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LATINOAMERICA_25_1987

INDICE: Santarelli Enzo, L'Internazionale socialista. Problemi di storia e di politica, 3-14. Aruffo Alessandro, La DC subcontinentale e l'Umdc, 15-24. Nogueira Marco Aurélio, La sinistra e la transizione democratica in Brasile, 25-34. Trad. di Angelo Trento. Ianni Vanna, Sistema politico e movimenti sociali nella Repubblica Dominicana, 35-46. De Micheli Mario, Omaggio a Clément Moreau, 47-48. Sandino e il sandinismo Arellano Jorge Eduardo, La "Legione Latinoamericana" di Sandino, 51-65. Trad. di Luigi Ficcadenti. Oldrini Giorgio, Il fronte sandinista, 66-67. Gerber Marcos, La crisi del modello di accumulazione in Argentina, 69-74. Marra Alessandra, "Ollantay" un dramma quechua, 75-83. Lapasini Gabriella (a cura di), La Conquista vista dall'altra parte, [Testimonianze maya, azteca e inca], 85-93; Quaderno: 21-31. Russotto Márgara, Molteplicità culturale e specificità letteraria in America latina, 95-100. Luis Cardoza Y Aragón Manuzzato Nicoletta, Il Guatemala più vero, 101-103. Monterroso Augusto, Poeta della vertigine, 103-106. Trad. di Nicoletta Manuzzato. Antonucci Fausta, Una iniziativa editoriale, [La collana "Il lato dell'ombra"], 107-109. Recensioni e schede, 111-120. Il fascicolo è illustrato con incisioni di Clément Moreau, tratte dalla raccolta Argentina del 1960. In copertina: Clément Moreau, India del Chaco (Argentina), 1960.

LATINOAMERICA analisi testi dibattiti Le internazionali e i partiti/A. Aruffo, V. Ianni, M.A. Nogueira, E. Santarelli J.E. Arellano, G. Oldrini/Sul sandinismo M. G erber/ll modello di accumulazione in Argentina G. Lapasini/La Conquista vista dall'altra parte N. Manuzzato, A. Monterroso/Luis Cardoza y Aragón A. Marra/«Ollantay» un dramma quechua M. Russotto/Molteplicità culturale Anno V ili, n. 25 gennaio-marzo 1987 Enzo Santarelli 3 L’Internazionale socialista. Problemi di storia e di politica Alessandro Aruffo c.p. 64091 00100 Roma tei. 873742 15 Marco Aurélio Nogueira 25 La sinistra e la transizione democratica in Brasile 35 Sistema politico e movimenti sociali nella Repubblica Dominicana Comitato di redazione: Bruna Gobbi, Nicoletta Ma­ nuzzato, Giorgio Oldrini, Ma­ nuel Plana, Alessandra Ric­ cio, Enzo Santarelli, Massimo Squillacciotti, Angelo Trento. Vanna Ianni Mario De Micheli 47 Omaggio a Clément Moreau Sandino e il sandinismo Direttore responsabile: Gabriella Lapasini La De subcontinentale e l’Umdc Jprge Eduardo Arellano 51 La «Legione Latinoamericana» di Sandino Giorgio Oldrini La rivista non assume la responsa­ bilità delle opinioni espresse negli articoli firmati. 66 II fronte sandinista 69 La crisi del modello di accumulazione in Argentina M. Gerber Alessandra Marra In copertina: Clément Moreau, India del Chaco (Argentina), 1960 75 «Ollantay» un dramma quechua 85 La Conquista vista dall’altra parte (a cura di Gabriella Lapasini) Màrgara Russotto 95 Molteplicità culturale e specificità letteraria in America latina Luis Cardoza y Aragón Sped. abb. post. gr. IV, 70% Autorizz. del trib. di Roma n. 18142 del 6-6-1980 Stampa: ITER Via G. Raffaelli, 1 - Roma Nicoletta Manuzzato 101 II Guatemala più vero Augusto Monterroso 103 Poeta della vertigine Fausta Antonucci Chiuso in tipografia il 23-2-1987 107 Una iniziativa editoriale 111 Recensioni e schede Enzo Santarelli L'Internazionale socialista. Problemi di storia e di politica La presenza e la sfida dell’IS nell’America latina costituiscono un dato rela­ tivamente recente. Come si vedrà piu avanti il primo approccio organico al subcon­ tinente si può far risalire al 1973, a una dimostrazione di solidarietà con Salvador Allende già in pericolo; l’ultima tappa, ancora una volta drammatica, non certa­ mente l’approdo, coincide col congresso internazionale di Lima, segnato dai san­ guinosi eventi del giugno 1986. Sono quasi tre lustri di attività politica, di cui è difficile trarre un bilancio omogeneo — anche perché le situazioni interne al subcontinente sono e rimangono tutto sommato assai disparate. E tuttavia è chiaro che l’Internazionale socialista è stata protagonista, negli ultimi anni, di uno sforzo di universalizzazione di natura eccezionale e non episodica. La Seconda Internazionale era sorta, nel 1889, su basi essenzialmente europee, con una punta « americana» rappresentata dai socialisti degli Stati Uniti e dell’Argen­ tina, presenti però come « osservatori », vale a dire di due paesi « bianchi », proiezione estrema della colonizzazione e immigrazione dall’Europa. Nel periodo fra le due guerre mondiali l’Ios sostanzialmente mantenne questo carattere eurocentrico, organico alle sue origini — mentre il Comintern si distingueva — per contrasto, per uno sforzo di acculturazione e di espansione, che abbracciava, nel suo schema un po’ tutti i continenti, e che avrebbe fruttificato, anche dopo il secondo conflitto mondiale, in Cina, nel Vietnam, a Cuba e altrove. Ancora nel secondo dopoguerra, per un lungo periodo, la risorta Internazionale socialista soffre dei limiti e della tradizione precedenti. Il problema storico politico che oggi ci si pone è dunque tanto piu interessante, anche se l’interpretazione non potrà essere né univoca né agevole. L’approccio all’America latina, è parte integrante di un processo di espansione intercontinentale più vasto, che investe varie regioni del « Terzo mondo » e che 3 presuppone (e implica) una svolta interna alla dinamica dell’associazionismo so­ cialdemocratico. Negli ultimi lustri, infatti, l’IS valorizza, estende, collega le poche teste di ponte già presenti in Asia e in Africa oltre che nel subcontinente americano, e ne crea di nuove. Un momento culminante e in un certo senso unificante di questa strategia, come è noto, è nel rapporto Brandt pubblicato nel 1980 da una « Commissione indipendente », di cui facevano parte, per l’America latina, il cileno Eduardo Frei, il colombiano Boterò Montoya e il guaianese Shidath Ramphal. I primi due avevano stabilito diversi contatti « ad alto livello » con 1’Inter-American Development Bank, con l ’Organizzazione degli Stati Americani, con l’Economie Commission for Latin America (Ecla), la cui sede centrale di Santiago del Cile veniva contattata da Frei, e con esponenti dei governi di Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, Giamaica, Messico, Peru, Venezuela. Anche Fidel Castro venne informato, nel 1978, sugli obiettivi e le attività della Com­ missione. Tuttavia il rapporto Brandt è soltanto un punto nel percorso dell’IS verso la realtà latinoamericana. L’ex cancelliere della Repubblica federale, liberato dalle cure del governo, rappresentava la continuità con la tradizione centrale della socialdemocrazia e anche un certo tipo di saldatura fra gli interessi europei e una nuova prospettiva internazionale, nel caso specifico latinoamericana. A questo proposito non si può ignorare il contributo tecnico-culturale della Fondazione Friedrich-Ebert, che risale al 1925 ed è risorta dopo il crollo hitleriano, impe­ gnandosi in tempi non lontani in una vasta opera di studi, ricerche, seminari, scuole per quadri sindacali e politici e via dicendo, spesso in stretta comuni­ cazione con diversi altri organismi internazionali, influenzando cosi, sul posto o nell’esilio, tutto uno strato rappresentativo del personale progressista o moderatamente democratico del subcontinente. L'instituto latinoamericano de investigaciones sociales (Ildis) ha assolto a un ruolo di « battistrada », pubblicando tra il 1968 e il 1979 una cinquantina di studi su paesi come il Costarica, il Cile, il Venezuela, l’Argentina, l’Uruguay, la Bolivia, l’Ecuador, il Nicaragua. Tuttavia, anche tenendo conto di questi addentellati e specificazioni, quando si valuta la presenza dell’IS in America latina, bisogna distinguere. In un suo studio del 1981 James F. Petras ha ricordato, fra gli organismi collaterali, oltre la Friedrich-Ebert, il Cedal (Centro studi de­ mocratici sull’America latina) con sede nel Costarica, presso « La Catalina ». A proposito di collateralismo non va dimenticato il momento sindacale. L’in­ treccio e la distinzione, tuttavia, non sono sempre lineari. Lo stesso Petras, pur rilevando che i sindacati socialdemocratici europei fanno parte della Cisl, ha parlato del nordamericano Afl-Cio (che non vi aderisce, e si caratterizza per un violento anticomunismo) come « un padrino potente » per la penetrazione, in un primo tempo, nell’ambiente latinoamericano. Piu in generale bisognerà guardare a una situazione e a una strategia continentale piu complessa. L’Internazionale socialista muove pur sempre dall’Europa e in parte ne riflette i rapporti di con­ correnza-coesistenza col Nord America: non a caso la penetrazione nel subcon­ tinente avviene in una fase in cui nell’America latina si accresce l’influenza economica e culturale dell’Europa (e dello stesso capitale germanico) in contrasto ora esplicito ora implicito con gli Stati Uniti. All’interno di questi grandi rapporti il quindicennio che va dal 1973 ai giorni nostri, quanto alla periodizzazione, può dunque suddividersi (è uno schema di comodo) in due grandi fasi, scandite dal rapporto Brandt, che indicava come centrale la problematica Nord Sud, anche per evitare il rischio di un confronto fra Est e Ovest — per mediare i rapporti fra capitalismo europeo e capitalismo Usa. La fase anteriore al 1980 appare caratte­ rizzata da un insieme di approcci, innesti e collegamenti scarsamente programma­ tici; quella successiva presenta, pur nel suo pluralismo, una maggiore articolazione. 4 Il contesto sociale e storico Non è qui il caso di esplorare le motivazioni profonde e contingenti della svolta che si determina in seno all’IS nel corso degli anni settanta fino a de­ terminare un rapporto in gran parte inedito, ma in fondo abbastanza composito, con l’America latina e il Caribe. Forse ci si può riferire alle esigenze primordiali di colmare un vuoto nella politica e nella cultura della vecchia Europa, ormai privata dalla sua egemonia coloniale: è un punto da approfondire contestual­ mente all’indagine sul significato e il senso di quella presa di coscienza e di quei comportamenti che si incorporano nell’immagine e nelle politiche che di fatto si indirizzano al « Terzo mondo ». Certamente nell’attrazione verso l’America latina agisce una condizione di relativa stabilità raggiunta in Europa. Mentre Schmidt continua a governare, Brandt e Palme rappresentano due diverse linee di approccio alle realtà extraeuropee. Se si guarda sulla sinistra dell’IS, la con­ giuntura in cui si verificano il suo primo approccio organizzato e un abbozzo di elaborazione, di tattica e di strategia, è quella di una crisi laboriosa dei precedenti lineamenti del radicalismo antimperialista latinoamericano, che si era espresso tanto variamente, in tutta una gamma di istanze rivoluzionarie o insur­ rezionali, ora interpretate dai partiti comunisti, ora da elementi nazionaldemocratici, ora dal castrismo o da movimenti di guerriglia. La scissione e frantumazione degli schieramenti di sinistra negli anni sessanta, la modificazione del sistema po­ litico latinoamericano sotto l’urto della prassi autoritaria e delle teorie della « sicurezza nazionale » nei regimi di dittatura militare negli anni settanta: — questi sono i fenomeni che preparano e accompagnano l’approdo e l’elaborazione dell’IS nell’America latina e nel Caribe. Sfida, quindi, alle ideologie radicali, come è stato sottolineato da Walter Marossi, in nome di una teoria riformista per il Terzo mondo, ma anche, un innesto di non facile valutazione su una realtà e una dialettica sociale e nazionale complessa come quella latinoamericana. Per la prima volta nella sua storia ITS tiene una riunione del. suo Bureau a Santiago del Cile nel febbraio del 1973: è un gesto di solidarietà, come si è detto, verso il socialista Allende, leader di Unidad popular, alleato di comunisti, radicali e cattolici progressisti, e nel medesimo tempo un gesto di apertura nei confronti dell’intero arco delle forze di sinistra del subcontinente. Da questo momento una linea di forza dell’IS sta nel fronteggiare — non da sola, cer­ tamente — i governi militari che coprono gran parte dell’America latina, con l’avvallo e l’incoraggiamento degli Stati Uniti. La prospettiva socialdemocratica è fino a questo momento essenzialmente tattica: mentre avanza il processo di industrializzazione e, almeno in certi casi e in certi stati, di espansione sia pure relativa di un proletariato industriale di tipo moderno, ITS — che si batte per i diritti civili e prospetta una democrazia non formale, ma a partecipazione popolare — sembra voler mediare fra autoritarismo e libertà, preparando la fuoriuscita dalle dittature senza passare attraverso fratture profonde, senza nuovi sbocchi rivoluzionari. Il rapporto con gli Stati Uniti è infatti concentrato e articolato su alcuni punti precisi, talvolta affrontati indirettamente, ed evita con cura di riprendere l’analisi dell’imperialismo, anche se non potrà evitare la critica dell’intervento Usa a Grenada. L’IS viene coinvolta in questioni assai irte di difficoltà pressoché insuperabili, come quelle dei rapporti delle società ed economie del Sud col Fondo monetario internazionale. Anche l ’avventura neo­ coloniale del governo Tatcher nelle Malvine, è una prova non indolore. Insomma, la linea antimperialistica che prevale in un largo fascio di forze latinoamericane (comprensiva della tradizione castrista) rimane piuttosto lontana da piu di un partito socialdemocratico europeo. 5 Se non mancano le difficoltà oggettive e soggettive, la discesa in campo dell’IS è ugualmente rilevante, appare anzi un fattore unificante nella transi­ zione verso una America latina più moderna e più libera. L’IS coglie il momento della crisi politico-sociale della scuola guerrigliera, che pure nel contesto del subcontinente ha radici profonde, legate al popolo e all’intellettualità, e trova nuovi spazi nella denuncia dei regimi militari e nella solidarietà ai perseguitati e agli esuli. I canali dell’Internazionale (e degli organismi collaterali cui si è accennato) risultano essenziali per un radicamento più esteso della prospettiva socialista e delle tendenze socialdemocratiche: sono canali che conducono all’esperienza e ai modelli politici prevalenti nell’Europa occidentale, che prescindono o sembrano prescindere, dagli interessi Usa e talvolta se ne distinguono esplicitamente. Del resto si tratta di un movimento e di tendenze più generali: la durezza dell’impatto militare sulle società latinoamericane, se finisce con lo scompaginare le formazioni guerrigliere e di estrema sinistra (già solcate da profonde divisioni fra maoismo, castrismo, sovietismo), anima anche la resistenza di larghi settori religiosi, che su un lungo periodo concorrono a premere dal basso, sui fianchi dello stato mo­ dificando il volto del sistema politico. In altre parole, sia pure in termini pecu­ liari, l’innesto delle prospettive e tattiche socialdemocratiche entra come parte integrante in un processo complessivo di rivendicazioni delle masse popolari e di articolazione delle libertà politiche, in luogo dell’autoritarismo oligarchico-militare su cui avevano puntato le multinazionali e la stessa politica nordamericana. Ma quali sono i margini possibili di una prospettiva neoliberale e riformista? E qual’è il grado di reale acculturazione della proposta e sfida socialdemocratica nello spazio caraibico e latinoamericano? Questo — a parte i risvolti non se­ condari e pur sempre attuali dell’eredità indoamericana — è il vero nodo davanti a cui si trova l’IS in questa parte del mondo. Il cammino di 15 anni Nel 1973 l’IS poteva contare soltanto su poche e modeste adesioni: per la precisione il Partito socialista popolare argentino e il Partito nazionale del popolo di Giamaica, a cui si aggiungevano, in qualità di osservatori, Azione democratica del Venezuela e tre formazioni minori. Momenti ulteriori di aggregazione sono il congresso di Ginevra (1976) che delibera e sancisce la svolta verso le realtà extraeuropee voluta soprattutto da Brandt e l ’importante congresso di Vancouver (Canada). Per la prima volta un congresso dell’Internazionale si tiene fuori d ’Europa (1978). È il momento in cui, direttamente o indirettamente (nell’ambito sin­ dacale) si fanno i conti con l’influenza nordamericana, e alcune centrali sindacali subalterne all’Afl-Cio (Guatemala, Salvador, Paraguay) vengono estromesse dalla Cisl. Nel 1980 si costituisce un Comitato per l’America latina e il Caribe: al congresso di Madrid, l’IS si proietta ancor più decisamente verso i mondi iberoamericani. Proprio nel periodo in cui fra Roma-Parigi-Madrid — all’epoca della caduta e del tramonto delle dittature semifasciste dell’Europa meridionale tanto si discute di « eurocomunismo » — la spinta di Brandt, utilizzando il canale dei partiti portoghese e spagnolo riesce a innestarsi efficacemente nei paesi di lingua neolatina d ’oltreoceano. Nel 1981 i partiti membri a pieno diritto dell’IS sono 7: il solito Partito socialista popolare (Argentina), il Partito nazionale del popolo (Giamaica), cui si sono aggiunti il Partito laburista delle Barbados, il Partito radicale del Cile, il Partito di Liberazione nazionale del Costarica, il Partito rivoluzionario dominicano, il Movimento nazionalista rivoluzionario di E1 Salvador; membri a titolo consultivo: oltre Azione democratica e Movimento 6 elettorale del popolo, entrambi del Venezuela, il Partito febrerista rivoluzionario del Paraguay. Sono in tutto una diecina di unità; a cui si aggiungono altre 18 formazioni che hanno sollecitato il sostegno dell’IS nelle loro lotte per la libertà o hanno partecipato a varie assise dell’Internazionale. Fra questi ultimi sono degni di nota: il Movimento nazionalista rivoluzionario di sinistra della Bolivia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale, il Partito laburista brasiliano, l’Alleanza popolare rivoluzionaria americana (Apra) del Perù. In alcuni casi (Fronte ampio dell’Uruguay, Partito rivoluzionario istituzionale del Messico, ecc.) i limiti di questa categoria risultano del tutto aleatori e talvolta persino infondati. È chiaro però — anche dalla nomenclatura — che nell’IS sono affluiti o gra­ vitano un discreto numero di formazioni notevolmente eterogenee, spesso schegge di movimenti la cui radice rivoluzionaria è più o meno attuale, e anche di movimenti dall’impronta populista più o meno lontana. Se non si trattasse di una locuzione tipicamente italiana, si potrebbe parlare di un processo trasfor­ mistico che sta alla base — quanto alle forme — di una aggregazione molto eterogenea. E tuttavia questo coacervo di forze rappresenta per l’America latina — insieme alla presenza pure relativamente nuova e di origine europa dell’Unione democratica cristiana — un sintomo di svolta politica, in quanto interferisce in termini innovativi sull’insieme degli schieramenti. Se dal 1980 si fa un salto al congresso di Lima, i partiti aderenti salgono a 9, i membri a titolo con­ sultivo sono 6, le formazioni invitate risultano 7. Ma intanto anche la posizione di alcuni di questi partiti è venuta a cambiare: il Partito nazionale del popolo di Giamaica è salito al potere e lo ha perduto, dopo alcuni anni. Ha nazionalizzato la bauxite, ma non ha resistito ad duplice attacco degli Usa e del Fmi. Per contro l’IS ha espulso dalle sue file un vecchio membro, il Psp dell’Argentina. Qui la presenza socialdemocratica rimane assai debole (Alfonsìn risolleva la bandiera radicale e spiazza ogni altra ipoteca), mentre in Perù con Alan Garcia l’Apra passa dall’opposizione al governo. Quando si potrà scrivere una storia dell’insediamento e degli sviluppi dell’IS nell’America latina e nei Caraibi, uno dei principali problemi consisterà certa­ mente nello spiegare e indicare il modo in cui i singoli partiti confluirono o furono cooptati nell’organismo internazionale di origine europea. Molto pro­ babilmente i carteggi di Willy Brandt e di 'altri dirigenti socialdemocratici, archiviati dalla Fondazione Friedrich-Ebert, potranno dare una risposta docu­ mentata, o per lo meno avviarla. Oggi ci si può soltanto domandare fino a che punto quell’incontro avvenne, nel giro relativamente concentrato di pochi anni, sulla base di una convergenza programmatica o di varie opportunità po­ litiche da una parte e dall’altra. Ma ci si deve anche chiedere come e perché si sia giunti, in termini più generali, a un simile sbocco. Qualche ipotesi può essere formulata fin d ’ora, partendo da una conoscenza sommaria dei prin­ cipali problemi d ’ordine regionale quali si erano venuti definendo, o erano rimasti in tronco nei periodi precedenti, sia nel pensiero socialista, sia nell’espe­ rienza del movimento operaio, e dei principali movimenti associativi peculiari del subcontinente. La lunga polemica che ha opposto Haya de la Torre ai co­ munisti, per esempio, costituisce uno dei retroterra della confluenza esplicita e recente dell’Apra peruviana. I partiti comunisti scontano cosi non solo una crisi recente — le lacerazioni fra correnti maoiste, sovietizzanti, castriste e cosi via, cui si è accennato — ma lo stallo cui era giunta tra le due guerre mondiali l’esperienza terzinternazionalista nell’America latina. D ’altra parte non si può ignorare come sul terreno delle società latinoamericane la continua, rinnovata presenza e pressione dell’autoritarismo reazionario autoctono e degli interventi — diretti e indiretti — della macchina sovranazionale rappresentata dall’Osa 7 e dagli Usa (che troppo spesso si danno per scontati) abbia rappresentato un duro svantaggio per l’estrema sinistra; peraltro l’analisi e la prospettiva di metodo e di merito di un Mariategui rappresentano ancora, nel quadro di un marxismo duttile, aperto, maturo, un fermento e un richiamo tuttora validi, su cui si può continuare a lavorare di concerto con le migliori esperienze internazionali e internazionaliste. Ancora un innesto imperfetto? È poco noto che in qualche modo, per quel che riguarda le socialdemocrazie, l’Oriente ha preceduto l’America latina, con una prima Conferenza dei partiti socialisti d ’Asia convocata nel 1953: a Rangoon affiorò una « associazione vo­ lontaria e democratica » a base regionale e fu formulata una carta program­ matica incentrata sui « Principii ed obiettivi del socialismo ». « L’Asia intera — si diceva fra le considerazioni conclusive del documento — è soggetta a tensioni che rischiano di condurre ed hanno già condotto alla guerra. Bisogna sforzarsi di concepire e dare forma ad una politica socialista comune in Asia riguardante ogni tipo di tensione ». Alle spalle dell’India e della Birmania, e di questo decollo di un socialismo orientale non marxistico, stavano l’espe­ rienza della rivoluzione cinese e della guerra di Corea. T u tt’altra situazione, e un ritardo nel coordinamento delle forze locali, probabilmente connesso anche alla tutela e alle proiezioni panamericane del potente vicino del Nord, si regi­ strano nel medesimo tempo nell’America latina. Qui la questione agraria, il pro­ blema della nazionalizzazione delle risorse in mano al capitale straniero, l’esigenza di nuovi ordinamenti democratici sottratti all’infiltrazione e alla cattura delle oligarchie e al ricatto dei golpe militari, incidono in varie esperienze — dalla riforma agraria del Guatemala alla rivoluzione della Bolivia — ma prima del successo del movimento castrista a Cuba, l’IS stenta a decollare. L’America latina degli anni sessanta e settanta rappresenta nel complesso nell’emergente Terzo mondo, a cui finisce con l’associarsi unitamente ad altre piu recenti realtà ex e semicoloniali, una posizione non solo differente ma piu avanzata rispetto alle regioni più estese del mondo afroasiatico. Se la popolazione contadina è ancora prevalente e molto povera, se l’urba­ nizzazione caotica costituisce un tratto comune con la maggior parte degli altri paesi emergenti, un tratto distintivo dell’ambiente politico-sociale latinoametricano è nella presenza e tradizione di un movimento operaio e nella relativa enucleazione di classi lavoratrici moderne. Una ipotesi di tipo socialdemocratico, almeno per quanto riguarda il dato obiettivo della formazione di un proletariato industriale, trova quindi una rispondenza obiettiva nelle condizioni di alcune regioni e centri capitalisticamente più avanzati. Ma accanto a queste fasce urba­ nizzate e industrializzate, a cui continuano ad attingere partiti comunisti, popu­ listi, socialisti e sindacati di vario segno, sussiste e tende a mettersi in moto lo zoccolo più profondo di un’America latina agraria e campesina, una Indoamerica che batte alle porte delle capitali andine e una Afroamerica che impegna pa­ recchi degli stati brasiliani e caraibici. Di fronte al mareggiare dei problemi di massa, peculiare dei decenni postbellici, si nota uno stacco qualitativo pro­ fondo rispetto alle precedenti esperienze delle avanguardie prebelliche e del pe­ riodo fra le due guerre mondiali, quando forte era ancora il legame dei sin­ dacati e dei partiti col movimento operaio e le correnti di pensiero dell’Europa. Anche quei movimenti che erano stati sommersi dall’ondata reazionaria, come l’Apra e il sandinismo, quando risorgono e riemergono, appaiono notevolmente 8 trasformati. Perciò il filo che ricollega l’Internazionale socialista, le sue compo­ nenti odierne alle adesioni antiche alla Seconda Internazionale e anche all’Ios degli anni venti-trenta, è in realtà molto esile, anche se una qualche maggiore continuità si riscontra proprio nei paesi « bianchi », caratterizzati da una piu forte colonizzazione europea: Argentina, Uruguay, Cile e Costarica. Nella classica storia del pensiero socialista di G.D.H. Cole, che in realtà ricomprende anche le vicende dei partiti socialisti, l’America latina figura con alcune notazioni tuttora pertinenti, anche se riguardano un periodo precedente l’attività e l’innesto dell’attuale IS. Tanto per cominciare il Cole sottolinea che « il movimento socialista latino-americano restò, fino al 1914, del tutto su­ balterno a quello europeo da cui derivava, e non espresse alcun pensatore au­ tonomo ». Probabilmente siffatto giudizio è troppo drastico, anche se concerne una fase in cui anarchismo, sindacalismo, socialdemocrazia riflettevano effettiva­ mente l’ondata di massa dell’emigrazione da oltre Atlantico. Poco oltre lo stesso autore parla dello « stato caotico del movimento socialista latinoamericano » du­ rante gli anni venti, quando il movimento comunista e quello aprista « furono i soli che cercarono di costruirsi una base di carattere continentale e non anguqtamente nazionale » (o corporativa). Molte scissioni di sinistra e qualche volta di destra scompaginarono infatti i piu forti e influenti partiti o movimenti socia­ listi del Cono Sud. Il Comintern, che cercò appunto di darsi una base continentale alla Conferenza di Buenos Aires del 1929 non riusci tuttavia ad acculturarsi effet­ tualmente nella realtà sociale del subcontinente, proprio in quanto partiva, come formazione storica, dal presupposto dell’egemonia della classe operaia, che in America latina aveva scarsi riscontri sociologici. Ma anche gli esperimenti socia­ listi o socialdemocratici, assai piu duttili per questo aspetto essendo aperti alle classi medie, non furono piu fortunati, come dimostra il caso dell’Argentina, dove ebbe la meglio prima il radicalismo di un Irigoyen, poi il nazionalismo demago­ gico di un Perón. Sempre il Cole conclude il suo lavoro affermando che fino al­ l’anteguerra (1939) «la principale caratteristica comune dei movimenti operai la­ tinoamericani era l’immaturità ideologica, e, nella maggior parte dei casi, l’inca­ pacità di creare un legame effettivo fra i lavoratori delle città e i contadini, che continuavano per lo piu ad avere un livello di vita molto inferiore a quello delle città, da cui erano separati spesso anche da una barriera di razza e di colore ». La problematica attuale Dopo quanto si è cercato di documentare per il periodo fra le due guerre mondiali (una periodizzazione peraltro poco aderente ai casi dell’America latina) l’interrogativo se non si tratti ancora, per i socialisti come per i comunisti di una acculturazione inadeguata, ovvero di un innesto imperfetto, può essere lasciato in sospeso. Qualsiasi debba essere la risposta, da proiettare ovviamente oltre gli anni cinquanta (quando la guerra fredda, le pressioni imperialistiche e l’imma­ turità locale decimano e pongono fuori legge anche i più forti partiti comunisti, dal Cile al Brasile) e oltre l’evento discriminante della rivoluzione cubana, è chiaro che l’accorparsi di molti precedenti gruppi e movimenti di sinistra o democratico-progressisti nell’odierna IS risponde non solo a vari criteri di op­ portunità politica, ma anche a una certa valutazione dell’esperienza storica col­ lettiva. Gli elementi di conformismo che potrebbero aver presieduto all’affiliazionecooptazione nell’IS, vanno quindi valutati nei loro fondamenti obiettivi, per la apertura che rappresentano verso nuove potenzialità. Tanto l’insediamento delle socialdemocrazie, del Comintern o della stessa Apra si è rivelato precario e im9 probo negli anni trenta-quaranta, quanto oggi il possibilismo socialdemocratico, internazionale e autoctono, sembra caricarsi delle astuzie della storia, obbedendo alle ragioni di un’adesione pluralistica alle varie pieghe del subcontinente. Ma con questo non sarebbero ancora superate, nemmeno virtualmente, tutte le diffi­ coltà obiettive finora riscontrate. Anzi, esse risorgono subito oltre l’angolo: e infatti si ripresentano puntualmente là dove si erano concentrati i programmi apristi o comunisti o castristi e guerriglieri, prima e dopo gli anni quaranta: sulla questione agraria, come sulla questione india o indigenista, sui rapporti fra nazioni del subcontinente e ingerenza politico-finanziaria del Nordamerica, sull’organamento fra classi, strati e gruppi sociali interno al rapporto città-campagna. Alle spalle dell’IS vi è il mancato rinnovamento dei vecchi partiti socialisti della fase dell’Ios: anche la Storia del socialismo diretta dal socialdemocratico Jacques Droz converge, per il 1945-1975, sul giudizio già espresso dal Cole: « Bisogna riconoscere che i partiti socialisti non si rinnovano. In Argentina e in Uruguay, dove godono di notevole influenza (...) si limitano a ricalcare gli schemi elettorali ed ideologici dei partiti socialisti europei: difesa del socia­ lismo democratico, preoccupazione prioritaria delle libertà ecc. ». Ché anzi « le difficoltà dei partiti socialisti aumentano dopo la guerra con l’industrializzazione dell’America latina e con i nuovi obiettivi dell’Internazionale socialista » quale si ristruttura in Europa durante la guerra fredda. Per cui si può dire, che « eccet­ tuato il Cile e in certa misura l’Uruguay, l’etichetta “socialista” finisce sempre piu per indicare organizzazioni liberali, centriste e talvolta addirittura conser­ vatrici ». Secondo questo testo « la terminologia socialisteggiante e la termino­ logia marxista hanno perso il loro dinamismo. Cosi stando le cose, l’ideologia non è piu che un velo gettato sul reale ». Si spiegano cosi gli sviluppi ulteriori, come il parallelismo con la traiettoria e l’ipoteca sull’ambiente latinoamericano da parte dell’Unione democratica cristiana a livello internazionale. E tuttavia, va segnalato che le nuove adesioni all’IS si differenziano dal recente passato almeno per due consistenti elementi: a) per il fatto che varcano i limiti territoriali e sociologici dell’antica tradizione, trasbordando oltre i paesi e le regioni bianche; b) per il fatto che l’IS si apre anche verso sinistra, includendo talvolta elementi di punta della guerriglia, come accade nel Centro America, con l’organizzazione salvadoregna di Ungo e con il fronte nicaraguense che si ispira a Sandino. A questo punto emerge chiaramente, peraltro, l’interna, organica divaricazione, che contraddistingue — sia pure su un terreno notevolmente differenziato — le diverse componenti del neosocialismo del subcontinente. Il punto di amalgama di questa vasta gamma di adesioni recenti, non sembra consistere, infatti, né nell’ideologia, né nel programma. Talora si tratta di movimenti minoritari, talaltra di partiti organizzati che dispongono di una base popolare abbastanza larga, a livello statale (ad esempio nel Pern) o regionale (nel Brasile). Spicca anche un andamento irregolare, per cui il potere, o meglio la gestione del governo, esercitata per un certo lasso di tempo, può essere facilmente perduta. Il piu delle volte il programma, la stessa pratica del governo non si caratterizzano per obbiettivi riformatori, oppure questi vengono abbandonati non appena siano varcate le soglie del potere. Co­ munque il « riformismo », ammesso che nel caso latinoamericano si possa parlare di autentico riformismo, appare settoriale e per sua natura fragile: le grandi riforme, inclusive della riforma agraria o dell’alfabetizzazione, per esempio, sem­ brano escluse o non caratterizzanti, mentre l’eredità e la contaminazione del desarrollismo delle classi medie e, quindi, di alcuni nuclei del proletariato in­ dustriale, sembrano tenere il campo, proiettandosi sulla grande questione dei diritti civili, politici e sindacali, come sull’esigenza di una tutela del lavoro 10 che si rifletta nella legislazione sociale. Ma manca, in ogni caso, una base di massa sufficientemente omogenea e diffusa nei principali paesi del subcontinente. Attraverso i gangli e i nuclei dirigenti di partiti, gruppi, movimenti preesistenti, la IS ha preferito aggregare intorno a sé una rete che si è mossa dalla periferia al centro, e che dal vertice delle élite e dei capi promana verso settori di base già acquisiti. Il momento della fondazione e costruzione ex novo, sembra escluse? a priori. L’adattamento appare — assai piu di quanto non tocchi i partiti legati alla chiesa e all’Umdc — la regola generale. Con tutto ciò, in breve periodo di tempo, grazie a una intuizione e volontà essenzialmente pragmatiche, l’IS e le frazioni socialdemocratiche latinoamericane, distinguendosi dai precedenti auto­ ritari e dai partiti rivali, sono riuscite ad affermarsi rapidamente ai primi posti nello schieramento e nel sistema politico latinoamericano, occupando un’area in­ centrata sui ceti piccolo e medio borghesi urbani e su avanguardie operaie determinate, con qualche rara apertura verso le fasce rurali. Il banco di prova del Perù Si apre a questo punto il caso del Perù, su cui conviene indugiare per la sua particolare pregnanza. L ’Apra confluisce, come era già accaduto per Azione democratica del Venezuela, nelle file dell’IS. Ma qui l’ambiente e la base di massa del raggruppamento neosocialista, che con Alan Garda conquista il governo del paese, è coinvolta in tutta una serie di contraddizioni storico-sociali profonda­ mente connesse alla realtà peruviana. Le contraddizioni — già manifeste ed acute, esplodono e si pubblicizzano a livello mondiale, in occasione dell’ultimo congresso dell’IS che si tiene a Lima nell’estate del 1986. Dalle elezioni politiche dell’anno precedente, era in atto un confronto serrato fra la Sinistra unita (comunisti ed altre frazioni marxiste) e l’Apra. La Sinistra unita è anzi preponderante nella capitale, di cui detiene l’amministrazione. L’avvento al governo dell’Apra viene a cadere all’indomani di un processo di restaurazione (1975-1985), che cassa in gran parte i risultati della riforma agraria — la più consistente nel contesto latinoamericano di quel torno di tempo — avviata dai militari riformisti di Velasco Alvarado. Ancora una volta si confrontano due scuole: l’Apra e il Pcp, che presenta un programma agrario molto articolato e maturo. Il giovane capo dell’Apra (una intervista recente di Giovanna Maglie ce lo presenta, forse involonta­ riamente, con le virtù e i vizi di un certo caciquismo evidentemente ancora vivo fra le nuove pareti dell’IS) si imbatte inoltre nella resistenza e nella sfida di Sendero luminoso, il movimento guerrigliero che nel bene e nel male tenta di farsi interprete delle rivendicazioni degli Indios e delle loro comunità di recente espropriati dei benefici della riforma agraria e combattuti dalle forze armate fino alla più dura e indiscriminata repressione e pratica sistematica della rappresaglia. Se questi sono i dati, si può dire che l’odierno problema politico-sociale del Perù è tutto concentrato in una dialettica di tipo triangolare: l’Apra, Alan Garcia e il potere centrale da un lato, l’estrema sinistra riformatrice dall’altro, e infine Sendero luminoso. La questione nazionale, la questione india, la questione agraria si toccano, in questo senso, e formano un unico contesto. È molto meno vero, invece, che i militari occupino su basi autonome, all’altro polo, tutto un settore del potere: in questo caso l’Apra sarebbe assolta e sciolta, come il presidente, da ogni responsabilità. È vero che i marines, allevati sotto l’influenza statunitense, governano nelle province lo stato di emergenza e il flusso, il taglio delle informazioni diramate in ogni parte del mondo, quanto alla guer­ riglia e alla controguerriglia, come è vero che il governo è corresponsabile di 11 migliaia di desaparecidos. Rimangono peraltro significativi due dati di fatto: tutte le fonti degne di tal nome riconoscono l ’ampiezza dei consensi — un po’ in tutto il paese — che Sendero luminoso ha conseguito nell’elemento indio, che a sua volta costituisce la maggioranza della popolazione; quando esplode sotto gli occhi del congresso dell’IS, alla periferia di Lima, la rivolta e l’« ammutina­ mento » dei prigionieri politici di Sendero luminoso, le autorità e i militari pon­ gono in atto una strage che non ha precedenti in tutto il mondo civile. L’eco delle giornate di Lima nelle file dell’IS è quanto mai imbarazzata e imbarazzan­ te. Non è certo in discussione la tattica-strategia dell’organizzazione socialdemo­ cratica internazionale, anche se non manca in questo senso qualche spunto di dissenso alla tenuta del congresso, ma l’incidente e lo scandalo che hanno coin­ ciso con il drammatico approdo dell’IS in terra latinoamericana risultano non perciò meno sconcertanti. La scelta di Lima per il congresso dell’IS è stata sug­ gerita e richiesta probabilmente perché il Perù è ritenuto un centro peculiare dell’Indoamerica, perché qui venivano a saldarsi le tradizioni dell’Apra e di forze « democratiche » con l’immagine socialista nuova, e più larga, che si intendeva lanciare su scala continentale. L’operazione è andata in buona parte fallita. Non era stato calcolato il reale radicamento di Sendero luminoso come la reale acutezza e incidenza della questione india. Ad Alan Garda non rimaneva che porre in atto qualche misura, apparente e populista, di autoriduzione del debito con gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale. Ma l’IS in precedenza si era lasciata sfuggire, in gran parte, la carta sandinista. Non appena i contras e gli Usa avevano infierito nell’appoggio alla guerra non dichiarata al governo di Managua, la solidarietà delle socialdemocrazie europee e delle socialdemocrazie latinoamericane si era ridimensionata o dileguata. Evi­ dentemente, secondo la tradizione, le virtù mediatrici, più che quelle combattive, si addicevano all’antica regola della socialdemocrazia. Oltre il caso peruviano e quello nicaraguense si possono quindi enucleare anche i casi, diversi, della estromissione dal governo della Giamaica — un dato centrale nella vicenda recente del microcosmo caraibico — sotto lo scudiscio del capitale yankee e della marginalizzazione dell’IS nel ripristino, precario, delle libertà politiche nell’Argentina e nel Brasile. Le prospettive sono dunque nell’attuale congiuntura latinoameri­ cana tu tt’altro che lineari e prive di interrogativi, anche di fondo. Le dichiara­ zioni e i documenti, gli appelli usciti dalla recente conferenza di Lima non fu­ gano tutti i dubbi. Del resto soltanto i fatti, più che i programmi potrebbe­ ro farlo. Ed è troppo presto per giudicare in quale misura siano validi la via intrapresa, l ’innesto tentato, la tattica avviata per l’acculturazione di nuove so­ cialdemocrazie latinoamericane nell’aspro terreno del subcontinente. È chiaro però che i sistemi politici dell’America latina, nell’attuale fase di riflusso dell’au­ toritarismo militare e del nazionalismo demagogico, come nella crisi di ripen­ samento e revisione dell’estrema sinistra, pongono sul banco di prova unitaria­ mente, in termini complementari, tanto le forze di centro e di centro sinistra (i vari partiti democratici cristiani e socialdemocratici) come i partiti e i mo­ vimenti legati al pensiero marxista e alla tradizione rivoluzionaria antimperia­ lista cosi radicata nel tessuto storico dell’America latina. L’esperienza e la lezione dell’IS, nei suoi vari segmenti e reparti, vale dunque per tutti. Vale o dovrebbe valere soprattutto per i partiti che si richiamano a Marx e a Lenin, la cui cultura potrebbe oggi avvantaggiarsi decisamente delineando nuove istanze unitarie, a un tempo di massa e di avanguardia, ispirate alle analisi, al metodo e ai fini di trasformazione delle strutture di un Mariàtegui (e di un Gramsci) probabilmente il pensatore e il leader più vicino alla sociologia e alla realtà del subcontinente. 12 Vecchio e nuovo: quali prospettive? Si è accennato, più sopra, allo sviluppo dell’industrializzazione, al conseguente incremento di nuclei operai urbani, come condizione oggettiva di sviluppo di un movimento sociale e politico del proletariato. Tuttavia, le cose non sono, in Ame­ rica latina, così semplici. È diffìcile reintrodurre categorie interpretative della Terza Internazionale, degli anni venti o degli anni trenta, e nello stesso tempo è difficile prescindere da un loro preciso e peculiare bilancio. Come dimenticare che in un paese dei più sviluppati il processo della rivoluzione cubana avanza sull’onda della critica e del superamento dei « vecchi » schemi, sotto la guida « piccolo borghese » del Movimento 26 luglio, ma finisce con l’approdare alla ride­ finizione di un Pcc? Quando poi si guardi al quadro dei rapporti fra le classi e dei rapporti di produzione in un ambito più vasto, subcontinentale, con tutte le differenziazioni regionali in esso implicite, e quando si guardi, per altro verso, alla cultura della sinistra e dello stesso movimento operaio e socialista, allora prendono rilievo due elementi, che si presentano fra loro in contraddizione dialettica. Il primo è lo sviluppo non solo di un vero e proprio proletariato di fabbrica (che è feno­ meno di alcuni paesi soltanto, e in questi, di alcuni poli industriali, come era avve­ nuto nell’Europa del XIX secolo), ma di larghe masse di proletariato agricolo o di sottoproletariato delle periferie metropolitane. Molti teorici terzomondisti, negli anni trascorsi, avevano fatto di ogni erba un fascio, fino al punto di perdere il senso di una distinzione dei singoli « reparti » dei diversi ceti proletari e prole­ tarizzati e di perdere la bussola nella costruzione e coordinazione di un movimen­ to operaio contadino articolato ai fini della lotta socialista. Molto, troppo si è risolto nel mito di una sollevazione generale, della colonia o ex colonia contro la metropoli o della campagna contro il capitale, quindi un’« andata al popolo » di nuovo tipo. L’Internazionale socialdemocratica e la stessa Internazionale democratico cri­ stiana, a ben guardare, non hanno dunque soltanto usufruito di una crisi politica dei partiti dell’estrema sinistra (e della frantumazione dello schieramento comu­ nista) ma di una crisi delle concezioni teoriche e tattico-strategiche del socialismo, che aveva dato luogo alle più diverse versioni e interpretazioni marxiste o pseu­ domarxiste. Vi furono, è vero, tentativi più articolati e maturi, di ricreare una certa unità di analisi e operativa, come accadde nella riunione dei Pc del Caribe e dell’America latina a metà degli anni settanta, convocata a Cuba, ma poi anche questo disegno di rilancio regionale rimase senza seguito. L’assenza di un’Inter­ nazionale comunista ha dunque giuocato il suo ruolo. Ma può ITS colmare questi vuoti, portando a soluzione i problemi classici del movimento operaio, che qui si sono indicati nella crescita confusa ma persino impetuosa di tutto un coacervo di forze proletarie come nell’esigenza di una autonoma ripresa ideologica e teorica, senza della quale non potrà esservi coscienza di una nuova classe e quindi nemmeno un destino sicuro verso il socialismo e la riforma delle attuali strutture sociali? Quanto si è detto sul caso del Perù (un paese toccato da una crisi « rivoluzionaria » che sembra avvicinarsi nel silenzio dei più a uno strisciante epilogo reazionario) è tanto più preoccupante in quanto un partito come l’Apra appare insensibile al decisivo intreccio — su cui si misura la maturità del socialismo — fra lotta delle classi e questione «nazionale». Ma anche in altre realtà, ITS mira più che all’or­ ganizzazione di un movimento associativo di base, e quindi alle alleanze correla­ tive, a un discorso di vertice. Così nell’odierno Brasile si può trascurare l’espe­ rienza politico sindacale in corso nello stato di San Paolo e si privilegia la vicenda del Pmdb, il Partito del movimento democratico brasiliano, il suo intrico di forze dalla vocazione prevalentemente governativa, in cui alcuni gruppi e personalità, 13 come qualcuno dei governatori neoeletti, agitano il progetto non si sa quanto cre­ dibile di trasformarlo in un « grande partito socialdemocratico con forte base popolare ». Ma più che avventurarsi nel gioco delle previsioni, conviene concludere con una riflessione che si riconduca allo spirito e al bilancio della sfida lanciata dall’IS all’inizio dell’attuale decennio. Tanto più che nel quadro euroamericano si stanno delineando importanti mutamenti. La congiuntura favorevole a Reagan, come quella favorevole a Brandt ha ricevuto duri colpi negli Stati Uniti come nella Ger­ mania federale. In entrambi i paesi il fenomeno è stato anzi sanzionato dalle re­ centi elezioni. A maggior ragione il documento sull’America latina approvato dal1TS al congresso di Madrid nel novembre del 1979, circa alla metà del percorso qui preso in esame, ci sembra indicativo di una seria « lezione » politica valida per tutte le forze di sinistra. Socialisti e comunisti in primo luogo. Dal documen­ to di allora emergono infatti con chiarezza i limiti obiettivi-soggettivi dell’IS principalmente nei confronti del potere degli Usa. « Siamo preoccupati da alcuni commenti fatti dal neo presidente degli Stati Uniti (...) Speriamo che i nostri timori non vengano confermati. Attenderemo di conoscere la politica adottata dalla nuova amministrazione per formulare un giudizio (...) Negli anni ’80 il successo della dittatura o della democrazia, della giustizia sociale e del rispetto dei diritti del­ l’uomo nella regione dipenderanno in larga misura dagli Usa ». È un messaggio dal quale si evince, in primissimo luogo, la radice del ruolo di mediazione al vertice che ha condizionato ogni altra tattica e strategia. Perciò l’esperienza di questi anni dell’IS in America latina può essere vista, nei suoi vari risvolti, come una lezione del tutto attuale. Nota bibliografica Per questo scritto, prevalentemente informativo, ho consultato James F. Petras, La social­ democrazia in America latina, «Dossier di Le Monde diplomatique», n. 7, marzo 1981; Walter Marossi, L ’America latina chiede al Nord un nuovo ordine economico, « Avanti! », 30 ottobre 1984; Rapporto Brandt, Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, Milano 1980; G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Bari 1968, IV e V; Jacques Droz (a cura), Storia del socia­ lismo, IV, Dal 1945 al 1975, Roma 1981; L ’Internazionale socialista 1864-1964, a cura di Alessandro Schiavi, Firenze-Roma 1964. Inoltre ho utilizzato (ma ogni responsabilità nell’uso dei materiali è esclusivamente dell’autore) documenti e risoluzioni recenti dell’IS, che Walter Marossi ha gentilmente messo a disposizione di « Latinoamerica ». Per il Congresso di Lima e il caso del Perii ho tenuto conto, fra l ’altro, dell’Intervista ad Alan Garcia di M.G. Maglie, « L’Unità » del 27 luglio 1986; delle corrispondenze di Lucia Annunziata a « Repubblica » (Garcia sapeva della strage?, 1 luglio 1986); della testimonianza di Valdo Spini, Quei giorni a Lima e dello scritto di Igor Man, Perù nel profondo rosso di Sendero luminoso, entrambi in « Mondo operaio », agosto-settembre 1986, nonché del saggio di Cesar Jimenez, La questione agraria nel Perù e i comunisti, « Nuova rivista internazionale », gennaio 1987. E. S. 14 Alessandro Aruffo La De subcontinentale eJ'Umdc La comparsa dei partiti democristiani nel subcontinente all’indomani della II guerra mondiale 1 rintraccia fonti ideologiche e modelli culturali di derivazione europea, segnatamente francese2. Il venezuelano Herrera Campins afferma: «N oi siamo, del resto, in gran parte, il prolungamento dell’Europa oltre Atlantico » 3. La dottrina socialcristiana, sottolinea il valore dell’interclassismo, politicamente legittimato da Stati democratico-parlamentari. La crisi congiunturale delle vecchie oligarchie terriere, l ’industrializzazione tutelata dallo stato, la dipendenza dal capitale straniero favoriscono l ’ascesa di strati operai « privilegiati » e sindaca­ lizzati, non sempre progressisti, e la comparsa di ceti borghesi urbani. Ma è la classe media (professionisti, burocrati, ufficiali e sottufficiali delle FF.AA.) ad espandersi in conseguenza di un’industrializzazione squilibrata, parziale, sog1 Primo partito d’ispirazione cattolica ad apparire è VUnion civica uruguayana (inizio ’900) trasformatasi in Pdc (1962). La De cilena è fondata il 12 ott. ’35, mentre il 13 genn. ’46 si costituisce, in Venezuela, il Copei Comité de organización politica electoral independiente. Nel ’50 è la volta del Pdc brasiliano. Quattro anni dopo nascono il Pdc argentino (8 luglio) e il Partito socialcristiano boliviano. Il Pdc peruviano è del 1956. Dalla Falange sorge (1957) la De cilena di E. Frei Montalva. Vedono poi la luce il Pdc paraguayano (1960) e le De ecuadoregna e colombiana (1964). 2 L’intellettualismo politico di Maritain si muove su un crinale di democrazia « cristiana » antifascista e anticomunista, avversa al liberalismo politico. Il personalismo di Maritain fornisce agli intellettuali cattolici latinoamericani un’ipotetica quanto irreale « terza via » fra individua­ lismo liberale e umanesimo marxista. La sinistra cattolica di Mounier indugia, invece, nel ri­ pudio della società capitalistica consumistica e classista nel dominio del capitale sul lavoro. Al liberalismo antistatalistico e al collettivismo viene opposta un’economia « pluralista », autonoma, garantita dallo stato. 3 Intervista a « Le Monde », riportata in « Umdc-informazioni », 1980, nn. 2-3, p. 35. 15 getta all’egemonia imperialistica. Divisa nella sua articolazione interna e sul piano politico la media borghesia teme il collegamento rivoluzionario con le masse popolari ma, insoddisfatta del lento processo di modernizzazione lavora nel su­ scitare movimenti democratici antioligarchici e antimperialistici. Ma l’antimperialismo cozza contro il sostegno fornito dal capitale multinazionale che ribadisce la dipendenza associata del subcontinente al sistema mondiale capitalistico. L’ina­ deguatezza tecnologica, l’insufficienza del mercato latinoamericano lasciano, altresì, aperta la « questione agraria » tenendo conto degli interessi latifondistici e della penuria di capitali d ’investimento agricolo. La crescita dei ceti medi, l’influenza ecclesiastica tra i contadini e il supera­ mento parziale di posizioni coloniali consentono alla De — anche per lo stem­ perarsi dell’anticlericalismo e per la comparsa di venature laicistiche al suo in­ terno — di reclutare parte dell’elettorato « radicale » liberal-socialdemocratico urbano aprendo la strada al riformismo socialcristiano. Collegata alla modernizza­ zione industriale la piccola borghesia, ostile al settore agroesportatore, consente alla De di scalzare i vecchi raggruppamenti elettorali (Cile, Venezuela) mentre l’ascesa di quelli socialisti e l’apporto dei movimenti nazionalisti (Argentina, Brasile) consentono di evidenziarne la marginalità politica. L’eclettismo socialcristiano ha modo, così, di esprimersi nella veste del li­ beralismo « pluralistico », nel riformismo socialdemocratico a tinte comunitaristiche di sollecitazione nazionale con qualche venatura nazionalistica recente (crisi delle Malvinas). « Gli elementi contraddittori che convivono in un’unità astratta, fatta di formule, imprimono alle De una tiepidezza, un’anemia storica congenite. Una mediocrità dorata, ma proteica » 4. Simile connotazione consente alla De di dotarsi di una patina di « modernità » in stretto collegamento con apparati burocratici nazionali e internazionali, veicolo di raccordo fra liberalismo e preoccupazioni sociali (Conferenze di Montevideo del 1947 e del 1949) 5. Una connotazione latinoamericana della De è assicurata dal movimento anticolonialistico militante (Conferenza di Bandung, 1955) nella sal­ datura fra rivendicazioni nazional-indipendentiste del « Terzo mondo » ed espan­ sione rivoluzionaria delle lotte di liberazione. Nel continente latinoamericano la cesura storico-politica antimperialistica e socialista operata dalla rivoluzione cubana nelle sue valenze autonome è colta dalla piccola borghesia urbana pro­ gressista e dagli stessi gruppi giovanili democristiani. L’opzione rivoluzionaria di raccordo con le masse popolari diventa il perno di un progressismo a sfondo socialistico pronto a chiudere le porte al desarrollismo per sfociare nell’antimperialismo delle guerriglie degli anni ’60. Il dialogo col marxismo s’instaura nel rigetto della « coesistenza pacifica » vista come geopolitica nello scontro Est-Ovest. Frattanto la Chiesa rompe con l’esperienza castrista ribadendo sul piano politico lo scarto fra prospettiva di società socialista ed esperienza cristiana. La Celam, a sua volta (da Medellin a Puebla) conferma l’alternativa del « cristianesimo sociale ». La politica rifor­ mistica della De, in questa fase, si svolge sul piano strutturale: dalla riforma 4 In « Vispera », luglio 1969, n. 11. 5 Alla prima riunione di Montevideo — che vede la costituzione della Organization detnócrata cristiana de América (Odca) — viene approvata una dichiarazione programmatica che sostiene le forze del proletariato nell’acquisizione di responsabilità economico-politiche. Alla riunione successiva rappresentanti di Argentina, Cile, Brasile, Uruguay, Colombia e Peru — con 3 unici partiti d’ispirazione cristiana: Falange National (Cile) Copei (Venezuela) e Union civica (Uruguay) — sottolineano l ’aspetto popolare della De riconfermato al III Congresso Odca (Santiago, 1955) e nel IV Congresso di Sào Paulo (settembre ’57) ove, per la prima volta, sono presenti delegati delle De europee. 16 agraria (espropriazione indennizzata del latifondo, formazione della piccola pro­ prietà terriera, concentrazione dei minifondi, assistenza creditizia ai contadini) alla riforma tributaria (imposta progressiva) e creditizia (finanziamenti bancari alle piccole e medie imprese). La « modernizzazione » dello stato viene vista come delegittimazione dei particolarismi oligarchici, nell’autonomia della magistratura a difesa della famiglia, in funzione di un ordine comunitario fondato sul riconoscimento gerarchico delle funzioni economico-sociali. Ma è anche sintomatico che alcuni epigoni de, come il leader peruviano H. Cornejo Chàvez, sostengano la compatibilità morale e politica fra fede cristiana, violenza e convinzione democratica, laddove il falli­ mento dei progetti riformistici e lo sfruttamento e la miseria popolari avessero richiesto il ricorso alla rivoluzione. A partire dal IV Congresso dell’Odca acquista centralità il problema della integrazione continentale nell’ottica della restaurazione neocapitalistica; tema ul­ teriormente approfondito al V Congresso internazionale (Lima, 1959). L ’integra­ zione continentale è vista come superamento degli squilibri nazionali nell’utilizza­ zione di strumenti di pianificazione continentale sostenuta da capitali stranieri, ma preservando il diritto nazional-continentale all’utilizzo e alla commercializzazione delle materie prime. Un apporto decisivo al disegno riformatore « bolivariano » di unità continentale è riconosciuto all’alfabetizzazione e alla cooperazione tecnica, ponendo l’America latina nella condizione di espungere i regimi dittatoriali, ga­ rantendone il disarmo e l’indipendenza attraverso l’istituzione di un parlamento continentale. Il successivo congresso dell’Odca (Caracas, maggio ’64) coincide con l’espan­ sione dei partiti De in 16 paesi ed esprime solidarietà ai rappresentanti del Movimiento democrat a cristiano cubano « in esilio », nel momento di afferma­ zione di Frei in Cile. I congressisti identificano il movimento di democratiz­ zazione della società nell’avvio della riforma urbano-abitativa e in quella agraria con controllo statale sul capitale straniero. I leaders democristiani tornano sul problema dell’integrazione alla « Conferenza dei presidenti » (Bogotà, 1966) e nel­ l’Incontro panamericano di Punta del Este (marzo ’67). La chiave analitica è fornita dalla ideologia interclassista del cristianesimo sociale all’interno del sistema capitalistico, in opposizione al marxismo il cui referente politico è dato dall’esperienza cubana interpretata come forma o tenden­ za egemonica delle istanze antiborghesi. Con simili premesse l’Odca si sintonizza su cadenze europee facendo dell’anticomunismo la discriminante « democratica » continentale e mondiale a tutto detrimento dell’antimperialismo (astratto e op­ portunistico) avviato alla divaricazione Paesi dominanti-Paesi dominati. Di con­ seguenza la tematica dello « sviluppo » e del « sottosviluppo » viene proposta nei termini di « arretratezza », « miseria » come risvolto dell’inconciliabilità ideo­ logica fra nazioni sfruttate e nazioni sfruttatrici, in una lettura superficiale dei meccanismi imperialistici che consegnano la De a tesi distribuzionistiche. Lungo questo asse politico-ideologico l’incastro interamericano è fornito dalla kennedyana « Alleanza per il progresso » (1961) integrazionistica, antirivoluzionaria e anticomunista reagente su un emisfero ad elevato tasso demografico. La giun­ tura di queste posizioni è esemplata dalla vittoria di Frei in Cile (1964) soste­ nuto dalla destra tradizionale e dal partito radicale centrista sulla traccia di un populismo riformistico antieversivo in linea col fìloimperialismo del sistema capi­ talistico cileno riform ato6. 6 Una ricostruzione a larghe maglie del paesaggio politico cileno è presente in J. Korolev. Storia contemporanea del Cile 1956-1973, Roma 1974, in particolare pp. 46-75 e pp. 102-28. 17 La sinistra dello schieramento governativo, invece, propone un progetto di « società comunitaria » non capitalistica e antimperialistica. La politica di « cilenizzazione » 7 avviata da Frei si colloca nell’alveo della « americanizzazione » po­ litico-economica non conflittuale nei confronti degli Lisa. Le contraddizioni del­ l’interclassismo « cilenizzante » portano al congedo di Frei (31 ott. ’70) e alla scissione di sinistra della De con R. Tomic, mentre il III Congresso nazionale dei giovani de (1966) denuncia l’impossibilità di riformare il sistema capitalistico. In risposta ai limiti sia dell’azionariato operaio che del capitalismo « popolare » nasce il Mapu (Movimiento de acción popular unidaria) che sosterrà il socialista Salvador Allende. Il Mapu si fa sostenitore di un programma avverso al tatticismo populista della De di subordinazione al capitalismo internazionale e fautore di una cam­ pagna antimonopolistica e di distribuzione delle terre ai contadini da parte di uno stato a democrazia popolare antiborghese. Un’altra scissione di sinistra con­ segna (1971) al panorama politico cileno il M.ovimiento de izquierda cristiana che propone la trasformazione della società in senso cristiano e socialista. Intanto il Mapu definisce la propria collocazione in orbita marxista col primato politico accordato alle lotte del proletariato cileno e internazionale. Tale esposizione socialista di leaders del cattolicesimo politico non si riscontra in Venezuela, paese « condannato » dal petrolio alla dipendenza imperialistica ed esposto all’interventismo Usa (sostegno alla dittatura di Pérez Jiménez del 1952). L’ascesa di R. Betancourt (febbraio ’59), appoggiato dal Copei, segnala l’avvio della radicalizzazione dello scontro politico. Il governo sospende le ga­ ranzie costituzionali, reprime le manifestazioni studentesche mentre la lenta e diseguale riforma agraria non frena la proliferazione dei movimenti guerriglieri. Il Copei intanto denuncia (1962) la limitazione della legalità costituzionale rifu­ giandosi nell’elettoralismo. Il Copei, comunque, riesce ad evitare il golpe grazie alla propria compattezza e ai legami stretti con settori delle forze armate senza trascurare l’ennesima interferenza Usa. Avverte Rojas che il riformismo di Caldera « si limita a un insieme di riforme settoriali e moderate », rivolte a una generica « promozione popolare » e alla « inte­ grazione dei disadattati »; manca, in sostanza, una analisi classista della situa­ zione e tutta la prospettiva appare molto legata alle versioni primitive della De­ mocrazia cristiana latinoamericana8. Ovvero il vecchio socialcristianesimo è « ra­ zionalizzato » nella formula della democrazia liberal-borghese e del moderatismo clericalizzante aperto all’imperialismo (contratos de servicio firmati col cartello petrolifero internazionale) con la copertura della soluzione nazionalista proposta nella veste della neointegrazione continentale. Il Copei stesso finisce per articolarsi in tendenze che si distinguono dal « nazionalismo democratico » di Caldera, andando dal « progressista » H. Campins, forte del sostegno sindacale-giovanile alla « politica di pacificazione » proposta da L. Fernandez, mentre settori di destra vagheggiano la « democrazia forte ». Nel periodo postbellico, dal cattolicesimo argentino si diramano tre correnti fondamentali: i cattolici sociali, democratici e socialmente conservatori, e poli­ ticamente legati al costituzionalismo parlamentaristico e i cattolici politici inte­ gristi e nazionalisti. I primi due filoni antiperonisti attingono alle fonti del catto­ licesimo europeo, mentre il terzo indirizzo, antiliberale, si confonde con l’auto­ ritarismo fascista (Maurras, Primo de Rivera) confluendo nel peronismo di destra 7 Una sommaria analisi del programma di « cilenizzazione » si trova in R. Campa, Il po­ tere politico nell’America Latina, Milano 1968, pp. 270-71. 8 In « Note di cultura », marzo 1969, n. 46. 18 e distinguendosi dai socialcristiani peronisti di sinistra. È dalla sinistra ideologica di matrice studentesca che scaturirà la De 9. Nel 1959 la Convenzione De opta per una « rivoluzione comunitaria » so­ cialcristiana, democratica e pacifica nel riconoscimento della forza popolare del peronismo. Politicamente liberale la sinistra cattolica è orientata verso il socia­ lismo (confluenza col peronismo di sinistra) altri settori fungono da « riserva » politica pragmatico-tecnocratica e/o opportunistico-populista del regime in versione nazional-popolare10. La « nazionalizzazione » della Democrazia cristiana operata da H. Sueldo fallisce (1957-59) nel suo tentativo di popolarizzarsi. Soltanto con la sua collocazione nel solco del radicalismo peronista (1960-63) — in conco­ mitanza con la crisi del regime liberale — che segna contemporaneamente la fine del peronismo burocratico empaquetado 11 e « la crescita della coscienza politica popolare » 12 la De ha modo, malgrado l ’integralismo di base, di qualificarsi come forza socialcristiana. Di fronte al golpe di Onganfa (1966) la De avalla la dittatura militare avviando successivamente contatti col governo per il ripristino della legalità in una cornice di timido riformismo cancellato dalla accentuata repressione che spingerà alcuni settori su posizioni antidittatoriali. Alla De sfugge la natura delPimperialismo, nazionalmente mediato, ancorata com’è alla prospettiva della cooperazione inter­ classista e antisocialista. Nel panorama delle De subcontinentali attecchiscono due anime: Luna pragma­ tica, neocapitalistica, dipendente e antimarxista — l’altra tendenzialmente socialdemocratica e propensa ad una politica di alleanze nell’ottica di uno sviluppo non-capitalistico. Al centrismo moderato e socialmente conservatore della prima corrisponde la spinta riformistica non-marxista della seconda. Il tessuto connettivo della Democrazia cristiana — tale da renderla espressione continentale dell’unità dei partiti cattolici — è nell’indicazione di una presunta « terza via » fra capitalismo e socialismo, rifluita fatalmente in un riformismo moderato di allontanamento dalle lotte delle classi lavoratrici. La « mobilitazione » democristiana, quindi, si è risolta nella « normalizzazione » istituzionale secondo i canoni del sistema liberal-democratico. Lo slogan-mito di Frei della Revolución en libertad si è tradotto nella perimetrazione di uno spazio specifico all’interno del processo rivoluzionario negando di fatto l’inserimento in esso delle classi popolari e creando le premesse di una « rivoluzione cristiana » tecnocratica e pragmatica nella combinazione fra neocapitalismo e populismo. A metà degli anni ’60 l’America latina si trova al bivio fra consapevolezza rivoluzionaria e anticapitalistica e ammodernamento-integrazione al sistema capitalistico mondiale. Optando per la seconda via la De si àncora ad un interclassismo conservatore appena sfiorato da politiche di riforme democratico­ borghesi. L’avanzata delle lotte antimperialistiche, i limiti e le contraddizioni dei capi­ talismi nazionali, il rafforzamento del socialismo, la Conferenza episcopale di Me­ dellin (1968) hanno aperto le porte all’accesso di molti cristiani nelle file della 9 Risale al 1959 la formazione della Liga de estudiantes humanistas antiperonista e « autono­ mista » sul piano universitario. I dirigenti del movimento si misurano con una fase storica postperonista caratterizzata dallo scontro fra « riformisti » (liberali, radicali, marxisti) e « moderati » (liberali di destra) e con l’alternativa ideologica « libertà o laicismo », « comuniSmo o anticomu­ nismo ». 10 L’espressione si trova in iM. Murmis, J.C. Portantiero, Estudios sobre los ongenes del peronismo, Buenos Aires 1971. 11 AA.VV., El Peronismo, Buenos Aires 1973, p. 85. 12 Ibidem. 19 guerriglia, della clandestinità (peronismo di sinistra) incontrando, sul crinale della lotta per l’indipendenza reale, modelli e metodi «rivoluzionari». Ma sono que­ sti anche gli anni nei quali la De consegue il pqtere in Cile e in Venezuela racco­ gliendo consensi fra i contadini e i baraccati via via che l’emisfero cadeva nella rete delle dittature militari a partire dal 1964. Le tematiche patriottico-nazionalistiche saldate alle aspirazioni « autonomistiche » di settori di borghesia industriale e della classe media hanno urtato contro la massiccia presenza delle multinazionali, trovando alimento in un populismo industrializzatore gestito dai « modernisti » delle elite locali. Con gli anni ’70 la proliferazione dei regimi m ilitari1314— Cile e Uruguay (1973) Argentina (1976) — si sono imposti in stretto collegamento con strati di borghesia, mostrando quan­ to fosse riduttiva l’alternativa socialismo/fascismo proposta negli anni ’60 anche per effetto dei mutamenti intervenuti nella struttura imperialistica Usa e in quella delle classi egemoni locali. A questo periodo risale l’inizio del relativo contrasto fra Stati Uniti e classi dominanti latinoamericane sotto la spinta aggiuntiva statalistico-indipendentistica della media borghesia e dei ceti popolari. Il tutto inserito nel contesto della crisi capitalistica internazionale indotta dalla crisi petrolifera (1973). Si restringe il tradizionale spazio politico della classe dominante. La quale « si sente stretta in una morsa: la prepotenza e invadenza americana da una parte, e la crescita di movimenti progressisti antimperialisti dall’altra » H. Nel contempo si passa dall’imperialismo della « balcanizzazione » a quello dell’integrazione 15 che asseconda la restaurazione del patriziato — Frondizi (Ar­ gentina) Frei (Cile) Caldera (Venezuela) — nella veste di democrazie rappre­ sentative orientate in senso desarrollista l6. In piu le relazioni Usa-America latina, (dopo l’investitura di Carter, 1977), risentono della campagna propagandistica sui diritti umani e della rinegoziazione dell’accordo Salt II con l ’Urss. Nel primo caso il raccordo con l ’idealismo rooseveltiano serve a riaccendere la tradizione liberale spentasi con la teoria dell’equilibrio e delle sfere d ’influenza di Kissinger. L’amministrazione Carter cerca di restituire « credibilità planetaria » agli Usa attraverso la campagna sui « diritti umani » in direzione antisovietica; il che consente ai regimi militari dell’area di guadagnarsi esclusivamente l’accusa di eccessi repressivi. Intanto si lavora (caso Cile) ad una vaga soluzione di ri­ cambio del regime militare con uno civile che faccia perno sulla De e sul Partito nazionale. Progetto di « democrazia limitata » che riesce in parte in Peni con la ricostituzione del partito di massa dell’Apra, mentre la Giunta militare di Santiago blocca il progetto sciogliendo il partito democristiano. Ma l’Amministrazione Carter lavora anche all’inserimento dell’America latina nel confronto globale Est-Ovest, convinta di esercitare il controllo sul subconti­ nente e impegnandosi in trattative diplomatiche di vario tip o 17. Già a partire dal 1974 l’Unione mondiale democratico cristiana (Umdc) — diventata Interna13 Fra i tanti studi si segnalano: A. Angeli, L ‘autoritarismo militare in America Latina, in G. Pasquino e F. Zannino, Il potere militare nelle società contemporanee, Bologna 1985, pp. 87-124; D. Ribeiro, Il dilemma dell’America Latina, Milano 1976, pp. 186-93. 14 M. Carmagnani, Gli Stati Uniti in America Latina: aspetti dell'imperialismo, in AA.VV.. Il fascismo dipendente in America Latina, Bari 1976, p. 24. 15 V. Trias, Imperialismo e geopolitica in America Latina, Bari 1973, pp. 206-16. 16 D. Ribeiro, op. cit., pp. 177-86. 17 La prima trattativa coinvolge il Brasile ove la Germania occidentale s’interessa al finanziamento di un impianto per il trattamento del plutonio. Viene sconfitto il tentativo Usa di conservare il monopolio delle compagnie petrolifere sull’estrazione e la commercializzazione dell’uranio. Inoltre Washington abbozza tentativi di apertura diplomatica verso Cuba abro­ gando il divieto di recarsi nell’isola per i cittadini americani (28 marzo ’77). Altra trattativa riguarda lo statuto giuridico del Canale di Panama. 20 zionale De — denuncia le restrizioni imposte ad esponenti democristiani del­ l’Uruguay di J.M. Bordaberry e in Ecuador. Frattanto riprende quota l’iniziativa dell’Odca verso i sindacati. Al Seminario su «Sindacalismo e Politica» (10-15 gennaio ’74) si mette l’accento sui rapporti fra movimento sindacale e partiti de in linea con le coordinate ideologiche e programmatiche dei democristiani latinoamericani. In occasione dell’V III Congresso dell’Odca — tenuto a Willemstad (20 agosto1 settembre ’74) viene indicata la funzione « autonoma » tattico-strategica di ciascun partito democristiano in relazione alla situazione specifica di ciascun pae­ se 18 ribadendo la scelta riformistica in campo sociale e politico. La lotta antioligarchica si combina al proposito della borghesia « nazionale » di riappropriarsi di quote di ricchezza detenute dai monopoli internazionali. La radicalizzazione della destra (golpe in Argentina e Brasile) in versione neocapitalistica e militare indica il passaggio della direzione dello sviluppo economico dai partiti tradizionali alle forze armate. A simile svolta si accompagna la ripresa dei partiti populisti e il momentaneo appannamento della strategia marxista, seguito al declino dell’espe­ rienza guevarista. Secondo l’interpretazione dell’Odca lo « schema marxista cubano », rafforzatosi in presenza di istanze revisionistiche e anarchiche, asseconda l’indebolimento della presenza marxista nella borghesia radicale urbana. Nella fattispecie si coglie la « resistenza » de al castrismo (qualificato come dittatura) unitamente all’orienta­ mento di espungere, una volta al governo, le forze populiste e della sinistra prògressista non cooptabili in operazioni trasformistiche di antimperialismo di ma­ niera, di supporto a soluzioni compromissorie antipopolari 19. Lo scopo preminente della operazione verte sulla possibilità di strutturare una De continentale capace di « internazionalizzarsi » e di cogliere la portata innovatrice di iniziative gover­ native come quelle promosse dal governo militare peruviano di V. Alvarado al quale aderisce. Nella fattispecie la De palesa una relativa elasticità tattica, « localistica » ad allearsi coi settori progressisti e democratici. Il substrato continentale che assiste l’operazione è dato dalla crisi della de­ mocrazia liberal-capitalistica, dal moltiplicarsi di regimi autoritari, dal fallimento delle politiche economiche conservatrici, dalla comparsa di nuove forme di su­ balternità all’imperialismo, assieme all’esacerbarsi dello pseudonazionalismo, all’emergere del « fascismo criollo », all’immaturità dei movimenti anticapitalistici. Nei documenti dell’V III Congresso dell’Odca si assimila il capitalismo al co­ muniSmo come detentori esclusivi dei mezzi di produzione e di distribuzione, contrapponendo ad essi una formula istituzionale parlamentare garante della « so­ cializzazione comunitaria senza gestione statale » 20 unica via per battere terrorismo e guerriglia da un lato e neofascismo e militarismo dall’altro. Nel caso dell’Argentina, al I Consiglio dell’Odca (Caracas, 15-16 dicembre ’74) il Ppc sostiene l’orientamento filoautoritario del regime m ilitare21. Il tema dei 18 In sintonia con le risoluzioni viene ammesso all’Odca il Partito popolare cristiano scis sionista della De argentina. Il Poe e il Partito rivoluzionario cristiano (Prc) sono ammessi in quanto ritenuti successori della De. 19 Intervenendo nel dibattito il guatemalteco R. de Leon sostiene: « Per la scelta delle forze politiche che possono essere nostre interlocutrici dobbiamo rimetterci alla realtà nazio­ nale di ogni paese, ma sul piano teorico, si possono accettare tanto i partiti e gruppi — legali o clandestini — che condividono la nostra volontà di liberazione dell’uomo, che quei settori delle forze armate che s’impegnano a realizzare un programma (...) che comporti la possibilità di strutturare una società piu giusta e piu libera » (In « Umdc-informazioni », 1974, n. 8-9, p. 20). 20 In « Umdc-informazioni », 1974, n. 10, p. 18. 21 Si nota ora una presa di distanza dal richiamo del « bordaberrismo » assunto come 21 diritti umani e l’antiautoritarismo fanno da raccordo con l’Umdc il cui Comitato politico (15-17 maggio ’75) ospita la presenza di 43 partiti, movimenti e orga­ nismi democratico-cristiani, pronunciandosi contro la corsa agli armamenti, le dittature militari, e la struttura dell’ordine economico internazionale. Il 1975 è l’anno del documento politico del II Consiglio dell’Odca (26-27 maggio) e della Conferenza dell’Umdc (28-29 novembre). Il primo ribadisce la « via cristiana » di uscita dal « sottosviluppo » nel rigetto del sistema capitalistico e di quello socialista. La prospettiva internazionale di raccordo si coglie nelle conclusioni della Conferenza che, nella lotta al totalitarismo, non rinnega — se­ condo M. Rumor — il ricorso all’insurrezione, ma nel caso estremo di una perpe­ tuazione dell’ingiustizia. Il rafforzamento dei legami America latina-Eufopa passa, stando alle risoluzioni dell’Umdc*22 attraverso il modello della Convenzione di Lomé. In linea, di principio viene ribadita l’opposizione alla « via rivoluzionaria ». .Nella Congiuntura storica l’avversario immediato è visto nella destra neo­ fascista, ferma restando l’opposizione ai Pc accusati di non riconoscere la funzione politica antidittatoriale del lumpenproletariat (contadini e baraccati). Alla diversi­ ficazione dei regimi militari corrisponde l’avvento di formazioni politiche socialde­ mocratiche (Venezuela, Colombia) che rimodellano la mappa politica subconti­ nentale a seguito dell’affermazione recente di ceti urbani indotta dalla ristruttu­ razione capitalistica seguita alla crisi dei populismi. Alla successiva riunione del Cp dell’Umdc (30-31 gennaio ’78) si abbozzano le coordinate di un modello di sviluppo capitalistico « riformato » in cui coabitano esperienze nazionalpopulistiche e risvolti neocapitalistici, in connessione con la crisi dei regimi parlamentari-costituzionali, addebitata a carenze strutturali con­ tinentali e internazionali, tra le quali si segnalano l’inadeguatezza istituzionale de­ mocratica tradizionale, la presenza dell’estremismo di sinistra, la permanente dipendenza economica, mentre compaiono « nuovi » settori operai e un sindaca­ lismo antiautoritario differenziato. La specificità latinoamericana dell’emarginazione è colta dalle De nel tradizionale frazionamento delle comunità indie e nel mo­ vimento contadino cui si accompagnano la « revisione » postconciliare della Chiesa e la depoliticizzazione di frazioni dell’esercito. La somma di crisi economica mondiale, ostilità dello schieramento democratico­ progressista a Reagan, la politica liberista imposta dal Fmi si incrocia (1981-82) con l’indebolimento dei regimi militari. Pure la Fetral-Dc ancora una volta (Cara­ cas, 17 luglio ’81) si pronuncia contro la « cubanizzazione e la pinochetizzazione dell’America latina » 23 secondo uno schema di tipo « centrista » che si ripropone alla riunione del Consiglio dell’Odca (Quito, 13-14 giugno 1982) in versione parlamentaristica nella revisione (non precisata adeguatamente) del sistema interna­ zionale. L’obiettivo primo è l’isolamento del radicalismo nazional-rivoluzionario (Ni­ caragua) e dei Partiti comunisti (Cile). Nei confronti della guerra anglo-argentina per le Malvinas, l ’Odca sostiene il nazionalismo dei de locali il cui anticolo­ nialismo opportunistico si lega alla preoccupazione di non alienarsi appoggi popo­ lari, in vista del processo di democratizzazione dei vari paesi latino-americani. L’esorcizzazione delle spinte rivoluzionarie (assimilate alla pratica terroristica) modello interpretativo univoco delle esperienze politiche militari del Cono sud fatte dall'Odca. Il bordaberrismo si caratterizza per la militarizzazione del potere col paravento di un governo formalmente democratico sorto da elezioni “regolari”. 22 Del Comitato esecutivo Umdc fa parte il segr. dell’Odca Herrera Campins. Rappresen­ tano il subcontinente: Ppc e Prs (Argentina) Pdc (Bolivia) Pdc di Cile ed Ecuador, Paraguay e Perù, Partido social demócrata cristiano (Colombia), Popular Progressive Party (Surinam) Pdc (Uruguay) Copei (Venezuela). 22 necessita, di conseguenza, di una politica riformistica di coinvolgimento delle Internazionali socialista e liberale, come emerso dalla Conferenza internazionale su « Terrorismo, violenza politica e difesa della democrazia » (18-19 febbraio ’82). L’autonomia tattica delle De latinoamericane24 — che spesso assumono i ca­ ratteri di un « cartello » anticomunista — è assistita, sul piano ideologico dal movimento umanista cristiano, come emerge dall’intervento di A. Zaldivar al Cp dell’Umdc (Quito, 26-27 novembre ’82): «N on siamo un’organizzazione inter­ nazionale che detta norme ai partiti che la compongono » 25. I processi di « normalizzazione istituzionale » fanno da supporto all’integra­ zione regionale, in nome di una presunta « terza via » che secondo il salvadoregno N. Duarte « allenti la morsa nella quale vivono i nostri Paesi stretti tra la potenza degli Stati Uniti e il richiamo ideologico di Cuba » 26. Il velleitario e demagogico richiamo alla presenza U sa27 si accorda con l’« Appello comune sul­ l’America latina » lanciato (9-10 aprile ’84) da Zaldivar presidente dellTdc, Malagodi dell’Internazionale liberale e Brandt (dell’Internazionale socialdemocratica) nel riconoscimenento della centralità Usa in America latina che urta contro il richiamo alla condanna del coinvolgimento di potenze straniere nell’emisfero, investito da una serie di conflitti socio-economici non riconducibili al confronto Est-Ovest e scosso dalla guerra delle Malvinas in una fase di minaccia all’indipen­ denza e all’autodeterminazione dei popoli. Intanto la geografia delle dittature sta cambiando. Se negli anni ’70 esse avevano costituito la « regola », il ritorno a governi civili sembra rafforzare il processo di democratizzazione istituzionale (Perù, Ecuador) minacciata, invece, in Bolivia dalla frammentazione delle forze democratiche e progressiste. Alla riunione dell’Ufficio politico dellTdc (Madrid, 5 giugno ’85) l’attenzione si incentra sull’avversione al comuniSmo favorito dalla repressione in atto. La fuori­ uscita da questo circolo è individuata in accordi per il varo di schieramenti politici (Acuerdo national del Paraguay e Alianza democràtica in Cile) in funzione mo­ derato-riformista di « controllo » della « stabilità sociale » sostenuto dai governi e dai gruppi economici dei paesi capitalistici industrializzati. Sul problema dell’indebitamento dell’America latina28 il Bureau dellTdc fa proprio lo schema dicotomico « sviluppo » « sottosviluppo » il cui superamento — auspicato con criteri morali cristiani — si configuri come concorso solidale nazionale e internazionale, politico e finanziario. La questione del debito estero deve tener conto di alcuni criteri politici: a) evitare l’adozione di soluzioni uni­ laterali (moratoria o conversione dei debiti) da parte dei paesi debitori; b) non 23 In « Umdc-informazioni », 18 sett. ’81, n. 8, p. 6. La Fetral è la Federazione lavoratori dell’America latina, struttura vicina all’Internazionale De. 24 N ell’ ’81 i partiti del subcontinente membri dell’Umdc sono: Federation demócrata cri­ stiana, Pdc di Bolivia, Cile, Colombia, Perù, Paraguay, Uruguay, Copei (Venezuela). Union Demócrata Cristiana dell’Ecuador, di ispirazione cristiana, al pari del Par lido demócrata co­ munitario (Messico) non è membro dell’Umdc. 25 In «Umdc-informazioni», 11 die., 82, n. 35, p. 5. 26 In «Umdc-informazioni», 22 luglio 83, n. 2, p. 3. 27 I de latinoamericani presenti a Washington costituiscono un « gruppo di lavoro » il cui coordinatore è l’esule anticastrista e controrivoluzionario A. Hernandez. 23 II Bureau propone — estendendo l’analisi ai paesi «sottosviluppati» — 1) riprogram­ mazione dei pagamenti di ammortamento e rifinanziamento dei pagamenti di interessi secondo un piano rispettoso del limite minimo della transazione commerciale; 2) i termini di tale piano non devono essere inferiori ai 15 anni, con 6 anni di garanzia; 3) rifinanziamento dei credi­ tori pari all’80% dei pagamenti di interessi nell’arco di un periodo non inferiore ai 5 anni in conformità alle clausole del Fmi; 4) eliminazione degli interessi di mora; 5) evitare l ’accollamento agli Stati del debito esterno privato; 6) riduzione degli interessi ai « tassi storici »; 7) flussi creditizi a lungo termine. 23 disarticolare il sistema economico e finanziario internazionale; c) non interrompere lo « sviluppo » dei paesi debitori; d) adeguamento degli interessi del debito alle capacità di pagamento di ciascun paese. Viene, in tal modo, ribadita la tradizionale subordinazione del subcontinente. « Pensare che la borghesia nazionale possa rompere politicamente con l’imperia­ lismo (cosa che implicherebbe una rottura a livello economico) equivale a dire che la borghesia sarebbe disposta a rinunciare all’unica garanzia e possibilità di aiuto per mantenersi al potere » 29 in una fase di accresciuta espansione del pro­ cesso di internazionalizzazione del mercato, avviato con gli anni ’70 30. I richiami alla matrice religiosa — che cozza con l ’inserimento di gruppi e di settori cattolici civili e del clero nelle lotte di liberazione e quindi con l’affer­ mazione politica del cattolicesimo progressista — lo svuotamento di prospettiva ideale, il compromesso con le realtà autoritarie evidenziano gli aspetti di conser­ vazione della De latinoamericana ponendo seri problemi di rapporto con le masse, specie in quei paesi (Brasile) ove settori dell’episcopato hanno rescisso i legami con le oligarchie e la reazione. Il riciclaggio conservatore dei partiti de rischia, però, di esporli alla « concorrenza aggressiva dei partiti tradizionali, che vante­ rebbero tra l’altro un diritto di prim ogenitura»31. 29 C. Romeo, Classi sociali in America Latina, Milano 1969, p. 81. 30 Come traccia interpretativa si rinvia a F.H. Cardoso, E. Faletto, Dipendenza e sviluppo in America Latina, Milano 1971, pp. 139-70. 31 A. Melis, La crisi delle dittature in America centrale, in AA.VV., Democrazia in Ame­ rica Latina negli anni ’80, Milano 1982, p. 113. 24 Marco Aurélio Nogueira * La sinistra e la transizione democratica in Brasile Circa due anni dopo la nascita della « Nuova Repubblica », che ha rap­ presentato la fine del lungo ciclo militare-autoritario iniziato nel 1964, il Brasile si trova a vivere un momento delicato del suo cammino verso la democrazia. A marzo del 1987, con l’insediamento del Congresso Costituente e dei gover­ natori degli Stati eletti nel novembre del 1986, il paese entrerà pienamente nel processo di ridefinizione del suo assetto istituzionale e delle sue leggi, nel­ l’ambito di una situazione politica caratterizzata da una maggiore trasparenza dei diversi interessi sociali, dei progetti d ’egemonia e dei soggetti preposti a rappresentarli. La battaglia per l’elaborazione di una Costituzione che sia in grado di rispecchiare il paese realmente esistente e di disciplinare la ricerca di soluzione dei gravi problemi sociali sarà, a quel punto, all’ordine del giorno, inevitabilmente connessa alle scaramucce legate alla successione presidenziale che si avvicina e ai ripiegamenti e ritocchi della riforma economico-finanziaria del febbraio 1986. L’aspettativa è che nel 1987 il Brasile viva un acuto periodo di lotte politiche, di battaglie nel campo della democrazia e di intensa agitazione sociale. Cosa ci si deve attendere dalle sinistre brasiliane? Si dimostreranno qua­ lificate a giocare un ruolo positivo nella prossima fase, facendo valere le proprie capacità ed energie? 'Quali sono i limiti e le difficoltà che ne bloccano il cammino e che ostacolano la loro performance? Gli interrogativi sono molti e devono essere discussi. Non basta dire che oggi in Brasile le sinistre si trovano in cattive acque. È necessario scavare piu a fondo, individuarne le ragioni. È necessario, in primo luogo, analizzare il quadro storico piu ampio, considerare le sinistre al­ l’interno della storia del capitalismo in Brasile, cercare nel modo in cui si è * Professore di Scienze Politiche delYUniversidade Estadual Paulista (Unesp). 25 verificata l’espansione capitalista brasiliana la spiegazione dei problemi e dei dilemmi che ostacolano le lotte sociali fra noi. Parallelamente, dobbiamo riflet­ tere sui rapporti che le forze del socialismo hanno con la transizione alla de­ mocratizzazione nel nostro paese, seguire la loro traiettoria durante l’ascesa e la crisi del regime autoritario dal quale stiamo uscendo. 1. Modernizzazione conservatrice, conciliazione, trasformismo Una consistente parte degli studiosi riconosce oggi, nelle scienze sociali bra­ siliane, che la storia della formazione della società capitalista in Brasile è segnata dalla reiterata affermazione di una tendenza dominante, e cioè il fatto di essersi realizzata senza rotture « rivoluzionarie », senza democrazia e sotto la tutela statale. Il Brasile divenne industriale e moderno senza eliminare i rapporti sociali e le strutture produttive ereditate dall’epoca coloniale; le preservò, le incorporò alla logica del capitalismo e seppe trarne profitto come fattore d ’accumulazione e di sviluppo. Sul piano immediatamente politico, questo processo si espresse (e trovò li la sua ragion d ’essere) sotto forma di ficorrente conciliazione fra le élites dominanti che, agendo attraverso manovre « dall’alto » e facendo ricorso in maniera intensiva alla violenza e all’intervento statale bloccarono la parteci­ pazione popolare e impedirono qualsiasi tentativo di rottura o di trasformazione « dal basso verso l’alto » del sistema politico. La transizione brasiliana al capitalismo si realizzò cosi al di fuori di qualsiasi velleità giacobina o liberal-democratica. Non conobbe l’emergere di una borghesia rivoluzionaria in grado di presentarsi come rappresentante degli « interessi ge­ nerali » e non fu neppure il risultato di movimenti popolari radicali e incon­ trollabili. Ebbe come figura centrale lo Stato, come parola d ’ordine la mode­ razione. Si caratterizzò fondamentalmente come una « rivoluzione passiva », « re­ stauratrice », attivata soprattutto « dall’alto », per usare concetti che Gramsci applicò all’analisi del caso italiano e che sono stati utilizzati con risultati eccel­ lenti dalla moderna riflessione critica sul Brasile, principalmente da Carlos Nelson Coutinho h Per usare un altro linguaggio, il Brasile fu modernizzato in termini conservatori, grazie ai compromessi e alla conciliazione fra i potenti. Conobbe cioè un processo di trasformazioni capitaliste i cui momenti di crisi e di ten­ sione si risolsero, in linea di massima, in modo doppiamente conservatore: 1) perché esclusero l’alterazione « rivoluzionaria » delle situazioni ereditate dal passato, che sopravvivono e si prolungano nei nuovi ordinamenti sociali che si costituiscono; 2) perché si realizzarono attraverso il blocco della democrazia, l’annullamento della partecipazione popolare e il rafforzamento dello Stato a danno della società civile (l’esacerbazione dell’istanza dominio e coercizione a danno dell’istanza direzione e egemonia, sempre per continuare ad usare la ter­ minologia gramsciana). Questa fu la regola persino nei momenti potenzialmente piu « rivoluzionari » della storia nazionale, come per esempio l’Indipendenza nel 1822, la proclamazione della Repubblica nel 1889 e la Rivoluzione del 1930. Tutte esse furono tipiche « rivoluzioni-restaurazioni », reazioni di carattere eli­ tario a quel « sovversivismo sporadico, elementare e disorganico delle masse po­ polari » di cui parlava Gramsci — reazioni che terminarono per « restaurare » l’equilibrio precedente (evitando cosi mutamenti radicali) senza tuttavia evitare di « accogliere almeno in parte le esigenze dal basso » 12. 1 A questo proposito, cfr. l’articolo di Coutinho, Le categorìe di Gramsci e la realtà brasiliana, in « Critica Marxista », 5, 1985, pp. 35-55. 2 Le citazioni di Gramsci sono dei Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1975, pp. 1324-1325 e 1767. Su diversi momenti della storia brasiliana 26 Un processo di trasformazione capitalista cosi strutturato non può non avere un forte impatto sull’ordinamento sociale come un tutto. In Brasile, tale impatto fu in primo luogo di natura sociologica. Il prodotto della modernizza­ zione conservatrice fu una società diseguale, basata sull’esclusione della maggio­ ranza dai benefici dello sviluppo economico e dell’industrializzazione, e costretta a spendere energie umane incalcolabili per garantire il proseguimento dell’accumu­ lazione (in altre parole, a pagare un alto costo sociale per realizzare i propri programmi di crescita). La società cosi costituita non potè, oltre tutto, orga­ nizzarsi in maniera « equilibrata » anche in un altro senso, vale a dire, nel presentare una struttura di classe dal profilo ben delineato; al contrario: i suc­ cessivi accordi e conciliazioni realizzati attraverso lo Stato decapitarono le classi sociali, bloccando la loro piena costituzione e la piena esplicitazione dei loro interessi e della loro autocoscienza. E lo fecero mettendo in movimento una intricata rete di meccanismi di cooptazione delle espressioni piu rappresentative dei gruppi e delle classi sociali, specialmente delle dirigenze politiche e degli intellettuali. Lo Stato finì, cosi, per privare le classi dei creatori della loro autocoscienza e per ostacolarne l’organizzazione, mantenendole isolate nella loro disgregazione. Questo fatto pregiudicò gravemente la piena costituzione delle classi subalterne in Brasile e non fu utile neppure alle classi dominanti: finì per bloccare l’emergere di una borghesia industriale in grado di disputare l’ege­ monia alla classe agraria predominante e di abbozzare un sistema politico da essa ispirato e sotto il suo dominio, condannata a cercare rifugio nel protezio­ nismo statale e a rinunciare a qualsiasi funzione dirigente. Conseguentemente, gli stessi conflitti sociali non poterono esplicitarsi nella loro pienezza e videro attenuato il loro impatto sui processi di cambiamento sociale. Riuscirono indubbiamente a contribuire alla contestazione dei vari sistemi instaurati, ma non evoluirono al punto di plasmare i successivi ordinamenti po­ litici o di creare alternative concrete nelle diverse crisi di potere. Il mutamento fini, in fondo, per essere sempre gestito dallo Stato e non una pressione orga­ nizzata e irresistibile della società: lo Stato « si sostituisce ai gruppi sociali nella direzione delle lotte di rinnovamento » (Gramsci), promuove la conciliazione fra gli interessi dominanti e riesce persino a dirigere (e organizzare) le classi eco­ nomicamente dominanti, che si allontanano cosi dalle funzioni direttive e giungono al punto di disinteressarsi dei propri strumenti « classici » di esercizio del potere (Parlamento, stampa, lobbies, ecc.). Lo Stato si tramuta cosi in istanza ipertrofica, scollata dalla società e suffi­ cientemente forte da controllare le molteplici manifestazioni sociali. Egemonizza il sistema politico e proroga la scarsa « organicità » della società civile, dive­ nendo capace di creare non solo i meccanismi che neutralizzano le tensioni so­ ciali ma addirittura di anticipare le stesse. È ciò che è avvenuto, per esempio, nel caso della legislazione del lavoro brasiliana, promulgata durante gli anni ’30 assai piu come risultato di decisioni statali (Getulio Vargas) che come frutto di rivendicazioni organizzate dei lavoratori3. Questa centralità dello Stato ebbe alcune conseguenze significative. Da una parte, ostacolò la nascita di una tradizione democratica incisiva e inibì la for­ mazione di organizzazioni politiche e sindacali autonome, rappresentative e vi­ gorose. Dall’altra, distillò una cultura politica condizionata dal golpismo e dalqui citati, cfr. M.A. Nogueira, As desventuras do liberalismo. Joaquim Nabuco, a monarquia e a republica, Rio de Janeiro, Paz e Terra 1984; C.N. Coutinho, A democracia corno valor univer­ sal, Rio de Janeiro, Salamandra 1984, L.W. Vianna, Liberalismo e sindicato no Brasil, Rio de Janeiro, Paz e Terra 1976. 3 Cfr. l’analisi della problematica in L.W. Vianna, op. cit. 21 l’autoritarismo e finì per imporre il trasformismo come regola nella politica; consentì, cioè, che i successivi blocchi di potere fossero sempre in grado di assimilare sia i segmenti rivali delle classi dominanti sia settori delle classi subalterne. Dall’Impero (dove la prassi fu dominante) ai nostri giorni, risultò sempre assai ridotta la capacità dei politici di opposizione — e anche di interi gruppi o classi sociali — di resistere alla seduzione dello Stato e all’incorporamento nei blocchi di potere già costituiti o in procinto di esserlo. Benché il tipo « molecolare » di trasformismo — ossia per parlare come Gramsci, quello caratterizzato dall’incorporazione individuale di oppositori agli schemi di potere — sia stato costante, nella storia brasiliana non risultò assente un secondo tipo, basato sull’assimilazione di gruppi sociali per intero. Fu questo il caso, per ricorrere ad un esempio di ampie dimensioni, del «populism o» varguista 4. Le conseguenze politiche della « rivoluzione passiva » colpiranno tutti in eguale misura. Neppure la sinistra, parte integrante del processo, riuscirà ad evitarle, costretta com’era ad agire con gli elementi offerti dalla stessa società che voleva trasformare. Oltretutto, la sinistra fu sempre vittima del rivoluzionarismo terzinternazionalista, che ostacolò l’analisi realista e rigorosa della situa­ zione nazionale, oltre ad imporre « modelli » di rivoluzione, tattiche e strategie. Finì così per costruire una tradizione gonfia di comportamenti golpisti, autoritari e dogmatici. È ovvio che tale constatazione non può essere utilizzata per celare la presenza globalmente positiva che la sinistra ha nella storia brasiliana, sia come orga­ nizzatrice della resistenza alle diverse dittature repubblicane, sia come pungolatrice dell’organizzazione operaia e delle lotte per decisive conquiste sindacali, politiche ed economico-sociali dei lavoratori, sia infine come punto di riferimento per le tradizioni umaniste e libertarie in Brasile. Serve tuttavia a segnalare le principali deformazioni che hanno accompagnato e in buona misura condizionato (e condizionano ancora oggi) queU’ineliminabile presenza: l’estremismo di stampo giacobino, lo statalismo, la tendenza a sostituirsi alla partecipazione permanente delle masse, il rapporto strumentale con la democrazia politica. Questo ba­ gaglio « negativo » peserà come un fardello sulla condotta della sinistra, spe­ cialmente dopo il 1964. Farà la sua comparsa nella scelta « guerrigliera » della lotta armata, nella cristallizzazione di una rigida e burocratica struttura orga­ nizzativa in seno al Partito Comunista Brasiliano (Pcb), nel « basismo » e nell’antiparlamentarismo di molti militanti del Partido dos Trabalbadores (Pt), nel protagonismo « caudillesco » di diversi leaders politici (Prestes, Brizola) dopo l’amnistia del 1979. Tutto ciò, a sua volta, renderà oltremodo difficile il sorgere di un’organizzazione socialista forte, moderna, in grado di attrarre e agglutinare le varie correnti di sinistra esistenti nel paese, facendo sì che l’apertura demo­ cratica si realizzi sotto l’egemonia liberale. Ma anche qui non dobbiamo perdere di vista la tendenza generale: i partiti politici brasiliani sono stati (e sono) — tutti, senza eccezione — sempre molto fragili, mal radicati e privi quasi di personalità programmatica o progettuale, giacché dipendenti dallo Stato e dalle oligarchie regionali, non in grado di trarre nutrimento dalla società civile e di rappresentare classi ben radicate nazionalmente. Allo stesso modo deve essere considerata la ridotta capacità organizzativa dei sindacati e dei settori popolari nella storia brasiliana. È importante anche considerare che la « rivoluzione passiva » in Brasile non ha implicato, come sarebbe possibile dedurre dalle precedenti osservazioni, un 4 Cfr. le opportune osservazioni di C.N. Coutinho, Le categorìe di Gramsci..., cit., soprat­ tutto per quanto riguarda i rapporti fra trasformismo e « populismo ». 28 monolitismo asfissiante o una totale chiusura politica. Al contrario: essa ha sempre convissuto con la presenza di idee e pratiche liberali, con prolungati pe­ riodi di vita democratica e di partecipazione politica non eccessivamente ristretta (come fra il 1945 e il 1964) e, soprattutto, con la realizzazione di elezioni e il funzionamento di alcuni meccanismi di rappresentanza anche in momenti di grande chiusura (come fra il 1968 e il 1974). Siamo qui di fronte ad una delle prin­ cipali « sottigliezze » del caso brasiliano: la persistenza di un autoritarismo ca­ muffato e spesso attenuato da un liberalismo sempre reiterato, dal paternalismo statale, da meccanismi di « favore » e dalla competizione elettorale. Non devono sorprendere, pertanto, la grande importanza acquisita dai processi e dalle pratiche elettorali nella vita politica brasiliana, il fascino da essi esercitati sull’immaginario popolare e il peso significativo che hanno avuto come fattore di contestazione. In una società « chiusa » e con scarse tradizioni democratiche come la nostra, le elezioni si trasformano in uno dei pochissimi spazi di educazione politica e nel nocciolo delle dispute politiche piu significative. Se consideriamo, inoltre, il forte processo di urbanizzazione-industrializzazione scatenatosi a partire dagli anni ’50 — che ha diversificato la società civile, creato nuovi gruppi sociali, rivoluzionato aspettative e comportamenti — , diventa possibile capire perché la pressione democratizzante è stata una costante nella vita brasiliana degli ultimi decenni, sino al punto di aumentare oltre misura proprio dopo l’istallazione del regime dittatoriale nel 1964 e di essersi tramutata in uno dei fattori del suo superamento. 2. Il colpo militare del ’64 e le sue conseguenze Gli avvenimenti del 1964 hanno rappresentato un punto di inversione nella storia brasiliana. A quella data non si è registrato solo un golpe in Brasile, ma una alterazione nelle forme dello Stato e nella qualità del processo socio-politico. Proprio per questo non ci siamo trovati di fronte ad una dittatura militare in senso stretto: benché dipendesse sempre decisamente dai militari, il regime dittatoriale è stato molto piu complesso e « sofisticato ». Entrando in simbiosi, simultaneamente, con i gruppi dominanti piu arretrati e con il grande capitale monopolistico, esso ha promosso una modernizzazione accelerata (ma conserva­ trice): grazie ad un inedito intervento dello Stato, l’industria si è sviluppata enormemente e la vecchia struttura latifondista è stata finalmente contagiata dalla razionalità capitalista, pur non modernizzandosi pienamente su scala nazionale. Allo scopo di realizzare una rapida accumulazione, il nuovo regime ha messo in pratica una politica economica diretta alla produzione di beni di consumo durevoli, ha favorito le grandi imprese nazionali e straniere (benché con un certo controllo statale sul capitale privato), ha ridotto i salari e stimolato un vero « gonfiamento » del sistema finanziario: ha modernizzato il paese ma de­ formandolo in vari settori, riempiendo d ’artificiosità la struttura produttiva e esigendo un elevato costo sociale 5. 5 Alcune cifre sono interessanti per mostrare gli effetti della modernizzazione capitalistica conservatrice stimolata dal regime autoritario imposto nel ’64. Nel 1960 il settore agrario era responsabile di circa il 22% del Prodotto Interno e il settore industriale del 25%, mentre nel 1980 le percentuali diventano rispettivamente il 13% e il 34%. Fra il 1960 e il 1980 la popola­ zione urbana è passata dal 44% al 67%, mentre la rurale è diminuita dal 55% al 32%. Signifi­ cativa anche la concentrazione urbana: se nel 1950 solo il 20% della popolazione viveva in città con piu di 20 mila abitanti, nel 1980 tale percentuale diventa il 51%. Quanto agli indicatori sociali, ne basterà uno: nel 1960 il 50% piu povero disponeva del 17% del reddito nazionale, mentre nel 1980 questa partecipazione è scesa a 12%; quanto al 10% più ricco, esso ha visto aumentare la propria partecipazione dal 39% al 50% durante lo stesso periodo. Dati citati da 29 Nella sua prima fase (fino all’inizio degli anni Settanta), il regime dittatoriale riuscì ad ottenere un certo grado di consenso fra gli imprenditori e i ceti medi, visto che rispondeva ad alcune delle loro domande e delle loro rivendicazioni. In linea di massima, tuttavia, ebbe contro di sé il complesso della nazione e preferì agire smobilitando la società piuttosto che tentare di mobilitarla a proprio favore e non pensò neppure ad organizzare un movimento di massa o una sim­ bologia qualunque. Sopravvisse perché seppe avvantaggiarsi dei guasti che esso stesso aveva provocato nella società e delle « culture tradizionali » brasiliane. Così, organizzandosi come regime tecnocratico-militare, cercò di svalutare la politica in nome dell’« efficienza amministrativa », sterilizzò l’azione sindacale e la vita partitica, snaturò il carattere della Costituzione. Però, come a rivelazione del suo limite, non fu in grado di eliminare la presenza del parlamento, la rea­ lizzazione di elezioni periodiche e l’esistenza legale di un fronte d ’opposizione, pur tenendo tutte queste istanze sotto controllo e cercando di « svuotarle ». Il principale effetto del golpe del ’64 e del regime militare sulle sinistre brasiliane fu evidentemente quello di disarticolarle. Ma la maggiore conseguenza fu l’alterazione della posizione relativa delle organizzazioni che si proponevano di alimentare la lotta per il socialismo. In termini più semplici, il periodo auto­ ritario segnò la messa in discussione (e il successivo annullamento) dell’egemonia del Partito Comunista Brasiliano sull’insieme della sinistra. In primo luogo a causa della frammentazione dello stesso movimento comunista: durante il pro­ cesso di valutazione critica dei fatti del ’64, il Pcb conobbe, fra il 1967 e il 1972, diverse dissidenze favorevoli alla lotta armata. Perse clamorosamente consensi. Ma, malgrado ciò, grazie alla sua lunga storia (il partito fu fondato nel 1922), al suo inserimento sociale e alla sua intelligente elaborazione politica, i comu­ nisti riuscirono a creare le condizioni per resistere alle conseguenze della lotta armata e a sviluppare un’efficace azione politica durante il periodo nero della dittatura (fra il 1968 e il 1974). Comprendendo chiaramente che il golpe militare aveva rappresentato un salto di qualità nella vita politica brasiliana e aveva instaurato una dittatura con significative basi di sostegno' (in un quadro deter­ minato dal consolidamento del capitalismo monopolistico e di una società indu­ striale di massa), il Pcb difenderà con coerenza la necessità di mettere in pratica una azione d ’opposizione permanente, ampia e unitaria. Lavorerà per costruire un fronte d ’opposizione capace di bloccare la riproduzione del regime e di fare avanzare la democrazia. Pur debilitato dalle dissidenze « guerrigliere » e dalla persecuzione terrorista dello Stato, il partito si trasformerà in uno dei più im­ portanti poli di aggregazione democratica nel paese, tornerà ad essere il maggior referente delle sinistre e riuscirà persino ad offrire, al momento esatto, una « via d ’uscita » partitica agli antichi militanti dell’opposizione armata. Tuttavia, il partito non si mostrò in grado di mantenere e amministrare tutta la sua in­ fluenza, né d ’altra parte il regime gli permise di sfruttare pienamente i risultati positivi della sua politica. Fra il 1974 e il 1975 — quando maggiori erano i suoi successi e quando si preannunciava la crisi del regime — una violenta repres­ sione eliminerà praticamente il Pcb dalla vita politica nazionale. I principali organi del partito verranno annientati, diversi dirigenti assassinati, centinaia di militanti arrestati e processati, costringendo il Comitato Centrale, per la prima volta nella storia del partito, ad abbandonare il paese *6. W G. dos Santos, « A pós-revolucào brasileira », in AA.VV. Brasil, sociedade democràtica, Rio de Janeiro, José Olympio 1985, pp. 223-336. A questo proposito, cfr. anche AA.VV., Brasil 2000. Para un nuovo pacto social, Rio de Janeiro, Paz e Terra 1986. 6 Sul cammino del Pcb, cfr. il materiale raccolto in PCB: vinte anos de politica (1958-1979), Documentos, a cura di M.A. Nogueira, Sào Paulo, Cièncias Humanas 1980. 30 Lo smantellamento del Pcb coinciderà con l’inizio della fase discendente del regime autoritario. Fallito il « miracolo brasiliano » (come fu denominato il ciclo espansivo del 1968-1973), il paese entrò in una grave crisi di carattere reces­ sivo, che causò maggiore miseria, disoccupazione, inflazione e una specie di « guerra di tutti contro tutti » basata sul supersfruttamento del lavoro e sulla svalutazione dell’investimento produttivo a favore della speculazione finanziaria e della « furbizia ». La crisi, d ’altra parte, frazionò il blocco di consenso intorno al regime, generalizzò il malcontento dei ceti medi e del proletariato, fece venire a galla le energie prodotte dalla modernizzazione capitalista del paese: la società civile cominciò ad articolarsi meglio, le opposizioni democratiche videro i loro primi successi elettorali e il movimento sindacale (specialmente quello del cor­ done industriale di Sào Paulo, l ’Abc), iniziò a realizzare i primi grandi scioperi. In piena crisi di legittimità, il regime militare fu forzato a mettere in pratica un progetto di apertura controllata per tentare la propria auto-riforma e la propria riproduzione. In quel preciso momento, l’assenza del Pcb avrà effetti profondi sulle sinistre. Da una parte, cristallizzerà la fine dell’egemonia co­ munista sull’insieme della sinistra. Liberate dalla « tutela » del loro fratello piu vecchio, le sinistre sperimenteranno una fase di discussione polemica interna, tutta basata sulla ricerca del « nuovo » e del rinnovamento. Vedranno aggravata la loro dispersione organica e drasticamente ridotta la loro capacità di competere con il liberalismo in ascesa. Sopra ogni cosa, si vedranno private, almeno per un momento, di strumenti capaci di qualificare l’intervento politico. 3. La democrazia difficile e il punto debole della transizione L’apertura democratica ebbe praticamente inizio nel 1974, coincidendo con l’insediamento del governo Geisel. A quella data si intrecciarono tre fattori de­ cisivi: 1) la crisi economica e il fallimento del modello di crescita capitalista applicato fra il 1968 e il 1973; 2) la necessità intrinseca del regime stesso di inventare una via di autoriforma in grado di farlo uscire dall’isolamento in cui era confinato e di ricomporre la sua base di consenso, già in evidente stato di frammentazione; 3) l’inizio dell’ascesa elettorale delle opposizioni, manifestatasi nella vittoria ottenuta nelle elezioni generali di quell’anno. Se la congiuntura presentava elementi favorevoli alla democratizzazione del paese, essa non subirà però un’evoluzione verso un mutamento radicale o acce­ lerato della situazione dominante. Al contrario, in quel momento si delineerà con chiarezza il tratto piu tipico della transizione brasiliana, vale a dire il fatto di essere sorta e di essersi sviluppata senza l’emergere previo di un movimento di massa organizzato e dotato di totale autonomia rispetto al regime stesso. L’apertura, in verità, inizierà in un momento particolarmente delicato della vita nazionale. La modernizzazione conservatrice e le scelte politiche del regime autoritario avevano lasciato la società in uno stato deplorevole, una vera Babele in cui si parlavano varie lingue e si intrecciavano tempi storici diversi. Im­ pregnata di autoritarismo, divisa in compartimenti stagni, privata di meccanismi di intermediazione, con una mobilitazione sociale piena di tratti « selvaggi » e sottomessa all’irrompere di comportamenti e domande derivate dall’industrializ­ zazione accelerata e dalla riproduzione della miseria, la società brasiliana non era una società preparata a vivere una democratizzazione rapida e profonda. Soffrirà cosi l’impatto della strategia di « distensione » del regime, sia per quanto attiene al ritmo della « apertura » sia per quanto si riferisce ai soggetti preposti a di­ rigerla. Oltre alla disarticolazione del Pcb, gli strateghi ufficiali opereranno con l’intenzione permanente di controllare e limitare l’azione delle forze d ’opposizione 31 e di bloccare il sorgere di nuove alternative di sinistra. Vero è che, sebbene ac­ cerchiate, le sinistre riusciranno a mantenersi in attività e a dare il loro contributo (il Pcb risorgerà nel 1978 e dal movimento sindacale in espansione verrà, in­ torno al 1979, la spinta necessaria a dare spazio al Partido dos Trabalhadores, agglomerato di diversi gruppi socialisti e con forti accenti sindacalisti), ma il fatto è incontestabile: l’apertura comincia senza un’articolazione delle sinistre e senza la pressione di un vigoroso movimento di massa. Credo che il quadro tracciato spieghi il carattere della transizione brasiliana. Essa nacque e si sta sviluppando come una transizione pattuita, un processo in cui le opposizioni democratiche e popolari sono state costrette ad un ritmo cadenzato e alla prassi permanente della negoziazione per non trovarsi allontanate dal centro politico o costrette a perdere terreno. La transizione pattuita, tuttavia, è risultata la transizione possibile in Brasile. Il suo limite risiede nella infelice articolazione politica della società, nelle difficoltà incontrate dai suoi settori più mobilitati a passare dal piano immediato della rivendicazione circoscritta al piano della politica statale, gettando un ponte fra la società civile e lo Stato — pro­ blema drammaticamente condizionato dalla mancata nascita di una forte orga­ nizzazione socialista. È questo il vero punto debole della transizione1. Evidentemente una situazione del genere ha ostacolato parecchio l’azione po­ litica democratica e delle sinistre, oltre naturalmente a ritardare la spinta della transizione. Al tempo stesso, però, è al suo interno che vengono forgiati gli strumenti con cui si sta costruendo il futuro politico brasiliano. Quattro esempi saranno sufficienti: 1) la pratica forzosa della coalizione e la necessità di unità hanno avvicinato i democratici fra loro, hanno fatto entrare in crisi i vecchi modelli di partito politico e hanno costretto la sinistra ad affrontare con serietà la sfida del rinnovamento. 2) È stato su questo terreno che si è rafforzato, al­ l’interno del Pmdb, il progetto di organizzare un partito socializzante con vasta base parlamentare e fondato sulla convivenza di un ampio spettro politico e ideologico; e che il Partido dos Trabalhadores si è dato una struttura di partito proveniente « dal basso », ossia, dai sindacati e dai movimenti popolari. 3) Sempre sullo stesso terreno si è verificata l’espansione di una Chiesa più forte e più abile, che ha approfondito i suoi legami con i settori popolari e sofisticato la sua elaborazione teorico-politica. 4) È in esso, infine, che si sono moltiplicati i movimenti sociali ed è emersa una nuova disponibilità partecipativa, autonoma allo Stato e aperta all’inventiva sul piano della mobilitazione e dell’organizzazione. Il problema di fondo non può tuttavia essere minimizzato: tutti i passi in avanti registrati, nel Brasile degli anni ’70 e ’80, verso una democrazia rappre­ sentativa con partecipazione estesa sono sempre stati intralciati dalla mancata comparsa di un’organizzazione socialista moderna, pluralista, autonoma e di massa — un’organizzazione, per dirla in poche parole, in grado di riunire le molteplici correnti di sinistra, di sedimentare e alimentare una cultura politica aperta al socialismo e di ridurre la forza acquisita, nel movimento associativo, daWattivismo ingenuo, cioè dall’attivismo combattivo ma refrattario alla politica e alle sue istituzioni, empirico e legato a forze organizzative fugaci e temporanee (come le «assemblee», per esempio). Le sinistre brasiliane continuano ad essere disperse in vari partiti: fanno sentire la loro presenza nel Partido do Movimento De­ mocràtico Brasileiro (Pmdb), nei due Pc, nel Partido dos Trabalhadores (Pt) — vera federazione di gruppi trotzkisti, socialdemocratici, cattolici e sindacalisti — , in un piccolo Partido Socialista Brasileiro (Psb) e nel Partido Democràtico Traba-7 7 Cfr. M.A. Nogueira, O lado fraco da transiqào in « Presenca », 4, 1984, pp. 13-20, e Come ha vinto la politica del possibile in « Rinascita », 4, 2-2-1985, pp. 35-36. 32 Ihista (Pdt). Come regola, quasi generale, le sinistre si rapportano male alla democrazia politica, non riescono a superare differenze meschine, ad agire in modo unitario e non dimostrano di possedere qualsiasi vocazione egemonica. Negli ultimi anni sono falliti dentro il Pcb i tentativi di rinnovamento e di de­ mocratizzazione interna e, nel Pt, stanno predominando le correnti di ispirazione chiaramente « operaista » e « basista », refrattarie alla politica e alle pratiche par­ lamentari o rappresentative. Persino nel Pmdb, erede storico della lotta contro la dittatura e maggior partito nazionale, le siniste non sono riuscite a definire con chiarezza la loro posizione e i loro obiettivi. Sono convinto che da questo quadro nascano i dubbi e le incertezze circa il futuro della transizione brasiliana. L’interrogativo è chiaramente questo: la « Nuova Repubblica » sarà soltanto una riconversione liberal-conservatrice dell’antico re­ gime autoritario o rappresenterà di fatto una rottura in profondità? Chi guiderà i prossimi passi: il liberalismo moderato, con i suoi imprenditori e il suo « ca­ pitalismo dal volto umano », o la democrazia, con i suoi partiti, le sue masse e i suoi impegni sociali? 4. Prospettive: le possibilità della politica L’inizio della « Nuova Repubblica » ha simbolizzato la fine di un’epoca e ha ridefinito le condizioni concrete del fare politica in Brasile, aprendo spazio ad una nuova dialettica fra lo Stato e la società8. Niente, però, si sta svolgendo come se si vivesse nel migliore dei mondi. Anzi, è proprio il contrario: il nuovo governo si trova di fronte una società dilapidata dalla crisi, imbevuta di corporativismo e immersa in un frenetico processo di riorganizzazione dei suoi modelli di socializzazione. Molte sono le tensioni e numerose le domande sociali. Grandi, inoltre, si presentano le difficoltà di indirizzare e governare l’eco­ nomia, in parte derivate dall’eredità lasciata dall’autoritarismo e in parte risul­ tanti dalle reazioni alla nuova politica economica adottata nel febbrio del 1986. Parallelamente, il governo Sarney si trascina appresso un pesante bagaglio di com­ promessi e di accordi, anche con settori dell’antico regime, ed è costretto a mantenere l ’equilibrio con una delicata ed eterogenea composizione politica. Tutto ciò in un quadro segnato da una crisi della politica di proporzioni imprevedibili (che fanno si che la politica veda ridotto il suo potere di convincimento e diminuita la sua capacità di intermediazione, grazie al cattivo funzionamento dei partiti e del Parlamento) e da una disarticolazione delle sinistre. Il Brasile conosce oggi giorni carichi di promesse e di difficoltà. La prossima Costituente si riunirà e funzionerà in condizioni che non possono essere definite ottimali. Sarà fortemente condizionata proprio dal quadro politico nazionale, dove è palpabile la disaffezione verso la politica e notevole la riarticolazione della destra e della liberal-conservazione, mentre persiste la frammentazione delle si­ nistre. Non sarà, inoltre, esclusivamente un’Assemblea: convocata come Congresso Costituente, vedrà sovrapposte al suo interno la funzione legislativa ordinaria e la funzione costituente propriamente detta, fatto che con ogni probabilità com­ porterà difficoltà di ordine tecnico e politico. Tutto ciò significa affermare che la riformulazione legale del paese si veri­ ficherà come vera battaglia politica, il cui ritmo e i cui risultati dipenderanno in gran parte dalla capacità delle rappresentanze piu a sinistra di agire in blocco, sulla base di una piattaforma comune e di un consistente collegamento con la 8 M.A. Nogueira, Cento giorni dopo, un altro Brasile, in « Rinascita », 28, 27-7-1985, pp. 34-35. 33 società. Se fra i gruppi parlamentari interessati a vincolare la democrazia alla questione sociale predominerà la competizione su problemi minori e prevarrà la preoccupazione di affermarsi con particolarismi presso l’elettorato, la nuova Costituzione brasiliana non riuscirà certamente a riflettere il paese reale e a disciplinare la gestione di una nuova socializzazione e di un diverso modo di governare. Sarà inevitabilmente destinata ad avere corta durata e a non collaborare affinché il Brasile rompa con la sua tradizione di instabilità politica, autoritarismo e minacce golpiste. Alimentare in senso progressista la nuova dialettica politica esistente in Brasile esige sia la sensibiltià dei nuovi governanti sia un nuovo tipo di unità fra le forze interessate alla transizione, che rafforzi soprattutto il suo nucleo cataliz­ zatore, attestato sull’alleanza fra il liberalismo democratico e la sinistra. Dipende, cioè, dal trovare un’unità basata sul pluralismo e sulla libera competizione fra i partiti e volta alla costruzione di una democrazia rappresentativa a partecipa­ zione allargata. Da ciò verrà l’impulso in grado di controbilanciare il predominio conservatore à livello di governo e di sostenere, partendo da un intelligente collegamento con i movimenti sociali, un progetto riformatore che affronti i gravi problemi del paese. D ’altra parte, per le forze più avanzate della democrazia, il momento presente deve essere vissuto come una grande occasione di affermazione politica e per attivare e organizzare i settori popolari. Mai come ora sono presenti tante con­ dizioni favorevoli alla ristrutturazione dei partiti e all’unità di quelle forze, come anche all’inserimento dei movimenti sociali nel gioco politico e nella vita stessa del governo. Esse sono pertanto obbligate a una manovra sofisticata: devono saper affrontare la questione sociale facendola confluire nella questione istituzionale, devono cioè evitare la tendenza di puntare ad una centralizzazione della que­ stione sociale che sottostimi il problema della reistituzionalizzazione democratica e alimenti una linea di confronto con la coalizione che appoggia il nuovo governo. Quanto alle sinistre, esse hanno di fronte serie questioni: riusciranno a sot­ terrare il loro passato golpista e autoritario, a superare la loro cronica frammen­ tazione, a recuperare il decisivo contributo che hanno dato al processo di de­ mocratizzazione e a darsi una nuova identità, contemporanea del Brasile realmente esistente? Sapranno trarre profitto dalla nuova dialettica politica presente nella « Nuova Repubblica » per riqualificare la propria organizzazione e ripensare il proprio inserimento sociale? Avranno competenza per proporre delle identità di partito chiare e al tempo stesso per ricomporre alleanze col liberalismo demo­ cratico? Il fatto è che le sinistre brasiliane sono chiamate a interpretare ruoli difficili e non potranno cercare di obbedire a parametri tradizionali. Senza questa trasformazione delle sinistre e senza un’avanzata dello stesso liberalismo democratico (che ha bisogno di prendere le distanze con chiarezza dalla componente conservatrice che ne ha intralciato il cammino), ma al tempo stesso senza efficienza governativa e senza unità, sembra difficile che sorga in Brasile un’alternativa in grado di innalzare i movimenti sociali alla condizione di movimento politico, di garantire la democrazia e di evitare che la transizione culmini in un’egemonia liberal-conservatrice di lunga durata. Le possibilità di mu­ tamento e di avanzata, tuttavia, sono reali. Esse sono politiche e, in quanto tali, saranno approfittate oppure no in rapporto alla competenza degli attori politici. {Trad, di Angelo Trento) 34 Vanna tanni * Sistema politico e movimenti sociali nella Repubblica Dominicana Storia immediata Le forme e le cadenze che scandiscono le sequenze degli avvenimenti dome­ nicani profilano uno scenario opaco, segnato da una crisi la cui figura con­ giunturale svela una dimensione persistente, storica. La crisi attraversa l’eco­ nomico, il politico, gli ordini di senso ma non assume modalità catastrofiche; risalta l’assenza di un « contro-potere » come soggetto costruttore di alternative. La società dominicana appare coinvolta in processi circolari, a volte implosivi, nei quali tendono a presentarsi rotture con le caratteristiche di esplosioni re­ pentine e puntuali. La crisi economica, concettualizzata dal discorso statale, a partire dal 1982, nei termini prevalenti di indebitamento esterno, manifesta uno spettro piu ampio e profondo. Questo trascorre dalla dipendenza strutturale del mercato mondiale alla rigidità e strettezze di relazioni di produzione appoggiate sulla estrazione di plusvalore assoluto, con gli effetti che ne derivano: squilibri, elevatissimi indici di disoccupazione e sottoccupazione, salari oscillanti intorno al minimo vitale. La crisi si converte in una occasione che le frazioni del capitale, legate piu strettamente alle multinazionali, cercano di rendere produttiva, operando per mezzo di essa un riassetto economico-sociale il quale favorisce il rafforzamento dei settori finanziari-esportatori e restringe le già ridotte posizioni delle masse popolari. Le prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) vengono Docente albUniversità di Santo Domingo. 35 presentate come una « determinazione esterna » che si converte in meccanismo di legittimazione della ridefinizione in atto. Il presente dominicano riconferma, in questo modo, il particolarismo e il congiunturalismo come « orizzonte di visibilità » di gruppi dominanti storica­ mente incapaci di esprimere e articolare la integrazione sociale e la stabilità nazionale. Lo stato continua ad essere reso fragile dalla divaricazione tra accu­ mulazione e legittimazione, da un equilibrio instabile tra forza e consenso il quale inclina continuamente verso il primo dei due termini. Alla crisi economica si somma una crisi politica, altrettanto profonda, secondo una temporalità non lineare e non predeterminata. Nel 1978, la transizione democratica segna nella società dominicana l’inizio di trasformazioni che si rivelano diseguali, fluide e limitate. Lo stato presenta, oggi, fenomeni di privatizzazione e segmentazione che interferiscono con l’artico­ lazione dei suoi poteri. Negli ultimi quattro anni, durante il governo di Salvador Jorge Bianco, i conflitti tra esecutivo e legislativo, trasmettendo allo stato le rivalità interne al « partito al governo », hanno finito non solo per ostacolare la produzione di consenso ma anche per ostruire la governabilità e il momento decisionale. I partiti rivelano limiti decisivi per articolare e canalizzare le domande sociali: uno iato li divide dalla società, e a questa separazione non corrisponde un loro rafforzamento nello stato ma una diffusa « crisi di rappresentatività », che li assottiglia e fraziona debilitando allo stesso tempo la società e lo stato. Il sistema politico dominicano esprime una ridotta dimensione istituzionale, una limitata capacità di produrre consenso e di unificare le reti sociali. Gli attori intervengono sulla scena politica in modo occasionale, improvvisato, con intenzionalità e ruoli di spessore, demarcati nel tempo e nello spazio. Le spirali della crisi investono anche l ’orizzonte dei valori, delle norme, delle rappresentazioni che orientano l’azione sociale. La modernizzazione, limitata e diseguale, ha favorito processi di erosione e dissoluzione dei codici senza che al tramonto del vecchio succedesse l’emergenza definita del nuovo. La omo­ geneizzazione asimmetrica dello spazio prodotta dalla penetrazione ed espansione del capitale, i forti flussi migratori interni ed esterni, la compulsiva urbaniz­ zazione e la susseguente emarginazione derivate dalle asincronie di un sistema economico eterocentrato, hanno frantumato i modi di vita ciclici e gli orizzonti percettivi di una società contadina, senza peraltro delineare, se non debolmente, la successione lineare e il tempo quantificato del capitale. La diluizione dei valori e la disintegrazione delle relazioni, producono instabilità e disorienta­ mento sociale e politico. Le interruzioni nei processi di secolarizzazione disegnano uno spazio puntuale, una durata senza memoria. Una rete fluida, nella quale si muovono attori segnati da insicurezza e da anomia, rivela opposizioni e di­ sgiunzioni del sistema culturale analoghe ai fenomeni che frammentano il tramato sociale e politico. Nella crisi emergono i movimenti sociali, puntiformi e senza una identità definita, che il sistema politico non riesce sempre a neutralizzare; indicano, allo stesso tempo, l’esclusione delle masse e la presenza di interrogazioni finora senza risposta. In tal modo, lo scenario dominicano si inscrive nel panorama latinoamericano con una grafia la cui singolarità non annulla affinità e continuità con tensioni e problematiche che affiorano in altre formazioni sociali. Risulta significativa la conferma, che i processi dominicani offrono, sulla resistenza della democrazia ad essere ridotta agli aspetti tecnico-strumentali, agli schemi delle sole ingegnerie politiche. Risalta l’indicazione che essi presentano rispetto alle coordinate della democrazia: esse risultano dall’incrocio delle reti nazionali con quelle intema36 zionali, senza possibilità di riduzione delle une alle altre. La democrazia emerge cosi come spazio complesso e processuale, che collega l’economico, il politico, la cultura; emerge come costruzione sempre aperta; come progetto che è oggi il segno del presente latinoamericano. Processi nazionali inconclusi: il « passato-presente » dominicano Lo spaccato storico che precede lo scenario attuale presenta come fenome­ nologia caratterizzante, l’interruzione e l’incompiutezza dei processi che lo con­ figurano. Stato, nazione, mercato, classe, nella realtà dominicana si definiscono sinuosamente e, ancor oggi, incompiutamente. La categoria mariateguiana di nación en formación risulta un quadro di riferimento adeguato per uno studio della for­ mazione sociale dominicana, cosi come lo è, al di là delle differenze intercorrenti fra le diverse società, per la delimitazione della specificità latinoamericana. Le difficoltà e i vuoti della modernità procedono anche nella soceità domi­ nicana da squilibri, asimmetrie e asincronie, interne e relative al circuito esterno. L’attualità sintetizza gli effetti di un « passato-presente », che ha sofferto sposta­ menti e trasformazioni che lo hanno ridefinito ma non interrotto completamente. La formazione dello stato nella società dominicana risulta, dal suo momento costitutivo, una sintesi ostacolata da una divaricazione determinante tra circuito economico e circuito politico: « essendo la società civile dipendente dal mercato mondiale non può tenere la sua sintesi nello stato. Lo stato non riesce ad esprimere un interesse comune alla società, né ad incarnare una forma generale » '. Il momento della Indipendenza (1844) presenta assenze importanti che ostrui­ scono la formazione dello stato e della nazione. L’eterogeneità e disarticolazione dello spazio economico e sociale corrisponde a un potere politico limitato e disperso. Il mercato, come costituzione di una rete di relazioni in grado di superare le discontinuità e le diseguaglianze dei localismi e dei regionalismi, non si consolida. Lo stato non cristallizza una razionalità amministrativa né apparati in grado di sostenere la centralizzazione e autonomizzazione del potere. La for­ mazione della nazione e della sovranità vengono bloccate dalla « vocazione » dei gruppi dominanti a ricercare la legittimazione del potere statale nel riconoscimentosanzione di un’autorità esterna, e questo attraverso i tentativi ricorrenti di voler instaurare legami neo-coloniali con alcuni dei principali stati. Solo nel 1916, come effetto del primo intervento militare degli Stati Uniti nelle sequenze storiche dominicane, lo stato nazionale assume una iniziale con­ figurazione. Il « momento costitutivo », legato alla « determinazione esterna », connota per vari aspetti i processi successivi. « Questa assenza di nazionalizza­ zione del Potere nel momento costitutivo dello Stato-Nazione, segnerà perma­ nentemente il successivo sviluppo storico della Repubblica Dominicana » 12. Ne risulta intralciata la configurazione del popolo-nazione. Prendono corpo gli ap­ parati richiesti dall’esercizio del potere statale e si opera una « territorializzazione » come unificazione parziale delle diverstà economiche, sociali e politiche. Però, la neutralizzazione degli antagonismi risulta appoggiata sulla forza. Lo stato si impone alla società e manca un momento di articolazione e di coesione sociale attraverso la produzione di consenso; la consolidazione della egemonia quale mo­ mento articolatorio risulta assente. La sovranità, cioè l’autodeterminazione di 1 Norbert Loechner, La crisis del Estado en América Latina, Mexico 1982, p. 120. 2 José Oviedo, Estado y clases subalternas, « Realidad contemporanea », n. 18-19, 1984, p. 74. 37 un potere che si autonomizza da vincoli esterni ed interni, appare fortemente limitata, e la Legge enuclea un ordinamento generale debole e parziale. La dittatura di R.L. Trujillo (1930-1961) porta a compimento questa sovrap­ posizione dello stato alla società, marcando la debole individuazione di entrambi. L’identità tra stato e accumulazione personale del tiranno che si stabilisce, non recide i legami con il capitale monopolistico internazionale, ma ridefinisce gli spazi reciproci e crea una base materiale locale per l ’esercizio del potere. Il senso del « generale », della nazione risultano personalizzati nella figura di R.L. Trujillo. Questo processo di « corporeizzazione » dà forma a uno « stadio dello specchio », nel quale la società dominicana non incontra la propria identità di popolo e di nazione ma scopre, al posto della propria immagine, un vuoto l’angoscia del quale ancor oggi la spinge, con ossessiva coazione, a ricercare l’ordine nell’autorità, a rifugiarsi nell’eteronomia. La fragilità dei processi statal-nazionali si comprova quando, alla caduta della dittatura (1961), gli antagonismi compressi ma non convertiti in differenze, stra­ ripano rompendo la costituzionalità (1963) e ostruendo la configurazione del­ l’ordine. La ricerca di accumulazione immediata da parte dei gruppi borghesi e la pressione disordinata delle masse confluiscono in una crisi organica che cul­ mina nella sollevazione di una parte dell’esercito, e successivamente nella guerra popolare del 1965. La frattura che divide la società dominicana e che registra il secondo intervento militare degli Stati Uniti, trova ancora una volta nella forza il dispositivo di ricomposizione dell’ordine sociale. Il Balaguerato (1966-1976) si costituisce come una forma di dominazione che, allontanando i gruppi borghesi dall’esercizio diretto del potere politico, riesce a produrre la stabilizzazione dell’ordine e ad articolare, su di una base burocratico-militare, uno spazio di mediazione in grado di sostenere, nel lungo periodo, gli interessi del capitale locale e multinazionale. Lo stato promuove una modernizzazione che diversifica il tramato sociale e tende a trasformare i con­ tadini in « classe-appoggio ». La repressione, diretta a demobilitare e ad atomiz­ zare il movimento popolare, si attenua a partire dal 1973 e il regime riesce ad articolare forme limitate di consenso. Tuttavia i cambiamenti e le trasfor­ mazioni avvenute non interrompono completamente le « orme » del passato, negli aspetti determinanti. L’unità della nazione continua ad essere costruita attraverso un immaginario puramente « negativo » che esclude « l’altro », il « di­ verso »; l’antihaitianismo e l’ispanità vengono attivati e funzionano come dispo­ sitivi che ostacolano la formazione di una « comunità di destino », in quanto isolano e separano le masse popolari dallo spazio comune. I processi di isti­ tuzionalizzazione presentano forme interferite di definizione. La divisione dei poteri dello stato rimane un riferimento formale, e persino la Legge fondamentale, la Costituzione, risulta dipendere dagli arbitri del potere. Lo stato e la nazione dominicani rivelano nei loro processi costitutivi delle ostruzioni che non li bloccano completamente ma li segnano di distorsioni, assenze, incompiutezze. La transizione democratica e le trasformazioni dello stato Il ritmo del tempo politico si trasforma e contemporaneamente si accelera con l’inizio della transizione democratica nel 1978. Cambiamenti morfologici inter­ vengono nel blocco nel potere e portano ad una ridefinizione delle relazioni stato-società. Il rapporto tra forza e consenso cambia aprendo uno spazio mag38 giore al consenso. La definizione del generale si espande e la sintesi statale mostra una parziale disponibilità verso le domande popolari; i processi di istituziona­ lizzazione riducono le reti dell’arbitrio e delle lealtà personali. Il sistema politico dominicano va definendosi, acquisendo un certo plurali­ smo e flessibilità, mentre la Legge, come forma di uguaglianza tra i cittadini, incontra riconoscimenti importanti. Lo stato registra per la prima volta una minima separazione tra potere esecutivo e legislativo. Il supporto della transizione democratica è rappresentato dalla affermazione elettorale del Parlido revolucionario dominicano (Prd) e dalla sua capacità di articolare un blocco di forze in grado di sostenere i processi democratici. Partito genericamente populista e membro dell’Internazionale Socialista dal 1976, stori­ camente legato alle masse popolari, il Prd si converte in canale di avvicinamento tra stato e società. La strategia del Prd è però confusa, contradditoria e incerta, solcata dalle aspirazioni personali e dal clientelismo. La definizione ideologica e programmatica, che dovrebbe orientare la sua azione statale, è minima. In effetti, dopo la congiuntura iniziale, i processi di modernizzazione cominciano a presentare scompensi, distorsioni, ostacoli importanti. Il governo di Antonio Guzman (1978-1982) cerca di attivare un modello di sviluppo economico orientato all’allargamento del mercato interno, attraverso interventi sulla formazione della domanda. Aspira a creare le condizioni per una politica di redistribuzione limitata del reddito, in grado di assimilare parte delle aspettative popolari ed ampliare allo stesso tempo le basi strutturali della economia dominicana. L’incertezza programmatica, l’assenza di una volontà po­ litica decisa a realizzare le riforme indispensabili, l’ostilità dei gruppi dominanti di fronte alla politica dello stato conducono a pratiche contradditorie e instabili. Invece di realizzare una riforma fiscale lo stato ricorre all’indebitamento esterno e poi distorce i finanziamenti verso un uso parassitario che accelera la crisi eco­ nomica e politica. Le difficoltà del modello economico inducono il secondo governo del Prd ad inscriversi in un’ottica neo-liberista, completamente centrata sul mercato esterno e chiusa alle domande popolari. In questo modo si creano le condizioni per una perdita di base sociale da parte del partito al governo, per una separazione tra stato e società la quale ostruisce la transizione democratica. La modernizza­ zione e la democratizzazione finiscono per presentare squilibri e asincronie originate dalla confluenza di fattori e livelli distinti: l’inserimento nel mercato intema­ zionale, che opera riproducendo scambi diseguali; la rigidità e strettezza dei gruppi borghesi, privi di un’ottica societale; il deficit di razionalità dello stato; l’atomizzazione delle classi subalterne e la loro esclusione dalla scena politica; il debole e scisso tramato culturale, nel cui mosaico le interrogazioni democratiche tracciano interstizi sottili. Nei momenti nodali della transizione dominicana, le istanze democratiche prevalgono sulle istanze di razionalizzazione e di sviluppo tecnologico. In effetti, le masse, disperse e con una minima definizione corporativa, cominciano a a> struirsi una identità attraverso l’azione politica: le domande democratiche ri sultano l’orizzonte per loro piu immediatamente percettibile. Fin dal loro apparire sulla scena pubblica, nel 1961, « le interrogazioni di democrazia e libertà costi­ tuiscono la “pratica articolatoria” di maggiore continuità nelle classi popolari dominicane, anche se non rappresentano un progetto organico di ampliamento-3 3 Pedro Catrain, Transition democràtica, socialdemocrazia y clases populares en la Republica Dominicana, Mimeo, Santo Domingo 1984, p. 2. 39 superamento dello stato » \ In conseguala, quando il discorso statale si sposta verso pratiche tecnocratiche e clientelati provocando l’espulsione delle domande popolari, le mediazioni tra stato e società si assottigliano e si apre un vuoto egemonico significativo. I processi democratici ostruiti nel sistema politico, dove il senso di ordine democratico si separa dalla dimensione partecipativa, non incontrano permeabilità neppure nella società. La sfera pubblica, in quanto configurazione di uno spazio di razionalità generale, poco definita e continuamente attraversata dal partico­ larismo del potere, viene ulteriormente ridotta per mezzo della penetrazione dello stato nell’apparato di informazione e attraverso altre misure che controllano « l’uso pubblico » della ragione. La congiuntura elettorale del maggio dell’86, rivela trasparentemente i feno­ meni circolari di depoliticizzazione e disideologizzazione che derivano dalla ridu­ zione degli spazi democratici. Tuttavia il segno più nitido del vuoto egemonico che isola lo stato e ostruisce la democrazia è costituito dalla rivolta popolare dell’aprile del 1984. Sfruttate e soggiogate, le masse esplodono di fronte a uno stato che non solo decide per loro e su di loro ma non si preoccupa neppure di raccogliere un minimo di consenso intorno alla verticalità delle sue scelte. Senza organizzazione e senza un progetto, con una ridottissima visualizzazione degli antagonismi reali, le masse dominicane si ribellano. Senza interlocutore de­ finito e senza obiettivi precisi, la rivolta si estende rapidamente a tutto il ter­ ritorio nazionale: è un coro che irrompe sulla scena, spinto dalla rabbia, dalle frustrazioni, dal bisogno immediato di sopravvivenza. La debolezza della democrazia dominicana diviene immediatamente visibile, separata com’è da un’orizzonte nazionale. Si rivela una rete fluida e mobile su di un arcipelago di particolarismi e di esclusioni; una domanda più che una risposta; una messa in scena nella quale si muovono attori occasionali secondo una trama che appare ancora « senza soggetto » definito. Il sistema fragile dei partiti La peculiarità dei processi storici dominicani spiega la tardiva apparizione e la debole consistenza dei partiti nella vita pubblica. Le « determinanti nega­ tive » costituite dalla ridotta definizione delle classi, dalla non completa for­ mazione della nazione, da uno stato inclinato ad accentuare nell’esercizio del potere il momento della forza, ubicano alla fine della dittatura di R.L. Trujillo (1961) l’emergere dei partiti, come organizzazioni con aspetti di modernità. Nel sistema politico dominicano i partiti incontrano difficoltà notevoli per mantenere una presenza ed esercitare un ruolo. Le funzioni fondamentali di rappresentanza degli interessi particolari e di aggregazione delle necessità in una sintesi più vasta, risultano ostacolate dalla estrema eterogeneità della società e dalla ridotta costituzione dello stato. La debole divisione dei poteri statali che per un lungo periodo assegna al Congresso un ruolo subordinato all’esecutivo, blocca la possibilità di espressione e di pressione dei partiti. L’assenza di una dimensione egemonica non favorisce la costruzione di organizzazioni finalizzate alla aggregazione e alla coesione della volontà collettiva. Con l’inizio della transizione democratica, lo spazio dei partiti si amplia e pluralizza. L’apertura democratica induce le classi dominanti a costituirsi in gruppi di pressione, attraverso le proprie organizzazioni imprenditoriali. Queste filtrano gli antagonismi interni e stabiliscono relazioni dirette con lo stato e soprattutto 40 con l’esecutivo, assumendo verso i partiti un’attitudine puramente strumentale e congiunturalmente limitata. In questo contesto, l’insuccesso dei governi del Prd, produce effetti che trascendono il profilo e il ruolo di un progetto di attribuzione socialdemocratica. La riduzione del Prd a una pluralità di correnti contrapposte ed ostili, divise non da distinzioni ideologiche o elezioni programmatiche ma dalla ricerca immediata del potere, produce rotture importanti nella relazione stato-società. La viabilità del progetto perredeista viene garantita, nel 1978, dal suo costituirsi in « alter­ nativa di senso comune », in grado di assicurare allo stato forme di mediazioni efficaci rispetto alle masse, forme insolite nella storia dominicana. Quando il Prd, convertito in « partito al governo », perde il contatto con il senso comune, risultano poste le condizioni dell’esaurimento del suo ciclo di potere. L’invalida­ zione risulta segnata in aspetti determinanti. Non solo fallisce il tentativo di riordinare il generico populismo intorno ad un momento di definizione corpo­ rativa di classe, ma risulta ostacolato anche il consolidamento del Parlamento come supporto importante dei processi democratici. Attraverso le sue bellige­ ranze gruppali, il Prd diviene il fattore principale di delegittimazione del Con­ gresso. In tal modo, nel momento in cui chiude lo spazio esistente di mobilita­ zione popolare, non rivela capacità di offrire alle lotte democratiche altri momenti di espressione, neppure quello parlamentare classico della socialdemocrazia. Per ultimo, annulla anche l’elemento distintivo della sua presenza nel sistema po­ litico; nell’ultima convenzione nazionale, in occasione della congiuntura elettorale, la democrazia interna viene sostituita dagli accordi tra leaders. La crisi di rappresentatività non rimane esclusiva del Prd. Processi simili, diversi per forma e origini ma analoghi negli effetti, indeboliscono gli altri partiti. Il Partido Reformista Socialcristiano (Prsc), vittorioso nelle ultime elezioni, non solo manifesta difficoltà relative alla stabilità interna ma neppure supera una relazione puntuale e limitata con le masse e con la società. Il suo leader carisma­ tico e attuale Presidente della Repubblica, Joaquin Balaguer, esponente di una concezione fatalista e provvidenzialista del potere, restringe la funzione del partito ad apparato elettorale e presenza congiunturale, considerando destabi­ lizzante una attivazione permanente della società. Il Partido de Liberación Do­ minicana (Pld), si è spostato lentamente su posizioni di centro aumentando il distacco dalle sinistre. Il suo rafforzamento elettorale risulta segnato da sotterrate dissidenze interne e da una penetrazione verticale nella società. Il Pld diffida di qualsiasi forma di partecipazione e s’inscrive in una visione economicista e strumentalista dello stato che lo porta ad accentuare il momento della disciplina e convertirlo in supporto pressoché unico dell’ordine. Il particolare « dispotismo illuminato » che caratterizza il pensiero del suo leader, Juan Bosch, disconosce le potenzialità di una dimensione egemonica e si richiama, rafforzandole, alle tendenze autoritarie presenti neH’immaginario collettivo. Il Pld rappresenta un momento importante di pluralizzazione del sistema politico dominicano e una opzione razionalizzatrice interessante. Però, a un’ottica di piu lungo periodo, si rivela una limitante per una crescita democratica della società dominicana. Alla crisi che diminuisce la funzionalità dei « partiti dell’ordine » corrisponde la quasi dissoluzione delle sinistre. In questo caso, risulterebbe anche maggior­ mente appropriato parlare di « Pavana per una sinistra defunta ». La limitata capacità che le sinistre dominicane hanno presentato storicamente nel relazionarsi alle classi che dichiarano rappresentare, non si presta ad essere spiegata esclu­ sivamente in termini di repressione ed esclusione politica. Alle sinistre è mancata costantemente una teoria e una pratica politica, è mancata la visione della de41 mocrazia come correlazione mobile di forze e della nazione dominicana come soggetto da costruire. Rinserrate nell’economicismo e in una visione strumentalista dello stato, le sinistre sono rimaste esterne ad una presenza significativa nella società. Solo in congiunture di forte mobilitazione popolare sono riuscite a trovare interstizi per una ridotta aggregazione. La transizione democratica ha segnato l ’inizio di una crisi, nel loro caso, quasi catastrofica. Separate rispetto allo stato, isolate nella società, rappresentano un pulviscolo sempre piu evanescente. La loro rigidità e struttura verticale risulta un ostacolo per la creazione di spazi di espressione e sintesi delle interrogazioni democratiche. L’ordine come disciplinamento, la visione economicista e sostanzialista dei soggetti ostruiscono la stessa sedimentazione del momento corporativo, dato che le contrapposizioni e i frazionamenti delle organizzazioni politiche trapassano ai sindacati e contribuiscono a ridurre l’inserimento nella classe. L’inconsistenza delle sinistre produce la mancanza di un senso di ordine alter­ nativo; indebolisce lo stato, restringe la già fragile democrazia, colloca le masse dominicane in uno spazio privo di referenti ideali e di momenti di organizzazione. Il sistema dei partiti appare, nella società dominicana, un reticolo la cui fragilità contribuisce a promuovere l’integrità e a spiegare la significatività dei movimenti sociali emergenti. L ’emergenza dei movimenti sociali L’irruzione dei movimenti sociali nella realtà storica dominicana rimanda a congiunture di crisi e di instabilità. Anche in questo contesto, però, diviene segno di fenomeni che oltrepassano la semplice derivazione da processi di esclu­ sione e disintegrazione sociale e politica. Nella formazione sociale dominicana la genealogia dei movimenti acquista specificità per la presenza di uno « spazio popolare » particolarmente discontinuo, multiforme, eterogeneo. La storia difficile e variamente interrotta dei processi di formazione dello stato e della nazione si definisce piu come « disincontro » che come « incontro » o « scontro » tra le pratiche della dominazione e le resi­ stenze delle classi subalterne. « La determinazione reciproca dei soggetti richiede un referente comune. Non ci sono limiti né lotta sui limiti, dove non c’è uno spazio d ’incontro » 4. La accentuata disarticolazione della società dominicana convalida un discorso che analizza i movimenti sociali in termini di forme di azione di massa, senza escludere e neppure privilegiare la dimensione di classe. Essa rivela l’adeguatezza di « un’attitudine epistemologica alternativa al riduzionismo che nega la logica di classe nel movimento sociale e, allo stesso modo, alternativa al riduzionismo che non vede altra logica che quella delle classi fondamentali » 5. In effetti, l’ir­ ruzione delle masse popolari nello scenario politico, alla fine del trujillato, pressenta una maggiore connotazione politica rispetto alla definizione delle classi in senso corporativo, secondo una variante ampiamente presente nei processi storici latinoamericani. La localizzazione nell’occasionale e nell’immediato di movimenti ristretti basicamente nell’ambito di cicli intensi e di breve durata, risulta corre­ lata all’assenza di un soggetto sociale e politico con capacità articolatone. 4 Norbert Loechner, La conflictiva y nunca acabada costrucción del orden deseado, Flacso, Santiago de Chile 1984, p. 4. 5 Malva Espinosa, Movimientos sociales en America Latina, IEE, Lima 1984, p. 3. 42 I movimenti sociali profilano ancor oggi un movimento popolare debolmente organizzato e con una identità fragile. In tal contesto, si preferisce considerare i movimenti sociali come « localizzati fondamentalmente nella congiuntura, se­ gnati da pulsiosi discontinue e disarticolate, basati su contraddizioni specifiche...»6. Si denota, invece, la categoria di « movimento popolare » riferendola ad un sog­ getto sociale e politico che costituisce la sintesi di diversità specifiche, il quale nella realtà dominicana risulta essere una presenza punteggiata da molte assenze. Le interruzioni della transizione, la rivolta di aprile del 1984 e le sequenze di proteste e di scioperi che aumentano la densità sociale e politica della cro­ naca successiva, sono illustrative della imbricazione particolare tra movimento popolare e movimenti sociali che opera nella congiuntura. Questa demarca le possibilità e i limiti dei processi di costituzione dei soggetti sociali e politici: gli antagonismi, scarsamente autonomi e limitatamente controffensivi, dimostrano una ristretta dimensione di « azione critica ». I livelli e le forme di conflittualità risultano puntuali e configurano domande principalmente reattive alle decisioni dello stato. La densità delle rivendicazioni, che presentano una minima dimen­ sione politica, tende a trasgredire il limite delle istituzioni e ad assumere la modalità di esplosioni repentine e di intensi appelli morali. Nella crisi dello stato e dei partiti, nel disincanto verso la democrazia e nella diluizione delle sinistre, il movimento sindacale cosi come il movimento con­ tadino e il movimento studentesco si presentano divisi e diminuiti rispetto a congiunture anteriori. Manifestano margini molto ristretti di autonomia in rela­ zione alla crisi dei partiti e mostrato difficoltà notevoli per inserirsi nelle reti sociali ed articolare le istanze popolari. La maggior parte delle proteste risulta promossa da organizzazioni locali, municipali e di quartiere, e si concentra in­ torno a rivendicazioni immediate. Emerge un distacco significativo tra azioni limitate all’ambito dei servizi e la conformazione di un movimento popolare con incidenza statale. I movimenti appaiono localizzati principalmente nello spazio urbano e confermano un distanziamento profondo delle masse popolari dai circuiti dei partiti e dello stato, nei quali esse hanno incontrato maggiori dispositivi di smobilitazione che di direzione e di espansione. I movimenti rivelano una relazione « triangolare » debole: le conflittualità rimandano alla totalità sociale in modo instabile e indeterminato, semplificato e limitato; allo stesso tempo, localizzano e settorializzano l’avversario, dimostrando l’assenza di una dimensione strategica. Presentano, inoltre, una ridotta relazione con le istanze di classe, con i processi nazionali e di modernizzazione. La « tridimensionalità » a cui si riferiscono le analisi di Alain Touraine, appare inter­ ferita in conseguenza di una loro fragile articolazione con i livelli delle relazioni di produzione, di una loro eccentricità decisiva rispetto all’orizzonte nazionale « inconcluso », e di una loro vaghezza pregiudiziale riguardo ai progetti di razio­ nalizzazione visibili. Nella società dominicana attuale, i cicli della crisi e la spirale dei conflitti scorrono senza che i movimenti confluiscano in un unico processo di rottura. Il ritmo delle proteste e l’erosione delle istituzioni non convergono verso un avvicinamento del popolare e del nazionale, del corporativo e dell’universale. Gli effetti derivati dal vuoto di direzione intellettuale e politica comprovano, tra l’altro, lo schematismo di quelle posizioni di stampo economicista le quali, identi­ ficando l’emergere dei movimenti con l’approfondirsi della crisi, propongono la visione di un socialismo che « si imporrebbe per esclusione, non come alternativa ». 6 Henry Peasl e Eduardo Ballon, Limit es y posibilidades de los movimientos popular es: su impacio en el proceso politico, Desco, Lima 1981, p. 4. 43 I movimenti come segni della particolarità della congiuntura. L ’irruzione della morale nella politica Il tracciato cartografico della società dominicana disegna nello spazio popo­ lare un arcipelago di organizzazioni microscopiche, sotterranee, ristrette nel re­ ferente statale, inclinate verso azioni immediate e dalle modalità non prevedibili. Questo momento aggregativo di base si presenta, però, rinchiuso in una circo­ larità derivante dalla crisi politica che ostacola la definizione di forme e momenti articolatoti piu ampi. L’apparire, nella congiuntura dell’aprile dell’84, di una nuova forma organizzativa con potenzialità di espansione viene distorta, bloccata e avviata dall’intervento delle sinistre a una rapida dissoluzione. I Comités de Lucha Popular (Cip), che si moltiplicano spontaneamente nel territorio urbano, vengono irrigiditi e isolati dal tentativo delle organizzazioni marxiste di utiliz­ zarli come « cinghia di trasmissione » delle loro posizioni, che risultano estranee al movimento e derivate da valutazioni errate della congiuntura al punto che, in alcuni casi, giungono a parlare di « rivoluzione imminente ». In questo scenario, i movimenti emergono come segni delle rotture prodotte dalla profondità della crisi, ma allo stesso tempo denotano confusamente possi­ bilità « visibili » solo dalla loro prospettiva. Quest’ultima linea di analisi rivela la sua produttività nella misura in cui registra le sotterrate interpellanze delle masse verso un modo diverso di fare politica. L’irruzione della morale nel sistema politico manifesta l’ampiezza della op­ posizione alla corruzione dilagante durante l ’ultimo periodo del governo di Sal­ vador Jorge Bianco. Nella congiuntura elettorale dell’86 si conferma come una esigenza ricorrente e un fenomeno ambiguo che confonde la condanna astratta e sterile degli abusi di potere con la denuncia legata a proposte di razionalizza­ zione e di modernizzazione. Quando, però, questa dimensione morale emerge nei movimenti sociali assume una connotazione diversa, significativa di processi piu ampi, ugualmente ambigui ma meno circoscritti, i quali esprimono interro­ gazioni legate piu direttamente e profondamente alla sfera simbolica di definizione dell’ordine sociale. Aprile dell’84 rivela la diffusione e l’incidenza delle azioni espressive; nei circoli magmatici della rivolta emergono azioni di tipo distruttivo orientate ad intervenire, « annullandoli », sui luoghi e sulle forme piu visibili del potere sociale e politico. Incendi di auto, assalti ai supermercati e alle banche, com­ pongono sequenze nelle quali la dimensione strumentale si presenta ridotta rispetto a quella espressiva e simbolica. L’appropriazione spasmodica di beni materiali sembra svolgere un ruolo determinante, in realtà la concatenazione e il senso delle azioni le connotano come un’esplosione di sentimenti occulti e di necessità sotterrate, una « sfida » al potere, « all’altro », che attrae e nello stesso tempo esclude. La profondità delle frustrazioni e la passività quotidiana generano il « livello oscuro e anonimo » della rivolta e la logica simbolica che produce le distruzioni materiali. Di fronte ad un ordine sociale che propaganda il consumo ed esibisce la di­ seguaglianza, le masse dominicane escluse e marginalizzate si sollevano, rappre­ sentando un dramma violento e semplificato. Uno degli episodi piu significativi è costituito dall’assalto e dalla distruzione di una « funeraria » municipale. Il dispositivo materiale che subordina al potere le stesse cerimonie della morte, catalizza il furore popolare che riconosce in esso la presenza di un ordine che stabilisce gerarchie e giunge ad espropriare anche la morte. In questo caso il registro simbolico si presenta semplice, imitativo della fragilità del potere. In altre congiunture, nella messa in scena della « lotta per l’autorità simbo44 lica » l ’immaginario popolare si rivela piu complesso, svelando disponibilità e potenzialità recondite. Nell’ottobre 1985, la morte violenta di un cantante di quartiere, in circostanze oscure e in occasione di una delle tante retate indiscri­ minate con le quali gli apparati repressivi « normalizzano » le masse popolari, si converte in simbolo della dignità negata all’esistere. La dimensione morale aggrega e trasforma le resistenze in rivendicazione di giustizia, in rifiuto di un « abuso » che appare trasgredire i limiti della tollerabilità. L’istituzione piu forte della religiosità popolare, il rito funerario dei nove giorni, diviene, in modo spontaneo, la forma articolatoria delle proteste. L’accensione delle candele, che ne costituisce uno degli elementi portanti, consente la partecipazione corale, l’ano­ nimato il quale rappresenta un carattere distintivo delle azioni dirette dei movi­ menti urbani in condizioni di forte repressione. La dimensione simbolica diviene significativa della profondità del malcon­ tento e della attuale solitudine delle masse dominicane, ma anche della potenzialità insita in nuove forme di espressione politica. La morale si rivela un modo per appellarsi ad una nuova politica, collocandosi al di là — al di qua della politica attuale. La dimensione simbolica si rivela una componente importante dei movimenti sociali. Difficilmente convertibile in termini di trattative e scambio, relaziona i movimenti ad un livello più profondo di quello sociale e politico. Indice che la « lotta » si verifica intorno ai codici che strutturano il senso dell’ordine. Per questo, anche se nel presente dominicano l’immaginazione dei movimenti risulta basicamente « negativa », il rifiuto delle masse diviene il segno, come scrive Julio Cortazar in Rayuela di una « nostalgia veemente di un territorio dove la vita possa balbettarsi secondo altre bussole e altri nomi ». La « insostenibile leggerezza » della democrazia dominicana I processi dominicani manifestano una fisionomia la cui peculiarità risulta interessante per l’insieme della regione latinoamericana. Le difficoltà della de­ mocratizzazione confermano che la transizione non è un fenomeno lineare, inscritto in una sequenza irreversibile, ma che, al contrario, si tratta di un processo complesso, sinuoso, sempre esposto a distorsioni, interruzioni, regressioni. Le trasformazioni mettono in risalto l’importanza di una loro sedimentazione isti­ tuzionale che sia il supporto di una permanenza in grado di trascendere le labili variazioni del corto periodo. La sfera cultura si manifesta un momento decisivo della transizione, nella misura in cui la persistenza di antichi codici di relazioni tende a intervenire nelle nuove forme sociali e politiche, conferendole una conno­ tazione in continuità con il passato. In effetti, nella democrazia dominicana riaf­ fiorano oggi, sotto nuove modalità, le vecchie rivalità dei caudillos, le lotte ende­ miche e le trame delle lealtà personali che escludono le relazioni tra uguali. II caso dominicano segnala che in società eterogenee e variamente « in forma­ zione », come sono quelle latinoamericane, è particolarmente importante la pro­ gettazione della democrazia come processo sostenuto da una « riforma morale e intellettuale » in grado di costruire un « orizzonte di valori », consonanti con le trasformazioni politiche e sociali. Gli avvenimenti dominicani sottolineano, inoltre, come i processi nazionali interrotti producono effetti negativi sulla democratizzazione. Gli attori deboli e privi di referenti comuni ostacolano la consolidazione di scenari e di forme par­ tecipative. L’interrelazione tra costruzione della democrazia e costruzione della nazione risulta nitida; le esclusioni che limitano il senso di comunità influiscono 45 allo stesso tempo sulla stabilità e sull’espansione della democrazia. La presenza di un momento pregnante di incontro delle diversità, di un avvenimento che possa costituirsi in « mito fondatore » di una unità, definita non attraverso le esclusioni ma attraverso l’articolazione delle differenze, si rivela decisivo affinché la democrazia acquisti spessore e persistenza. In questo contesto, dominicano e latinoamericano, l’emergere dei movimenti sociali attuali diviene segno polisemia): palesa la contrazione del sistema politico nelle situazioni di incremento della coazione e l’impatto della « irritazione » sociale su sistemi politici deboli. Allo stesso tempo allude a un testo piu pro­ fondo, a una pluralità oscura e diffusa di resistenze e interrogazioni presenti nelle masse, le quali rivelano la loro disponibilità, parziale e ambigua, per una costru­ zione democratica. « Non sono i movimenti solo il prodotto della crisi, gli ultimi effetti di una società che muore. Sono al contrario il segno di ciò che sta nascen­ do » 7. Assumere questo segno come indicazione di una possibilità, e costruire l’articolazione delle masse a un senso di ordine democratico rappresenterebbe per la società dominicana un nuovo « momento di fondazione », in grado di dare fi­ nalmente peso « all’insostenibile leggerezza » della democrazia. Per la storia la­ tinoamericana costituirebbe la consolidazione di un livello di importante defi­ nizione di processi ancora « in formazione ». 7 Alberto Melucci, L'invenzione del presente, Il Mulino, Bologna 1982, p. 7. 46 Omaggio a Clément Moreau Clément Moreau è lo pseudonimo di Cari Mefjert. Né il nome né lo pseudo­ nimo possono dire tuttavia granché di Italia dove, prima d ’oggi, non era mai stata ordinata una mostra delle sue opere. Eppure, senza dubbio, e con meriti indiscu­ tibili, egli appartiene alla più eletta famiglia dei disegnatori politici e sociali eu­ ropei del ’90, una famiglia in cui incontrano Steinlen e Forain, Kàthe Kollwitz, Grosz e Masareel, Galantara e Scalarmi. Moreau, nato a Coblenza, in Germania nel 1903, vive a Zurigo. La raccolta completa delle sue immagini è custodita presso il Centro di studi sociali della città, quel medesimo Centro frequentato da Lenin al tempo del suo soggiorno svizzero, a due passi dal Caffè Terrasse, dove lo stesso Lenin, forse, ha avuto occasione di giocare a scacchi con Tristan Tzara, il fondatore del Dadaismo. Sono ormai ventiquattro anni che Moreau abita a Zurigo, ma per lui si è trat­ tato di un ritorno. Fra il ’33 e il ’33, infatti, vi aveva già vissuto illegalmente, dopo che a Basilea, per un soffio, era sfuggito al tentativo d ’arresto messo in atto dalla Gestapo. È anzi proprio a Zurigo ch’egli ha preso il nome di Moreau. La sua prima occasione di serio impegno come incisore sono le illustrazioni per il romanzo « Zement » di Gladkows, che ha per tema la sommossa di Amburgo del 1923. Si trattava di incisioni su legno, ch’egli termina tra il ’27 e il ’28. La xilografia e l’incisione su linoleum sono due tecniche, a cui resterà fedele, sia per l’efficacia di un bianco e nero essenziale, sia per la facile riproducibilità. Muovere dalla propria esperienza o dall’esperienza diretta della gente e mai da presupposti concettuali è il segreto della sua costante capacità di persuasione, della * Dal catalogo della mostra di Milano, Castello Sforzesco, 28 agosto-14 settembre 1986. 47 spontaneità e schietta forza del suo linguaggio. Con l’avvento di Hitler al potere egli non potè piu ritornare in Germania. Se ne era allontanato nel ’29 per un viag­ gio e un breve soggiorno a Parigi, da dove aveva quindi raggiunto la colonia di artisti che si era raccolta a Fontana Marina, presso Ronco, sul Lago Maggiore. Poi si era sposato a Zurigo. Qui aveva collaborato in particolare con la stampa sindacale, ma aveva anche illustrato, per la casa editrice Europa, il romanzo di Ignazio Silone, Fontamara. Ormai era Clément Moreau per sempre e con questo nome avrebbe seguitato a firmare le sue incisioni e i suoi disegni. Dalla Svizzera, dopo il tentativo d ’arresto, egli decise di ripartire. Sono gli anni dell’emigrazione di tanti intellettuali e artisti tedeschi. Moreau, con la moglie, la psicoioga Nenny Guggenheim, sbarcò in Argentina. L ’idea iniziale di raccontare delle storie attraverso una serie di immagini suc­ cessive continua ad affascinarlo. È cosi che all’uscita dell’autobiografia di Hitler Mein Kampf egli concepì di farne a modo suo le illustrazioni. Questa serrata se­ quenza antihitleriana rivelava anche il talento di Moreau come caricaturista politico, la sua capacità di trasferire nel segno e nella deformazione i termini del giudizio. Era un talento che già era apparso in piu d ’un disegno caricaturale sull’intervento italiano e tedesco in Spagna al fianco di Franco, ma le sue « illustrazioni » del­ l’autobiografia di Hitler ne ribadivano vivamente le doti. Nel corso degli anni passati in Argentina, Moreau si era legato profondamente alla realtà sociale di quella terra, ai suoi problemi, e forse non pensava più nem­ meno di ritornare in Europa. Vi restò, anche subendo vessazioni e coercizioni nel mutare delle situazioni politiche, finché gli fu possibile continuare nel suo impegno di lavoro, ne riparti solo nel ’62 in seguito al colpo di stato. Ma dal primo dopo­ guerra a questa data, la sua attività non aveva avuto sosta come dimostrano le opere ch’egli ha dedicato agli indios e alle popolazioni rurali, la sua partecipazione alle lotte democratiche di quegli anni. Mario De Micheli Introduzione alla raccolta «Argentina» In quella parte del mondo che noi definiamo in via di sviluppo, la maggior parte della gente non conosce ancora la nostra forma di comunicazione espressa in scrit­ tura e lettura. Presso di noi — nel medioevo — la raffigurazione era necessaria per narrare al popolo la bibbia; le incisioni sul legno di Albrecht Diirer erano vendute sui mer­ cati e si trovavano nelle case dei contadini. Nell’America latina questo si riscontra tuttora in molte parti. La raffigurazione è linguaggio da tutti « parlato » e compreso. I miei lavori sono fatti e destinati alla gente semplice. Clément Moreau 48 ARGENTINA 12 GRABADOS DEL NORTE Y DEL CHACO DE CLEMENT MOREAU Frontespizio della raccolta « Argentina » Suonatore di flauto. 1960 Raccolta del cotone nel Chaco, 1960 Sandino e il sandinismo La «Legione Latinoamericana» di Sandino * L’aspetto principale della solidarietà latinoamericana con Sandino trovò espres­ sione nell’arruolamento nelle sue file di alcuni volontari di paesi che egli chiamava indoispanici, cioè americani di lingua spagnola, e che costituirono la sua Legione Latinoamericana, per distinguerla fin nel nome dalla mercenaria Legione Straniera, poiché non considerava nessun latinoamericano straniero in Nicaragua. La Legione Latinoamericana non rappresentò però un corpo determinato, poi­ ché i suoi membri operarono in tempi e in zone diversi, ma fu un po’ il fiore all’occhiello dell’Esercito di Difesa della Sovranità Nazionale di Nicaragua. In essa entrarono almeno cinque messicani, un antillano, quattro sudamericani e molti centroamericani. Tra i primi figurano Guillermo Lira, José de Paredes, Andrés Garcia Salgado, Jorge Chàvez Tinoco e Alfredo Vega. Fu Paredes il piu importante tra essi, poiché -fece da segretario a Sandino e da collegamento col presidente messicano Emilio Portes Gii nel viaggio del suo capo in Messico che durò un anno, dal maggio del ’29 al maggio del ’30. In questa visita Sandino fu accompagnato anche da quattro combattenti internazionalisti: il dominicano Gregorio Urbano Gilbert, il salvadoregno Augustin Farabundo Marti, il colombiano Rubén Ardila Gomez e il peruviano Esteban Pavletich, che parteciparono — meno l’ultimo — a varie esperienze guerrigliere nelle Segovias. In una di esse fu catturato e fucilato dai marines l’unico latinoamericano che ebbe il grado di generale: Manuel Maria Girón Ruano, guatemalteco. Gli altri furono: Marti colonnello, Aponte tenente colonnello, Paredes capitano, Ardila Gomez e Gilbert tenenti. Gli altri generaTricontinental » n. 106, 4, luglio-agosto 1986. 51 li, Simeón Montoya e Simón Gonzales — originari dell’Honduras — e José Leon Diaz — di origine salvadoregna — erano considerati nicaraguensi. Lo stesso era per il generale Juan Pablo Umanzor, nato nel villaggio di frontiera di Las Manos, e il colonnello Coronado Madariaga, nato in Yuscaran (Honduras). Altri membri della Legione furono il già citato Aponte, il colombiano Alfonso Alexander — che si arruolò verso la fine — e il costaricano sergente Marciai Salas, morto come Girón Ruano. Descriviamo qui con maggiori dettagli l’apporto dei piu importanti partecipanti alla « Legione Latinoamericana » di Sandino. 1. José de Paredes Nato a Guadalajara, Jalisco, nel 1907, José de Paredes era andato a San Francisco, California, per studiare arte militare alla Scuola Politecnica mentre seguiva gli sviluppi della guerra civile nicaraguense. Quando Sandino respinse il patto Stimson-Moncada, se ne entusiasmò: « Quest’uomo sta salvando l’onore dell’America latina, bisogna essere con lui ». Prima di lasciare San Francisco scrisse un articolo per protestare contro l’epiteto di « bandito » applicato a chi lottava in difesa della sovranità del suo Paese. In viaggio per raggiungere Sandino, sbarcò ad Acajutla, E1 Salvador, dove elementi della Lega Antimperia­ lista lo indirizzarono a Froylàn Turcios, rappresentante di Sandino a Tegucigalpa, che lo accreditò per arruolarsi nell’esercito sandinista. Non trovando nessuna guida, si mise a seguire alcuni mulattieri che andavano verso la frontiera. Stava pernottando alla fattoria Ostuca, ancora in territorio honduregno, quando arrivò una pattuglia al comando di un certo generale Mondragón, agente degli invasori. Ebbe appena il tempo di nascondere fra i cespugli la cartella con la corrispondenza per Sandino. Mandragón, facendolo perquisire minuziosamente e lasciandolo sotto sorveglianza, lo avvertì che avrebbe dovuto presentarsi alle autorità nordameri­ cane. Paredes, approfittando della stanchezza dei soldati, vinti dal sonno, fuggì, raccolse la cartella e traversò a nuoto il fiume verso il territorio nicaraguense. Inoltrandosi per un buon tratto, arrivò a un rancho dove lo informarono che c’era lì intorno, curandosi una ferita, il generale sandinista Pastor Ramirez. C’erano anche i marines nei dintorni, alla caccia del sandinista Félix Olvera, raggiunto nella fuga da una raffica di mitra. « Lo soccorremmo e lo portammo con noi — riferì Paredes mesi dopo — avendo solo una ferita alla gamba. Cam­ minammo per 18 giorni nelle montagne, arrivando infine a Somoto occupata dagli yankees. Ci nascondemmo, e il mattino dopo continuammo la marcia, se­ guendo le orme fresche di mule ferrate, quando una contadina ci gridò di na­ sconderci, che c’era un’imboscata... Arrivammo all’accampamento il 25 aprile (del 1928) ». Lo stesso giorno fu ricevuto da Sandino, che lo presentò allo Stato Maggiore: « Provvedetevi di una macchina da scrivere, siete nominato segretario particolare! ». Nel luglio, agosto e settembre dello stesso anno Paredes partecipò a vari scontri e rimase ferito al polmone destro da una pallottola a frammentazione. Curato nell’ospedale di Tegucigalpa, si recava verso il gennaio del 1929 in Messico, sollecitando al presidente Emilio Portes Gii la cooperazione necessaria per il trasferimento del generale Sandino in quel paese. Tre volte si recò in Messico per questa missione, ma non la potè compiere al meglio: smarrì a Tegucigalpa alcune lettere compromettenti su quel trasferimento, che furono pubblicate dalla stampa locale. Al che inviò a Sandino questo telegramma: « Papà tienimi re52 sponsabile smarrimento documenti colpa miei ventidue anni — mortificato — José de Paredes ». Forse la colpa fu dell’inesperienza e della giovane età di Paredes, non però la colpa della mancanza di effettivo appoggio che Sandino si aspettava dal gover­ no di Portes Gii, che dichiarò di poter unicamente offrire ospitalità al guerri­ gliero, tenendolo in Messico di fatto come prigioniero di Stato. Fu così che San­ dino uscì come un clandestino e si sfogherà con lo stesso Paredes dicendo che la colpa era solo sua, esclamando: « Che furbo sono a fidarmi di un culo cacato come Paredes... ». Il messicano non fu certo un traditore. Semplicemente, il suo sforzo non potè essere coronato dal successo di una cooperazione così necessaria del suo paese con l’Esercito di Difesa della Sovranità Nazionale di Nicaragua. Ciò fu dovuto piuttosto alle méne di Mr. Marrow, ambasciatore Usa in Messico e di altre persone che si diedero da fare per bloccare Sandino e screditarlo. Paredes cercò di ritornare agli accampamenti de Las Segovias. Su suggeri­ mento del dottor Pedro José Zepeda, rappresentante di Sandino in Messico, il 7 febbraio 1931, considerava indispensabile servire da intermediario tra « lui (Zepeda) e il mio generale Sandino », secondo la lettera che in quella data inviò all’allora presidente messicano generale Plutarco Elias Calles. In essa Paredes af­ fermava di essere ispettore del dipartimento lavoro del Segretariato Industria col salario di otto pesos al giorno, che pregava gli fosse mantenuto per poter realiz­ zare la sua nuova missione nicaraguense. « Non voglio con questo — scriveva a Calles — trarre lucro o svalutare la causa che eroicamente sostiene il generale San­ dino. Capisco che sarebbe meglio chiedervi fucile e cartucce per il mio capo. Quel che mi spinge a molestarvi è che sono messicano e servo una giusta causa... ». Ed è a questa giusta causa che José de Paredes contribuì con le sue conoscenze di inglese e di topografia centroamericana, con i suoi rapporti col Messico e tutta la sua passione internazionalista. 2. Andrés Garcìa Salgado Con i suoi compagni della Scuola nazionale preparatoria Jorge Chàvez e Al­ fredo Vega, col pretesto di uno studio sulla flora e la fauna messicana Garcìa Salgado partì per il Nicaragua per combattere con Sandino. Formatosi nella tra­ dizione rivoluzionaria, condivideva il risentimento anti-yankee del suo popolo, ed aveva preso la via dell’antimperialismo incontrando gli allora dirigenti del Comitato « Giu le mani dal Nicaragua », i giovani comunisti Carlos Contreras, Vittorio Vidali e Gustavo Machado. Durante il viaggio, i soldati che li accompagnavano indovinarono dov’erano diretti, ché non erano i primi ad arruolarsi nelle file sandiniste, e li abbando­ narono. Incontrarono anche José de Paredes, che era arrivato poco prima, e per poco tempo anche Guillermo Lira, autore di alcuni corridos che rallegravano le notti di bivacco. Di lui, anni dopo, Garcìa Salgado diceva: « Dopo l’assalto alle miniere di Pis-Pis lasciò l’esercito e se ne andò. Non era granché convinto, aveva un po’ dell’avventuriero ». I messicani scesero all’hotel Union (di proprietà di un nicaraguense, certo Manuel Antonio Lacayo) dove rimasero quattro giorni senza uscire mai in attesa di un messaggio, che infine arrivò: « Uscire all’alba col capitano Claudio Blandón che torna in montagna ». Si misero in marcia per Danlì. Ricordava Garcìa Salgado nel 1975: « Il peggio venne dopo Danlì. Lasciammo la strada per sentieri che quasi si perdevano nella vegetazione. Arrivammo infine a ‘Las Champas de 53 Guillermo’, dopo venti ore di cammino, scivolando sugli aghi di pino o affon­ dando negli spessi strati di foglie forse mai calpestati dall’uomo, dove non arrivano mai i raggi del sole ». Dopo tre giorni giunsero a E1 Chipote. Il primo soldato che Garda Salgado vide era un ragazzo, José Dolores Pupiro, aiutante di Sandino che lo presentò a Agustin Farabundo Marti. Questi fu uno degli ufficiali che piu ammirò. L’altro il generale Carlos Quezada, alla cui colonna sarebbe appartenuto per parecchi mesi. Tuttavia Garcia Salgado non ricordava di aver partecipato a combattimenti importanti; le immagini che conservava della sua esperienza erano poche: la personalità del comando di Sandino, che tutti chiamavano « Il Vecchio », anche se la maggior parte erano piu vecchi di lui; l’uguaglianza nell’esercito, le azioni temerarie di alcuni soldati e ufficiali, la vita dura in montagna che gli faceva sentire saporita la carne di scimmia, e il suo ritorno al Messico. Infatti, un certo giorno del giugno 1929, Farabundo Marti gli comunicò che sarebbe tornato in patria insieme agli inseparabili Chàvez e Vega, a Rubén Ardila Gómez e Gregorio Urbano Gilbert; passò in Salvador dove avrebbe dovuto attendere il generale Francisco Estrada e il colonnello Ramon Raudales, e arrivò infine negli ultimi mesi dell’anno a Yucatan. 3. Manuel Maria Girón Ruano Ci sono tre fotografie che mostrano la forza e la decisione combattiva del piu illustre ufficiale dell’Esercito sandinista, assassinato dalle pallottole degli invasori. La prima lo presenta affiancato da due soldati, altero e sicuro di sé con il braccio destro in alto, ad angolo retto, che tiene il bastone di comando; ha il sombrero, il fazzoletto rosso-nero, pistola, stivali e uniforme, in tutto corri­ spondente a un militare di formazione accademica, caso unico tra i suoi compagni se si eccettua il generale Juan Santos Morales, di Somoto Grande, uscito dalla Accademia istituita dal governo di José Santos Zelaya. Di nazionalità guatemalteca, Girón Ruano aveva studiato al Politecnico del suo paese e all’Università in Potsdam in Germania. Già governatore del Petén, raggiunse il grado di colonnello prima di sposare la causa nicaraguense e di porsi agli ordini di Sandino. Fu il primo dei latinoamericani a seguire i nobili passi dell’Esercito degli Uomini Liberi inquadrato da Sandino, lasciando moglie e figli, azienda e comodità dello status militare per trasformarsi in un soldato in piu dell’esercito. Ma la sua innata nobiltà e valentia lo resero amato e rispettato. Raggiunge il grado di generale di divisione. Non sappiamo quando arrivò agli accampamenti segoviani. Ma già nel marzo 1928, mentre comandava la marcia verso la regione mineraria di Pis-Pis, aveva avuto precedenti esperienze di fuoco, cosicché non gli risultò difficile la presa delle miniere nordamericane di La Luz e Los Angeles e la successiva occupazione di Bonanza. Cefto, quale dignitoso militare era tormentato dalle inclemenze della guerra. Racconta Gustavo Machado che la distinzione e la raffinatezza di Girón Ruano contrastava con i comporta­ menti degli altri. « Non potendo mettersi nelle imboscate senza avere tabacco — ha scritto il venezuelano — mi diceva: guarda dottore, trovami un po’ di tabacco, qui sono tutti pieni di Chesterfield. Allora andavo in giro a chiedere sigarette. ‘No, se tu non fumi’, mi rispondevano. È per il generale, gli dicevo. Fra cosi che il generale, per il suo carattere accademico e la sua raffinata educa­ zione, aveva la vita un poco dura ». Da parte sua, Sandino riferisce che Girón Ruano si ammalò gravemente di paludismo e chiese il permesso di andarsi a curare in Guatemala, circostanza in 54 cui fu fatto prigioniero. « Concessogli il permesso — confermò José Roman nel 1933 — in abiti civili e disarmato, in direzione di Leon, passando vicino la miniera di San Albino, all’attraversare un fiumiciattolo, gli furono addosso di sorpresa otto marines al comando di un tenente, certo Hanneken. Questi non volle responsabilità e lo consegnò a un merdoso mercenario messicano, detto Escamilla ». E cosi fu. Esiste una seconda foto nella quale Girón Ruano appare in­ catenato dall’omero sinistro al piede destro, col sombrero tenuto nella mano destra in posizione verticale, tranquillo, con lo sguardo impassibile, come pensasse: « a guardar bene, la vita e la guerriglia sono la stessa cosa. Nell’una e nell’altra l’imboscata, l’incertezza, il ‘non sapere’ se passeremo la notte, se arriveremo al prossimo minuto ». In una interpretazione poetica di questa foto, Salvador Murillo rileva la spa­ valda rassegnazione del volto di Girón Ruano e descrive la sua cattura: « ...stanco e malato / mi svegliai quando la pattuglia mi diede l’alt. / Da quel momento, fino al consiglio di guerra, in un / aranceto / in vista del Chipote / seppi quel che sarebbe venuto ». Detta foto fu inclusa in un libro dal sottotitolo II Calvario delle Segovias, con la spiegazione che le catene del soggetto erano dovute alla necessità di detenerlo « quando per reati comuni fu recluso nel penitenziario di Guatemala ». Anche questa era una menzogna: lo denuncia non solo lo sfondo della foto, tipico di una città del Nicaragua del Nord, ma anche una copia della stessa foto, trovata nell’archivio dei marines con questa scritta a mano: General Girón captured by Lieut. Hanneken’s Patrol. E la terza foto di cui dicevamo, proveniente anch’essa dall’archivio dei marines, conferma l’orgoglioso comportamento del guatemalteco a un passo fucilazione, addosso ad un alto muro, ordinata dal merdoso mercenario che gli chiese se voleva dire qualcosa prima di morire. « No, figlio di puttana », rispose. Cosi fini questo generale sandinista che offri tutto il suo sapere al Nicaragua — ad esempio, parlava alla perfezione cinque lingue — e la cui memoria era venerata dai suoi compagni d’arme e dallo stesso generale Sandino, che si preoccupò dell’educazione dei suoi figli e della raccolta delle sue memorie. In tal senso dispose, a Mérida (Yucatan) che si raccogliesse tutta la corrispondenza esistente nell’archivio dell’Esercito Difensore e che venisse inviata alla vedova di Girón Ruano, il che fu poi effettivamente fatto, « perché la conservasse come ricordo del glorioso compagno, eroe e martire, che si è dato anima e corpo alla causa della libertà dell’America ». Così ha lasciato scritto Gregorio Urbano Gilbert nell’opera Insieme a Sandino. Dice ancora Gilbert che Sandino, appresa la fine di Girón Ruano, commentò: « Non solo la causa liberatrice del Nicaragua ma tutto il Centroamerica ha perso un grand’uomo ». E nel libro dettato a José Roman disse ancora: « Di tutti i caduti del nostro Esercito è stato quello il cui nome veniva maggiormente percepito, non solo tra i suoi soldati e ufficiali. Quando avrò finito di organizzare la Cooperativa e avrò un po’ di tempo per le mie cose personali, ho in mente di prendere le misure necessarie perché i figli del generale Girón Ruano vengano educati per mio conto, così come avrebbe fatto il loro padre ». 4. Esteban Pavletich Dei membri latinoamericani dell’Esercito di Sandino, solo Gustavo Machado e Esteban Pavletich — che fecero insieme il viaggio da Tegucigalpa alle Se­ govias — arrivarono a legarsi, 40 anni piu tardi, alla lotta del popolo nicara­ guense guidata dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Come? Per mezzo 55 del comandante in capo Carlos Fonseca che contattò Pavletich a Lima nel 1970 e gli affidò la rappresentanza del Fsln nel Peru. Da allora Pavletich riprese i contatti con quel movimento che lo aveva attratto e tanto lo entusiasmò in gioventù, tra i 20 e i 30 anni. Nato a Huànaco nel 1906, arrivò sulle nostre montagne verso la metà del 1928. Già il 13 e 14 maggio di quell’anno era infatti allo Stato Maggiore dell’Esercito Difensore della So­ vranità Nazionale da dove seguì gli effetti dei combattimenti sostenuti nelle due date e che significarono per fui, come scriverà il mese seguente, « la con­ ferma evidente che la violenza posta, al servizio della giustizia, anche se esercitata da un pugno di uomini, è piu efficace della violenza organizzata e ricca di tecnica militare posta al servizio della schiavizzazione e della conquista ». Fin da allora Pavletich lavorava senza posa per raccogliere le sue impressioni in un libro, Sandino, la cui elaborazione continuò sempre (si ha notizia che i comandanti Tomàs Borge e Henry Ruiz ne conoscessero alcune pagine iniziali). Forse le vicissitudini della sua militanza rivoluzionaria gli impedirono un compito così promettente. Pavletich aveva seguito i corsi delle due università di Lima, la San Marco e la Cattolica ed era un valente giornalista, collaboratore di « Amauta » — la rivista di José Carlos Mariàtegui — e autore di un paio di saggi: Il messaggio del Messico (1924) e Autopsia di Huànaco (1928). Della sua esperienza nicaraguense rimangono solo un paio di lettere, una datata l’8 giugno 1928 e l’altra di alcuni giorni prima, in cui comunica a Joaquin Garcia Monge — direttore del « Repertorio Americano » e membro del Comitato « Pro Sandino » di San José di Costarica — la sua decisione di arruolarsi nelle file di Sandino. In un pa­ ragrafo della seconda lettera si legge: « Se la dritta figura del generale Sandino è arrivata ad affermarsi nell’effervescente panorama dell’America latina, a dispetto della tendenziosità delle fonti di informazione al servizio dell’imperialismo, qui, al suo fianco, cresce e si rafforza la convinzione che la nuova generazione del continente ha prodotto il suo primo grande realizzatore e quella centroamericana il suo piu alto Capo... ». E continua il peruviano: « In Nicaragua, qui nella Nuova Segovia (sic!) si sta dando col fucile e il machete filo da torcere all’arrogante insolenza del­ l’esercito piu potente del mondo... ». Di ciò purtroppo Pavletich, malgrado la sua vena poetica ed i successivi sforzi di scrittore, non ci ha lasciato testimonianza. La prima, la proiettò nei suoi Sei poemi della Rivoluzione, pubblicati nel 1928, e i secondi nel suo saggio biografico Leoncio Prado, una vita al servizio della libertà (1939), la novella Strano caso di amore (1954) e in altri titoli di carattere letterario: I morti non si suicidano (1957), Tre racconti (1959), e Rivelazione di Kotosh (1964). Otto mesi Pavletich è stato con Sandino come aiutante in affari di ufficio, maggio ’28-gennaio ’29, quando andò in Messico a. far parte della commissione che avrebbe dovuto aspettare il generale in quel paese, e da dove sarebbe uscito deportato nel 1930 con Augustin Farabundo Marti. Era questa la quinta depor­ tazione del giovane rivoluzionario: la prima nel 1925, a 19 anni, dal Peni a Panama, ordinata dal dittatore Leguìa; poco dopo sperimentava la seconda, da Panama al Guatemala; poi la terza da Guatemala a Cuba e la quarta, nel 1927, da Cuba al Messico. « In quello stesso anno — dichiarò a « Barricada » il 1° aprile 1980, nel suo unico soggiorno nel Nicaragua libero — Sandino si era già pronunciato contro gli invasori yankees, e si era già verificato il primo scontro delle forze di liberazione in Ocotal... Allora traversai Guatemala, E1 Salvador e gran parte dell’Honduras a piedi per entrare infine in Nicaragua da Jalapa ed arruolarmi nella 56 lotta... ». Si arruolò, ma non ebbe la sorte di partecipare a qualche combattimento. Forse è per questo che non ricordava molto della campagna sandinista. Nel­ l’occasione dell’intervista a « Barricada » riportò un aneddoto singolare: che il valoroso generale Carlos Salgado, il piu vecchio degli ufficiali sandinisti, aveva una faccia identica a quella del pellerossa ritratto sul dollaro dell’epoca. Questa scarsa memoria di Pavletich e l’eterna attesa del suo libro su Sandino furono compensate dalla sua partecipazione al folgorante trionfo della Rivoluzione come presidente del Comitato peruviano di solidarietà col Nicaragua. 5. Gustavo Machado Il venezuelano Gustavo Machado arrivò agli accampamenti delle Segovias inviato da un comitato di solidarietà, tra i molti che fecero causa comune con Sandino. In rappresentanza di « Giù le Mani dal Nicaragua » (Mafuenic) sta­ bilito in Messico, portava l’appoggio morale e finanziario di un gruppo di la­ tinoamericani che, in nome dei loro popoli, rappresentavano la coscienza conti­ nentale sviluppatasi sull’esempio del Nicaragua che aveva in Sandino il suo migliore e più grande figlio. « Qualunque sia il risultato della lotta, il Nicaragua ha tracciato la via che dovranno seguire i nostri popoli se vorranno liberarsi dall’aggressione imperialista », scriveva Machado dal Chipotazo il 19 aprile del 1928 ai suoi compagni dell’Unione Operaia Venezuelana che agiva a Brooklyn, N.Y. A quella data erano sette giorni che Machado era arrivato alle Segovias come presunto ambasciatore culturale del folclore messicano, superando le molte dif­ ficoltà a Tegucigalpa e alla frontiera honduregna vigilata da Malacate, feroce militare che impediva il passaggio ai sospetti di sandinismo. « Il viaggio fu penosissimo — riferisce ai suoi compagni del Mafuenic, tra i quali i pittori Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, l’intellettuale Jesùs Silva Herzog e il leader comunista cubano Julio Antonio Mella — , nove giorni di cammino notte e giorno. Arrivati alla frontiera ci imbattemmo nel pericolo degli aerei militari che lanciavano in continuazione bombe e scariche di mi­ traglia su qualsiasi cosa si muoveva che non fosse identificata... ». E aggiungeva, impressionato dall’orrendo spettacolo dato dalle nuovissime macchine volanti: « Se aveste visto il terrore col quale ci ricevevano i rari abitanti che incontravamo nel cammino, le grida spaventate delle donne al vederci da lontano confondendoci con i gringos per i nostri vestiti, se aveste sentito il rumore delle mitragliatrici e delle bombe, dei motori degli aerei di morte che spandevano terrore in tutta la montagna, se aveste visto quella gente perseguitata, cacciata come bestie feroci, con accanimento selvaggio... ». I primi generali a ricevere Machado furono Francisco Estrada e Juan Gre­ gorio Colindres, che lo portarono dove stava Sandino. La stessa notte del suo arrivo parlò con lui. « Sandino dava un senso di sicurezza assoluta — ricorderà 50 anni più tardi — era convinto della sua missione, non per vanagloria o costrizione ma per una profonda intuizione. ‘Io ho una forza che debbo co­ municare al mio esercito’, mi diceva ». E rimasero insieme molte ore, parlando di teoria di guerriglia. « Era di un’intelligenza prodigiosa, imbevuto delle idee della lotta di classe e della rivoluzione sociale che si erano espresse in Messico. Non era uomo da ripetere vuote frasi, ma che applicava le sue teorie quando si spargeva il terrore e la disperazione come accadeva quando si udiva il rumore del calabrone degli aerei venuti a bombardare quella povera gente ». Nei cinque mesi che passò agli ordini di Sandino il giovane guerrigliero 57 comunista si accompagnò con Carlos Aponte, altro venezuelano, conobbe l ’efficacia dello spionaggio dei miskitos e la volante Cavalleria Morazànica, lo slancio di Teresa Villatoro e le sue compagne, l’unità e la convinta fraternità di idee di ufficiali e soldati. Come premio alla sua solidarietà militante, dopo un mese dal suo arrivo ricevette una bandiera a stelle e strisce catturata nel famoso scontro di E1 Zapote, il 14 maggio del ’28. Gliela consegnò lo stesso Sandino scrivendovi di suo pugno queste parole: « Questa bandiera, strappata alle file yanquis, la destino al Comitato Manos Fuera de Nicaragua in Messico, affidando a questa sacra consegna l ’espressione del nostro gradimento e fiducia per le sue attività in favore del Nicaragua, del Centroamerica e dell’America latina. Questa bandiera è stata strappata alla 47a Compagnia, II Reggimento del Corpo dei Marines degli Stati Uniti nel combattimento di E1 Zapote, il 14 maggio 1928. E1 Chipotón, 23-5-1928 ». Machado stette con Sandino fino alla fine di ottobre, inviando per mezzo di suo fratello Eduardo rapporti dettagliati al Mafuenic sulla lotta e i crimini degli invasori « dalle montagne del Nicaragua colme di tragedia e di eroismo », come si esprimeva in una lettera pubblicata sul « Repertorio Americano » di San José di Costarica. Venne poi il trasferimento della bandiera: tutto un pe­ ricoloso percorso portandola incrociata sul petto, sotto la camicia, dalle Segovias fino alla capitale messicana. Li fu presentata in una riunione speciale del Mafuenic, dispiegata al Congresso del Messico da Hernandez Laborde e portata da Machado a Nuova York al Centro dei sindacati antimperialisti. « Quando la polizia seppe che chi la portava era il nostro capo rivoluzionario Gustavo Machado — scrisse la venezuelana Ana Mercedes Pérez — disperse la folla con bombe e spari. Più tardi il grande Diego Rivera la porterà in gran segreto al Congresso antimpe­ rialista di Francoforte. Al momento della consegna si seppe che Gustavo stava portando a Curasao l’assalto al Forte Amsterdam, fatto che scosse tutta l’America. Era l’8 giugno 1929 ». La presa del forte coloniale di Curasao — con l’obiettivo di impadronirsi di armi per invadere il Venezuela ed abbattere la tirannia di Juan Vicente Gómez — fu la prova più alta della militanza di Machado, che nel 1925 aveva contribuito all’organizzazione del Partito comunista di Cuba e sofferto prigione e tortura in Venezuela per le sue attività studentesche. All’uscita dal carcere si era accresciuta la sua coscienza e decisione rivoluzionaria, che lo spinse a dare il via ad una campagna di solidarietà con la resistenza sandinista. Lo si vide nelle pubbliche piazze e in assemblee popolari a Tampico, Veracruz, Guadalajara e Città del Messico. Armando Amador ha ricordato una riunione del Movimento Rivolu­ zionario Venezuelano il 30 agosto 1929 in cui Julio Antonio Mella disse del­ l’animatore di quella campagna: « Gustavo Machado ha rappresen'tato in Messico Sandino nel periodo più splendido e clamoroso dell’impresa del Guerrigliero Nicaraguense ». 6. Ruben Ardila Gómez Poco si sa di Rubén Ardila Gómez, uno dei primi giovani latinoamericani entrati nelle file dell’Esercito Difensore, nel quale ottenne il grado di tenente. Nato a Zapatoca, Colombia, figlio di un ricco proprietario e allievo in un collegio di gesuiti, era studente universitario quando decise di intraprendere il viaggio per il Nicaragua, al corrente del movimento libertario di Sandino, col pro­ posito di collaborare con lui. Sbarcò a Corinto, occupata dalle forze d ’invasione, alla fine del 1927 e astutamente regolarizzò i suoi documenti per poter penetrare 58 all’interno del paese e arrivare cosi nel teatro delle operazioni di guerriglia. Attraversando il campo nemico fu catturato da una pattuglia della colonna sandinista del colonnello Coronado Madariaga. Portato immediatamente al Quartier Generale, ebbe la malasorte di risultare antipatico ad un altro sudamericano, che lo accusò di essere venuto per assassinare Sandino. A tale accusa contribuì il fatto che aveva un permesso per il ritorno e un salvacondotto, ambedue firmati dalle autorità occupanti. Fu per questo sul punto di essere fucilato. Ma il Generale gli dette l ’opportunità di riscattarsi, sottoponendolo alle piu dure prove e le missioni piu difficili e pericolose. Cosi Ardila Gómez dimostrò quel che era: un leale e valoroso cavaliere tanto in guerra come in pace. A tal punto arrivò la sua nobiltà che il Generale lo incorporò nel suo Stato Maggiore e arrivò a professargli il piu sincero degli affetti. Purtroppo non ci $ono documenti che attestino quanto detto. In tal senso, corre l’obbligo di credere che fu lui « il giovane colombiano che venne espressamente da Bogotà al mio accampamento », secondo la dichiarazione raccolta da Salvador Calderon Ramirez nel suo Ultimi giorni di Sandino. In quel testo viene evidenziata l’azione didattica che il colombiano sviluppò tra gli eroi delle Segovie, che cercò di elevare culturalmente, a cominciare da quel grande autodidatta che fu Sandino. Questi, secondo la trascrizione di Calderon Ramirez, ebbe a dire, alludendo a una grammatica rilegata in tela scarlatta e al lavoro fatto sotto la guida del padrone di quel libro, che altri non era se non Ardila Gómez: « Questo libricino me lo ha dato un giovane colombiano che è venuto espressamente da Bogotà al mio ac­ campamento. La notte, rischiarati dalla luce e la fragranza di fuochi di pino, si impegnava a darmi lezione di grammatica. Le regole mi entravano dall’orecchio destro e uscivano dal sinistro. Per contro, le righe che mi dettava e poi mi correggeva con pazienza benedettina, aumentavano la mia lista di voci castigliane. Non ho mai conosciuto un colombiano scarso di comprendonio — continuò Sandino — ; questa razza è dotata di intelligenza agile, e sono veri patrioti. Quel giovane cachaco fino al tocco della mezzanotte mi impartiva i suoi inse­ gnamenti, spruzzandoli di arguzie e ingenerosità appoggiate dalla recitazione di versi e barzellette. Una notte, passeggiando sotto i pini profumati, cominciò a recitare la Marcia Trionfale, e dava alle Rime di Dario tale forza, intonazione e colorito che mi commossi ed entusiasmai... In altra occasione, accarezzati dai raggi della luna piena, risvegliò nell’anima mia una emozione estetica profonda recitando il Notturno di Silva, raccontandomi poi la vita e la morte del tormen­ tato poeta colombiano. Fece si che imparassi a memoria L ’idillio eterno di Flórez: cosi sopportavamo il peso delle ore, tra pollottole e versi. Mi dettava aneddoti curiosi su Bolivar, e i miei compiti scolastici si riducevano a scrivere una paginetta al giorno. Lui leggeva e mi segnava gli errori ». Le conoscenze letterarie, unite alla lettura del Don Chisciotte e alla recita­ zione di ampi paragrafi di quest’opera, Sandino le doveva pertanto a Ardila Gómez, del quale non sappiamo di piu, salvo che accompagnò il Capo politico­ militare, suo discepolo intellettuale, nel viaggio in Messico. In due foto di quel viaggio, riprese a Mérida (Yucatan), egli appare in abiti civili, con giacca e cravattino, mostrando la sua eleganza di persona distinta. 7. Carlos Aponte Hernandez Se Gustavo Machado lottò per il suo Venezuela e conobbe da vicino i soldati liberatori di Sandino, ci fu un altro figlio di questo popolo fratello che li raggiunse, Carlos Aponte Hernandez. Innamorato della geografia americana, 59 « forte, dalle ampie spalle poderose, occhi d ’acciaio e bocca sorridente », questo inquieto viaggiatore-guerriero — come lo descrive l’ecuadoriano Augusto Arias — mori a Matanzas, Cuba, per la causa rivoluzionaria dell’isola, dove viene giusta­ mente venerato. Era però in Nicaragua che aveva avuto la sua prima prova del fuoco... Era nato a Caracas il 2 novembre del 1900 e aveva studiato nel Collegio Muno Esteban della parrocchia di Altagracia e al Liceo Luis Spelucfn, dove conobbe Gustavo Machado. A 17 anni prese le armi per seguire il generale Emiliano Arévalo Cederlo, insorto contro la dittatura di Juan Vicente Gómez. Anche suo fratello Elias aveva partecipato a quel Movimento. Quando questo venne soffocato Elias fu liberato grazie a un’amnistia che gli procurò uno zio militare. Questi riuscì a far ingaggiare Elias come marinaio su una nave che andava all’Avana. In quel momento Carlos ebbe un forte « alterco » con un alto fun­ zionario, tanto grave che suo fratello gli cedette il posto. Era il 1924. All’Avana Aponte Hernandez condivideva l’esilio con altri ve­ nezuelani. Solevano riunirsi alla Cueva Roja, dove si redigeva la rivista « Ve­ nezuela Libero ». Fu li che si legò ai rivoluzionari cubani Julio Antonio Mella e Rubén Martinez Villena, che lo prepararono ideologicamente per orientare la sua naturale valentia di lottatore al servizio delle cause giuste, come quella di Sandino in Nicaragua. Trasferitosi in Messico per le persecuzioni del dittatore cubano Gerardo Machado, raggiunse il Comitato Mafuenic che nella capitale azteca, nel gennaio 1928, cominciava ad agitare il tema della solidarietà con la resistenza sandinista. Ma egli voleva partecipare direttamente alla lotta. Cosi fece parte per undici mesi, dal 16 marzo 1928 al 1° febbraio 1929, dell’Esercito Difensore. Lo stesso Sandino, in un attestato scritto di suo pugno, dichiarò che Aponte Hernandez si era distinto « in molti combattimenti della nostra cam­ pagna liberatrice ». In uno di questi liberò dal campo nemico il compagno José Castillo, usando efficacemente la mitragliartice; in un altro, con rapida de­ cisione, salvò la truppa dal disastro di un bombardamento. Una volta fu scoperta una congiura intercettando una lettera. Si scopri un piano per mettere in trappola Sandino e tutto lo Stato Maggiore, compreso il generale Salgado. Quando la notizia arrivò all’accampamento, il complice del complotto era fuggito. Sandino chiamò Aponte e gli ordinò: « Vai, prendi alcuni uomini e cat­ turalo ». Aponte rispose: « No generale, meglio da solo ». Tab/ era il valore del venezuelano che il 5 novembre 1928 riceverà da Sandino la nomina a tenente colonnello « per la maggiore efficienza della nostra organizzazione di combatti­ mento contro l’invasione yanquee in Nicaragua ». Dopo questa prima nomina ne ebbe una seconda: quella di secondo e aiutante di campo del capo supremo. Lasciamo allo stesso Aponte, appena arrivato alle Segovias, raccontare uno degli aspetti della lotta antimperialista: in una lettera del 22 marzo 1928 — unico suo manoscritto conservato — narra ai membri del Mafuenic in Messico: « A soli tre giorni dal mio arrivo, il generale mi disse il motivo della sua permanenza in un luogo chiamato San Pedro, vicino al villaggio di Murra; era un posto ideale per una imboscata strategica agli aerei ed ho avuto l’opportunità di assistere alla caccia di quegli uccelli infernali ». E aggiunge: « Alle due del pomeriggio del giorno dopo si presentò in ricognizione il primo aereo. Uno degli artiglieri, il colonnello Quintero, gli diede dentro come solo può farlo qualcuno che sta compiendo il sacro dovere per la libertà della patria oltraggiata. Ci ren­ demmo subito conto che non gli era andata troppo bene all’aereo, ché si diede ad una ritirata impressionante. Il giorno dopo verso le dicci del mattino ne arrivarono altri due e cominciarono ad annaffiare bombe e fuoco di mitraglia, e subito la nostra artiglieria entrò in azione per un’ora e mezzo. 60 « All’una e mezzo erano di ritorno e ricominciò la lotta. Alle tre si riti­ rarono e ritornarono verso le quattro, e si ricominciò di nuovo. In quest’altro scontro ci rendemmo perfettamente conto che gli artiglieri avevano centrato l’obiettivo: non ebbero altra possibilità che di atterrare, ma ridotti ad un ammasso di ferraglia. Alle cinque e mezzo ne vennero altri due, coll’intenzione di di­ struggerci, ma abusarono troppo ed ebbero il loro conto con ricca mancia. Alle sei e tre quarti si ritirarono, avendo il Generale tempestivamente ordinato lo sfollamento della gente. Il giorno dopo, 21 marzo, Sandino ordinò la marcia dell’Esercito Liberatore verso il Chipotón, avendo cura di lasciare sempre una retroguardia, perché eravamo informati che il nemico era arrivato la notte prima al villaggio di Murra... ». In quel reportage Carlos Aponte Hernandez denunciò uno dei primi genocidi d’America latina perpetrati dal cielo: « Dopo tre ore di ricognizione, le mac­ chine infernali bombardarono a tappeto le case dei contadini indifesi, uccidendo donne e bambini come succede sempre in questi casi: lo spirito di distruzione e di malvagità è l’unica bandiera di pace e progresso che portano (gli imperia­ listi, n.d.r.) nella nostra disgraziata America. Non si può immaginare fin dove arriva la malvagità e la sete di sangue innocente di questi usurpatori del diritto e della libertà dei popoli deboli come questo, che non aspira ad altro se non ad una pace sicura, che protegga l’operaio e il contadino, che tanto la meritano ». Dunque, il 1° febbraio 1929 Aponte Hernandez si congedò dall’Esercito Liberatore « per contribuire cosi alla causa dell’America latina », d ’accordo col generale Sandino. In realtà fin dal 28 settembre dell’anno precedente era stato chiamato dal suo compatriota Gustavo Machado per portare la lotta rivolu­ zionaria in Venezuela. E Sandino, sapendo che era « tutto anima e lottatore sincero », lo mise in libertà dando cosi ad Aponte Hernandez, dai campi segoviani, la spinta verso nuove vie di lotta, che passeranno per Curasao e Messico, Perù e Ecuador, arrivando a Cuba, a fianco del rivoluzionario Antonio Guiteras. 8. Gregorio Urbano Gilbert Gregorio Urbano Gilbert fu l’unico dei luogotenenti di Sandino a rappre­ sentare nella Legione Latinoamericana l’America indolatina antillana. Nato il 25 maggio 1899 a Puerto Piata, Repubblica Dominicana, presto si trasferì a San Pedro Macorìs, dove lavorerà come tipografo. Allo sbarco delle truppe yanquis che occuparono il suo paese fino al 1924, Gilbert .vi fece fronte solo e armato di un piccolo revolver ferendo a morte un ufficiale del Corpo dei Marines. Ciò avvenne nel gennaio 1917, ma quell’azione lo avrebbe marcato per sempre: fuggitivo, si unì ai guerriglieri che resistevano all’invasore. Cadde infine prigioniero e, processato, fu condannato a morte. Tuttavia sopravvenne un indulto — si trovava nella fortezza di Ozama — che il 2 ottobre del 1922 gli prolungò la vita, spesa poi nelle convinzioni di conseguente combattente antimperialista. Dopo viaggi a Curasao e Cuba, tornò in patria nel 1927, unen­ dosi a Pedro Albizu Campos nella campagna per l’indipendenza di Portorico. L’anno seguente, non potendo unirsi ai patrioti che si confrontavano ad Haiti con gli invasori nordamericani, decise di entrare nell’Esercito Liberatore di Sandino. Furono 386 i giorni — come Gilbert stesso calcolò — trascorsi in esso, fuori della Repubblica Dominicana. Il libro in cui egli narrò la sua esperienza ha per titolo originale Un anno insieme a Sandino anche se poi fu pubblicato col più umile Insieme a Sandino. Come dice il suo prefatore, « è un vero pezzo 61 di vita, una testimonianza ammirevole e fedele, non l’opera di un erudito... ». Infatti, questo figlio del popolo dominicano ci ha lasciato un libro di emozio­ nante semplicità umana e linguistica, specchio della fibra eroica e avventurosa dei suoi 29 anni; solo più tardi, già cinquantenario, si laureò in Filosofia e Lettere all’Università autonoma di Santo Domingo rispettivamente nel 1954-56. Tale impresa appare in tutta la sua dimensione se si tiene conto che Gilbert era durante la dittatura trujillista un semplice garzone di fornaio. Per questo suo com­ patriota il poeta Màximo Avilés scrisse in « È morto un eroe alla vigilia di San Andrés »: Gregorio Urbano, doppio nome di Papa / con doppia mitra per le terre d ’America / e doppiamente valente guerrigliero, / scendeva coperto di legno, sospeso a terrose corde, / crudamente solo nel triste, scuro / falso mogano tinto di mogano / venduto malinconicamente per mogano, / senza tamburi né bandiere / nella castana terra del suo amore. / Su che riposerà, in questo chiaro mattino e per sempre, / la sua testa calva, nazzarena, per tanti anni lungamente pensie­ rosa? / Chissà già vecchia testa, appisolata / col sombrero di uomo che divide il pane e le monetine tra i poveri. / Triste sonno del vecchio vinto dal Tempo / Momentaneo, Guerrigliero! / Doppio tiarato, Papa di protesta e di Pane! / morto pensando che il cibo fiorisce spontaneo / sotto tutti gli alberi del mondo. C e qui un riassunto poetico di questo soldato latinoamericano, il cui apporto nicaraguense raggiunse un rango di alta classe: secondo aiutante del Comando Supremo nella campagna delle truppe liberatrici di Sandino. Fu proprio questo che ha lasciato Gilbert nel suo libro: la memoria della campagna sandinista contro i marines, risuonante delle vibrazioni del machete nell’aprirsi il varco attraverso le montagne, del racconto degli ordini di Sandino per rompere l’accerchiamento nemico; di scimmie, armadilli e altri animali mangiati con banane verdi; dei « fiori del Chipote », i razzi antiaerei, e della « Chula », il cannone contraereo; di attacchi e ritirate. Riferiamo qui in dettaglio sulla presenza di Gilbert in Nica­ ragua. Arrivato a Tegucigalpa all’alba del 15 settembre 1928 dopo una lunga traversata atlantica da Puerto Castilla, prese contatto con Froylàn Turcios, che 10 ospiterà prima all’Hotel Roma e poi all’Unión — proprietà di un simpatizzante e collaboratore di Sandino — dove conobbe il messicano José de Paredes che stava riprendendosi da una ferita al polmone avuta in combattimento. Cosi prese 11 cammino verso le Segovias, alle tre del mattino del 28 settembre. Nel tragitto, Gilbert e il corriere di Sandino — che tornava ogni quindici giorni dalla capitale dell’Honduras — furono accompagnati da uno sfacciato e codardo commerciante, passarono poi nel villaggio di San Rafael dove gli abitanti si davano da fare con pezzettini d ’argento, contrattarono un chan (guida) e arrivarono dove era Sandino, sotto una pioggia torrenziale, la notte del 13 ottobre. A partire da quella data, il dominicano divenne membro attivo dell’Esercito Difensore della Sovranità Nazionale del Nicaragua: firmò il suo ingaggio e partecipò a vari com­ battimenti; per questo fu promosso a tenente e aiutante della segreteria del Generale, partecipando anche alle deliberazioni dello Stato Maggiore. Nell’aprile del 1929 Gilbert si recava a Tegucigalpa con Teresa Villatoro su incarico di Sandino, per incontrare Rubén Ardila Gómez che aveva il compito di distribuire alle ambasciate di tutti i paesi americani la proposta di Sandino di convocare una conferenza a Buenos Aires. Nel maggio si uni ad altri compagni per seguire il capo supremo nel suo viaggio in Messico. Interessante è la testi­ monianza di Gilbert su questo episodio. Nel suo libro riferisce anche su alcuni episodi sconosciuti che avevano coinvolto membri della Legione Latinoamericana, come l’affrontamento armato del generale Manuel Maria Girón Ruano col tra­ ditore Sequeira, che rimase ucciso, o quello di Aponte Hernandez con il disertore 62 Porfirio Sanchez. Infine, dopo le peripezie messicane, si congedò a Mérida da Sandino, che gli dette 50 pesos e gli procurò dal governatore dello Stato un passaggio su una nave della Ward Line. Partito uno degli ultimi giorni di agosto del 1929, dopo uno scalo all’Avana, arrivò a Santo Domingo il 16 settembre. Mori 40 anni piu tardi in questa città, il 16 settembre 1970. 9. Agustin Farabundo Marti Una mattina del settembre 1928, mentre l’aviazione nordamericana stava bom­ bardando le posizioni del Quartier Generale sandinista, Agustin Farabundo Marti, che stava lavorando alla macchina da scrivere, esclamò: « Se non si può scrivere la storia dei popoli con la penna, si deve scriverla col fucile », e subito prese il suo per partecipare al nutrito fuoco di fucileria contro l’attacco aereo ai patrioti sandinisti, nelle cui file si era arruolato il 22 giugno di quell’anno. Dopo questa data, Farabundo Marti partecipò a molte azioni di fuoco, come testimonia il generale Carlos Quezada, pur facendo da segretario privato a Sandino. E ne era all’altezza: nato a Teotepeque, dipartimento di La Libertad, nel Salvador, aveva accumulato grande esperienza politica e una formazione superiore a quella di molti suoi coetanei centroamericani. Figlio di proprietari terrieri, raggiunta la maturità classica con i salesiani nel 1913, studente di talento in Diritto a San Salvador e lettore in francese di let­ teratura marxista, nel 1920 la sua denuncia con alcuni studenti guatemaltechi del regime di Manuel Estrada Cabrera in Guatemala (1898-1920) gli costerà feroci persecuzioni. Non solo per questo, ma anche per la sua attività di militante proletario. Vedasi in proposito la nota pubblicata su un giornale di Managua: « Già è nota la lunga persecuzione di cui fu vittima Marti al tempo dell’amministrazione di Jorge Meléndez. Passò molte volte clandestinamente la frontiera, vivendo nei cimiteri, dove lo raggiungevano gli adepti alla sua causa. Il presidente Meléndez 10 prese per bolscevico. Le persecuzioni per lui non ebbero limiti: sfuggiva abil­ mente alla vigilanza della polizia per fare conferenze notturne a gruppi di operai, che ascoltavano con profitto le sue parole ». Farabundo Marti, prima che Meléndez (1919-1923) lasciasse il potere, fu espulso in Guatemala. Qui rimarrà prima fino al 1923 — quando partirà per 11 Messico per militare nei battaglioni rossi del presidente Venustiano Carranza, di cui presto sarà deluso — e poi fino al 1925, anno in cui fondò il Partito Comunista Centroamericano, approfittando della congiuntura dell’unionismo trion­ fante e la caduta di Estrada Cabrera. Iscrittosi all’università di San Carlos per riprendere i suoi studi, preferì lavorare come salariato nelle piantagioni di caffè di Quezaltenango, imparare il quiché dagli indigeni dello stesso nome e guadagnarsi la vita nella capitale come maestro. A causa della repressione scatenata contro gli stranieri in Guatemala dal pre­ sidente José Maria Orellana (1921-1926), fu deportato nel Salvador, dove il governo a sua volta lo esiliò in Nicaragua. Ma Farabundo Marti ritornò clan­ destinamente in patria. A quell’epoca risale la sua entrata nella lotta popolare, intensa e senza esitazioni, insieme ai compagni Alfonso Luna e Mario Zapata. Agli inizi del 1928 si trova a New York, dove lavora alla « Lega Antimperia­ lista », nella cui sede abitava. « Un assalto poliziesco all’edificio di questa orga­ nizzazione internazionale — ha scritto Jorge Arias Gómez — trova Marti dentro gli uffici, e viene arrestato ». Appena liberato parte per il Messico, da dove passa a Cuba e in Giamaica; facendosi passare per bracciante del caucciù 63 entra in Belice, Guatemala, E1 Salvador e Honduras, dove prende contatto con Froylàn Turcios per essere avviato agli accampamenti segoviani. E cosi fa. Nella sua lettera del 26 settembre 1928, oltre a segnalare la data esatta del suo ingresso nei campi sandinisti, informa Santiago David Garcia suH’itinerario, le spese, ecc. per entrare nelle file liberatrici. 10. Alfonso Alexander e altri L’ultimo dei membri della Legione Latinoamericana fu, come Ruben Ardila Gómez, letterato e colombiano: Alfonso Alexander. Ma mentre quello non lasciò nessuna opera, questo potè dare una testimonianza feconda e immediata della sua esperienza guerrigliera in Sandino, rapporto sulla Rivoluzione di Nicaragua (Edizioni Ercilla, Santiago del Cile, 1937). Alexander, nato a Pasto, Colombia, nel 1909, pubblicò altre opere, come Rio Abajo e Relato s de Sangre, ma per noi la sua opera chiave resta S andino, biografia romanzata che finì di scrivere a Cali, il 22 giugno 1933, a sei mesi dalla cacciata dei marines per mano delle forze libertarie del Gran Guerrigliero, nelle quali combattè dall’inizio del 1930. Inoltratosi nelle Segovias prima che Sandino ritornasse dal Messico, ben deciso ad affrontare il pericolo e l’avventura, si fermò nel nord nicaraguense, commosso dall’incredibile eroismo e capacità umane dei contadini di quella regione e attratto dall’accattivante personalità di Sandino. Questo atteggiamento si esprime fin dalle prime pagine del suo racconto autobiografico, nel capitolo intitolato « Visione », dove si legge: « Il riposo. Come suonava bene questa parola nel mezzo della notte tiepida. Il riposo. Si curvò sul giornale. Bene. Già che sarebbe morto, si sarebbe congedato dalla vita, dalla vita moderna che era quell’umile pezzo di carta stampata, incollato dal vento sulle sue gambe. Era in inglese, e all’improvviso in piena luce, una grande parola illuminata: DINO. Che cos’era mai? La sua curiosità si risvegliò e il suo sguardo ombroso si imbattè con una dura fotoincisione e con un nome piu duro della foto. Era il ritratto di un uomo giovane, dal viso altero pieno di sfida. Un enorme sombrero creolo sopra la testa volitiva. Camicia, breeches, alti stivali, due pistole... Emozionato, lesse: ‘AUGUSTO CESAR SANDINO, capo dei banditi nicaraguensi’. Non lesse oltre. Perché? Le dita affilate della sua destra strin­ gevano con un’ansia feroce la povera carta stampata. Si lasciò cadere su una chaise-longue. Rimase immobile. « SANDINO: la parola metallica e romanzesca era come una pazza tromba di guerra che gridava la sua ribellione meravigliosa con virile iattanza leggen­ daria davanti al potere più enorme dell’universo. SANDINO, mandria umbratile di fini puledri selvaggi, creando epopee crinate di fiamme sanguinanti nell’aureo stupore del sole. SANDINO: forti tutti i cuori. Gioventù, sacrificio, avventura. La morte che saltabecca sul torrido paesaggio canicolare e a volte sotto la quiete tranquilla della luna. Aerei che regalano la morte. Donne che regalano l’amore. Selve nodose, contraffatte, corrugate, profonde, spesse, sanguinanti, belle e mortali. Fiumi spumeggianti di rabbia per il gran fango verde delle piene incontenibili. Spianate sterili. Angoscia della sete che non si calmerà se non bevendo ai magri rigagnoli di un liquido oscuro e pastoso. Raffiche di mitraglia, bandiere cro­ cifisse al vento impetuoso delle catene di montagne solitarie. Case che bruciano, greggi che bruciano, corpi umani che pure bruciano, come le greggi, come le case. Sguardi foschi, fame, sazietà. Dinamite. Era la libertà che veniva trottando sopra le immense spalle rugose dell’America. SANDINO e niente altro che SANDINO ». 64 Non è solo il capo supremo, chiamato anche « Il Vecchio » — ritratto am­ mirevolmente in altre pagine — che figura nel libro di Alexander, ma anche molti altri personaggi vivaci e vecchi, giovani e ragazzi (i famosi palmazones), collaboratori della causa sandinista come Manuel Téllez, ufficiali della statura di Juan Gregorio Colindres, Ramon Raudales e Carlos Salgado (el Divisionario). Martiri come Pancho Montenegro o soldati 'semplici come l’artigliere Ernesto Bonilla e molti altri, meno conosciuti ma altrettanto presenti. Perché Alexander non inventa: descrive, raccoglie il contenuto epico della guerra ehq osserva e ammira. Il suo Rapporto sulla Rivoluzione dèi Nicaragua costituisce pertanto un autentico omaggio alle gesta sandiniste, e lo qualifica come uno dei piu fedeli testimoni di esse. Occorre sottolineare, d ’altra parte, come Alexander fu il latino­ americano che piu a lungo rimase in Nicaragua: quasi tre anni. E che per gran parte di questo tempo fece da segretario a Sandino, che lo riteneva un gran poeta, e fu l’ultimo ad occupare questo incarico. Il colombiano ci ha lasciato un sonetto, abbastanza conosciuto, in cui descrive il bivacco dei combattenti sandinisti. Vale la pena di trascriverlo. Dice: Sette fiori bianchi di eliotroprio in un bicchiere sopra un’umile tavola di legno; al suolo un casco di banane, marmitte e un mestolo addosso ad un basto di cuoio. Sette lunghe barelle, una tovaglia, un fazzoletto, attaccati ad una sbarra, e in amoroso abbraccio, una mitragliatrice, un tappeto, un pezzo di corda, e sopra uno scuro sombrero. Sette uomini: alcuni dormono, altri giocano alla taba\ 1 seduto alla mia destra il Generale Estrada legge Flammarion, fuori si sente pestare il guabul2 Il fiume scorre via; largo, grave e oscuro mentre Justo cucina, e io mi fumo un sigaro e il cielo cambia in grigio sottile il suo vestito azzurro. Di sicuro, molti altri latinoamericani condivisero il momento captato in questo sonetto. Solo il nome di alcuni di essi è giunto fino a noi: i salvadoregni José Adàn Gonzalez, Luis Mariona e Guillermo Ajurja, che erano arrivati con Farabundo Marti, Antonio Boya, Atilio Gutiérrez e Carlos Zepeda, giovani di non piu di 17 anni; l’ultimo, studente al terzo anno all’Istituto Nazionale di San Salvador, scrisse a suo padre cosi: « Tutti parlano e nessuno fa niente di positivo in favore di Sandino. Ho preso la decisione di venire a servire l ’eroe; era già da tanto tempo che ci avevo pensato, e mi decisi quando una notte Voi diceste che sareste partito per aiutare Sandino se foste stato solo. Io, grazie a Voi, ho imparato ad essere uomo, e non ho paura delle difficoltà della guerra ». Questo era lo spirito che animava questi giovani eroi, sconosciuti membri della « Legione Latinoamericana » di Sandino. {Trad, di Luigi Ficcadenti) Jorge Eduardo Arellano 1 Gioco comune di America Latina che si fa con l’astragalo, (n.d.t.) 2 Bevanda di banane, (n.d.t.) 65 Il fronte sandinista Se il movimento popolare salvadoregno è andato dal politico al militare, quello nicaraguense ha percorso negli anni il cammino inverso. Soprattutto guerrigliero era stato a suo tempo Augusto Cesar Sandino e nel corso dei decenni successivi alla morte del Generale la lotta armata, pur tra alti e bassi, aveva continuato a sussistere. Per molti anni non si era formato un partito o un’organizzazione politica di massa in Nicaragua ed anche l’attentato che aveva causato la morte del primo Somoza era stato piu un atto di coraggio individuale del giovane Rigo­ berto Lopez che il risultato di un’azione politica di popolo. Del resto proprio Carlos Fonseca Amador, parlando della fondazione nel 1961 del Fronte sandinista, sottolineò che « il Fsln significa il superamento della situa­ zione anarchica e della dispersione delle forze giacché vuole dotare il popolo del suo strumento politico militare ». Il fronte nasceva non solo sull’onda del successo della rivoluzione cubana del 1959, ma anche basandosi sulle teorizzazioni del « foco » che « Che » Guevara aveva codificato: « non sempre è necessario attendere che si verifichino tutte le condizioni per la rivoluzione: il ‘foco’ insurrezionale può crearle ». Per alcuni anni e fino al 1967 quando si ebbe la sconfitta militare di Pancasan il Fsln applicò soprattutto una tattica « fochista » di tipo particolare che si ri­ solveva in sostanza in una serie di invasioni dall’esterno di colonne armate, piu o meno grandi, con piu o meno successo. L’autocritica principale che il Fsln si fece dopo quella sconfitta fu che « il problema non era quello di invadere senza appoggio, ma preparare le condizioni e solo in seguito scontrarsi col nemico ». La svolta nella storia del Fronte sandinista si ebbe proprio nel 1967 quando una forza guerrigliera che era stata costituita con l’aiuto di rivoluzionari guatemaltechi era entrata in Nicaragua, ma fu accerchiata a Pancasàn e costretta ad un combattimento al quale non era pronta e in condizioni sfavorevoli. Fu un sconfitta militare che spinse però i rivoluzionari nicaraguensi ad una profonda autocritica che segnò il futuro del Fsln e quindi del Nicaragua. Quel combattimento ebbe comunque un risultato a livello di massa: « questa campagna rivoluzionaria, sep­ pure fu una sconfitta militare, servi al Fronte sandinista per proiettarsi davanti alle masse come Tunica forza che si opponeva veramente alla tirannia », come disse piu tardi Flumberto Ortega. L’analisi autocritica dopo Pancasan sfociò in una sorta di decalogo che è uno dei momenti fondamentali della nascita di una strategia rivoluzionaria in Nicaragua. Ecco in sintesi il risultato di questo lavoro di analisi. Il paese non era ancora a quel punto pronto per sviluppare azioni armate. Ne mancavano insomma le premesse. Il problema consisteva nel fatto che non era ancora stato pensato un progetto rivoluzionario globale né tanto meno una articolazione attraverso progetti parziali, intermedi o di settore. Soprattutto si comprese che le concezioni del « foco » guerrigliero applicate schematicamente alla realtà nicaraguense stavano creando seri danni, soprattutto perché poi a questo errore si univa anche una estrema debolezza logistica. Ma era stato trascurato il lavoro di conquista politica dei contadini nelle stesse zone di guerriglia e questo naturalmente aveva provocato debolezze politiche e militari insostenibili. Si riaffermò, come voleva la teorizzazione guevariana, il ruolo stra­ tegico della montagna, ma si sottolineò che per una lotta prolungata era indi­ spensabile la forza dei contadini. Del resto l ’autocritica investi anche il modo come i non molti contadini che erano entrati nella guerriglia erano stati impiegati. Infatti erano stati reclutati 66 per entrare a far parte di colonne regolari senza una preparazione adeguata, in­ sieme ad operai e studenti provenienti dalla città e che avevano maturato una profonda coscienza rivoluzionaria, al punto che avevano abbandonato lavoro e casa per entrare nel Fsln. Inoltre spesso questi contadini, che avrebbero dovuto essere mossi dalla volontà di conquistare la riforma agraria e quindi la terra, venivano in realtà spostati da regioni lontane e perdevano cosi di vista l’immediatezza dell’obiettivo per il quale si erano mobilitati. Da queste considerazioni nacque la decisione di creare due tipi di colonne guerrigliere, quella regolare e quella irregolare che permetteva un lavoro politico piu diffuso e una presenza capillare tra le masse. Se il centro della lotta armata doveva continuare ad essere la montagna, si rivalutava il ruolo della città, almeno come centro di iniziativa politica che per­ metteva di sviluppare movimenti e quadri da passare poi alla lotta armata in campagna. Il nocciolo del problema era che « il lavoro insurrezionale non si era legato in modo corretto alla lotta popolare generale ed è scorretto escludere altre forme di lotta. Il lavoro organizzato di massa si era paralizzato ed avevamo sottova­ lutato l’importanza che questo tipo di lavoro può svolgere in tutto il corso dello sviluppo della lotta armata ». Dunque l’autocritica che i sandinisti si facevano dopo la sconfitta di Panacasàn rimetteva sostanzialmente in discussione la scelta « fochista » e rilanciava, almeno a livello di coscienza e di elaborazione teorica, l’esigenza di uno sviluppo di massa della lotta ed una maggiore relazione tra le battaglie militari e quelle politico-sociali, nella montagna ed in città. Certo, la lotta armata rimaneva, e rimase poi, la scelta strategica del Fronte sandinista ed anche quando più tardi il Fsln si spezzò, almeno per qualche tempo, in tre tronconi, nessuno mise mai in discussione che « la via armata è il cammino della vittoria contro la dittatura e delle trasformazioni sociali ». Anche la ri­ cerca di un collegamento di massa e di lotta « legale » era in realtà subordinata alla volontà di trovare in questi movimenti appoggio politico e quadri da im­ mettere nella guerriglia. Ma dopo Panacasàn, come scriveva Henry Ruiz, si fece per la prima volta largo la coscienza che « occorre trovare la forma in cui masse ed avanguardie abbiano una relazione più intima ». Il primo discorso serio fu sui quadri del Fsln. Non solo perché come aveva scritto Carlos Fonseca dopo la sconfitta, c’erano molti episodi di soggettivismo che avevano contribuito, all’insuccesso della colonna guerrigliera. Soprattutto per­ ché in una nuova sistemazione della tattica del Fronte era decisivo comprendere che, come scriveva sempre Henry Ruiz, « i dirigenti non dovevano essere utiliz­ zati come quadri meramente militari, ma come quadri integrali, con una cate­ goria dialettica politico-militare ». Il dibattito del dopo Panacasàn portò come conseguenze, anche se non estre­ me, alla divisione in tre tendenze del Fsln, tra coloro che pensavano fosse neces­ sario abbandonare per un certo periodo la lotta armata per dedicarsi al lavoro sindacale, politico e sociale nelle città, coloro che pensavano che fosse invece indispensabile continuare e potenziare la battaglia sulla montagna, e i terceristas, quelli della terza via. Ma proprio in questo dibattito successivo alla sconfitta militare di Panacasàn vi è il nocciolo della concezione di massa, o almeno della ricerca sulla necessità e la natura delle lotte di massa, che portarono nel 1979 il Fsln a vincere una grande rivoluzione popolare in Nicaragua. Giorgio Oldrini Festa nel cortile dei vicini, Humahuaca, 1947-48. Marcos Gerber * La crisi del modello di accumulazione in Argentina Negli ultimi cinquantanni il capitalismo argentino si è sviluppato intorno ad un modello che può essere caratterizzato come «sostituzione dell’importazione». A questa particolare forma di operare del capitale corrisponde una determinata organizzazione e prassi da parte dello Stato che ha generato contraddizioni e dina­ miche sociali specifiche. A partire dalle limitazioni di questo modello di accumulazione a metà degli anni 70 e dai profondi cambiamenti imposti a partire dal golpe militare del 1976, questo tipo di funzionamento del capitalismo argentino è entrato in una crisi pro­ fonda. I rapporti di forza sociali hanno sofferto una profonda alterazione da cui è emerso un nuovo blocco sociale dominante; il pragmatismo realista attuale della politica argentina risponde a questa complessa realtà. Bisogna, dunque, che nella discussione sulle alternative politiche possibili, si tenga conto di queste trasformazioni evitando di riferirsi ad un paese che non esiste più. Per parlare francamente, una politica alternativa deve orientarsi verso la costi­ tuzione di un nuovo modello di accumulazione socialista, in quanto dovrebbe essere considerata prioritaria la costruzione di un blocco sociale che alteri gli attuali rap­ porti di forza attualmente sfavorevoli a qualunque progetto popolare. 1. Crisi internazionale e caso nazionale. La crisi del capitalismo a livello mondiale e la sua ricomposizione tendenziale è uno degli aspetti determinanti della spiegazione dell’esaurimento del modello di accumulazione nazionale e della sua ridefinizione. Possiamo, dunque spiegarci Ricercatore argentino. 69 l’evoluzione dell’economia nazionale con il modificarsi delle circostanze esterne al paese e con il tipo di risposta che viene data, ma allo stesso tempo, lo stato e la struttura dell’economia e della società nazionali in un momento storico dato deter­ minano la forma dei rapporti nazione/mondo. Le difficoltà del capitalismo centrale nel suo processo di valorizzazione, cioè una combinazione ed una retroalimentazione della caduta del tasso di guadagno con le deficienze della domanda, definiscono il contenuto della crisi internazionale. Ciò implica la necessità di una grande riformulazione del capitale dominante a livello mondiale in grado di associare un forte cambio tecnologico, di sviluppare nuovi settori di punta ed imporre nuovi modelli di consumo sociale nei paesi cen­ trali. Questa crisi si esprime a livello internazionale in un ciclo di valorizzazione finanziario-speculativa e in una mancanza di circuiti diretti fra la circolazione com­ merciale e la circolazione finanziaria. La crisi internazionale attuale e quella degli anni trenta che precedette e marcò il modello di accumulazione caratterizzato dalla sostituzione delle importazioni nei paesi periferici, hanno una differenza importante: la crisi attuale genera forze cen­ tripete verso l’integrazione economica internazionale, invece di generare quelle ten­ denze centrifughe verso lo sganciamento dai mercati internazionali che caratteriz­ zarono la crisi degli anni trenta. Queste forze integratrici rispondono a processi profondi di multinazionalizzazione economica potenziata dalla internazionalizza­ zione finanziaria. La crisi mondiale e le trasformazioni tendenziali che abbiamo sottolineato qui sopra fanno parte dei determinanti esterni della crisi del modello di accumulazione nazionale, in altri termini, questa crisi « interna » può essere vista, in parte, come una crisi di articolazione rispetto all’economia mondiale, di conseguenza le poli­ tiche economiche dovranno rispondere alle forme di una nuova articolazione. La crisi della periferia sarebbe allora marcata da un’industrializzazione definita dal pro­ cesso di accumulazione dei capitali centrali, da una crescente differenziazione gerar­ chica interperiferica (eterogeneità di situazioni nazionali) e dall’articolazione fra condizioni interne ed esterne. L’esaurimento e le tensioni del modello sostitutivo di importazioni viene confrontato a livello mondiale con uno schema di integra­ zione e di complementarietà industriale. Dunque, la riformulazione di un nuovo modello di accumulazione per l’Argen­ tina dovrà essere definito dalla capacità dell’economia di articolarsi con la nuova situazione mondiale — questa nuova sistuazione internazionale implicherebbe pro­ fondi cambiamenti nello spazio economico mondiale -—, e la forma e il grado di questa integrazione sarà determinata dal rapporto di forze nella società, dal tipo di capitale che dominerà il processo di integrazione, dalla capacità dei settori popo­ lari di gravitare sullo Stato e di imporre un’ipoteca sul mercato interno che ammor­ tizzi l’impatto negativo in termini sociali dell’integrazione e della risoluzione na­ zionale adottata rispetto al problema del debito estero. 2. Il modello di accumulazione fino alla prima metà del ’70 e suoi limiti. A grandi linee, l’accumulazione del capitale e la crescita a partire dagli anni trenta fu caratterizzata da un modello semichiuso e di natura ciclica. Il settore industriale si converte cosi in asse dinamico in un contesto in cui lo Stato espande la sua grandezza e le sue funzioni, cresce il consumo dei settori sociali che inte­ grano la produzione e viene privilegiato il mercato interno mediante un alto livello dei dazi. Ognuna di queste componenti giocò un ruolo ed ebbe un peso diverso in ognuna delle tappe secondarie in cui si può suddividere questo periodo, comune­ mente denominato di sostituzione di importazioni. 70 Quanto alla battaglia per la distribuzione delle entrate, il modello ebbe due tensioni dominanti: una fra le attività urbane e la produzione agropecuaria espor­ tabile, e l’altra fra capitale e lavoro. Questi conflitti furono risolti con l’azione dello Stato e la repressione dei settori popolari. Le tensioni nella distribuzione delle entrate, generate da questo modello di accumulazione, si convertono nel suo prin­ cipale limite e in fonte di perenne conflitto. Espresse alternativamente da una « triangolazione » nella sua risoluzione fra salari, queste tensioni sono: la tassa di guadagno e l’equilibrio del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Nella sua prima tappa, la produzione manifatturiera veniva realizzata mediante l’incremento del potere acquisitivo dei lavoratori urbani; ma a causa della struttura dei materiali importati per questa produzione industriale e della caduta dei termini di scambio per la produzione agropecuaria, si verifica­ vano ciclici squilibri nei conti correnti di bilancia di pagamenti i quali, a causa delle rivalutazioni della moneta nazionale consentivano che la caduta dei salari per­ mettesse la continuità del processo di accumulazione. L’avvio del ciclo era reso pos­ sibile materialmente dall’esistenza di un importante eccedente di origine agropecuario-esportatrice. I limiti di questo processo di accumulazione erano dati non solo dallo squilibrio nei conti esterni, ma anche dal conflitto salario/guadagno che mi­ nava la coesistenza di alti guadagni/incremento dei salari quando l’eccedente agropecuario si esauriva o i settori sociali associati a questo eccedente avevano forza all’interno dello Stato. Negli anni sessanta si produce una sostanziale modifica nel modello di accu­ mulazione. Anche se l’industrializzazione semichiusa è ancora in vigore, i salari scendono e si produce un incremento del tasso di accumulazione a cui si incorpo­ rarono massicciamente le imprese multinazionali. La realizzazione della produ­ zione industriale diventerà cosi funzione del consumo non salariato e il processo di accumulazione sarà dominato dall’investimento estero diretto puntellato da un forte investimento pubblico (specialmente a partire dal 1966). I settori industriali dinamici saranno, quindi, le materie prime basilari, i beni perdurabili ed in minor misura i beni del capitale. La prima metà degli anni settanta mostra chiaramente il deterioramento del modello, i conflitti circa la distribuzione delle entrate vanificano i tentavi di ordi­ nare e di coordinare i reclami sociali con le condizioni dell’accumulazione. In que­ sto contesto, non sorprende che certe frangie del campo popolare comincino a riflettere ed a spingere verso la costituzione di una nuova società. D ’altro lato, il contesto internazionale rende impensabile la sussistenza di poli­ tiche economiche basate su scambi favorevoli stabili, per di piu in presenza di una forte contrazione dei flussi di investimenti esterni diretti e di altri condiziona­ menti a cui si è accennato prima. I limiti del modello di accumulazione qui evidenziati non implicano l’esauri­ mento di processi specifici come quello della sostituzione delle importazioni o l’esau­ rimento del mercato interno come asse di crescita, ma sottolineano la crisi di un modo di operare del capitale in Argentina. 3. Il piano a lungo termine della dittatura. Crisi del modello di accumulazione. A partire da una visione critica della tappa chiamata di sostituzione delle im­ portazioni, la dittatura si prefisse come principale obiettivo a lungo termine la modifica del modello di accumulazione e di crescita vigente fino al 1976. In un con­ testo internazionale di valorizzazione finanziaria del capitale, la strategia consisteva nel rimuovere le basi sociali ed economiche del modello in crisi; in altri termini: 71 destrutturare le fondamenta della società urbana con complesse relazioni delle classi sociali associate ad una industrializzazione sostitutiva. L’imposizione di questo processo avrebbe introdotto la definizione di una nuova modalità di accumulazione a partire dalla crisi basata su cambiamenti strutturali irreversibili nell’economia e nella società. Gli assi portanti di questo progetto furono in maniera alternativa e combinata, la politica salariale (congelamento e repressione), la politica dei prezzi (associata al tipo di cambio), la sussidiarietà dello Stato (e la sua articolazione nei gruppi dominanti), la riforma finanziaria (la sua liberalizzazione) e l’apertura al mercato internazionale (i prezzi internazionali come regolatori dei prezzi relativi interni). Queste due ultime riforme implicarono la liquidazione di un’ampia frangia del ca­ pitale che va dalle piccole e medie industrie alle grandi industrie, in un processo di distruzione del capitale associato alla sua centralizzazione ed alla combinazione/ relazione di una compatta quantità di gruppi economici grazie al dominio della frazione finanziaria del capitale. La dittatura ha creato le condizioni della dominazione socio-economica di un nuovo blocco sociale, ciò ha comportato la ridefinizione dello Stato e del controllo su di esso, un forte trasferimento delle entrate del lavoro verso il capitale che non solo si espresse con una caduta del salario reale, ma questa caduta venne associata ad una crescente dispersione salariale fra categorie e settori, il trasferimento dei salari dall’attività produttiva (il che in sostanza ridusse notevolmente la partecipa­ zione dei lavoratori alle entrate nazionali) e l’incremento del potere economico di una frazione del capitale che intanto aumenta il suo controllo su un mercato ridotto e vincola l’operato dello Stato alla dinamica del suo processo di accumu­ lazione. Il finanziamento di questa manovra storica provenne essenzialmente dalla già citata regressione nella distribuzione delle entrate e dalla contrattazione del debito estero; quest’ultima fu resa possibile dalla liberalizzazione del mercato finanziario e dall’apertura dei mercati internazionali che insieme, a partire dal 1979 mettono in crisi aperta il modello di accumulazione e lo alterano. La crescita in progressione geometrica del debito va associata a questo processo di distruzione del capitale e di destrutturazione economico-sociale, ma a sua volta comincia a franare a partire dal 1981 con l’esaurimento interno e con l’alterazione delle condizioni internazio­ nali (mancanza di liquidi, cessazione del flusso dei crediti, incremento del tasso di interesse, fra gli altri fattori). Dal 1979 al 1981 vi è la tappa di costruzione del debito estero, a partire dal 1981 comincia la tappa di adeguamento e di pagamen­ to. Questo adeguamento a sua volta può essere diviso in breve e lungo termine. Il primo presenta caratteristiche ortodosse, con la sequenza svalutazione-recessionecaduta delle importazioni-diminuzione dello squilibrio del conto corrente della bi­ lancia dei pagamenti (quest’ultimo sconvolto dai servizi del debito); e va combinato con il processo di statizzazione del debito che ha prodotto gravi conseguenze so­ ciali. L’adeguamento a lungo termine va associato a cambiamenti strutturali nel­ l’economia argentina che rendano praticabile la via del riequilibrio del conto cor­ rente in modo permanente; tale equilibrio è associato, ovviamente, ai servizi del debito estero. 4. Le nuove condizioni dell’accumulazione (a modo di conclusione preliminare). A questo punto, cercheremo di caratterizzare le tendenze osservabili nel recen­ te passato e nell’attualità, che possano dar corpo ad un nuovo modello di accumu­ lazione. Naturalmente una simile analisi sarà certamente precaria e piena di fatti 72 da constatare nel futuro, trattandosi di una tappa di formazione e non di matura­ zione di tale modello di accumulazione. Un altro ostacolo importante è costituito dal fatto che i tassi di accumulazione globale dell’economia sono bassi o nulli. In sostanza si tratta di spiegare le condizioni di una possibile riproduzione ampliata del sistema di accumulazione e delle nuove caratteristiche del processo di produ­ zione, senza scartare la possibilità di una crisi prematura di questo nuovo modello causata da circostanze avverse in campo internazionale o da forti resistenze sociali interne. Le due caratteristiche principali del nuovo modello di accumulazione sono la maggior concentrazione-centralizzazione del capitale ed una forte tendenza all’inse­ rimento internazionale dell’economia nazionale. La prima di queste caratteristiche ha come espressione un nuovo blocco di po­ tere economico costituito da gruppi economici di origine nazionale e da capitali multinazionali diversificati e/o integrati che si trasformano negli agenti principali e dominanti del processo di accumulazione e sono le piccole e medie imprese in­ sieme alle imprese multinazionali quelle che perdono di peso nell’economia argentina. Mentre a partire dalla fine degli anni cinquanta gli agenti economici che occu­ pavano il centro del processo di accumulazione erano le multinazionali nel loro insieme ed il capitale nazionale occupava una posizione subordinata; la costituzione di una nuova frazione dominante combinò un segmento del capitale multinazionale con un segmento del capitale nazionale. Questa articolazione fu possibile princi­ palmente per la diversificazione-integrazione di entrambi i capitali e per l’interna­ zionalizzazione del secondo. Gli spazi e le necessità di questi due tipi di capitale convergono, facendo scendere il livello delle contraddizioni intercapitale che ave­ vano caratterizzato il processo di sostituzione delle importazioni. Si costituisce l’at­ tività finanziaria come vincolante inter ed infra agglomerati, costituendo l’asse di penetrazione economica e di valorizzazione del capitale nella fase iniziale. La tendenza all’internazionalizzazione dell’economia argentina ci conduce al problema dei mercati. Questa tendenza risponde, da una parte, alle forze integra­ trici a livello internazionale fra le quali si distacca il pagamento di servizi del de­ bito estero che induce ad espandere le esportazioni e relega il mercato interno. D’altra parte, risponde alla multinazionalizzazione ricordata del Blocco di Potere, che concepisce il mercato estero come la componente principale del suo processo di rivalutazione a lungo termine e risponde alla sua strategia di dominazione eco­ nomica. Il fatto di relegare il mercato interno risponde, inoltre, alla esigenza di mantenere come strutturale la disarticolazione e la debolezza dei settori popolari in generale e del lavoro in particolare, congelando una distribuzione di entrate sommamente regressiva per questi settori. Tali cambiamenti profondi nel modello di accumulazione, implicano la neces­ sità del blocco dominante di ridefinire la grandezza e le funzioni dello Stato secondo gli imperativi del suo stesso processo di accumulazione, in modo da vincolare la la sequenza generazione-appropriazione-assegnazione dell’eccedente economico sociale alla sua logica realizzazione e valorizzazione. Il retrocesso generale dell’economia argentina viene sintetizzato nel processo di disindustrializzazione e di caduta della produzione manifatturiera; la produzione agropecuaria ha segnato progressi significativi e sostanziali cambiamenti al suo interno come ad esempio la riduzione della produzione di bestiame e l ’espansione delle col­ tivazioni come quella della soja. Ma la prospettiva dell’evoluzione dei prezzi inter­ nazionali di questa produzione rendono difficile il fatto che queste attività si tra­ sformino nell’asse portante della crescita. La caduta dell’attività industriale è stata accompagnata dall’incremento nella partecipazione di detta attività dei gruppi dominanti, per cui insieme al maggiore 73 ruolo del mercato internazionale, nella formazione della nuova struttura produttiva fanno si che il nuovo profilo industriale sia legato ad un’industrializzazione selet­ tiva legata ai settori dominanti ed orientata verso il mercato estero. Le esportazioni industriali non costituiscono un fenomeno nuovo in Argentina, durante l’ultima tappa del processo di sostituzione delle importazioni, le esportazioni di tale indole andarono crescendo in maniera costante. Ma mentre con l’anteriore modello di accu­ mulazione le esportazioni erano composte dall’agroindustria e dai beni duraturi, in questo nuovo schema la tendenza indicherebbe il predominio dell’agroindustria e dei beni intermedi. Quanto alle varianti nel processo produttivo, bisogna segnalare che insieme alla caduta della produzione industriale si è prodotta una crescente incorporazione tecnologica che ha fatto sì che la relazione impiego/capitale cadesse sostanzialmen­ te, conseguendone che gli alti livelli di disoccupazione, di suboccupazione e di impiego formale si mantenessero in maniera permanente. D ’altra parte, vennero modificati drasticamente il tipo di richiesta in materia di mano d ’opera del processo produttivo: nel 1960 il rapporto fra operai qualificati e non qualificati fu dello 0,04, nel 1970 dello 0,11, e nel 1980 fu dello 0,40; cioè a dire che negli ultimi venti anni viene moltiplicata per dieci la necessità di impiegare operai non quali­ ficati. La terziarizzazione è un cambio strutturale di enorme importanza, essa si concretizza in un processo di industrializzazione fino al 1975. Ma a partire dalla seconda metà degli anni settanta, questa terziarizzazione si realizza in un contesto di disindustrializzazione, il che implica alterazioni importanti in questo settore dell’impiego. 74 Alessandra Marra “Ollantay" un dramma quechua A Lima, nel 1953, la Compania Nacional de Comedia rappresentò al teatro « Segura » la prima opera teatrale quechua: « Ollantay », di autore anonimo. Composto secondo alcune fonti intorno al 1480 o durante il primo periodo coloniale — 1535 — secondo altre, forse scritto dal parroco di Sicuani don Valdez o da un altro drammaturgo creolo o indio, « Ollantay » riprende antiche leggende, avvenimenti storici, cantares incaicos del tradizionale Peru andino. « Ollantay » rappresentato probabilmente alla corte degli ultimi Incas prima della « conquista », o recitato dalle stesse truppe rivoluzionarie di Tupac Amaru — Linea dissidente nel neo-stato incaico di Vilcabamba 1537-1572 — dopo la « conquista », è il piu maestoso monumento della letteratura quechua. (E la prima opera peruviana nazionale aggiungiamo noi, convinti assertori dell’andinità del Peru). La versione quechua di « Ollantay » fu tradotta e liberamente interpretata in spagnolo ed altre lingue — fra cui il latino — ; studiata da storici ed antropologi e critici che, oltre a realizzare studi sul dramma polemizzarono ardentemente sulle origini, sulla paternità e il carattere di questa creazione della cultura amerindia. « Ollantay » turbò e inquietò lo spirito indio di Arguedas tanto da indurlo a porvi mani traducendo dal quechua allo spagnolo alcune scene che, insieme agli adattamenti di Mirò e Salazar Bondy — avvalsisi delle traduzioni di Barranca e Pacheco Zegarra — andò in scena al teatro di Lima nel 1953 davanti ad un pubblico bianco, con parametri logici quindi lontani da quelli che permeano il dramma. Uno degli antichi manoscritti di « Ollantay » è conservato attualmente nel­ l’Archivio Nazionale del Peru sotto il titolo: Tragicomedia delTApu Ollantay e Cusi Ccoyullor. Rigores de un Padre y Generosidad de un Rey Inca. In realtà il manoscritto conservato è una copia trascritta dall’originale — ormai perduto — 75 da don Pastor Justiniani, prete di Lares e diretto discendente di Tupac Yupanqui. Secondo alcuni studiosi l’originale era di proprietà di don Valdez parroco di Cuzco, il quale ne sarebbe il glorioso autore. La copia venne trasmessa in erq/dità a don Gabino Pacheco Zegarra che la tradusse in lingua francese — 1878 — . Le periperie di « Ollantay » terminarono quando il vescovo di Cuzco, don José Gregorio Castro, la regalò all’Archivio Na­ zionale del Peru. La prima versione spagnola della prosa di « Ollantay » è di José Sebastian Barranca — 1868 — , la sua traduzione e interpretazione dal quechua rimane, a tu tt’oggi, una delle più fedeli allo spirito originario dell’opera; la seconda ver­ sione spagnola, « adattata per il teatro moderno », è del 1935 degli scrittori César Miro — 1907 — e Sebastian Salazar Bondy — 1924 — . « Ollantay » si snoda nel solenne scenario andino al tempo dell’Impero degli Incas, monarchi andini che dal 1400 circa al 1532, con una sapiente tattica po­ litica e militare operarono un grandioso disegno strategico. Unificarono un im­ menso territorio che comprendeva la costa, la sierra e la selva: il T awantinsuyo o Impero delle Quattro Province. Antisuyo a nord, Chinchaysuyo ad ovest, Cuntisuyo a sud e Collasuyo ad est — attuali Perù, Bolivia, Ecuador e parte del Cile. Vennero sottomessi regni e tribù cui gli Incas imposero la lingua quechua — la più diffusa, ai tempi, sull’altopiano andino — , l’adorazione del Sole o luti impersonificato dall’Inca suo figlio e di Cuzco, centro politico e ideologico dell’Impero. Un Impero teocratico e fortemente accentrato. Alla corte di Cuzco venivano allevati al culto del Sole, alle arti militari ed amministrative i figli dei regnanti delle regioni sottomesse e dove vi ritornavano poi da adulti, rappresentando Tinca e la sua giustizia, governando si ma in suo nome, perché allinea dovevano comunque render conto di tutto. L’Inca « bene supremo », il dio tangibile che provvedeva, con una complicata opera di inge­ gneria sociale al benessere, alla stabilità e alla « quiete » del vasto impero che andava sempre più estendendosi e, se da un lato l ’impero non conosceva la fame, dall’altro doveva allinea obbedienza assoluta. L inea era il principio di vita degli uomini e dell’universo stesso. Cuzco « assimilava » le culture dei popoli assoggettati e, nell’esercizio della giustizia, Tinca teneva conto delle diverse tradizioni se la contesa, però, non contestava i princìpi su cui poggiava lo Stato incaico. Ogni regione era governata con il « sistema di Cuzco » ma Cuzco stessa era un crogiolo di razze e costumi, presenti e rappresentati con i diritti del rango di provenienza dei quattro suyos alla corte d e lin c a e nel Gran Consiglio imperiale. L inea, figlio del Sole, significava il potere assoluto, religioso, politico militare e amministrativo: T« inizio e la fine di tutte le cose », la sua giustizia giungeva puntuale al più umile e al più grande. Cuzco era la sede del più importante, acllawasi, il palazzo dov’erano recluse le aclla-cuna, o « donne scelte »; provenivano dalle Quattro Province del Tawantinsuyo dove erano scelte da appositi incaricati dell’Inca ancora bambine. Cre­ scevano nt\Yacllawasi per essere destinate all’Inca o ai suoi generali oppure as­ segnate in premio ai curaca delle lontane province dell’Impero. Considerate sacre e inviolabili spettava loro il privilegio di tessere le vesti dell’Inca, i preziosi tessuti destinati ai sacrifici e agli omaggi dispensati dall’Inca ai curaca e capitani in segno di benevolenza. Ambitissima benevolenza. Vestire tessuti di cumhi era privilegio dell’Inca e Tinca stesso designava chi era degno di indossarli, perché essi rappresentavano il simbolo del potere. Quindi, solamente le mani delle Vergini del Sole potevano tessere la morbida vigogna con le piume variopinte dei colibrì dell’Antisuyo — la regione delle foreste — . 76 Solamente allinea e alla Ccoya sua moglie era possibile varcare la soglia deWacllawasi e severamente vietato anche ai sacerdoti del Sole, potente casta dell’Impero: la violazione del divieto sortiva come effetto immediato la morte, e morte era per la « donna scelta » caduta nella rete del « comune amore ». L’Inca sceglieva le sue concubine neìYacllawasi ma poteva giacere — una sola volta — con qualsiasi « donna scelta » ma, in questo caso, la Vergine prescelta faceva all’amore sotto l’effetto inebriante dei narcotici, affinché non ricordasse il volto divino del figlio del Sole; l’eventuale frutto del sacro amore allevato a corte e destinato alla carriera militare o amministrativa. Per puro disegno politico era prolifico Tinca: garantire il comando dei punti vitali del grande Impero a chi discendeva direttamente dal suo sangue. Dedito alle armi Tinca figlio del Sole rappresentava e dirigeva lo Stato, proiezione e al contempo sostanza del dio. (L’Inca immortale esprimeva la sua umanità attraverso sentimenti di grande tenerezza o passione. I figli più amati e la concubina preferita lo seguivano, insieme alle truppe, durante le lunghe guerre di invasione e la Ccoya con le altre concubine rimaneva a Cuzco. Magari per qualche anno.) La tragedia di « Ollantay » esprime bene i tratti dell’Inca, il senso dello Stato, la grandezza dell’Impero, le sensibilità dell’animo andino e l’attitudine quechua all’obbedienza a ciò che è considerato « superiore » ma concreto, il trauma della negazione dell’obbedienza nell’intuizione finissima, ed inespressa, di un mutamento dei valori e dei tempi. Ancora oggi sulle Ande, dai duemilacinquecento ai cinquemila metri e in particolare nel Dipartimento di Cuzco, Puno e Ayacucho, le comunità indie si ritrovano per rendere omaggio agli apus — i monti e i fiumi — , al Sole e alla Luna recitando, cantando e ballando antichi e coinvolgenti drammi quechua che manifestano sensibilmente il grande trauma della Conquista. Conquista vissuta dalle popolazioni quechua di allora, e vivamente ricordata nella memoria collet­ tiva di quelle di oggi, come una catastrofe dalle inenarrabili dimensioni cosmiche, perché « la morte del figlio del Sole che garantiva l’armonia e la mediazione tra gli dei e gli uomini, ruppe brutalmente l’ordine », trascinando nel rovinio anche delle categorie mentali più intime. Fini categorie non più sostituite dalla religione cattolica e dalla sua ideologia. Ieri i quechuas si sentirono sconfitti ed orfani ed oggi rivolgono ancora lo sguardo al passato perché li vi ritrovano gli unici riferi­ menti « filosofici » e il presente è un’isola, circondata da una società e da una civil­ tà di cui decifrano soprattutto l’idea di sopraffazione, e ricca di categorie mentali improponibili e inconciliabili all’animo dell’uomo andino, determinato dalle grandi altezze e dalla concretezza del rapporto con una natura primariamente prota­ gonista. Natura a cui, comunque e in qualsiasi tempo o « sistema », bisogna ren­ dere conto. Le comunità indie rivisitano nell’immaginazione sociale il passato glorioso recitando « Ollantay » in quell’idioma quechua ricco di finezze lessicali che rendono i caratteri dei protagonisti come nessuna traduzione, o messa in scena in qualche teatro di Lima o di altra parte del mondo, può rendere. Si tentò di tradurre il quechua sin dal 1532 ma i risultati prodotti, ieri ed oggi, sono modesti; è una lingua impregnata di vocaboli dal significato riconducibile solo al contesto ecologico e sociale determinato dalle Ande. Vi si applicarono conquistadores e cronachisti spagnoli stravolgendo il significato della cosmogonia, del modo di essere e di convivere dei quechuas. Cosi all’Europa feudale — e a quella che segui — rimase incomprensibile la materialità del Sole e il divino della natura. Chi scrive ebbe la sorte di assistere, in un teatro di Cuzco, alla rappresenta77 zione di « Ollantay » ad opera di una compagnia di studenti meticci e quechuas\ il dramma in due atti ricalcava la traduzione di José Sebastian Barranca. Quando calò il sipario il pubblico di origine bianca applaudì freneticamente mentre quello di origine « india », riunito in fondo alla sala, se ne stette in perfetto silenzio osservando stupito le espressioni, certamente considerate infantili, del pubblico delle prime file. Riassumiamo per il lettore « Ollantay » sulla base della traduzione e variante di Barranca che, oltre ad essere la piu diffusa è, come già abbiamo ricordato, quella dai dialoghi più ricchi ed espressivi. Proporremo, poi, alcuni fra i più significativi passi della tragedia. * * * I PERSONAGGI Pachacutec: Tinca Ollantay. generale delVAntisuyo Cusi Ccoyllur: principessa, figlia dell’Inca Ima Sumac, bambina di dieci anni figlia di Ollantay e Cusi Ccoyllur. Rumi-Nahui: generale dell’Anan-Suyo Huillca-Uma: sommo sacerdote Ccoya: moglie di Pachacutec e madre di Cusi Ccoyllur Mama-Ccacca: Vergine responsabile delVacllawasi di Cuzco Pitu-Salla: carceriera di Cusi Ccoyllur Pupae Y upanqu'v. Inca, figlio di Pachacutec Orcoo-Huarancca: generale Piqui-Chaqui: servo Ancoo Allin-Auqui: nobile anziano un indio canari una domestica La Trama Ollantay, originario di Tampu, al seguito delle truppe dellTnca Pachacutec durante il più convulso periodo delle guerre di espansione, è promosso generale per il suo impareggiabile coraggio e la provata lealtà allTnca e onorato, nonostante le umili origini, dei preziosi vestiti tessuti dalle « Vergini del Sole ». L’Inca lo eleva agli onori più grandi perché la bellezza, Tintelligenza, l’orgoglio e le capacità strategiche di Ollantay lo rendono degno di essere suo figlio. Viene eletto dal Gran Consiglio dell’Inca generale de\Y Antisuyo, la regione a nord del Tawantinsuyo, la più lontana da Cuzco e dai confini non ancora sicuri, dove le popolazioni erano sì conquistate ma non certo piegate defini­ tivamente alla pax incaica. Ollantay è il generale capace, il più potente e il più amato, solo a lui è consentito nonostante le origini di parlare direttamente allTnca. La corte di Cuzco dinanzi al generale dai lunghi capelli neri e dallo sguardo fiero, vestito con il mantello bordato di oro e la mazza e Telmo ricoperti dal metallo del Sole e così vicino al cuore dell'Inca, è divisa tra ammirazione e invidia. La fama di Ollantay fa tremare gli eserciti e incute timore anche ai canari — le tribù antropofaghe ribelli de\Y Antisuyo — giungendo sino ai curaca delle lontane Province dei quattro Suyos. Egli può aspirare a tutto quello che la be78 nevolenza dell’Inca consente ma, disgraziatamente, lo smisurato orgoglio lo induce a volere per sé anche ciò che è sacro, giacché si innamora perdutamente della figlia dell’Inca, Cusi Ccoyllur. E il generale Ollantay, destinato a governare il Tawantinsuyo in nome dell’Inca, decide di non rinunciare all’appagamento del grande desiderio che riempie i suoi pensieri diurni e anima le sue notti: corteggia Cusi Ccoyllur. Amato segre­ tamente dalla figlia dell’Inca che lo spia quando egli si reca a palazzo, è ricam­ biato con altrettanta passione. Quando cala la sera su Cuzco si incontrano furtivi all’ombra del Tempio del Sole, si amano e si disperano presagendo la tragedia. Huillca-Uma, il sommo sacerdote del Tempio del Sole è legato da grande stima ad Ollantay conoscendone l’indole altera ed esuberante; scopre l’amore del generale e, cautamente, cerca di convincerlo ad ambire il potere, perché il potere è per i mortali l’unica arma. Rumi-Nahui, generale àz\Y Anan-Suyo, combattuto tra invidia e ammirazione per il generale piu generoso e piu amato dall’Inca, durante le passeggiate davanti al palazzo di Cusi Ccoyllur gli descrive l’emozione della conquista di nuove terre lontane, gli parla delle numerose principesse che aspirano al suo talamo e a seguirlo nelle battaglie e, nel tentativo di dissuaderlo, gli figura il carattere battagliero delle figlie dei curaca. Neppure le malizie di Piqui-Chaqui, il servo della casa di Cusi Ccoyllur il quale, spinto dalla grande devozione per il leggendario generale lo segue ovunque quando egli si trova a Cuzco, lo convincono a retrocedere salvando almeno « quello che si vede ». Per Ollantay la lunga treccia nera, la voce e gli occhi di Cusi Ccoyllur valgono piu dell’Impero e l’amore per lei è piu grande di ciò che è divino: Tinca stesso. E Ollantay esce allo scoperto, considerando che la sua dignità sarebbe meno grande se il suo amore rimanesse segreto. Ollantay chiede a Pachacutec l’arduo e risolutivo colloquio ed è la tremenda tempesta. L’Inca offende Ollantay e il generale, con quell’immenso orgoglio noto a tutto l’Impero, a sua volta offende Tinca, oltreggiando cosi il sublime figlio del Sole. E fugge, progettando di rapire Cusi Ccoyllur. Ccoyllur parla con il padre ma Tinca, offeso anche nel suo tirannico amore paterno e vistosi tradito pure dalla figlia prediletta, la rinchiude subitaneamente nelVacllawasi affinché li consumi i suoi giorni, lontano dal suo sguardo e dal suo amore paterno, irrimediabilmente ferito a morte. Rumi Nahui è convocato da Pachacutec e Tinca gli affida il comando di un esercito per inseguire e catturare Ollantay ma, durante il turbinoso abbocca­ mento, giunge dd\YAntisuyo un chisqui con un quipu che Rumi-Nahui legge all’Inca: la regione si è sollevata e il generale di stanza nella guarnigione, OrccoHuarancca, si dichiara fedele ad Ollantay. Ollantay ha preceduto Pachacutec ed è la guerra, mentre il cuore del ge­ nerale si macera nella malinconia per Cusi Ccoyllur e per l’amata Cuzco, « Ombelico del mondo ». Il figlio del Sole viene sfidato dal suo piu ardito generale; le profezie di Huillca-Uma si sono avverate, il cielo è solcato dal volo dei condor ed oscuri presagi si addensano sullTmpero. Le popolazioni delYAntisuyo procla­ mano Inca Ollantay. Nell’acllawasi, nel frattempo, Cusi Ccoyllur dà alla luce una bambina, Ima Sumac, la quale è immediatamente tolta alla madre per essere educata dalle Vergini del Sole nella convinzione di un destino incerto per la sua condizione di orfana. La figlia dell’Inca è definitivamente imprigionata: l’amore del padre si trasforma in crudele accanimento. Dopo dieci anni muore Pachacutec e l’Impero si veste a lutto ma non YAnti­ suyo, dove Ollantay, pieno di rancore, prosegue la ribellione e la resistenza. Al79 Tinca Pachacutec succede il figlio Tupac Yupanqui il quale, all’oscuro della fine della sorella, non conosce la nascita di Ima Sumac. La instabilità e la ribellione delle lontane province sono le grandi preoccu­ pazioni di Tupac Yupanqui, impedito così a muovere nuove guerre di espan­ sione e, sebbene dieci lunghi anni di assedio sono serviti alla cattura di Ollantay per mano dell’esercito e dei tranelli di Rumi-Nahui, questo non significa l’inizio della pace. Il generale ha tenuto in scacco l’esercito del figlio del Sole e, in catene o privato della vita, rappresenterebbe per i nuovi popoli da conquistare la prova della fallibilità dellTnca. Tupac Yupanqui sceglie quindi la riappacificazione con Ollantay, di cui conosce la fama del suo orgoglio e del suo grande amore per il centro del Tawantinsuyo, Cuzco. Ollantay scende a patti con il figlio del Sole condizionando la riappacificazione al ritrovamento di Cusi Ccoyllur. Mama-Ccacca svela a Tupac Yupanqui il luogo della prigione di Cusi Ccoyllur, confidandogli i motivi della prigionia che lo gettano nello sconforto, dinanzi alla amara eredità lasciatagli dal Padre Pachacutec. Nella prigione di Ccoyllur delYacllawasi avviene l’emozionante incontro tra il generale Ollantay e l’adorata figlia dell’Inca e qui, nella diffusa commozione, Ollantay conosce Ima Sumac, la preziosità del suo amore che Tupac Yupanqui vorrà con sé. ★ "k -k Ollantay, dinanzi al Tempio del Sole chiacchiera con Piqui-Chaqui chiedendogli se ha visto Cusi Ccoyllur nel suo palazzo. « No, il Sole non mi permette di avvicinarmi a lei, non temi tu il Sole? Lei è sua figlia ». « È la figlia del Sole ma il mio cuore cerca solo lei, non osare contraddirmi, in questo stesso istante potrei prendermi la tua vita, strangolandoti con le mie mani ». « Uccidimi come un cane e non potrai piu dirmi ogni anno, ogni giorno e in ogni notte Piqui-Chaqui cerca Cusi Ccoyllur ». « Sappi che assalirei la morte con la sua falce, una montagna e tutti i miei nemici e com­ batterei sino alla morte, pur di tenere tra le mie braccia Ccoyllur. Vai dunque al palazzo e cerca di vederla ». « Non vorrei andarci di giorno generale ». « Non hai detto di conoscerla, cane fedele? ». « L’ho detto perché così è ma le stelle brillano di notte Ollantay, come potrei riconoscerla di giorno? ». « Vai via stre­ gone, Cusi Ccoyllur abbaglia anche il Sole e nel cielo non ha rivali ». Ollantay osserva Huillca-Uma vestito di una lunga tunica nera e con un coltello in mano, si apre il dialogo. « Profonda venerazione provo per te, potente e nobile Huillca-Uma, cui nulla è occulto ». « Grande Ollantay ai cui piedi si sono arrese le province, con il tuo valore potrai dominare tutti i popoli ». « Temo nel vederti sacerdote, ancora sono lontani i giorni dei sacrifici al Sole e alla Luna. Forse Tinca è infermo? ». « Hai ricordato che conosco tutto, perché dunque mi interroghi? Non temere nel vedermi Ollantay, poiché ti voglio bene. Come pagliuzza al vento volerò dove vuoi; dimmi i pensieri che si annidano nel tuo vile cuore e oggi ti offrirò il veleno, perché tu scelga tra la vita e la morte. Ascolta orgoglioso e superbo generale quello che ho scoperto con la mia scienza. Solo io conosco ciò che è piu nascosto. Mi sono preso cura di te ieri e lo farò oggi, perché dovrai governare. VAntisuyo. L’Inca ti ama tanto da dividere con te lo scettro, egli ti ha scelto fra tutti e la tua potenza sarà ancora piu grande. Quello che hai nel cuore e vela i tuoi occhi deve finire qui in mia presenza. Stai desiderando 80 Cusi Ccoyllur e anche se lei ti ama fermati. Non ti conviene Ollantay rispondere allinea con tanta ingratitudine, il figlio del Sole non ti concederà la bella figlia prediletta. E tu, valoroso, non sei nobile ». « È il mio cuore, sommo sacerdote, a svelare la causa del veleno che ho bevuto, sono io stesso, Ollantay generale dell’Inca. Ora mi abbandonerai nel mio dolore? ». « Quante volte beviamo la morte in coppe di oro, ricorda Ollantay che se tutto ci può accadere è perché siamo temerari ». « Nelle tue mani Huillca-Uma hai il coltello: prendi il mio cuore, sono qui ai tuoi piedi ». « Piuttosto dammi quel bel fiore Ollantay, strappalo e guarda, appena nato e già sta sfiorendo, così molta acqua scorrerà anche per Ccoyllur ». « Prima che io abbandoni il mio amore, Huillca-Uma, la roccia spargerà acqua e la terra piangerà ». « Spargi semi su questo campo dove ci troviamo, Ollantay, ancor prima di lasciarci li vedrai moltiplicarsi sino a sconfinare sulla piazza, così i tuoi crimini cresceranno sino a superarti ». Cusi Ccoyllur piangendo confessa alla madre il suo amore per Ollantay, mentre passeggiano al seguito di Pachacutec. Invano la Ccoya le suggerisce di non mo­ strarsi al padre con gli occhi piangenti. L ’Inca si avvicina alla figlia. « Cusi Ccoyllur frutto del mio cuore, fiore più bello fra tutti i miei figli e bella prigione per il mio amore, reliquia preziosa per la mia collana vieni a riposarti fra le mie braccia. In mia presenza dipana il tuo gomitolo d ’oro, in te è racchiusa la mia fortuna, sei la mia unica felicità e sei la bimba dei miei occhi. Guarda Ccoyllur, davanti a te sono schierati i generali di tutte le armate del­ l’Impero e puoi dominarli con un solo sguardo. Chi potrebbe osare schiudere il tuo cuore, turbandoti quando riposi? Sei la mia sola speranza e con te vicina l’intera mia vita si tramuterà in gioia ». « Mi prostro ai tuoi piedi, Padre mio e ti adoro, aiutami affinché fuggano le mie angustie ». « Tu ai miei piedi? Tu umi­ liata? Sei la figlia dell’Inca e sei cresciuta nella mia tenerezza, perché piangi dunque? ». « Il Sole dissipa la rugiada e Cusi Ccoyllur allora piangerà come rugiada perché il grande dio la dissipi e con essa il mio incauto amore ». « Pieno d ’amore vengo da te, figlia bella, siediti sulle mie ginocchia mentre i musici ti consoleranno ». Ollantay chiede ed ottiene il colloquio con Vinca, parla Pachacutec. « È giunto il tempo che tu parta Ollantay con Rumi-Nahui e l’esercito in direzione del Collasuyo, gli uomini di Chayanta si uniranno a voi. Che si pre­ parino e si affilino le frecce ». « Sono pronto Inca e partirò, ma ti confesso che il mio cuore trema e delira ad un pensiero ». « Anche se mi chiederai lo scettro reale puoi confessarlo ». « Potente Inca sai bene che sin dall’infanzia ti ho ac­ compagnato, rallegrandoti durante le guerre. Il mio valore ha imposto il tuo potere a migliaia di popoli, per te ho sparso il mio sudore vivendo solo per difenderti: la mia sagacia ha dominato e soggiogato tutti. Sono stato il terrore dei popoli, poiché non ho consentito cadesse su di essi null’altro che la mia mazza di bronzo. Dove non sono corsi i torrenti di sangue dei tuoi nemici e a chi non è stata imposta la mia forza? Ho costretto migliaia di orgogliosi yuncas della nazione Anti ad umiliarsi ai tuoi piedi, costringendoli a servirti nel tuo palazzo. Ho annientato l’immenso potere dei chancas sull’altopiano vincendoli in battaglia e ho conquistato Huanca Huillca. Dove Ollantay non è stato il primo nel combattimento? Con la mia tattica ed il mio rigore ho esteso i domini del tuo regno, ho fatto correre il sangue e mi sono esposto alla morte. Tu, Padre mio, mi hai concesso questo elmo e questa mazza di oro liberandomi così dalla con­ dizione di plebeo: tuo è questo oro e tue saranno le conquiste del mio valore. 81 Mi hai posto al comando di cinquantamila combattenti e nominato generale dei selvaggi antis, ed ora questa nazione intera mi obbedisce. In nome di quanto ho fatto e di quanto ti è servito mi avvicino a te con l’umiltà di un servo, umi­ liandomi ai tuoi piedi per chiederti di innalzarmi ancora piu in alto. Sono qui come un servo, Pachacutec. Concedimi Cusi Ccoyllur e starò sempre con te, camminando con questa luce ti adorerò come il mio sovrano e ti loderò sino alla morte ». « Ollantay ricorda chi sei stato, eri e rimani un plebeo, hai osato troppo ». « Allora strappa con un colpo solo la mia vita ». « Né il giudizio né la scelta sono in tuo potere, puoi tu decidere della tua sorte? Solo all’Inca spetta giudicare. Allontanati immediatamente ». Ollantay, nella solitudine di Cusi Pata alza lo sguardo al Sole colmo d ’ira. « Ollantay, vincitore di tante nazioni così sei corrisposto dal figlio del Sole. Cusi Ccoyllur, segreta sposa mia, ora ti ho perduta e per me non potrai più esistere, principessa candida come la colomba. Oh Cuzco mio amato paese da oggi sarò il tuo implacabile nemico, farò il tuo cuore a pezzi senza pietà e lo darò in pasto ai condor di questo Inca tiranno. Dividerò le mie armi con migliaia di antis e mi vedrai esplodere come la tempesta sulla cima di Sacsahuamàn, si alzerà il fuoco e dormirai nel sangue, grande e bella Cuzco. Pachacutec sarai ai miei piedi e vedrai se il tuo collo resisterà ai miei yuncas. Mi negherai ancora tua figlia? Sarai tanto intrepido da parlarmi? Sono stato insensato nel chiederti Ccoyllur umilmente ai tuoi piedi, sarò io Tinca ed ora, grande Sole, sai che molto presto accadrà tutto questo ». Ollantay e Orcoo-Huarancca sono incatenati dinanzi a Tupac Yupanqui, RumiNahui e Huillca-Uma ed attendono il giudizio delTInca. Parla il figlio del Sole. « Huillca-Uma mi dici che il Sole ti ha concesso un cuore benigno e il tuo invece, Rumi-Nahui, si è fatto di pietra. Huillca-Uma ascolta. Io, figlio di Pa­ chacutec, dovrei essere clemente con i prigionieri o prendermi la loro vita, se­ condo Rumi-Nahui. Udite quello che dice il cuore delTInca: liberate i prigio­ nieri arresisi ai miei piedi. Ollantay sei stato il valoroso governatore dell’Antisuyo, sappi che per mia volontà proseguirai ad esserlo, perché si conservi la tua fama. Huillca-Uma ridai le insegne ad Ollantay che si è liberato dalla morte sicura. Orcoo-Huarancca, Ollantay ti promosse generale per combattere Tinca Pacha­ cutec ma ora il furore si è placato, ricevi Telmo ritorna neWAntisuyo per governarlo, 10 ti ho liberato dalla morte per il tuo valore, avrai dunque la possibilità di rac­ contarmi il numero di quanti anti ti amano. Ollantay rimarrà a Cuzco per governare in mia vece, e a Cuzco si fermerà per sempre. Huillca-Uma poni sulla sua fronte l’insegna reale e nelle mani lo scettro. Vieni Ollantay e ascolta bene i miei ordini: tra un mese lascerò il Cuzco in direzione del Collao, per questo ho disposto che tu rimanga a sostituirmi e partirò pieno di soddisfazione lasciandoti sul trono ». « Giovane Inca, il mio desiderio è quello di partire con te, perché chi potrebbe marciare in tua compagnia se non io, supposto sia il tuo servo ». « È giunta l’ora del tuo riposo, generoso Ollantay, riposa a Cuzco e sposati la donna che vorrai scegliere ». « Tupac Yupanqui sono già sposato ». « Cosa stai dicendo Ollantay? Bada di non nascondermi nulla, io non la conosco questa donna ma se così è conducila al mio cospetto e le renderò omaggio ». « A Cuzco si è perduta la mia adorata colomba, sparì volando lontano in un solo giorno. La cercai per anni ma lei si è smarrita, come se la terra se la fosse bevuta. Questa è la mia tragedia Inca ». « Non intristirti Ollantay, benché 11 peso della tristezza sia più leggero di quello che hai nel cuore, ma compirai i miei ordini senza retrocedere ». 82 Tupac Yupanqui ordina la ricerca di Cusi Ccoyllur in ogni angolo di Cuzco e, nel carcere delTacllawasi dove viene ritrovata, si recano Tupac Yupanqui, Ollantay con Ima Sumac e Huillca-Uma. Dinanzi a Cusi Ccoyllur incatenata parla Tinca « Tutto mi pare un sogno e la felicità è ritrovata, Ccoyllur sei proprio tu la mia amata sorella? Abbracciami e consolami perché possa vivere con te. Chi ha commesso un crimine tanto miserabile, meglio sarebbe stato per lui perdere la ragione, non mi basta il mio grande cuore per comprendere tanta inspie­ gabile sofferenza. Chi ti ha condannata dovrebbe morire insieme alla donna che ti ha tenuta in carcere, come se lei lo avesse dato alla luce. La tua tenera bocca, Ccoyllur, è irriconoscibile e il tuo bel volto sfiorito ». « Fratello mio già conosci i motivi degli infiniti tormenti che io, tua sorella, soffro da dieci anni. Sei tu, dunque, chi mi libererà dalla morte ». « Guarda valoroso Inca questa bambina è la figlia di Cusi Ccoyllur e tua sorella è la mia sposa. Ccoyllur, ancor prima dell’Inca Pachacutec ti persi io ma ora vivi. Tupac Yupanqui tu sei suo padre e se vuoi prendere la sua vita sappi che dovrai prendere anche la mia, non mi lascerai sopravvivere. Ccoyllur il mio cuore è un’intera ferita, dov’è il tuo volto ridente e dove sono i tuoi begli occhi, la tua bellezza è fuggita? Sei forse una figlia maledetta? ». « Ollantay, il veleno che ci ha uniti è la causa che ci ha separati nello spazio e nel tempo per dieci anni, e ritorna ad unirci oggi. Dovrai con­ tare, Ollantay, tanti anni di amarezze e travagli quanti ne vivrà il giovane Inca, e infelice si prolungherà la tua esistenza ». Dice Tupac Yupanqui: « Ollantay qui è la tua sposa, da oggi potrai amarla e possederla, non affliggerti piu e vivi la tua grande fortuna, sei sfuggito anche alla morte. Ima Sumac vieni a dipanare i tuoi gomitoli sul mio cuore, vieni tu che sei la figlia di Cusi Ccoyllur ». * * * Ci accomiatiamo dal lettore con la magia di un verso di un poema quechua dedicato allinea Tupac Amaru e tradotto da Arguedas: Tupac Amaru, Amaruq churin, Apu Salqantaypa ritinmanta ruwasqa; llantuykin, Apu suyu somhran bina ruruykupi mastankun, may pachakama. Tupac Amaru hijo del Dios Serpiente; echo con la nieve del Salqantay; tu sombra llega al profundo corazón corno la sombra del Dios montana, sin cesar y sin limites. FONTI BIBLIOGRAFICHE Ollantay, Collección Autores peruanos, Lima 1979. Ollantay, Ediciones de la Biblioteca Universitaria, Lima 1965. Ollantay, Ediciones Populares Los Andes, Cuzco. Narradores Cusquehos, Ruben Sueldo Guevara, Cuzco 1967. Kay Pacha, B. Condori, Rosalind Gow, Centro Bartolomé de Las Casas, Cuzco 1982. Katay, J.M. Arguedas, Editorial Horizonte, Lima 1984. Arte popolare, religione e cultura degli indios andini, J.M. Arguedas, Einaudi, Torino 1983. La conquista dell’America, Todorov, Einaudi, Torino 1984. Gli Inca, Metraux, Einaudi, Torino 1961. La visione dei vinti, N. Wachtel, Einaudi, Torino 1977. 83 Indios di Quitilipi, 1960 La Conquista vista dall’altra parte a cura di Gabriella Lapasini « Da cronache e manoscritti abbiamo raccolto, con amore e con commozione, le parole autentiche dalle quali traspare l’eroismo, l’angoscia e la tragedia di tre popoli, straordinari creatori di cultura. E questo è il triplice specchio sul quale l’altra faccia della Conquista è rimasta riflessa per sempre ». Con queste parole Miguel Leon Portilla, uno dei piu illustri studiosi viventi delle civiltà precolombiane e professore all’Istituto di storia dell’Università di Città del Messico, presenta un suo libro, El revés de la Conquista, in cui la storia viene raccontata non dai vincitori ma dai vinti. Da queste pagine parlano, quindi, gli aztechi, i maya, i quechua, in testi in cui — scrive sempre Portilla — « si espresse il loro giudizio sulla Conquista e si fissò per sempre la tragica esperienza da loro vissuta ». Abbiamo pensato di scegliere, per i lettori di « Latinoamerica », alcune poesie, non per voler riproporre un testo già conosciuto (la sua prima edizione è del 1965) e diffuso, ma perché nell’ambito del discorso sulla Conquista (che oggi torna alla ribalta proprio nella prospettiva delle manifestazioni indette per cele brare Cristoforo Colombo e il cinquecentesimo anniversario della « scoperta della America ») non mancasse un riferimento preciso al sentimento con il quale le popolazioni indigene (di quella che oggi si chiama America latina) hanno vissuto un avvenimento che ha stravolto per sempre la loro vita e la loro storia. Ecco, allora, la « voce dei vinti ». * * * Testimonianza maya Come gli aztechi affermano nei loro testi che prodigi e presagi funesti hanno vaticinato l’arrivo degli uomini bianchi, cosi i testi maya contengono le profezie 85 dei Chilam-Balamood, o sacerdoti « tigri » che annunciano la comparsa degli « stra­ nieri dalle barbe rossicce ». Tutte le profezie concordano nell’affermare che entro « l’undicesimo periodo di vent’anni di 360 giorni », ossia IT I Ahau Katùn, sareb­ bero arrivati « i figli del sole, gli uomini di colore chiaro ». Profezia del Chilam Balam di Chumayel e Tizimin LT1 Ahau Katun il primo che si conta è il katùn iniziale. Ichcaansihó, Faccia della nascita del cielo, fu il seggio del katùn quando giunsero gli stranieri dalle barbe rossicce, i figli del sole, gli uomini di colore chiaro. Ahi! Rattristiamoci, poiché son giunti! Dall’oriente sono venuti, e quando giunsero i barbuti a questa terra, i messaggeri col segno del dio, gli stranieri della terra gli uomini rossicci... cominciò dal Fiore di Maggio. Ahi per Itzà, Mago dell’acqua, che vengono i vigliacchi bianchi del, cielo, i bianchi figli del cielo! Il legno del bianco scenderà, verrà dal cielo, da ogni parte verrà, all’alba vedrete il segno che lo annuncia. Ahi! Rattristiamoci poiché sono venuti, poiché sono arrivati i grandi ammucchiatori di pietre, i grandi ammucchiatori di travi per costruire, i falsi ibteel, « radici » della terra che sputano fuoco all’estremità delle braccia, i mascherati nei loro lenzuoli, quelli con le corde per impiccare i Signori! Triste sarà la parola di Hunab Ku, Unica-divinità per noi, quando si allargherà per tutta la terra la parola del Dio dei cieli. Ahi! Rattristiamoci poiché sono giunti! Ahi per Itzà, Mago dell’acqua, perché i vostri dei non varranno più! Questo dio Veridico che viene dal cielo solo di peccato parlerà, solo di peccato sarà il suo insegnamento. Inumani saranno i suoi soldati, crudeli i suoi mastini feroci. Quale sarà l’Ah Kin, sacerdote del culto solare, e il Bobat, Profeta, che capisca ciò che deve succedere 86 ai popoli di Mayapan, stendardo-cervo, e Chichen Itzà bordi dei pozzi del mago dell’acqua? Ahi per voi, miei fratelli minori, che il sette Ahua Katùn avrete troppo dolore e troppa miseria per il tributo raccolto con violenza e soprattutto consegnato rapidamente! Diverso tributo domani e dopodomani darete: è questo che ci aspetta figli miei. Preparatevi a sopportare il peso della miseria che viene al vostro popolo perché questo katùn che cala è katùn di miseria katùn alle prese col maligno, alle prese l’l 1 Ahau. Profezia del Chilam Balam di Mani Buona è la parola che ci viene dall’alto, Padre. Entra nel suo regno, entra nelle nostre anime il vero Dio; però ci preparano agguati. Padre, le bestie feroci che si bevono i fratelli, schiavi della terra. Riarsa è la vita è morto il cuore dei suoi fiori, e coloro che immergono a fondo la loro tazza, coloro che la tendono fino a spezzarla, sciupano e succhiano i fiori degli altri. Falsi sono i loro re tiranni sui loro troni, avari dei propri fiori. Di gente nuova è la loro lingua le loro sedie, tazze, i loro cappelli. Picchiatori di giorno oltraggiatori di notte schiacciato ri del mondo! Il loro collo è torto, i loro occhi socchiusi; molle è la bocca del re della loro terra, Padre, quello che adesso già si fa sentire. Non c’è verità nelle parole degli stranieri. I figli delle grandi case deserte, i figli dei grandi uomini delle case spopolate, diranno che è vero che essi sono venuti qui, Padre. Che profeta, che Sacerdote, sarà quello che interpreterà esattamente le parole di queste scritture? Testimonianza azteca sulla conquista Signori nostri, illustrissimi signori: avete sofferto fatiche per giungere a questa terra. Qui dinanzi a voi, vi contempliamo, noi gente ignorante... E ora, che cosa diremo? che cosa dobbiamo dire rivolgendoci al vostro orecchio? Siamo noi forse qualcosa? Siamo soltanto gente comune... Attraverso l’interprete rispondiamo, restituiamo il soffio e la parola del Signore del vicino e dell’insieme. Per sua causa ci esponiamo per questo ci mettiamo a repentaglio... Forse alla nostra perdizione, forse alla nostra distruzione, solo a esse saremo portati. [Ma] Dove dovremmo andare ormai? Siamo gente comune, siamo effimeri, siamo mortali, lasciateci allora morire, lasciateci allora perire perché già i nostri dèi sono morti. [Però] Si tranquillizzino il vostre cuore e la vostra carne, Signori! perché squarcieremo un poco, ora un poco scopriremo il segreto, l’arca del Signore, nostro [dio]. Voialtri avete detto che noi non conosciamo il Signore del vicino e dell’insieme e colui di cui sono cieli e terra. Avete detto che non erano veri i nostri dèi. Nuova parola è questa che voi dite, da essa siamo turbati, da essa siamo molestati. Perché i nostri progenitori, coloro che sono stati, che sono vissuti sulla terra, non solevano parlare così. Essi ci hanno dato le loro norme di vita, essi tenevano per veri, prestavano culto, 88 onoravano gli dèi. Essi ci hanno insegnato tutte le loro forme di culto, tutti i modi che avevano di onorare [gli dèi]. Cosi, davanti a loro accostiamo la terra alla bocca [per loro] ci caviamo sangue, sciogliamo i voti, bruciamo coppale [incenso] e offriamo sacrifizi. Era dottrina dei nostri maggiori che è per gli dèi che si vive, essi ci hanno rimeritato [con il loro sacrfiicio ci hanno dato la vita]. In quale modo, quando, dove? Quando ancora era notte. Era loro dottrina che essi ci danno sostentamento, tutto quanto si beve e si mangia, ciò che conserva la vita, il mais, il fagiolo, le bietole, la serpentaria. È a loro che chiediamo acqua, pioggia, per mezzo delle quali si producono le cose sulla terra. Essi sono ricchi, sono felici, possiedono le cose di tal modo che sempre e per sempre le cose germinano e verdeggiano nella loro casa... là ’dove si esiste comunque’, e il luogo è Tlalocan. Non v’è mai fame, non vi sono infermità, non v’è povertà. Essi danno alla gente valore e autorità... E in che modo, quando, dove, gli dèi furono invocati, furono supplicati, furono considerati tali, furono riveriti? Da allora è passato moltissimo tempo, fu là a Tuia fu là a Huapalcalco, fu là a Xuchatlapan, fu là a Thamohuanchan, fu là a Yohuallichan, fu là a Teotihuacan. Essi su tutto il mondo avevano stabilito il loro dominio. Essi diedero il comando, il potere, la gloria, la fama. 89 E adesso noi dovremmo distruggere l’antica regola di vita? Quella dei chichimechi, dei toltechi, degli acolhua, dei tecpanechi? Noi sappiamo a chi si deve la vita, a chi si deve il nascere, a chi si deve Tesser generato, a chi si deve il crescere, come si fanno le invocazioni, come si deve pregare. Ascoltate, signori, non fate nulla al vostro popolo che gli arrechi disgrazia, che lo faccia perire... Tranquillamente e amichevolmente vogliate considerare, signori, quello che è necessario. Non possiamo essere tranquilli, e certamente non crediamo ancora, non lo accettiamo come verità [anche se] vi offendiamo. Ecco i signori, quelli che governano, quelli che conducono e dirigono il mondo intero. È già sufficiente che noi abbiamo perso, che ci sia stato tolto, che ci sia stato impedito di governarci. Se nello stesso luogo resteremo, saremo solo prigionieri. Fate di noi quello che vorrete. È tutto ciò che rispondiamo, ciò che replichiamo, al vostro vigore, alle vostre parole, o Signori! Un’elegia quechua sulla morte di Atahualpa Che arcobaleno è questo nero arcobaleno che si leva? Per i nemici del Cuzco un’orribile freccia che spunta. 90 Dovunque una grandine sinistra picchia. Presentiva il mio cuore a ogni istante, perfino in sogno investendomi e nel letargo, la mosca azzurra che annuncia la morte: dolore senza fine. Il sole si fa giallo, annotta misteriosamente; riveste d ’un lenzuolo funebre Atahualpa, il suo cadavere, il suo nome; la morte dell’Inca abbrevia il tempo, che dura quanto un battere di ciglia. Già l’orrido nemico avvolge la sua testa amata; un fiume di sangue cammina e procede in due correnti. Crepitando, i suoi denti già stanno mordendo la cupa tristezza; si son fatti di piombo i suoi occhi, eh’erano come il occhi di Inca. Si è congelato ormai il grande cuore di Atahualpa. Dal pianto degli uomini delle Quattro Regioni affogato. Le nubi il cielo hanno lasciato, facendosi nere; la madre Luna, intirizzita, col viso malato, impiccolisce. E tutto e tutti si nascondono, spariscono, penando. La terra non vuole seppellire il suo signore, come se si vergognasse del cadavere di chi l’ha amata, come se non volesse divorare il suo adalid [capo], E i precipizi rocciosi tremano per il padrone, funebri canti intonando, mugghia il fiume con il suo enorme dolore, gonfiando le sue acque. Le lacrime a torrenti, unite, si raccolgono. Chi è l’uomo che non scoppia in pianto per colui che lo ha amato? Qual è il figlio che non deve esistere per suo padre? Gemente, dolente, cuore ferito senza gloria. Quale colomba amante non darebbe se stessa all’amato? Qual è quel delirante e inquieto cervo selvaggio, che al proprio istinto non obbedisca? Lacrime di sangue strappate, strappate alla sua gioia; specchio che riflette le sue lacrime, ritraete il suo cadavere! Bagnate tutti nel suo immenso affetto il vostro grembo. Con le molteplici potenti sue mani gli accarezzati; con le ali del suo cuore i protetti; col delicato tessuto del suo petto i ricoperti; gridano adesso; con la dolente voce delle vedove tristi. Le nobili elette si sono inclinate, insieme, tutte a lutto, l’Huillaj Umu ha indossato il suo manto per il sacrifizio. Tutti gli uomini sono sfilati davanti alla bara. Soffre mortalmente la sua tristezza delirante, la Regina Madre; e i fiumi delle sue lacrime cadono sul giallo cadavere. Il suo volto è rigido, immobile, e la sua bocca dice: Dove sei fuggito, nascondendoti ai miei occhi, abbandonando questo mondo al mio dolore; eternamente staccandoti dal mio cuore? Arricchiti con l’oro del riscatto, gli spagnoli, l’orrendo cuore divorato dal potere, urtandosi l’un l’altro, 92 con ansie sempre piu oscure, belve furenti. Hai dato loro quello che hanno chiesto, li hai colmati, ciò nonostante ti hanno assassinato. I loro desideri li hai saziati sin dove hanno preteso, tu solo; e morendo a Caj amarca sei perito. Si è già esaurito il sangue nelle tue vene; si è spenta nei tuoi occhi la luce; in fondo alla stella più intensa è calato il tuo sguardo. Geme, soffre, si muove, vola come impazzita l’anima tua, colomba amata; in delirio, in delirio, piange e soffre il tuo amato cuore. Con il martirio della separazione infinita il cuore si spezza. II limpido rifulgente aureo trono, e la tua culla; i vasi d ’oro, tutti, se li sono spartiti. Sotto estraneo dominio, cumulati tormenti, e distrutti, perplessi, sperduti, negata la memoria, soli; morta l’ombra protettrice, e non sappiamo a chi o dove rivolgerci. Stiamo delirando. Sopporterà il tuo cuore, Inca, questa nostra errabonda dispersa vita, da pericoli incontabili accerchiata, in mano d ’altri, calpestata? I tuoi occhi, che come avventurose saette ferivano, àprili; le tue magnanime mani stendile; e da questa visione rincuorati salutaci. Donne al mercato di Barrancas, 1960 Margara Russotto * Molteplicità culturale e specificità letteraria in America latina** Nella misura in cui la cultura viene considerata oggetto di studio, diventa difficile pensare che parlare dei suoi diversi linguaggi, stratificazioni e molteplici dimensioni, sia un compito facile. Il piu elementare tentativo di definizione del termine cultura deve affrontare una serie di difficoltà e perfino di paradossi. Come avvertiva Herskovits, la cultura costituisce un complesso stabile in ogni società umana, eppure è in perpetuo cambiamento; ha un carattere universale, ma si plasma in maniera unica solamente nelle manifestazioni locali o regionali; include gli aspetti materiali e quotidiani della vita dell’uomo cosi come ela­ borazioni intellettuali e simboliche di estrema complessità; costituisce la di­ mensione determinante della nostra vita e, ciò nonostante, essa è solo raramente percepita in modo cosciente ed obbiettivo. A questi paradossi che stanno alla base della sua stessa definizione, si deve aggiungere il fatto che ogni disciplina, ogni frazione della conoscenza, grazie alla crescente specializzazione della sua metodologia e delle sue tecniche di analisi e d ’interpretazione, opera su di una visione della cultura — delle sue componenti e delle sue funzioni — ristretta e rigorosamente codificata, fino al punto che, molte volte, diventa perfino irriconoscibile fuori dall’ambito di cia­ scuna disciplina. Lo studio delle manifestazioni culturali viste da una prospet­ tiva antropologica, per esempio, non coincide con la prospettiva semiotica o con * Docente all’Università di Sào Paulo. ** Conferenza presentata al congresso La lingua della cultura, organizzato dall’Università Federale do Rio Grande do Sul, a Porto Aiegre (Brasile), dal 6 al 10 ottobre 1986. quella della storia o della filosofia; non coincidono i linguaggi, né i metodi, né gli obbiettivi e neanche le conclusioni. E ciò accade in tutti gli ambiti del sapere; il che non significa naturalmente che non esistano zone di contatto e di con­ fluenza atte a propiziare prospettive interdisciplinari di grande fecondità. Il concetto si complica ancor di piu quando si parla di cultura « nazionale », poiché allude a due significati intimamente contraddittori. Da una parte, è l’espressione ideologica che corrisponde al discorso dominante, interessato ad omologare il diverso e a cancellare le differenze, attribuendole alla totalità della cultura di alcune minoranze; ma dall’altra, anche rispettando la diversità delle culture, diventa necessario riconquistarne l’unità che si intuisce poderosamente perfino nella stessa soggettività di ciascun individuo. Mi sembra, dunque, inevitabile mettere subito sul tappeto questi problemi, che certo non pretendo di risolvere, solo per ricordare che i concetti di cultura sono infiniti e inconciliabili fra di loro. Al contrario, poiché il nostro campo di lavoro è la letteratura latinoamericana, proprio da quest’ottica potrebbe venire fuori una nostra riflessione sul tema della cultura in relazione ai suoi diversi discorsi. Bisognerà dunque proporre, in questa sede, alcune idee che possano risultare feconde per questo tipo di incontro, dato che si riferiscono alla relazione fra gli universi della cultura latinoamericana e alla sua produzione letteraria. La prima idea che vogliamo comunicare — certamente non nuova e proposta già altre volte da piu di uno studioso — è quella del carattere essenzialmente mol­ teplice, conflittuale ed eterogeneo di questa cultura; e la seconda, sapere in che misura questa eterogeneità viene captata e trasformata instancabilmente dalla letteratura di questo continente. In realtà, la particolare situazione dell’America latina esige un certo tipo di considerazioni. Poiché essa è fortemente marcata dal segno del molteplice e del contraddittorio, da forme espressive divergenti e perfino opposte, dalla coesi­ stenza di diversi livelli di sviluppo politico e sociale, come pure dalla presenza simultanea di diversi influssi artistici ed infine dalla configurazione stessa del processo storico che fin dai tempi della colonia coniuga, e a volte altera e lacera, le voci dell’indigeno, del colonizzatore e degli altri popoli del mondo giunti sulle nostre coste, la nostra realtà è la dimostrazione viva dell’impossibilità di comprenderne la cultura da una prospettiva univoca, egemonica o falsamente unitaria. Lo sforzo per organizzare questa delirante molteplicità culturale, imposto fin dalle origini, è stato intenso e sostenuto in seno alle scienze sociali in generale, e in quello dell’antropologia in particolare. Si è parlato di varie Americhe, ciascuna delle quali presenta un tipo di vita e di forme economiche e culturali perfettamente differenziate: « l’America india o piu esattamente meticcia, formata dai paesi in cui pre­ domina l’elemento indio, lo sfruttamento agrario del latifondo, il colonialismo e perfino la schiavitù, parzialmente sostituita a partire dal secolo X V I I I dal bracciantato (Messico, America Centrale, ad eccezione del Costarica, Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Bolivia e Paraguay). Un secondo « paese » in cui pre­ domina l’elemento mulatto, è la zona in cui si è avuta la schiavitù negra. Con l ’eccezione di alcuni nuclei in altri paesi, si limita alle coste del Brasile, al Ve­ nezuela, alla Colombia, al Panama, alle Guyane, alle isole del Caribe e al sud degli Stati Uniti. Infine, l ’America bianca, limitata al Costarica e agli stati meridionali del Brasile, regioni di colonizzazione europea recente ed intensa, in 96 c u i la p o p o la z io n e in d ig e n a fu s t e r m i n a ta o c o n c e n tr a ta in “r i s e r v e ” e d in c u i la m a n o d ’o p e r a p r o c e d e d a g li im m ig r a n ti, n e lla m a g g io r p a r t e la t in i » '. Per questo, più che di « paesi » si è ritenuto utile parlare di « aree culturali ». Di fatto, le caratteristiche geografiche, le composizioni etniche e lo sviluppo sto­ rico del continente fa si che, da una parte, vari paesi integrino una stessa area culturale — è il caso della regione andina, per esempio, formata dall’Ecuador, la Bolivia e il Perù — mentre, dall’altra, un unico paese — come il Brasile, il Venezuela — abbraccia diverse aree culturali all’interno delle sue frontiere Il caso del Brasile, in particolare, è molto tipico dato che fu proprio una pionieristica interpretazione della sua letteratura 2 a mettere l ’accento sull’esistenza di un vero e proprio « arcipelago culturale, diviso in sette zone o isole culturali con caratteristiche proprie; in ciascuna di queste « isole », affermava Vianna Moog, sorgeva un filone di letteratura dai tratti ben differenziati: quella cosmogonica del Rio delle Amazzoni, quella dell’inquietudine sociale del Nord Est, quella di raffinata erudizione di Baia, quella proselitista di San Paolo, quella mistica di Minas Gerais, quella individualista di Rio Grande do Sul, e quella metropolitana di Rio de Janeiro. D ’altra parté, è stato detto anche che non basta una considerazione orizzon­ tale della diversità latinoamericana, ma che è necessario dare conto della strati­ ficazione verticale dei diversi gruppi sociali, i cui livelli di vita vanno dalla massima raffinatezza fino a condizioni quasi preistoriche di sopravvivenza, anche se con­ vivono nello stesso spazio. Di modo che, non essendoci omogeneità fra le diverse sfere della società, la sfera culturale non coincide neanche con la sfera classista o con la sfera geografica. Un esempio eloquente è quello del Perù in cui il progetto nazionale ha come soggetto una minoranza bianca capitalina, mentre il progetto culturale delle Ande ha come soggetto l’indio e soprattutto il meticcio. Eppure, neanche questa situazione può essere considerata come data una volta per sempre. Lo stesso sostrato basilare di transcultura imposto dalla con­ quista, non costituisce una eredità statica ed immobilizzata nel tempo. Nella mi­ sura in cui la partecipazione di cosi diversi elementi varia secondo le fasi della storia latinoamericana, variano pure i linguaggi e le funzioni di essi, che acquistano altre modalità — a volte sotterranee, a volte esplicite — a contatto con nuove congiunture. L’impatto con le ondate di modernizzazione che invadono l’America latina a partire dal secolo XIX durante la lotta di emancipazione politica e fino ai giorni nostri, sono l’esempio di questa intensa mobilità culturale a cui viene sottoposta costantemente a causa del succedersi di ogni tipo di influenze. A partire dalla presenza omologatrice della cultura francese, il cui duplice effetto consistette, da da una parte, nel sotterrare nostre tradizioni intellettuali e, dall’altra, nel riunirci attraverso la diffusione di un sistema letterario che andò a formare parte insepa­ rabile della nostra fisionomia intellettuale; passando per il rinnovamento delle avanguardie artistiche, convertite in polo di controllo e di opposizione critica al dominio delle influenze europee, divorandole e — nonostante la loro forma­ zione europeizzante ed elitaria, o ppoprio per questo — proponendo una con­ giunzione creativa con la realtà nazionale o regionale; fino al fiorire dei diversi nazionalismi, sia politici che letterari; e, finalmente, dopo la seconda guerra mon1 Carlos M. Rama, Mouvements ouvriers et socialistes (Chronologie et Bibliographic). L’Atnénque Latine (1492-1936), Paris, 1959. Citato da Manuel Galich, Èl indio y el negro, ahora y antes, « Casa de las Américas », La Habana, n. 36-37, maggio-agosto 1966. 2 Vianna Moog, Urna interpretando da Literatura Brasileira, Rio de Janeiro 1983. 97 diale, la dipendenza dall’orbita economica nordamericana, caratterizzata dall’espan­ sione delle città, dalle multinazionali e dall’invasione dei mezzi di comunicazione di massa; tutto ciò ha impresso sulla sensibilità culturale nuovi confronti: la cultura delle lettere rispetto alla cultura orale e popolare e la cultura visiva e sublimata dall’immagine. La cultura latinoamericana è, dunque, in diversi gradi e versioni, costituita da questo panorama di miscugli e contraddizioni che si vanno sovrapponendo nel corso della storia; una cultura di traumi e di rotture che, in pochi secoli sembra aver sperimentato — o proprio divorato — tutti gli stadi della civiltà. Niente di più efficace per definire questa realtà del termine c u lt u r e s p u r e e i , utilizzato da Darcy Ribeiro per esprimere, con una prospettiva di negazione e di denuncia, questa coesistenza di conflitti, di sfasamenti e di contraddizioni, frutto di intensi processi di « deculturazione » a cui si vedono costantemente soggetti i popoli americani. Obbligati a sopravvivere fra pressioni deformatrici piuttosto che a coltivare liberamente la propria tradizione, essi non sono riusciti a fondare, secondo l’antropologo, una cultura « autentica ». Ma, come per effetto di un vento sinistro e perturbatore, in America latina tutto sembra contaminarsi: un popolo con l’altro, o con sé stesso o con il suo contrario, in deliranti dialoghi. Come un Mida all’incontrario, tutto ijuanto tocca il suolo americano può convertirsi in fango: la modernizzazione frenetica ha finito con l’acutizzare le tensioni fra la cultura urbana e quella dell’interno di tratti più arcaici; la sofisticata tecnologia non ha avuto un uguale grado di espansione, e se è risultata efficace per il mercato estero, non lo è stata per lo sviluppo del mercato nazionale; e, come ha notato Carpentier in E l s ig lo d e la s lu c e s , in una metafora di questa scomposizione dei contenuti, la stessa ghigliottina importata dalla Francia, venne moltiplicata a Guadalupe in versioni semplificate il cui fine era quello di decapitare i gatti quando, intorno alla piazza delle esecuzioni, co­ minciò a fiorire un variopinto e chiassoso mercato. È questo il parere di Angel Rama quando si riferisce a questo comporta­ mento parodico, critico e conflittuale del processo culturale latinoamericano: M o d e r n iz z a r c i e d e m o c r a ti z z a r c i fu t u t t ’u n o a p a r t ir e d a g li u l t i m i t r e n t a n n i d e l s e c o lo X I X , s o lo c h e il p r o d o t t o c h e n e v e n n e f u o r i n o n a s s o m ig lia v a a f f a tto ai s o g n i d e ll e p e r s o n e c o lt e c h e lo g e n e r a r o n o , i n f a t t i le m a s s e c h e e n tr a v a n o n e lla p ia z z a p u b b lic a a v e v a n o u n a te n d e n z a ir r e f r e n a b ile a c o m p o r ta r s i s e c o n d o il p r o p r io s f iz io , u n o s f iz io c h e c o m b in a t r a d iz i o n i c u ltu r a li a n tic h is s im e c o n in n o c e n t i m e ­ r a v ig lie d a v a n ti a lla m e r c e i m p o r t a t a 3 4. Senza essere contraddittorie, la tesi delle « culture spurie » e quella delle « combinazioni » deliranti, sottolineano punti di vista diversi di uno stesso pro­ cesso. Se la prima pone l’accento sulla rigidità delle forme compulsive o in­ terrotte, la seconda sottolinea le risposte alternative, riconoscendo nel processo di transcultura non solo il momento passivo della espoliazione, ma anche quello dell’incorporazione e della riarticolazione originali. Questa differenza si spiega col fatto che l’oggetto di studio che induce a diverse interpretazioni è effettiva­ mente diverso; ma soprattutto perché proprio nella letteratura — su cui si appunta l’interesse di Angel Ram a5 — vengono rielaborati i conflitti culturali del con3 Darcy Ribeiro, Los brasileììos. Teoria del Brasil, México 1975, p. 146. 4 Angel Rama, El puesto de Gabriel Garcia Marquez, in « Prisma-Cabral », University of Maryland, n. 9/10, 1983. 5 Angel Rama, Transculturación narrativa en Arnérica Latina, México 1982. Questo studio, 98 tinente mediante le metafore piti stupefacenti e i contrasti piu violenti, in una specie di riconquista degli spazi perduti e di ricerca di nuovi spazi. La pluralità culturale viene cosi assunta ed elaborata dalla letteratura in una gamma di ricchissime risposte creative che molto spesso capovolgono il segno dell’avversità in una specie di privilegio. Come tali, sono a volte risposte molto antiche, che formano già parte della nostra tradizione, anche se il critico uru­ guaiano le ha studiate nella loro forma contemporanea, e che rivelano il modo di operare della letteratura in funzione dei processi culturali. È questa la carta geografica del paese, con il taglio delle sue regioni e dei suoi usi, così come l’hanno disegnata con tenacia i viaggiatori romantici del secolo XIX, la cui vo­ cazione documentarista — che oggi potrebbe sembrare esteticamente superata — vincolando l’esistenza di mondi cosi distanti e che si ignoravano fra di loro, ha fatto del genere romanzo una « vera forma di ricerca e di scoperta del Brasile » 6. Carte geografiche che saranno ridisegnate, piu di mezzo secolo dopo, per rico­ struire le figure della perversione pplitica: i dittatori; nel romanzo del dittatore — cioè in quel ciclo in cui diversi narratori si concentrano su uno stesso oggetto, durante gli anni ’70 — si dimostra come il mito di quel « residuo anacronistico che ancora governa in paesi civili », secondo un’espressione degli idealisti, veniva sovvertito da uno sguardo piu approfondito e sicuro che rimetteva in discussione proprio il senso di « anacronismo » e di « civiltà » in America latina, e mostrava quanto fossero complesse ed intrecciate le funzioni del caudillo nello sviluppo storico delle nazioni americane. È anche il recupero dell’universo leggendario e mitico precolombiano, in un momento in cui sembra essere ormai scomparsa ogni leggenda, cosi come propone la narrativa di Miguel Angel Asturias. O la ripetizione circolare della vita dei villaggi della costa colombiana, non registrati in nessun manuale di geografia, con i loro personaggi rozzi ed eroici, in attesa eterna — di una lettera, di un amore — sognando, condannati a cent’anni di solitudine. È la cultura del sertaò brasiliano, che nei racconti di Guimaràes Rosa resta sospesa come in una dignità epifanica, mettendo in luce le gesta patetiche degli ultimi sconosciuti banditi di un mondo in via di estinzione. Ed è pure la rappre­ sentazione fedele del mondo indigeno delle Ande peruviane il fine dell’opera di José Maria Arguedas, che straziò la sua vita e la sua scrittura in una dicotomia linguistica e culturale. Ma è anche il linguaggio delle città, l’invenzione stessa della città come il cuore privilegiato della modernità; un progetto inventato eppure minuziosamente costruito nella gigantesca opera di Mario de Andrade: poeta, antropologo, roman­ ziere, musicologo, folclorista, ed uno dei piu grandi fondatori della cultura bra­ siliana moderna. Città che possono apparire misteriosamente deserte in Clarice Lispector, invase da soffi demoniaci e da strane eco di animali — galli, scimmie, galline, scarafaggi — come per terrorizzarci o per prometterci, ambiguamente, una dimenticata condizione, una pienezza irrecuperabile. Queste metafore differenti della realtà latinoamericana che abbiamo fin qui segnalato, assumono cosi, nella diversità dei loro discorsi, le molteplici forme della cultura del continente: rivitalizzando la funzione poetica del mito, demi­ stificando i miti della ragione autoritaria; affabulando la nostra storia, reinterpre­ tano la storia dall’interno del suo stesso divenire; manipolando norme e generi benché menzioni vari narratori, si concentra soprattutto su José Maria Arguedas, ma considera anche come autori « transculturatori » Guimaràes Rosa, Juan Rulfo e Garcia Marquez. 6 Antonio Càndido, F orm alo da Literatura Brasiletra, voi. 2, Sào Paulo 1975, p. 112. 99 ereditati, li tornano ad articolare e li trasformano in funzione dell’interpretazione del loro tempo. In questo senso, se la regionalizzazione della letteratura è il correlato di un referente ugualmente frammentato ed eterogeneo, nello stesso tempo essa cerca di riannodare una sintesi quasi conciliatrice delle diverse dimensioni, contribuendo alla formulazione, in un codice estetico, del processo culturale latinoamericano. Nella parodia delle avanguardie o nella resistenza regionale, nel discorso cosmo­ polita o in quello documentarista locale, le letterature del continente vanno dise­ gnando pazientemente il profilo discontinuo ed incompleto della nostra realtà: sono un’interpretazione ed allo stesso tempo una costruzione della nostra spe­ cificità culturale, rappresentando un mondo del quale resta ancora molto da sco­ prire, e da imparare. Carnevale a Humahuaca, 1957 100 Luis Cardoza y Aragon II Guatemala piu vero Luis Cardoza y Aragón è sempre stato un personaggio scomodo. Lo scrittore che piu di tutti, forse, ha contribuito a far conoscere il Guatemala all’estero, ha passato piu della metà della sua vita lontano dal suo paese. Strenuo oppositore delle tante dittature che hanno oppresso e insanguinato il Guatemala, Luis Cardoza è ’invitato’ a partire persino dal governo Arevaio. « Non facevano che offrirmi incarichi di ambasciatore: nell’America del Sud, a Parigi, ovunque purché me ne andassi — racconta egli stesso — La verità è che la mia presenza non era molto gradita né all’esercito, né ai nordamericani ». Come scrive José Luis Barcàrcel: « Si sapeva che Luis Cardoza y Aragón considerava il socialismo, pur senza sot­ tovalutare le difficoltà da affrontare per costruire questo sistema, l’organizzazione sociale, la struttura che può permettere la liberazione dell’uomo cancellando le radici laceranti che il capitalismo genera e alimenta, abolendo l’asservimento, spezzando la reificazione, superando l’alienazione perché l’uomo possa essere, pie­ namente, uomo ». Il tratto più distintivo dell’essere uomo è la cultura. E Cardoza aveva voluto aprire alla cultura il Guatemala democratico degli anni Quaranta. Alla « Revista de Guatemala » da lui diretta collaborarono infatti intellettuali progressisti e rivo­ luzionari di ogni paese. « Volevamo ampliare l’orizzonte guatemalteco, portarvi un soffio dall’esterno — ricorda Luis — La rivista usciva con l’appoggio gover­ nativo, veniva stampata nella tipografia nazionale. Non aveva un’impronta netta­ mente di sinistra: se cosi fosse stato, avrebbe chiuso al secondo numero ». 101 Nel 1946 Cardoza viene convinto ad accettare l’incarico di ambasciatore in Unione Sovetica. « Non potei evitare di partire quando Arevaio mi chiese di rap­ presentare il mio paese a Mosca. Avevo ottenuto io stesso dal Congresso guate­ malteco il riconoscimento dell’Urss. Non si trattava certo di una posizione estre­ mista: il Guatemala aveva dichiarato guerra all’Asse: eravamo quindi alleati degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica. Del resto il Costa Rica aveva riconosciuto prima di noi il governo di Mosca. Eppure, quando ottenni dal Con­ gresso che venissero allacciate relazioni diplomatiche con i sovietici, fu come se il diavolo fosse entrato nel paese. Da parte mia accettai con piacere l’incarico nell’Urss, il grande paese che a quei tempi era praticamente sconosciuto agli americani ». Da quell’esperienza nascerà Retorno al futuro, « un libro — ci tiene a pre­ cisare Luis — a favore del popolo sovietico, a favore della cultura russa. Un libro che per me significò la rottura definitiva con la borghesia guatemalteca ». Naturalmente, ribelle ad ogni schematismo e ad ogni conformismo, Cardoza non soddisfa gli ortodossi comunisti guatemaltechi, che si lamentano perché nell’opera non viene dato sufficiente risalto al realismo socialista. « Se non attaccavo aperta­ mente il realismo socialista, neppure lo difendevo, perché sono convinto che co­ stituisca una limitazione burocratica, un momento ’ecclesiastico’ del marxismo. Per questo mi accusarono di essere un trotskista ». In realtà a Luis Cardoza non si possono affibbiare etichette. « Il vero intel­ lettuale non può non sentirsi impegnato a fianco del proprio popolo, non è ne­ cessario per questo essere iscritti ad un partito. Nel caso concreto del Guatemala, di fronte all’immensa miseria della maggioranza, non è neppure necessario essere rivoluzionari. Basta solo avere un po’ di pudore, il senso della dignità umana ». In Guatemala dunque la scelta di campo dell’intellettuale è netta: il popolo, le masse contadine, gli indios. « È soprattutto la popolazione indigena ad aver sofferto ed a soffrire la repressione governativa. Villaggi rasi al suolo, etnie di­ strutte. Per questo la crescente partecipazione dell’indio alla lotta può ben consi­ derarsi il fenomeno sociale e politico, ma anche culturale, piu importante della nostra storia recente. ‘Culturale’ perché presuppone, da parte delle masse indigene, la presa di coscienza della propria realtà, del proprio passato, delle proprie tra­ dizioni. Il Guatemala non è ancora una nazione, è un feudo: sarà una nazione quando la popolazione indigena avrà occupato il posto che le spetta nella vita del paese ». La riscoperta dell’indigenisimo non va però confusa con l’interesse distaccato, quasi da « entomologi », di certi ricercatori sul campo. « La realtà del mestizaje ha ormai cinque secoli. In questi cinquecento anni la relazione fra l’indio e il meticcio, fra l’oppressore e l’oppresso, si è trasformata nella relazione hegeliana fra il padrone e lo schiavo. Una relazione dialettica: noi meticci abbiamo mutuato molto dal mondo indigeno, cosi come il mondo indigeno da noi. Sbagliano pro­ fondamente quegli antropologi che, con una sorta di ’razzismo alla rovescia’, par­ lano di ’salvare’ queste culture, di conservare intatti usi e costumi di queste co­ munità (usi e costumi che molto spesso sono frutto della dominazione). Io non credo che la vera cultura indigena sia la realtà di miseria, di arretratezza, di fame che abbiamo sotto gli occhi e non credo che essi desiderino rimanere ancorati a questo livello di sopravvivenza. Negando ogni sviluppo storico, ogni scambio culturale che porti ad una evoluzione dell’intera società guatemalteca non facciamo che comportarci, ancora una volta, da colonialisti. Ma a dispetto di tutti l’indio sta cambiando e sta cambiando anche attraverso il rapporto con il meticcio. E cosi facendo costruirà un mondo nuovo, che conserverà elementi eterogenei delle varie culture ». 102 La riaffermazione di uno sviluppo culturale proprio dell’America latina acco­ muna Luis Cardoza ad altri grandi scrittori del suo continente: Scorza, Garda Marquez, Galeano. « L’incomprensione che esiste in Europa nei confronti delle nostre espressioni culturali dipende in parte dalla scarsa conoscenza che gli europei hanno di noi, in parte dal fatto che l’evoluzione dei nostri popoli non è esatta­ mente parallela, e non c’è ragione che lo sia. Basta pensare alla sorte della grande pittura muralista messicana: inizialmente i critici europei la attaccarono perché non la conoscevano, o meglio non la ri-conoscevano. Noi stessi a volte pecchiamo di eurocentrismo, quando pensiamo che un libro o un quadro di artista latino­ americano siano validi solo se ottengono successo in Europa. Dobbiamo impa­ rare ad adottare un criterio nostro, latinoamericano, per decidere se un’opera è valida, che sia applaudita o meno al di là dell’Atlantico. La stessa incomprensione si avverte sul piano politico, quando in Europa si riduce la nostra lotta a un epi­ sodio del confronto Est-Ovest, senza capire che i nostri problemi hanno radici nazionali. Quando poi si liquidano tutti i nostri movimenti di liberazione defi­ nendoli ‘filosovietici’ o ‘filocubani’ si fa solo il gioco di Washington, che cerca sempre pretesti per invaderci. In realtà la nostra è una battaglia contro il colo­ nialismo (e per colonialismo intendo l’imperialismo Usa) e per i piu elementari diritti umani. Quando gli europei comprenderanno meglio questa verità, si ren­ deranno conto che se gli Stati Uniti fossero una vera democrazia non sarebbero un paese oppressore, un paese che desidera popoli schiavi, popoli da sfruttare ». Dopo la caduta del governo Arbenz nel 1954, Luis Cardoza scrive due opere che costituiscono la chiave di lettura della realtà del suo paese: La revolución guate­ malteca e Guatemala, las l'ineas de su mano. La prima è un’analisi critica del pro­ cesso rivoluzionario e delle contraddizioni interne che ne hanno facilitato la fine. Nella seconda la terra tanto amata diventa méta ultima di un sogno, nutrito della memoria e della speranza. I due libri escono in Messico, dove Luis Cardoza ha scelto di vivere il suo esilio e dove la sua casa di Coyoacàn è diventata punto di riferimento per tutti gli intellettuali centroamericani. C’è chi ha detto che i grandi scrittori sono i migliori ambasciatori dei loro popoli. Mentre al governo del suo paese si alternano tiranni grotteschi e dirigenti fantoccio, Luis Cardoza continua a rappresentare all’estero il Guatemala piu vero. Nicoletta Manuzzato Poeta della vertigine * Conobbi Luis Cardoza a Città del Messico, nel settembre del 1944. Ero ap­ pena arrivato, in esilio, dal Guatemala. Mentre egli viveva qui già da vari anni, era sulla quarantina, ed era già una leggenda, io avevo appenna passato i venti e avevo pubblicato solo un racconto o due e altri lavori che da allora tento di dimenticare. Da lontano, in Guatemala, senza avere rapporti personali con lui, vedevamo Cardoza y Aragón come probabilmente lo si vede ancora laggiù, non solo come una cima inaccessibile nel campo della letteratura, il che era già sufficiente, ma * Di Luis Cardoza y Aragón è recentemente apparsa in Messico l’autobiografia: El rio. Novelas de caballeria. L’articolo che qui presentiamo (tratto da « Nuevo Amanecer Cultural », 1° novembre 1986) è stato scritto proprio in occasione di tale pubblicazione. 103 anche come un essere misterioso e di diabolica lucidità, capace di schiacciare qual­ cuno con una frase. Tra noi scrittori, pittori e musicisti giovani della cosiddetta Generazione degli Anni Quaranta passava di mano in mano, quasi in forma clan­ destina, un esemplare del suo libro La nube y el reloj sulla pittura messicana, vedevamo il suo nome sulle riviste « Romance » e « El hijo prodigo » ed alcuni di noi ripetevano poemi suoi letti sulla « Antologìa Laurei», anch’essa oggi leggen­ daria, sulla quale si incontravano molti dei migliori poeti della nostra lingua, a par­ tire da Rubén Dario. E tutto questo era stato vissuto e pubblicato da Cardoza y Aragón, lì vicino e allo stesso tempo tanto lontano, in Messico, nel mondo della Rivoluzione Messicana e di Làzaro Càrdenas, nostri ideali di rivoluzione e di gover­ nante; a Città del Messico che era meglio di Parigi, la Parigi decadente e occu­ pata dai nazisti. Il mio grande amico e compagno Otto-Raul Gonzàlez, che mi aveva prece­ duto nell’esilio dopo che una sciabola dell’esercito di Ubico gli aveva aperto la fronte in una delle manifestazioni di giugno alle quali avevamo partecipato, fece in modo di portarmi a conoscere Cardoza y Aragón in un luogo scelto da questi, la cantina El Puerto de Cadiz, vicina al luogo in cui, con Fernando Benitez, pre­ parava il supplemento culturale del giornale « El Nacional ». O forse era il giornale « El Nacional » ad essere vicino al luogo in cui lo preparavano, la cantina El Puerto de Cadiz. L’uomo diabolico mi parlò affabilmente. Non so che cosa avrò detto o fatto in quelle ore in cui bevemmo, mangiammo e tornammo a bere senza interruzione. Sono sicuro che la birra mi aiutò a farmi passare la paura e il suo stesso effetto a farmi dimenticare tutto. Non ricordo neppure altre riunioni come questa, né che vi siano state nei giorni seguenti. Forse fu quello il momento di maggior confi­ denza fra noi due e fino ad oggi lo so. Un mese piu tardi partiva per il Guatemala, il giorno dopo il trionfo della nostra Rivoluzione d ’Ottobre, per la quale io mi trovavo in Messico e al servizio della quale mi fermai nei nove anni che seguirono. In quelle condizioni il rapporto fra di noi era praticamente nullo; ma egli si mise subito al lavoro e cominciò a pubblicare in Guatemala la miglior rivista let­ teraria che mai si sarebbe potuta sognare laggiù, la « Revista de Guatemala », che contava sulla collaborazione di scrittori dell’interno e dell’estero; fra questi ulti­ mi nomi impressionanti come quelli di Luis Cernuda, Xavier Villaurrutia, Jorge Icaza, Octavio Paz, César Moro e quelli di alcuni ’nuovi’ messicani come Alì Chumacero e José Revueltas. E tutto andava bene ed io me ne stavo tranquillo finché a Cardoza y Aragón non saltò in testa di chiedere proprio a me una col­ laborazione, cosa che naturalmente non mi aspettavo e che mi riempì di angoscia. Feci del mio meglio, ma da quel momento, essendo io in parte incaricato della di­ stribuzione della rivista in Messico, mi trasformai in una sorta di sabotatore, sot­ traendo a molti dei miei nuovi amici, come lo stesso Chumacero e Ernesto Mejia Sànchez, i numeri su cui comparivano mie collaborazioni, numeri che io davo per persi temendo che essi le vedessero. Lo confesso adesso con molta pena. Molte cose avvennero da quel settembre del 1944, fra le altre la caduta, dieci anni dopo, del governo di Jacobo Arbenz. Ma durante e dopo gli anni della Rivo­ luzione, in Guatemala, nel servizio diplomatico e nell’esilio, Cardoza y Aragón continuò e continua a condurre la sua battaglia, quella del Guatemala e quella sua personale, con la caparbietà e la intransigenza di chi lotta con la verità dalla sua parte e con le sue migliori e piu temibili armi, la sua acutezza, la sua arte e la sua convinzione che non c’è miglior causa che quella del popolo e per essa si sveglia tutti i giorni e lavora persino in stato di sonnambulismo. Dal mio ritorno in Messico nel 1956 vedo Cardoza y Aragón frequentemente, forse non tanto come io desidererei, ma rispetto la sua privacy ed ho lasciato 104 sempre a lui l’iniziativa. Per me, anche quando l ’ho di fianco, rimane viva la sua leggenda. E non c’è rimedio: anch’io sono sempre lo stesso. In questo secolo il Guatemala ha dato i natali ad altri due scrittori di prima grandezza: Enrique Gómez Carrillo e Miguel Angel Asturias. Ai suoi tempi la prosa di Gómez Carrillo significò, per tutto il campo della nostra prosa, quello che la rivoluzione di Dario significò per la poesia. Entrambi furono grandi puli­ tori di stalle, entrambi bandirono dal nostro idioma le tele di ragno dell’accade­ mismo che i nemici di qualsiasi lingua straniera (dimenticando i buoni esempi di Garcilaso e di Cervantes per quanto riguarda l’italiano) venivano accumulando con autocompiacimento nella loro lotta contro i gallicismi mentali, come chiamavano qualunque forma di liberazione. E peggio ancora, come era possibile che dei cen­ troamericani che scrivevano con piume che si toglievano dalla testa osassero si­ mili cose? Gómez Carrillo, come Dario, saccheggiò il francese, qualcosa dell’in­ glese, qualcosa di qualsiasi lingua incontrata da qualsiasi parte. E ipocritamente, rimproverandoselo, gli altri ne approfittavano. Ma mentre Dario, dopo la morte, si è liberato delle critiche che gli aveva attirato l’intrascendenza delle sue rime di gioventù, a Gómez Carrillo sono mancati critici e lettori seri, che cancellassero la sua immagine di uomo superficiale e di semplice cronista del boulevard. Gli manca anche la devozione che i suoi compatrioti intelligenti finirono per dedi care a Dario, dopo essersi burlati di lui. Sicuramente Gómez Carrillo non è, neppure da lontano, un genio della gran­ dezza di Dario e qui mi riferisco solo ai suoi contributi alla modernizzazione della lingua ed alla sua capacità di ’travasare’ in questa le novità dal di fuori. A Miguel Angel Asturias, in poco tempo, succede un po’ la stessa cosa. Non sono pochi quelli che ancora oggi, con il suo Premio Nobel nella borsa e tutto il resto, e forse addirittura per colpa di quello stesso premio, continuano a ricordare il Miguel Angel pittoresco e popolano che conobbero di persona, lasciando che siano i francesi ed i tedeschi ad incaricarsi di studiarlo. E tuttavia, con tutto il suo amore per il francese, Asturias fece il contrario di Gómez Carrillo: dedicò tanta attenzione alla cultura indigena, volle approfondire tanto l’anima dei pri­ mitivi abitanti del Guatemala, usò un linguaggio tanto radicato nel modo di par­ lare proprio degli indigeni, che oggi le stesse classi medie guatemalteche trovano laborioso leggerlo e decifrarlo. Nell’abisso fra questi due estremi si dibattono i nostri critici giovani. Non voglio affatto dire adesso che Luis Cardoza y Aragón ha risolto questo problema collocandosi in posizione intermedia fra l’universale ed il locale, che la sua opera costituisce una sintesi di questi opposti o qualche stupidaggine del genere. Semplicemente, la sua opera è un universo distinto, distinto e certamente piu complesso e difficile da apprendere di quello dell’uno o dell’altro di tali illu­ stri compatrioti. Tanto per cominciare, i punti di confronto semplicemente non esistono. In tutta l ’opera di Cardoza y Aragón le forme usuali se ne vanno al dia­ volo. Non riesco ad immaginarlo a scrivere la cronaca di un avvenimento minore o un romanzo. Strariperebbe dalla prima pagina. Riesco ad immaginarlo solo nel­ l’ambito della poesia, l ’ambito veramente suo, che non ha forma ed è in lui lo spazio dell’esigenza, del non conformismo e della rivolta. E tuttavia, contraddizio­ ne per contraddizione, uno dei suoi libri migliori è una cronaca, Guatemala, las l'ineas de su mano; e Vequeha sinfonia del Nuevo Mundo è un romanzo, solo di un’altra sfera, con Dante protagonista principale a New York. Lottatore illuminato, abbagliato e abbagliante Cardoza y Aragón si impegna tuttavia a venire, di tanto in tanto, su questo pianeta per prenderci per mano e portarci a visitare il suo. Ma dove volgere lo sguardo nell’opera di questo poeta della vertigine senza trovarci in quelle sue regioni dove le sue visioni si contrad105 dicono, si intrecciano in abbracci laocoontiani o si scontrano per produrre scin­ tille la cui chiarezza è fatta piuttosto per accecarci, quando forse cercavamo solo un poco di luce, di questa luce opaca alla quale siamo abituati? Effettivamente Cardoza y Aragón è un’altra cosa, una cosa a sé e così bisogna prenderlo. Ho voluto innanzitutto situarlo in Guatemala perché quella è la sua terra, da lì viene e ne è contento, però viene anche dal resto del mondo, dove ha vissuto e che ha fatto suo con la stessa esigenza di cittadino del mondo qual è. In quanto a questa esigenza, chiunque legga El rio. Novelas de caballeria, vedrà che non esagero. Non vi è in questo libro una sola pagina in cui quest’esigenza non sia quasi un termine e insieme il punto di slancio e di arrivo; a volte impla­ cabile con gli altri, sempre implacabile con se stesso; il mondo visto, letto, vissuto e osservato con il meglio della sua intelligenza, quella sua intelligenza dai sensi aperti al fugace e al permanente, a ciò che non si vede con la vista, alla perce­ zione della tormenta nel vasto bicchiere di acqua che è questo mondo, piu in qua e più in là di quegli stessi significati. Voglio immaginare questo libro di memorie e battaglie di Cardoza y Aragón come una palla di fuoco che è via via cresciuta con la sua lunga esperienza degli uomini e della vita, il cui centro è in ogni parte e la circonferenza in nessun luogo. Mi stordisce la consapevolezza che in qualche punto di questa palla ci sono io, senza sapere che fare o pensare. {Trad, di Nicoletta Manuzzato) Augusto Monterroso 106 Fausta Antonucci Una iniziativa editoriale Nel panorama delle traduzioni italiane di narrativa ispanoamericana sono poche ormai le novità. È vero che adesso le ultime opere di autori già molto noti come Garcia Marquez, Vargas Liosa, Puig, Fuentes, vengono immediatamente (o quasi immediatamente) tradotte, e che di autori ugualmente molto noti come Borges e Sàbato si sono effettuati di recente « ripescaggi » di opere meno recenti. Si tratta però sempre di scrittori « nati » per il pubblico di casa nostra sull’ondata del co­ siddetto boom; e pochi nomi nuovi sono stati proposti al lettore italiano da quando la lunga risacca di questo particolare fenomeno editoriale ha cominciato a perdere forza. Due esempi tra i più rappresentativi: Isabel Allende, Héctor Bianciotti. Ora, è chiaro che una migliore conoscenza dell’America latina di oggi passa anche attraverso un ventaglio di offerte editoriali che presenti al lettore un qua­ dro quanto più possibile aggiornato e fedele della attuale produzione letteraria di quei paesi. In questo senso, c’è ancora molto cammino da fare. Una spinta in questa direzione potrebbe darla la nuova collana di un’editrice romana, le Edizioni Lavoro, intitolata « Il lato dell’ombra », che si propone di far conoscere opere narrative dei paesi appartenenti alla « fascia Sud » del mondo: America latina e Africa. La collana, nata nel giugno 1986, è stata promossa in collaborazione con l’Iscos (Istituto sindacale per la cooperazione con i paesi in via di sviluppo) e si avvale della consulenza del Coordinamento Ong Donne e sviluppo. È questa la prima iniziativa editoriale italiana che punti a dedicare alla « nuova » narrativa latinoamericana (cioè posteriore al boom) una singola collana — pur se in « coabitazione » anche con la nuova letteratura africana. In Italia del resto non ci sono mai stati, neanche durante il boom, equivalenti della famosa « Croix du sud », la prestigiosa collana di narrativa latinoamericana diretta da Roger Caillois per Gallimard e che tanta parte ebbe nella promozione europea di tale narrativa e 107 nella preparazione del fenomeno b o o m . C ’è da dire che Caillois stesso però chiuse la collana quando ritenne che la narrativa in questione non avesse piu bisogno di essere presentata come un settore « a parte » ma avesse raggiunto ormai il rico­ noscimento della sua « universalità ». Si potrebbe quindi preferire — anche per quanto riguarda la nostra editoria — un’attenzione piu continua alle nuove produ­ zioni letterarie latinoamericane, che eviterebbe di dover tornare a « collane chiu­ se » che rievocano lo spettro-lusinga di una « diversità » continuamente negata e/o assunta come inevitabile dagli stessi scrittori e intellettuali latinoamericani nel­ l’incessante dibattito sulla definizione dell’identità culturale del subcontinente nei confronti dell’Europa. I due romanzi che inaugurano questa collana per il settore riguardante la let­ teratura latinoamericana sono firmati da scrittori « nuovi » per il pubblico italiano: Maria Granata (argentina di Buenos Aires), autrice di T u m u l t i (traduzione di Uriel Parvex) e Mempo Giardinelli (argentino del Chaco) autore di A l s e t t i m o c ie lo (tra­ duzione di Arnalda Liliana Buldo). «N uovi», questi autori — ribadiamolo — solo per il lettore italiano: Maria Granata, infatti, scrittrice di poesia e di racconti per l’infanzia abbastanza nota in Argentina, ha pubblicato altri due romanzi oltre quello ora tradotto che è del 1974; e anche Mempo Giardinelli ha al suo attivo un buon numero di opere pubblicate negli Stati Uniti e in Messico, dove è vissuto otto anni in esilio e ha vinto nel 1983 il « Premio Nacional de Novela » { A l s e t t i m o c ie lo è del 1981). T u m u l ti si inserisce in un filone abbastanza ben conosciuto anche al pubblico italiano, quello del cosiddetto «realismo magico», ed è la storia della lenta disso­ luzione di uno smisurato clan familiare raccolto intorno a un’autoritaria matriarca, Cenobia Palomar. L’inizio dello sgretolamento si ha con la scomparsa da casa di uno dei figli di Cenobia, Lucas; poi, il fratello maggiore di questi, Crisanto, che la madre ha imprigionato per impedirgli di partire a sua volta, si impicca. Da questo momento inizia una successione sempre piu vorticosa di « tumulti » che finiscono per mandare in rovina la fittizia unità del clan: in un angolo remoto della casa viene installato un bordello, alcune stanze si sgretolano e crollano sep­ pellendo quelli che vi si trovavano, Elvira, la bellissima innamorata di Dionisio — il terzo figlio di Cenobia — scompare inghiottita dal desiderio degli uomini della casa per poi ricomparire magicamente... Quando, alla fine, Dionisio ed Elvira fuggono insieme lontano dall’atmosfera ormai malsana della casa, fuggono anche — dando fuoco all’immensa costruzione — tutti gli altri componenti della fami­ glia capeggiati dalle donne del bordello. Restano solo Cenobia, la figlia pazza di lei, e Francisca, la madre di Elvira; e sulle ceneri dei suoi affetti perduti e della casa e dell’autorità distrutta, Cenobia intuisce che il tumulto è piu forte e più vitale dell’autorità che lei aveva voluto e che una nuova vita inizierà ugualmente dovunque si trovino Dionisio ed Elvira — l’amore. II romanzo — per data di pubblicazione — è anteriore alla dittatura e quindi alle problematiche più esplicite connesse con quest’ultimo travagliato periodo di storia argentina e presenti nella più recente produzione letteraria di questo paese. Purtuttavia, non è difficile leggere nella storia fantastica che vi si narra una sorta di grande metafora sulle deviazioni e le stortura generate dall’autoritarismo. Nel romanzo è indubbiamente presente una bella vena poetica, ostacolata però e persino a tratti inaridita da una tendenza generale a calcare la mano su certi procedimenti tipici del «realismo magico»: ecco perciò il proliferare a volte fran­ camente troppo insistito di nane che lievitano in aria, uomini che diventano caval­ li, misteriose sparizioni, altrettanto misteriose consunzioni; morti che lasciano sulla terra parti corporee viventi (occhi, mani...). A questo si aggiunga la caratterizza­ zione, per eccesso, di certi personaggi che diventano cosi dei meri prototipi senza 108 spessore, di bellezza, di erotismo, di innocenza, di forza fisica e via dicendo. Molto diverso Al settimo cielo, ordito su un incessante va e vieni della me­ moria del protagonista dall’adolescenza trascorsa a Resistencia, nel Chaco argen­ tino, ai momenti successivi della sua vita a Buenos Aires e nell’esilio messicano, in un discorso dai toni tra ironici e disperati rivolto a un interlocutore ideale. Perno delle riflessioni e dei ricordi del protagonista è Aurora, la ragazza da lui vagheg­ giata a tredici anni — come fantasma erotico prima ancora che amoroso — e il cui ricordo lo ossessionerà per vent’anni, fino all’inaspettato ritrovarsi di entrambi in una strada di Città del Messico, e a un incontro d ’amore (il « settimo cielo », appunto) che segna però anche nel protagonista la presa di coscienza in qualche modo rasserenante del fallimento e dell’irrimediabile perdita del tempo trascorso. Tutta la complessa trama di problemi adombrati nel romanzo (il dramma di una generazione priva di sicurezze, dispersa dalla violenza della dittatura e dal­ l’esilio, l’insoddisfazione esistenziale e sentimentale, la nostalgia della patria e del­ l’infanzia perduta) viene espressa attraverso il filtro di un’onnipresente ed espli­ cita ossessione erotica che non fa che aumentare la tristezza dell’opera (è forse quello che voleva l’autore?) e che comunque finisce col risultare veramente trop­ po insistita e ingombrante. Sarebbe interessante in questo senso un confronto con La ricerca del giardino di Bianciotti, opera animata dalle stesse problematiche ma strutturata in modo profondamente diverso — meno ironico, è vero, ma anche più poetico e, forse, più suggestivo. In conclusione, sia Tumulti che Al settimo cielo ci pare sanciscano il carattere potenzialmente stereotipo di due grandi filoni (la linea del « realismo magico » e quella della fabulazione-riflessione sulle tematiche dell’esilio) che possono essere ricchi di ricerca e di poesia, ma che nei nostri due romanzi sono spesso irrigiditi dal carattere quasi formulaico di espedienti anche troppo prevedibili. Ben vengano dunque la « scoperta » e la pubblicazione in Italia di nuovi autori latinoamericani: noi ci auguriamo che la collana di cui abbiamo parlato abbia successo e che questo tipo di iniziative editoriali prosperi e trovi anzi imitatori, pur sperando che si scoprano e si « lancino » anche scrittori che sappiano dare di sé e della narrativa ispanoamericana di oggi un’immagine meno stereotipa e univoca. 109 vs Appello alla manifestazione dell’UCR (1950) RECENSIONI E SCHEDE Xabier Gorostiaga, George Invin (a cura di), c e n tr a le , U n ’a lt e r n a t iv a p o li ti c a p e r l ’A m e r ic a Edizioni Associate, Roma 1986, pp. 251. Troppo spesso si è portati a semplificare e ad appiattire le realtà del Terzo mondo, quasi a voler negare a quelle società la complessità che riscontriamo nelle nostre. È avvenuto anche per la crisi in Centro America: se i politologi di destra l’hanno ridotta a momento del confronto est-ovest, la sinistra ha colto unicamente le basi economiche dello scontro, sottovalutando o misconoscendo l’importanza dei fattori sovrastrutturali. Il volume U n ’a lt e r n a t iv a p o li ti c a p e r l ’A m e r ic a C e n tr a le , di recente pubblicazione, vuole contribuire ad un approfondimento della situa­ zione centroamericana nei suoi molteplici e contraddittori aspetti. Curato da Xabier Gorostiaga, direttore del Coordinamento Regionale di Studi Economici e Sociali di Managua, e da George Invin, docente di Scienze economiche all’Aia, il libro costituisce una sintesi del seminario che, nel giugno del 1983, proprio all’Aia impegnò una cinquantina di esperti dei due continenti sulle problematiche del­ l’istmo. Non si trattava di elaborare a tavolino un piano di pacificazione, quanto piuttosto di ricercare un nuovo modello di sviluppo che tenesse conto non solo dei problemi politici ed economici, ma delle dinamiche sociali, etniche, religiose: Il nostro — Gorostiaga lo dice esplicitamente — è un progetto « non neutrale. Un progetto che assume come premessa fondamentale la mobilitazione e la par­ tecipazione dei poveri della regione come soggetto storico di una nuova alter­ nativa ». La scelta di campo è dunque chiara, ma il libro non si esaurisce nella enunciazione di uno slogan. Analizza la complessa realtà della regione, fornisce dati precisi e documentazioni rigorose, rintraccia radici storiche, verifica la pra­ ticabilità di alleanze politiche e strategie economico-sociali. Particolarmente in111 teressanti le analisi sul ruolo della Chiesa nei processi rivoluzionari (Pablo Richard), su « Rivoluzione e pluralismo in Nicaragua » (José Luis Coraggio e George Invin) e il quadro d ’assieme tracciato da Gorostiaga (« Verso politiche alternative »). Qualche inesattezza è invece contenuta nella parte dedicata alle culture preco­ lombiane (Dunbar Ortiz, « La questione indigena »). Che cosa è cambiato dal 1983 ad oggi? Sostanzialmente poco. Non facciamoci illusioni: l’attuale imbarazzo della Casa Bianca, sottoposta al quotidiano stilli­ cidio di rivelazioni sull’Iran-contras connection, non esclude colpi di coda, anzi. Tanto più che l’opinione pubblica americana, se rimane colpita nell’apprendere di forniture di armi al « diavolo » Khomeini, non lo è altrettanto quando si parla di aiuti agli antisandinisti, impegnati nella « giusta lotta » contro l ’espandersi del cancro comunista. Dal ventaglio delle opzioni sulla politica da condurre in Centro America manca quella di lasciare ad un popolo sovrano il diritto di decidere autonomamente del suo destino. La crisi della regione è dunque ancora aperta a tutte le soluzioni, sia nei suoi aspetti interni che nei risvolti internazionali. Tanto più utile appare perciò l’ini­ ziativa delle Edizioni Associate, che con questa pubblicazione inaugurano una serie di opere sulle problematiche latinoamericane. Nicole Levré Michael Stiihrenberg - Eric Venturini, Centroamerica. Sfida aperta, Edizioni asso­ ciate, Roma 1987, pp. 314. M. Stuhrenberg, tedesco e inviato speciale del settimanale, « Die Zeit » in Centroamerica ed E. Venturini, francese e giornalista del settimanale « Revolution », ci offrono con questo lavoro, un’analisi vivace e completa degli avvenimenti che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere i paesi delTAmerica centrale. Cercando di capire che cosa fanno e che cosa potrebbero fare gli Stati Uniti, i loro alleati e i loro avversari sulla scena centroamericana, gli autori, in uno stile agile e rapido ma anche ricco di problematicità, descrivono le illusioni e le speranze suscitate dal « dialogo nazionale » in Salvador, lo sterminio delle tribù indiane in Guatemala, la militarizzazione forzata dell’Honduras, i nuovi piani del Pen­ tagono per il Costa Rica, e i tentativi per rovesciare la giovane rivoluzione nel Nicaragua. Il volume, organizzato in tre parti, si apre riportando un’affermazione di Ronald Reagan davanti al Congresso degli Stati Uniti il 27 aprile 1983: «N on c’è regione al mondo più strettamente integrata nel sistema politico ed economico degli Stati Uniti e più vitale per la sicurezza d ’America che l’America Centrale. Se li non saremo capaci di difenderci, non potremo certo sperare di vincere altrove: crollerebbe la nostra credibilità, salterebbero le nostre alleanze, la si­ curezza della nostra patria sarebbe in pericolo ». Come ricorda Oldrini nella prefazione, l’affermazione del presidente nordamericano sembra riecheggiare quella dei suoi predecessori, negli anni in cui Sandino combatteva sulle montagne del Nicaragua e, aggiungerei io, si snoda lungo il filo della concretizzazione della « missione storica » degli Stati Uniti, ancora più antica della dottrina Monroe. Nella prima parte del libro, la riflessione sui problemi attuali delle « repub­ bliche delle banane » e sulle loro specificità, s’intreccia con un continuo rivisitare la loro storia, sia per spiegare le dinamiche più profonde dei processi attuali, sia per dimostrare che se vecchia è l’esigenza di dominazione degli Usa, antiche 112 sono le cifre dello sfruttamento e della miseria, antica è la violenza spietata con la quale i dittatori di turno mantengono soggiogate queste popolazioni o cercano di stroncare sul nascere qualsiasi tentativo, non solo di rivolta, ma anche semplicemente di opposizione. Tra i 30.000 uccisi in Salvador nel 1932 e le migliaia e migliaia di questi anni, cosi come tra gli assassini di Sandino e dell’arcivescovo Romero, ci sono solo differenze di tecnologie repressive, non di ferocia. Esigenze di strategia generale e ragioni di sfruttamento locale si sono sommate per spingere gli Usa a tentare di mantenere il dominio assoluto del patio trasero. Ma proprio qui, in Centroamerica, si sono verificate alcune delle novità più sorprendenti del continente e addirittura del mondo. Proprio qui, nel patio trasero si è rotto un blocco politico militare, unico esempio nel mondo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1959 Cuba ha vinto la sua rivoluzione e si è rapidamente sottratta all’influenza e al controllo degli Stati Uniti; nel 1979 il Nicaragua ha portato a termine la sua rivoluzione e vive contro il volere del « grande vicino del Nord ». La seconda parte del volume è dedicata ad un’analisi minuziosa e puntuale della politica degli Usa nella regione, dalla grande sfida rappresentata dall’arrivo al potere dei sandinisti in Nicaragua ad oggi. Secondo gli autori, se prima di tale data sull’insieme degli staterelli centroamreicani gli Usa potevano dormire sonni più o meno tranquilli, dal 1979 la Casa Bianca è in allarme per i fermenti rivoluzionari che agitano la regione e si pone interrogativi drammatici. La democrazia resisterà in Salvador? Honduras e Costa Rica, fino ad allora cosi tranquilli, cederanno adesso sotto i colpi di un regime marxista-leninista espan­ sionista? Il Nicaragua divenetrà una nuova Cuba? La rivolta degli indiani in Guatemala finirà per avere la meglio sui generali? E che succederà con il Messico? E con il canale di Panama? L’analisi degli autori che in molti momenti cerca di ricostruire la logica interna della strategia Usa, dimostra che, a differenza degli anni ’60, gli Stati Uniti si sono rivelati incapaci di offrire,, un progetto coerente per la regione e che il modello Reagan difficilmente potrà dare all’America centrale sviluppo, stabilità e democrazia. Nella terza e ultima parte del volume Stuhrenberg e Venturini si interrogano allora sul ruolo che hanno giocato e che possono giocare in America centrale altri paesi, innanzitutto l’Unione Sovietica, Cuba, Messico, Colombia e Venezuela, Panama ed infine l’Europa. Gli autori spiegano perché il Cremlino non ha mai definito una politica a lungo termine per l’America Centrale e spiegano come, sia la vittoria dei sandinisti, sia lo sviluppo e l’unificazione della guerriglia sal­ vadoregna l’anno successivo, hanno colto di sorpresa i dirigenti sovietici che puntavano tradizionalmente sulle borghesie nazionali e sulla via pacifica, provando cosi ancora una volta la infondatezza delle analisi sovietiche. Ma la parte più interessante dell’analisi finale è dedicata alle occasioni mancate dell’Europa. Secondo gli autori, essa potrebbe certamente aprire un varco in America Centrale ma du­ bitano che ne abbia la volontà. L’atteggiamento dei paesi europei verso il Cen­ troamerica, emerge dall’analisi come una lunga sequenza di tentativi interrotti, di rinvìi, di timori, di gaffes irreparabili, come se l’Europa non volesse dimenticare che si ritrova dalla stessa parte degli Stati Uniti. Il volume pur concludendosi con una fiducia nella capacità di rivolta e di vittoria della vita sulle ineguaglianze, sulle ingiustizie e sui ritardi di una società, conserva intatta la sua problematicità, non presenta ricette univoche di soluzione e lascia intravvedere piuttosto un lungo e faticoso cammino prima di poter giun­ gere a una qualche soluzione risolutiva della crisi centroamericana. Maria Rosaria Stabili 113 Tomas Moulian-Isabel Torres Dujisin, re c h a : R o s s e I b a n e z , L a s c a n d id a tu r a s p r e s id e n c ia le s d e la d e - Flacso, Santiago de Chile 1986, pp. 241. Il tentativo di capire perché il Cile dopo una lunga esperienza di democrazia si sia ritrovato con una dittatura militare, ha portato negli ultimi anni un piccolo gruppo di studiosi cileni dell’opposizione, a una revisione critica della storio­ grafia degli ultimi cinquanta anni e soprattutto all’emergere di tematiche abbastanza trascurate sino a questo momento dalla produzione storiografica della sinistra. Moulian e Torres, entrambi ricercatori di Flacso a Santiago, hanno il merito di aver lanciato per primi il problema di ripensare la storia della destra cilena prima con un lavoro piu globale dal titolo E v o lu c ió n h is tó r ic a d e la d e r e c h a : p a s a d o , p r e s e n te y p r o ie c c io n e s a f u t u r o , ed ora con il lavoro che presentiamo. Nella prima ricerca, lo studio della evoluzione storica di una tendenza politica in un periodo di piu di cinquanta anni non aveva permesso di porre l’attenzione necessaria in aspetti e momenti cruciali, né di cogliere le diversità all’interno del gruppo conservatore cileno, soprattutto per la carenza di una accumulazione storiografica previa. Proprio per superare questa lacuna, gli autori hanno deciso di studiare dettagliatamente un aspetto della storia politica della destra e cioè le candidature presidenziali. La scelta è interessante per una serie di ragioni delle quali ne segnaliamo una in particolare. Le lotte per la designazione del o dei candidati all’interno di un raggruppamento (gli autori le chiamano processi de­ cisionali) costituiscono un campo interessante per analizzare conflitti e contrad­ dizioni tra punti di vista e linee diverse all’interno di tale raggruppamento e, nel caso della destra cilena, permettono di sfumare la visione di essa come una forza uniformemente conservatrice nei suoi orientamenti politici e di capire chi sono e che cosa propongono i settori modernizzatori all’interno di essa. Questo lavoro, presentato dagli autori come parte di una ricerca piu ampia delle candidature presidenziali della destra nel periodo 1938-1958, analizza due elezioni presidenziali: quella del 1938 in cui il candidato della destra Gustavo Ross è sconfitto dal candidato del Fronte popolare e quella del 1942 in cui il candidato della destra Carlos Ibanez, il « dittatore » degli anni venti, è nuovamente sconfitto dal candidato radicale. Nell’analisi di ogni elezione, l’attenzione degli autori si concentra su tre momenti. Il primo si riferisce ai processi di scelta e designazione del candidato, il secondo all’andamento della campagna elettorale. In questo secondo momento l’analisi di Moulian e Torres concede molto spazio sia al « discorso » del candidato della destra che viene puntualmente affrontato con il « discorso » dei candidati degli altri settori, sia alla sua capacità di costruire egemonia all’interno della base elettorale dei partiti che lo sostengono. Infine gli autori presentano, e commen­ tano i risultati elettorali e analizzano i dati che si riferiscono alla distribuzione per aree geografiche e quelli che si riferiscono alla partecipazione elettorale. Il discorso si sviluppa con sufficiente rigorosità e soprattutto l’analisi delle diffe­ renze e degli elementi comuni tra le candidature di Ross e Ibanez viene condotta senza perdere di vista sia il contesto internazionale, sia quello nazionale. Entrambe le elezioni presidenziali si realizzano in un contesto internazionale caratterizzato dal successo politico e militare del nazismo e del fascismo e cioè in un momento nel quale la lotta per la democrazia minacciata agglutina i piu diversi settori politici. Questo clima si riflette anche sul piano nazionale e favorisce la forma­ zione di fronti interclassisti sulla base della difesa della democrazia e sul consenso comune della necessità della modernizzazione capitalista. Questo, secondo gli autori — che negano alla destra politica cilena qualsiasi serio intento modernizzatore — spiega in parte la sconfitta elettorale. Ma Ross e Ibahez rappresen114 tano, all’interno della destra, due opzioni politiche diverse. Il primo rappresenta un progetto coerente di liberalismo borghese, è il candidato di una destra sicura ideologicamente e che punta al trionfo elettorale. Infatti il secondo governo Ales­ sandri era riuscito a riattivare l’economia, mettere ordine nelle finanze e assi­ curare una continuità costituzionale. Pertanto Ross è il candidato di una destra orgogliosa di aver risolto una crisi nazionale, che crede di avere un progetto per il paese e legittimità come forza di governo. La destra che invece appoggia nel 1942 Ibanez è una forza che già aveva perduto una elezione presidenziale, che vive la sensazione di stare in piena crisi e che si ritrova senza un progetto comune. Con Ibahez, la destra sceglie una linea puramente difensiva, destinata a contenere la sinistra, specialmente i comunisti, e a restaurare l’ordine « distrutto » dal Fronte popolare. D ’altra parte tanto nel 1938 quanto nel 1942, il candidato scelto non riesce ad agglutinare attorno a sé tutti i settori politici della destra. Nel 1938 la Gioventù conservatrice dà libertà di scelta ai propri membri mentre nel 1942 lo stesso Arturo Alessandri si mobilita attivamente contro Ibanez, riu scendo cosi a dividere il partito liberale. Ma nonostante questo, è fondamentale notare il fatto che la destra dimostra in entrambe le elezioni, una grande capacità elettorale. Contando essenzialmente sulle sue proprie forze riesce ad ottenere piu del 40 per cento dei voti e perde entrambe le elezioni solo di stretta misura. Gli autori non solo non ci spiegano le ragioni di questo fenomeno, ma pur con tutte le buone intenzioni di voler aprire sulla destra cilena un discorso di tipo nuovo, nonostante il fatto che la documentazione presentata nel lavoro stimoli una differente lettura dei processi, si ostinano a riproporre la vecchia interpretazione di una destra cilena che alla fine degli anni trenta si ritrova senza progettualità e in una fase di declino de­ finitivo. Chissà come faranno poi a spiegare la ripresa di tale forza negli anni quaranta e cinquanta e il suo brutale imporsi nel 1973. Maria Rosaria Stabili Habladurias del nuevo mundo, Ed. Rialp, Col. Adonais, Madrid 1986, pp. 70. Juan Octavio Prenz Un poeta-professore argentino, nelle cui vene scorre sangue italo-jugoslavo, che ha vsisuto a lungo e insegnato letteratura ispanoamericana nelle università di Buenos Aires, Lubiana, Belgrado e, attualmente, Trieste, perfettamente tri­ lingue, ha piu di chiunque altro il diritto di iniziare la sua ultima raccolta poetica con Raices: « Hablamos una lengua que alguien nos ha traido / de algun lejano y lugar / Acaso recordemos el color de los labios / y la voz del dador o invasor / E1 mundo està lleno de portadores de lenguas; / Corno reconocerlos? / Perversos de ideologias e historias / convertimos en dones los objetos impuestos / los modificamos con gracia / lupara salvar alguna vieja culpa?) / para tener también nosotros el derecho / de ser / dadores » (p. 7). Si tratta di una raccolta di grande omogeneità di tema e di atmosfera, che si può leggere in chiave storica — ‘nuevo mundo', ‘conquistadores', ‘caciques' — riconoscendo nomi date e realtà, ma che forse è più corretto leggere ritrovando, nel destino di vincitori e vinti, noi stessi, colonizzati e colonizzatori, tutti indistin­ tamente con l’ambizione di essere, almeno per una volta, dadores. Si tratta di poesia narrativa, di grandi episodi di guerra o di piccoli scherzi 115 della storia (« Dos ciudades minores se disputati / los honores y el cadaver de Abanké / ... / De su vida / ese insignificante periodo intermedio / nada sabemos ». C a m in o d e v id a , p. 26) in cui, con un guizzo o una impennata, il finale ci riserva una grande sorpresa, questa, per niente narrativa e altamente poetica. E l’ultimo verso è sempre un p i e q u e b r a d o , condensato, ermetico e illuminante nello stesso tempo. Un racconto classico dunque, breve e intenso, in cui il finale inatteso tronca bruscamente la narrazione, ci rende, integra, l ’epifania, e ci per­ mette di rileggere, smontare e rimontare, il tutto alla luce di una nuova verità, quella di Prenz. Grazie a questa particolare costruzione, forse piu magicamente riuscita (nel senso che l’epifania, inaspettata ma perfettamente organica alla narrazione, sembra sorgere per magia, senza sbalzi o dislivelli) nella prima parte della raccolta (R a ic e s p. 7, D e s c u b r i m ie n t o p. 20, E l e n t o m ò lo g o D ie g o E r ia r te e s c r ib e e n 1 6 8 0 p. 21, C o n s tr u c to r d e p u e n te s p. 45, C a n c ió n p o p u la r p. 52, R o m a n c e d e l B u r la d o r p. 53) il mero fatto di cronaca e la cadenza narrativa si immergono e si esaltano in una atmosfera epica in cui, ancora una volta, i cristiani colonizzatori e gli empi indigeni vivono e si nutrono della stessa realtà: « Cuenta el Inca que las profecfas / sobre el arribo del dios bianco / no incluian el asombro. / En otras latitudes / el mismo Colon se habia asombrado de incontrar indios buenos / aunque ya figuraban en sus profecias / Concluido el primer intercambio de asombros / empezó la lucha » D e s c u b r i m ie n t o p. 20). Di notevole interesse, inoltre, in quest’opera di Prenz (purtroppo non conosco le precedenti raccolte poetiche P la z a s u b u r b a n a , 1961, M a s c a r a d e p r o a , 1971, C u e n ta s c la r a s, 1979) è l’uso della spazialità; mi pare giusto pertanto citare, ri­ spettando la disposizione metrica visiva, un’ultima composizione, che evidenzia in modo esemplare sia la integrazione e convivenza di Storia e Poesia, sia la pos­ sibilità di rilettura partendo dal p ie q u e b r a d o finale, vera chiave di decodificazione che, anche graficamente, si impone e impregna di sé l’intera pagina: Economia Sabia La costumbre de intercambiar dones naturales exisria también entre los querandies La oferta menos novedosa: sabiduria por belleza y juventud Como el comercio estaba muy desarrollado las posibilidades eran muy variadas La humildad querandi fue siempre proverbiai Nuestras monedas son de cobre derian Las hacemos circular para que brillen R o s a M a r ia G r il lo Nicole Levré (a cura), N ic a ra g u a . C r o n a c a fo to g r a fic a d i u n p a e s e in l o t t a , Napo­ leone, Roma 1986, pp. 110. È il quinto volume della fortunata serie « Reportages » edita da Napoleone. Era stato preceduto dai confratelli dedicati al Vietnam, a Sabra e Chatila, a Gre­ nada. Fotolibri o fotostorie. Questo è curato da Nicole Levré, una delle prime redattrici di « Cubana », che per l’occasione si cela sotto un trasparente pseudo­ nimo, mentre Gian Carlo Pajetta ne ha scritto la prefazione. 116 Lo schema è quello della collana, forse un poco perfezionato: poche le pagine scritte, molte (e belle, eloquenti) le immagini del paese. Ricapitoliamo i titoli della presentazione « ragionata »: Noi e il Nicaragua, « Patria libre o morir »: in­ tervista al ministro degli Esteri Miguel d ’Escoto, Cronologia dell’aggressione ar­ mata, 1981-1986. Un’economia di guerra, L’altro fronte (la Chiesa ufficiale). Due documenti: all’inizio la Lettera aperta ai cristiani e al popolo, firmata nel marzo dello scorso anno da seicento religiosi e laici di ogni parte del Nicaragua; a chiu­ sura la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aia che dà ragione al governo sandinista nel suo ricorso avverso alle iniziative di guerra e di spionag­ gio degli Stati Uniti d ’America. Il te9to è infine corredato da una carta del paese, con alcuni dati sulla popolazione, gli abitanti, la lingua, la religione e da una cronologia delle vicende moderne e contemporanee « Dalla Conquista alla Libera­ zione » (1593-1979). La rivoluzione, in altre parole, è assunta come spartiacque il piu importante. Il discorso sulle foto, trattandosi di una « cronaca fotografica » dovrebbe en­ trare nel merito. Il materiale è fornito dalle agenzie Nueva Nicaragua e Novosti, da Lucio Cavicchioni e Graziella Almasio, da Pietro Gigli, da Tullio Quaianni. La parte inconografica è introdotta da due brani poetici. « Penso a questo uccello del Nicaragua / I salvadoregni, i guatemaltechi, gli abitanti del Belize / tutta l’America latina / saranno liberi come questo uccello » (Santiago Lopez). La vera e propria fotostoria occupa una cinquantina di pagine, che in verità parlano da sole. Le didascalie sono ridotte al minimo: « Muratori », « Soldati dell’Esercito sandinista »; chi guarda è colpito dal fatto che i protagonisti sono sempre dei giovani, talvolta dei ragazzi. L’obiettivo documenta con particolare riguardo, lo sforzo di rinascita guidato dal governo rivoluzionario (il complesso agro-industria­ le per la produzione dello zucchero a Malacatoya, presso Managua, i lavori di costruzione della centrale geotermica « Momotombo ») e lo sforzo di distruzione dei Contras (l’attacco della Cia al porto di Corinto, e cosi via). Il reportage si chiude con scene di vita quotidiana. Si coglie la parola d ’ordine di uno striscione: « Pueblo ejercito unidad garantia de la victoria ». All’editore e alla curatrice, come agli autori delle immagini, va il merito di una documentazione insolita. Poi la Iran Contras connection ha reso piu forte e cristallina anche agli occhi dei piu la causa del Nicaragua sandinista. Si può ben dire che questa « cronaca » di una lotta di liberazione nazionale ha involontariamente battuto sui tempi la succube inerzia, la pigrizia opportunistica dei Mass media. Parola e immagine alleate sono pur sempre un’arma rivoluzionaria di rara efficacia. E. S. Ernesto Sàbato, Il tunnel, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 171. Con questo libro Ernesto Sàbato si fece conoscere dal pubblico argentino nel 1947. Oggi l’autore è uomo di grande notorietà nel suo paese e fuori e proprio per il suo riconosciuto prestigio è stato incaricato dal presidente Alfonsin di pre­ siedere la Commissione di indagine sul fenomeno della « desaparición » e sulle violazioni dei diritti umani operate dalle Giunte Militari in Argentina. Si è trat­ tato di un impegno di grande delicatezza che richiedeva molto coraggio e che si è concluso con un rapporto, poi dato alle stampe con il titolo di Nunca Mas (Mai piu), che ha contribuito, nel 1984, all’assegnazione del prestigioso Premio Cer­ vantes, a questo anziano scrittore, autore di pochi libri, ma presente da decenni e con autorità sulla scena letteraria ispanoamericana. 117 I l t u n n e l , dunque, è un libro del ’47 ed in qualche modo si sente: si tratta del racconto di un delitto fatto dallo stesso assassino, un pittore portato alla follia omicida dalla passione per l’ambigua Maria, personaggio sfuggente della quale non sapremo se era innocente o meno. Lo stesso Juan Pablo, l’omicida, è consumato forse piu dal dubbio che dalla certezza ed è comunque egli stesso vittima della propria nevrosi, del proprio desiderio di assoluto, della propria insicurezza. Di agile scrittura, I l tu n n e l è stato elogiato da Camus, al quale deve molto, da Tomas Mann e perfino dall’avventuroso e brillante Graham Greene. Ludovico Antonio Muratori, I l c r is tia n e s im o fe lic e n e lle m is s io n i d e i p a d r i d e lla C o m p a g n ia d i G e s ù n e l P a r a g u a y , a cura di Paolo Collo con una nota di Angelo Morino, Sellerio Editore, Palermo 1985, pp. 231. Secondo la testimonianza del suo biografo e nipote Ludovico Antonio Mura­ tori scrisse questo trattatello nel 1742, « essendosi trovato senza verun argomento ». Dobbiamo rallegrarci, quindi, se in una pausa del suo pensare, il Muratori, stimo­ lato dalle lettere che il gesuita padre Cattaneo aveva scritto a suo fratello dalle lontane contrade del Paraguay, decise di divulgarne il contenuto rielaborandolo non solo con la sua agile penna ma anche col peso dell’entusiasmo che l’esperi­ mento che la Compagnia di Gesù conduceva nella lontana America aveva suscitato in lui. E dobbiamo rallegrarcene perché, con tutti i limiti che l’epoca e la relati­ vità dell’informazione comportano, Muratori ha saputo darci un’immagine viva di una comunità poi soppressa e ridotta in rovine dagli interessi del potere non solo statale ma anche spirituale. Il trattato parla delle « reducciones » gesuitiche del Paraguay, faticosamente organizzate dai padri della Compagnia contro ogni sorta di difficoltà fra cui l’op­ posizione dei trafficanti di schiavi della avventuriera città di San Paolo del Brasile, l’avversità degli altri ordini religiosi, l’ostilità delle comuntà indigene abituate a diffidare dei bianchi anche se preceduti dalla croce, e la diffidenza della Corona di Spagna che, dopo aver affidato ai gesuiti una vasta zona corrispondente a parte dell’attuale Paraguay, dell’Argentina e del Brasile, fece marcia indietro anche sotto la pressione del Portogallo, decisamente ostile a quell’esperimento. Ma quel che piu interessa, in questo trattato, al di là dei toni apologetici nei riguardi dei padri missionari (forse non del tutto esagerati), è il vivo ritratto delle comunità « guaranies », la descrizione della dolcezza del loro temperamento, della loro viva intelligenza, della prontezza nell’apprendere, della loro abilità nel costruire strumenti musicali, della bellezza dei loro cori, dell’innocenza della loro fede e nel contempo la descrizione grandiosa, peraltro rispondente a verità, di quelle comunità dotate di chiese ricche e vaste, di ampie case, di piazze ordinate, di aule per gli studi e di orti fertili. Ne viene fuori un quadro che, se per certi versi rievoca il topico del « buon selvaggio » — assai in voga ai tempi del Mura­ tori — , per altri offre una ipotesi secondaria, brutalmente interrotta, di coloniz­ zazione, un approccio diverso con il mondo indigeno che, se avesse potuto conti­ nuare, avrebbe forse sortito esiti ben diversi da quelli che oggi noi conosciamo. Quando nel 1743 l’ordine dei gesuiti venne soppresso, delle grandi « reduccio­ nes » dalle mille attività, di quelle comunità dove ognuno lavorava per l’altro, di quei centri collettivi in cui c’era spazio oltre che per il lavoro e la preghiera, per i canti e per l’arte, non restarono che rovine abbandonate alla voracità della selva. Solo da alcuni decenni opportuni lavori di restauro stanno riscattando alcune di 118 quelle grosse comunità che sono oggi visibili e che testimoniano di una straordi­ naria utopia. Osvaldo Soriano, A sus plantas rendido un león, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1986, pp. 257. Gli ammiratori di Osvaldo Soriano troveranno in questo suo ultimo romanzo tutti gli ingredienti che lo hanno reso caro al pubblico: avventure insensate, pate­ tismo, un senso dell’humor a volte esilarante ed una commovente difesa dei più deboli. Fra novembre e dicembre dell’86 a Buenos Aires, quest’ultima fatica di Soriano ha già avuto due edizioni e si annuncia imminentissima la traduzione ita­ liana del romanzo; né la cosa deve meravigliarci se pensiano che durante il lungo decennio del regime militare, egli ha potuto pubblicare in Italia ma non nel suo paese dove per anni i suoi libri sono stati proibiti. Il leone a cui si allude nel titolo è l’arrogante impero britannico che occupa ingiustamente le isole Malvinas nel desolato Oceano Antartico e che molti argentini hanno desiderato vedere arreso ai propri piedi particolarmente durante i giorni della guerra delle Falkland. Nel nuovo romanzo di Soriano, il contrasto politico che divide Argentina ed Inghilterra ha una sua inaspettata e grottesca ripercussione in un paese dell’Africa Equatoriale, l’improbabile Bongwutsi, sconvolgendo la pacifica e rutinaria vita del­ l’ambiente diplomatico a causa della rivalità che scoppia fra l’ambasciatore britan­ nico mister Burnett ed il funzionario argentino Bertoldi, rimasto a reggere le sorti della legazione del suo paese e facente funzione di console. Bertoldi è anche l’aman­ te della signora Burnett, ma qui l’aspqtto sentimentale della storia è del tutto secon­ dario: quello che importa è l’empito patriottico di Bertoldi il quale, inorgoglito dalla dichiarazione di guerra del suo paese alla perfida Albione per riscattare quelle gelide isole, organizza una sua personale resistenza. Le cose andranno molto al di là dell’immaginazione del povero console, coinvolto suo malgrado nel ritorno del­ l’eroe rivoluzionario del Bongwutsi, il leggendario Michel Quomo, e nell’abbatti­ mento del regime coloniale di quel fantasioso paese. Da una parte, dunque, un mondo diplomatico difensore di vecchi e consumati modelli di comportamento, che ripete stereotipi privi di senso eppure garanti della continuità e dell’ordine del si­ stema. Dall’altra Quomo e la sua accozzaglia di aiutanti (un ex guerrigliero argen­ tino, un fedele compagno di mille rivolte, uno sceicco al servizio di Gheddafi, un irlandese dell’Ira, rivoluzionario a tempo pieno fin dalla nascita, lo stesso console, suo malgrado, ed infine un esercito di scimmioni) che predica il disordine come ideologia. Nel mezzo, una esilarante catena di spie, agenti dei servizi di sicurezza e dei più vari controspionaggi che non fanno altro che ingarbugliare la già intricata matassa. Nelle tragicomiche avventure del falso console giocano un ruolo fondamentale i luoghi comuni della politica divulgata dai mass-media, gli stereotipi sul Terzo mondo e sui suoi movimenti di liberazione, sugli arabi, il loro fanatismo e la loro ricchezza, sulla flemma inglese, sulla rozzezza dei russi, sulla passionalità degli ita­ liani. Rimbalzando da uno stereotipo all’altro, da un luogo comune all’altro, da una scenografia alla James Bond, ad una situazione alla Graham Green, Soriano ci ripro­ pone, in fondo, un tema a lui assai caro: quello della frustrante solitudine di chi cerca giustizia, ed anche se stavolta Quomo sembra aver vinto, il lettore sa che nel caos di un mondo che rispetta il gioco delle parti, poco o nulla potrà cambiare. 119 Maria Seoane-Héctor Ruiz Nunez, L a n o c h e d e lo s là p ic e s . Editorial Contrapunto, Buenos Aires 1986, pp. 282. Il titolo di questo reportage-testimonianza allude ad un’operazione militare organizzata dalle forze armate della provincia di Buenos Aires nel settembre del 1976 contro un gruppo di studenti medi della città di La Piata. Dei sette studenti arbi­ trariamente arrestati e torturati, è sopravvissuto solo Pablo Diaz alla cui memoria ed alla cui deposizione è affidato il compito di denunciare la scomparsa dei suoi compagni a tu tt’oggi « desaparecidos », vittime, cioè di quella pratica ufficiosa di eliminazione di cui si sono macchiati i militari della Giunta che ha governato il popolo argentino per un decennio. Maria Seoane e Hector Ruiz Nunez si sono assunti il compito di ricostruire le tappe di quel crimine, le cui vittime non avevano piu di diciotto anni, e di tracciare il commovente ritratto di ciascuno di quei giovani impegnati nella vita sociale e nell’attività scolastica ma lontani, comunque da un impegno in attività pericolose o sovversive. Accompagnando quei giovani nell’infanzia e nella loro tragica adolescenza, i due autori hanno voluto cercare una spiegazione all’insen­ satezza di quel crimine. Ma proprio la mancanza di una qualsiasi giustificazione di quei delitti rende drammaticamente commovente questo libro che, insieme alla sacrosanta denuncia ha il merito di ricostruire i profili di sette adolescenti vivaci ed impegnati in cui la brutalità di questa dittatura ha voluto vedere dei perico­ losi nemici del regime. Protagonisti di battaglie studentesche per ottenere alcuni benefici sociali, affacciati appena alle soglie di una coscienza politica, li seguiamo nel loro calvario di detenzione e tortura e li vediamo scomparire nel buco nero della « desaparición » con la stessa impotenza che gli autori confessano di aver sentito nello scrivere il loro documento. Gli Editori Riuniti stanno già preparando un’edizione in italiano di questo libro dal quale è stato tratto un film che ha de­ stato grande commozione in Argentina e che sarà presentato al prossimo Festival di Cannes. 120