segni di una sofferenza cosmica » ', riassume i tratti di un « sottosviluppo » antico e recente, ossessivo nella sua cornice geografica, ma tu tt’altro che cristallizzato. Sottoposto storicamente a continue trasformazioni, ha allevato tensioni sociali — all’interno della storia del Brasile dalla coloniz­ zazione all’indipendenza — rivelatrici di una condizione varia e permanente di sfruttamento e di oppressione di comunità e classi, alimentate dal e nel « sottosviluppo ». Se a questo destino ha anche condotto la varietà dei climi, determinanti si sono rivelate le trasformazioni sociali indotte dalla successione dei modi di produ­ zione. Ma le tensioni sociali latenti, le ricorrenti e multiformi ribellioni non sono mai state canalizzate nella forma rivoluzionaria della liberazione popolare, finendo per essere strumentalizzate da gruppi di lotta per l’egemonia locale o utilizzate demagogicamente come forza di pressione politica. Nel nordest sertanejo l’uomo e l’ambiente sembrano solidarizzare nella trage­ dia. Una tragedia dominata dal senso sociale della morte che incombe palpabilmente sugli uomini, costretti dalla nascita a nutrire la terra. Siamo nel nordest12 ove la fame acquista le caratteristiche della crisi acuta e delle carestie periodiche. Un nordest centrale scosso dalla sottoalimentazione, nella morsa della siccità dell’altopiano semiarido, nel quale la precarietà dell’esistenza impone i suoi miti ed espone i suoi valori collettivi simbolizzati nel fanatismo religioso strettamente innestato al ban­ ditismo sociale e al flagello delle carestie. 1 J. de Castro, U na zo n a esplosiva: il n o rd e ste del B rasile, Torino 1966, p. 37. 2 II nordest comprende gli Stati di Bahia, Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraiba, Rio Gran­ de do Norte, Cearà, Piani, Maranhào. 97 « Santi », « profeti », banditi, « consiglieri » diventano i portavoce sociali di masse diseredate, disorientate e predisposte ad accogliere ed adulare i simboli con­ creti delle loro aspirazioni a sfuggire alla miseria attraverso la magia o la violenza, nel desiderio perennemente inseguito e mai realizzato di conquistare orizzonti fer­ tili. Misticismo e fame si coniugano opportunamente nel segno del « sottosvi­ luppo ». Il fanatismo messianico, spesso, è l’esasperazione e la denuncia di una frustrazione sociale che non trovando sbocco politico declina nel miracoloso, nel­ l’attesa di un evento invocato, magicamente « circuito » 3. Il Brasile del sec. X IX Nel corso del sec. XIX lo stato di Bahia — parte integrante del nordest che nel 1872 assorbe il 46,5% della popolazione brasiliana 4 — è investito dalla progres­ siva decadenza delle grandi imprese dello zucchero. Inizia l’irreversibile declino del latifondo monocolturale a lavoro coatto, mentre l’avanzata deH’allevamento pro­ duce la dispersione della popolazione, l’involuzione nella divisione del lavoro, l’ar­ retramento della tecnica artigiana, l’avvento di una precaria economia di sussisten­ za organizzata attorno a comunità di villaggio coi suoi mestieri, fino ad allora, funzionali alle necessità del proprietario della fazenda patriarcale. L’intero complesso regionale subisce l’assalto di regioni a ciclo meccanizzato della produzione dello zucchero, a vocazione industriale complessiva, con conse­ guente centralizzazione produttiva. Somma di tecniche e di rapporti di produzione capaci di scardinare il patriarcalismo schiavistico, esclusivo di ostacolo all’attec­ chimento di particolari tradizioni sociali di solidarietà. Per questa via si coglie il tratto imperialistico del sistema industriale brasiliano, nel piu generale contesto di collocazione « dipendente » dell’America latina nell’ambito della divisione inter­ nazionale del lavoro. Il processo di destrutturazione della « civiltà dello zucchero » si accompagna al boom dell’economia mineraria, polo d ’attrazione dell’emigrazione dal nordest, a fronte di un sistema economico molto articolato ma fondamentalmente ruotan­ te attorno ai due assi dello zucchero e dell’o ro 5 — prima della comparsa della piantagione di caffè — sostenuti dall’entroterra pastorale e, quindi, interessato al potenziamento dell’allevamento, indispensabile al rifornimento alimentare dei principali centri economici (Maranhào, regione mineraria, fascia zuccheriera). Al crollo dei prezzi dello zucchero e del cotone, alla disarticolazione del modo di produzione schiavo-aristocratico subentra l’affermazione della coltura del caffè, principale voce delle esportazioni (anni ’30) la cui produzione è concentrata nella zona montana attorno a Rio. Nonostante alcune flessioni congiunturali, l’economia del caffè — fondata anch’essa su manodopera schiava 6 ma, a differenza di quella 3 Si veda, al riguardo, l’affascinante saggio di R. Bastide, O M e ssia n ism o e a T o m e , in « O D ram a U n iversa l da F o m e », Rio de Janeiro 1958. 4 R. Bastide, Il B ra sile , Milano 1960, p. 77. 5 « Articolato al nucleo zuccheriero, sia pure in forma sempre piu debole, era anche l’al­ levamento del bestiame del Nord-Est. Articolato al nucleo minerario era l’hinterland pasto­ rale del Sud. che si estendeva da Sào Paulo al Rio Grande. Questi due sistemi da parte loro si legavano debolmente attraverso il fiume Sào Francisco, la cui produzione zootecnica usu­ fruiva del fatto di trovarsi a mezza strada tra il Nord-Est e il Centro-Sud, per rivolgersi a quello dei due mercati che di volta in volta presentasse maggiori vantaggi » (C. Furtado, La fo r ­ m a zio n e eco n o m ica d el B rasile, Torino 1970, p. 126) . 6 « Il primo censimento demografico realizzato nel 1872 indica che in quell’anno esiste­ vano in Brasile pressappoco un milione e mezzo di schiavi » (C. Furtado, op. cit., p. 159). 98 dello zucchero, a basso grado di capitalizzazione per la preminenza del fattore terra — richiama forza-lavoro dal nord, con ulteriore impoverimento economico e sociale delle aree zuccheriere e capace di esaltare l’articolazione sociale di un polo urbano (Rio) attivo nel commercio di bestiame e dei generi alimentari, nel­ l’acquisto di terre e di manodopera, nell’organizzazione e commercializzazione della produzione. Alla guida di un simile processo di riconversione economica complessiva si pone una classe media urbana operante al di fuori dei condizionamenti monopoli­ stici portoghesi tracciando una rotta inversa alle classi aristocratiche zuccheriere, assenti nelle transazioni, con scarsa consapevolezza « nazionale », confinate nel ristagno e dell’oziosità dell’ambiente rurale-patriarcale1. Sarà la borghesia urbana a scorgere nello Stato uno strumento di « copertura » delle iniziative economiche; a subordinare l’attività politica ai propri interessi di classe; ad avviare il processo di separazione (1822) dal Portogallo fino alla proclamazione della repubblica (1889). Esposto alle ricorrenti siccità — quella del 1877-80 causò la totale distru­ zione del bestiame del Cearà e la morte di circa 200 mila persone 78 — il nordest, indebolito nel suo cardine produttivo espelle la popolazione esponendo alla de­ bacle economico-politica i gruppi dominanti regionali « espropriati » di manodo­ pera. L’emigrazione dal nordest interessa lavoratori, indeboliti già prima di essere immessi nel ciclo produttivo (rimborsi per spese di viaggio, installazione, strumenti di lavoro). L’indebitamento e le grandi distanze espongono i migranti ad una vita di stenti, precaria, legata ad un regime di servitù consumato in capanne rudi­ mentali nell’ambito dell’economia coloniale. Ad aggravare la situazione regionale interviene, nell’ultimo quindicennio del secolo, la politica monetaria del governo provvisorio — instaurato con la pro­ clamazione della repubblica, priva di elasticità e gestita, di fatto, in seguito al decentramento, dai governatori di provincia. Nel contempo la divaricazione di di interessi, promossa dalle molteplici forme di organizzazione del lavoro, ridefi­ nisce termini ed ambiti della lotta fra le classi dirigenti, dal cui scontro si avvantaggerà il sud urbano con la sua piccola proprietà agricola di colonizzazione e il suo salariato di piantagione. Settori di borghesia ricca costiera individuano nel governo imperiale una forma obsoleta di direzione politica, sostenuta dai vecchi interessi schiavistici e accusata di non saper avviare né progetti di « modernizzazione » economica né iniziative di ammodernamento delle istituzioni che rispecchiassero interessi e aspettative dei capitalisti industriali (organizzazione bancaria, sanità, educazione, formazione pro­ fessionale) candidatisi a classe dirigente nazionale. Per questo la proclamazione della repubblica acquisterà il carattere di sommovimento regionale autonomistico e antiassolutistico, rispecchiato, tra l’altro, nella concessione del potere di emis­ sione riconosciuto a numerose banche regionali (riforma monetaria del 1888) a vantaggio della politica creditizia che, gravando sulla bilancia dei pagamenti, pro­ vocherà la svalutazione e la compressione dei salari. Orientamenti politici ed indi­ rizzi economici del Brasile del sec. XIX sono alla base della comprensione della guerra di Canudos. Senza questi riferimenti si rischia la mitizzazione idealistica della « libertà » 0 la costrizione della vicenda negli angusti limiti di un sociologismo di maniera. 1 fatti di Canudos vanno interpretati nel quadro storico-sociale del Nordest all’in­ terno dell’unità di fondo dell’economia brasiliana, espressa nella complementa7 Per un approccio sociologico suH’argomento si rinvia a G. Freyre, N o r d e s te , L ’u o m o e Milano 1970. 8 C. Furtado, op. c it., p. 178. g li e le m e n ti , 99 rità fra formazioni economiche, spazi regionali, apparentemente disomogenei per funzioni produttive, relazioni sociali ed etniche complesse e diversificate. Canudos pone il problema della permanenza e dello sviluppo storico di aree di « arretra­ tezza » economica9 nella fase di transizione verso I’industrializzazione distorta e diseguale. Ma, si badi, « sottosviluppo » brasiliano, avvitato all’offerta illimitata di terra, scosso da tradizionali sommosse rurali, attraversato da nuovi emergenti problemi sociali e segnato dal livello delle tecniche agricole. Canudos è parte della storia dello stato di Bahia e momento di quella del Brasile le cui moderne contraddi­ zioni sociali s’intrecciano nel canovaccio multiculturale e plurietnico di una colonia sottoposta alla sovrapposizione regionale di sistemi coloniali 10 con le rispettive modalità di radicamento dell’uomo alla terra secondo tempi e forme che una com­ piaciuta letteratura esotica si ostina a simboleggiare nelle molte « anime » del Bra­ sile, estranee l’una all’altra. Disomogeneità produttiva, varietà di climi e di ecosistemi, eterogeneità di costumi, pluralismo etnico-culturale sono stati evocati come « frontiere » imper­ meabili ma coesistenti. Elementi di divisione permanente. Al contrario esiste una unità brasiliana di matrice economica, storicamente contrassegnata dal movimento dei bandeiras e dalla diffusione dell’allevamento. Se il nordest, a partire dal sec. XVI, propone il latifondo zuccheriero a lavoro schiavo, nella zona di Sào Paulo si coglie la presenza di un’agricoltura di sussistenza, povera ma piu autonoma dalle metropoli con popolazioni scarsamente sedentarizzate donde usciranno gli esploratori, le truppe meticce, bianche, indie dirette verso il sertào 11. Alla marcia paulista di penetrazione (movimento dei bandeirantes) si accompagnano spopo­ lamento e razzie che costringono all’arretramento i possedimenti portoghesi a van­ taggio dell’estensione del territorio brasiliano e a conferma della « superiorità militare del bandeirante sul padrone di piantagione » 12. Complementarità di formazioni economiche esemplata dal « ciclo dell’oro » contrassegnato dal trasferimento di ricchezza e dalla polarizzazione del processo di crescita economica verso Rio a spese di Bahia. L’urbanizzazione crescente chiede ulteriore espansione dell’allevamento (sertào e pampa) e l’attivazione di circuiti commerciali del bestiame tessono la tela dell’unità economica del Brasile, con le città che impongono la diversificazione delle funzioni sociali non piu assorbite nella dicotomia schiavo-padrone. La realtà sociale in movimento dà impulso all’artigianato, sospinge l’affermazione della borghesia dei porti, privilegia il ceto medio professionistico e colto, nutrito di illuminismo laicizzante 13 anche sotto la spinta di quella che può essere definita la « seconda conquista dell’America latina « pro9 A. Gerschenkron, I l p ro b le m a sto rico d e l l ’a rretra te zza e c o n o m ic a , Torino 1974, pp. 7-70; A. Gunder Frank, C a p ita lism o e s o tto s v ilu p p o in A m e ric a L a tin a , Torino 1969, p. 170-320; A. Mutti, I. Poli, S o tto s v ilu p p o e m e r id io n e , Milano 1975, pp. 9-49. 10 La colonizzazione olandese, prevalentemente urbana, commerciale, armata di calvinismo, selettiva delle razze, nei suoi 24 anni di dominazione portò alla costituzione della Società batava di Navigazione. La colonizzazione portoghese era stata prevalentemente rurale, agricola, tropicale e quella francese del sud attenta a ricompattare le coscienze religiose europee ancora scosse dalle guerre di religione (Colignv avrebbe voluto riconciliare, nell’orbita politica im­ periale di Villegeignon, cattolici, luterani e calvinisti). 11 II primo ad elevare a dignità letteraria il sertào è stato Euclydes da Cunha alla cui opera « O r se rtò es » (1902) si fa risalire l’origine della letteratura sertaneja. Trad italiana Brasile ig n o to , Milano 1953. 12 G. Frevre, op. cit., p. 94. 13 Sin dalla prima metà del sec. XIX gli echi dell'illuminismo degli enciclopedisti anti­ schiavisti sono raccolti dai rivoluzionari del 1817 e fanno da sfondo ideologico alla rivolu­ zione del 1824. Sconfitte le due rivoluzioni regionali, sul piano giuridico-scientifico trovano 100 fondamente modificata, nella sua struttura umana, dall’immigrazione europea su un continente prevalentemente indio e nero fino a metà del sec. XIX. Si consolidano le posizioni di quelle classi che porteranno alla separazione dal Portogallo, all’instaurazione di un regime parlamentare coi suoi partiti poli­ tici in un contesto imperiale attraversato da movimenti separatistici e ribellioni popolari. Con la maggiorità di Pedro II (1840) la macchina amministrativa dello stato accoglie la riconversione burocratica di rampolli degli agrari e la promozione di quadri professionistici politicamente accentratori, antiregionalistici, « evoluti » all’ombra della centralità della capitale, del primato della legge, forti della posi­ zione acquisita nell’esercito. La repubblica non è stata partorita da una rivoluzione popolare, né sulla base dell’istituzionalizzazione della prassi elettorale, bensì da un colpo di stato pro­ mosso dall’alleanza fra esercito e classi medie urbane 14 in un moto liberale di emancipazione dalla schiavitù (decreto del 1888 sotto la reggenza di Isabella) politicamente teso a colpire la monarchia spezzandone la spina dorsale rappresen­ tata dall’aristocrazia terriera. Nella circostanza decisivo appare il ruolo svolto dal­ l’esercito a solida composizione piccolo-medio borghese, in grado di ritagliarsi margini autonomi di manovra fra consolidati e recenti parassitismi individuali nel latifondo, nella burocrazia, nei capi politici regionali (coronets) e variamente interessati ad avvantaggiarsi delle autonomie, allo sfruttamento del lavoro ser­ vile attraverso il possesso della terra o per mezzo di un complicato sistema fiscale. La « autonomia » dell’esercito si sostiene su un’economia militare di approv­ vigionamento di forza-lavoro non-schiava, nell’assunzione di compiti di carattere civile (opere pubbliche) nella progressiva identificazione con l’autorità dello stato a sua volta identificato col conseguimento e la difesa dell’ordine repubblicano, ovvero dell’« unità nazionale ». Si è anche parlato di sopravvivenza di un Brasile feudale 15 espresso dall’arcaismo latifondistico anticapitalistico. Avverte Furtado che non si può confrondere economia feudale ed economia schiava, essendo quest’ultima « un caso estremo di specializzazione economica. Al contrario dell’unità produttiva feudale, vive completamente rivolta verso il mercato esterno » 16. Il nordest fra fazenda e sertao La canna non copre l’intero nordest. A 50 km dalla costa iniziano la coltura del cotone, il paesaggio agreste, il regno della caatinga (foresta bianca) figlia della siccità, simboleggiata da alberi scheletrici e cacti. È il sertào severo, duro, tragico come tragico è il messianismo del sertanejo. È il nordest che « ruggisce nei deserti » 17 che costringe l’uomo e l’ambiente a lottare con la vita e con la morte. Una lotta che vede nel sole « il nemico che bisogna evitare, ingannare, com­ battere » 18. Climi impossibili, dominio delle secche; minaccia quotidiana dell’ecoudienza pensatori quali Locke, Voltaire, Montesquieu, Condorcet, Lamartine, Comte, Smith, Filangieri, Tocqueville. A Bahia fiorisce una cultura medica; a Recife una giuridica. 14 Bastide fa notare come questa classe media « sarebbe certo rimasta impotente di fronte alla classe dirigente dei rurali. Ma la soppressione del lavoro servile, avvicinando gli interessi dell’esercito a quello dei proprietari colpiti profondamente nella loro economia in seguito alla fuga dei loro ex-schiavi, ha consentito ai repubblicani di assumere il potere, del resto senza spargimento di sangue» (R. Bastide, op. c it., p. 26). 15 G. Marotti, C a n u d o s, storia d i una g u e rra , Roma 1978, p. 12. 16 C. Furtado, op. c it., p. 82. 17 E. da Cunha, op. c it., p. 38. 18 I b id e m , p. 37. 101 sistema. Ma la desertificazione non è da imputare, in esclusiva, alle avversità climatiche e all’asprezza geofisica. Alla sua avanzata hanno contribuito l’agricol­ tura estensiva e povera, i pascoli dei colonizzatori, l’avidità dell’esploratore, l’ascia e il piccone del bandeirante in cerca di schiavi e di oro, l ’espansione della pian­ tagione. Il nordest sertanejo inaugura, cosi, il sec. XIX coi vaccari e i jagungos, senza neri — poiché l’allevamento non richiede consistente manodopera — coi suoi meticci e i suoi riti familiari e collettivi intrisi di magia e di superstizione in una sovrapposizione storica di animismo, antropomorfismo, religiosità indigena del sogno e della sofferenza. Sullo sfondo di tale multiforme orizzonte culturale si evidenziano le due realtà preminenti della fazenda e del sertào, apparentemente contrapposte, ma di fatto, complementari nella divisione del lavoro, già a partire dal sec. XVII. Se è vero che la monocoltura predatrice 15*9 respinge il bestiame, avido di germogli, è anche vero che il mulino, il trasporto, l’alimentazione della fazenda hanno biso­ gno dell’animale (specie del bue) che consente l’articolazione del patriarcato ge­ rarchico e schiavo della fazenda e l’adozione di un modello di vita più nomade e « democratico » alla comunità dei vaccari ricoperti di cuoio. « La civiltà della canna è carnale; quella del sertào ha la durezza dell’osso » 20. Lo storico Capistano de Abreu (1853-1927) ha parlato di « civiltà del cuoio » che ricopre l’utensileria (sacchi, otri, corde, ecc.) e riveste le porte, le abitazioni. Esclusivismo di vita fondato prevalentemente sulla pecuaria, senza casa padronale e senza schiavi, senza fiumi che giustificassero l’agricoltura verticistica. Religiosità, banditismo, indigenismo Il ritmo del tempo e la cadenza delle stagioni inondano le misere abitazioni di argilla di una religiosità fatta di sortilegi, ancorata agli agenti atmosferici, meno formale e gioiosa di quella della costa. Religiosità dolente, banditismo, siccità scolpiscono un’esistenza che si rifugia nel messianismo, nel millenarismo, espres­ sioni di modi di produzione che scavano psicologie individuali e collettive radicate all’ambiente e alla storia e che finiscono con l’attrarre il cristianesimo nella sfera dell’indigenismo. « Il bovaro stretto dalla miseria, dinanzi ad una terra screpo­ lata dal sole, dinanzi alle ossa degli animali o degli uomini morti di fame, sogna una terra d ’acqua, di frutti zuccherati e di eterno verde. Riprende per proprio conto, mescolandoli insieme, il mito dell’antenato indiano: “la terra senza male” e la storia del popolo d ’Israele che cerca all’uscita del paese d ’Egitto “la terra pro­ messa” » 21. È il destino biblico che si confonde col misticismo sciamanico e settario della pagelance22 con le sue «confessioni», le sue «denunce» radicata nel sertào, 15 La sociologia del nordest ha scritto pagine esemplari sulla cultura dello zucchero. « Pur­ troppo la monocoltura non potè non essere latifondiaria e schiavistica a cagione delle sue stesse condizioni di sistema di sfruttamento agricolo pressoché militare... D ’altra parte essa non potè non essere conquista massiccia, mediante il fuoco, di spazi sempre nuovi e quanto mai vergini. Conquista militare senza amore, della natura bruta, appena scalfita nella sua verginità dall’incipiente coltivazione dell’indio, prima che iniziasse la devastazione del colono portoghese. Entro tali condizioni non era necessario che tra noi attecchisse la figura del con­ tadino: bastava quella del padrone di piantagione imperante sul negro dall’alto della casa rurale o della groppa del cavallo... » (G. Freyre, op. c it., pp. 65-66). 20 R. Bastide, op. c it., p. 65. 21 R. Bastide, op. c it., p. 69. 22 La setta, di origine indiana, si ispira ad un misticismo estatico con interferenze di culti misterici e l’utilizzo di narcotici indispensabili, nella stato di trance, per comunicare con la 102 terra di « santi-stregoni » e culla del misticismo politico sebastianista 23, fino alla sua coniugazione in senso penitente e apocalittico di matrice cristiana alla quale si ispirerà la religiosità di Antonio Conselheiro la cui biografia « compendia e rias­ sume il modo di vivere della società del sertào » 24. La figura del Conselheiro merita, in questo contesto, un sintetico ritratto. An­ tonio Vicente Mendes Maciel nasce in una famiglia di piccoli coltivatori e com­ mercianti nella cittadina di Quixeramobim (1828) nel Cearà. Prima di trasfor­ marsi in profeta-pellegrino (1876), per necessità familiari esercita vari mestieri da cassiere a Sobrad (1859) a scrivano. Nel 1876 — dopo essere passato per i sertoes di Pernambuco — è nel villaggio di Itapicuru. Trova proseliti fra i jagunqos (ex-milizie feudali e bande di avventurieri) i contadini poveri, i bovari, i disoc­ cupati che il Brasile sulla via della industrializzazione capitalistica espelle attra­ verso la disarticolazione delle formazioni economiche precapitalistiche. La cre­ scente popolarità del Conselheiro non sfugge alle autorità di governo che in una dichiarazione, pubblicata nella capitale dell’impero, denunciano. « È apparso nel sertào nel nord un individuo che dice di chiamarsi Antonio Conselheiro, il quale esercita grande influenza sullo spirito delle classi umili, servendosi di un aspetto misterioso e di costumi ascetici con i quali si impone alla ignoranza e alla sem­ plicità. Si lascia crescere la barba e i capelli, veste una tunica di cotone e si ali­ menta frugalmente ed è quasi simile a una mummia... Mostra di essere uomo intelligente ma senza cultura ». Anche la Chiesa ufficiale, nelle sue gerarchie su­ periori — fa fede, tra l’altro, una circolare emessa nel 1882 dall’arcivescovo di Bahia — si oppone alla sua predicazione. Nel 1887 giunge sul litorale ove pre­ dica in occasione di festività e fiere. Il momento decisivo di opposizione contro la legislazione repubblicana coincide con la costituzione di municipalità autonome e l’insediamento delle camere nell’interno bahiano. Per sfuggire alle ricerche della polizia, il Conselheiro con i suoi seguaci inizia la diaspora nel sertào, finché giun­ ge a Canudos. Qui finirà di dissenteria poco prima dell’assalto definitivo delle truppe 25. divinità. Una volta penetrata nel sertào la palange indossa i panni della s a n tid a d e , forma sincretistica di cattolicesimo gesuitico e di religiosità indigena. Quest’ultima si consuma nel­ l’attesa del prete-stregone che, agitando una zucca ripiena di grani sonori (la voce degli ante­ nati) entra nel villaggio. Attorno a lui le donne si confessano. Su questo rituale-culto attec­ chirà l’adorazione di santi presi in prestito dai colonizzatori portoghesi che comporterà l’av­ vento di una setta (S a n tid a d e ) dotata di gerarchia sacerdotale con al vertice un « capo * chiamato Jesu p o cu (Gesti compiuto) e una donna chiamata Vergine Maria. Il mess .g„’o della setta prefigura la emancipazione degli indigeni dalla prigionia in funzione di un’esistenza felice e oziosa, premessa alla « redenzione ». 23 II sebastianismo riproduce su scala locale il mito messianico dell’indigenismo sertanejo della Pietra bella (F edra b o m ta ) dalla «terra senza male». Il termine sebastianismo rinvia alla leggenda di Don Sebastiano del Portogallo ucciso dai mori ad Alcaba Kebir, all’età di 24 anni (1554-1578). Un meticcio indiano, Juan Antonio dos Santos della parrocchia di Flores (1836) identifica il lago di Villa Rica con la soglia del regno di Don Sebastiano. Il luogo venerato dal misticismo sebastianista è occupato da due pietre dritte alte 33 metri a forma di falli e sotto le quali Juan Antonio celebra matrimoni e olocausti. Il rituale riproduce quello della sa n tid a d e e si arricchisce di una serie di «privilegi» per il «profeta» (ad. es. lo ju s p ritn a e n o c tis ). Il re José Joacquim profetizza l’avvento di un mondo di giustizia che farebbe del povero un ricco e dello schiavo un libero, ma solo a condizione che fosse versato sangue puri­ ficatore in quantità tale da consentire di resuscitare dalla terra lo spirito di don Sebastiano. Lo stesso José Joacquim fu immolato. Il massacro (cani, donne, bambini, uomini uccisi) è scoperto dalla polizia, in seguito alle rivelazioni di un bovaro José Gomes, ritenuto, per que­ sto, dalla setta un traditore. L’incantesimo magico non è stato spezzato. Don Sebastiano at­ tende ancora di essere liberato. 24 E. da Cunha, op. c it., p. 117. 25 Questa rapida « scheda » è ricavata da vari autori, ma l’opera di da Cunha è per tutti 103 C’è continuità fra la vicenda del Conselheiro e la tradizione mistico-sincretistica della religione sertaneja nella sopravvivenza-salvaguardia di una sorta di « iden­ tità culturale» indigena. Quando Antonio raggiunge Canudos (1893) «vecchia fazenda di bestiame sulla riva del Vasa-Barris, era nel 1890, un borgo di circa cinquanta capanne di legno a picco sul fiume » 26. Nel giro di pochi anni Canudos conterà 25 mila abitanti e 5.200 casupole. Il Conselheiro è a Canudos, fuggitivo, dopo aver sobillato la folla di Bon Conselho contro gli editti per la riscossione delle imposte. La Repubblica appare come il demonio da esorcizzate. La chiesa di Canudos accoglie — in linea con la tradi­ zionale integrazione cristiana al modello indigeno di religiosità27 — un’eteroge­ nea folla di sbandati, di poveri senza terra e senza lavoro ma composta anche di vaccari, banditi, artigiani, piccoli commercianti che si trasformano in banditi per approvvigionarsi e che bruciano le case di coloro che non seguono le leggi del Conselheiro. Ma « il saccheggio dei paesi conquistati è un loro diritto di guerra e su questo punto li assolve l’intera storia... I cangageiros nelle incursioni verso il sud e i jagungos nelle incursioni verso il nord si trovavano di fronte senza unirsi... L’insurrezione del distretto di Monte Santo le avrebbe collegate » 28. Si profila, lungo tale asse, un abbozzo di ribellione sociale « nazionale » precorri­ trice di movimenti contadini, politicamente organizzati. Il governo repubblicano reagisce con campagne m ilitari29 concluse con la rasa al suolo di Canudos e il massacro dell’intera popolazione. L’iniziativa s’inserisce nella strategia politica di sostegno-copertura al processo di espansione economica con l’impegno diretto del governo a reprimere con l’apparato amministrativo-militare, le insurrezioni regionali, le ribellioni contadine, l’attività dei bandoleros or­ mai evolventisi da tradizionali fenomeni di endemica « patologia sociale » a ribel­ lioni aperte, sospinte dalle contraddizioni coeve al modello di sviluppo nazionale imposto dall’oligarchia borghese bancario-industriale sospinta e sollecitata all’in­ tegrazione al mercato capitalistico internazionale. La base sociale del bandolerismo è nelle masse povere rurali, costrette a sce­ gliere fra la rassegnazione alla miseria piu dura, l’emigrazione come salariati sot­ topagati nell’Amazzonia del caucciù e la trasformazione in « fuorilegge » gravitanti in orbite economiche e culturali dei cangageiros30 e di sette mistiche. I cangageiros interpretano la rivolta contadina in attacchi a magazzini di viveri e assalti alle fattorie, nella prospettiva della sussistenza locale, mentre le sette religiose si sforzano di convogliare la protesta-opposizione contadina in movimenti armati di aperta ribellione31. la fonte principale. Si veda anche Pereira de Queiroz, R ifo r m a e R iv o lu z io n e n ella società Milano 1970, al cap. « Movimenti messianici contadini in Brasile ». 26 E. da Cunha, op. cit., p. 136. 27 « La chiesa brasiliana, al contrario di quella europea, è una chiesa di sagrestie ». In questo senso rappresenta la « prima solidarietà comunale » (R. Bastide, op. ci/., p. 45). 28 E. da Cunha, op. c it., pp. 166-67. 29 Sono state necessarie quattro spedizioni militari per sconfiggere i rivoltosi. La prima (19 nov. 1896) al comando del ten. Pires Ferreira fallisce per una imboscata dei jagungos. Falliscono pure la seconda (die. 1896) e la terza (3 febbraio 1897) spedizione, rispettiva­ mente agli ordini del magg. Febronio de Brito (con 500 uomini) e del col. Moreira Cesar che riesce ad entrare a Canudos prima di essere respinto. Soltanto coi 5000 soldati del gen. Artur Oscar, la «cittadina», accerchiata, viene distrutta nella quarta spedizione (giugno 1897). 30 Al riguardo M.I.P. de Queiroz parla di « confraternita laica », in O s C angageiros: les b a n d its d 'h o n n e u r b r é silie n s , Paris 1968, pp. 142, 164. 31 « Il fenomeno del banditismo sociale si riscontra universalmente nelle società fondate sull’agricoltura (comprese le economie pastorali) ed è alimentato in larga misura da conta­ dini e braccianti non proprietari di terre governati, oppressi, sfruttati da altri - signori, città, tra d izio n a le , 104 Si tratta di sollevazioni, con tratti banditeschi, organiche alle condizioni di una zona « sottosviluppata » di moderna costituzione. Dietro Canudos manca un pro­ gramma di società contadina data l’assenza di un progetto rivoluzionario che pre­ veda alleanze di classe su scala nazionale e per aver espresso un moto insurrezio­ nale socialmente composito, culturalmente sincretistico non integralmente ricon­ ducibile alle guerre contadine dell’Europa del sec. XVI, nonostante certe « affi­ nità ideali », per cui si può parlare, con Engels, di « eresia plebeo-contadina tesa ad oltrepassare non solo il presente ma perfino il futuro » 32. Il Conselheiro, pertanto, rientra tra gli agitatori sociali che popolano la re­ gione bahiana e che da sempre hanno sfidato l’autorità costituita (chiesa e stato) in nome della difesa morale dell’ordine tradizionale e della rivendicazione di una società di « giustizia ». Il Conselheiro invoca piu giustizia secondo coordinate so­ ciali ed etiche in cui prevale il tradizionalismo, l’utopia anacronistica o velleitaria di masse senza beni e senza diritti le cui « condizioni di vita non il mettevano mai in contatto diretto con le istituzioni vigenti, dalle quali erano completamente ignorati » 33. Quanto piu il bandito — sotto il profilo sociologico — è consapevole del diritto dei diseredati tanto piu l’autorità politica interpreta la sua ribellione come un atto politico di rivoluzione sociale. È accaduto al Conselheiro, visto come rigurgito di atavico anacronismo34 come espressione di reazione legittimista, da parte dei contemporanei35, alle soglie del sanfedismo vandeano. « Malgrado la inesattezza del confronto Canudos era la nostra Vandea » dirà da Cunha 36. Canudos si trasforma, agli occhi degli ambienti colti cosmopolitici borghesi, in problema politico di rilevanza nazionale e al Conselheiro si fanno indossare i panni del sovversivo antirepubblicano. Nonostante i prevalenti commenti di stampa e i rilievi dell’autorità di governo, tesi a denunciare la presunta collu­ sione fra insorti ed esponenti dell’ancien régime, molte voci si levano a solle­ vare dubbi e ad avanzare dei « distinguo » 37. La politicizzazione del movimento comuni, governi, uomini di legge o anche banche» (E. J. Hobsbawm, I b a n d iti, Torino 1971> P- 14>32 F. Engels, La guerra d ei c o n ta d in i in G e r m a n ia , in Marx-Engels, O p e r e , X, Roma, 1972, p. 419. 33 I b id e m , p. 419. 34 E. da Cunha, op. c it., pp. 114-16. 35 Nell’opera A G u erra de C a n u d o s Macedo Soares, in qualità di ufficiale è convinto di aver combattuto una guerra in difesa della repubblica minacciata. Sull’onda dell’indignazione prodotta dai primi insuccessi militari, i giornali parlano di tentativi di restaurazione monar­ chica. Sulle loro pagine compaiono articoli ridondanti di retorica patriottarda, episodi leg­ gendari. La « Nación » di Buenos Aires (30 luglio 1897) ipotizza una congiuntura interna­ zionale. Walnice Nogueira Galvào — nel libro No C alor da H o ra , Sào Paulo 1974 — riporta la convinzione del gen. Oscar sull’esistenza di un progetto politico legittimista. La « Gazeta de Noticias » mette in guardia contro il « monarchismo rivoluzionario » preoccupato di « di­ struggere insieme con la Repubblica, l’unità del Brasile » (Cit. in E. da Cunha, op. c it., p. 262). Il presidente della Repubblica dirà: « Sappiamo che dietro ai fanatici di Canudos lavora la politica ». 36 E. da Cunha, op. c it., pp. 153, 182. L’autore era stato corrispondente di guerra del « Estado de Sào Paulo ». L’espressione — ripresa cinque anni dopo in « Os sertòes » — appare sul giornale dopo il fallimento della spedizione di Cesar (14 marzo 1897). Soltanto in set­ tembre, a tre mesi dalla distruzione di Canudos, da Cunha vedrà quello che era stato il campo di battaglia. 37 W. N. Galào, in un articolo sul giornale « O Comércio de Sào Paulo» (14 ott. 1897) denuncia il silenzio sul massacro di Canudos. A suo parere la guerra non è scoppiata per motivi religiosi (stante la libertà di culto riconosciuta dalla Costituzione) né per abbattere le istituzioni vigenti, sibbene per il rifiuto, opposto dal Conselheiro, ad appoggiare alcune per­ sonalità politiche durante le elezioni. L’ex-governatore José Gongalves accenna a cause di 105 si è consumata in un periodo di insorgenti conflitti e sollevazioni locali, in molti dei quali non erano estranei organi di stampa e settori politici monarchici. Di contro le classi liberali egemoni mostrano insofferente incomprensione per fenomeni sociali differenziati, riacutizzatisi e comparsi con lo sviluppo diseguale e distorto e col varo di misure legislative che cadono in una fase di aumento dei prezzi e del costo della vita mentre si fanno piu acuti i contrasti all’interno delle classi dirigenti. Qualsiasi tipo di opposizione compaia, ad essa si fa risalire l’inten­ zione di colpire la repubblica, ovvero di mettere in discussione l’integrità della na­ zione federata allo Stato, con un impossibile ripiegamento anacronistico nei con­ fronti del « mondo moderno » 38. Da una simile impostazione della « questione nazionale » in Brasile e dalla interpretazione dei fatti di Canudos emerge, innanzitutto, un corposo sostrato ideologico eurocentrico — non esente da venature razzistiche39 — riflesso tra l’altro, nella « coscienza critica » della borghesia colta europeizzata, in uno spac­ cato politico di rivendicazione della « nazionalità » brasiliana che fatica ad espri­ mersi nell’ultimo ventennio del sec. XIX. E colpisce ancora la deviante conce­ zione evoluzionistica della storia — da cui non è esente da Cunha — caratteri­ stica positivistica della contrapposizione fra « modernità » ed isolamento. Ad essa si sono collegati un filone idealistico — Canudos come « regno della liber­ tà » 40 — e la concezione intellettualistica dei «due Brasili». Canudos non è a metà strada fra comunalismo anarchicheggiante e « autogestito » 41 ed esclusivo banditismo sociale di tipo rurale. È un fenomeno piu complesso che non si esau­ risce nell’alveo dell’indigenismo ottocentesco nutrito di millenarismo e di pro­ fetismo. Il Conselheiro, Canudos, la Repubblica Interprete e rappresentante di questa tendenza si tivistico del Conselheiro « elemento attivo e passivo se » 42. Le sue prediche infuocate, cariche di iniziative lione, rivelano un senso profetico — da « ispirato da rivela il misticismo sogget­ dell’agitazione da cui sor­ e di incitamenti alla ribel­ dio » — e slancio morale- ordine politico-sociale sostenendo l’illegalità presente nello stato di Bahia, esposto al dispo­ tismo, cosi come riporta W.N. Galvào, op. c it., p. 156. 38 « Dopo aver vissuto quattrocento anni nel vastissimo litorale, su cui non vi erano che pallidi riflessi di una vita civilizzata, ricevemmo improvvisamente, come eredità inaspettata, la Repubblica. Ascendemmo di colpo, trascinati nella corrente degli ideali moderni, lasciando sepolto nella penombra secolare, nel fondo del paese, un terzo della nostra gente. Ci lasciam­ mo illudere da una civiltà presa in prestito... Rendemmo cosi, con una rivoluzione, piu pro­ fondo il contrasto fra il nostro modo di vivere e quello dei nostri rudi compatrioti, piu stra­ nieri in queste terre che gli immigrati europei. Perché da loro non ci separa il mare, ci sepa­ rano tre secoli...» (E. da Cunha, op. c it., p. 153). 39 « La straordinaria forza dell’ereditarietà... trascina verso gli ambienti più progrediti degli autentici trogloditi inguantati e coperti di una vernice di cultura. Il corso normale della civiltà in generale li trattiene, li domina, li impaccia li deprime e a poco a poco, li distrugge, ricacciandoli nella penombra di un’esistenza inutile... » (E. da Cunha, op. cit., p. 263). 40 G. Marotti, op. cit., p. 101, ove si riprende la tesi di Machado de Assis, scrittore della ricca borghesia di Rio, che raffigura gli abitanti di Canudos in questi termini: « I seguaci del Conselheiro si sono ricordati dei pirati romantici, hanno scosso i loro sandali alla porta della civiltà e sono usciti alla vita libera». 41 Nella Canudos del Conselheiro non esiste un’amministrazione preposta alla riscossione delle imposte. La polizia è rappresentata dai jagunqos. La vita quotidiana è regolata dalle leg­ gi del capo che vietano la vendita dell’alcool e la prostituzione. Nel sertào il villaggio traduce una realtà non-burocratica senza servitù. 42 E. da Cunha, op. c it., p. 115. 106 dogmatico di un cristianesimo penitente, esaltatore della precettistica montanista 43. L’avversione nei confronti della Chiesa ufficiale si traduce nel recupero del misti­ cismo indigeno « curato » pietisticamente in assonanza col mito messianico rurale dell’avvento del « regno di dio ». L’avversione si manifesta — in nome di una « società naturale » — contro il « modernismo » le cui vesti politiche repubbli­ cane (divisione dei poteri, legislazione matrimoniale civile, divisione fra Stato e Chiesa) hanno alterato i valori tradizionali della società rurale. Nella reazione morale e nella mobilitazione rurale contro il lassismo etico-giu­ ridico attecchisce una metafora messianica44 nella rivolta sociale antistatale 46. Il Conselheiro, per questa via, non aspira alla creazione di una Chiesa alternativa, preoccupandosi, invece, di « rigenerare » la Chiesa locale, alla quale, peraltro, non fa mancare l’afflusso di rendite con la promozione di feste, novene, battesimi, matrimoni, confessioni. La sua predicazione manca di prospettiva rivoluzionaria di emancipazione degli oppressi, esaurendosi in un’agitazione riformistica a sfondo etico-sociale di avversione alle leggi di uno stato, avvertito come strumento del demonio. Di qui il suo antistatalismo etico che, nella congiuntura politico-econo­ mica nel quale cade, occupa un suo « spazio politico ». La qualcosa è, del resto, confermata dall’organizzazione della vita a Canudos una volta insediatosi il Conselheiro. Da Cunha riferisce la testimonianza di un sacerdote: « Già nel 1876... si agglomerava là una popolazione sospetta, oziosa, aggregata alla fazenda ancora fiorente; questa gente era armata fino ai denti e la sua occupazione quasi esclusiva consisteva nel bere acquavite e fumare una strana pipa di terra in tubi di un metro di lunghezza... ». Popolazione dispersa e impoverita dalla progressiva decadenza economica della regione che fa dire a Rodrigues de Carvalho che l’individuo del Nordest è il ri­ sultato del 50% d ’africano, 40 d ’indio e 10 di ariano intorpidito dal clima. « È l’uomo della canaglia nordista » 46. Di ben diverso tono e valore è, invece, la rela­ zione medica del 1849 sulle condizioni sociali del nordest, imputate alle disfun­ zioni produttive, al degrado ambientale che portano al decadimento fisico degli individui47. Canudos si presenta priva di strade, con « le piazze che, esclusa quella della chiesa, non erano altro che lo spazio comune dei cortili; le casupole unite lo ren­ devano quasi un unico amplissimo edificio... » 48. Con la sua « amministrazione autonoma », Canudos si configura come un « regime teocratico » retto dal perso- 43 Attorno al 1850 compaiono compagnie di penitenti (se re n o s ) che, sulla scia della Chiesa missionaria coloniale, profetizzano la fine del mondo liberato dai peccati. Nei riti notturni gruppi di flagellanti si impongono cilici di spine, di ortiche a « mortificazione della carne ». Sul « montanismo » in Brasile qualche cenno in Bastide, op. cit. 44 « In verità io vi dico che quando le nazioni lottano con le nazioni, il Brasile con il Brasile, l’Inghilterra con l’Inghilterra, la Prussia con la Prussia dalle onde del mare uscirà D. Sebastiào con tutto il suo esercito ». 45 « In questo giorno, quando esce col suo esercito, toglie a tutti, passandoli a fil di spada, le loro attribuzioni nella Repubblica ». 46 In G. Freyre, op. c it., p. 154. 47 Nello studio si rileva: « il male derivante alla salute pubblica dalla distruzione dei bo­ schi, dalla mancanza di cure nella conservazione degli animali e nel trattamento delle malattie, non si limita solo alla loro trasmissione e sfacelo momentaneo, bensì si estende sino a pro­ durre un’alterazione organica susseguente e generale, che trova la sua origine nel difetto di tutta la produzione ». In riferimento al lavoratore libero della regione si osserva che: « Il salario medio di un uomo è di 640 reis: l’uomo socialmente considerato è il risultato della riunione di tre persone, marito, moglie e figlio; ed è il primo che deve sopportare il mas­ simo del lavoro, il lavoro di permuta che provvede a tutto» (In G. Freyre, op. cit., pp. 155-56). 48 E. da Cunha, op. c it., p. 139. 107 nalismo mistico-autoritario del « capo » le cui relazioni sociali sono agevolate dal­ l’affinità morale attinente ad un modo di produzione comunitario nella sussistenza (uso comune dei pascoli e della terra) e della pratica della consegna dei propri averi al Conselheiro, da parte di chiunque chieda vitto, alloggio, « assistenza ». Fuori del villaggio le bande armate del « capo » agiscono con razzie e violenze nei villaggi e nelle fazendas per rifornirsi di vettovaglie. Lo scontro col governo diventa inevitabile. Il processo religioso si salda al fenomeno banditesco estendendosi per ef­ fetto della disarticolazione dell’unità produttiva di base della regione, riuscendo a coagulare un’eterogenea « opposizione ribellistica » dai sbiaditi ed incerti con­ torni politici. L’opera di « pacificazione » del sertào, avviata dalle classi domi­ nanti al potere, rientra nella piu vasta lotta di sradicamento di fenomeni sociali di « resistenza » e di opposizione strumentalizzabili da parte della reazione mo­ narchica, attivati da un diffuso disagio e malcontento, conseguenti alla crisi eco­ nomica (incursioni banditesche, quali quella sul villaggio di Jecqué o insurrezioni di distretti come quello minerario di Leugóes). In molte zone l’esaurimento dei filoni auriferi determina l’impoverimento ulteriore di masse di individui legati a forme precarie di lavoro e di esistenza. Il banditismo, di conseguenza, viene rinfocolato. Si è anche molto insistito sulla tattica e sui mezzi impiegati dalle truppe governative per aver ragione degli in­ sorti (cannone Krupp d ’assedio) e si sono messi in risalto l’insufficienza della co­ noscenza dei luoghi, della popolazione e dei metodi di combattimento dei jagungos. Da piu parti, infatti, si solleva l’opportunità di costituire delle « milizie irre­ golari » che adottino sistemi e tecniche di combattimento degli avversari, padroni del campo per la perfetta conoscenza dell’ambiente. Ma al di là di queste considerazioni emerge la tendenza del nazionalismo li­ berale militarizzato49 attento a « superare » il federalismo nella preoccupazione di denunciare l’insorgente « cospirazione nazionale » antirepubblicana. Alla ricca e colta borghesia della costa sfugge la rilevanza da « sottosviluppo » dei fatti di Canudos interpretati o in chiave esclusivamente politica o in chiave di resistenza alla modernizzazione. Il processo di formazione di una « coscienza nazionale », così, coesiste con l’ignoranza della realtà del sertào, ma soprattutto col ruolo as­ segnato a zone dell’interno, nelle fasi di espansione del modo capitalistico di pro­ duzione, funzionali, produttivamente, ai disegni del grande capitale brasiliano in via di internazionalizzazione50. La formazione del mercato nazionale capitalistico ingloba, nella forma dello « sviluppo associato dipendente » spazi, culture, modi di produzione sia attraverso la soluzione statalistico-militare, sia attraverso la « divisione » regionale della produzione e del lavoro. Si ridisegna la geografia socio-economica dell’interno la cui collocazione commerciale e la cui caratteristica produttiva e di consumo traducono piu uno schema di sviluppo imperialistico che colonialistico. Ovvero piu che di antinomie sociali e politiche bisogna parlare di contraddizioni non necessariamente rispondenti alla rigidità dell’antitesi, peral­ tro schematica, fra costa e interno, tipica della visione dualistica dello sviluppo51. 49 « La Repubblica, nata da un « golpe » militare, porta alla ribalta, per la prima volta, la figura del militarismo-politico... » (P. Cannabrava Filbo, M ilita r ism o e im p e r ia lis m o in B ra­ sile, Milano 1969, p. 37). 50 « ... tutta la Nazione dovrà seguire gli interessi dell’oligarchia del caffè soffrendo le conseguenze di ogni sua crisi... soffrendo, soprattutto, le conseguenze della dipendenza da gruppi internazionali... » (P. Cannabrava Filho, op. c it., p. 39). 51 Fra i tanti teorici dello sviluppo duale ricordiamo: Afonso Arinos, O b ra s c o m p le ta s , Rio de Janeiro, 1969 e soprattutto J. Lambert, O s d o ts B rasis, Rio de Janeiro 1965; C. 108 ! Piu che alla contrapposizione dualistica 52 bisogna prestare attenzione allo svi­ luppo diseguale o distorto di strategie economiche, frutto dell’investimento nei settori produttivi trainanti in un processo di dipendenza integrata dell’interno e verso l’esterno. Valga per tutti l’esempio dell’abolizione legale della schiavitù richiesta dall’espansione commerciale sostenuta dalle banche e dall’avvio del pro­ cesso d ’industrializzazione che chiede salariati. L’ex-schiavo subisce un riciclag­ gio sociale di tipo servile una volta immesso nei circuiti produttivi capitalistici che ne impedisce la emancipazione reale con la riduzione a manodopera sotto­ pagata 53. Di conseguenza si può sostenere che non è stato l’isolamento, ma l’in­ tegrazione a determinare il sottosviluppo di Bahia e del Brasile. Infatti l’economia brasiliana, « nel periodo dal 1891 al 1900, dipendeva an­ cora totalmente dallo sfruttamento e dall’esportazione di prodotti tropicali come il caffè, lo zucchero, il cacao, il tabacco, la gomma, dove il caffè corrispondeva al 64,5% delle entrate totali dell’Unione. Le necessità di consumo del popolo erano soddisfatte praticamente dalle importazioni, comprese quelle di alimenti... » M. La « questione sertaneja » fa parte della « questione nazionale » per incorporazione forzata di tipo statalistico da parte di un blocco di classe per il quale la formazio­ ne della nazione passa per la « riconversione » dell’economia coloniale con le sue aristocrazie locali, i suoi monopoli agro-commerciali. Si delineano coordinate di in­ tegrazione, su scala mondiale, che vede protagonista locale l’oligarchia borghese­ nazionale legata all’importazione di manufatti e di consumi di lusso, principal­ mente, dall’Europa. Egemonia di classe che spiega sociologicamente il « sottosvi­ luppo » come « indigenismo » deteriore e arcaico e quest’ultimo come forma pre­ industriale di sopravvivenza cui rinviare ogni contraddizione. In tal modo si snatura il fattore « indigeno » accusato di incapacità struttu­ rale a spezzare l’« isolamento » etnico-regionale che riposa su un’economia ele­ mentare. Nel contempo la formazione di un incipiente strato proletario e la consi­ stenza di classi subalterne depoliticizzate sono ideologicamente spiegate come l’inevitabile prezzo da pagare alla « modernizzazione ». Questa visione d ’insieme favorisce l’attecchimento di una letteratura ad indi­ rizzo sociologico che scompone il Brasile nella dicotomia coloniale (litorale contro interno) improvvisando un « recupero di coscienza » della « questione indigena » o improvvisando un immobilismo folkloristico di tipo antropologico che nostal­ gicamente propone un Brasile « originario » che assorbe surrettiziamente la polie­ drica sfaccettatura culturale del paese. Si finisce, cosi, per spiegare Canudos come un episodio avventuroso di indi­ vidui rozzi ma liberi, ingenui e temerari, « figli della fede » o superstiziosi « anar­ chici ». In realtà la questione travalica l’ambito esotico-romantico per denunciare l’esistenza di economie fragili che non resistono ai colpi inferti dalle catastrofi naturali, che non riescono a proteggere la vita economica né le popolazioni opFurtado, op. cit. Questa interpretazione dualistica è stata fatta propria anche da studiosi marxisti come W. Martins. 52 L’interpretazione dualistica concepisce l’esistenza di due settori — tra loro indipen­ denti — l’uno moderno, capitalistico, l’altro agricolo e feudale la cui distruzione comporta l’uscita dall’« arretratezza ». In realtà il sottosviluppo non precede lo sviluppo — per que­ sto non va scambiato col non-sviluppo — e non è caratterizzato da chiusura. Inoltre lo sche­ ma duale non coglie i fenomeni di interdipendenza regionale all’interno del sistema capitali­ stico internazionale come rileva R.C. Simonsen, H istó r ia eco n ò m ica d o B rasil, 1 5 0 0 -1 8 2 0 , Sào Paulo 1962. 53 A. Gunder Frank parla di «involuzione capitalistica passiva dell’interno», op. c it., p. 199. 34 P. Cannabrava Filho, op. c it., p. 39. 109 presse da una fame storica. Sotto tale profilo il « sottosviluppo » — nella forma della monocoltura latifondistica e dell’insufficiente investimento di capitali nello sfruttamento delle risorse naturali — sottende una sua trasformazione man mano che si è profilato il declino degli assetti coloniali piu retrivi. Odio distruttore e delirio mistico non sono proiezioni di un ribellismo inge­ nuo ed incoerente cooptati in versione antistatale, quanto il risvolto di un senti­ mento di rivolta impersonato dalle figure sociali dominanti della società agropastorale. Si direbbe l’incarnazione del sogno millenaristico-messianico di popo­ lazioni che, prive di diritti, di beni, di garanzie, prefigurano una società abbon­ dante di beni e di riconoscimenti verso i poveri55. Canudos ha rappresentato, contemporaneamente, il disperato tentativo della società tradizionale di difendere la propria esistenza erosa dall’incalzante « moder­ nizzazione » e l ’esordio dell’insurrezione rurale — per ora nella veste di un messianesimo religioso — in progressiva evoluzione verso la rivoluzione contadina, ca­ ratterizzata dalla lotta dei « detentori » e delle « Leghe contadine ». La cornice na­ zionale, nella quale si inseriranno le future battaglie delle classi povere e sfrut­ tate, è ritagliata da un esercito che si identifica con la classe media sorta senza una struttura economica robusta. 55 R. Facó, Cangaqeiro's e F a n a tic o s , Rio de Janeiro 1963. no Maria Bonatti La presenza della politica italiana nella ricerca di José Luis Orozco In Messico gli studi politici al loro inizio furono saldamente abbinati alla giu­ risprudenza, ma si andarono via via chiarificando a partire dal 1920 con il culmine della rivoluzione messicana, senza però assumere quel carattere di scientificità che viceversa sarà riscontrabile a partire dal 1968, in seguito alla crisi politica provo­ cata dal movimento studentesco. Attualmente molti intellettuali si dedicano intensamente e con grande capacità alle ricerche socio-politiche, stimolati pure dalla generale situazione latinoameri­ cana in continuo fermento politico. In questo periodo si moltiplicano gli istituti e i centri di ricerca. Alcuni di questi, già prestigiosi prima degli anni sessanta, come la Escitela nanacional de ciencias politicas (fondata nel 1951), VInstitute) de investigaciones so­ cieties del 1930 e il Centro de estudios internacionales (1960), contribuiscono a incentivare gli studi di sociologia politica e ad analizzare quindi in profondità le conseguenze politiche del processo rivoluzionario con metodi ed elaborazioni cri­ tiche attendibili ed estranee al dogmatismo fino allora dominante. Negli anni settanta molti sono i corsi univeristari di buon livello che trattano tematiche socio-politiche latinoamericane e in particolare messicane, tenuti da do­ centi molto preparati e alieni da influenze straniere, specialmente nordamericane. In questo ambito, è da considerare un avvenimento importante la pubblica­ zione, nella « Revista de administración publica » (Mexico 1980), della traduzione del primo capitolo degli Elementi di Scienza Politica (ed. 1896) di Gaetano Mosca, il piu importante degli studiosi delle elites in Italia, e nel 1984 l’antologia di Nor­ berto Bobbio La classe politica (Bari 1966) che include i capitoli fondamentali degli Elementi del Mosca. Secondo il prof. Rafael Pérez Miranda della Universidad nacional autònoma de 111 Mexico, ciononostante nel panorama politico culturale messicano di questi anni, pochi studiosi della scienza politica conoscono il pensiero di Gaetano Mosca che viene studiato prevalentemente nell’ambito di determinati corsi di perfeziona­ mento e spesso ricorrendo a fonti indirette. AH’interno di questa breve panoramica sugli studi politici in Messico si di­ staccano con rilevante novità gli studi di José Luis Orozco sugli autori politici italiani e in particolare i suoi apporti critici alla dottrina moschiana della « difesa giuridica ». Attualmente responsabile del Corso di perfezionamento della Facoltà di scienze politiche deWUniversidad nacional autònoma de México, Orozco ha occupato in passato le cattedre di sociologia e filosofia nella Università di Chihua­ hua, ottenendo in questa sede una borsa per specializzarsi in scienze politiche pres­ so l’Università del Texas. Questo soggiorno degli Stati Uniti gli ha permesso di approfondire gli studi sulla scienza politica nordamericana che rielabora criticamente in un lungo saggio del 1978: La pequeha ciencia. Una critica de la ciencia politica norteamericana. Per molti intellettuali latinoamericani gli Stati Uniti (il paese darwinista, come lo chiama Orozco) costituiscono una presenza imponente e mitica che può essere interpretata solo dopo una attenta analisi delle sue problematiche socioeconomiche. Orozco, nelle Notas de Pais Darwiniano studia la logica interna del mondo sta­ tunitense dove todo lo cmpresarial es racional y todo lo racional es empresarial. Il senso comune nordamericano ingenuo e brutale ad un tempo, magistralmente de­ lineato da José E. Rodò in Ariel (1900) viene analizzato da Orozco con una lucida prospettiva critica che stimola la comprensione dei meccanismi egemonici del gran capitai norteamericano. Ma come ho detto poc’anzi l’apporto piu cospicuo degli studi di Orozco ri­ guarda la cultura politica italiana. Vediamo brevemente quali sono gli autori ita­ liani che lo studioso messicano conosce e affronta prima di Mosca. Nella Teoria Social Orozco traccia un quadro piuttosto completo delle tendenze sistematiche piu rilevanti del pensiero sociale dell’Antica Grecia fino ai nostri giorni soffermandosi su quegli autori che occupano dei posti chiave nella storia della sociologia. Nel clima spirituale dell’Italia rinascimentale Orozco distacca la personalità di Machiavelli come abile conoscitore delle debolezze umane che nel Principe delinea gli aspetti aggressivi di un volontarismo politico diretto al desgarrarmento de los fact ores de determination histórica y a las fuerzas irracionales que actuan en la sociedad. Fra gli utopisti Orozco ricorda Campanella che in una visione ottimista è fau­ tore di « una società veramente razionale ». Considerando le scienze speciali che cominciano a sistemizzarsi neH’Uluminismo europeo, lo studioso messicano affronta con sintetica chiarezza la Filosofia della Storia e l’opera di Giambattista Vico. Del pensatore napoletano lo colpiscono in particolare l’acuta penetrazione sociologica e filosofica, la formulazione delle fasi ascensionali e decadenti del divenire umano, i « corsi » e i « ricorsi » con cui spezza la visione astratta dell’uomo statico, « zavorra sia del razionalismo che del­ l’empirismo ». A Vico Orozco ritorna spesso considerandolo il precursore indiscu­ tibile del positivismo di Compte. Nel quarto capitolo della sua Teoria Social, inti­ tolato « La Sociologia Psicologista », Orozco dedica ampio spazio alla Scuola Criminologica Italiana che ritiene « nonostante il suo carattere eclettico una delle in­ fluenze pratiche più decisive nel terreno delle scienze sociali speciali, in partico­ lare nella Sociologia e nel Diritto Penale ». Si sofferma a lungo su Enrico Ferri, fondatore della sociologia criminale. Riconoscendogli l’evidente attrazione per le idee di Cesare Lombroso, Orozco sostiene che Ferri vuole fissare lo schema di una 112 causalità obiettiva nel delitto modificando le nozioni di responsabilità e di pena predominanti nel suo tempo, con concetti che diano risalto alle condizioni fisiche e sociali anormali della condotta. Orozco, pur riconoscendo l’importanza delle tesi del Ferri, la loro meticolosità metodica, che servono a porre le basi di una politica criminale eminentemente preventiva, critica una certa debolezza nel concepire la Società come causa della delinquenza individuale e sottolinea come la sua idea di evoluzione sociale non sia altro che una combinazione di postulati darwiniani e marxisti. Un lungo ed approfondito saggio su Vilfredo Pareto conclude la prima parte della Teoria Social. Dopo averne esposto dettagliatamente la teoria sociologica, Orozco la commenta come « un insieme teorico di profili disuguali che si conclude in una generalizzazione cosi ambiziosa che dissolve i caratteri specifici delle società particolari in uno schema amplissimo ». Nel 1969 Orozco inizia a occuparsi dell’opera di Gaetano Mosca e pubblica nel 1970 G. Mosca. Ensayo de Ciencia Politica nei Cuadernos de la Escuela de Administración Publica y Ciancia Politica che Ettore Albertoni nell’Introduzione al recentissimo Dottrina della classe politica e teoria delle élites (Milano 1985) consi­ dera un autentico lavoro da « pioniere per aver presentato l’opera del Mosca nel suo corretto contesto culturale e ambientale e secondo una conoscenza di prima mano dei testi ». Dopo aver studiato a lungo i classici della politica nei tre principali momenti di apogeo del pensiero borghese: l’illuminismo, il positivismo e il pragmatismo, Orozco, come dichiara nella Nota introduttiva alla versione italiana della interpre­ tazione critica della difesa giuridica ricerca il collegamento di « quelle tre tappe con il liberalismo, la sostanza che dà loro il nutrimento e l’orientamento » e lo trova in Mosca « autentico libero pensatore del liberalismo ». Come sottolinea Albertoni « l’analisi dell’Orozco è assai ben costruita e nei confronti dell’elaborazione moschiana è anche resa agguerrita dall’ottima conoscenza che lo studioso messicano ha dell’opera sia di Benedetto Croce che di Giovanni Gentile ». Proprio a Gentile, infatti, Orozco dedica un interessante saggio nel 1979 su cui vorrei soffermarmi per sottolineare come la cultura politica italiana sia stata approfondita e rielabo­ rata originalmente anche fuori dai suoi confini naturali, come ci dimostra questo problematico ed acuto studioso messicano. Nel saggio intitolato El joven Gentile y los prolegómenos del fascismo. Orozco Orozco considera le opere giovanili di Gentile per spiegarne la traiettoria filosofica che lo porta ad abbracciare l’ideologia fascista. Parte dalla sua tesi di laurea su Rosmini e Gioberti pubblicata nel 1898 in cui Gentile riprende il programma de­ lineato da Spaventa, programma tendente a un’interpretazione dei temi fondamentali della filosofia italiana al fine di evidenziare l’intima correlazione con la modernità europea. Orozco sottolinea come questo studio abbia marcato l’inizio di un’ampia esperienza storiografica, orientata soprattutto verso il pensiero ita­ liano del Rinascimento, la quale si concretò in una serie di pubblicazioni di opere che rinnovarono, spesso in modo radicale, un terreno di studio al quale il positivi­ smo aveva dato un non trascurabile contributo. Passando attraverso la « riforma della dialettica hegeliana » che voleva signi­ ficare attraverso le parole dello stesso Gentile il concetto fondamentale che la sto­ ria (e non soltanto come « historia rerum gestarum » ma come le stesse « res ge­ stae ») s’identifica col pensiero pensante o con la filosofia, Orozco arriva « all’as­ sedio » che Gentile fa a Marx nei due saggi che costituiscono Ea Filosofia di Marx. Studi Critici (1899), che Lenin giudicava una delle piu importanti interpretazioni del pensiero di Marx. Alla fine di questo saggio di Orozco è interessante notare il riferimento all’eli113 tismo di Mosca che ci dimostra come lo studioso messicano lo avesse già studiato e approfondito precedentemente. Per Orozco, la lettura delle opere giovanili di Gentile gli rivela « come la de­ stra europea abbia costruito il proprio baluardo nella storia delle idee e si sia arro­ gata il merito della sconfitta del nemico (Marx) visto senza sfaccettature ». Ho già avuto modo di sottolineare precedentemente l’interesse degli studi fatti da Orozco sulla teoria politica di Gaetano Mosca di cui — sostiene — bisogna negare la definizione di « machiavellico » attribuitagli da Burnham. « La teoria politica del Mosca — dice Orozco — si muove in una dimensione etica, costituzio­ nalista: il suo sistema di valori si oppone alle modalità spiritualiste e pragmatiche che si apprestano a sostenere la supremazia normativa di dettati ed energia interagibili tra cui rientrano l’arbitrarietà della forza, la razza, l’evoluzione, l’élan vital, la cura dello spirito, la volontà del potere, il destino manifesto, l’amministrazione scientifica o la pura meccanica fisiologica del Behaviorismo ». Nel saggio del 1970 su Gaetano Mosca, a cui si è già fatto riferimento, Orozco fa delle interessanti considerazioni sullo storicismo di Mosca che, cosciente che i fenomeni sociali sono « il prodotto di coefficienti o fattori multipli » inaccessibili a un semplice psicologismo di matrice individualista, si dirige all’esame di quei vin­ coli « sempre costanti e generali » che sottostanno agli avvenimenti particolari per­ ché la scienza sociale deve affermarsi nella sintesi di una lunga catena di eventi sia storici che contemporanei. In quest’ottica Orozco ferma la sua attenzione sulla teoria dei gruppi di pres­ sione che per Mosca sono gruppi al di fuori dell’amministrazione pubblica che in varie occasioni svolgono attività direttive della società. Lo studioso messicano nota una certa incongruenza in questa idea perché « se da una parte il liberalismo moschiano reclama un senso morale disciplinato nella cui formazione gioca una parte fondamentale l’aspetto moral-religioso della società e, di conseguenza, dei gruppi dirigenti, dall’altra esige la separazione tra il potere secolare ed ecclesia­ stico come requisito per la libera azione delle forze propriamente politiche ». Inoltre Orozco considera un errore fondamentale l’identificazione del sistema militare come una forza sociale « concentrata ». Dall’analisi del meccanismo milita­ re partirà la trattazione del tema delle due forze sociali, che, benché enunciate astrattamente si profilano come i poli dialettici della teoria moschiana dell’equili­ brio sociale. Equilibrio che porta il Mosca a dire che la difesa giuridica simboleggia il consenso popolare, il quale manifestando la superiorità della società sull’indivi­ duo riconduce ad « un governo onesto e veramente liberale ». Concludendo il suo approfondito studio su Gaetano Mosca, Orozco nota che confrontandolo con la tradizione politica del pensiero occidentale moderno, risulta evidente come egli vada oltre il realismo machiavellico che Burnham gli fa con­ dividere con Sorel, Pareto e Michels. Mosca per Orozco è un positivista del secolo scorso, partecipe della fede nell’uomo e nella scienza che deriva dalla visione dinamico-statica, comptiana, della storia. Non ho pensato qui di esaurire tutto l’apporto critico dato da J. L. Orozco allo studio della cultura politica italiana ma solo di indicare alcune tematiche essenziali dei suoi interessi « italiani » per mettere in risalto come in un paese come il Messico, cosi diverso per tanti aspetti dal nostro, ci siano intellettuali va­ lidi e impegnati nello studio della dottrina della classe politica e piu in generale del pensiero politico italiano e per sottolineare ancora una volta lo stretto legame esistente, nonostante la povertà di studi critici sul tema, tra cultura politica ita­ liana e cultura politica ispano-americana. 114 H. Zumbado La «Bodeguita del Medio» La storia della Bodeguita può cominciare nel 1950, o nel 1942, o fors’anche nel 1935, quando, partito dal paesetto di Vueltas — nella vecchia provincia d> Las Villas — giunse all’Avana un giovane turista (aveva 31 anni), allegro ed entusiasta. Si chiamava Angel Martinez. Il giovane turista non aveva traveller cheks e neppure credit cards. E non aveva neppure soldi. Portava con sé soltanto l’esperienza dell’uomc dell’entroterra, del sudore, dell’aver molto lavorato — quasi per nulla — a molte cose. Tra l’altro era stato commesso, a Vueltas, in un negozietto — bodega de campo, come si dice a Cuba — in cui si vendeva di tutto: da un litro di latte a un paio di scarpe, a un rocchetto di filo, a un pugno di magnesia, a mezza libbra di pancetta, all’aratro. Giunse all’Avana deciso a conquistarla, in un periodo in cui il semplice so­ pravvivere era considerato un successo. Erano tempi molto brutti, alla si salvi chi può; la vita era a buon mercato, ma non c’era lavoro. La tazza di caffè, un centesimo; un aguacate, 2 centesimi; 5 centesimi due uova bollite; 12 un piatto di picadillo; e per la strada si offrivano « cinque polli per un peso ». (Per carità, nessun paragone con prezzi d ’oggi. Dopo tutto, stiamo parlando del 1945). Martinez indossò il suo giubbotto e sopravvisse alla tormenta lavorando da bracciante, seminando cocchi e palme — ci sono ancora — sull’Avenida del Puer­ to; lavorò da guardiano, sorvegliando una statua in un parco; da commesso in un negozio, dove guadagnava 8 pesos al mese e il vitto; poi in un altro negozio, nell’Avana coloniale, con un salario molto più aiettante — 18 pesos al mese — Da H. Zumbado, P rosas en ajiaco, Editorial Letras Cubanas, La Habana 1984. 115 e, infine, quando gli aumentarono la paga, con lo straordinario salario di 35 pesos mensili. Ci rimase cinque anni, risparmiando quanto piu poteva per uno scopo pre­ ciso: metter su un negozio in proprio. L’occasione gli capitò nel 1942 quando, in calle Empedrado, gli offrirono una bottega piccola e vecchia, male ubicata — a metà strada, anziché all’angolo — , in un quartiere povero, con una clientela modestissima che comprava tre centavos di caffè e 2 di zucchero; uno di pane e 2 di dolce alla guayaba e, talvolta, chiedeva anche una bottiglia di latte dicendo: «Te la pago domani ». Cosi nacque, nel 1942, la Casa Martinez (il nome c’è ancora, sul frigorifero dietro il bar), una piccola bottega di incerto futuro, soprattutto perché in quei tempi la sua esistenza era seriamente minacciata dai grandi magazzini alimentari, embrione dei supermercati, che — appunto perché grandi — si stavano man­ giando quelli piccoli con prezzi contro i quali non si poteva competere. Fortunatamente, Casa Martinez vendeva anche rum, che comprava a gal­ loni e rivendeva a bicchieri: 3 centavos un bicchiere, 5 due bicchieri. (Anche qui il lettore è pregato di non far paragoni con i prezzi attuali: siamo sempre nella preistoria). Martinez mise in fresco un maggior numero di birre, allargò l’assortimento delle marche, cominciò a offrire e vendere « sala­ tini », acciughe e formaggi, sardine e patate ripiene, pancetta arrostita, prosciutto alla piastra e altre piccole golosità che attrassero un diverso tipo di clientela. Una clientela che giocava a dadi sopra il bancone, vociava, si divertiva molto e spendeva di piu. Cosi, Casa Martinez cominciò a passare dal grigio e noioso mondo del barile di strutto al mondo allegro del barile di rum. Arrivano i bohemien Adesso — siamo già al 1948 — , Casa Martinez ha la fortuna, o la sfortuna (Martinez non saprebbe dirlo) di veder aprirsi, a due porte di distanza, una tipografia diretta dal grafico Félix Ayón, in cui lavora come direttore artistico il pittore e disegnatore Luis Alonso. I due, Felito e Plomito — come li chiamano affettuosamente — sono piu bohemien che commercianti, e anche se la tipografia non prospera gran che, buona parte dei suoi introiti cominciano a spostarsi allegramente verso Casa Martinez. Qualche anno dopo, lo scrittore e poeta venezuelano Miguel Otero Silva, dirà di Felito: Il mio amico Felito Ayón che quando parla grida, dà sempre ma non prende e siccome non tiene i conti volle fondare una tipografia e fondò la Rodeguita. Questi due personaggi — Felito e Luis Alonso — non si accontentano di contribuire agli schiamazzi del bar, a soddisfare la loro inestinguibile sete con fiumi di birra e mari di rum, a placare il loro appetito vorace con ciccioli gon­ fiati e tartine al prosciutto, ma vogliono anche mangiare quello che Armenia, la moglie di Martinez, prepara per i commessi. E sono carne lardellata o con patate, coda al pepe, carne macinata, carne secca, rognone, zampette di maiale infarinate e altre delizie della cucina creola. Ciò che è peggio, i due strani clienti che parlano di tipografie, veronica e 116 bodoni, del manifesto surrealista di André Breton, di Stravinsky e del trio Matamoros, del caos nazionale e di rivoluzione sociale, cominciano a portare i loro amici. Dio li fa... Era naturale che — secondo il principio sociologico dei gruppi affini o, meglio ancora, il detto popolare « Dio li fa e poi li accoppia » — vi si aggiunges­ sero immediatamente scrittori e giornalisti, soprattutto di quelli che — come Leandro Gracia e Mario Kuchilan, Fermando G. Campoamor e Enrique Serpa — sapevano distinguere perfettamente un rum collins da un torn collins, una guaracha da un son e un pasticcetto di porco da un porcellino arrosto. Leandro e Kuchilan, oltre a godere del gradevole ambiente che si stava creando a Casa Martinez — e a contribuirvi — si occupavano anche (erano gior­ nalisti, no?) di farlo conoscere scrivendone sui rispettivi giornali. LTn esempio che risale al 1950, preso da una colonna intitolata « Buona sera », che Leandro scriveva sull’ormai scomparso « El Pais »: « Ah, Martinez », diceva l’altra sera Rita Montaner al padrone della Bodeguita del Medio « perché oltre alla trippa all’andalusa non prepari anche una buona insalata di aguacate? Naturalmente, il capriccio gastronomico dell’Unica è stato accontentato ». ...arriva il poeta Al gruppo iniziale dei « fondatori » della Bodeguita, si aggiunge poi, quasi a riaffermare e insieme ad arricchire l’aria poetica che il negozio stava assumendo, un grande poeta, di profonde radici popolari, già famoso per il suo « Sóngoro Cosongo », per « Motivos de Son », per « West Indies Ltd »: Nicolas Guillén. Guillén, il poeta, s’innamora, naturalmente, di questo angoletto, di questa botteguccia rifugio di scrittori e artisti e le dedica versi che ne ornano le pareti. La Bodeguita Gli habitués hanno smesso di chiamarla Casa Martinez e vi si riferiscono o vi si danno appuntamento con una frase: « Ci vediamo alla Bodeguita ». Basta. La Bodeguita è la Bodeguita e non può essere altro. E perché « La Bodeguita del medio »? del mezzo? Lo si aggiunge quando è necessario spiegarle l’ubicazione a qualcuno che ancora non ci è stato. Per tele­ fono, per esempio: « Mangiamo insieme? » « Dove? » « Alla Bodeguita di Calle Empedrado, a mezzo isolato dalla Cattedrale, la bodeguita a metà dell’isolato, nella metà dell’isolato', la bodeguita di mezzo ». O, come ha scritto il giornalista Mongo P., un altro dei primi, entusiasti clienti: « Il luogo posto a uguale distanza da due estremi: calle Cuba e calle San Ingancio... Ai due angoli di Empedrado, ci troviamo a uguale distanza dal sorriso aperto di Martinez ». Il nome attacca. E si diffonde a tal punto che un giorno, il 26 aprile 1950, glielo si attribuisce legalmente. « Casa Martinez », scrive Kuchilan sul suo gior117 naie, « si chiamerà da ora e per sempre La Bodeguita del Medio. Celebreremo l’evento con una mangiata ». Per sempre. La Bodeguita del Medio, scanzonata, accogliente, spontanea, musicale, incredibilmente allegra. Non è strano che, con queste piacevolissime caratteristiche, si sia trasformata, negli anni Cinquanta, in una vera attrazione turistica tutta particolare, dove i clienti bevono bene, mangiano stupendamente, si fanno fotografare per i posteri, chiacchierano animatamente e cantano stonando a piu non posso. Ecco, cos e la Bodeguita del Medio. O, detto con i versi di Nicolas Guillen: La Bodeguita del Medio è questo posto che vedi, fatti un bel goccio, amico, che qui il goccio è un rimedio; però se mi dici che stai in corpo e anima bene, fatti un bel goccio lo stesso cosi non ti ammalerai. Da qui comincia la Bodeguita, dal bar, che riceve il visitatore con il suo vecchio e lustro bancone di caoba — lo stesso del 1942 — , le sue pareti fitte di ritagli di giornale, foto scolorite, manifesti, disegni, bandierine, decalcomanie, firme e sgorbi inintelleggibili, in un caos armonioso in cui si inserisce uno sga­ bello di bar appeso. Quello su cui sedeva abitualmente il giornalista Leonardo Garcia che, profeticamente, una volta scrisse: « Bodeguita, tu rimarrai; io passerò ». Dietro al bancone, file di bottiglie: bottiglie di vino e cognac, di whisky, di gin e, naturalmente, bottiglie di impareggiabile rum cubano, unico nel suo genere, di bouquet soave, invecchiato in botti di rovere e secondo una tradi­ zione secolare. Alla Bodeguita lo si beve nella pienezza della sua migliore qualità, nella marca di maggior prestigio nel mondo: Habana Club. * Con questo rum favoloso — il Bianco, l’Oro, l’Invecchiato di sette anni — , i barman della Bodeguita preparano i famosi cockteil cubani tradizionali: i mi­ gliori e i più vari del mondo. Li, nell’allegro vociare del bar della Bodeguita si possono assaporare i Dai­ quiri gelati, bianchi come la neve, battuti in enormi quantità di ghiaccio frappé; i rinfrescanti e tropicali Rum Collins; i freschi e dorati Presidente Seco; o i mul­ ticolori Cuba Bella... Ma, è chiaro, la grande specialità della casa è il Mojito, un delizioso e ini­ mitabile cockteil a base di Habana Club bianco, ghiaccio, zucchero, soda e un grande segreto, la aromatica hierba buena, una varietà cubana di menta che dà alla bevanda un sapore e un aroma irripetibili. Ernest Heminguay, il famoso scrittore nordamericano, che ha trascorso a Cuba buona parte della sua vita, ha detto, una volta: « Il mio Daiquiri alla Floridita; il mio Mojito alla Bodeguita ». Con Heminguay, hanno goduto degli ineguagliabili e geniali mojitos della Bodeguita, della sua saporosa cucina creola, dei suoi infaticabili e allegri trovieri, insomma, del suo ambiente spigliato, allegro, cordiale e bohemien, una intermi­ nabile fila di personaggi, tra i quali stelle di Hollywood degli anni Cinquanta come i famosi comici Jimmi Durante e Lou Costello; Carmen Miranda, la sim­ patica cantante brasiliana di samba che si metteva in testa grandi ceste di frutta e di questo posto ha detto: « Quando vengo a Cuba mi sento nella mia patria, quando vado alla Bodeguita, mi sento in casa mia ». L’ha frequentata anche Errol Flynn che ne ha lasciato una definizione lapidaria: Best place to get drunk (il mi118 glior posto per ubriacarsi). E il meraviglioso Nat King Kole; splendide attrici francesi, come Martine Carol e Brigitte Bardot; columnist come Doroty Kilgallen e Earl Wilson; editori di giornali importanti, come Miguel Otero Silva di « E1 nacional » di Caracas. E poi premi Nobel come Pablo Neruda e Gabriela Mistral; prime ballerine assolute come Alicia Alonso; famosi cantanti latinoamericani come Esperanza Iris, Jorge Negrete, Tino Guizar, Rita Montaner e Boia de Nieve; musicisti come Gonzalo Roig, Moisés Simon, il trio Matamoros, Pérez Prado, Benny Moré, Sindo Garay, Augustin Lore e, naturalmente, Carlos Puebla che per anni, con il suo gruppo, ha animato la vita della Bodeguita. Pittori della grandezza di Wilfrido Lam e scrittori famosi come Frangoise Sa­ gan, Gabriel Garcia Marquez, Alejo Carpentier; caricaturisti, come Juan David; aristocratici come l’infanta Maria Cristina di Borbone, figlia di Alfonso X III; toreri come Palomo Linares; mannequin quotatissime come Margaux Heminguay che, proprio come suo nonno, papà Heminguay, ha brindato con Martinez, ora manager della Bodeguita, con un rinfrescante mojitos. Ogni tavola un continente Nella Bodeguita del Medio, tra i suoi tavolini rustici e i suoi sedili di cuoio si sono aggirati viaggiatori di tutto il mondo: scrittori e poeti, attori e attrici, soprano e trovieri, fotografi, giocolieri, chimici e alchimisti, architetti, muratori, psichiatri e pazienti, toreri, compositori, maghi, equilibristi, statisti, sociologhi e costumisti, pittori, giornalisti, filosofi, storici, marinai, capitani di lungo corso e aviatori, artisti e turisti, bohemien in genere e — orrore! — persino astemi. Per la Bodeguita del Medio passa, da sempre, tutto il mondo. Nicolas Guil­ len, in un sonetto dedicato a Angel Martinez, la riassume cosi: La Bodeguita è ormai la bottegona che allegro al vento il suo vessillo agita, ma che sia bodeguita o bottegona di lei, a ragione, l’Avana si adorna. Si sazia bene li chi è ben fornito di soldi, guano, parné, pastora, guita *, ma se non hai un kilo 2 e molta fame, ci sarà sempre chi di te si cura. La coppa in alto e mentre Puebla intona la sua canzone e Martinez porta mari di rum vecchio, io, di lontano, brindo perché la storia si ripeta e quella che è ormai la bottegona non cessi d ’esser mai la Bodeguita 1 vocaboli per significare denaro. 2 vocabolo popolare: un soldo 119 L’imbarco di Cortés a La Habana 120 Alessandra Riccio Giallomais Patrizio Esposito in Peru/Nicaragua/Ecuador Di Patrizio Esposito « Latinoamerica » si è già occupata nel n. 15/16 lugliodicembre 1984, e se ne è occupata a proposito di un sorprendente numero spe­ ciale de « L’alfabeto Urbano » dedicato al Nicaragua. Sorprendeva in quel bellis­ simo fogliettone, oltre all’accuratezza grafica, la felice scelta di brani, articoli e schede che offrivano un’introduzione di alta qualità alla conoscenza complessiva di quel paese. « L’Alfabeto Urbano » offriva un approccio diverso, introduceva al problema Nicaragua con un’eleganza che nulla toglieva alla drammaticità della vita di quel paese, ma che piuttosto aggiungeva dignità ed intelligenza. Da allora, Patrizio Esposito è tornato spesso in America latina, ma è andato sostituendo alla penna la macchina fotografica, al pennarello la pellicola a colori, ritenendo che l’obiettivo sia, in questo momento, il miglior testimone di un mondo pieno di sorprese e degno del massimo rispetto. Professore di educazione artistica a Napoli, finissimo grafico, scrittore d ’impe­ gno e militante a tempo pieno, Patrizio Esposito vive arroccato in quel nido d ’aquile che è la salita del Petraio, uno dei pochi angoli incontaminati della vec­ chia Napoli. Dalle sue finestre a picco sul golfo lascia entrare tutti i colori di un Mediterraneo ancora affascinante e se ne impregna. Appena può, con penna, pen­ narelli, macchina fotografica e una coscienza politica temprata da anni di espe­ rienze nei collettivi, lascia i suoi scolari e va in giro per il mondo, ma ormai i suoi passi lo portano sempre piu spesso verso il continente latino-americano. È del gennaio 1985 una bella mostra dal suggestivo titolo « Brasile, il ciclo del granchio ». A marzo di quest’anno presenta Giallomais, il risultato di decine di rollini scattati da luglio a settembre dell’85 fra Peru, Nicaragua ed Ecuador. È una mostra che vale davvero la pena di vedere per poter capire quelle terre da un altro punto di vista, da quello di Patrizio Esposito, la cui vocazione per il 121 bello si sposa in modo sorprendente con una realtà senza maschere né belletti. Il colore vi regna sovrano, ma è un colore che non strilla, che non si sovrappone alle cose, si direbbe, piuttosto, parte integrante di una realtà complicata nei cui labirinti penetra l’obiettivo del fotografo napoletano. Ed ecco Jinoteca bombar­ data dai contras descritta attraverso una coltivazione ordinata di ortaggi; due guardie sandiniste, al fondo, confondono il verde oliva delle loro divise con il verde tenero degli ortaggi. Un comizio di Ortega è visto attraverso i visi sorri­ denti e le camicette candide di due bambine appoggiate ad un tavolato rosso fuoco. Un autobus coloratissimo, col suo carico di volti tristi, scorre come un sipario sulla grigia e implacabile facciata del Banco Central di Lima contro cui si appoggia la sagoma sfumata di un mendicante. La caldaia arrugginita della nave di Litzcarraldo spunta fra il verde lussureggiante della foresta. Nel giallo polvere della periferia di Lima, sorgono le traforate capanne di canne degli abusivi. In­ terni di bottegucce misere elevate alla dignità di incredibili nature morte in un gioco di specchi che si aprono su volti ed oggetti imprevisti. Antiche madonne sopravvivono in angoli di conventi in decadenza. Le acque di un fiume sono una unica, iridescente macchia di petroli. Un meccanico spunta da una fossa su cui poggia la vecchia auto da aggiustare. Scorrono le fotografie di Esposito nella loro perfetta bellezza, ma non sono oggetti muti: dal fondo nero su cui sono incorniciate vanno formando come un vocio sommesso e ciascuna invita lo spettatore a guardare meglio ad entrare nel fotogramma per capire quel che c’è dietro tanta bellezza e tanta perfezione, dietro quei volti impassibili come oggetti e dietro quegli oggetti piu espressivi di un volto. In occasione della mostra napoletana Patrizio Esposito ha preparato an­ che due bei portafolio che permettono, in formato ridotto, di portarsi a casa un’inquietante fetta di Peru, Ecuador e Nicaragua. 122 Recensioni e schede Fidel y la religion. Conversaciones con Frei Betto. Oficina de publicaciones del Consejo de Estado, La Habana 1985, pp. 379. La stampa internazionale ha già attirato l’attenzione su alcuni punti che prendono corpo in questa intervista del domenicano brasiliano Frei Betto al co­ mandante Fidel Castro. L’intervista ha avuto la durata di 23 ore distribuite in quattro giorni, dal 23 al 26 maggio dello scorso anno, e questo spiega l’ampiezza del resto. Betto l’ha fatta precedere da una settantina di pagine, in cui riper­ corre sia la storia del suo interesse, della sua idea di giungere a intervistare il leader cubano su un argomento insolito e pregnante come questo, sia la « cronaca di una visita », a Cuba e a Fidel Castro, dal 10 al 22 maggio. La pubblicazione è apparsa in anteprima in Brasile, nella lingua dell’intervistatore, dove ha avuto un grande successo; l’edizione cubana, presentata dal ministro della cultura Ar­ mando Hart, membro dell’Ufficio politico del Partito comunista cubano, è stata « lanciata » il 29 novembre nel contesto del secondo Incontro degli intellettuali per la sovranità dei popoli, promosso da Casa de las Américas. Dati i limiti di spazio concessi a una normale recensione, in questa sede è opportuno fare una scelta precisa, offrendo al lettore una informazione artico­ lata sugli aspetti per cosi dire « esterni » dell’intervista stessa, raggruppando poi le principali questioni affrontate nel testo che abbiamo di fronte, rinviando eventualmente a un secondo momento quelle riflessioni piu approfondite ed estese, dirette o indirette, che in questo caso si affollano alla mente. In un certo senso il titolo trae in inganno. Almeno è quanto accaduto a noi, che avevamo puntato su una lettura critica del problema o fenomeno religioso 123 da parte di un capo rivoluzionario. Invece i momenti « teorici » toccati o anche sollevati in queste pagine, sono rari. Il lettore deve avere pazienza ed è in­ trodotto verso i punti centrali di interesse dopo un cammino abbastanza lungo apparentemente tortuoso — come accade nella guerriglia — in cui Betto e Fidel indugiano sul rapporto di quest’ultimo con « la religione », intesa appunto in senso popolare, che per il Fidel battezzato solo da fanciullo, per il Fidel giovinetto vuol dire insegnamento religioso, e suoi metodi, nelle scuole di vari ordini, da Santiago all’Avana, dove studierà nel migliore degli istituti, retto dai gesuiti. Si scopre cosi che sia Betto che Fidel mettono molta buona volontà nel ricostruire tracce poco consistenti e significative, di cui nell’animo del futuro rivoluzionario sarebbe rimasto un sedimento etico (un cubano « non possiamo non dirci cri­ stiani »); e tutto questo, ovviamente ci tocca molto limitatamente. Il pensiero va a quegli italiani che nel XIX secolo, al contrario, divenivano « laici » (e anticlericali), uscendo dall’educazione ricevuta nelle scuole rette dal clero, al fuoco della rivoluzione e delle grandi tradizioni del pensiero moderno. Vero è che nelle conversazioni dei due latinoamericani nell’anno di grazia 1985 è abbastanza accu­ ratamente oscurata tutta una fase biografica, tu tt’altro che secondaria, in cui la « religione » di Fidel era piuttosto dormiente e archiviata e, per contrasto, fra le molle della rivoluzione non dovevano esservi soltanto le costanti proiezioni di un’etica « cristiana », ma idee filosofiche, politiche e sociali divergenti da questo sostrato e piu incisivamente operanti. Tant’è che Betto, in questo o in quel momento, quando si viene al processo rivoluzionario e alla lotta armata, do­ manda informazioni su due o tre personaggi di qualche rilievo che gli sembrano piu accosti o piu inseriti nelle maglie della problematica religiosa. Le premesse si allungano cosi, richiedendo al nostro lettore una notevole pazienza, in quanto Fidel, un po’ per il suo stile e tempo oratorio, che viene riconfermato in pieno, un po’ per un’astuzia propedeutica, da ex brillante avvocato di scuola latina, introduce ai punti centrali narrando sotto il profilo della « religione », la storia della rivoluzione cubana. In tal modo il lettore cubano, il lettore brasiliano, il lettore dell’America latina e /o di altre culture vengono stretti da una sola con­ creta problematica. Quando si arriva al dunque si scopre che uno dei destinatari (il principale) è Giovanni Paolo II, il papa polacco che sta puntando — fra qualche difficol­ tà e qualche successo — su un bilancio meno avaro per le sue mistiche e politiche ambizioni della prima decade di pontificato. Si sbaglierebbe tuttavia a ritenere che la trama di questa iniziativa, del modo come è stata intrapresa e condot­ ta, sia solo di natura diplomatica, anche se questo elemento è ben presente. Una diplomazia, per i due interlocutori, che ha per platea milioni di esseri umani, intesi pur sempre come attori potenziali. Per essere precisi, occorre sintetizzare le tappe che hanno portato all’intervista. 1971: incontro di Fidel Castro, in Cile, con i Cristiani per il socialismo; 1977, altri incontri nella Giamaica; 1980 incontri con i cattolici nicaraguensi nel primo anniversario della rivoluzione sandinista. Qui è presente anche Frei Betto, che da allora alimenta nel suo spirito un interesse sempre piu attivo nei confronti dell’esperienza cubana. Il retroterra politico sociale ideale dell’intervista ha dunque uno spessore piu recente, stratificato in tre lustri, con incontri diversi nel Caribe, nel Centro e nel Sud America; ma l’orizzonte si allarga fino a includere contatti con espo­ nenti delle chiese sia nordamericane che cubane. Un passo dopo l’altro protago­ nista dell’intervista diviene la Chiesa, nel mezzogiorno dell’emisfero occidentale. L’intervista getta tuttavia una luce anche verso strati piu profondi, oltre la cronaca politica. Lo fa indirettamente, quando accenna che il movimento dei Cristiani per il socialismo sorse in diversi luoghi dell’America latina nel pe124 riodo successivo alla rivoluzione cubana, che fu anche il periodo della sua gestazione. Qui i connotati di una storia sociale, civile, religiosa, si ricongiun­ gono davanti alla riflessione laica del protagonista politico. Ne emerge l’espe­ rienza castriana — un pensiero per certi versi ovvio per altri interessante — a suggerire ulteriori e relativamente nuove riflessioni sul secolo, sul tempo contemporaneo, sulle società e le tendenze dei popoli del Terzo mondo. Questi sono, a nostro avviso, i principali elementi « esterni » (di struttura) presenti nell’intervista. Passiamo ora ad alcune questioni, o gruppi di questioni, che ci sembrano di maggiore o preliminare interesse. Elenchiamo: il « metodo » di Fidel Castro nell’intervista; le questioni di teoria tradizionali in questo campo, polarizzate sul rapporto Cristo/Marx o sul problema « religione oppio del po­ polo »; il rapporto strategico fra teologia della liberazione e Nuovo ordine eco­ nomico internazionale; la chiesa, le chiese a Cuba come tessera di un mosaico molto piu vasto. 1. Quanto al metodo. Osservazione preliminare con cui l’intervistato si pre­ munisce: preso da altri affari non ha potuto né documentarsi né riepilogare lo stato di una questione — « la religione » — in cui è piu forte il suo interlocutore. Questa cautela investe interamente il rapporto religione-chiesa lungo tutto il dialogato di Castro. A un certo punto (pp. 214-315) l’operazione di Fidel si disvela: il papa presentandosi sotto la duplice veste di capo della Chiesa e capo dello stato del Vaticano, sul terreno della dottrina, Castro esplicitamente si riser­ va mentre sul terreno politico non esita a dare il suo giudizio. Si potrà osservare che queste cautele tornano utili anche sul terreno inverso, sulla ideologia o dot­ trina di Castro, il quale tuttavia su questo versante appare qui assai latitudinario. Fa personalità di Frei Betto non dovrebbe essere ignorata o sottovalutata. Pone domande anche sull’« odio di classe » come patrimonio tradizionale, con la lotta di classe, dei marxisti o leninisti, ma in generale è su posizioni di adesione quasi entusiastica davanti alla rivoluzione cubana. 2. Fe questoni di teoria. Nelle risposte di Fidel prevalgono due motivi di fondo: da un lato allarga il campo secondo una visione storica che diremo « pro­ gressista » e « progressiva », che latinamente ama ricollegare la rivoluzione cubana alla rivoluzione francese attraverso le rivoluzioni socialiste; dall’altro antepone al terreno ideologico o teologico, sul quale non impegna mai una discussione diretta, quello delle valutazioni morali collettive. Per esempio, quando gli si domanda in che modo consideri l’amore nelle relazioni fra gli uomini, risponde evocando le grandi questioni della solidarietà e dell’eguaglianza nella struttura e nel governo della società. Fa Chiesa tradizionale europea, che storicamente è stata anche una chiesa controrivoluzionaria, ex colonialista, viene cosi incalzata, con la leva di argomenti morali e sociali i piu attuali e rilevanti nelle nuove società in transizione dell’epoca postcoloniale. Quanto alla dottrina vera e propria; per esempio, a proposito di una domanda sulla « religione oppio del popolo », che Betto formula citando il Marx del Contributo alla critica della Filosofia del diritto di Hegel, e osservando che nella prassi su questo punto si è perduta la visione dialettica ed è cresciuto al suo posto un dogma definitivo, assoluto, metafìsico. Fidel Castro risponde subito che nell’ottobre del 1980 il Fronte sandinista di liberazione nazionale per la prima volta nella storia ha riformulato la questione, con un documento che, caso unico nell’intervista, cita fra virgolette per mezza pagina. E il rapporto Cristo-Marx? Castro lo affronta sotto due risvolti, storico­ sociale e morale, secondo una versione che a noi è sembrata piuttosto vicina a quella del vecchio socialismo evangelico di casa nostra. E cosi la fluente argo­ mentazione castriana — quasi tutta concentrata negli ultimi due giorni, nelle ultime due pagine — dirime sociologicamente le antinomie dottrinali. Questo 125 sembra rispondere molto intimamente, organicamente, al carattere, alle concezioni, alla formazione dell’uomo. Affiorano elementi che tornano anche in altri punti: a Cuba la Chiesa non aveva chiese nelle campagne, dove si concentrava il 75% della popolazione, non era una chiesa popolare; cosi vi fu qualche scontro, ma non lo scontro; la stessa fede religiosa era piu che altro di quei ceti e gruppi sociali che lasciarono a centinaia di migliaia il paese, per non impegnarsi nella rivoluzione, e che poi presero la cittadinanza americana (statunitense). Gli Stati Uniti, a loro volta sono un paese ben ricco di analfabeti e semianalfabeti a milioni (Castro cita cifre precise estranee al patrimonio culturale europeo). Betto chiede a Fidel se il Partito comunista cubano non si avvìi a mutare il suo vincolo sta­ tutario, per consentire ai credenti di militarvi e accedervi e lo chiede definendo l’attuale organismo come qualcosa di « confessionale ». Castro risponde in primo luogo che non di questo si tratta. Vi è anche nell’ateismo una posizione per cosi dire neutrale, di disponibilità. Comunque, Castro è contro ogni « discrimi­ nazione » per motivi religiosi; riconosce alle motivazioni religiose una forza di­ rompente, in certe situazioni, contro le ingiustizie sociali; non ritiene i tempi maturi per un mutamento statutario al prossimo congresso del Pcc (quello tenuto a febbraio 1986). Ma è chiaro che qualcosa matura, sotto questo profilo, e che anche perciò Betto si è mosso ed è stato accolto tanto favorevolmente. Insomma Castro evita le secche ideologiche, non ripiega da una interpretazione laica, lascia spazio alle concezioni materialistiche, qualche volta le adopera in un senso illuminato e libero, ma secondo una cultura latina, su questi punti piu aperta e sperimentata, sofisticata del settarismo religioso, organico delle società protestanti nella loro classica accezione americana. 3. Teologia della liberazione e Nuovo ordine economico internazionale. L’acco­ stamento è nostro, ma emerge dal senso dell’intervista. Il primo termine si rife­ risce anche alla « chiesa dei poveri », anzi in un punto Castro parla di « chie­ sa della liberazione ». Il secondo termine una volta è esplicitamente riferito ai programmi e indirizzi dell’Onu. Sono le grandi questioni politiche che uno statista del Terzo mondo affronta in un’ottica socialista e latinoamericana. Sono questioni che il dirigente comunista affronta in collegamento col problema del disarmo, della riforma della politica, nell’intreccio di religione e morale, e in qualche punto esplicita in connessione con l’esperienza di governo di Cuba (nella metodo­ logia dello sviluppo economico, sociale, culturale) e con la tradizione rivoluzio­ naria. Direi che qui si tocca il punto alto, la ragion d ’essere dell’intervista, il significato della sua iniziativa. Castro ha ben presente quanto e come — negli orrori del potere — i rivoluzionari, i comunisti abbiano condiviso nei tempi piu recenti — dalla Comune di Parigi alle stragi, ai genocidi dell’Indonesia e del Vietnam — le sorti dei cristiani antichi, riscuotendo nel mondo il primato della piu grande e sconfinata persecuzione del secolo (su questo motivo in alcuni passaggi del suo discorso ha accenti a nostro avviso assai significativi per la sua visione planetaria a sfondo storico). Ma ora l’interessa ciò che sta emer­ gendo in condizioni nuove, dalla struttura, dalle contraddizioni delle società del XX secolo: una convergenza, una via praticabile all’incontro fra movimenti rivo­ luzionari di liberazione e chiese, masse religiose, clero ai fini della liberazione dell’uomo. Ripete e ribadisce l’espressione usata nel ’77 (Giamaica): non una al­ leanza tattica. « No, una alleanza strategica, per venir.e a capo dei cambiamenti sociali necessari ai nostri popoli » (p. 275). La teologia della liberazione (nei giorni dell’intervista Castro, secondo quanto confessa a Frei Betto, ordina tutto quanto disponibile di Gutierrez e L. Boff) lo interessa dunque per questi aspetti. Si tratta di un riformismo a lungo raggio? T u tt’altro! La sperimentazione a Cuba è già in atto (Castro cita i dati sulla eliminazione dell’analfabetismo, sulla sa126 nità ecc. che pongono il primo territorio libero e socialista delle Americhe in testa nel Terzo mondo, consentendogli persino in alcuni settori il confronto con un paese ricco e potente come gli Usa), e può essere presa ad esempio. 4. La chiesa, le chiese a Cuba. È il tema piu attuale per i commenti a breve. Va osservato che con spirito democratico il capo cubano non ignora le confessioni di minoranza. Si è già detto della prudenza con cui viene affrontato il rapporto con Giovanni Paolo II in quanto capo della Chiesa. Brillanti sono le pagine in cui con eguale coraggio e chiarezza Castro auspica — dopo il pre­ cedente prematuro e negativo che pure lasciò una traccia del 1979 — una visita di papa Wojtyla (pp. 314-320). Insiste su un punto: che siano verificate le condizioni piu propizie, ovvero le condizioni minime perché questo incontro sia utile. Cosa può ricavarne la Chiesa? Cosa può ricavarne Cuba? Il punto è uno solo: Cuba è paese del Terzo mondo, paese in sviluppo, paese rivoluzionario, paese socialista. Occasione unica per un pontefice aperto e forte. I cubani d ’altra parte hanno interesse a discutere e analizzare con Roma i problemi piu importanti dei paesi sottosviluppati dell’America latina, Asia e Africa. Perciò la questione chiesastato trascende i termini ristretti e formali dell’isola, per attingere alla vocazione storica e ideale, in primo luogo latinoamericana, ma non solo, della classica rivo­ luzione cubana. Enzo Santarelli M. Benedetti, El desexilio y otras conjeturas, ed. El Pais, Madrid 1985, pp. 219. L’esilio e il desexilio (neologismo coniato dallo stesso Benedetti in Primavera con una esquina rota, Mexico, Nueva Imagen 1981 e poi usato come titolo in un articolo pubblicato su « E1 Pais » del 18 aprile 1983) sono alcuni dei temi ricorrenti di questo libro che permette la rilettura organica di articoli scritti da M.B. per « E1 Pais » e che in questo modo superano la contingenzialità del puro fatto di cronaca e di costume che li ha motivati per entrare con pieno diritto nella storia delle idee e nel multiforme universo saggistico. Ma la nota determinante, il tema costantemente presente, con discrezione ma anche con convinzione e caparbietà, è quello della ‘americalatinità’, della affer­ mazione di una coscienza e di un destino comuni, di una immagine del latino­ americano dignitosa e civile, al di là di stereotipate — in negativo identifica­ zioni nel ‘sudaca’ o nel ‘tercermundista’. In tutti gli articoli, dicevamo, è presente l’America latina, con i suoi problemi, le sue necessità, i suoi errori, ma soprattutto la sua forza rivoluzionaria e dirompente: da Chicago no nos representa (9-1-83) e La America por descubrir (12-3-84) in cui si rifiuta la candidatura — recen­ temente rientrata — di Chicago quale unica città delle Americhe designata ad ospitare i festeggiamenti colombiani, a Una lama por el Tercer Mundo (4-4-83) sulla connotazione dispregiativa del termine tercermundista come sinonimo di barbaro, che non costituisce poi una condizione cosi abominevole sobre todo si se recuerda che la picana y la siila eléctrica, el napalm y la bomba de neutrones, son muestras distinguidas de la civilización. E ancora: in Un Bolivar silenciado y vigente (25-7-83) si rifiuta il falso mito della paternità bolivariana del pana­ mericanismo e si rivendica viceversa la obsesión del Libertador en relación con la union de los pueblos de la que él llamaba America Meridional... termino que automàticamente dejaba a Estados Unidos al margen de la apelación Bolivariana-, in Todo empezó con Walker (1-8-83) e in Chile y su moraleja (22-8-83) sulle invasioni americane in Nicaragua e sul ruolo dei militari addestrati a Fort Benning, 127 il tono si fa piu duro e piu diretto l ’attacco contro gli Stati Uniti, ma non meno sferzante e corrosiva è la penna di Benedetti in Reagan y la Bibita (13-2-84, sentenze bibliche ‘rivedute e corrette’ per avallare la politica statunitense) o nel Monòlogo de una muneca repollo (27-2-84), aristocratica autodefinizione delle bambole Cabbage Patch Kid — quelle col passaporto — : nosotras no pertenecemos a esa casta inferior de criaturas salvadorehas o guatemaltecas o peruanas que... mueren de hambre y avitaminosis y de falta de atención medica. Algo que no acabo de entender... es por qué demonios bay parejas norteamericanas que se dedican a adoptar clandestinamente a ninos argentinos (hijos de desaparecidos) cuando podian habernos adopt ado a nosotras, que ademàs saiimo s mucho màs baratas. È indubbiamente questa difesa del tercermundismo, questa ironica capacità disparatada di capovolgere alcune verità restituendo loro tutta la profonda signi­ f ic a la persa per dolo o per pigrizia mentale, questa critica di controsensi, am­ biguità e atrocità del Primer Mundo che accomuna spesso al naturale bersaglio, Reagan e gli Stati Uniti, tutto l’occidente industrializzato e in qualche modo legato e accondiscendente nei confronti della politica estera degli Stati Uniti, a far scattare la polemica in Spagna su Benedetti e la figura dell’esiliato intel­ lettuale, ‘espécemen importado’, ‘autor orientai domiciliado en la corte’. Polemica che vede impegnati, tra gli altri, Juan Goytisolo (El argumento y el ardid, 17-9-84) e José Angel Valente (Causando y Adiós, 30-10-85) e che determina la decisione di Benedetti di interrompere i suoi interventi su « El Pats », una tribuna que aprecio y que jamàs me ha censurado una sola linea. Eppure, come lo stesso Benedetti ha dichiarato nell’ultimo articolo, Causando y Adiós, vero esame di coscienza e testamento politico e ideologico di un intel­ lettuale « scomodo » ma eccezionalmente stimolante e cautivador, en mis articulos nunca me he referido a los actuales problemas y actitudes politicas de Espaha... de modo que nadie me puede acusar de falta de respeto, intromisión indébita o temeridad de juicio. Ma evidentemente l’amore verso la Patria Grande (il capi­ talismo internazionale) è piu forte e piu vulnerabile di quell’amor di patria sempre integralmente rispettato da M.B. (l’articolo incriminato è Lilliam Hellmann y otras conductas, 9-6-84, sul maccartismo e su inevitabili confronti con la situazione attuale). Oltremodo attuale e interessante, ma che per la sua portata travalica i limiti stessi del libro e della sua recensione, è la polemica con Vargas Liosa (Ni corruptos ni contentos, 9-4-84, Ni cinicos ni oportunistas, 18-6-84) sulla po­ liticizzazione dell’intellettuale latinoamericano e sulla sua inevitabile scelta CubaNicaragua / Stati Uniti (Vedi le interviste di Valerio Riva e Gabriella Lapasini a M. Vargas Liosa, rispettivamente in « Panorama », 2-1-84, e « Cubana », gennaiomarzo 1985): Latino America è ancora e sempre centro propulsore di riconosci­ menti e rifiuti, di affratellamenti e dissensi. Maria Rosa Grillo 128