LATINOAMERICA
analisi testi dibattiti
L’altro marxismo di Mariàtegui / a cura di A. Melis
J. Agudelo Taborda / Colombia, congiuntura pre-elettolare
G. Almeyra / La rivoluzione democratica messicana
M. Castagnaro / El Salvador: quale pace?
N. Giannoni / La poetica di Juan Gonzalo Rose
M. Plana / Chiapas 1994: alle origini del conflitto
G. Ramirez Vidal / Le fonti letterarie della Conquista
Culture indigene / R. Carnevale, E. Patané - E. Cervone
Anno XV, n. 54-55
aprile-settembre 1994
Manuel Plana
3
Chiapas 1994: alle origini del conflitto
Guillermo Almeyra
c p .64091
00100 Roma
tei. 807.37.42/ 807.21.97
9
La rivoluzione democratica messicana
Mauro Castagnaro
17
El Salvador: quale pace
dopo il fiasco del secolo?
27
Colombia, congiuntura pre-elettorale
lairò Aguclelo Taborda
Comitato di redazione
Bruna Gobbi, Nicoletta Manuz
zato, M assim o M ic a relli,
M ariella M oresco F o rn asier,
M anuel Plana, D aniele Pom pejano, José Rhi Sausi, Enzo
Santarelli, M assim o Squillacciotti, M aria R osaria S tabili,
Angelo Trento.
Direttore responsabile:
Alessandra Riccio
La rivista non assume la respon
sabilità delle opinioni espresse
negli articoli firmati.
In copertina:
José Carlos Mariàtegui sulla nave
che lo riporta in Perù nel 1923
Sped. abb. post. gr. IV, 70%
Autorizz. del trib. di Roma
n. 18142 del 6-6-1980
Stampa: Salemi Pro. Edit.
Via Pianell 26, Roma
Chiuso in tipografia
il 18-6-1994
Pietro Vulpiani
33
Rivendicazione etnica
e neonazionalismi in Bolivia
41
L’ALTRO MARXISMO
DI JOSÉ CARLOS MARIÀTEGUI
(a cura di Antonio Melis)
42
Nazionalismo e internazionalismo
47
La democrazia cattolica
49
Oriente e Occidente
51
Il semitismo e l’antisemitismo
56
Poeti nuovi e poesia vecchia
59
Vite parallele: E.D. Morel - Pedro S. Zulen
61
Eterodossia della tradizione
63
L’opera di José Sabogal
65
Esiste un pensiero ispano-americano?
68
L’ibero-americanismo e il Pan-americanismo
70
La civiltà e i capelli
73
La civiltà e il cavallo
75
Presentazione di «Amauta»
76
Anniversario e bilancio
79
L’anima mattutina
80
Due concezioni della vita
83
Esiste un’inquietudine propria
del nostro tempo?
84
Il problema delle razze in America Latina
90
Henri de Man e la «crisi» del marxismo
92
Freudismo e Marxismo
Gerardo Ramirez Vidal
97
Le fonti letterarie della Conquista:
alcune considerazioni
Natalia Giannoni
107
La poetica di Juan Gonzalo Rose
tra impegno politico e smitizzazione
CULTURE INDIGENE
Emma Cervone
113
La «inca atahualpa» e la sua storia
118
Strumenti, scale, «arcani legami»...
nella cultura musicale degli incas
123
RECENSIONI E SCHEDE
Roberto Carnevale-Elina Fatane
Manuel Plana
Chiapas 1994: alle origini
del conflitto
Il 1° gennaio del 1994 un gruppo di ribelli appartenenti all’Esercito Zapatista di
Liberazione Nazionale insorge e occupa alcuni comuni delle terre alte del Chiapas
nella parte meridionale del Messico. La stampa riporta i fatti e nascono gli interrogativi
circa una possibile ripresa della guerriglia in un grande paese latinoamericano come il
Messico, sui problemi sociali della regione e sul contesto politico nazionale alla vigilia
delle elezioni politiche generali e di quelle presidenziali del prossimo agosto. Tutte
domande che hanno trovato larga eco sulla stampa L Azzardare una risposta sulla
natura degli avvenimenti del Chiapas non è facile, perché, come è accaduto spesso di
fronte a fenomeni improvvisi in aree periferiche del continente latinoamericano poco
conosciute dall’opinione pubblica, si tende a invocare le strade interpretative più note
in termini ideologici o di semplice arretratezza economica e sociale in zone a forte pre
senza indigena. La funzione di queste note è quella di ammonire il lettore rispetto a
possibili semplificazioni e di invitare ad una riflessione più articolata.
Il Chiapas, stato meridionale della federazione messicana che segna buona parte del
confine con il Guatemala, ha una estensione di 74 mila kmq con circa 3 milioni di abi
tanti: qui la geografia, il clima e le caratteristiche degli insediamenti umani hanno crea
to nel tempo profonde differenze tra le varie regioni, che vanno dalla frangia costiera
del Pacifico, alle vallate del fiume Grijalva, alle terre alte e alla selva «lacandona» nella
parte orientale, un deserto umano in origine che costituiva un vasto bacino idrografico
comprendente inoltre la regione del Petén in Guatemala fino allo sbocco sul golfo del
Messico negli stati di Tabasco e di Campeche.
Lo studioso belga Jan de Vos che ha dedicato negli ultimi anni due splendidi libri,
frutto di pazienti e minuziose ricerche, alla «Selva Lacandona» (il primo dall’arrivo
degli spagnoli fino all’Indipendenza dalla Spagna nel 1821 e il secondo dedicato allo
sfruttamento del legname - mogano soprattutto - nel corso dell’800 fino alla seconda
guerra mondiale), conclude il secondo lavoro denunciando la distruzione del bosco
tropicale negli ultimi decenni e, rispetto al periodo più recente, afferma:1*3
1 Per un resoconto degli avvenimenti si veda il recente lavoro di P. Coppo e L. Pisani (a cura
di), A rm i indiane. Rivoluzione e profezie maya nel Chiapas messicano, Casciana Alta (Pisa), OrissEdizioni Colibrì, 1994, pp. 182.
3
«Il deterioramento ecologico non è, tuttavia, l’unico problema che preoccupa. Un
numero impressionante di insediamenti contadini ha invaso a partire dal 1960, le antiche
zone di approvvigionamento di legname di fine ‘800. Molti sono nati da una occupazione
spontanea, vale a dire anarchica. Altri sono stati promossi dal governo federale o statale.
Questi nuovi abitanti della Selva in parte sono meticci venuti da altri stati della repubbli
ca, in parte sono meticci e indigenti del Chiapas. La maggioranza non ha risolto il pro
blema della titolarità delle terre. In base al decreto presidenziale del 1972, che dichiarò la
comunità lacandona proprietaria di oltre 600 mila ettari di terre selvatiche, si verificò uno
scontro fra quest’ultima e gli abitanti delle colonie agricole rimaste all’interno del nuovo
latifondo creato dal presidente Luis Echeverria. Questi ultimi furono obbligati ad abban
donare i loro insediamenti e a trasferirsi in due giganteschi centri di popolamento fuori
dalla zona proibita. Lo sfollamento significò un enorme onere politico ed economico per
il governo statale e determinò gravi conseguenze sociali ed economiche per i contadini
colpiti. Il panorama agrario, già conflittuale di per sé, si aggravò ancora di più con l’arri
vo nel 1980 dei rifugiati guatemaltechi che esigevano cure mediche e aiuti alimentari
immediati... [Il governo federale] - prosegue - è deciso a sfruttare, in forma intensiva, le
risorse ancora vergini che la Selva offre, il petrolio e l’energia idroelettrica, e a continuare
nello stesso tempo lo sfruttamento del legname pregiato nelle zone che le compagnie pri
vate non riescono a raggiungere. Per facilitare l’estrazione del legname e del petrolio, il
governo ha coperto la Selva con una rete di strade che comporta, come conseguenza ine
vitabile, l’aumento degli insediamenti ed il taglio dei boschi. Ha introdotto così un nuovo
agente di distruzione: gli ingegneri che costruiscono le strade e i pozzi petroliferi. Per
quanto riguarda l’energia idroelettrica, ci sono in progetto di costruzione una decina di
dighe sui fiumi di maggior portata della Selva che inonderanno buona parte delle zone
circostanti, oggi occupate da contadini o coperte ancora da alberi» 2.
Il Chiapas costituisce dunque una regione periferica della federazione messicana
priva di una moderna struttura industriale, ma con risorse naturali importanti per
l’economia del paese, come si evince dal brano citato, e con caratteristiche demografi
che peculiari: una popolazione sparsa e, per converso, concentrata in pochi centri
urbani, specie nelle terre alte (tra i 1.500 e i 2.500 metri sul livello del mare compren
dente circa 17.500 kmq), sede dei principali gruppi indigeni di lingua tzotzil e tzetal3.
L’insieme di questi fattori fa del Chiapas una realtà complessa nata dalla mescolanza
di situazioni etniche e sociali molto diverse in spazi economici e geografici multiformi.
Negli avvenimenti odierni del Chiapas si insinua innanzitutto quel passato che ci
rinvia alla civiltà maya e alla questione indigena. Secondo il censimento del 1980 vi
erano nel Chiapas poco più di 400 mila persone censite che parlavano varie lingue
indigene. Delle molteplici lingue parlate all’epoca della conquista spagnola - circa una
trentina - ne sono sopravvissute sei; i gruppi più numerosi sono quelli di lingua tzotzil
e tzeltal (poco più di 100 mila per gruppo) 234. Le stime più attendibili calcolano la
popolazione indigena globale messicana tra gli 8 e i 10 milioni di persone, una percen
tuale tra il 10 e il 12,5% del totale degli abitanti del paese, distribuiti in gruppi che
parlano 56 lingue diverse: si tratta di dati raccolti secondo criteri basati su un senso di
identità etnica e di appartenenza alla società locale in rapporto ad un comune patrimo2 J. de Vos, Oro verde. La conquista de la Selva Lacandona por los madereros tabasquenos,
1822-1949, México, Fondo de Cultura Econòmica, 1988, pp. 258-59; per il periodo precedente
cfr. J. de Vos, La paz de Dios y del Rey. La conquista de la Selva Lacandona (1525-1821), México,
Fondo de Cultura Econòmica, 1988.
3 Si veda H. Favre, Cambio y continuidad entro los mayas de México, México, Siglo XXI, 1973.
4 L.M. Valdés, E l perfil demogràfico de los indios mexicanos, México, Siglo XXI, 1989, pp.
79-80 e 127-31.
4
nio culturale. Da questa diversità linguistica non si desume, però, la vera pluralità delle
società etniche, visto che la lingua resta un indicatore imperfetto di una realtà che
affonda le sue radici in un passato lontano.
Guillermo Bonfil Batalla - recentemente scomparso -, uno degli intellettuali messi
cani che con grande passione e intelligenza ha dedicato diversi libri e saggi al problema
indigeno, scriveva in Mexico profundo, un importante testo di qualche anno fa:
«La presenza di ciò che è indio sui muri, nei musei, nelle sculture e nelle zone archeo
logiche aperte al pubblico viene concepita, essenzialmente, come la presenza di un mondo
morto. Un mondo singolare, straordinario in molte delle sue manifestazioni; ma morto.
L’ottica ufficiale tradotta in linguaggio plastico o museografico, esalta questo mondo
morto come il seme originario del Messico attuale. Costituisce il passato glorioso di cui
dobbiamo sentirci orgogliosi, il quale ci assicura un altro destino storico come nazione,
malgrado non sia mai chiara la logica e la ragione di tale certezza. L’indio vivo, ciò che è
vivo nel mondo indio, rimane relegato in secondo piano, quando non è ignorato o negato;
occupa, come nel Museo National de Antropologia, uno spazio segregato, svincolato sia dal
glorioso passato sia dal presente che non gli appartiene: uno spazio di cui si può prescinde
re. Attraverso un’abile alchimia ideologica, quel passato è diventato il nostro, quello dei
messicani non indigeni, malgrado sia un passato inerte, un semplice riferimento a ciò che
fu, come una sorta di premonizione di cosa è il Messico oggi e di quello che sarà il futuro
ma senza alcun legame effettivo con la nostra realtà attuale e con le nostre aspirazioni»5.
Alla fine di questo saggio, che rappresenta una requisitoria contro il disprezzo e
l’esclusione del mondo religioso dal Messico moderno scritta con i toni vibranti di una
orazione civica, Bonfil arriva alla conclusione che si doveva:
«costruire una nazione plurale, nella quale la civiltà mesoamericana, incarnata in
una gran varietà di culture, abbia il luogo che le corrisponde e ci permetta di vedere
l’occidente dal Messico, vale a dire, di comprenderlo e di utilizzare le sue conquiste da
una prospettiva di civiltà che ci è propria in quanto forgiata su questo suolo, passo a
passo, dalla più remota antichità; e perché questa civiltà non è morta ma ferve nelle
viscere del Messico profondo» 6.
E la storia antica del Chiapas ci rinvia alla civiltà maya, ma, dopo il suo crollo intorno
al X secolo, giunsero qui altri popoli provenienti dal centro del Messico e divenne una
regione che conobbe in epoca preispanica varie ondate migratorie: arrivarono i nahuas e i
chiapanecas, questi ultimi originari di Cholula, i quali si spinsero in altre zone dell’America
centrale. Questi gruppi si insediarono nella regione e si rifugiarono nelle terre alte com
battendo gli abitanti del luogo. L’idea di una ancestrale tradizione di resistenza sotterra
nea sembra essere sopravvissuta nella memoria collettiva attraverso il termine nagualismo,
una simbologia magica legata a infausti presagi che si traduce in una serie di combinazioni
tra la nascita e gli animali 7. Dopo l’arrivo degli spagnoli nel 1524 la regione divenne
«l’impero dei domenicani» - e poi anche dei gesuiti -, i quali sfruttarono le valli fertili e i
prodotti naturali (il cacao e più tardi le piante coloranti). I principali luoghi di colonizza
zione sorsero attorno ai conventi e alle città, Ciudad Real - San Cristobal de las Casas - e
capitale coloniale della provincia, Comitàn, Chiapa de los Indios - oggi Chiapa de Corzo
- e San Marcos Tuxtia, capitale dello stato dal 1892 col nome di Tuxtia Gutiérrez.
Gli ordini religiosi e i colonizzatori che si stabilirono nella regione si appropriarono
delle zone fertili in cambio del riconoscimento agli indigeni del diritto di usufruire di
5 G. Bonfil Batalla, Mexico profundo. Una civilización negada, México, Grijalbo, 1990, p. 91.
6 Ibid., p. 245.
7 A. Garda de Leon, Resistencia y utopia. Memoria de agravios y crònica de revueltas y procecias acaecidas en la provincia de Chiapas durante los ùltim os quinientos ahos de su historia,
México, Era, 1985,1, p. 34.
5
terre comunali e del tributo, secondo il modello diffuso in tutta l’America spagnola. La
popolazione indigena conobbe una brusca caduta demografica nel corso del ‘500,
come nel resto del Messico, a causa soprattutto delle epidemie e aggravata tra il 1680 e
il 1824 - quando la popolazione si avvicinava ai 150 mila abitanti - da una serie di
rivolte indie, la più nota delle quali fu la ribellione millenarista del 1712 8.
Il Chiapas apparteneva all’epoca della conquista al vicereame della Nuova Spagna,
ma, salvo alcuni brevi intervalli nel ‘500, dipese dalle autorità coloniali di Guatemala.
Allorché nel 1821 venne proclamata l’Indipendenza in Messico, le ripercussioni si fece
ro sentire in tutta l’America centrale e, dopo alcuni tentativi indipendentisti, i gruppi
dominanti in Chiapas scelsero di unirsi nel 1824 alla federazione messicana, mentre la
provincia costiera di Soconusco, da sempre legata al Guatemala, venne integrata militar
mente nel 1842 e i problemi della definizione delle frontiere con il Guatemala furono
risolti da un trattato nel 1882 e rivisti nel 1893. Le riforme avviate con la rivoluzione
liberale del 1855 portarono alla nazionalizzazione dei beni del clero, ma non scalfirono
il predominio del latifondo né il sistema prevalente di rapporti servili nelle aree tradizio
nali del centro dello stato attorno a Chiapa, Tuxtla, Comitàn e lo stesso San Cristóbal9.
Gli studi sulla regione collocano in maniera unanime nella seconda metà dell’800, e
più precisamente intorno al 1880, lo sfruttamento su vasta scala delle risorse delle gran
di aree periferiche disabitate del Chiapas, a cominciare dall’allevamento, dalle pianta
gioni di caffè nel Soconusco ad opera di alcuni tedeschi residenti in Guatemala 101e
dagli accampamenti per lo sfruttamento del legname o montenas nel bacino che contri
buisce a formare il fiume Usumacinta n . In pratica, tra il 1875 e il 1908 ben 1.813.000
ettari di terre demaniali, il 27% della superficie statale, venne ceduto a singoli proprie
tari e compagnie messicane e straniere per lo sfruttamento del legname e del caucciù,
per la coltivazione del caffè e per le prospezioni petrolifere 12. Accanto alle compagnie
straniere sorse così un gruppo ristretto di grandi proprietari terrieri indicato solitamente
come la «familia chiapaneca» e che ha costituito da allora il ceto politico dominante, il
cui più illustre esponente fu Emilio Rabasa, un prestigioso intellettuale positivista,
governatore dal 1892 al 1894, e fautore di un programma di modernizzazione economi
ca e di accentramento del potere politico 13.
L’espansione economica di fine secolo comportò una fase di prosperità, determi
nando però la nascita di un sistema di rapporti sociali di lavoro che fece leva sulle vec
chie consuetudini di natura servile o sistema di enganche\ il reclutamento, cioè, di forza
lavoro attraverso un piccolo anticipo di denaro che rappresentava in partenza un inde
bitamento difficile da evadere e una fonte di inesauribili soprusi. Se da allora iniziò una
corrente migratoria di negri e mulatti provenienti dalle isole francesi del Caribe e della
Giamaica e di emigranti cinesi, rafforzata in questo secolo da contingenti di altre zone
del Messico e dello stesso Centroamerica, gli indigeni delle terre alte del Chiapas costi
tuiranno la base della forza lavoro per l’agricoltura di piantagione, una sorta di «schia
vitù salariata», che alimenterà forme peculiari di indigenismo.
Antonio Garcia de Leon, il quale ha studiato in dettaglio i convulsi anni della
rivoluzione del 1910-1920 nella regione e che possono essere riassunti col titolo di
8 Ibid., pp. 56 e ss.
9 Ibid., pp. 156 e ss.
10 T.L. Benjamin, E l camino a Leviatàn, Chiapas y ed Estado Mexicano, 1891-1947, México,
Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1990.
11 Cfr. J. de Vos, Oro verde..., cit., pp. 130 ess.
12 A. Garcia de Leon, op. cit., I, pp. 173 e ss.
13 Cfr. T.L. Benjamin, op. cit., pp. 62 e ss.
6
un paragrafo del libro «le proprietà in fiamme» in quanto vennero coinvolti tutti i
gruppi sociali, sottolinea la capacità di adattamento politico della vecchia oligarchia
alle nuove condizioni del Messico post-rivoluzionario e il persistere delle forme di
servitù nella realtà sociale, nonostante la riforma agraria del 1936 in epoca cardenista, i cambiamenti nella legislazione sociale, la nascita di nuclei di proprietà colletti
va o ejidos nella zona dell’alto Grijalva e nel Soconusco in seguito alle lotte dei grup
pi sindacalizzati e il riconoscimento delle terre comunali nelle aree indigene. Garcia
de Leon fornisce una spiegazione di carattere generale per gli anni ‘20 che, guarda
no al lungo periodo, merita di essere tenuta presente per leggere la realtà odierna:
«Grazie all’esistenza - scrive - di territori poco popolati e di boschi demaniali (quei
deserti che non riuscirono a dominare le compagnie alla fine del secolo), vengono invia
ti come baldios [lavoratori senza terra e indebitati] verso queste regioni i richiedenti più
bisognosi o intransigenti, i superstiti delle eruzioni vulcaniche o i rifugiati di tante dia
spore recenti, ampliando la frontiera agricola e le zone di allevamento, diminuendo così
preoccupanti tensioni e rivolte nelle regioni ad alta concentrazione demografica. Questa
provvidenziale «valvola di sfogo» permetterà una colonizzazione che somiglia alla ridi
stribuzione del bestiame (rimasta prioritaria) e che la contribuito a prevenire conflitti
più gravi che avrebbero potuto scatenarsi dopo il 1940. Dal 1960, quando la pressione
demografica tornò ad aumentare, si incoraggiò un disordinato flusso migratorio verso
la selva Lacandona: che permise di distruggere quel che c’era, di fornire braccia alle
monterias [gli accampamenti di legname], di ampliare i pascoli; tutto per non modifica
re la struttura dell’allevamento nelle medie e grandi proprietà private» 14.
Tuttavia, lo stesso Garcia de Leon allorché esamina le forme che ha assunto l’indigenismo, come percezione e volontà di modificare le condizioni di vita del mondo indio da
parte della società non-india, parla, per quanto riguarda il Chiapas e sulla base di molte
plici esempi ed episodi tratti dalla storia locale, di una sorta di «rovesciamento» o «producto invertido»; segnala, infatti, che esso ha avuto qui contenuti paternalistici con la
finalità di perpetuare la servitù specie da parte dei signori delle terre alte, i quali si pro
pongono ancora oggi come intermediari della manodopera indigena per le piantagioni e
le imprese agricole e forestali. Attribuisce a questo indigenismo, da un lato, un carattere
«sindacalista» che avrebbe trovato rispondenza, negli organismi indigenisti ufficiali a
livello locale, e, dall’altro, sul terreno culturale ed educativo avrebbe trasmesso principi
«etnistici» nel senso più propriamente antropologico del termine di difesa delle comu
nità, ma anche del diritto ad istruire e ad evangelizzare gli indigeni secondo parametri ad
essi estranei. Nelle conclusioni, scritte nei primi anni ‘80, Garda de Leon indicava che le
lotte sociali e politiche dei decenni precedenti avevano messo in discussione il ruolo poli
tico dei gruppi dominanti locali restii a modificare la struttura produttiva e, soprattutto,
restii ad abbandonare quella particolare concezione dell’indigenismo chiapaneco nella
duplice accezione di intermediazione dei rapporti sociali e di contenuto «etnicista» 15.
Da questo insieme di succinte considerazioni dovrebbe emergere che, al di là del
richiamo a Zapata del movimento del 1° gennaio di quest’anno - con una sua tradizio
ne nella regione -, gli avvenimenti nel Chiapas rispondono ad alcune dinamiche di
fondo ben più complesso rispetto alle osservazioni sulla arretratezza, su forme di rivol
ta primitiva, su una generica questione indigena o sulla lotta guerrigliera, anche se
molti di questi problemi vi confluiscono sovrapponendosi a conflitti politici tra i grup
pi locali e interessi nazionali più ampi.
14 A. Garcia de Leon, op. tit., II, p. 225.
15 Ibid., II, pp. 231-32.
7
Mariàtegui a Roma, in piazza S. Pietro, 1922, il giorno della elezione di Pio XI.
Il volume è illustrato con foto di Mariàtegui (Archivio del prof. Antonio Melis).
Guillermo Almeyra
La rivoluzione democratica
messicana
La rivoluzione zapatista, iniziata il primo gennaio nel Chiapas, è allo stesso tempo
l’espressione di un processo politico nazionale che costituisce un momento cruciale
della rivoluzione democratica in corso nel Messico, ed il detonante di un grande movi
mento di massa.
L’integrazione economica con gli Stati Uniti, con i suoi duri costi sociali per i setto
ri più poveri della società messicana, è stata la base della esplosione nel Chiapas e ne è
anche quella delle proteste e moti di massa in altri paesi latinoamericani. Essa, alla sua
volta, è l’espressione, in America, di un processo mondiale di transnazionalizzazione
del capitale, di predominio del capitale finanziario sull’industriale, commerciale ed
agrario, e di concentrazione della ricchezza e polarizzazione delle società.
Questa trasformazione del capitale, questa mondializzazione del sistema, ha provo
cato dei grandi cambiamenti politici e sociali nei principali paesi dell’America latina e in
Messico in particolare, ed ha stabilito le nuove regole del giuoco per la lotta tra le classi
principali e anche per la costruzione di una nuova sinistra di massa. In questa trasfor
mazione trova la sua base la fine del populismo distributivo e del nazionalismo più o
meno autarchico e anche nel processo di mediazione e di riformismo che per decenni
assicurò ai governi del Partito Rivoluzionario Istituzionale il consenso necessario per
ridurre il peso delle opposizioni e controllare la protesta sociale, sempre latente.
Le principali trasformazioni economiche, negli anni Ottanta-Novanta, sono infatti
fondamentali.
Ad esempio, l’agricoltura di semplice sussistenza e bassissima produttività, ma che
assicurava comunque la vita di milioni di ejidatarios, ha ricevuto un colto mortale. E la
modifica dell’articolo 27 della Costituzione, che permette adesso la privatizzazione dei
latifondi ejidos, non soltanto apre la strada alla ricostituzione dei latifondi (perché i
piccolissimi contadini, senza credito né tecnologia e senza possibilità di pagare i debiti
saranno costretti a vendere i loro pezzetti di terra) ma l’apre pure alla modifica dell’uso
di questa risorsa. Ossia, al passaggio delle produzioni di alimenti basici a quella di ali
menti per il mercato ricco, soprattutto degli Usa (carne per hamburguers, ad esempio).
La dipendenza messicana delle importazioni del cibo, già schiacciante, diventerà
irreversibile e le migliori terre del Messico produrranno per l’agroindustria alimentare
degli Usa, allo stesso tempo che crescerà il numero di rurali costretti alla migrazione.
Giornalista argentino
Ma, siccome l’espulsione dei contadini del mercato messicano non implica l’assorbi
mento della mano d’opera eccedente per il mercato ricco (quello degli Stati Uniti, che
è chiuso alla merce forza lavoro, abbondante e a buon mercato nel Messico, mentre il
mercato messicano è apertissimo alle merci di consumo americane, il che rovina l’indu
stria nazionale), gli espulsi delle campagne messicane, senza sbocco negli Usa né in una
industria leggera messicana in crisi profonda, diventeranno marginali urbani non pro
duttivi, consumatori passivi a livello di miseria. La conseguenza immediata sarà un
aumento del già importante deficit delle importazioni e delle spese pubbliche, del defi
cit pubblico, della criminalità e delle tensioni politiche e sociali.
Se a questo aggiungiamo che la privatizzazione del suolo apre la strada anche alla
privatizzazione del sottosuolo (leggere petrolio) si vede che i principali acquisti della
rivoluzione messicana (la terra e la nazionalizzazione del petrolio) sono in un processo
di ritorno al passato, alla ricostituzione del latifondo e della proprietà imperialista delle
ricchezze nazionali non riproducibili e strategiche. Ossia, che questo ritorno è parte di
un processo di «modernizzazione» capitalista che ricorda quella «modernizzazione»
fatta da Porfirio Diaz all’inizio del secolo, col capitale straniero.
La piccola e media industria, nata con la protezione e le sovvenzioni costanti dello
Stato (all’energia, al trasporto, al costo della mano d’opera e della sua ripartizione) e
dipendenti dallo Stato (leggi, corruzione dei sindacati, corruzione dei funzionari, giudici
e legislatori) si trova adesso nuda e disarmata di fronte alla concorrenza delle imprese
transnazionali e con uno stato antindustrialista, che privilegia la speculazione finanziaria
ed è nelle mani di tecnocratici che sperano tutto dal capitale intemazionale, non dallo
sviluppo del mercato interno né dei fattori nazionali. La crisi dell’apparato produttivo e
la sua trasformazione è brutale ed il Messico diventa, strutturalmente, il paese degli
investimenti fugaci (turismo, che dipende dalle mode e dalla sicurezza interna; borsa, la
cui prosperità dipende dal rapporto tra le tasse di interessi messicani e quelli stranieri
ma anche dalla sicurezza interna del paese; maquila, o produzione industriale dei subap
paltatori in Messico delle forme americane, che dipende dai bassi salari nazionali e dalla
continuità di un regime di corruzione, scarsa o nulla protezione ambientale, repressione
e mancanza di veri sindacati), ossia, sempre nell’«ordine stabilito».
La solidità della divisa messicana (il peso), d’altronde, è pure essa fugace. I capitali
stranieri sono entrati in massa, ma soprattutto per comprare le imprese già esistenti e
profittevoli o per giocare in Borsa. La produzione di merci reali e la creazione di indu
strie e posti di lavoro è stata minima. Il peso è sopravvalutato e una quasi certa svaluta
zione potrebbe mettere in questione tutta la politica del Pri, facendo aumentare l’infla
zione, espropriando e politicizzando una parte importante dei ceti medi, oggi argo
mentati dalla stabilità fittizia attuale, radicalizzando le classi povere, acutizzando la
crisi del regime e del partito governanti.
Cinque anni prima della firma del Nafta o Tic (Trattato sul Libero Commercio) il
Messico aveva eliminato unilateralmente tutte le barriere doganali ai prodotti degli Usa
con il risultato di una invasione di prodotti di consumo molto competitivi in prezzo e qua
lità, che spiazzarono i messicani ed aumentarono la disoccupazione industriale, anche se il
prodotto industriale è aumentato leggermente (dal 5% in rapporto a due anni fa) mentre
il Pii a sua volta, aumentava di poco al di sopra della crescita demografica (appena dal
2,6%). Allo stesso tempo, la recessione ha fatto cadere il prezzo di tutte le materie prime
(argento, cotone, caffè) che il Messico esporta, e ridurre l’ammontare del turismo statuni
tense. La situazione economica è molto instabile, molto di più di quello che sembrano
indicare la riduzione dell’inflazione e del debito estero (il quale ricomincia a crescere).
La caduta verticale del prezzo del caffè e l’ingresso massiccio di mais ibrido del
Kansas hanno dato un colpo di morte alla piccola economia di sussistenza del Chiapas.
Espropriate dalle loro1buone terre basse, nel corso dei secoli, le comunità indigene
10
(come anche i piccoli contadini meticci) sono state costrette ad andare verso la selva, ad
arrampicarsi nelle peggiori terre delle montagne, lontano dalle strade di comunicazione
e dei mercati. Coltivano lì un pò di granturco e un pò di caffè per avere degli eccedenti
con i quali ottenere contante per le cerimonie, la scuola dei figli, la compra di qualche
utensile: l’annullamento di questi eccedenti li condanna alla ribellione o alla morte.
Si accumulano le conduzioni di una crisi sociale, soprattutto, nel mondo rurale in
profonda trasformazione dal punto di vista della proprietà, della produzione e del mer
cato. Questa crisi è nazionale, ma ha i suoi punti critici negli stati più poveri (come
Chiapas, Oaxaca, Guerrero) e in quelli tradizionali dell’emigrazione. A questa crisi
sociale si aggiunge la crisi politica e quella del regime.
La crisi politica e di regime
La società messicana ha sofferto delle profonde trasformazioni, le quali si riflettono
nello stato-partito, nel regime. Negli anni ‘30, lo stato moderno e la nuova borghesia
industriale furono creati da un partito (Prm, che anni dopo sarà il Pri) che aveva un
grande consenso di massa e integrava i movimenti reali operai e contadini e le loro orga
nizzazioni sulla base di un nazionalismo rivoluzionario e del populismo distributivo
(Làzaro Càrdenas ne era l’esempio). Negli anni ‘40 il Partito-Stato dà la base ad una bor
ghesia finanziaria incipiente e ai legami con gli Usa. Nei decenni successivi la separazione
dalle masse va di pari passo con la trasformazione del partito, diventato Pri che si espri
me simbolicamente nel suo cambio di nome, di statuti e di funzioni e passa a perdere
importanza di fronte allo stato (che è sempre monopolio suo). Il boom del petrolio inter
rompe brevemente questo corso dando origine a un populismo distributivo-tecnocratico,
basato sull’idea secondo la quale l’importazione di tecnologia utilizzando la rendita
petroliera, che si credeva eterna e sempre crescente, potrebbe risparmiare le riforme eco
nomiche e sociali (Luis Echeverria e José Lopez Portillo ne erano l’espressione). Gli anni
‘80 sono quelli del risveglio. Il partito, ormai dipendente dello stato, che lo sostituisce e
agisce come stato-partito, non dipende già dal consenso, dalla politica clientelare, dal
populismo, e non soltanto perché non c’è molto da distribuire. La nuova borghesia
finanziaria, legata con doppio filo a Wall Strett, è il settore borghese dominante. E i tec
nocrati formati a Harvard e Yale sostituiscono nella presidenza della Repubblica i vecchi
generali-politici della Rivoluzione e i politici populisti che venivano dalla gavetta attraver
so il partito. Senza legami con il popolo nè esperienza politica, governano con lo stato,
particolarmente con il ministero dell’Interno e con i mass media, apparati separati.
Governando dal 1929, il regime perde le radici e la relativa legittimazione riformi
sta e popolare. Il settore dei vecchi politici, dei vecchi intellettuali populisti ma anche
quello dei burocrati-gangsters delle organizzazioni di massa trasformatesi in rodaggi
dello stato ma dipendenti dal partito, entrano in collisione con i tecnocrati, che non
ricorrono già al partito ma allo stato.
Alla crisi sociale si aggiunge così una crisi politica: quelli di sotto non vogliono più
il regime e quelli di sopra non possono più governare come prima. La crisi economica
porta in primo piano la necessità imperiosa della democrazia, della modernizzazione
politica per permettere una democratizzazione e modernizzazione dell’economia. Si
arriva alla crisi del regime, che risponde a questo bisogno con la frode elettorale siste
matica (dal 1988 in poi, in tutte le elezioni) e con la repressione. Chiuso così ogni spi
raglio per cercare una soluzione legale e una riforma del sistema, non rimane altra via
che quella della ribellione, particolarmente nei posti dove l’alternativa è morire di fame
e di malattie sociali (come nel Chiapas) o magari morire impugnando il fucile, almeno
con dignità da uomini o da donne, non da bestie.
11
Lo stato-partito si frammenta tra quelli che vorrebbero negoziare e conciliare, cer
care un certo consenso, evitare un’esplosione sociale, nella ricerca sempre della moder
nizzazione capitalistica, e quelli che vorrebbero mantenere i vecchi metodi autoritari
e/o clientelari. «Riformisti» e «morbidi» che cercano di cooptare l’opposizione si
distanziano dai «dinosauri», che cercano di schiacciarla. In questa linea ricercano
l’alleanza con una parte dell’opposizione di destra ivi compresa la gerarchia cattolica,
che si appoggia sul governo per ottenere l’insegnamento privato e religioso e una situa
zione di privilegio che gli permetta di sottomettere i ribelli della Teologia della Libera
zione e anche i concorrenti protestanti. La Chiesa cattolica si divide così tra il settore
istituzionale ad oltranza (la destra, il Nunzio apostolico Girolamo Prigione, legati al
ministero dellTnterno e al Presidente che ha pagato questo appoggio modificando la
Costituzione per riconoscere il Vaticano e dare privilegi ai cattolici), il centro naziona
lista- burocratico (aperto a la negoziazione con altri settori), e la sinistra (i vescovi e i
sacerdoti o congregazioni della Teologia della Liberazione, in particolare domenicani e
gesuiti).
Alla divisione del Pri si aggiunge quella della Chiesa, con le conseguenti ripercus
sioni nello establishment e gli intellettuali. E alla divisione tra i settori borghesi (tra la
parte colpita dalla concorrenza e dall’eliminazione del protezionismo e quella che
approfitta del Nafta) si aggiunge un rimescolamento delle carte anche nell’opposizione
legale: un settore cerca di negoziare posti, posizioni e politiche all’interno del Nafta e
del sistema, un’alternanza politica, e riconosce quindi il governo come interlocutore,
mentre un altro cerca un’alternativa al regime e al sistema, si rifiuta di riconoscere il
governo e cerca di organizzare la società e i movimenti contro lo stato o almeno al mar
gine di questo. Tra l’opposizione di centrosinistra il comune programma populista e
redistributivo nasconde questa divisione, ad esempio, tra i dirigenti del Prd, capeggiati
dagli ex membri del Pc e del Pri, come Porfirio Munoz Ledo, e lo stesso Cuauhtémoc
Càrdenas e la sua équipe, ossia tra l’apparato politico-partitista e l’apparato movimen
tista. Mentre nello stato-partito l’accettazione di un programma comune di moderniz
zazione tecnocratica e d’integrazione con gli Usa nasconde male le differenze profonde
tra i nazionalisti borghesi e i nuovi cientìficos, e tra i dinosauri e i negoziatori alla
Camacho. I rapporti tra questi, ad esempio, ed un’ala della Chiesa (la nazionale),
forma una fronda che si oppone all’alleanza tra la destra economica, la destra militare,
la destra del Pri, i tecnocratici (Salinas, Cordoba), gli uomini del Vaticano, come il
Nunzio Prigione.
Quindi, alla crisi del regime si aggiunge una crisi profonda di tutti gli apparati di
mediazione e di potere, persino dell’opposizione «possibilista». Il che lascia il movi
mento di massa e democratico di fronte a un bivio, nel momento cruciale delle elezioni
presidenziali e per il rinnovo delle Camere, che si faranno ad agosto.
L’Ezln e le elezioni
Le cause della sollevazione zapatista nel Chiapas sono molteplici. Ci sono, natural
mente, le cause profonde, come l’oppressione etnica, sociale, economica e culturale
che soffrono (e resistono) gli indigeni da 500 anni. O l’esproprio delle terre delle
comunità, da Juàres in poi, passando per la ricostituzione del latifondo «rivoluziona
rio» per mano dei carrancisti, in tempi della Rivoluzione, schiacciando gli zapatisti di
allora, o per mano della Santissima Trinità (i proprietari terrieri che sono allo stesso
tempo capi politici del Pri locale e capi militari, come Absalón Castellanos). Ci sono le
cause contingenti, come la caduta del prezzo del caffè, che i contadini poveri cacciati
sulla montagna dagli allevatori e latifondisti coltivano per aver denaro contante con cui
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comprare le cose che non possono produrre o fare delle spese indispensabili. E ci sono
le cause politiche: l’azione degli ex guerriglieri rifugiatisi nel Chiapas, quella dei preti e
catechisti della Teologia della Liberazione e la brutalità e prepotenza dei governatori
del Pri, proprietari terrieri e meticci, che disprezzano gli indios. Nella rivoluzione
zapatista si unisce una sollevazione indigena, per l’autodeterminazione, il rispetto delle
culture e della lingua, l’uguaglianza, la fine della discriminazione razziale, una solleva
zione dei contadini poveri e sfruttati contro i proprietari terrieri e lo stato di questi,
una ribellione democratica e una rivoluzione sociale (la continuità della rivoluzione
messicana, interrotta, usurpata, dai burocrati, tecnocrati e borghesi del partito-regime).
Le rivendicazioni degli zapatisti si basano, teoricamente, in Hidalgo, Morelos,
Zapata, negli eroi politici e sociali del Messico, non in Marx e Lenin o in Mao o
Trosky. E sono laiche, non cattoliche, né protestanti, né animiste (anche se nell’Ezln ci
sono queste tre componenti principali della popolazione del Chiapas) e anche se,
indubbiamente, alcuni quadri importanti si sono formati nella Teologia della Libera
zione o nei movimenti guerriglieri castristi-maoisti degli anni 70.
La forza degli zapatisti si appoggia sul fatto che loro hanno un programma minimo
per le donne, per tutte le donne, urbane o rurali, un programma per l’edilizia popolare
e l’abitazione, uno degli affittuari, per i lavoratori delle industrie straniere in Messico,
per i sindacati e, soprattutto, un programma democratico nazionale: fare rispettare il
voto, no alle frodi, no al governo nato dalla frode, governo transitorio e cambiare la
legge elettorale per assicurare elezioni pulite. La forza dell’Ezln si basa nell’essere un
detonante della rivoluzione democratica nazionale e nelle tradizioni messicane (la
Rivoluzione messicana cominciò domandando la fine della frode - suffragio efectivo, no
reelección - e si approfondì domandando Tierra y Libertad, con Zapata, che non per
caso è l’ispiratore degli zapatisti odierni.
Non credono di poter vincere militarmente un esercito molto più forte e meglio
armato, ma cercando, con la loro azione militare, di mobilitare la popolazione sul
campo politico e sociale, di usare la forza per evitare il ricorso alla forza, per spostare il
problema al campo politico, anche elettorale. Hanno un programma democratico,
nazionalista rivoluzionario, capace di mobilitare anche una base dell’esercito, di divi
dere i settori più nazionalisti dei proprietari terrieri, legati al Pri, agenti degli Usa.
Hanno un programma di modernizzazione e democratizzazione politica e sociale del
Messico che può evitare che la società scoppi in modo incontrollato e, quindi, appare
logico anche negli Usa, dove è evidente l’anacronismo del regime e l’isolamento dei
tecnocrati che governano alla Profirio Diaz.
Per questo l’azione degli zapatisti ha trovato un’ampia eco su scala nazionale, ha
rotto il gabinetto di Salinas (dimissione del ministro degli Esteri, Manuel Camacho,
per presentarsi come mediatore dopo aver sondato la parte sinistra della Chiesa, dimis
sione del ministro dellTnterno ed ex governatore del Chiapas, Patrocinio Gonzàlez,
allegato del Nunzio Prigione) e ha causato un terremoto politico nel Pri (dimissione
del governatore del Chiapas, Etzer, proprietario terriero, assassinio del candidato a
presidente del Pri, Luis D. Colosio che voleva separare il Pri dallo stato ed elezioni
pulite, esilio dell’eminenza grigia di Salinas de Gortari, il francese José Maria Cordoba,
inviato alla Banca internazionale per lo sviluppo).
Ha costretto il governo a riconoscere l’esistenza del problema indigeno, creando
una Commissione ad hoc, a riconoscere l’Ezln e negoziare con esso, dopo aver tentato
lo sterminio militare, l’ha costretto a domandare la mediazione del vescovo Samuel
Ruiz, che Prigione ed il ministro dellTnterno volevano mandare in Italia, l’ha costretto
ad accettare degli osservatori stranieri per le elezioni nazionali, come domandava
l’opposizione, a nominare una commissione di personalità indipendenti per risolvere il
caso dell’assassinio di Colosio ed a cambiare la legislazione elettorale, l’ha costretto ad
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offrire sovvenzioni al prezzo del caffè, crediti, denaro per le scuole indigene e l’abita
zione popolare del Chiapas, modifiche alla Costituzione per garantire i diritti delle
minoranze etniche ed a imporre un governatore indio (Lopez) in quello stato.
L’Ezln ha isolato il Partito di azione nazionale (alleato da destra del Pri) costringen
dolo a separarsi dal governo e ha provocato anche uno spartiacque nel Partito della
rivoluzione democratica (Prd) dove è adesso impossibile appoggiare verbalmente gli
zapatisti e non fare mobilitazioni, negoziando allo stesso tempo con il governo l’otteni
mento di posizioni politiche e parlamentari. Per questo l’Ezln ha allargato il campo di
azione e di partecipazione di massa collocando le elezioni di agosto in un quadro che
superi il controllo dello stato-partito e degli apparati e che impedisca le frodi elettorali
simili a quella del 1988. Per questo l’Ezln ha avuto forti ripercussioni negli Usa, ren
dendo, ancor più evidenti che, a differenza del Centroamerica, il Messico è un proble
ma interno degli Stati Uniti, e non semplicemente un problema di politica internazio
nale.
I mesi prossimi
Se gli zapatisti hanno potuto provocare tutti questi cambiamenti è perché, dal ter
remoto del 1985, ci sono importanti manifestazioni di autoorganizzazione, di parteci
pazione popolare, non canalizzate dai partiti ma che esprimono una grande maturità
politica e una fame di democrazia, di cambiamento. Questa forza si è espressa nel
movimento cardenista nel 1988, che diede la vittoria elettorale a Cuauhtém oc
Càrdenas. Il ripudio alla frode (Salinas apparì subito come il presidente della prepo
tenza dello stato) si è mantenuto, come le mobilitazioni popolari di ogni tipo (per le
case, contro i licenziamenti, dei contadini, contro la frode elettorale, ecc.). Gli zapati
sti, con la loro azione, premono per le elezioni pulite e, quindi, in favore dell’opposi
zione di sinistra e degli oppositori interni nel Pri e nella Chiesa cattolica.
Ma è escluso che i dinosauri militari e civili e i «duri» del governo possano cedere
senza combattere. L’assassinio di Colosio mostra la loro durezza. E i proprietari terrie
ri del Chiapas, inoltre, non vogliono cedere le terre ai contadini e dichiarano soltanto
di essere disposti a vendere qualche migliaia di ettari di terre occupate da questi, a caro
prezzo pagato dallo stato, intanto si mobilitano, rafforzano la loro alleanza coi dinosau
ri del Pri, armano le loro guardie bianche.
Manca poco alle elezioni di agosto. Se il governo vedesse che la maggioranza degli
elettori è disposta a votare, e che l’opposizione di sinistra può vincere, potrebbe tenta
re un’avventura militare e politica, per rendere impossibili le elezioni tentando lo ster
minio dell’Ezln. Già adesso Camacho e Samuel Ruiz, i mediatori, agiscono in parte nel
vuoto perché non hanno un vero interlocutore governamentale malgrado la volontà
zapatista di discutere e di negoziare in pace. E il Nunzio, con l’aiuto del governo,
domanda al Vaticano che questo convochi il vescovo Ruiz, per diminuire la pressione
democratica nel Chiapas e nel Messico e aprire la strada ad una eventuale via armata in
quella regione senza dover pagare politicamente per il possibile assassinio di un vesco
vo, di fronte all’opinione pubblica messicana, americana e mondiale (specialmente
dopo l’assassinio del cardinale Posadas, ancora non chiarito e nel quale è implicato il
Nunzio Prigione).
Con i mediatori «svalutati» e i dinosauri che mordono il freno, se l’opposizione cre
sce e l’economia peggiorasse (una svalutazione del peso, una fuga di capitali, una crisi
della Borsa potrebbero essere fatali per il governo) è probabile che la tendenza «dura»
potrebbe tentare un colpo decisivo contro l’Ezln e contro ogni opposizione, religiosa,
politica, sociale, a costo di una possibile divisione dell’esercito e di una possibile guerra
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civile. Washington mantiene dei contatti con l’opposizione, sostiene anche la politica
del male minore (perché non si può permettere una guerra civile nel Messico, ma si
potrebbero tentare degli accordi con un governo di Càrdenas) e appoggia una politica
di concessioni economiche e democratiche nel Chiapas, ma non sarebbe la prima volta
che un governo latinoamericano pensa prima di tutto ai propri interessi e, come
Somoza o Stroessner, disubbedisce a Washington.
I mesi prossimi, quindi, saranno decisivi. Esclusa una avventura da parte zapatista,
quella dei duri e dei dinosauri potrebbe avverarsi nel caso di mobilitazioni importanti,
di crescita della rabbia popolare, di crescita e unità dell’opposizione. Il governo, quin
di, cerca di corrompere e dividere l’opposizione, di scoraggiare i possibili votanti, di
ridurre la partecipazione popolare, di mantenere artificialmente alto il tasso di cambio
della valuta messicana, di isolare gli zapatisti, di far reprimere dal Vaticano i preti sco
modi. In questo braccio di ferro non appare ancora un vincitore, anche se il tempo
lavora per l’opposizione e per gli zapatisti e costringe il governo a retrocedere passo a
passo.
Spagna
contemporanea
S e m e s tr a le d i sto r ia e b ib lio g r a fia
p r o m o s s o d a ll’I stitu to d i s t u d i sto r ic i G a e ta n o S a lv e m in i d i T o r in o
d ir e tto d a C la u d io V e n z a e A lfo n s o B o tti
A b b o n a m e n to a n n u o p er l'Italia £ 45.000; E u r o p a £ 6 0.000; p a e si
e x tr a e u r o p e i $ 5 0 . V e r s a m e n to s u c.c.p . n. 1 0 0 9 6 1 5 4 in te s ta to a " E d iz io n i
d e ll'O r so sas". V ia P ia c e n z a 66, A le s s a n d r ia , o tr a s fe r im e n to b a n c a r io
in te s ta to a llo s t e s s o
SIAL
Quindicinale di informazione
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Europa L. 50.000 - Altri continenti L. 65.000
C.C.P. n. 10183374, Verona, Via Bacilieri 1/A
15
Mariàtegui in casa di D on Pedro Lopez Aliaga (Lima 1923) in occasione
dell’esposizione di pittura italiana. Alla sua destra il giornalista Ladislao Meza, a sini
stra Emilia Astete.
16
Mauro C asta g n aro
El Salvador: quale pace dopo
il fiasco del secolo?
«Il fiasco del secolo». Così «El Salvador Proceso», bollettino settim anale
dell’Università Centroamericana «José Simeon Canas», retta dai gesuiti, maggiore ateneo
di San Salvador e massimo centro intellettuale del paese, intitolava l’editoriale del nume
ro del 23 marzo 1994, il primo dopo lo svolgimento delle consultazioni di tre giorni
prima, nelle quali i salvadoregni erano stati chiamati a scegliere presidente e vicepresi
dente della Repubblica, gli 84 membri dell’Assemblea nazionale, i sindaci dei 262 muni
cipi della nazione e i 20 deputati al Parlamento Centroamericano. E l’attacco dell’articolo
chiariva senza giri di parole, ma con una punta di amaro sarcasmo, le ragioni di un giudi
zio così perentorio: «Le elezioni del 20 marzo, che gli ingenui ottimisti avevano conside
rato d’importanza enorme al punto di definirle le elezioni del secolo si sono trasformate
in una fiasco enorme. La quantità e la gravità delle irregolarità che si sono verificate diffi
cilmente consentono di parlare di elezioni libere e limpide. Ancora una volta la dignità
del popolo salvadoregno è stata vilipesa dalle autorità che hanno guidato il processo».
Eppure non senza motivo si era parlato di «elezioni del secolo». Erano infatti le prime
dopo la fine di una guerra civile di 12 anni che aveva provocato 75.000 morti e si era con
clusa nel 1992 con gli accordi tra governo e Fronte Farabundo Marti per la Liberazione
Nazionale (Fmln) che avevano sancito l’avvio della smilitarizzazione e della democratizza
zione del paese; erano le prime cui potevano partecipare tutte le correnti politiche presen
ti nel paese, comprese le forze popolari e rivoluzionarie, da sempre costrette alla clandesti
nità dalla violenza dell’oligarchia, dell’esercito e dei gruppi paramilitari: a destra l’Alleanza
repubblicana nazionalista (Arena), coi satelliti Partito di conciliazione nazionale (Pen),
storico partito dei militari, e Movimento autentico cristiano (Mac), al centro il Partito
democratico cristiano (Pdc) e due partiti «evangelici», il Movimento di solidarietà nazio
nale (Msn) e il Movimento di unità (Mu), e, a sinistra, sia pur solo per le presidenziali, la
Convergenza unita, coalizione tra lTmln, il socialdemocratico Movimento nazional rivolu
zionario (Mnr) e la Convergenza democratica, divenuta partito dopo la fusione tra
Movimento popolare social cristiano, Partito social democratico e gli ex comunisti
dell’Unione democratica nazionalista; e avrebbero dovuto essere pure le prime davvero
libere della storia salvadoregna, grazie alla predisposizione di meccanismi volti a impedire
i brogli, a un’accurata revisione delle liste elettorali che cancellasse «elettori-fantasma»
(perché morti o emigrati all’estero) o «elettori doppi/tripli» (perché in possesso dei certifi
cati elettorali dei primi) e permettesse l’iscrizione di centinaia di migliaia di persone prima
private del diritto di voto, e alla supervisione della comunità internazionale, iniziata lo
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scorso anno dalla Missione delle nazioni unite per El Salvador (Onusal) e destinata a cul
minare nei giorni delle votazioni con l’arrivo di 900 osservatori designati dalla Onusal e
3.000 personalità indipendenti provenienti da tutto il mondo.
La «frode tecnica»
Ma proprio la regolarità della consultazione è venuta clamorosamente meno, vanifi
cando finterò processo, o almeno imprimendovi una grossa ombra: mentre i partiti poli
tici, il Tribunale supremo elettorale (Tse) e il presidente della Repubblica uscente,
Alfredo Cristiani, invitavano con insistenza la popolazione a recarsi alle urne, molti citta
dini vi rinunciavano dopo aver constatato che avrebbero dovuto rimanere due ore in fila
per poter entrare nel seggio; sempre che, naturalmente, non avessero accettato i 30 dolla
ri offerti in cambio del voto dai militanti dell’Arena impegnati a distribuire adesivi e
braccialetti di propaganda; altri, una volta arrivati alla porta scoprivano, scorrendo i fit
tissimi elenchi appesi all’entrata (una vera impresa, naturalmente, per quel 45% di salva
doregni che le statistiche ufficiali riconoscono analfabeti!), di non poter votare perché il
loro nome non compariva nelle liste elettorali (guarda caso soprattutto nelle zone con
trollate dall’Fmln durante la guerra civile, come Chalatenango, e questo è successo persi
no a Francisco Jovel, massimo leader del Partito rivoluzionario dei lavoratori centroame
ricani e membro del Comando generale dell’Fmln), oppure possedevano un certificato
elettorale con dati errati («In oltre 3.000 seggi si sono verificati problemi di questo gene
re, per un totale che potrebbe aggirarsi sui 25.000 casi», ha dichiarato l’Onusal, ma
secondo altre fonti questa cifra potrebbe arrivare a 70.000) o qualcuno aveva già votato
al loro posto; peraltro nelle liste non erano state incluse 422.000 persone perché il Tse
«non aveva fatto in tempo» a consegnare i certificati elettorali, altre 79.000 perché le
autorità municipali (leggasi molti sindaci dell’Arena) non avevano inviato i necessari atte
stati di nascita, i 70.000 giovani divenuti diciottenni dopo il 20 novembre 1993 e 30.000
non vedenti (in maggioranza invalidi di guerra), esclusi perché «il voto è segreto»; invece
vi comparivano ancora circa mezzo milione di cittadini emigrati all’estero o deceduti,
alcuni dei più illustri dei quali (dal fondatore dell’Arena, Roberto d’Aubuisson, morto
nel 1992, all’ex presidente della Repubblica e leader del Pdc, Napoleón Duarte, scom
parso nel 1990) avrebbero persino regolarmente votato; tanto nelle campagne come nelle
grandi città erano stati predisposti un numero ridotto di seggi, suddividendo gli elettori
per ordine alfabetico, per cui essi dovevano recarsi anche molto lontano da casa, mentre
gli spostamenti erano ostacolati dalla mancanza di trasporti, che pure il governo si era
impegnato a garantire; d’altro canto molti seggi avevano aperto tardi per problemi logicisti e organizzativi, riducendo il già paradossale minuto e mezzo a disposizione per il voto,
e alle cinque della sera, ora prevista per la chiusura, gli elettori ancora in attesa di poter
votare (oltre 300 solo a Soyapango) sono stati allontanati, contrariamente alle istruzioni
date; e, quando, dopo le dieci di sera, il Tse ha iniziato le operazioni di conteggio dei
voti, le opposizioni hanno immediatamente denunciato come fosse stato loro impedito
l’accesso al centro di calcolo; e quando sono saltati fuori pacchi di schede già votate qual
cuno è tornato a domandarsi dove fossero finite le 600.000 schede che il Tse aveva
dichiarato di avere distrutto per errori di stampa (tra l’altro dopo averle commissionate a
una tipografia di proprietà della famiglia del generale Vides Casanova, ex ministro della
Difesa implicato nell’assassinio delle 4 suore statunitensi nel 1980).
In sostanza, per riprendere la valutazione di “El Salvador Proceso”, «è difficile con
dividere l’idea secondo cui le attuali elezioni sono accettabili (come le ha definite
l'Onusal - n.d.r.) in quanto “più democratiche” che nel passato. Se qualcosa si può con
dividere è che esse sono state “meno antidemocratiche”, ma non per questo più accetta18
bili». Secco anche il giudizio di Felis Ulloa, coordinatore della Giunta di Vigilanza, che
avrebbe dovuto controllare l’attività del Tse, ma che è stata esclusa dalle sale dove avve
nivano i conteggi: «Dopo aver lottato contro l’impunità nel sistema giudiziario e nelle
Forze Armate, ora dobbiamo lottare anche contro l’impunità elettorale».
Alla fine su 2.700.000 di aventi diritto, il 45% non ha votato, una percentuale di
poco minore a quella registrata alle presidenziali del 1989, svoltesi nel pieno del con
flitto; di questa almeno il 25% è costituito da persone in realtà recatesi alle urne, ma
alle quali le innumerevoli irregolarità («brogli tecnici», li ha definiti l’Fmln, a sottoli
neare che la frode era stata pianificata dal Tse, e quindi dall’Arena che lo controlla)
avevano impedito di deporre la scheda nell’urna. C’è poi il dato squisitamente politico
di un astensionismo frutto del disinteresse e della sfiducia di molti salvadoregni nelle
elezioni. D ’altro canto le lentezze nell’adempimento degli Accordi di pace, e in qual
che caso il loro mancato rispetto, specie nel programma di trasferimento delle terre
agli ex combattenti, nello spiegamento della Polizia nazionale civile, nell’attuazione
delle raccomandazioni della Commissione della verità e nel fallimento del Foro di con
certazione economica e sociale, avevano generato un forte scetticismo, giacché la popo
lazione faticava a vedervi un vero strumento di cambiamento e non una mera forma
lità. Senza contare che la campagna elettorale era stata caratterizzata dall’appoggio
quasi totale dei mass media all’Arena, la quale aveva utilizzato per la propaganda di
partito denaro (1,5 milioni di dollari) e strutture dello stato, e soprattutto da una san
guinosa «campagna di terrore» dei più che mai redivivi «squadroni della morte», che
avevano fatto in pochi mesi varie decine di vittime, specie tra i militanti della sinistra.
I risultati dopo che solo l’intervento dell’Onusal aveva impedito all’Arena di attri
buirsi la vittoria già al primo turno, assegnavano il 49% all’Arena, il 24,9% alla
Convergenza Unita, il 16,4% al Pdc, il 5,4% al Pen, il 2,4% al Mu, 1’1,1 % al Msn e lo
0,8 al Mac. Così l’Arena ha ottenuto 39 seggi all’Assemblea nazionale, che, sommati ai 4
del Pen, gli garantiscono la maggioranza assoluta mentre 21 vanno all’Fmln, 18 al Pdc
ed 1 ciascuno al Mu e a una deludente Cd. Le irregolarità sono state, se possibile, anco
ra maggiori nelle elezioni municipali, tanto che le opposizioni, sottolineando i molti casi
in cui la maggioranza era stata ottenuta per pochi voti mentre centinaia di elettori erano
impossibilitati a partecipare, hanno impugnato i risultati di 44 comuni; i dati conclusivi
assegnano comunque 211 municipi all’Arena, 29 al Pdc, 14 all’Fmln e 8 al Pen.
II 24 aprile senza che il Tse avesse posto rimedio alle carenze del primo turno, con
ciò favorendo un ulteriore calo della percentuale dei votanti, scesa al 44%, Calderón
Sol ha stravinto il ballottaggio col 68,2% contro il 31,7% di Rubén Zamora.
Elezioni «storiche»?
La portata «storica» di questo appuntamento elettorale, era stato così descritto da
Rubén Zamora, candidato presidenziale della coalizione di sinistra: «Gli accordi di
Chapultepec hanno aperto tre processi di transizione politica. Il primo è quello dalla
guerra, durata 13 anni, alla pace. Il secondo si riferisce al passaggio da un dominio milita
re sulla politica, iniziato 60 anni fa, alla smilitarizzazione. La terza transizione è quella da
una concezione e da un esercizio del potere escludenti, che durano da 200 anni, a una
concezione e a un esercizio del potere fondati sulla concertazione. La prima trasmissione
è stata completata con successo, giacché il ritorno al conflitto armato è del tutto impro
babile a breve termine. Nella seconda sono stati compiuti passi molto importanti, come
la soppressione dei corpi di sicurezza, il disarmo e la trasformazione della guerriglia in
partito politico legale, la creazione della nuova Polizia nazionale civile separata dall’eser
cito, ma non è stata ancora completata la riduzione e l’epurazione delle forze armate, né
19
lo smantellamento degli «squadroni della morte». La terza, la sola che può garantire la
pace a medio termine, è bloccata, come dimostra l’impasse delle istituzioni nate dalle
intese e che esprimono una visione del potere basata sul negoziato: il Foro di concerta
zione economico e sociale, cui oltre all’esecutivo partecipano sindacati e imprenditori, e
la Commissione per il consolidamento della pace (Copaz), composta pariteticamente da
rappresentanti del governo e dell’opposizione. Proprio per rilanciare questa terza transi
zione, che la destra non ha fatto propria, sono determinanti le elezioni del 20 marzo.
Anche perché, dopo tre anni in cui al centro dell’attenzione del paese ci sono state le
tematiche politiche, bisognerà avviare un quarto processo di transizione, quello economico-sociale, il quale, se eluso, lascerà innescata una situazione che resta una bomba a oro
logeria, perché la guerra aveva le proprie radici in un’ingiusta struttura economica e in
un’iniqua distribuzione della ricchezza, che vanno cambiate.
In effetti la storia salvadoregna successiva all’indipendenza può essere interpretata
come «ascesa e declino di un sistema di dominio».
La Repubblica oligarchica
L’inizio della dominazione oligarchica in E1 Salvator può essere collocato attorno al
1850, in concomitanza col passaggio da un’agricoltura fondata sulla produzione dell’inda
co (che avveniva con metodi antiquati e non aveva fatto nascere un gruppo sociale domi
nante omogeneo) alla monocultura del caffè, che alterò profondamente la struttura econo
mica del paese sancendo, sul piano interno, l’introduzione di meccanismi propriamente
capitalistici, con la liberalizzazione della proprietà fondiaria (previa abolizione degli ejidos
e delle terre comunali, presto passati in mani private) e del mercato del lavoro (con l’appa
rire di una manodopera salariata), e, sul piano esterno, un primo e parziale inserimento
dell’economia salvadoregna nel commercio internazionale. La ricchezza derivata dalla
produzione caffearia creò le condizioni per la trasformazione di un’aristocrazia semifeuda
le in borghesia agricola e il nucleo agroesportatore svolse un ruolo decisivo nel consolida
re un governo davvero nazionale, dando vita alla cosiddetta «repubblica oligarchica». Con
la «rivoluzione liberale» del 1870 la crisi del sistema tradizionale giungeva al culmine e
nasceva uno Stato capitalista preindustriale, dai trattati marcatamente elitari, giacché il
governo non solo era nelle mani di un ristrettissimo numero di famiglie (le convenzionali
«quattordici famiglie», che in alcuni periodi non furono in realtà più di due o tre), ma
anche perseguiva in via prioritaria gli interessi del gruppo dominante, se necessario al di
sopra e in contrasto con quelli nazionali. Le sostanziose entrate garantite dall’agricoltura
di esportazione assicurarono la stabilità del sistema fino al 1931, quando il paese fu inve
stito dagli effetti della «Grande Depressione» del 1929, e in particolare dal crollo del 50%
del prezzo internazionale del caffè, aggravato dalle tensioni provocate dalla pressione
demografica sul regime di proprietà della terra. Il malcontento, forte soprattutto tra i con
tadini, portò alla nascita della Federazione regionale dei lavoratori salvadoregni (Frts),
fondata nel 1930 dal dirigente comunista Farabundo Marti, il quale guidò l’insurrezione
contadina nel 1932, sconfitta solo grazie alla «mattanza» di 30.000 persone compiuta dalle
Forze Armate del generale Maximiliano Hernandez Martinez.
Il militarismo, rimedio alla crisi di egemonia dell’oligarchia
La crisi del 1932 dimostrò quindi che l’oligarchia non poteva più governare da sola: il
regime sopravvisse, ma trasformandosi in un sistema di dominazione politica diverso,
frutto dell’alleanza tra i tradizionali gruppi economici forti e i militari. Questa assunse
20
inizialmente la forma della «dittatura personalista», dello stesso generale Hernandez
Martinez (1932-1944), che varò provvedimenti, come la creazione del Banco centrai de
reserva de El Salvador, destinati a riordinare la struttura capitalista del paese, impedendo
il fallimento di alcuni imprenditori e bloccando un’ulteriore concentrazione fondiaria;
poi, attraverso il golpe de los mayores del 1948, quella della dittatura militare istituziona
lizzata, dopo che era abortita la transizione alla democrazia avviata in seguito alla rinun
cia di Hernandez Martinez, costretto a dimettersi dal combinarsi di una rivolta putschista, di uno sciopero generale e delle pressioni degli Stati Uniti. Ebbe inizio un esperimen
to di «riformismo militare», proclamato più che praticato da un’istituzione castrense,
che, pur controllando la società per tre decenni, non arrivò a dominarla e a trasformarsi
nel soggetto egemonico capace di prendere il posto di un’oligarchia ancora dotata di suf
ficiente potere economico per impedire qualunque riforma degna di questo nome. Tra il
1948 e il 1972 il regime, dibattendosi tra riformismo autoritario, populismo e dispotismo
reazionario, non riuscì a stipulare un nuovo patto sociale che lo legittimasse né seppe
risolvere la crisi di egemonia apertasi con l’ascesa al potere di Hernandez Martinez.
Nella prima metà degli anni ‘60 il paese conobbe un rilevante processo di industria
lizzazione grazie alle possibilità create dal Mercato comune centroamericano, ma la
«guerra del calcio» con l’Honduras, decretando la fine del «Mercomun», impedì alla
borghesia di rafforzarsi al punto da sfidare l’oligarchia o costruire nuove alleanze
sociali coi ceti medi e le classi popolari. Anzi, quando all’inizio degli anni ‘70, anche in
seguito alla massiccia emigrazione di ritorno provocata dal conflitto con Tegucigalpa,
le condizioni di vita nelle campagne salvadoregne peggiorarono sensibilmente e la tra
dizionale combinazione di paternalismo, promesse incompiute e repressione cominciò
a rivelarsi insufficiente per tenere in soggezione i contadini, il gruppo dominante con
fermò la capacità di compattarsi per far fronte alla mobilitazione delle classi popolari.
La crisi organica del regime militare
Così prima solo una gigantesca frode elettorale sconfisse nel 1972 José Napoleón
Duarte, candidato presidenziale, dell’Unione nazionale di opposizione, formata, oltre
che da un Pdc egemone tra i ceti medi, dal socialdemocratico Mnr e dall’Udn (nata nel
1970 per sostenere quel Francisco Lima, dissidente progressista del Pen, oggi candida
tosi alla vicepresidenza per la coalizione di sinistra), e portò alla presidenza il colonnel
lo Arturo Armando Molina. Poi, nel 1975, quando questi, nel tentativo di riconfermare
il ruolo autonomo dell’istituzione castrense favorendo la nascita di uno strato di piccoli
e medi produttori agricoli, creò, rompendo il tabù della «riforma agraria», l’Istituto
salvadoregno di trasformazione agraria (Ista), l’oligarchia costrinse il governo a fare
marcia indietro, creando al contempo le condizioni per restaurare la propria suprema
zia politica. Infatti nel 1977 nuove elezioni disegnate ancora una volta da brogli clamo
rosi portarono alla presidenza il generale Carlos Humberto Romero, deputato a conso
lidare, attraverso lo sterminio sistematico degli avversari di classe, un modello di domi
nio fondato su un autoritarismo esclusivista. Ma la sconfitta elettorale dell’opposizione
moderata del 1972 aveva distrutto l’emergente centro politico, dimostrando l’impossi
bilità di una democratizzazione del sistema per via legale e radicalizzando lo scontro
tra un movimento popolare in crescita e un regime militare sempre più delegittimato.
Nel 1974 era nato il Fronte di azione popolare unificato (Fapu), nel 1975 il Blocco
popolare rivoluzionario (Bpr), nel 1978 le Leghe popolari 28 febbraio (Lp-28) e nel
1979 il Movimento di liberazione popolare (Mlp). Questi «fronti di massa» avevano
intrecciato legami, più o meno stretti, con le formazioni guerrigliere - il Bpr con le
Forze popolari di liberazione Farabundo Marti (Fpl-Fm), frutto di una scissione del
21
terzinternazionalista Partito comunista salvadoregno (Pcs), di cui criticavano la strate
gia elettoralista; le Lp-28 con l’Esercito rivoluzionario del popolo (Erp), di matrice
fochista, il Fapu con le Forze Armate della resistenza nazionale (Farn), staccatesi
dall’Erp dopo l’assassinio del poeta Roque Dalton, e l’Mlp col piccolo Partito rivolu
zionario dei lavoratori centroamericani - che, nate all’inizio degli anni ‘70, raggiunsero
nella seconda metà del decennio dimensioni e capacità militare rilevanti. Sul versante
opposto il regime dovette ricorrere a un livello sempre maggiore di violenza per mante
nersi al potere, l’Organizzazione democratica nazionalista (Orden), l’organismo paramilitare creato alla metà degli anni ‘60 per contrastare l’espansione del movimento
bracciantile nelle campagne, divenne una vera milizia di oltre 50.000 uomini in armi e
nacquero le Forze armate di liberazione anticomunista di guerra di eliminazione
(Falange) e l’Unione guerriera bianca, prototipi degli «squadroni della morte».
La «democrazia controinsurrezionale made in Usa»
Quando ormai un’insurrezione appariva alle porte, il 15 ottobre 1979 il golpe
incruento compiuto da un gruppo di giovani militari depose il generale Romero e insediò
una giunta composta da tre prestigiosi esponenti della società civile (Guillermo Ungo,
leader dell’Mnr, Ramón Mayorga, ex rettore dell’Università Centroamericana di San
Salvador, e Mario Andino, rappresentante dell’ala più moderna dell’impresa privata) e
due militari (il colonnello Adolfo Majano, capo della rivolta, e il colonnello Jaime Abdul
Gutierrez, personaggio cerniera con la destra militare), con una piattaforma riformista.
Ma l’esclusione delle organizzazioni di massa, che costituivano il canale di espressione
delle classi popolari e dei contadini privò la Giunta della base di consenso indispensabile
per neutralizzare l’ostruzionismo dell’oligarchia e dell’ala reazionaria delle Forze Armate.
Così il varo di alcune riforme politiche e sociali venne vanificato dall’escalation della vio
lenza nei confronti della sinistra e dei movimenti popolari, riunitisi nel Fronte democrati
co rivoluzionario (Fdr). La ricetta «riforme con repressione», che intendeva intaccare il
potere oligarchico e contenere la mobilitazione popolare, mostrava fin dall’inizio la diffi
coltà a imporsi come strategia «centrista»: la destabilizzazione portata avanti dall’estrema
destra aveva ormai aperto la strada alla guerra civile, mentre i militari progressisti veniva
no progressivamente emarginati. Nonostante i massicci aiuti militari ed economici (8
miliardi in dieci anni) finalizzati a liquidare militarmente il Fmln e a creare una base di
consenso a un Pdc fortemente sbilanciato a destra, il progetto di «terza via» promosso e
tenuto artificialmente in vita da Washington nel perenne sforzo di armonizzare i proposi
ti «riformisti» con gli interessi dei gruppi dominanti, consuma il proprio fallimento;
l’estrema destra, ottenendo la maggioranza dei seggi nell’Assemblea costituente e poten
do reggere il governo fino al 1984, riesce prima a congelare la riforma agraria e, quando
Duarte diventa presidente nel 1984, a neutralizzare il governo democristiano; questo,
d’altro canto, si arrende a un ruolo puramente controinsurrezionale e naufraga inglorio
samente in un’amministrazione inefficiente e corrotta. Così nel 1989, il Pdc è sonoramen
te sconfitto dall’Arena: finisce l’epoca delle «riforme con repressione» (che peraltro ave
vano visto poche riforme e molta repressione) e la classe dominante riprende pienamente
e direttamente il controllo dell’apparato dello stato.
Gli accordi di pace e la «rivoluzione democratica»
Ma proprio l’ascesa alla presidenza di Alfredo Cristiani costituisce il primo tassello
di un mosaico che, in meno di due anni porterà alla fine della guerra. L’ex vicepresi22
dente dell’Associazione nazionale dell’impresa privata (Anep) è infatti il rappresentan
te di una «nuova destra» neoliberale sorta attorno alla Fondazione salvadoregna per lo
sviluppo (Fusades) e composta dagli imprenditori rimasti nel paese durante la guerra e
da tecnocrati cui i clan dell’oligarchia emigrati a Miami nel 1979 avevano affidato la
gestione dei propri affari. Di fatto i grandi capitalisti salvadoregni restano gli stessi del
1979, ma le aziende sono ormai gestite non più come imprese familiari tradizionali, ma
come moderne società anonime. La nazionalizzazione delle banche e del commercio
estero, insieme alla riforma agraria, hanno favorito la diversificazione produttiva e una
trasformazione del sistema finanziario, avvenute con la consulenza della statunitense
Agency for international developement (Aid). All’interno della classe dominante salva
doregna, la parte più moderna e legata al capitale internazionale comincia a guardare
con impazienza alla fine delle ostilità, desiderosa di lasciarsi alle spalle un’instabilità
politica ormai divenuta un grande handicap nel momento in cui nel mondo si impon
gono tendenze alla liberalizzazione dei flussi finanziari e commerciali, dai quali il paese
rischia di essere emarginato a causa della guerra. E a dimostrare che l’esercito non è in
grado di vincerla ci pensa l’Fmln con l’offensiva del novembre del 1989, che convince
anche Washington dell’impossibilità di sconfiggere con le armi la guerriglia e apre la
strada al negoziato, iniziato, e non a caso, nel marzo del 1990. Nel frattempo, infatti il
crollo dei regimi del «socialismo reale» ha chiuso l’epoca della «guerra fredda» e posto
al centro delle preoccupazioni statunitensi la rinnovata concorrenza intercapitalistica
con l’Europa unita e le emergenti economie del Pacifico asiatico; l’establishment nor
damericano guarda all’America latina come lo spazio naturale per la formazione del
proprio blocco regionale e la pacificazione di El Salvador è per l’amministrazione Bush
un passaggio obbligato in vista della creazione di quell’area di libero commercio
«dall’Alaska alla Terra del fuoco». Ma il mutamento dello scenario internazionale con
ferma definitivamente anche la consapevolezza dell’Fmln di dover arrivare rapidamen
te a una soluzione negoziata del conflitto armato, giacché non solo questo avrebbe
potuto durare ancora anni, comportando costi umani elevatissimi e la virtuale distru
zione del paese, ma senza l’appoggio di una retroguardia costituita dall’ormai defunto
«campo socialista» un eventuale governo rivoluzionario non avrebbe potuto resistere
alla sicura reazione militare ed economica statunitense, simile a quella che aveva stran
golato l’esperienza sandinista in Nicaragua portando l’Fsln alla sconfitta elettorale di
febbraio. A questi fattori si sommano le sempre più forti pressioni di una società civile
coagulatasi attorno alla domanda della pace, delle Chiese e dei principali consessi
internazionali. In ultima analisi la fine della guerra costituisce quindi il punto di con
vergenza tra gli interessi - peraltro ben distinti, quando non contrapposti - dei tre
principali attori del conflitto: gli Stati Uniti, l’oligarchia salvadoregna e l’Fmln. Il com
promesso fotografa fedelmente i rapporti di forza politico-militari e si sostanzia nella
definizione di un quadro di garanzie formali e di fatto che permette di spostare la lotta
di classe dal terreno militare a quello politico. Non a caso i dirigenti dell’Fmln parlano
di «rivoluzione democratica» e sottolineano che «la rivoluzione non è finita».
Un futuro pieno di incognite
Questa ricostruzione storica, per quanto sommaria, conferma l’analisi dalla quale
Zamora partiva per delineare la proposta politica della sinistra salvadoregna: «In El
Salvador il potere è sempre stato la linea di divisione tra inclusi ed esclusi nella società
e lo strumento con cui l’élite manteneva emarginate le masse, cui restava solo la scelta
tra obbedire e subire la repressione. Il sistema era chiuso a forme di cooptazione,
compartecipazione o ricambio, la frode elettorale era il meccanismo per assicurare il
23
monopolio del governo alla minoranza e il militarismo era indispensabile alla sua
sopravvivenza. La guerra ha messo in crisi e rivelato l’inefficienza di questo modello
politico, dimostrando che esso porta alla nascita di un potere militare alternativo in
grado di esercitare un veto. Col negoziato di pace lo schema viene rovesciato, perché
l’élite riconosce che non può risolvere la crisi senza trattare con l’escluso. Si fa quindi
strada una nuova concezione del potere politico come mezzo non di esclusione, ma di
inclusione, del governo come strumento non per centralizzare il potere, ma per distri
buirlo, e della politica non come imposizione, ma come concertazione. Perciò noi
intendiamo produrre la concertazione come asse della politica del governo in tutti i
campi, a partire dalla costituzione di un esecutivo di ampia coalizione democratica,
per applicare la grande lezione della guerra: nessuno, da solo ed escludendo gli altri,
può mandare avanti il paese; soltanto tutti insieme e includendo, lo manderemo avan
ti. Altrettanto concentratrice è stata ed è tuttora l’economia salvadoregna: essa ha fon
dato il suo dinamismo non sulla maggioranza della popolazione, ma su pochi grandi
capitalisti, e ha sviluppato un significativo livello di produzione, ma una ridottissima
capacità di distribuire quanto produce. Noi dobbiamo invece passare a un’economia
il cui motore sia l’insieme dei salvadoregni e che, conservando la propria capacità
produttiva, aumenti quella distributiva. In che modo? Svincolando il governo dallo
strato superiore della società, cui finora è stato connesso e al servizio del quale si è
posto, e ancorandolo a quel 75% della popolazione che ha redditi bassi o bassissimi,
tramite un nuova politica economica e sociale che dia priorità alle piccole e medie
imprese, sostenga l’agricoltura e il cooperativismo, investa nei servizi sociali, generi
uno sviluppo autonomo delle classi popolari. In queste elezioni, in definitiva, vedre
mo chi ha davvero vinto il negoziato. E il successo della destra neoliberista non consi
sterebbe tanto nel liquidare la sinistra, ma nel costringerla a un ruolo subordinato,
ridurla a un ‘bonsai’ con cui ornare il giardino di una ‘democrazia’ totalmente orien
tata verso gli interessi imprenditoriali».
In conclusione quindi, gli accordi di Chapultepec hanno posto fine all’agonia di un
regime militare già entrato in coma col golpe dei «giovani ufficiali» del 1979 e tenuto
artificialmente in vita dagli Stati Uniti per tutti gli anni ‘80. Le elezioni del 20 marzo
promettevano di colmare il vuoto di legittimità del potere politico provocato dalla
costante e violenta emarginazione delle forze popolari, ma il loro risultato, e più ancora
il modo con cui a esso si è giunti, riempiono di incognite il futuro di E1 Salvador: non
solo, infatti, le riforme sociali necessarie a sradicare le cause della guerra civile dovran
no ancora attendere, in forse sono anche il completamento dell’applicazione degli
accordi di pace e le condizioni minime del processo di democratizzazione. Anche se
Calderón Sol si è detto disponibile a esaminare l’agenda per la concertazione nazionale
presentatagli dai dirigenti della sinistra, i rischi di ulteriore restrizione di spazi di
libertà ancora molto limitati, di incancrenimento delle violazioni dei diritti umani, di
rilancio del militarismo, appaiono molto forti, giacché il neopresidente rappresenta il
settore «duro» dell’Arena, quello più ferocemente anticomunista e contiguo agli
«squadroni della morte» (nelle cui attività il «New York Times», citando documenti
del Dipartimento di stato, lo ha esplicitamente coinvolto), nutre un’autentica venera
zione per il maggiore Roberto d ’Abuisson, mandante riconosciuto dell’assassinio di
mons. Romero, e ha festeggiato la vittoria cantando l’inno «arenerò»: «El Salvador sarà
la tomba dei rossi». Il superamento del tradizionale sistema di dominio che si prolunga
da oltre un secolo certo appare rinviato a tempo indeterminato, ma anche il governo di
Calderón Sol, che per di più rappresenta i segmenti più arretrati dell’oligarchia (in par
ticolare i medi produttori del settore agrozootecnico), penalizzati durante la presiden
za di Cristiani a vantaggio di quelli tecnocratici e modernizzanti, può sperare di risol
vere la crisi di egemonia che dura dal 1932 senza creare un nuovo blocco sociale.
24
Spetterà all’opposizione, e principalmente alla sinistra impedire una sorta di «coopta
zione subalterna» di parti di ceti medi e classi popolari. E probabilmente il primo test
riguarderà, ancora una volta, un problema di terre, quelle da assegnare a 7.500 ex
guerriglieri, 15.000 soldati messi a riposo e 25.000 braccianti che durante la guerra ave
vano occupato proprietà abbandonate dai latifondisti. E la questione agraria, autentico
«filo rosso» della storia salvadoregna, non si esaurisce qui, giacché i contadini senza
terra sono ancora 200.000.
la situazione è eccellente
cominciamo da capo
GIANO/RICERCHE PER LA PACE
Rivista quadrimestrale
Direttore: L. Cortesi, via Fregene 10, 00183 Roma
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Napoli, P.le Tecchio, 80 - c.c.p. n. 19932805
è uscito il n. l-2 /'9 4
a sinistra
LABORATORIO PER L'ALTERNATIVA SOCIALE E POLITICA
Costitutente, perché no? Giuseppe Prestipino Un decennio di lotta per i dirit
ti dei popoli indigeni Giulio Girardi G7 a Napoli: la disoccupazione ha toc
cato il vertice Giovanni Russo Spena D ossier/Crisi dello S ta to -n a zio
ne e n u o v o in t e r n a z io n a lis m o Jervolino, Vecchi, M e cca rie llo ,
Castagnola, Clementi, Broncia, Pinto, Orlando
abbonari "a sinistra" costa solo 5 0 .0 0 0 lire da versare sul CCP N . 6 1 8 1 6 0 0 5
intestato a: G iovanni Lisi, via. B. M a rlia n o 4 , 0 0 1 6 2 Roma
25
Foto inedita, opera di José Malanca, Lima, 1929.
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Jairo A gudelo Taborda
Colombia,
congiuntura pre-elettorale
Il processo di democratizzazione in Colombia cammina su due binari che sembra
no distanziarsi sempre di più: da una parte il risanamento strutturale dell’economia
parzialmente riuscito con un altissimo costo sociale pagato daU’80% dei 28 milioni di
colombiani e, dall’altra, sempre più ristretti spazi democratici di partecipazione politi
ca malgrado le riforme formali ed istituzionali compiute di recente.
La decade del ‘90 sembrava promettente per questo paese andino-caraibico. Si
voleva lasciare alle spalle il pesante bilancio economico e di costo di vite umane che
avevano segnato gli anni ‘80. C’erano non pochi segnali di speranza: la riuscita degli
accordi i pace tra la guerriglia ed il governo che generava la nascita di nuovi partiti e di
un vasto movimento di convergenza delle opposizioni attorno all’Alleanza democratica
M-19 condotta da Carlos Pizarro. L’Ad-M19 veniva a sommarsi all’Unione patriottica
bersaglio privilegiato dei gruppi paramilitari di destra. La campagna elettorale per le
presidenziali del ‘90 aveva lasciato sull’arena dei fuori combattimento tre candidati
dell’opposizione uccisi: Galàn (ala dissidente del Partito liberale), Jaramillo (Unione
patriottica) e Pizarro (Ad-M19).
Il neopresidente César Gaviria del PI aveva avuto il 49,9% dei voti contro il 24,9%
del Movimento di salvezza nazionale (Msn), nuovo secondo partito.
Con l’uccisione di Pizarro l’Ad-M19 aveva mandato in campo come candidato l’ideo
logo Antonio Navarro Wolff (reduce di diversi attentati paramilitari) che otteneva il
13,2%, collocandosi come terzo partito e dando il colpo di grazia al tradizionale biparti
tismo tra il PI e il Partido social conservador che raggiungeva solo il 12,9% dei voti.
Erano dei risultati senza precedenti nella storia colombiana se si tiene conto che in
simultanea con le presidenziali c’era stata una consultazione plebiscitaria sull’avvia
mento di un’assemblea costituente con un 90% per il Si.
Così il 9 dicembre del ‘90 si andava all’elezione della quota di rappresentanza
popolare per l’Assemblea Costituente che da la maggioranza relativa all’Ad-M l9
(27%) con una vasta presenza di settori delle minoranze etniche.
Nel frattempo si giungeva a due accordi di pace con il Partido revolucionario de los
trabajadores (Prt) e con YEjercito popular de liberación (Epl).
Filosofo colombiano
27
Il processo di pacificazione si rinforzava ed ormai si cominciava a parlare della
«Primavera colombiana» soprattutto al momento della proclamazione della Nuova
Costituzione a giugno del ‘91.
La nuova Costituzione politica colombiana definiva, per la prima volta, il paese
come nazionale multietnica con il conseguente riconoscimento dei diritti alla proprietà
collettiva della terra, al multilinguismo. Oltre al riconoscimento, quanto meno in linea
di principio, anche i diritti umani acquistavano la figura del Defensor del pueblo, garan
te dei diritti civili in un paese in cui la sparizione era diventata pratica alla stregua dei
più accaniti regimi dittatoriali sudamericani degli anni ‘80.
Parallelamente, un altro dialogo guadagnava terreno sebbene molto timidamente.
Era quello delle trattative con il Cartello di Medellin che porterebbe poi Pablo Escobar
a costituirsi tramite un accordo tacito non molto chiaro a livello di implicanze etico-giu
ridiche, che comunque serviva ad attenuare la narcoviolenza di una guerra che tanto
stava costando in vite umane ed in risorse economiche con il beneplacito degli Usa e
dell’Europa. La lotta al narcotraffico era ormai diventata dall’89 la nuova bandiera da
sventolare in sostituzione alla sistematica paura nei confronti del comuniSmo. L’invasio
ne del Panama ed il vertice sulla droga a Cartagena avevano inaugurato l’interesse geo
politico americano degli anni ‘90 in questa zona. Traduzione: militarizzazione attraverso
la Dea. Non è un caso che il 9 gennaio il presidente Gaviria sia stato accusato dal
Consiglio di Stato di aver violato la Costituzione del ‘91 (da lui stesso promulgata). Il
Consiglio ha chiesto alla Camera dei deputati di indagare sulla massiccia presenza di
militari nordamericani che negli ultimi mesi sono arrivati alla costa pacifica (Juanchaco)
ed al Nordovest del paese. Gli analisti parlano di uno scambio di favori tra il governo
Usa ed il presidente Gaviria mirato alla sua elezione come nuovo Segretario generale
dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che si traduce in una forte pressione da
parte degli Usa affinché il governo colombiano combatta con ogni mezzo e ad ogni
costo il cartello di Cali. La risposta del presidente all’accusa di violazione della
Costituzione si riduceva ad un invito a preoccuparsi di questioni più importanti come la
nuova fonte di ricchezza generata dalla scoperta e lo sfruttamento dei nuovi pozzi di
petrolio di Cusiana e Cupiagua. Va ricordato che è tuttora in vigore l’accordo «regalias»
che concede alle multinazionali americane tutti i diritti e vantaggi dello sfruttamento dei
pozzi petroliferi colombiani, ragione per cui il radicalismo guerrigliero non scende a
patti se prima non viene revisionato e ridimensionato tale accordo.
Quale primavera?
Era durata poco la «primavera colombiana». Il ‘92 tornava ad essere come l’89
quando la guerra sporca aveva toccato il fondo. Gli stessi bersagli: indigeni, sindacali
sti, sacerdoti progressisti, nuovi partiti politici, intellettuali. Il ritorno di Garcia
Màrquez al paese apriva un nuovo discorso nell’ambito della sinistra colombiana ma i
radicalismi lasciavano poco spazio alla real politique. Pochi intellettuali rientravano e
tanti continuavano ad andarsene.
L’incrocio delle violenze, a cominciare da quella politica, faceva salire dell’8% (da
25.100 a 27.000) rispetto al ‘91 il bilancio di morti violente durante, il ‘92. Il dialogo di
pace tra il Coordinamento Guerrigliero Simón Bolivar (Cgsb) che poneva come condi
zione alle trattative la revisione dell’accordo sul petrolio con le compagnie americane,
si arenava definitivamente e Gaviria dichiarava lo “Stato di commozione interna”
facoltativo nella Nuova Costituzione dopo l’uccisione di 26 poliziotti ad opera del
Cgsb. Il presidente dichiarava anche la guerra integrai alla guerriglia e al narcotraffico
indistintamente.
28
Così nel 1993 la Colombia passava ad essere il paese latinoamericano con la mag
giore spesa militare. Si prevede che per il 1994 ci saranno 30 mila soldati professionisti
in più ed un incremento di 510 milioni di dollari per la spesa miliare dei prossimi cin
que anni.
Il bilancio economico del 1993 è stato positivo. La Colombia entra così a far parte
dell’elenco dei paesi «miracolati» dal neoliberismo che le permette di essere il primo
paese del Sudamerica a chiedere l’ammissione al Nafta (22 febbraio ‘94). Il rapporto
della Cepal parla di una crescita economica del 4,5%. Tuttavia questo non incide mini
mamente sulle condizioni di vita dei colombiani. Ancora una volta l’aumento del sala
rio minimo mensile (21,09% per decreto) è al di sotto dell’inflazione (22,6%), con la
conseguente diminuzione del potere d’acquisto. Così il nuovo salario minimo mensile
passa ad essere di 98.700 pesos (120 Us).
La spesa sociale è calata ulteriormente passando dal 9,45% del 1992 all’8,2% del
Pii nel 1993.
Il 1994
Il 1994 colombiano è iniziato all’insegna delle elezioni e quindi con la paura che ciò
comporta. Sul calendario ‘94 c’erano le legislative per il 13 marzo, quelle presidenziali
il 29 maggio con un eventuale secondo turno il 19 giugno e, infine, le amministrative
per il 30 ottobre.
Se il 1993 si era chiuso con un tragico bilancio, il 1994 si apriva con dei clamorosi
massacri a motivo politico, cioè di quel tipo di violenza che maggiormente incide sul
quotidiano vivere e morire dei colombiani. Il Nordovest del paese è stato bersaglio pri
vilegiato della tradizionale strategia pre-elettorale di eliminazione fisica degli avversari
politici per mano sia del terrorismo di destra sia del radicalismo della guerriglia. Basti
pensare che nel 1993 si sono verificati nella stessa città (Apartado) 400 uccisioni per
motivi politici. Nella stessa zona ha avuto luogo il massacro di 33 contadini simpatiz
zanti dell’Epl (Speranza, Pace e Libertà) partito sorto dai recenti accordi di pace con il
governo.
I dati ufficiali pubblicati dal Procuratore generale della nazione alla vigilia della
Conferenza mondiale dei diritti umani a Vienna (giugno ‘93) parlano di una media
annua di 74 massacri, 402 omicidi, 370 sparizioni, 618 detenzioni arbitrarie. Se si tiene
conto che praticamente tutto il 1994 sarà vissuto sotto i tre appuntamenti elettorali, si
capisce quanto possa essere delicato il momento politico.
II rapporto di Amnesty International 1993, fatto su 161 paesi, colloca La Colombia
come:
- uno dei 110 paesi in cui si pratica la tortura,
- uno dei 45 paesi che vede membri dell’esercito coinvolti in esecuzioni sommarie,
- uno dei 25 in cui si verifica il fenomeno dei desaparecidos,
- uno dei 40 in cui si attaccano gli indigeni e le minoranze etniche e sociali,
- uno dei 50 in cui si violano i diritti dei bambini e si pratica l’eliminazione degli
«indesiderabili», cioè, presunti delinquenti ed omosessuali.
Secondo il rapporto del Consigliere presidenziale per i diritti umani a tutt’oggi ci
sono 805 casi di denuncia contro lo stato colombiano per via extra-convenzionale pres
so le Nazioni Unite. Il gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate ha presentato 45 casi
per via ordinaria e 42 per via d’urgenza.
Già la Missione Seta del Consiglio d’Europa aveva denunciato nel gennaio ‘93
tale situazione e faceva un appello alla comunità internazionale perché dedicasse
maggiore attenzione al tema dei diritti umani. Lo stato colombiano ha dovuto
29
rispondere alla Corte interamericana dei diritti umani per i casi di sparizione di
Isidro Caballero e Carmen Santana.
In qualche modo però la situazione colombiana ha avuto eco a livello internaziona
le. Sono parecchi i rapporti presentati da diversi organismi internazionali:
- «La guerra nascosta» da una delegazione delle Chiese britanniche.
- «La violenza continua» da Americas Watch degli Usa.
- «Il terrorismo di stato in Colombia» da 10 Ong internazionali.
- Rapporti specifici presentati alla Commissione di Du dell’Onu e dell’Osa.
- Rapporto presentato dalle Ong colombiane alla Conferenza di Vienna (giugno ‘93).
Le legislative: astensionismo, bipartitismo e continuismo
Sono i tre fatti che hanno caratterizzato le elezioni legislative del 13 marzo. L’asten
sionismo ha raggiunto il 70% degli 8 milioni di aventi diritto al voto. Il 46% dei votan
ti ha premiato il Partito di Governo, cioè il PI (Partito liberare di tendenza socialdemo
cratica) dell’attuale presidente César Gaviria. Nonostante il negativo bilancio democra
tico già accennato, il PI fa leva, da una parte, sulla ferma lotta al narcotraffico che ha
come bandiera la sconfitta di Pablo Escobar e, dall’altra, il miglioramento dell’econo
mia nazionale con un aumento del reddito pro capite dello 0,9% in più rispetto al
1992 (Cepal ‘93).
Collocandosi al secondo posto con il 20% dei voti il Partido social conservador
(Psc) torna ad essere la seconda forza politica del paese, posizione che aveva perso alle
presidenziali del ‘90 sorpassato dal Movimento di Salvezza nazionale (Msn di destra) e
dall’Alleanza democratica 19 aprile (Adm-19 di sinistra e sorto dagli accordi di pace).
Con il ripristino del bipartitismo la sinistra perde 8 dei 9 seggi al senato conquistati
nelle legislative del ‘91.
Verso le presidenziali
In simultanea con le legislative il PI sceglieva il candidato unico alle presidenziali
risultando ampiamente vincitore con il 48% delle preferenze Ernesto Samper Pizano
della stessa scuola politica di Gaviria. Samper avrà come massimo concorrente il giova
ne candidato del Psc Andrés Pastrana Arango già sindaco di Bogotà e ritenuto il
migliore dei sindaci avuti dalla capitale, figlio dell’ex-presidente conservatore Misael
Pastrana Borrero.
Fino al 20 aprile 1994 si erano iscritte 18 «formule», nome dato al gruppo costitui
to dal partito, candidato alla presidenza e candidato alla vice-presidenza. Il panorama
va dal partito ecologico al Fronte morale. Navarro Wolff si presenta con il movimento
Compromiso Colombia con il probabile appoggio della neonata Corriente de
Renovación Socialista (Crs) dagli accordi di pace del 3 aprile.
I pronostici favoriscono il candidato del PI, Samper Pizano che dopo la retrocessio
ne dell’Ad-M19 raccoglierà non pochi voti da diverse aree di sinistra. Se si dovesse
andare al ballottaggio si prevede che le alleanze dovrebbero favorirlo ulteriormente.
Per quanto riguarda i Partiti politici la Nuova Costituzione all’art. 108 prevede la
loro personalità giuridica e afferma che «in nessun caso la legge potrà stabilire esigenze
relative all’organizzazione interna né dei diritti né dei movimenti politici, tantomeno
obbligare alla loro adesione ai fini elettorali».
Per essere riconosciuto dal Consiglio nazionale elettorale ed ottenere dunque per
sonalità giuridica, ogni partito deve avere un minimo di 50.000 adesioni oppure aver
30
ottenuto alle precedenti elezioni legislative non meno di 50.000 voti e quindi esserne
rappresentato. Ogni partito dovrà comunque dotarsi di simbolo, colore e statuto. Un
progetto di legge del governo prevede la creazione di un Fondo nazionale di finanzia
mento dei partiti e delle campagne elettorali. Il Fondo sarebbe costituito da due fonti
principali: il governo nazionale contribuirebbe con 100 pesos (L. 200) ogni anno per
ogni persona iscritta al censimento elettorale, destinato al finanziamento dei partiti; per
finanziare le campagne presidenziali lo stato rimborserebbe 400 pesos (L. 800) per
ogni voto valido ottenuto dal partito e per le legislative il rimborso sarebbe di 350
pesos (L. 700) per ogni voto valido. Di questo progetto non fanno parte le amministra
tive. Viene limitato il contributo dei privati e si prevede il dovere di richiesta di auto
rizzazione per aprire linee di credito per partiti e movimenti politici.
La riforma elettorale ha provocato non poche confusioni tra gli elettori. Per le legi
slative sono state introdotte le liste uniche per il Senato e liste separate per le minoran
ze per eleggere i due senatori (totale 102) e due deputati (totale 163) a loro garantiti.
Nell’attuale contesto politico e pre-elettorale bisogna dare atto agli appelli emanati
da alcuni settori della Chiesa cattolica e dalla Conferenza episcopale a «non uccidere»
ed al protagonismo civile per la pace proclamato dalle otto diocesi delle zone più col
pite dalla violenza attorno al movimento «sconfiggiamo la guerra». In un paragrafo del
testo del messaggio della Conferenza Episcopale Colombiana (13 luglio 1993) si legge:
«Il governo nazionale, deve mantenere la più nobile tradizione giuridica del paese
rispettando i solenni patti internazionali il cui adem pim ento è assicurato dalla
Convenzione di Vienna sottoscritta dalla Colombia» (Sial 18-31 dicembre 1993).
La persecuzione di cui sono oggetto Mons. Nel Beltran già mediatore dei dialoghi
di pace e Mons. Sema testimoniano la crescita dell’impegno di settori della Chiesa
gerarchica nel processo di democratizzazione che stenta a decollare in Colombia.
D ’altra parte l’Organizzazione nazionale indigena colombiana (Onic) sta vivendo un
processo di potenziamento della capacità organizzativa nonostante i permanenti attac
chi subiti dalle comunità indigene.
Composizione del Senato dopo le legislative del 13 marzo 1994:
Partido liberal
Partido social conservador
Indipendenti
Movimenti Religiosi
Minoranze
57 senatori
23 senatori
18 senatori
2 senatori
2 senatori
Totale
102 senatori
31
P e r u n e rro re tip o g rafico q u esto foglio sostituisce in te g ralm e n te la pag. 32
Formule (partiti) iscritte per le presidenziali del 29 maggio 1994
(aggiornato al 20 aprile 1994)
Fi. Movimiento de Orientación Ecològica:
P. Guillermo Alemàn; V. José V. Molano
F2. Movimiento nacional progresista:
P. Luis E. Rodriguez Orejuela; V. Plinio Lopez Aponte
F3. Compromiso civico cristiano C-4:
P. José A. Cortes H.; V. Stella Torres Rubio
F4. Erent e moral:
P.José Galat; V. Manuel N. Rodriguez
F5. Partido Social Conservador:
P. Andrés Pastrana Arango; V. Luis F. Ramirez Acuna
F6. Alternativa democràtica nacional:
P. Enrique Parejo Gonzalez; V. Ruben Dario Utria G.
F7. Jega (Movimiento Jorge Elécier Gaitàn):
P. Gloria Gaitan; V. Victor Mieles
F8. Movimiento Cristiano Indipendiente:
P. Doris de Castro; V. William Cifuentes Garcia
F9. Crea - No alla guerra:
P. Efrain Torres Plazas; V. Luis Alberto Barbosa
FIO. Partido liberal colombiano:
P. Ernesto Samper Pizano; V. Flumberto de la Calle
Fll. Organización para la Paz nacional:
P. Jorge Guillermo Barbosa; V. Silvino Yate Felix
F12. Convergencia nacional:
P. Alberto Mendoza Orales; V. Antonio Puentes Rodriguez
F13. Somos Libres:
P. Oscar Rojas Masso; V. Luis Alberto Arias Pelaez
F14. Cgt Cristiano:
P. Mario Diezgranados Llinas; V. Juan Ramón Gonzalez
F15. Concertación civica nacional:
P. Miguel Alfredo Maza Marquez; V. José Ignacio Romero Reyes
F i6. Protestemos:
P. Miguel Antonio Zamora: V. José Ignacio Romero R.
F17. Compromiso Colombia:
P. Antonio Navarro Wolf; V. Jesus E. Panaque A.
F i8 Movimiento unitario metapolitico:
P. Regina Betancourt de Liska; V. Jesus E. Avila
(Fonte: Registraduria nacional del estado civil, 20 aprile 1994 Bogota)
Roma 12 maggio 1994
32
Pietro Vulpiani
Rivendicazione etnica
e neonazionalismi in Bolivia
Nello studio delle culture amerindiane e dei movimenti politici che ne rappresenta
no le istanze, è necessario adottare un approccio in grado di evidenziare la fitta rete di
legami diretti e indiretti che le mantiene in continuo contatto con il contesto nazionale
e internazionale. I legami con il mondo esterno condizionano infatti i movimenti indi
geni, le loro forme di protesta politica, il linguaggio utilizzato nelle rivendicazioni etni
che. Questa influenza delle dinamiche esterne di trasformazione risale già ai primi con
tatti culturali tra i gruppi etnici amerindiani e i conquistadores europei. Il regime di
dominazione del sistema coloniale e, successivamente, statale, nei confronti dei gruppi
etnici amerindiani, ha inesorabilmente modificato le originarie culture dominate. Una
analisi della tradizione e della continuità con il passato è perciò estremamente debole
se non accompagnata dalle differenze imposte e nate dalla conflittualità del confronto
culturale. Le forme di resistenza indigena e le rivendicazioni etniche diventano in que
sta prospettiva un ottimo campo d ’osservazione della conflittualità emergente dalla
relazione Stato-società native, in contesti caratterizzati da una politica indigenista for
temente discriminatoria.
In Messico, Guatemala, Ecuador, Perù, Bolivia, sono numerosi i movimenti sociali
caratterizzati da rivendicazioni di tipo etnico, e le organizzazioni etno-politiche, che
nelle loro linee programmatiche assumono come centrale la salvaguardia o il recupero
della propria identità culturale. Si tratta spesso di risposte differenzialiste esplicite ai
tentativi di eliminazione o di neutralizzazione delle diversità culturali perpetrati dalle
politiche governative dei vari paesi latinoamericani e dal più sottile ma efficace proces
so di omologazione dei modelli culturali che la cultura di massa ha sviluppato con la
modernizzazione del continente. Comunque, a volte è sufficiente una prima analisi
delle attività e delle istanze di questi movimenti indigeni, per comprendere quanto
stretto sia il legame tra le realtà culturali da loro rappresentate, ed il mondo esterno,
cioè la Nazione-Stato di cui essi fanno parte, e la più generale realtà internazionale che
li circonda. Per questo motivo ogni tentativo di comprensione delle specifiche strategie
di risposta politica dei gruppi indigeni, implica necessariamente un approccio in grado
di contestualizzare l’attuale realtà in cui si esprimono le organizzazioni native, la com
plessa e continua interazione tra gruppi indigeni, i movimenti politici che li rappresen
tano e le istituzioni con le quali interagiscono.
Per le sue caratteristiche storiche, politiche, economiche, sociali e culturali, la con
dizione indigena boliviana esprime ampiamente la complessità delle interrelazioni tra
33
la specificità etnico-culturale e la più generale politica indigena nazionale e internazio
nale. Queste interrelazioni, come vedremo, si esprimono però attraverso forme ambi
gue, mescolando linguaggio etnico e linguaggio politico, coscienza etnica e coscienza di
classe, miti e simboli del passato e «tradizioni inventate».
Un breve ma fondamentale riferimento al passato ed una analisi dei più recenti
orientamenti politici indigeni boliviani, chiariranno le mie premesse.
Rivolte indigene e lotte sindacali
La popolazione indigena boliviana rappresenta oltre il 60% della popolazione
totale del paese, accanto ad un 70% di popolazione meticcia, secondo l’ultimo censi
mento nazionale del 1992. All’incirca tre boliviani su quattro continuano a vivere
nella regione andina, che copre un terzo della superficie totale della nazione. Nelle
pianure del paese sono approssimativamente 37 i gruppi etnici dispersi, dei quali la
maggioranza sono numericamente esigui. I gruppi etnici andini, in maggioranza
Avmara e Quechua, sono gli eredi degli abitanti del Kollasuyu, l’antica regione meri
dionale dell’impero incaico o Tawantinsuyu. La fiera consapevolezza di tali origini, ha
storicamente spinto Avmara e Quechua ad una resistenza continua nei confronti dei
colonizzatori spagnoli.
Il problema etnico emerse immediatamente dopo la conquista, con le prime forme
di ordinamento coloniale. Nel 1570 il viceré Francisco de Toledo aggruppò la dispersa
popolazione nativa in reducciones o villaggi di indios, che avevano la funzione di pro
durre manodopera quasi-gratuita per lo sfruttamento delle miniere e delle tenute colo
niali. Le continue migrazioni forzate della popolazione indigena continuarono fino alla
seconda metà del diciottesimo secolo, generando un ribaltamento della distribuzione
territoriale originaria della popolazione, e una divisione interna tra «indios locali» e
«indios forestieri» [Bonilla, 1982:60-61]. Le guerre condotte dalle popolazioni creole
per la trasformazione delle antiche colonie spagnole in nazioni indipendenti, portarono
all’esclusione delle popolazioni native dal processo di costruzione nazionale.
Lo Stato nazionale aveva le sue radici nel moderno Stato europeo, ed era caratteriz
zato in particolare da: a) monopolio nell'uso legittimo della forza all’interno dei confini
territoriali; b) autonomia relativa dagli altri stati; c) graduale sviluppo della cittadinan
za come forma di appartenenza alla collettività. La egemone società creola aveva come
scopo quello di assimilare nella società nazionale la maggioranza della popolazione, di
origine indigena, da trasformare in cittadini indifferenziati soggetti alla sovranità del
nuovo Stato. Quindi, mentre lo Stato coloniale cercava direttamente di soggiogare le
popolazioni indigene con il lavoro, scopo dello Stato nazionale postcoloniale è stato
quello di trasformare gli indios in cittadini ottenendo la sovranità sulle loro terre senza
dover usare direttamente la forza [Urban e Sherzer, 1991:8-9].
Per questo è forse più comprensibile che le dure e violente insurrezioni spesso
spontanee dei secoli passati, siano state sostituite in questo secolo da un diverso tipo di
lotta. A partire dalla guerra del Chaco dal 1932 al 1935, la politica indigena si è indiriz
zata sempre più verso un legame con le organizzazioni operaie e partitiche boliviane.
Sono del 1936 i primi due sindacati campesinos, fondati e diretti dal popolo quechua.
Inoltre, il Movimiento Nacionalista Revolucionario (Mnr), partito populista fondato nel
1941, e responsabile della Rivoluzione del 1952 che portò alla riforma agraria, al voto
universale e alla mobilitazione contadina nei sindacati, aveva elaborato un progetto
politico di integrazione nella nazione delle popolazioni del mondo rurale, principal
mente di origine nativa. L'obiettivo era quello di trasformare l’indio in campesino, inte
grare gli Avmara e i Quechua nella nazione boliviana [Lebot, 1982:156].
34
L’unità tra movimento sindacale urbano e minerario e movimenti indigeni, ha
caratterizzato fino ad oggi la lotta dei popoli quechua e aymara. Le intrusioni dei parti
ti, secondo una visione classista, hanno però tentato a volte di subordinare l’indigenocampesino alla classe operaia. I partiti di sinistra consideravano l’indio un campesino
che doveva sottomettersi all’avanguardia operaia e ai minatori, mentre gli indios non si
identificavano con una sinistra attenta principalmente a tutelare le istanze della classe
operaia e del proletariato del mondo urbano [Barre, 1983:111-112]. Ma un dato fon
damentale da evidenziare consiste nel fatto che il movimento sindacale contadino ha
da sempre assunto un simbiotico adattamento con l’organizzazione sociale tradizionale
andina. In molte comunità i leader sindacali sono infatti identificabili con le autorità
stesse. Il popolo aymara adottò cioè il sindacalismo campesino, amalgamandolo con le
sue autorità tradizionali [Cardenas, op. cite. 517].
L’utilizzo del sindacalismo come strumento di rivendicazione e di promozione
sociale non è stato però immediato e privo di ostacoli. Dopo la Riforma Agraria del 2
agosto del 1953, che sancì l’espropriazione dei latifondi, la restituzione delle terre alle
comunità e l’abolizione dei servizi personali gratuiti, nel corso del Congreso Nacional
de Campesinos diretto da funzionari del governo, si procedette alla formazione di sin
dacati agrari e di una Confederación de Trabajadores Campesinos con due milioni di
affiliati. Ma questa organizzazione era imposta dall’alto e non poteva certamente sana
re i problemi che la Riforma aveva introdotto con la parcellizzazione delle terre confi
scate ai grandi proprietari1, né rappresentava un mezzo idoneo di rappresentazione e
di rivendicazione delle popolazioni indigene. Con l’introduzione del regime dittatoriale
di Banzer nel 1971, e con la sua politica di repressione e di controllo verticale imposto
al sindacalismo campesino, si sviluppa una attività di resistenza indigena clandestina,
che porterà al termine della dittatura alla costituzione di un partito campesino capeg
giato dall’Aymara Jenaro Flores: il Movimiento Revolucionario Tupac Tatari, con un
programma incentrato sulle rivendicazioni culturali ed etniche. Da allora si svilupperà
un progetto di lotta caratterizzato da una triplice dimensione, sindacale, politica e cul
turale [Lebot, op. cite. 158] che si esprimerà attraverso un organismo sindacale indige
no di opposizione alla confederazione ufficiale, la Confederación Nacional de
Trabajadores Campesinos Tupac Tatari, nata nel 1977. Tutti i delegati del paese membri
di questa Confederazione, nel corso di un incontro nel 1979, stabilirono l’unità dei
campesinos con i lavoratori delle miniere, operai, studenti e maestri del paese raggrup
pati nella Confederación Obrera Boliviana. Q uesta direzione unificata, diretta
dall’Aymara Jenaro Flores, prese il nome di Confederación Sindicai Unica de
Trabajadores Campesinos de Bolivia (Csutcb). Il sistema sindacale, che dal 1953 era
divenuto espressione del potere centrale, rientra in possesso dei movimenti sociali di
origine aymara, che, in polemica con i partiti della sinistra, affiancano alla lotta di clas
se l’affermazione etnica. Il sindacato diviene così uno strumento di espressione delle
istanze della realtà indigena andina, come emerge dalla tesi politica del secondo con
gresso nazionale della Csutcb del 1983, in cui si riconosce che: «Prima della nascita e
adozione del sindacalismo le nostre mobilitazioni si realizzavano, e ancora si realizzano
in alcune regioni, sotto le nostre organizzazioni tradizionali, come gli ayllus, cabildos,
ecc. Crediamo che queste organizzazioni tradizionali non siano antagonistiche con il
sindacato, ma che si complementino» [A.P.D.H.B., 1989:81].1
1 La Riforma agraria del 1953 ebbe un ruolo centrale nel crollo irreversibile dell’oligarchia
latifondista, ma le terre confiscate ai proprietari terrieri e restituite ai villaggi, vennero redistri
buite individualmente. La parcellizzazione dei terreni determinò come effetto imprevisto la
disgregazione delYayllu, il reticolo delle relazioni sociali tradizionali andine che lega più famiglie
in vincoli di reciprocità economica.
35
L ’Assemblea delle Nazionalità
Il Movimiento Revolucionano Tupac Katari de Liberación attraverso il suo leader J.
Flores, tenne la direzione della Confederazione dal 1979 al 1983, per poi condividerla
fino al 1987 con il Movimiento Camp esilio de Bases in una coalizione bipartitica. Ma la
politica di J. Flores, come l'orientamento katarista in generale2, rappresentava una
realtà esclusivamente andina ed esprimeva le aspirazioni del movimento aymara, esclu
dendo del tutto, con un atteggiamento radicalmente andino-centrico, le popolazioni
indigene boliviane dell’Amazzonia e delle pianure.
Soltanto nel 1987 si giunse a livello sindacale al superamento di una prospettiva
esclusivamente andina, quando alla direzione della Confederazione campesina suben
trò una pluralità di forze, sempre composta da organizzazioni andine, che convocò
nella città di Potosì, per il luglio 1988, il I Congresso straordinario della Confederación
Sindicai Unica Trabajadores Campesinos de Bolivia. Nel corso del congresso, fu votato
un documento in cui la Confederazione si impegnava a promuovere una Assemblea
delle Nazionalità, quale organismo istituzionale fondato sul principio del carattere plu
rinazionale e pluriculturale della Bolivia, in cui avessero riconoscimento giuridico e
partecipazione attiva tutti i gruppi etnici del paese, compresi meticci e creoli. Ogni
campesino o membro della comunità doveva quindi considerarsi membro di una nazio
nalità. Nel documento si affermava: «Quando parliamo di comunità, vogliamo dire
comunità Aymara, Quechua, Guarani e altre e dobbiamo lottare per il recupero di
queste nostre nazionalità» [Calla Ortega, 1989:16], ed ancora: «non siamo proletari, ne
classe, ne popolo. Non siamo etnie ma nazioni. Siamo la nazione del KollasuyoTawantinsuyo» [Calla Ortega, 1989:32].
Vengono così poste le premesse per un riconoscimento della pluralità etnica boliviana, anche se ancora all’interno di una centralità della prospettiva etnico-culturale
andina, come emerge dall’assimilazione delle decine di popoli presenti nel territorio
boliviano nell’unica categoria di «Guarani».
All’incontro di Potosì hanno fatto seguito una serie di eventi di notevole importanza
nella costituzione di un percorso interetnico comune, condotti dalla Confederazione cam
pesina insieme con il Consejo Indigena del Oriente Boliviano, (Cidob) organizzazione che
dal 1982 raggruppa i gruppi etnici dell’Oriente, del Chaco e dell’Amazzonia boliviana.
Dal 1989 al 1990 si sono svolti tre seminari nazionali, finalizzati alla costituzione
dell’Assemblea delle Nazionalità [Vulpiani, 1993]. Nello stesso periodo si sono aggiunti
altri eventi di grande importanza, ed in particolare, un incontro tra movimenti indigeni nel
giugno 1990 e la «Marcia per la dignità e il territorio» realizzata dall’agosto al settembre
1990 dai popoli nativi dell’oriente del paese dall’Amazzonia alla capitale boliviana.
Numerosi incontri continuano a caratterizzare questo periodo così ricco e creativo, che ha
ormai una rilevanza storica indiscutibile per il futuro delle relazioni interetniche in Bolivia.
Linguaggio etnico e linguaggio politico
Ciò che va evidenziato è l’inedita convergenza tra i gruppi etnici boliviani intorno
alla creazione dell’Assemblea delle Nazionalità, un organo collegiale di carattere rappresentativo-politico che comprenda tutte le realtà indigene del paese. Tutti i gruppi
2
II movimento katarista deve il suo nome a Julian Apasa, leader aymara del diciottesimo
secolo, meglio conosciuto come Tupac Katari. Nel 1782 Apasa mantenne sotto assedio il potere
coloniale spagnolo della città di La Paz. Ancora oggi la sua figura rappresenta un simbolo di
lotta tra i movimenti etnici di liberazione delle Ande boliviane.
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etnici boliviani acquisirebbero, in qualità di «Nazioni originarie», il diritto di parteci
pare a tale Assemblea, dotata di una rappresentatività che verrebbe sottratta a partiti e
sindacati. L’unità tra popoli e nazioni originarie si articolerebbe nell’indipendenza più
totale dalle istituzioni ufficiali, per raggiungere l’autodeterminazione politica in un
nuovo stato multinazionale, fondato sul diritto alla diversità culturale.
Da questo progetto politico, portato avanti da movimenti con forti basi sociali, si
possono desumere vari aspetti inediti della fisionomia delle rivendicazioni indigene. La
rivendicazione come strumento politico acquista una rappresentatività interetnica nel
momento in cui subordina il linguaggio etnico-culturale al linguaggio politico-sociale.
La realizzazione di un’Assemblea composta da rappresentanti di tutti i gruppi etnici
boliviani è possibile soltanto attraverso la parziale neutralizzazione delle spinte differenzialiste e separatiste insite soprattutto nelle istanze di alcuni movimenti andini del
passato e, recentemente, di gruppi minoritari.
Infatti, il linguaggio di lotta usato dai movimenti aymara e dai partiti politici india
nisti che hanno rappresentato le popolazioni indigene delle Ande boliviane fino alla
metà degli anni ‘80, ha fatto largo uso di riferimenti ad un passato pre-ispanico enfatiz
zato a dismisura, e accompagnato da una simbologia tradizionale condivisa soltanto
dalle popolazioni di origine aymara. Miti e simboli erano il supporto per la liberazione
india, che esprimeva tra i suoi intenti il ribaltamento dell’ordine sociale ed il ristabili
mento dell’antico Kollasuyu incaico, con la benedizione di lnti e della Pachamama, le
maggiori entità del pantheon aymara. E ’ quanto emergeva, ad esempio, dal manifesto
del Partito Indio Boliviano di Fausto Reinaga [1970:105-6]. All’interno del movimento
katarista, questo orientamento è riscontrabile nel Movimiento Indio Tupaj Katari,
(Mitka) che rifiutando ogni rapporto con il mondo degli «oppressori bianchi», lotta
per il ritorno del Tawantinsuyu incaico, visto come un paradiso perduto da riconqui
stare [Rocha, 1992:260]. C’è poi il caso del movimento katarista rivoluzionario di
Ofensiva Roja de Ayllus Tupakataristas, che coniugando pensiero marxista e ideologia
indianista, ha come obiettivo l’annientamento del capitalismo occidentale e della bor
ghesia boliviana attraverso una rivoluzione socialista cruenta che parta dalle comunità
andine, e che conduca ad una nuova società basata sull’antica gestione comunitaria
della proprietà e della produzione attraverso Yayllu andino. Proseguendo la lotta del
settecentesco eroe aymara Tupac Katari, la minoranza di Ofensiva Roja prevede al ter
mine della rivoluzione la nascita di «stati e nazioni indipendenti di lavoratori Aymara e
Quechua, come nei secoli passati, ma ora, in guerra a morte e separati dallo stato bor
ghese boliviano» [Calla, Ortega, Pinelo, 1989:300]. Il riferimento a Tupac Katari, a sua
moglie Bartolina Sisa, e a tutti gli eroi indigeni che si opposero al governo coloniale, è
presente anche nei documenti del Movimiento Revolucionario Tupaj Katari (Mrktl),
sotto la direzione di Jenaro Flores. Nel corso del citato 1° Congresso straordinario
della Csutcb del 1988, nel documento del Mrktl di Flores si affermava: «La nazione
andina (Aymara, Quichua, Warani, Chiquitano...) è alla base della ricca molteplicità
culturale dell’America latina nell’universo culturale andino; è lì che il vero rispetto
della differenza culturale, religiosa e politica giunge alla sua massima espressione e
espansione» [Calla, 1989:35]. In questa affermazione si nota un primo riconoscimento
di due gruppi etnici dell’Oriente e della regione amazzonica del paese, i Chiquitano,
appartenenti alla famiglia linguistica Tupi-Guarani, e gli Ava Guarani. Si tenta però di
inglobare gli amazzonici Chiquitano e gli Ava G uarani delle pianure del Chaco
all’interno di una non ben definita nazione andina. Inoltre, il documento prosegue
mostrando il modello di società che tutti i popoli indigeni dovrebbero contribuire a
creare: una società basata sulla «ricostituzione economica dellAyllu, il consolidamento
e la difesa dell’organizzazione politica e culturale del potere locale(...) fino alla costitu
zione della grande Confederazione degli Ayllu delle Comunità; dove i jilakata e i
37
Mallku [Autorità tradizionali della comunità avmara] siano le autorità legittime del
nuovo modello sociale» [Calla, 1989:35]. Secondo la visione del Mrktl, in un certo
senso «etnocentrica», si propone quindi una sottomissione di tutti i gruppi etnici
all’autorità tradizionale avmara e il ruolo andino dell'ayllu come un modello di orga
nizzazione sociale da imporre anche alle popolazioni delle pianure3.
Il linguaggio adottato da questi movimenti avmara, condivisibile soltanto all’interno
di un orizzonte culturale andino, e arricchito da una terminologia di carattere politico
sindacale, impedisce il dialogo con gli altri gruppi etnici boliviani. Al contrario, come si
è già accennato, la nuova direzione della Confederazione sindacale campesina nel corso
dello stesso 1° Congresso straordinario, con la proposta di un ’Assemblea delle
Nazionalità boliviane, ha portato ad una stretta collaborazione con confederazioni indi
gene dell’Oriente, mostrando perfetta consapevolezza della multietnicità del paese e
raggiungendo, non senza opposizioni, il superamento dell’andinocentrismo del passato.
Il linguaggio utilizzato, sempre influenzato dalla tradizione di lotta sindacale, è stato
però depurato dagli espliciti riferimenti alla cultura avmara, per orientarsi verso obietti
vi strategici che appartengono alla sfera dei diritti sociali, come il recupero delle terre
originarie dei popoli indigeni, la rivalutazione delle forme di organizzazione economica
e sociale locali, l’ampliamento dei programmi di educazione bilingue, il rafforzamento
dei sistemi sanitari pubblici. Si tratta di obiettivi di lotta in cui tutti i gruppi indigeni
possono riconoscersi, in perfetta sintonia con le rivendicazioni dei movimenti e delle
confederazioni indigene dell’Oriente e dell’Amazzonia, rappresentative di circa 160.000
persone appartenenti a 29 gruppi etnici diversi, alcuni dei quali in pericolo d’estinzione,
e prive di diritti di proprietà sui 931.000 chilometri quadrati di territorio in cui vivono.
Tra questi, la Confederazione Indigena dell’Oriente Boliviano (Cidob), che dal 1982
rappresenta gruppi indigeni come i Guarani del sud, gli Ayoreo, i Guarayo e i Chiquitano,
da anni rivendica il diritto alla proprietà comunitaria delle terre ancestrali, una richiesta
espressa anche attraverso organizzazioni indigene internazionali come la Coica
('Coordinadora de Organizaciones Indigenas de la Cuenca Amazónica), e attraverso
l’Organizzazione Intemazionale del Lavoro e le Nazioni Unite. Medesime rivendicazioni
sono state portate avanti dalla Subcentrai de Pueblos Indigenas Mojenos del Parque IsidoroSécure, che rappresenta comunità di Yurucare, Mojo, Trinitario e Chiman; dalla Central
Indigena de la Region Amazónica de Bolivia, che raccoglie i più esigui gruppi etnici della
selva, come gli Araona, i Cavineno, i Chacobo, gli Es Eejja, i Pacaguara, i Tacana e gli
Yaninagua; dall'Asamblea del Pueblo Guarani, che rappresenta tutti i Guarani che abitano
sul territorio nazionale e che sono distribuiti in tre diversi dipartimenti. L’unione di queste
confederazioni interetniche ha permesso di amplificare le richieste estremamente concrete
di gruppi a volte troppo esigui per far giungere la propria voce4. La Confederazione
Indigena dell’Oriente Boliviano ha avuto un ruolo determinante nel processo di riconosci-
3 Bisogna considerare che l’ayllu, l’unità sociale che raggruppa in un vasto territorio famiglie
spesso imparentate tra loro in relazioni di reciprocità economica, è funzionale alla compresenza
nella regione andina di piani ecologici diversificati. Il reticolo di gruppi familiari àAPayllu,
garantiva a tutti l’accesso alle risorse naturali delle varie nicchie ecologiche andine, dall’allevamento di lama, vigogna e alpaca dell’altipiano, all’allevamento di ovini e la coltivazione di patate,
cereali e leguminose nelle valli, alla produzione di coca, caffè, canna da zucchero e frutta
dell’area subtropicale. Per la specificità ambientale in cui è sorto, il sistema di reciprocità econo
mica basato suW'ayllu non è esportabile al di fuori della regione andina.
4 Le rivendicazioni di queste confederazioni hanno recentemente varcato i confini nazionali
per porsi all’attenzione del mondo occidentale. Infatti, la necessità di salvaguardare il patrimonio
ambientale amazzonico dai pericoli della forestazione e dello sfruttamento minerario e petrolife
ro, ha condotto il governo boliviano e le Organizzazioni Internazionali per lo Sviluppo ad una
38
mento da parte andina delle «nazionalità» dei bassipiani. Questa confederazione insieme
alla Csutcb ha costituito a Corqueamaya nel febbraio 1991 la Commissione di
Coordinamento e Organizzazione dell’Assemblea delle Nazionalità, alTintemo della quale
è stata stabilita l’unità delle nazioni originarie, rappresentate non solo dalle popolazioni
andine, ma anche da quelle amazzoniche, orientali e del Chaco. Questa nuova unità, da
allargare ai poveri del paese, siano essi creoli, meticci, operai, disoccupati del mondo
urbano o intellettuali progressisti, ha lo scopo esplicito di condurre alla «autodetermina
zione politica dei nostri popoli; al raggiungimento di una nuova identità e unità nazionale
in base al riconoscimento della diversità» [Corqueamaya II, 1991:87].
Al di là dei risultati politici effettivi di questa collaborazione, su un piano di analisi
culturale sembra emergere un’inedita identità di carattere sovraetnico, frutto del rico
noscimento della comune condizione di popolazioni native, e della consapevolezza
della necessità di un unitario fronte di risposta interetnico in grado di salvaguardare
l’inevitabile processo di integrazione con la società più vasta.
Alla nascita di questi nuovi rapporti interculturali non sembrano contribuire moda
lità di comunicazione caratterizzate da un linguaggio denso di riferimenti al proprio
mondo culturale, mentre l’utilizzo di categorie linguistiche proprie della tradizione
politica occidentale (come ad esempio l’uso del concetto di nazionalità), insieme a
forme e contenuti di rivendicazione non connotabili culturalmente (in quanto inaliena
bili diritti delle minoranze etniche in una società democratica), ampliano l’impatto
delle rivendicazioni e permettono che queste siano comprensibili e condivisibili anche
da organizzazioni politiche e istituzionali esterne d’appoggio: le associazioni di operai,
minatori, artigiani; le forze politiche indipendenti di sinistra; la chiesa progressista; le
Organizzazioni Non Governative nazionali e straniere che collaborano con i movimen
ti stessi. Si disinnesca così il pericolo di un’esplosione violenta della protesta etnica,
mentre la rivendicazione si traduce in spinta vitale e innovativa per la società globale.
E ’opportuno comunque sottolineare che il proficuo utilizzo di un linguaggio
«moderno» può essere alla base di un indebolimento delle singole identità culturali;
questo tuttavia non impedisce alle nuove forme rivendicative di coniugare le varie spe
cificità culturali con gli universalistici modelli di espressione politica occidentali. In
quest’ottica, il progetto di una Assemblea delle Nazionalità, che rappresenta una
modalità di rivendicazione estremamente complessa, diretta espressione delle recipro
che influenze tra sistema culturale e sistema sociale, va considerato come una strategia
che aspira a superare la basilare distinzione tra assimilazione, intesa come cancellazio
ne dei contrasti, e differenziazione, intesa come evidenziazione dei contrasti, per pro
porsi come una risposta creativa di sintesi socio-culturale.
serie di attività di enorme importanza per il futuro delle popolazioni indigene dei bassipiani boli
viani. L ’United Nations Development Program (Undp), insieme con il governo boliviano, ha
avviato un progetto per la promozione dello sviluppo sostenibile e la preservazione culturale e
fisica delle popolazioni indigene delle regioni dell’Oriente, del Chaco e dell’Amazzonia boliviana. Il programma, che ha tra i donatori gli Usa, la Cee, la Svezia, l’Ifad ed il W orld Foond
Program, rappresenta uno strumento finanziario per lo sviluppo delle popolazioni indigene. In
questo clima di inedito interesse del governo nazionale nei confronti delle rivendicazioni indige
ne, il presidente Jaime Paz Zamora nel 1993 promulga un decreto presidenziale con il quale ha
riconosciuto i diritti originari delle popolazioni indigene sui territori da loro occupati ed ha resti
tuito tre milioni di ettari di terre a vari gruppi etnici della regione amazzonica, dell’Oriente e del
Chaco. Le rivendicazioni indigene a cui le popolazioni autoctone non hanno mai avuto risposta,
sono state così recuperate dallo Stato nazionale nel momento in cui queste divenivano funzionali
alle aspettative ed alle mutate richieste del mondo industrializzato. Per un quadro aggiornato
della politica indigenista boliviana dal 1989 al 1993, vedi l’intervista a Wigberto Rivero Pinto,
curata da Giulia Della Marina, in «Latinoamerica» 53 (1994): 95-108.
39
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ERRATA CORRIGE
Nel sommario e a pag. 29 del n. 53, nel titolo dell’articolo di Aldo
Garzia si legga identità e non indennità. La versione corretta rima
ne pertanto
L’immaginario letterario, un’identità di frontiera
La redazione si scusa inamente con l’autore e con i lettori.
40
L’altro marxismo
di José Carlos Mariàtegui
Nel corso del 1994 verrà ricordata in tutto il mondo la figura del pensatore e diri
gente politico peruviano José Carlos Mariàtegui (1894-1930). Il suo richiamo esplicito
al marxismo sembrerebbe relegarlo nell’inattualità, soprattutto se si considera la sua
morte precoce. Ma per chi non misura i valori culturali sui listini di borsa delle mode,
il discorso è completamente diverso. Proprio perché Mariàtegui ha vissuto creativa
mente il suo rapporto con il marxismo, il suo esempio si ripropone oggi come un epi
sodio che illumina una possibile storia diversa del marxismo stesso. Nessun saggista
latinoamericano ha raggiunto con le sue opere una diffusione che si avvicini a quella
dei testi di Mariàtegui.
I suoi 7 saggi di interpretazione della realtà peruviana da tempo hanno superato
nella tiratura complessiva i due milioni di copie, e sono stati tradotti nelle principali
lingue europee, oltre che in cinese e in giapponese. L’interesse intorno alla sua figura,
anziché diminuire, cresce di anno in anno e soprattutto diventa più qualificato. È
ormai alle spalle - anche se rimangono alcuni residui marginali - l’evocazione pura
mente retorica del suo nome, piegato alle esigenze politiche più varie e contingenti.
Con il contributo decisivo di diversi studiosi, tra i quali vanno ricordati almeno il peru
viano Alberto Flores Gaiindo e l’argentino José Aricó, si è aperta una nuova stagione
di studi, che ha permesso di recuperare in tutta la sua ricchezza l’immagine del grande
intellettuale peruviano.
Nell’unirsi all’omaggio internazionale «Latinoamerica» ha voluto farlo nel modo
che ritiene più adatto al contesto italiano. Nel nostro paese non sono mancati nel pas
sato contributi di rilievo alla conoscenze di Mariàtegui, dalle segnalazioni pionieristi
che di Gianni Toti, agli ampi lavori di Ignazio Delogu, Malcom Sylvers, Renato Sandri,
Giovanni Casetta. Essi, tuttavia, non hanno mai superato una cerchia relativamente
ristretta di lettori. A ciò si aggiunge il fatto che le edizioni dei suoi libri tradotti in ita
liano sono pressoché scomparse dalle librerie da diversi anni. Per questa ragione abbia
mo scelto di offrire, per la prima volta in italiano, un’ampia scelta di scritti mariàteguiani che permettesse, pur nella sua parzialità, di formarsi un’idea della ricchezza di
motivi che percorrono la sua opera. Delle brevi note intercalate tra i diversi testi, li
inquadrano nell’itinerario dell’autore. Alla fine, una cronologia e una bibliografia
essenziale forniscono delle indicazioni di base per chi voglia approfondire il tema.
Antonio Melis
Le traduzioni sono state realizzate dal Laboratorio di Babele, un collettivo formato
da studenti e laureati nell’ambito del Corso di Perfezionamento in Traduzione lettera
ria presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Siena. Il Laboratorio ha
curato in passato, tra l’altro, il volume del poeta salvadoregno Roque Dalton, La parola
41
ferita, Roma, Datanews, 1991 e un numero della rivista “Bollettario”, Modena, a. Ili,
n. 8-9, maggio-settembre 1992, dedicato alla letteratura del Nicaragua. Alla traduzione
dei testi di Mariàtegui hanno collaborato Riccardo Badini, Antonella Cancellier, Hide
Carmignani, Elisabetta Fineschi, Natalia Giannoni, Lucia Lorenzini, Antonio Melis,
Lia Ogno, Elina Patanè, Maria Antonietta Peccianti, Silvia Poggianti, Stella Soldani,
Alessandra Turchi.
Dopo il ritorno dal soggiorno europeo, nel marzo 1923, Mariàtegui riprende contatto con
il pubblico peruviano attraverso il ciclo di conferenze sulla «Storia della crisi mondiale»,
tenute presso l'Università Popolare «Manuel Gonzàles Prada». La quindicesima conver
sazione, del 2 novembre 1923, tocca il tema dell’internazionalizzazione crescente della
vita contemporanea, già enunciato nella presentazione dell’iniziativa. Il testo è raccolto
nel voi. 8 delle Obras completas, Historia de la crisis mundial.
Nazionalismo e internazionalismo
In varie delle mie conferenze ho spiegato come ha acquistato solidarietà, come si
è uniformata e come si è internazionalizzata, la vita del genere umano. Più esatta
mente la vita del genere umano occidentale. Tra tutte le nazioni assimilate alla civiltà
europea, alla civiltà occidentale, si sono stabiliti vincoli e legami nuovi nella storia
dell’umanità. L’internazionalismo non è solamente un ideale; è una realtà storica.
L’internazionalismo esiste come ideale perché è la nuova realtà, la realtà nascente.
Non è un ideale arbitrario, non è un ideale assurdo di qualche sognatore e di qualche
utopista. È quell’ideale che Hegel e Marx definiscono come la nuova e superiore
realtà storica che, rinchiusa nelle viscere della realtà attuale, lotta per affermarsi e
che fino a quando non è attuata o mentre è in via di attuazione, appare come
un’ideale di fronte alla vecchia e decadente realtà. Un grande ideale umano, una
grande aspirazione umana non nasce dal cervello né emerge dall’immaginazione di
un uomo più o meno geniale. Nasce dalla vita. Emerge dalla realtà storica. E la pre
sente realtà storica. L’umanità non insegue mai chimere insensate né irragiungibili;
l’umanità corre dietro a quegli ideali la cui realizzazione avverte vicina, avverte matu
ra e possibile. Con l’umanità avviene lo stesso che avviene con l’individuo. L ’indivi
duo non aspira mai a una cosa assolutamente impossibile. Aspira sempre a una cosa
relativamente possibile, una cosa relativamente raggiungibile. Un umile uomo di
paese, a meno che non si tratti di un pazzo, non sogna mai l’amore di una principes
sa né di una plurimilionaria lontana e sconosciuta, sogna invece l'am ore di una
ragazza di paese a cui lui possa parlare e che possa convincere. Al bambino che inse-.
gue una farfalla può capitare di non afferrarla, di non riuscire mai a prenderla; ma
perché corra dietro ad essa è indispensabile che la creda o che la senta relativamente
alla sua portata. Se la farfalla se ne va lontano, se il suo volo è molto veloce, il bambi
no rinuncia alla sua impossibile conquista. Lo stesso è l’atteggiamento dell’umanità
di fronte all’ideale. Un ideale capriccioso, un’utopia impossibile, per belli che siano,
non commuovono mai le masse. Le masse si emozionano e si appassionano davanti a
quella teoria che costituisce una meta vicina, una meta probabile; davanti a quella
dottrina che si basa sulla possibilità; davanti a quella dottrina che non è altro che la
rivelazione di una nuova realtà in movimento, di una nuova realtà in cammino.
Vediamo per esempio come sono apparse le idee socialiste e perché hanno appassio42
nato le masse. Kautsky, quando ancora era un socialista rivoluzionario, insegnava,
d’accordo con la storia, che la volontà di realizzare il socialismo nacque dalla crea
zione della grande industria. Dove prevale la piccola industria l’ideale di chi non
possiede nulla non è la socializzazione della proprietà ma l’ottenimento di un poco
di proprietà individuale. La piccola industria genera sempre la volontà di conservare
la proprietà privata dei mezzi di produzione e non la volontà di socializzare la pro
prietà e di istituire il socialismo. Questa volontà sorge lì dove la grande industria è
sviluppata, dove non vi siano ormai dubbi sulla sua superiorità rispetto alla piccola
industria, dove il ritorno alla piccola industria sarebbe un passo indietro, significhe
rebbe una regressione economica e sociale. La crescita della grande industria, il sor
gere delle grandi fabbriche uccide la piccola industria, rovina il piccolo artigiano; ma
allo stesso tempo crea la possibilità materiale della realizzazione del socialismo e
crea, soprattutto, la volontà di portare a termine questa realizzazione. La fabbrica
riunisce una grande massa di operai; cinquecento, mille, duemila operai; e genera in
questa massa non il desiderio del lavoro individuale e solitario, ma il desiderio dello
sfruttamento collettivo e associato di questo strumento di ricchezza. Pensate a come
comprende e come sente l’operaio della fabbrica l’ideale sindacale e l’idea collettivi
sta; e pensate, invece, come la stessa idea è difficilmente comprensibile per il lavora
tore isolato della piccola officina, per l’operaio isolato che lavora per conto proprio.
La coscienza di classe germoglia facilmente nelle grandi masse delle fabbriche e delle
vaste contrattazioni; germoglia difficilmente nelle masse disperse dell’artigianato e
della piccola industria. Il latifondo industriale e il latifondo agricolo conducono
l'operaio prima alla organizzazione per la difesa dei suoi interessi di classe e, dopo,
alla volontà di espropriare il latifondo e di sfruttarlo collettivamente. Il socialismo, il
sindacalismo, non sono scaturiti così da nessun libro geniale. Sono sorti dalla nuova
realtà sociale, dalla nuova realtà economica. E lo stesso accade con l’internazionalismo.
Da molti lustri, da quasi un secolo approssimativamente, si osserva nella civiltà
europea la tendenza a preparare un’organizzazione internazionale delle nazioni d’occi
dente. Questa tendenza non ha solo manifestazioni proletarie; ma anche manifestazioni
borghesi. Bene, nessuna di queste manifestazioni è stata arbitraria né si è prodotta a
caso; è stato sempre, al contrario, il riconoscimento istintivo di un nuovo stato di cose,
latente. Il regime borghese, il regime individualista liberò da ogni impaccio gli interessi
economici. Il capitalismo, all’interno del regime borghese, non produce per il mercato
nazionale; produce per il mercato internazionale. La sua necessità di aumentare ogni
giorno di più la produzione lo lancia alla conquista di nuovi mercati. Il suo prodotto, la
sua merce non conoscono frontiere; lotta per sorpassare e per assoggettare i confini
politici. La concorrenza tra gli industriali è internazionale. Gli industriali, oltre ai mer
cati, si contendono internazionalmente le materie prime. L ’industria di un paese si
rifornisce del carbone, del petrolio, dei minerali di diversi e lontani paesi. In conse
guenza di questo tessuto internazionale di interessi economici, le grandi banche
dell'Europa e degli Stati Uniti risultano delle entità profondamente internazionali e
cosmopolite. Queste banche investono capitali in Australia, in India, in Cina, nel
Transvaall. La circolazione di capitali, attraverso le banche, è una circolazione interna
zionale. Il finanziere inglese che deposita il suo denaro in una banca di Londra ignora
forse dove sarà investito il suo capitale, da dove proviene il suo reddito, il suo dividen
do. Ignora se la banca destina il suo capitale, per esempio, all’acquisto di azioni della
Peruvian Corporation; in questo caso, il finanziere inglese risulta, senza saperlo, com
proprietario delle ferrovie peruviane. Lo sciopero dei Ferrocarril Central può colpirlo,
può diminuire il suo dividendo. Il finanziere inglese lo ignora. Allo stesso modo, l’ope
raio delle ferrovie, il macchinista peruviano ignorano l’esistenza di questo finanziere
43
inglese, nel cui portafoglio andrà a finire una parte del loro lavoro. Questo esempio,
questo caso, ci servono per spiegarci i legami economici, la solidarietà economica della
vita internazionale della nostra epoca. E ci servono per spiegarci l’origine dell’interna
zionalismo borghese e l’origine dell’internazionalismo operaio che è un’origine comu
ne e opposta allo stesso tempo. Il proprietario di una fabbrica di tessuti dell’Inghilterra
ha interesse a dare ai suoi operai un salario minore di quello pagato dal proprietario di
una fabbrica di tessuti degli Stati Uniti, affinché la sua merce possa essere venduta più
a buon prezzo e in modo vantaggioso e abbondante. E questo fa sì che l’operaio tessile
nordamericano abbia interesse al fatto che non venga abbassato il salario dell’operaio
tessile inglese. Una diminuzione dei salari nell’industria tessile inglese è una minaccia
per l'operaio di Vitarte, per l’operaio di Santa Catalina. In virtù di questi fatti, i lavora
tori hanno proclamato la loro solidarietà e la loro fratellanza al di sopra delle frontiere
e delle nazionalità. I lavoratori hanno visto che quando conducevano una battaglia non
era solo contro la classe capitalista del proprio paese, ma anche contro la classe capita
lista del mondo. Quando gli operai dell’Europa hanno lottato per la conquista della
giornata lavorativa di otto ore, hanno lottato non solo per il proletariato europeo ma
anche per il proletariato mondiale. A voi, lavoratori del Perù, è stato facile conquistare
la legge delle otto ore perché la legge delle otto ore era già in via di attuazione in
Europa. Il capitalismo peruviano ha ceduto alle vostre richieste perché sapeva che
anche il capitalismo europeo stava cedendo. E, allo stesso modo, naturalmente, non
sono indifferenti alla vostra sorte le battaglie che conducono attualmente i lavoratori
dell’Europa. Ognuno degli operai che cade in questi momenti sulle strade di Berlino o
sulle barricate di Amburgo non cade solo per la causa del proletariato tedesco. Cade
anche per la vostra causa, compagni del Perù.
E per questo, è per questa constatazione di un fatto storico che da più di mezzo
secolo, da quando Marx ed Engels fondarono la Prima Internazionale, le classi lavora
trici del mondo tendono a creare associazioni di solidarietà internazionale che unisca
no la loro azione e uniformino il loro ideale.
Ma a questo stesso effetto della vita economica moderna non è insensibile, nel
campo opposto, la politica capitalista. Il liberalismo borghese, il liberalismo economico
che ha consentito agli interessi capitalistici di espandersi, di stabilire contatti e di asso
ciarsi, al di sopra delle Nazioni e delle frontiere, ha dovuto per forza includere nel suo
programma il libero scambio. Il libero scambio, la teoria del libero scambio corrisponde
a una necessità profonda e concreta di un periodo della produzione capitalistica. Che
cos’è il libero scambio? Il libero scambio, la libera circolazione, è il libero commercio
delle merci attraverso tutte le frontiere di tutti i paesi. Tra le nazioni non esistono solo
frontiere politiche, frontiere geografiche. Esistono anche frontiere economiche. Queste
frontiere economiche sono le dogane. Le dogane che, all’entrata nel paese, gravano sulla
merce con un’imposta. Il libero scambio pretende di abbattere queste frontiere econo
miche, di abbattere le dogane, di esentare da tasse il libero passaggio delle merci in tutti
i paesi. In questo periodo di apogeo della teoria del libero scambio la borghesia è stata,
in conclusione, eminentemente internazionalista. Qual’era la causa del suo libero scam
bio e la causa del suo internazionalismo? Era la necessità economica, la necessità com
merciale dell’industria di espandersi liberamente nel mondo. Il capitalismo di alcuni
paesi molto sviluppati economicamente trovava un impedimento alla sua espansione
nelle frontiere economiche e pretendeva di abbatterle. Questo capitalismo basato sul
libero scambio che naturalmente non comprende tutto il campo capitalista ma solo una
parte di questo, fu anche pacifista. Sosteneva la pace e il disarmo, perché vedeva nella
guerra un elemento di disordine e di turbamento della produzione. Il liberoscambismo
era un’offensiva del capitalismo^ britannico, il più sviluppato del mondo, il più preparato
a concorrere con i capitalismi rivali. In realtà, il capitalismo non poteva fare a meno di
44
essere internazionalista perché il capitalismo è per natura e per necessità imperialista. Il
capitalismo crea un nuovo tipo di conflitti storici e di conflitti bellici. Conflitti non tra le
nazioni, non tra le razze, non tra le nazionalità antagoniste, ma conflitti tra blocchi, tra i
conglomerati di interessi economici e industriali. Questo confitto tra due capitalismi
rivali, quello britannico e quello tedesco, ha condotto il mondo all’ultima grande guerra.
E da questa, come già ho avuto occasione di spiegarvi, la società borghese è uscita
profondamente minata e indebolita, proprio a causa del contrasto tra le passioni nazio
naliste dei popoli, che li separano e li rendono nemici, e la necessità della collaborazio
ne, della solidarietà e della amnistia reciproca tra di essi, come unico mezzo per una
comune ricostruzione. La crisi capitalista, in uno dei suoi aspetti principali, risiede pro
prio in questo: nella contraddizione della politica della società capitalista con l’econo
mia della società capitalista. Nella società attuale la politica e l’economia hanno smesso
di coincidere, hanno smesso di andare d’accordo. La politica della società attuale è
nazionalista; la sua economia è internazionalista. Lo Stato borghese è costruito su una
base nazionale; l’economia borghese ha bisogno di poggiare su di una base internazio
nale. Lo Stato borghese ha educato l’uomo al culto della nazionalità, lo ha contagiato di
avversioni e di differenza e anche di odio verso le altre nazionalità; l’economia borghese
ha bisogno, invece, di accordi e di intesa tra nazionalità diverse e anche nemiche. L’inse
gnamento tradizionalmente nazionalista dello Stato Borghese, eccitato e stimolato nel
periodo della guerra, ha creato, soprattutto nella classe media, uno stato d ’animo inten
samente nazionalista. E adesso è questo stato d’animo ciò che impedisce che le nazioni
europee si mettano d’accordo e si coordinino intorno a un programma comune di rico
struzione dell’economia capitalista. Questa contraddizione tra la struttura politica del
regime capitalista e la sua struttura economica è il sintomo più profondo, più eloquen
te della decadenza e della dissoluzione di questo ordine sociale. E anche la rivelazione,
o meglio la conferma del fatto che la vecchia organizzazione politica della società non
può sussistere perché all’interno dei suoi modelli, all’intemo delle sue forme rigida
mente nazionaliste non possono prosperare, non possono svilupparsi le nuove tenden
ze economiche e produttive del mondo, la cui caratteristica è l’internazionalismo.
Questo ordine sociale è in declino e decade perché ormai dentro ad esso non trova
spazio l’espansione delle forze economiche e produttive del mondo. Queste forze eco
nomiche e produttive aspirano a un’organizzazione internazionale che consenta il loro
sviluppo, la loro circolazione e la loro crescita. Questa organizzazione internazionale
non può essere capitalista perché lo Stato capitalista, senza rinnegare la sua struttura,
senza rinnegare la sua origine, non può smettere di essere Stato nazionalista.
Ma questa incapacità della società capitalista e individualista a trasformarsi, in armo
nia con le necessità internazionali dell’economia, non impedisce che appaiano in essa
dei segnali preliminari di un’organizzazione internazionale dell’umanità. All’interno del
regime borghese, nazionalista e sciovinista, che allontana i popoli e li rende nemici, si
tesse una fitta rete di solidarietà internazionale che prepara il futuro dell’umanità. La
borghesia stessa non può astenersi dal creare con le sue mani organismi e istituti internazionali che attenuino la rigidità della sua teoria e della sua pratica nazionalista.
Abbiamo visto così apparire la Società delle Nazioni. La Società delle Nazioni, come ho
detto nella conferenza ad essa dedicata, è nel fondo un omaggio dell’ideologia borghese
all’ideologia internazionalista. La Società delle Nazioni è un’illusione perché nessun
potere umano può evitare che al suo interno si producano i conflitti, le inimicizie e gli
squilibri inerenti all’organizzazione capitalista e nazionalista della società. Supponendo
che la Società delle Nazioni arrivasse a comprendere tutte le nazioni del mondo, non
per questo la sua azione sarebbe efficacemente pacifista né capace di regolare efficace
mente i conflitti e i contrasti tra le nazioni, perché l’umanità, riflessa e sintetizzata nella
sua assemblea, sarebbe sempre la stessa umanità nazionalista di prima. La Società delle
45
Nazioni avrebbe riunito i delegati dei popoli; ma non avrebbe riunito i popoli stessi.
Non avrebbe eliminato i motivi di contrasto tra questi. Le stesse divisioni, le stesse riva
lità che avvicinano o rendono nemiche le nazioni nella geografia e nella storia, le avreb
bero avvicinate o rese nemiche aH’interno della Società delle Nazioni. Si sarebbero con
servate le alleanze, i compromessi, le ententes che riuniscono i popoli in blocchi antago
nisti e nemici. La Società delle Nazioni, infine, sarebbe stata un’Internazionale di classi
sociali, un’Internazionale di Stati; ma non un'Internazionale di popoli. La Società delle
Nazioni sarebbe stata un internazionalismo di etichetta, un internazionalismo di faccia
ta. Questa sarebbe stata la Società delle Nazioni nel caso in cui avesse riunito nel suo
seno tutti i governi, tutti gli Stati. Attualmente, quando non riunisce altro che una parte
dei governi e una parte degli Stati, la Società delle Nazioni rappresenta molto meno
ancora. E un tribunale senza autorità, senza giurisdizione e senza forza, al margine del
quale le nazioni contrattano e litigano, negoziano e si attaccano.
Ma, nonostante tutto, la comparsa, l’esistenza dell’idea della Società delle Nazioni,
il tentativo di realizzarla è un riconoscimento, è una dichiarazione dell’evidente realtà
dell’internazionalismo della vita contemporanea, delle necessità internazionali della
vita dei nostri tempi. Tutto tende a vincolare, tutto tende a collegare gli uomini e i
popoli in questo secolo. Nei tempi passati lo scenario di una civiltà era ridotto, era pic
colo; nella nostra storia è quasi tutto il mondo. Il colono inglese che si stabilisce in un
angolo selvaggio dell’Africa porta in quell’angolo il telefono, il telegrafo, l’automobile.
In quell’angolo risuona l’eco dell’ultima arringa di Poincaré o dell’ultimo discorso di
Lloyd George. Il progresso delle comunicazioni ha collegato e unificato fino a un
grado inverosimile l’attività e la storia delle nazioni. Accade che il pugno che mette a
terra Firpo sul ring di New York sia conosciuto a Lima, in questa piccola capitale
sudamericana, solo due minuti dopo essere stato visto dagli spettatori del macth. Due
minuti dopo avere commosso gli spettatori delle tribune nordamericane, questo stesso
pugno costernava la brava gente che stava facendo la coda davanti all’entrata dei gior
nali di Lima. Ricordo questo esempio per darvi la sensazione precisa dell’intensa
comunicazione che esiste tra le nazioni del mondo occidentale, a causa della crescita e
del perfezionamento delle comunicazioni. Le comunicazioni sono il tessuto nervoso di
questa umanità internazionalizzata e solidale. Una delle caratteristiche della nostra
epoca è la rapidità, la velocità con cui si propagano le idee, con cui si trasmettono le
correnti di pensiero e la cultura. Un’idea nuova, che spunta in Inghilterra, è un’idea
inglese solo durante il tempo necessario affinché sia stampata. Una volta lanciata nello
spazio dai giornali questa idea, se traduce qualche verità universale, può trasformarsi
istantaneamente anch’essa in un’idea universale. Quanto avrebbe tardato Einstein in
altri tempi a raggiungere una popolarità mondiale? Nel nostro tempo, la teoria della
relatività, nonostante la sua complicazione e il suo tecnicismo, ha fatto il giro del
mondo in pochissimi anni. Tutti questi fatti sono altrettanti segni dell’internazionali
smo e della solidarietà della vita contemporanea.
In tutte le attività intellettuali, artistiche, scientifiche, filantropiche, morali, ecc., si
osserva oggi la tendenza a costruire organi internazionali di comunicazione e di coordi
namento. In Svizzera ci sono le sedi di più di ottanta associazioni internazionali. C’è
un’internazionale dei maestri, un’internazionale dei giornalisti, c’è un’internazionale
femminista, c’è un’internazionale studentesca. Perfino i giocatori di scacchi, se non mi
sbaglio, hanno uffici internazionali o cose simili. I maestri di ballo hanno tenuto a Parigi
un congresso internazionale nel quale hanno discusso sulla convenienza di mantenere in
voga il fox trot o di resuscitare la pavana. Si sono gettate così le basi di un’internaziona
le dei ballerini. C’è di più. Tra le correnti internazionaliste, tra i movimenti internazio
nalisti ce n’è uno che sta prendendo forma, curioso e paradossale come nessun altro. Mi
riferisco all’internazionale fascista. I movimenti fascisti sono, come sapete, ferocemente
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ì
sciovinisti e patriottardi. Succede, tuttavia, che si stimolino e si aiutino tra di loro. I
fascisti italiani aiutano, a quanto si dice, i fascisti ungheresi. Mussolini una volta fu invi
tato dai fascisti tedeschi a visitare Monaco. Il governo fascista italiano ha accolto con
esplicita ed entusiastica simpatia il sorgere del governo filofascista spagnolo. Perfino il
nazionalismo, dunque, non può prescindere da una certa fisionomia internazionalista.
(Trad, di Riccardo Badivi)
«La Democrazia Cattolica», che fa parte del primo libro di Mariàtegui La escena contem
poranea (1925) - ora voi. 1 delle Obras completas - sviluppa alcune osservazioni già
presenti nelle corrispondenze inviate durante il soggiorno italiano. Il Partito Popolare di
don Sturzo, infatti, fin dall’inizio ha richiamato la sua attenzione, per la singolarità del
suo percorso politico. In questo scritto il partito cattolico italiano viene visto nel suo con
testo europeo, all’interno di un’analisi sulle contraddizioni delle formazioni politiche di
ispirazione cristiana di fronte all’ascesa reazionaria.
La democrazia cattolica
L’intesa tra la Democrazia e la Chiesa Cattolica, dopo aver cancellato e sanato rancori
reciproci, ha prodotto in Europa un partito politico di tipo più o meno intemazionale che,
in vari paesi, tenta un esperimento di ricostruzione sociale su basi democratiche e cristiane.
Questa democrazia cattolica o cattolicesimo democratico ha prosperato, soprat
tutto, nell’Europa Centrale. In Germania, dove si chiama centro cattolico, una delle
sue grandi guide, Erzberger, che morì assassinato da un pangermanista, ebbe un
ruolo di primo piano nei primi anni della repubblica. In Austria governano i cattolici
democratici. In Francia, invece, i cattolici sono divisi e travagliati da contrasti.
Alcuni, quelli della nobiltà orleanista, militano nelle file di Maurras e de\VAction
Franqaise. Altri di estrazione repubblicana, si diluiscono nei partiti del blocco nazio
nale. Altri, infine, seguono un orientamento democratico e pacifista. Il leader di que
sti ultimi elementi è il deputato Marc Sagnier, propugnatore, fervido e mistico, di
una riconciliazione franco-tedesca.
Ma è stato in Italia, più che in qualunque altro popolo, che la democrazia cattolica ha
svolto un’attività vigorosa, conosciuta e caratteristica. L’ha concentrata e mobilitata cin
que anni fa, sotto il nome di partito popolare o populista, Don Sturzo, un prete dalle
grandi doti organizzative e dall’intelligenza sagace. E il riassunto della sua storia, illustra
chiaramente il carattere e il contenuto intemazionali di questa corrente politica.
Prima del 1919 i cattolici italiani non intervenivano nella politica come partito. Il
loro confessionalismo glielo proibiva. I sentimenti della resistenza e della lotta contro
il liberalismo, artefice dell’unità italiana sotto la dinastia della casa Savoia, erano anco
ra troppo vivi. Il liberalismo appariva ancora abbastanza intriso di spirito anticlericale
e massonico. I cattolici si sentivano legati all’atteggiamento del Vaticano verso lo stato
italiano. Tra i cattolici e i liberali, un patto di pace aveva sedato alcune acerrime
divergenze. Ma tra gli uni e gli altri si frapponevano il ricordo e le conseguenze dello
storico Venti Settembre.
La guerra, liquidata con scarso beneficio per l’Italia, preparò il ritorno ufficiale dei
cattolici alla politica italiana. Le antiche fazioni liberali, screditate dai malumori susci
tati dalla pace, avevano perso parte della loro autorità. Le masse affluivano nelle file
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socialiste, deluse dall’idea liberale e dai suoi uomini. Don Sturzo colse l’occasione per
attirare una parte del popolo verso l’idea cattolica, opportunamente modernizzata e
abilmente abbellita di motivi democratici. Don Sturzo aveva già irreggimentato in
leghe e sindacati i lavoratori cattolici, che, pur essendo in minoranza nelle città, abbon
davano e a volte predominavano nelle campagne. Queste associazioni di lavoratori,
verso i quali Don Sturzo e i suoi luogotenenti usavano un linguaggio vagamente sociali
sta, costituirono la base del Partito Popolare. Ad esse si sovrapposero gli elementi cat
tolici della borghesia ed anche molti dell’aristocrazia, in precedenza contrari ad ogni
approvazione formale del regime fondato da Vittorio Emanuele, Garibaldi, Cavour e
Mazzini.
Il nuovo partito, al fine di poter collaborare liberamente con questo regime,
dichiarò nel suo programma la propria indipendenza dal Vaticano. Ma questa era una
questione di forma. Si trattava in teoria e nella pratica, di un gruppo cattolico, destina
to a utilizzare la propria influenza politica per la riconquista da parte della Chiesa di
alcune posizioni morali - la Scuola soprattutto - dalle quali cinquantanni di politica
demo-massonica l’avevano allontanata.
Favorito dalle stesse circostanze ambientali e dalla stessa congiuntura politica che
assecondarono la sua nascita, il partito cattolico italiano ottenne un clamoroso succes
so nelle elezioni del 1919. Conquistò cento seggi alla Camera. Divenne il gruppo più
numeroso del parlamento, dopo i socialisti che avevano centocinquantasei voti. La col
laborazione dei popolari risultò indispensabile per il sostegno di un governo monarchi
co. Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta contarono, successivamente, su tale collaborazione. Il
Partito Popolare era la base di qualunque accordo ministeriale. Nelle elezioni del 1921
i deputati popolari aumentarono da 101 a 109. Il peso politico di Don Sturzo, segreta
rio generale e leader dei popolari, crebbe straordinariamente .
Ma la solidità del partito cattolico italiano era contingente, transitoria, precaria. La
sua composizione chiaramente eterogenea conteneva i germi di una scissione inevitabi
le. Gli elementi di destra del partito, a causa dei loro interessi economici, tendevano a
una politica antisocialista. Gli elementi di sinistra, sostenuti da numerosi gruppi conta
dini, esigevano, al contrario, un’impostazione socialdemocratica. La coesione, l’unità
della democrazia cattolica italiana dipendevano, pertanto, dalla persistenza di una poli
tica centrista nel governo. Non appena avesse prevalso la destra reazionaria o la sinistra
rivoluzionaria, il centro, il cui fulcro erano i popolari, si sarebbe frantumato.
Con lo sviluppo del movimento fascista, ossia della minaccia reazionaria, ebbe ini
zio, perciò, la crisi del Partito Popolare. Miglioli e altri leaders della sinistra cattolica
lavorarono a favore d’una coalizione popolar-socialista chiamata a rafforzare in modo
decisivo la politica centrista e riformista. Una parte del Partito Socialista, ormai abban
donato dai comunisti, era ugualmente favorevole alla formazione di un blocco dei
popolari, dei socialisti e dei nittiani. Si avvertiva nell’uno e nell’altro settore che solo
questo blocco avrebbe potuto resistere efficacemente all’ondata fascista. Ma gli sforzi
che tendevano a crearlo erano neutralizzati, da parte dei popolari per l’azione della
corrente conservatrice, da parte dei socialisti per l’azione della corrente rivoluzionaria,
entrambe refrattarie a unirsi in un polo centrista.
Più tardi, l’avvio della dittatura fascista, l’ostracismo della politica democratica,
assestarono un colpo fatale al partito di Don Sturzo. I popolari capitolarono dinanzi al
fascismo. Ad esso assicurarono la collaborazione dei loro uomini al governo e dei loro
voti in parlamento. E questa collaborazione determinò di fatto l’assorbimento da parte
del fascismo degli strati conservatori del Partito Popolare. Mediante una politica di
ammiccamenti col Vaticano e di concessioni alla Chiesa nell’ambito dell’insegnamento,
Mussolini conquistò la destra cattolica. I suoi attacchi alle conquiste dei lavoratori e i
favori accordati agli interessi dei capitalisti, generarono, invece, nell’area operaia del
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Partito Popolare una crescente opposizione ai metodi fascisti. Nella misura in cui si
avvicinavano le elezioni, questa crisi si andava aggravando.
Attualmente, la democrazia cattolica italiana è in piena fase di disgregazione. La
destra ha ceduto al fascismo. Il centro, obbediente a Don Sturzo, ha riaffermato la pro
pria estrazione democratica.
La posizione storica dei partiti cattolici negli altri paesi è sostanzialmente la stessa.
La fortuna di quei partiti è indissolubilmente legata alla fortuna della politica centrista
e democratica. Laddove questa politica è sconfitta dalla politica reazionaria, la demo
crazia cattolica illanguidisce e si dissolve. E il fatto è che la crisi politica contempora
nea non è, in particolare, una crisi della democrazia irreligiosa ma, in generale, una
crisi della democrazia capitalista. E, di conseguenza, a questa non serve a nulla sostitui
re il suo abito vecchio con un abito cattolico. In queste cose, come in altre, l’abito non
fa il monaco.
{Trad, di Natalia Giannoni)
Sempre a La scena contemporanea appartiene questa lucida visione dei rapporti tra
«Oriente e Occidente».
Oriente e Occidente
L’ondata rivoluzionaria non scuote solo l’Occidente. Anche l’Oriente è agitato,
inquieto, tempestoso. Uno degli eventi più attuali e importanti della storia contempo
ranea è la trasformazione politica e sociale dell’Oriente. Questo periodo di agitazione e
di gestazione orientale coincide con un periodo di insolita e reciproca ansia
dell’Oriente e dell’Occidente per conoscersi, per studiarsi, per comprendersi.
Nella sua giovinezza boriosa, la civiltà occidentale trattò con sdegno e alterigia i
popoli orientali. L’uomo bianco considerò necessario, naturale e lecito il suo dominio
sull’uomo di colore. Usò i termini orientale e barbaro come due parole equivalenti.
Pensò che solamente ciò che era occidentale era civile. L’esplorazione e la colonizza
zione dell’Oriente non fu mai compito di intellettuali, ma di commercianti e di guerrie
ri. Gli occidentali sbarcavano in Oriente le loro mercanzie e le loro mitragliatrici, ma
non i loro strumenti né le loro capacità di ricerca, di interpretazione e di conquista spi
rituale. L’Occidente si preoccupò di portare a termine la conquista materiale del
mondo orientale; ma non di tentare la sua conquista spirituale. E così il mondo orien
tale conservò intatte la sua mentalità e la sua psicologia. Sino ad oggi permangono fre
sche e vitali le radici millenarie dell’islamismo e del buddismo. L’indiano veste ancora
il suo vecchio khaddar. Il giapponese, il più saturato di occidentalismo tra gli orientali,
conserva qualcosa della sua essenza samurai.
Ma oggi che l’Occidente, relativista e scettico, scopre la propria decadenza e preve
de il suo prossimo tram onto, sente la necessità di esplorare e di capire meglio
l’Oriente. Spinti da una curiosità febbrile e nuova, gli Occidentali si addentrano con
entusiasmo nei costumi, nella storia e nelle religioni asiatiche. Migliaia di artisti e di
pensatori traggono dall’Oriente la trama e il colore del loro pensiero e della loro arte.
L’Europa accumula avidamente dipinti giapponesi e sculture cinesi, colori persiani e
ritmi indostani. Si inebria dell’orientalismo di cui sono impregnate l’arte, la fantasia e
la vita russa. E confessa quasi un morboso desiderio di orientalizzarsi.
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L’Oriente, a sua volta, si rivela ora impregnato di pensiero occidentale. L’ideologia
europea si è infiltrata abbondantemente nell’anima orientale. Una vecchia pianta orienta
le, il dispotismo, agonizza minata da queste infiltrazioni. La Cina, trasformata in repubbli
ca, rinuncia alla sua muraglia tradizionale. L’idea della democrazia, invecchiata in Europa,
rigermoglia in Asia e in Africa. La Dea Libertà è la dea più prestigiosa del mondo colonia
le, in questi tempi in cui Mussolini la dichiara rinnegata e abbandonata dall’Europa. («La
Dea Libertà l’hanno uccisa i demagoghi», ha detto il condottiere delle camicie nere). Gli
egiziani, i persiani, gli indiani, filippini, i marocchini, vogliono essere liberi.
Accade, tra le altre cose, che l’Europa raccoglie i frutti della sua predicazione del
periodo bellico. Gli alleati usarono durante la guerra, per sobillare il mondo contro gli
austrotedeschi, un linguaggio demagogico e rivoluzionario. Proclamarono enfatica
mente e fragorosamente il diritto di tutti i popoli all’indipendenza. Presentarono la
guerra contro la Germania come una crociata per la democrazia. Propugnarono un
nuovo Diritto Internazionale. Questa propaganda scosse profondamente i popoli colo
niali. E terminata la guerra, questi popoli coloniali annunciarono, nel nome della dot
trina europea, la loro volontà di emanciparsi.
Penetra in Asia, importata dal capitale europeo, la dottrina di Marx. Il socialismo che,
all’inizio, non fu altro che un fenomeno della civiltà occidentale, estende oggi il suo raggio
storico e geografico. Le prime Internazionali operaie furono istituzioni unicamente occi
dentali. Nella Prima e nella Seconda Intemazionale furono rappresentati soltanto i prole
tari d’Europa e d’America. Al congresso di fondazione della Terza Internazionale nel
1920 parteciparono, invece, delegati del partito Operaio Cinese e dell’Unione Operaia
Coreana. Ai congressi seguenti hanno preso parte delegazioni persiane, del Turkestan,
armene. Nell'agosto del 1920 ebbe luogo a Bakù, patrocinata e promossa dalla Terza
Internazionale, una conferenza rivoluzionaria dei popoli orientali. Ventiquattro popoli
orientali parteciparono a quella conferenza. Alcuni socialisti europei, Hilferding tra que
sti, rinfacciarono ai bolscevichi la loro intesa con movimenti di stampo nazionalista.
Zinoviev, polemizzando con Hilferding, rispose: «Una rivoluzione mondiale non è possi
bile senza l’Asia. Lì vive una quantità di uomini quattro volte superiore rispetto
all’Europa. L’Europa è una piccola parte del mondo». La rivoluzione sociale ha bisogno
storicamente dell’insurrezione dei popoli coloniali. La società capitalista tende a restaurar
si mediante uno sfruttamento più metodico e più intenso delle sue colonie politiche ed
economiche. E la rivoluzione sociale deve fare insorgere i popoli coloniali contro l’Europa
e gli Stati Uniti, per ridurre il numero di vassalli e di tributari della società capitalista.
Contro la dominazione europea sull’Asia e sull’Africa cospira anche la nuova
coscienza morale d’Europa. Esistono attualmente in Europa diversi milioni di uomini
di idee pacifiste che si oppongono ad ogni atto bellico, ad ogni atto sanguinoso, contro
i popoli coloniali. Di conseguenza, l’Europa si vede obbligata a trattare, a negoziare, a
cedere davanti a questi popoli. Il caso turco è, a tal proposito, molto significativo.
In Oriente appare, quindi, una vigorosa volontà d’indipendenza, al tempo stesso in
cui in Europa si indebolisce la capacità di violarla e soffocarla. Si constata, insomma,
l’esistenza delle condizioni storiche necessarie per la liberazione dell’Oriente. Più di un
secolo fa, è giunta dall’Europa a questi popoli d'America una ideologia rivoluzionaria.
E, infiammata dalla sua rivoluzione borghese, l’Europa non potè evitare l’emancipazio
ne americana generata da quella ideologia. Allo stesso modo ora, l’Europa, minata dalla
rivoluzione sociale, non può reprimere militarmente l’insurrezione delle sue colonie.
E, in questa ora grave e feconda della storia umana, sembra che qualcosa dell’anima
orientale sia trasmigrata in Occidente e che qualcosa dell’anima occidentale sia trasmi
grata in Oriente.
(Trad, di Elina Patan è)
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Allo stesso libro appartengono anche i due saggi complementari «Il semitismo e l’antise
mitismo». Mariàtegui inquadra il risorgimento ebraico all’interno del più ampio processo
di rinascita delle nazionalità che fa seguito alla prima guerra mondiale. Ma porta nella
sua analisi anche un interesse specifico per la cultura ebraica, che negli ultimi anni lo
legherà ad alcuni esponenti dell’ebraismo peruviano.
Il semitismo e l’antisemitismo
Il semitismo
Uno dei fenomeni più interessanti del dopoguerra è quello della rinascita ebraica. I
fautori del sionismo parlano di una risurrezione del popolo d ’Israele. Il popolo eterno
del grande esodo si sente designato, nuovamente, a un grande ruolo nella storia. Il
movimento sionista non monopolizza tutta l’attività del suo spirito. Molti ebrei guarda
no con diffidenza questo movimento, controllato e pilotato dalla politica imperialista
dell’Inghilterra. La rinascita ebraica è un fenomeno molto più vasto. Il sionismo rap
presenta solo uno dei suoi aspetti, una delle sue correnti.
Questo fenomeno affonda le sue radici più prossime nella guerra. Il programma
di pace degli alleati non potè prescindere dalle vecchie rivendicazioni israelite. Il
popolo ebraico era nell’Europa Orientale, dove si concentravano le sue più grandi
masse, un popolo paria, condannato a tutte le vessazioni. La civiltà borghese aveva
lasciato sussistere in Europa, tra gli altri residui dell’Età Medievale, l’inferiorità giu
ridica dell’ebreo. Un nuovo codice internazionale doveva affermare e tutelare il
diritto delle popolazioni israelite. L ’Inghilterra, accorta e perspicace, comprese
opportunamente l’utilità politica di agitare, in un senso favorevole agli alleati, l’anti
ca questione ebraica. La dichiarazione di Balfour proclamò, nel novembre del 1917,
il diritto degli ebrei a stabilire in Palestina la propria dimora nazionale. La propa
ganda wilsoniana consolidò, d ’altro canto, la posizione del popolo d ’Israele. Il ruolo
rappresentato nella guerra e nella pace dagli Stati Uniti - la nazione che aveva trat
tato gli ebrei con più liberalità in tempi prebellici - influì in modo decisivo a favore
delle rivendicazioni israelite. Il trattato di pace affidò alla Società delle Nazioni la
tutela di Israele.
La pace inaugurò un periodo di emancipazione delle popolazioni israelite
nell’Europa Orientale. In Polonia e in Romania, lo Stato concesse agli ebrei il diritto di
cittadinanza. Il movimento sionista annunciò, a tutti i dispersi e vessati figli di Israele,
la ricostruzione in Palestina della patria degli ebrei. Ma la rinascita israelita si basò,
soprattutto, sull’agitazione rivoluzionaria nata dalla guerra. La rivoluzione russa non
solo cancellò, insieme al regime zarista, i residui di disuguaglianza giuridica e politica
degli ebrei: mise al governo della Russia diversi uomini di razza semita. La rivoluzione
tedesca, con l’ascesa della socialdemocrazia al potere, fu caratterizzata dalla stessa con
seguenza. Nello stato maggiore del socialismo tedesco, sin dai tempi di Marx e Lasalle,
militavano molti israeliti.
Tanto la politica della riforma quanto la politica della rivoluzione, si presenta
rono, così, più o meno connesse con la rinascita ebraica. E questo fu il motivo per
cui la politica della reazione si tinse in tutto l’Occidente con un intenso tono anti
semita. I nazionalisti, i reazionari, denunciarono in Europa la pace di Versailles
come una pace ispirata da interessi e sentimenti israeliti. E dichiararono il bolscevi
smo un’oscura cospirazione degli ebrei contro le istituzioni della civiltà cristiana.
L’antisemitismo assunse in Europa, ed anche negli Stati Uniti, una virulenza ed una
aggressività inaudite. Il sionismo, al tempo stesso, nell’animo di alcuni dei suoi
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seguaci, veniva contagiato dalla stessa inclinazione. Cercava di opporre agli innu
merevoli nazionalismi occidentali e orientali un nazionalismo ebraico, inesistente
prima della crisi postbellica. Per un osservatore obiettivo di questa crisi, la funzio
ne degli ebrei nella politica riformista e nella politica rivoluzionaria era perfetta
mente spiegabile. La razza ebraica, sotto il sistema politico medievale, era stata
considerata come una razza reproba. L ’aristocrazia le aveva negato il diritto di
esercitare ogni professione nobile. Questa esclusione aveva fatto degli ebrei nel
mondo una razza di mercanti e di artigiani. Aveva im pedito allo stesso tempo
l’insediamento degli ebrei nelle campagne. Gli ebrei obbligati a vivere nelle città,
di commercio, di usura e di industria, rimasero legati alla vita e allo sviluppo urba
no. La rivoluzione borghese, di conseguenza, si nutrì in parte di linfa ebraica. E
nella formazione dell’economia capitalista spettò agli ebrei, commercianti ed indu
striali esperti, un ruolo fondamentale e logico. La decadenza delle «professioni
nobili», la trasformazione della proprietà agraria, la distruzione dei privilegi della
aristocrazia, ecc., conferirono un posto dominante nell’ordine capitalista al ban
chiere, al commerciante, all’industriale. Gli ebrei, preparati per queste attività, si
avvantaggiarono grazie a tutte le manifestazioni di questo processo storico, che tra
sferiva dalla campagna alla città il dominio dell’economia. Il fenomeno più tipico
dell’economia moderna - lo sviluppo del capitale finanziario - accrebbe ancor più
il potere della borghesia israelita. L’ebreo appariva, nella vita economica moderna,
come uno dei più adeguati fattori biologici dei suoi movimenti sostanziali: capitali
smo, industrialismo, urbanismo, internazionalismo. Il capitale finanziario, che tes
seva al di sopra delle frontiere una sottile e forte rete di interessi, trovava negli
ebrei, in tutte le capitali dell'occidente, i suoi più attivi e abili agenti. La borghesia
israelita, per tutte queste ragioni, si sentiva solidale con le idee e le istituzioni
dell’ordine democratico-capitalista. La sua posizione nell’economia la spingeva
dalla parte del riformismo borghese. (Generalmente, la banca tende, in politica, a
una tattica opportunista e democratica che confina a volte con la demagogia. I ban
chieri sostengono, normalmente, i partiti progressisti della borghesia. I proprietari
terrieri, invece, si affiliano ai partiti conservatori). Il riformismo borghese aveva
creato la Società delle Nazioni, come uno strumento del suo blando internazionali
smo. Coerente con i suoi interessi la borghesia israelita doveva logicamente simpa
tizzare per un organismo che, nella pratica, non era altro che una creatura del capi
tale finanziario.
E poiché gli ebrei non si dividevano solo in borghesia e piccola borghesia ma
anche in proletariato, era anche naturale che in gran numero risultassero mescolati al
movimento socialista e comunista. Gli ebrei che, come razza e come classe, avevano
patito doppiamente l’ingiustizia umana, potevano rimanere indifferenti alla suggestio
ne rivoluzionaria? Il loro temperamento, la loro psicologia, la loro vita, impregnati di
inquietudini urbane, facevano delle masse israelite uno dei combustibili più vicini alla
rivoluzione. Il carattere mistico, la mentalità catastrofica della rivoluzione, dovevano
suggestionare e commuovere, particolarmente, gli individui di razza ebraica. Il giudi
zio sommario e semplicistico dell’estrema destra non prendeva in considerazione
quasi nessuna di queste cose. Preferiva vedere nel socialismo una mera elaborazione
dello spirito ebraico, cupamente alimentata dal rancore del ghetto contro la civiltà
occidentale e cristiana.
La rinascita ebraica non si presenta come la rinascita di una nazionalità. Non si pre
senta neanche come la rinascita di una religione. Vuole essere, piuttosto, la rinascita
del genio, dello spirito, del sentimento ebraico. Il sionismo - la ricostruzione della
dimora nazionale ebraica - non è altro che un episodio di questa risurrezione. Il popo
lo d’Israele, «il più sognatore ed il più pratico del mondo», come lo ha definito uno
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scrittore francese, non si fa grandi illusioni sulla possibilità di ricostituirsi come nazio
ne, dopo tanti secoli, sul territorio della Palestina.
Il trattato di pace, in primo luogo, non ha potuto dare agli ebrei i mezzi per
organizzarsi e stabilirsi liberamente in Palestina. La Palestina, secondo il trattato,
costituisce fondamentalmente una colonia della Gran Bretagna. La Gran Bretagna
considera il sionismo come un momento della sua politica imperialistica. Nei sei
anni trascorsi dalla pace, si sono stabiliti in Palestina, secondo le cifre di «La Révue
Juive» di Parigi, non più di 43.500 ebrei. L’immigrazione verso la Palestina, soprat
tutto durante i primi anni, è stata sottomessa da parte dell’Inghilterra ad una serie
di restrizioni poliziesche. Le autorità inglesi hanno compiuto una severa scelta degli
immigranti alle frontiere e prima delle frontiere. Tra le masse ebraiche d ’Europa e
d ’America, d ’altra parte, non si è manifestata una volontà realmente sentita di ripo
polare la Palestina. La maggior parte degli immigranti proviene da quelle regioni
dell’Europa Orientale, dove la vita degli ebrei, a causa delle condizioni economiche
o del sentimento antisemita, è divenuta difficile o disagevole. Le masse ebraiche si
trovano, nella loro maggioranza, troppo abituate al tenore e allo stile di vita urbano
e occidentale per adattarsi, facilmente, alle necessità di una colonizzazione agricola.
Gli ebrei sono generalmente industriali, commercianti, artigiani, operai; mentre
l’organizzazione economica della Palestina deve essere opera di lavoratori rurali.
Alla ricostruzione della dimora nazionale ebraica in Palestina si oppone, inoltre, la
resistenza degli arabi, che da più di dodici secoli posseggono e popolano quel terri
torio. Gli arabi della Palestina non superano le 800.000 unità. La Palestina può
ospitare perlomeno una popolazione dai quattro ai cinque milioni. D ’altra parte
come scrive Charles Gide, gli arabi «hanno fatto della Terra Promessa una Terra
Morta». L’illustre economista ricorda loro «il versetto del Corano che dice che la
terra appartiene a colui che l’ha lavorata, irrigata, vivificata, legge ammirevole, di
gran lunga superiore alla legge romana, che noi abbiamo ereditato, che fonda la
proprietà della terra sulla occupazione e la prescrizione». Questi argomenti vanno
molto bene. Ma, per il momento, trascurano due particolari: 1°) Che gli israeliti non
costituiscono attualmente più del dieci per cento della popolazione della Palestina,
e che non è probabile un forte incremento del flusso immigratorio ebraico; 2°) Che
gli arabi difendono non solo il loro diritto alla terra ma anche l’indipendenza
dell’Arabia e della Mesopotamia e in generale del mondo musulmano, attaccato
daU’imperialismo britannico.
Gli stessi intellettuali israeliti, che hanno aderito al sionismo, non esaltano general
mente questo movimento per quanto riguarda l’aspetto nazionalista. E necessario,
dicono, che gli ebrei abbiano una dimora nazionale, affinché si rifugino in essa le
popolazioni ebraiche «inassimilabili», che si sentono straniere e a disagio in Europa.
Queste popolazioni ebraiche che non riescono ad integrarsi - quelle che vivono rin
chiuse nei loro ghetti (quartieri israeliti), boicottate dai pregiudizi antisemiti degli euro
pei, nell’Europa centrale e occidentale -, rappresentano una minoranza del popolo
d’Israele. La maggioranza, inserita a pieno titolo nella civiltà occidentale, non rinuncerebbe ad essa, sicuramente non la abbandonerebbe per partire, di nuovo, alla conqui
sta della Terra Promessa.
Einstein riconosce il valore del sionismo nella sua forza spirituale. «Il sionismo scrive - sta per creare in Palestina un centro di vita spirituale ebraica». Ed aggiunge:
«E per questo che io credo che il sionismo, movimento in apparenza nazionalista, è, in
fin dei conti, benemerito dell’umanità».
La rinascita ebraica, in realtà, esiste e vale, soprattutto, come opera spirituale ed
intellettuale dei suoi grandi pensatori, dei suoi grandi artisti, dei suoi grandi combat
tenti. Nell’elenco dei collaboratori di “Ltì Réuve Juive” figurano uomini come Albert
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Einstein, Sigmund Freud, Georges Brandes, Charles Gide, Israel Zangwill, Waldo
Frank, ecc. Nel movimento rivoluzionario d ’Oriente e d’Occidente, la razza ebraica è
numerosa e brillantemente rappresentata. Sono questi valori quelli che nel nostro
tempo danno al popolo d ’Israele diritto alla gratitudine e alla stima da parte dell’uma
nità. E sono anche quelli che ricordano che la loro missione, nella storia moderna,
come sente ed afferma Einstein, è principalmente una missione internazionale, una
missione umana.
L ’antisemitismo
La rinascita dell’ebraismo ha provocato nel mondo la rinascita dell’antisemitismo.
All’azione ebraica ha corrisposto la reazione antisemita. L’antisemitismo, addomestica
to durante la guerra grazie alla politica della «Unione Sacra», ha recuperato violente
mente nel dopoguerra la sua antica virulenza. La pace lo ha fatto diventare bellicoso.
Questa frase può sembrare di gusto un po’ paradossale. Ma è facile convincersi del
fatto che traduce una realtà storica.
La pace di Versailles, com’è fin troppo risaputo, non ha soddisfatto alcun nazio
nalismo. L’antisemitismo, com’è altrettanto risaputo, si nutre di nazionalismo e di
conservatorismo. Rappresenta un sentimento e un’idea delle destre. E le destre,
nelle nazioni vincitrici e nelle nazioni vinte, si sono sentite più o meno escluse dalla
pace di Versailles. Invece, hanno riconosciuto nel testo del trattato di pace qualche
traccia internazionalista. Hanno lì riconosciuto, attenuata ma inequivocabile, l’ispi
razione delle sinistre. Le destre francesi hanno denunciato la pace come una pace
ebraica, una pace puritana, una pace britannica. Non hanno temuto di contraddirsi
in tutte queste successive o simultanee definizioni. La pace - hanno detto - è stata
dettata dalla banca internazionale. La banca internazionale è, per gran parte, israeli
ta. La sua sede principale è Londra. L'ebraismo è entrato, in forte dose spirituale,
nella formazione del puritanesimo anglosassone. Di conseguenza, non è per niente
strano che gli interessi israeliti, puritani e britannici coincidano. La loro convergen
za e la loro solidarietà spiegano perché la pace è, allo stesso tempo, israelita, purita
na e britannica.
Non seguiamo gli scrittori della reazione francese nella formulazione della loro teo
ria che si rifà, attraverso confusi ed astratti percorsi, alle più lontane origini del purita
nesimo e del capitalismo. Accontentiamoci di constatare che, per ragioni sicuramente
più semplici, gli artefici della pace hanno ammesso nel trattato alcune rivendicazioni
israelite.
Il trattato ha riconosciuto alle masse ebraiche della Polonia e della Romania i
diritti accordati alle minoranze etniche e religiose, all’interno degli Stati aderenti
alla Società delle Nazioni. In virtù di questa stipulazione, veniva di colpo abolita la
disuguaglianza politica e giuridica in cui la sopravvivenza di un regime medievale
aveva mantenuto gli israeliti nei territori della Polonia e della Romania. In Russia la
rivoluzione aveva già cancellato questa disuguaglianza. Però la Polonia, ricostituita
come nazione a Versailles, aveva ereditato dallo zarismo i suoi metodi ed i suoi
costumi antisemiti. La Polonia, inoltre, ospitava la più numerosa comunità ebraica
del mondo. Gli israeliti rinchiusi nei loro ghetti, segregati gelosamente dalla società
nazionale, sottomessi a un pogrom permanente e sistematico, ammontavano a più di
tre milioni.
Da nessuna parte esisteva, pertanto, un problema ebraico di tale rilievo. In nes
suna nazione le risoluzioni di Versailles a favore degli ebrei suscitavano, per la stes
sa causa, una maggiore agitazione antisemita. Il ruolo che toccò alla Polonia nella
54
politica europea del dopoguerra permise che il potere cadesse sotto il controllo
dell’antisemitismo. Posta sotto l’influenza ed il controllo della Francia, in un
momento in cui dominava in Francia la reazione, la Polonia ricevette l’incarico di
difendere e preservare l’Occidente dalle infiltrazioni della rivoluzione russa. Questa
politica dovette appoggiarsi sulle classi conservatrici ed alimentarsi dei loro pregiu
dizi e dei loro rancori antisemiti. L’ebreo risultava, sempre, sospetto di inclinazioni
per il bolscevismo.
La Polonia è, sino ad oggi, il paese in cui si registra il più brutale antisemitismo. Lì
l’antisemitismo non si manifesta solamente nella forma dei pogrom compiuti dalle
turbe di fanatici nazionalisti. Il governo è il primo a resistere agli obblighi della pace.
Recenti notizie dalla Polonia dicono in proposito: «L’antisemitismo governativo e
sociale sembra accentuarsi in Polonia. Sino ad oggi le leggi speciali estese alla Polonia
dalla Russia zarista non sono state abrogate».
Un altro focolaio attivo di antisemitismo è la Romania. Anche questo paese con
tiene una consistente minoranza israelita. Le persecuzioni hanno provocato un
esodo. Gran parte degli immigranti che affluiscono in Palestina provengono dalla
Romania. Ciò nonostante, il numero di israeliti che rimangono in Romania si aggira
intorno ai 755.000. Come in tutta Europa, gli ebrei costituiscono in Romania uno
strato urbano. E, in Romania come in altre nazioni dell’Europa Orientale, l’appara
to legislativo e quello amministrativo si ispirano principalmente agli interessi delle
classi rurali. Non per questo gli ebrei sono meno osteggiati all’interno delle città,
troppo sature naturalmente di sentimento contadino. Il nazionalismo e il conserva
torismo rumeno non possono perdonargli l’acquisizione del diritto di cittadinanza,
l’accesso alle professioni liberali. L’odio antisemita monta la guardia nelle univer
sità. Si accanisce contro gli studenti israeliti. Reclama l’adozione del Numerus
Clausus, che consiste nel ridurre al minimo il numero degli israeliti ammessi agli
studi universitari.
Il Numerus Clausus è vigente da tempo in Ungheria, dove alla sconfitta della
rivoluzione comunista seguì un periodo di terrore antisemita. La persecuzione dei
comunisti, non meno feroce della persecuzione dei cristiani nell’età romana impe
riale, fu caratterizzata da una serie di pogrom. Gli ebrei, sotto questo regime di ter
rore, persero praticamente ogni diritto alla tutela delle leggi e dei tribunali. Gli si
attribuiva la responsabilità della rivoluzione sovietica. Un israelita, Bela Khun, non
era stato il presidente della Repubblica Socialista Ungherese? Questo fatto sembra
va sufficiente per condannare tutta la razza ebraica ad una spietata repressione.
Nonostante il tempo trascorso da allora, il furore antisemita non si è ancora placato.
Il fascismo ungherese lancia periodicamente le sue squadre contro gli ebrei. I loro
soprusi - fatti in nome di un sedicente cristianesimo - hanno provocato ultimamen
te u n ’accesa protesta da p arte del Cardinale C sernoch, P rincipe Prim ate di
Ungheria. Il Cardinale ha negato con indignazione agli autori di questi «atti abomi
nevoli» il diritto di invocare il cristianesimo per giustificare i propri fanatismi.
«Dall’alto di questo seggio millenario - ha detto - io grido che sono uomini senza
fede e senza legge».
Nell’Europa Occidentale l’antisemitismo non presenta la stessa violenza. Il clima
morale, l’ambiente storico, sono diversi. Il problema ebraico assume forme meno
acute. L’antisemitismo, inoltre, è meno potente ed esteso. In Francia si trova loca
lizzato nel ridotto, sebbene chiassoso settore dell’estrema destra. Il suo focolaio è
L ’Action Franqaise. Il suo sommo pontefice, Charles Maurras. In Germania, dove la
rivoluzione suscitò un acre fermento antisemita, l’antisemitismo è predominante
solo in due partiti: il Deutsche national e quello fascista. Il razzismo che ha in
Luddendorf il suo più alto condottiere vede nel socialismo una diabolica elabora55
zione dell’ebraismo. Ma all’interno della stessa destra un vasto settore non prende
sul serio queste superstizioni. Nel Volks Partei milita quasi tutta la plutocrazia industriale e finanziaria - israelita.
La reazione, in genere, ha certamente, in tutto il mondo, una tendenza antisemita.
Israele combatte sul fronte della democrazia e della Rivoluzione. Uno scrittore antise
mita e reazionario, Georges Batault, riassume la situazione in questa formula: «Mentre
gli ebrei internazionali giocano due carte - Rivoluzione e Società delle Nazioni - l’anti
semitismo gioca la carta nazionalista». Lo stesso scrittore aggiunge che dal sionismo ci
si può attendere una soluzione del problema ebraico. I nazionalismi europei lavorano
per creare un nazionalismo ebraico. Perché pensano che la costituzione di una nazione
ebraica libererebbe il mondo dalla razza semita. E, soprattutto, perché non possono
concepire la storia se non come una lotta di nazionalismi nemici e d’imperialismo belli
gerante.
{Trad, di Elina Patanè)
«Poeti nuovi e poesia vecchia», pubblicato su «Mundial» il 24 ottobre 1924, è stato inclu
so nel voi. II delle Obras completas, Peruanicemos al Perù. Dopo il ciclo delle conferen
ze sulla crisi mondiale e dopo la brusca interruzione della sua attività causata dall’ampu
tazione di una gamba, è uno degli scritti che, a partire dall’espressione letteraria, segnano
l’inizio di uno studio sistematico della realtà nazionale.
Poeti nuovi e poesia vecchia
I giochi floreali mi hanno messo in contatto con la nuova generazione di poeti
peruviani. Le mie vicissitudini e i miei studi cosmopoliti mi avevano distaccato dalle
cose e dalle emozioni che qui si mettono in rima. Ancora oggi non credo di essere
molto informato sulla qualità o sul numero dei poeti giovani; ma lo sono sulla tempera
tura e sull’umore della loro poesia. Naturalmente, i giochi floreali non hanno attratto
tutti i poeti nuovi. I più intimi, i più riservati, i più originali hanno scontrosamente
rifiutato il loro contributo.
In parte capisco e condivido il sentimento che li ha tenuti lontani dalla festa. I
giochi floreali sono una cerimonia provinciale, pacchiana, medioevale. E, inoltre, qui
appaiono come un’usanza straniera e posticcia. Posso capire che quella coreografia
anacronistica non seduce tutti i poeti. Il verdetto definitivo della giuria non deve
essere inteso, di conseguenza, come un giudizio sommario sulla poesia dell’ultima
generazione.
Al di fuori dei giochi floreali ho conosciuto diversi poeti che meritano di essere
trattati in altro modo. Su nessuno di loro si può ancora dire una parola definitiva. Le
loro personalità si stanno formando. Ci hanno però già dato alcune anticipazioni
assai nobili del loro futuro. Luis Berninzone possiede una potente fantasia che ha
solo bisogno di trovare una forma meno retorica e un gusto meno ornamentale.
Armando Bazàn, che ha avuto con il pubblico appena qualche furtivo contatto, è già
un interprete profondo del sentimento tragico della vita. Juan Maria Merino Vigil
mostra nei suoi versi e nella sua prosa, un temperamento lirico e panteista dalle sfu
mature insolite. Juan Luis Velasquez, bambino-poeta o poeta-bambino, possiede la
divina incoerenza degli ispirati. Nel suo piccolo libro ci sono alcuni belli spropositi e
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due o tre note ammirevoli. Jacobo Hurwitz non va giudicato per il suo primo libro,
che contiene, comunque, alcune emozioni originali e penetranti. Magda Portai è
qualcosa di molto raro e molto prezioso nella nostra letteratura: una poetessa. Mario
Chàvez ama il funambolismo aggressivo e pittoresco dei futuristi. La sua poesia è un
fuoco d’artificio policromo e stridente. Intorno a me si parla molto e molto bene di
Juan José Lora, inedito fino ad oggi. E, probabilmente, il numero dei poeti di questa
generazione è ancora maggiore. Non cerco di enumerarli né di qualificarli tutti nel
mio elenco.
Non ci mancano poeti nuovi. Ciò che ci manca, in realtà, è nuova poesia. I giochi
floreali hanno riunito, sul tavolo della giuria, un esiguo campionario di cianfrusaglie
sentimentali, di zeppe volgari e di trucchi screditati. La monotonia di questo paesag
gio poetico ha spinto, indubbiamente, Luis Alberto Sànchez a negare, nel suo vigo
roso discorso, che la tristezza sia l’elemento essenziale nella nostra poesia. Questa
poesia, dice Sànchez, non è triste ma malinconica. Triste è Vallejo, ma non Ureta. Io
aggiungo che, più che malinconico, il tono della nostra poesia è ipocondriaco. Ma
non accetto la tesi che questi versi siano estranei all’ambiente. Non è vero che la
nostra gente è allegra. Qui non c’è né c’è mai stata allegria. La nostra gente ha quasi
sempre un umore annoiato, astenico e grigio. È amante della bisboccia ma non gio
conda. La bisboccia è una forma della sua astenia. Ci manca l’euforia, ci manca la
gioventù degli occidentali. Siamo più asiatici che europei. Quanto sembra vecchia e
stanca questa giovane terra sudamericana in confronto alla vecchia Europa! Non si
può sapere, non ce se ne rende conto se non quando, in un ambiente occidentale, si
confronta la nostra psicologia con quella europea. L ’europeo possiede una sponta
nea attitudine organica a credere che la vita è bella; noi a immaginarla triste, noiosa,
pesante. «La vita è bella e degna di essere magnificamente vissuta» dice D ’Annunzio
e la sua frase riflette l’ottimismo del suo popolo appassionato, voluttuoso e panteista.
Il creolo è insensibile all’ingenuità dei «Lieder» tedeschi e scandinavi. Non capisce
l’effusione, la pienezza con cui l’europeo si dà integralmente, senza riserve all’allegria
e al piacere di una festa. E non sa nemmeno che l’europeo, con la stessa effusione e
la stessa pienezza, si dà interamente alla vita. Qui l’ubriachezza è malinconica o liti
giosa e gli ubriachi, senza sapere perché, piangono o litigano. Sebbene una conven
zione letteraria e ridicola ci annetta alla razza latina - latini, noi! - la nostra anima
gialla o malinconica non fraternizzerà mai con la bionda anima degli occidentali.
Non capiremo mai il valore euforico del cielo azzurro né dei verdi grappoli del
Latium. Perfino la voluttuosità, perfino il piacere qui sono un pò di malumore e
scontenti. Eros è brontolone e agrodolce. La nostra gente sembra quasi sempre infa
stidita, scoraggiata, nostalgica. Le battute di spirito galleggiano su un lago malato, su
una palude di tedio.
La tristezza, come tutte le cose, ha le sue qualità e le sue gerarchie. La nostra
gente soffre di una tristezza superficiale e insipida. Per questo, Luis Alberto la
chiama malinconia. Attraverso la letteratura e la vita europea è passata una gelida
ventata di pessimismo e di scoramento. Andrejev, Gorkij, Blok, Barbusse, sono tri
sti. Pirandello stesso, nel suo scetticismo e relativismo, lo è. L ’umorismo e lo scetti
cismo contemporanei sono amari. Appaiono come il sorriso di un’anima disincan
tata. Ma i creoli non sono tristi in questo modo. Non sono nemmeno disperatamente, tragicamente, wertherianamente tristi. Per questo la nostra poesia non ha
distillato l’aspro succo, le «amare gocce» della poesia di José Asuncion Silva; le
radici della malinconia creola, soprattutto della malinconia limegna, non sono
molto profonde né molto eccelse. I suoi germi sono la povertà, l’anemia, la limita
tezza, il provincialismo dell’ambiente. La gente, qui, ha orizzonti spirituali e mate
riali molto modesti. Ed è, in parte, per questa causa grossolana, che si annoia e
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sbadiglia. Inoltre, si nutre troppo di cattive letture spagnole. Abbondano, nella
nostra poesia, mediocri rapsodie di motivi musicali flamenchi o spagnoli. Anche il
clima e la meteorologia devono influire su questa cronica depressione delle anime.
La malinconia peruviana è la foschia persistente e invincibile di un tropico senza
grande sole e senza grandi tempeste. Il Perù non è solo Lima; in Perù ci sono,
come in altri paesi, albe e tramonti magnifici, cieli azzurri, nevi candide, ecc. Ma
Lima dà l’esempio e impone le mode. La sua irradiazione sulla vita spirituale delle
province è intensa e costante. Solo i temperamenti forti - César Vallejo, César
Rodriguez, ecc. - sanno resistere alla sua molle influenza. Questa malinconia, infi
ne, non sarà un semplice prodotto biliare? «In amore e in altre cose di minore
importanza tutto dipende dalla digestione» dice Luis C. Lopez. La cosa evidente è
che viviamo dentro un circolo vizioso. La poesia malinconica annoia la gente e la
noia della gente secerne poesia malinconica. Qualcuno dei nostri poeti dovrebbe
confessarsi con un medico e dirgli, come nei versi di Silva: «Dottore, un disincanto
della vita, ecc.». Il medico gli darebbe, sempre come nei versi di Silva, varii consi
gli igienici e una diagnosi dolorosa.
È vero che il mondo moderno è nevrastenico e un poco stanco, ma la nevrastenia
delle grandi città è di un altro genere ed è anche molto complessa, molto profonda e
molto pittoresca. La nevrastenia nella nostra gente è artificiale e monotona. La sua
stanchezza è la stanchezza di quelli che non hanno fatto niente.
E non è il caso di parlare di modernismo. Il modernismo non è solo questione di
forma, bensì, soprattutto, di sostanza. Non è m odernista chi si accontenta di
un’audacia o di un’arbitrarietà esteriori di sintassi o di metro. Sotto l’abito pacchia
namente nuovo, si avverte intatta la vecchia sostanza. Perché trasgredire la gramma
tica se gli ingredienti spirituali della poesia sono gli stessi di venti o cinquanta anni
fa? «Il faut ètre absolument moderne», come diceva Rimbaud; ma bisogna essere
m oderni spiritualm ente. Qui si respira, generalm ente, nei dom ini d ell’arte e
dell’intelletto, un passatismo incurabile e malaticcio. I nostri poeti si rifugiano, volut
tuosamente, nell’evocazione e nella nostalgia più puerili, come se ciò che attualmente
li circonda fosse privo di emozione e di interesse. Non osano domare la bellezza se
non quando la ritengono sufficientemente familiare. Il futurismo, il dadaismo, il
cubismo, nelle grandi città sono un fenomeno spontaneo, un prodotto genuino della
vita. Il nuovo stile della poesia è cosmopolita e urbano. È la spuma di una civiltà
ultrasensibile e sublimata. Non è accessibile pertanto, a un ambiente provinciale. E
una moda che qui non trova gli elementi necessari per acclimatarsi. E il profumo, è
l’effluvio lirico dello spirito umoristico, scettico, relativista della decadenza borghe
se. Questa poesia, senza solennità e senza drammaticità, che aspira ad essere un
gioco, uno sport, una piroetta, tra di noi non fiorirà.
Non è neanche il caso di parlare di decadenza della poesia peruviana. Può decadere
solo ciò che una volta è stato grande. E basterà una rapida ricerca a convincerci che la
poesia di ieri non era migliore della poesia di oggi. I poeti di oggi non usano come
quelli di ieri, chiome molto lunghe e camice molto sporche, quanto a igiene e ad esteti
ca hanno guadagnato parecchio. Le brezze e le navi portano dall’occidente un polline
nuovo. Alcuni artisti della nuova generazione hanno ormai capito che la torre d’avorio
era la triste cella di un’anima esangue e anemica. Abbandonano il grigio ritornello della
malinconia, e si avvicinano al dolore sociale che rivelerà loro un mondo meno limitato.
Da questi artisti possiamo sperare in una poesia più umana, più feconda, più sponta
nea, più biologica.
(Trad, di Maria Antonietta Peccianti)
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Nella ricerca sulla realtà peruviana occupa un posto di rilievo «Vite parallele: E.D. Morel
- Pedro S. Zulen», apparso in «Mundial» il 6 febbraio 1925 e ora raccolto in
Peruanicemos al Perù. Accostando tra di loro due figure caratterizzate da un grande slan
cio ideale, coglie l’occasione per esaltare uno dei pionieri dell’indigenismo peruviano e di
proporre un modello di uomo nuovo per il paese in costruzione.
Vite parallele: E.D. Morel - Pedro S. Zulen
Chi, tra di noi, avrebbe dovuto scrivere l’elogio del grande professore di idealismo
E.D. Morel? Tutti quelli che conoscono i tratti essenziali dello spirito di E.D. Morel
risponderanno, senza dubbio, Pedro S. Zulen. Quando, alcuni giorni fa, vidi sulla
stampa europea la notizia della morte di Morel, pensai che questa «figura della vita
mondiale» apparteneva, soprattutto, a Zulen. E incaricai Jorge Basadre di comunicare
a Zulen che E.D. Morel era morto. Zulen era molto più vicino a Morel di me. Nessuno
poteva scriver su Morel con più aderenza alla sua personalità né con più emozione
rispetto alla sua opera.
Oggi questa associazione di Morel a Zulen si accentua e si precisa nella mia cono
scenza. Penso che si tratti di due vite parallele. Non di due vite simili, ma solamente di
due vite parallele, nel senso che il concetto di vite parallele ha in Plutarco. Sotto gli aspet
ti esteriori delle due vite, così lontane nello spazio, si scopre la trama di un’affinità spiri
tuale e di una parentela ideologica che le avvicina nel tempo e nella storia. Le due vite
hanno in comune, in primo luogo, un profondo idealismo. Sono mosse da una fede osti
nata nella forza creatrice dell’ideale e dello spirito. Sono possedute dal sentimento della
propria predestinazione a un apostolato umanitario e altruista. Zulen e Morel sono, inol
tre, accomunati e uniti da un’onesta e integra estrazione democratica. Il pensiero di
Morel e di Zulen appare nutrito analogamente dall’ideologia della democrazia pura.
Focalizziamo gli episodi essenziali della biografia di Morel.
Prima della guerra mondiale, Morel occupa già un posto tra gli uomini d’avanguar
dia della Gran Bretagna. Denuncia implacabilmente i metodi brutali del capitalismo in
Africa e in Asia. Insorge in difesa dei popoli coloniali. Diventa il sostenitore più vee
mente dei diritti degli uomini di colore. Una civiltà che assassina e rapina gli indigeni
d’Asia e d’Africa è, per Morel, una civiltà criminale. E la voce del grande europeo non
grida nel deserto. Morel riesce a mobilitare contro 1’imperialismo dispotico e marziale
dell’Occidente molti spiriti liberi, molte coscienze indipendenti. L’imperialismo bri
tannico trova uno dei suoi giudici più implacabili in questo austero fautore della demo
crazia. Più tardi, quando la febbre bellica, che la guerra diffonde in Europa, sconvolge
e intossica l’intelligenza occidentale, Morel è uno degli intellettuali che si mantengono
fedeli alla causa della civiltà. Milita attivamente ed eroicamente in quello storico grup
po di coscientious objectors che, in piena guerra, afferma coraggiosamente il proprio
pacifismo. Con i più puri ed eminenti intellettuali inglesi - Bernard Shaw, Bertrand
Russell, Normal Angeli, Israel Zangwill - Morel difende le prerogative della civiltà e
dell’intelligenza di fronte alla guerra e alla barbarie. La sua propaganda pacifista, come
segretario della Union o f Democratic Control, gli fa subire un processo. I giudici lo con
dannano a sei mesi di prigione nell’agosto del 1917. Questa condanna, nonostante il
silenzio della stampa, mobilitata militarmente, ha un’ampia ripercussione europea.
Romain Rolland, in Svizzera, scrive una vibrante difesa di Morel. «Per tutto ciò che so
di lui, - dice - per la sua attività anteriore alla guerra, per il suo apostolato contro i cri
mini della civiltà in Africa, per i suoi articoli di guerra, riprodotti molto raramente
nelle riviste svizzere o francesi, io lo stimo come un uomo di grande coraggio e di forte
fede. Ha osato sempre servire la verità, servirla, esclusivamente, senza curarsi dei peri59
coli e dell’odio accumulatisi contro la sua persona, e cosa molto più rara e difficile,
senza curarsi delle sue stesse simpatie, delle sue amicizie, della sua patria stessa, quan
do la verità si trovava in disaccordo con la sua patria. Da questo punto di vista, egli è
della stirpe di tutti i grandi credenti: cristiani dei primi tempi, riformatori del secolo
delle battaglie, liberi pensatori delle epoche eroiche, tutti quelli che hanno posto al di
sopra di tutto la propria fede nella verità, sotto qualsiasi forma si presenti loro, divina o
laica, sempre sacra». Tornato libero, Morel riprende la sua campagna. Per la Union of
Democratic Control arrivano tempi migliori. Alle elezioni del 1921 Ylndipendent
Labour Party oppone la sua candidatura a quella di Winston Churchill, il più aggressi
vo caporione dell’antisocialismo britannico, nel distretto elettorale di Dundee. E, ben
ché Morel sia del tutto diverso dal tipo del politico o dell’agitatore di professione, la
sua vittoria è completa. La vittoria si ripete alle elezioni del 1923 e in quelle del 1924.
Morel si distingue tra le più illustri figure intellettuali e morali del Labour Party.
Appare, in tutto il vasto scenario mondiale, come uno dei sostenitori più illustri della
Pace e della Democrazia. Voci dell’Europa, dell’America e dell’Asia chiedono, per
Morel, il premio Nobel per la pace. In questo istante, lo abbatte la morte.
«La morte di E.D. Morel - scrive Paul Colin in “Europe” - è un capitolo della
nostra vita che si chiude e uno di quelli ai quali penseremo più tardi con intensa emo
zione. Poiché lui era, con Romain Rolland, il simbolo stesso dell’Indipendenza dello
Spirito. Il suo invincibile ottimismo, la sua indomabile onestà, la sua modestia calvini
sta, la sua bella intransigenza, tutto contribuiva a fare di quest’uomo una guida, un
consigliere, un capo spirituale».
Come dice Colin, tutto un capitolo della storia del pacifismo finisce con E.D.
Morel. Morel è stato uno degli ultimi grandi idealisti della democrazia. Appartiene
alla categoria degli uomini che, eroicamente, hanno fatto il processo al capitalismo
europeo e ai suoi crimini ma che non hanno potuto né hanno saputo eseguire la
loro condanna.
II
Rivendichiamo per Pedro S. Zulen, prima di tutto, l’onore e il merito di aver salva
to il proprio pensiero e la propria vita dall’influenza della generazione con la quale gli
toccò convivere nella sua giovinezza. Il passatismo di una generazione conservatrice e
persino tradizionalista che, per uno di quei capricci del paradossale lessico creolo, è
tuttora detta generazione «futurista» e che non è riuscita a depositare i suoi tarli nella
mentalità di quest’uomo buono e inquieto. Non riuscirono a sedurla nemmeno il
decadentismo e l’estetismo della generazione «colónida». Zulen si è mantenuto al
margine di entrambe le generazioni. Con i «colónidas» condivideva l’ammirazione per
il poeta Eguren; ma dal «colonidismo» lo separava in modo assoluto la sua indole
austera e ascetica.
La giovinezza di Zulen ci offre la prima concreta analogia con E.D. Morel, Zulen
dirige lo sguardo sul dramma della razza peruviana. E, con una abnegazione nobilis
sima, si consacra alla difesa dell’indigeno. La Secretarla de la Associación ProIndigena assorbe, consuma le sue energie. La rivendicazione dell’indio è il suo ideale.
Alle redazioni dei quotidiani arrivano ogni giorno le denunce dell’Associazione. Ma,
meno fortunato di Morel in Gran Bretagna, Zulen non ottiene l’adesione alla sua
opera di molti spiriti liberi. Tuttavia la porta avanti con lo stesso fervore, quasi da
solo, in mezzo all’indifferenza di un ambiente gelido. L'Asociación Prò-Indigena può
servirci per constatare l’impossibilità di risolvere il problema dell’indio mediante
patronati o leghe filantropiche, e a dirci la misura del grado di insensibilità morale
della coscienza creola.
60
Sparisce la Asociación Pro-lndigena, ma la causa dell’indio trova sempre in Zulen il
suo principale propugnatore. A Jauja, dove lo porta la sua malattia, Zulen studia
l’indio e ne impara la lingua. In Zulen matura, lentamente, la fede nel socialismo. E
una volta si rivolge agli indios in termini che allarmano e infastidiscono la perfetta stu
pidità dei caciques e dei funzionari provinciali. Zulen viene arrestato. La sua posizione
rispetto al problema indigeno si fa ogni giorno più precisa e definita. Né la filosofia né
l’Università lo allontaneranno dalla più forte passione della sua anima.
Ricordo il nostro incontro al Terzo Congresso Indigeno, un anno fa. Il palco e le
prime panche della sala della Federación de Estudiantes erano occupate da una vario
pinta folla indigena. Nelle panche di dietro erano seduti i due unici spettatori
dell’Assemblea. I due unici spettatori eravamo Zulen ed io. Nessun’altro era stato
attratto dal dibattito. Il nostro dialogo di quella notte avvicinò definitivamente i nostri
spiriti.
E ricordo un altro incontro ancora più commovente: l’incontro di Pedro S. Zulen
con Ezequiel Urviola, organizzatore e delegato delle federazioni indigene di Cuzco, a
casa mia, tre mesi fa. Zulen e Urviola si rallegrarono reciprocamente di essersi cono
sciuti. «Il problema indigeno - disse Zulen - è l’unico problema del Perù».
Zulen e Urviola non si sono più visti. Sono morti entrambi lo stesso giorno.
Entrambi, l’intellettuale erudito e universitario e l’umile agitatore, sembrano aver
avuto una stessa morte e uno stesso destino.
(Trad, di Maria Antonietta Peccianti)
«Eterodossia della tradizione», pubblicato su «Mundial» il 25 novembre 1927 e ora
raccolto in Peruanicemos al Perù, è uno dei momenti più alti e originali della rifles
sione teorica maridteguiana. In esso si definisce una nuova nozione di tradizione,
contrapposta alla visione fossile dei tradizionalisti. Questo concetto rivoluzionario di
tradizione sarà uno dei motivi di fondo che ispireranno la sua analisi della realtà
nazionale.
Eterodossia della tradizione
Ho scritto alla fine del mio articolo Rivendicazione di Jorge Manrique: «Con la sua
poesia ha a che fare la tradizione, ma non i tradizionalisti. Perché la tradizione è, in
contrasto con quello che vogliono i tradizionalisti, viva e mobile. La creano coloro che
la negano per rinnovarla e arricchirla. L’uccidono coloro che la vogliono morta e fissa,
prolungamento di un passato in un presente senza la forza di inserire in essa il proprio
spirito e di mettere in essa il proprio sangue».
Queste parole meritano di essere immediatamente ribadite e spiegate. Da quando
le ho scritte, mi sento impegnato a inaugurare una tesi rivoluzionaria sulla tradizione.
Parlo, è chiaro, della tradizione intesa come patrimonio e continuità storica.
E vero che i rivoluzionari la rinnegano e la ripudiano in blocco? Ciò è quello che
pretendono coloro che si accontentano della formula gratuita: rivoluzionari iconoclasti.
Ma sono solo iconoclasti i rivoluzionari? Quando Marinetti invitava l’Italia a vendere i
suoi musei e i suoi monumenti, voleva solo affermare la potenza creativa della sua
patria, troppo oppressa dal peso di un passato glorioso al punto di essere schiacciante.
Sarebbe stato assurdo prendere alla lettera il suo impetuoso estremismo. Ogni dottrina
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rivoluzionaria agisce sulla realtà attraverso negazioni intransigenti che è possibile capi
re solo interpretandole nella loro funzione dialettica.
I veri rivoluzionari, non procedono mai come se la storia cominciasse con loro.
Sanno di rappresentare forze storiche, la cui realtà non permette che essi si compiac
ciano con l’illusione verbale avanguardista di inaugurare tutte le cose. Marx estrasse
dallo studio complessivo dell’economia borghese i suoi principi di politica socialista.
Tutta l’esperienza industriale e finanziaria del capitalismo si trova nella sua dottrina
anticapitalista. Proudhon, di cui tutti conoscono la frase iconoclasta, ma non l’opera
estesa, fondò i suoi ideali su una complessa analisi delle istituzioni e dei costumi socia
li, esaminando dalle radici perfino il suolo e l’aria di cui si nutrirono. E Sorel, in cui
Marx e Proudhon si riconciliano, si mostrò profondamente preoccupato non solo della
formazione della coscienza giuridica del proletariato, ma anche dell’influenza
dell’organizzazione familiare e dei suoi stimoli morali, sia nel meccanismo della produ
zione che nell’intero equilibrio sociale.
Non bisogna identificare la tradizione con i tradizionalisti. Il tradizionalismo non mi riferisco alla dottrina filosofica ma a un atteggiamento politico e sentimenta
le che si risolve invariabilmente in mero conservatorismo - è, in realtà, il maggiore
nemico della tradizione. Perché si ostina, in maniera interessata, a definirla come un
insieme di reliquie inerti e di simboli estinti. E a compendiarla in una ricetta angu
sta e unica.
La tradizione, invece, si caratterizza proprio per la sua resistenza a lasciarsi rinchiu
dere in una formula ermetica. Come risultato di una serie di esperienze, - cioè di tra
sformazioni successive della realtà sotto l’azione di un ideale che la supera consultan
dola e la modella obbedendo ad essa -, la tradizione è eterogenea e contraddittoria
nelle sue componenti. Per ridurla a un concetto unico, è necessario accontentarsi della
sua essenza, rinunciando alle sue diverse cristallizzazioni.
I monarchici francesi costruiscono tutta la loro dottrina sulla convinzione che la
tradizione francese sia fondamentalmente aristocratica e monarchica, un’idea concepi
bile soltanto da gente completamente ipnotizzata dall’immagine della Francia di Carlo
Magno. René Johannet, anche lui reazionario, ma di un’altra stirpe, sostiene che la tra
dizione francese è assolutamente borghese e che la nobiltà, sulla quale ripongono le
loro speranze regressive Maurras e i suoi amici, è improponibile come classe dirigente
da quando, per sopravvivere, ha dovuto imborghesirsi. Ma la fase sociale della
Francia.sono le sue famiglie contadine, i suoi artigiani laboriosi. E dimostrato il ruolo
svolto dagli «scamiciati» nel periodo culminante della rivoluzione borghese. Di modo
che se nella prassi del socialismo francese entrasse la declamazione nazionalista, il pro
letariato della Francia potrebbe anch’esso scoprire nel suo paese, senza troppa fatica,
un’importante tradizione operaia.
Questo ci rivela che la tradizione appare particolarmente invocata, e perfino fatta
propria in maniera fittizia, da coloro che sono meno adatti a ricrearla. Di ciò, nessuno
deve meravigliarsi. Il passatista ha sempre il destino paradossale di capire il passato
molto meno del futurista. La facoltà di pensare la storia e la facoltà di farla o di crearla,
si identificano. Il rivoluzionario ha del passato un’immagine forse un po’ soggettiva,
ma animata e viva, mentre il passatista è incapace di rappresentarselo nella sua natura
inquieta e fluida. Chi non è capace di immaginare il futuro, non è nemmeno capace, in
genere, di immaginare il passato.
Non esiste, quindi, un conflitto reale tra il rivoluzionario e la tradizione, se non per
coloro che concepiscono la tradizione come un museo o una mummia. Il conflitto è
effettivo solo con il tradizionalismo. I rivoluzionari incarnano la volontà della società di
non fossilizzarsi in uno stadio, di non immobilizzarsi in un atteggiamento. A volte la
società perde questa volontà creativa, paralizzata da una sensazione di esaurimento e di
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disincanto Ma allora si constata, inesorabilmente, il suo invecchiamento e la sua deca
denza.
La tradizione di questa epoca, la stanno facendo quelli che sembrano a volte nega
re, in maniera iconoclasta, ogni tradizione. A loro appartiene, almeno, la parte attiva.
Senza di essi, la società accuserebbe l’abbandono o l’abdicazione della volontà di vive
re rinnovandosi e superandosi incessantemente.
Maurice Barrès ha lasciato in eredità ai suoi discepoli una definizione abbastanza
funebre della Patria. «La Patria è la terra e i morti».
Lo stesso Barrès era un uomo dall’aria funebre e mortuaria che, secondo Valle
Inclàn, assomigliava fisicamente a un corvo bagnato. Ma le generazioni postbelliche si
trovano di fronte al dilemma di seppellire con le spoglie di Barrès il suo pensiero di
“paysan” solitario dominato dal culto eccessivo del suolo e dei suoi defunti o di rasse
gnarsi a venire sepolta anch’essa dopo essere sopravvissuta senza un pensiero proprio,
nutrito del suo sangue e delle sue speranze. Identica è la sua situazione di fronte al tra
dizionalismo.
{Trad, di Antonio Metis)
«L’opera di José Sabogal», pubblicato su «Mundial» il 28 giugno 1928, e poi
incluso nel voi. 6 delle Obras completas, E1 artista y la època, fa parte della campa
gna di Mariàtegui a favore dell’arte indigenista. A Sabogal, tra l’altro, si deve la pro
posta del titolo «Amauta» per la rivista fondata nel 1926, oltre che il disegno della
sua copertina.
L’opera di José Sabogal
L’opera di José Sabogal, che questa settimana parte per Buenos Aires, guada
gnerà in divulgazione e fama continentali tutto quello che, custodita tra le mura con
ventuali della Escuela de Bellas Artes, non gli era consentito di raggiungere né di pre
tendere, nonostante i suoi solidi meriti artistici. Buenos Aires è il maggiore mercato
artistico e letterario dell’America Latina. Si può giudicare prematura la sua ambizio
ne al titolo di meridiano - grido di guerra dei suoi gruppi di avanguardia, in opposi
zione e risposta a una nostalgica e inopportuna rivendicazione di Madrid - ma ogget
tivamente dobbiamo convenire che, per il numero dei suoi abitanti, per la sua qualità
di urbe grande e prospera, per il suo grado crescente di comunicazione con la mag
gior parte dei paesi del Sudamerica e per la quantità e qualità dei suoi elementi cul
turali, Buenos Aires ormai, assolve, sotto molti aspetti, alla funzione di capitale suda
mericana.
Sebbene si mescolino a Buenos Aires molte correnti internazionali - o proprio
per questo - l’urbe più cosmopolita dell’America Latina partecipa con attento inte
resse e viva speranza, sotto il profilo intellettuale e artistico, alla formazione di uno
spirito indo-americano fondato sui valori indigeni e creoli. L’arte di Sabogal, che
costituisce un grande apporto a questo lavoro di definizione della cultura e della per
sonalità indo-americana, è destinata a impressionare straordinariamente l’intelligenza
e la sensibilità argentine.
Nell’elaborazione di quest’opera non appare in nessun momento né l’improvvisa
zione né l’artificio. Il suo è un processo biologico, spontaneo, ordinato. Sabogal pos
siede le qualità del costruttore. Senza fretta, senza impazienza, aspetta il momento
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giusto. La sua arte si identifica con la sua vita, completamente colma del piacere e
della fatica della creazione.
E gli oli e le xilografie che porta a Buenos Aires hanno per noi il valore di non
costituire soltanto un insieme di opere artistiche riuscite, ma di significare uno dei
fattori spirituali della nuova peruvianità. Sebogai dipinge senza la preoccupazione
della tesi. La pittura in sé gli basta. La sua opera è puramente plastica, pittorica. Ma
questo non impedisce che, a causa di una certa intima assonanza con sentimenti e
rivendicazioni del momento, vada oltre e influisca potentemente sulla vita attuale del
Perù. Il pittore pensa e sogna in immagini plastiche. Ma nel processo spirituale di un
popolo, le immagini di un pittore sono a volte espressione culminante. Le immagini
generano concetti, allo stesso modo che i concetti ispirano immagini. Sabogal appare
così per il suo lavoro, estraneo nella sua intenzione a ogni implicazione ideologica,
come uno dei costruttori del futuro di questo popolo.
Ripeterò su Sabogal alcune cose che ho già espresso. Che indica con la sua opera
un capitolo della storia dell’arte peruviana. È uno dei nostri valori-simbolo. Solida,
onesta, vitale, la sua opera non esige gli elogi che, tra di noi, si prodigano così facil
mente e con poca spesa. Una consacrazione locale la sminuirebbe invece di avvalo
rarla. Sabogal non è ancora molto conosciuto; ma questo non lo preoccupa e ha
ragione. Ciò che importa è che a suo tempo sia «riconosciuto». E questo «riconosci
mento» se lo è già assicurato con il lavoro che ha realizzato.
Sabogal è, prima di tutto, il primo «pittore peruviano». Prima di lui avevamo
avuto alcuni pittori, ma propriamente «pittori peruviani» non ne avevamo avuto
nessuno. Sabogal rivendicherà questo titolo probabilmente per qualcuno di quegli
indios che, in modo anonimo ma a volte geniale, decorano mates* sulla sierra. Ma,
anche se questa asserzione contiene un poco di verità, allo stesso modo ha anche
un tocco di ironia. Quello stesso tocco di ironia che a Sabogal piace mettere nel
suo linguaggio. L ’indigenismo continua a soffrire un evidente ostracismo della
peruvianità. L ’impegno degli spiriti nuovi vuole, appunto, porre fine a questo
ostracismo.
Lo spirito di Sabogal è maturato in un momento in cui si osserva la decadenza,
la dissoluzione dell’arte occidentale. Spirito forte e profondo di costruttore, di crea
tore, dotato di una sensibilità geniale, questa arte anarchica e individualista che,
secondo i suoi eleganti criteri ed esegeti, si disumanizza, non ha potuto conquistar
lo. E stato in parte perché è arrivato in Europa in questo periodo di caos - in cui
non si concretizza e definisce per ora una corrente costruttiva, sebbene la prom etta
no le ricerche sincere e i tentativi intelligenti - che l’Europa non è riuscita a euro
peizzarlo. Ma a sua difesa ha avuto Sabogal, soprattutto, la sua personalità, il suo
istinto di artista.
Credo, tuttavia, nell’utilità della sua esperienza europea. Il contatto diretto con le
scuole e gli artisti di Europa, lo studio personale dei maestri di tutti i tempi, non solo
ha arricchito e affinato, senza dubbio, il suo temperamento e ha temprato la sua tec
nica, forgiata nella fucina di una rivoluzione artistica. Soprattutto lo ha aiutato - per
reazione contro un mondo nel quale si sentiva straniero - a scoprirsi e a riconoscersi.
La sua autonomia deve molto all’esperienza europea. Sabogal ha compreso o, per lo
meno, chiarito in Europa la necessità di un humus storico, di una radice vitale in
ogni grande creazione artistica. E se l’Europa non lo ha assimilato, in cambio lui ha
assimilato l’Europa, nella formazione della sua tecnica.
* Mate: zucca che quando è fresca viene incisa con il bulino e una volta secca conserva le
decorazioni, con scene di festa, danze ecc.
64
Non è l’interesse generico del pittore per i motivi pittoreschi e caratteristici, ciò
che ha spinto questo artista ammirevole a trovare la ricchezza plastica dell’elemento
autoctono. Sabogal sente i suoi temi. Si identifica con la natura e con la razza che
interpreta nei suoi quadri e nelle sue xilografie. Dopo di lui, si è diffusa la moda
dell’indigenismo nella pittura, ma chi possiede uno sguardo penetrante non potrà
mai confondere la profonda e austera versione che ci dà Sabogal del mondo indige
no, con quella che ci offrono tanti superficiali sfruttatori di questa vena plastica, di
cui si nutre adesso perfino la pittura turistica. Si potrebbe dire che nell’arte di
Sabogal rinascono elementi dell’arte incaica, a tal punto che si avverte la sua compe
netrazione con i temi vernacoli.
Severo con gli altri, ma severo anche con se stesso, come ogni autentico creatore,
Sabogal possiede l’integrità artistica di quei maestri prerinascimentali che tanto gli
sono cari. Non si trovano nella sua opera concessioni al mercato né civetterie con la
frivolezza dell’ambiente. Lavora per realizzarsi liberamente e pienamente. Per que
sto la sua opera appartiene già alla storia, mentre altre non andranno al di là della
cronaca.
(Trad, di Riccardo Radini)
«Esiste un pensiero ispanoamericano?», pubblicato su «Mundial» il 1° maggio 1923, oggi
fa parte del voi. 12 delle Obras completas, Temas de N uestra América. In esso
Mariàtegui afferma la sua visione sulle radici culturali dell’America latina respingendo
ogni tendenza a rimuovere in termini semplicistici la componente europea.
Esiste un pensiero ispano-americano?
Quattro mesi fa, in un articolo sull’idea di un congresso di intellettuali ibero-americani, formulai questa domanda. L’idea del congresso ha fatto, in quattro mesi, molta
strada. Ora appare come un’idea che, in maniera vaga ma simultanea, palpitava in vari
circoli intellettuali dell’America indo-iberica. Come un’idea che germinava allo stesso
tempo in diversi centri nevralgici del continente. Ancora schematica ed embrionale,
comincia oggi a svilupparsi e a prendere consistenza.
In Argentina, un gruppo energico e volitivo si propone di assumere la funzione di
animarla e realizzarla. Il lavoro di questo gruppo tende a collegarsi con quello della
maggior parte dei gruppi ibero-americani affini. Circolano fra questi gruppi alcuni
questionari che propongono o suggeriscono temi che deve discutere il congresso. Il
gruppo argentino ha tratteggiato il programma di una «Unione Latino-Americana».
Esistono, insomma, gli elementi preparatori di un dibattito, nel corso del quale si ela
boreranno e si preciseranno i fini e le basi di questo movimento di coordinamento o di
organizzazione del pensiero ispano-americano come, ancora un po ’ astrattamente,
sono soliti definirlo i suoi iniziatori.
II
Mi pare, pertanto, che è tempo di considerare e chiarire la questione proposta nel
mio articolo citato. Esiste ormai un pensiero tipicamente ispano-americano? Credo
che, a questo proposito le affermazioni dei fautori della sua organizzazione si spingano
65
troppo lontano. Certi concetti di un messaggio di Alfredo Palacios ai giovani universi
tari dell’America iberica hanno indotto, alcuni temperamenti eccessivi e tropicali, ad
una stima esorbitante del valore e della potenza del pensiero ispano-americano. Il mes
saggio di Palacios, entusiasta e ottimista nelle sue asserzioni e nelle sue frasi, come con
veniva al suo carattere di arringa o di proclama, ha generato una serie di esagerazioni.
E indispensabile, pertanto, una rettifica di questi concetti troppo categorici.
«La Nostra America - scrive Palacios - fino ad oggi ha vissuto d’Europa assumen
dola come guida. La sua cultura l’ha nutrita e orientata. Ma l’ultima guerra ha reso evi
dente ciò che si intuiva: che nel cuore di questa cultura c’erano i germi della sua stessa
dissoluzione». Non ci si può sorprendere che queste frasi abbiano stimolato un’inter
pretazione sbagliata della tesi della decadenza dell’Occidente. Palacios sembra annun
ciare una radicale emancipazione della Nostra America dalla cultura europea. Il tempo
del verbo si presta all’equivoco. Il giudizio del lettore semplicistico deduce dalla frase
di Palacios che «fino ad ora la cultura europea ha nutrito e orientato» l’America; ma
che a partire da oggi non la nutre e non la orienta più. Decide, almeno, che a partire da
oggi l’Europa ha perso il diritto e la capacità di influire spiritualmente e intellettual
mente sulla nostra giovane America. E questo giudizio si accentua e si esaspera, inevi
tabilmente, quando, alcune righe dopo, Palacios aggiunge che «non ci servono i per
corsi dell’Europa né le vecchie culture» e vuole che ci emancipiamo dal passato e
dall’esempio europei.
La Nostra America, secondo Palacios, si sente pronta a dare alla luce una cultura
nuova. Estremizzando questa opinione o questo augurio, la rivista Valoraciones parla
della necessità di «liquidare i conti con i luoghi comuni d’uso, espressioni agonizzanti
dell’anima decrepita dell’Europa».
Dobbiamo vedere in questo ottimismo un segno e un dato dello spirito afferma
tivo e della volontà creativa della nuova generazione ispano-americana? Penso di
riconoscere, prima di tutto, un tratto della vecchia e incurabile esaltazione verbale
della nostra America. La fiducia dell’America nel suo futuro non ha bisogno di ali
mentarsi di un’artificiosa e retorica esagerazione del suo presente. Va bene che
l’America si creda predestinata ad essere il focolare della futura civiltà. Va bene che
si dica: «per la mia razza parlerà lo spirito» *. Va bene che si consideri eletta per
insegnare al mondo una nuova verità. Ma non che si pensi sul punto di sostituire
l’Europa né che si dichiari ormai finita e tramontata l’egemonia intellettuale del
popolo europeo.
La civiltà occidentale è in crisi; ma non c’è ancora nessun indizio che stia per cade
re in un definitivo collasso. L’Europa non è, come si dice assurdamente, esaurita e
paralitica. Malgrado la guerra e il dopoguerra conserva il suo potere creativo. La nostra
America continua ad importare dall’Europa idee, libri, macchine, mode. Ciò che fini
sce, ciò che delinea, è il ciclo della civiltà capitalistica. La nuova forma sociale, il nuovo
ordine politico, si stanno plasmando nel seno dell’Europa. La teoria della decadenza
dell’occidente, prodotto del laboratorio occidentale, non prevede la morte dell’Europa
ma della cultura che lì ha sede. Questa cultura europea che Spengler giudica in deca
denza, senza per questo pronosticarle un decesso immediato, succedette alla cultura
greco-romana, anch’essa europea. Nessuno scarta, nessuno esclude la possibilità che
l’Europa si rinnovi e si trasformi ancora una volta. Nel panorama storico che domina il
nostro sguardo, l’Europa si presenta come il continente delle più grandi palingenesi. I
più grandi artisti, i più grandi pensatori contemporanei, non sono ancora europei?
L’Europa si nutre della linfa universale. Il pensiero europeo affonda nei più lontani
* Motto creato da José Vasconcelos per l’Università Nazionale del Messico.
66
misteri, nelle più antiche civiltà. Proprio per questo dimostra la sua possibilità di guari
re e di rinascere.
Ili
Torniamo al nostro problema. Esiste un pensiero tipicamente ispano-america
no? Mi pare evidente l’esistenza di un pensiero francese, di un pensiero tedesco,
ecc. nella cultura d ’Occidente. Non mi pare ugualmente evidente, nello stesso
senso, l’esistenza di un pensiero ispano-americano. Tutti i pensatori della nostra
America si sono educati ad una scuola europea. Non si sente nella loro opera lo spi
rito della razza. La produzione intellettuale del continente manca di tratti propri.
Non ha contorni originali. Il pensiero ispano-am ericano generalm ente non è
nient’altro che una rapsodia composta da motivi ed elementi del pensiero europeo.
Per provarlo basta passar in rassegna l’opera dei più alti rappresentanti dell’intelli
ghenzia indo-iberica.
Lo spirito ispano-americano è in fase di elaborazione. Anche il continente, la razza,
si stanno formando. Le alluvioni occidentali nelle quali si sono sviluppati gli embrioni
della cultura ispano e latino-americana, - in Argentina, in Uruguay si può parlare di
latinità - non sono riuscite a compenetrarsi né ad armonizzarsi col suolo sul quale la
colonizzazione d’America le ha depositate.
In gran parte della Nostra America costituiscono uno strato superficiale e indipen
dente nel quale non affiora l’anima indigena, umiliata e schiva, a causa della brutalità
di una conquista che in alcuni paesi ispano-americani non ha ancora cambiato meto
do. Palacios dice: «Siamo popoli nascenti, liberi da legami e da atavismi, con immense
possibilità e vasti orizzonti di fronte a noi. L’incrocio di razze ci ha dato un’anima
nuova. Dentro le nostre frontiere si accampa l’umanità. Noi e i nostri figli siamo una
sintesi di razze». In Argentina è possibile pensare così, in Perù e in altri paesi
dell’America ispanica, no. Qui la sintesi non esiste ancora. Gli elementi della naziona
lità in elaborazione non hanno ancora potuto fondersi o saldarsi. Il denso strato indi
geno si mantiene quasi totalmente estraneo al processo di formazione di questa peruvianità che sono soliti esaltare e gonfiare i nostri sedicenti nazionalisti, predicatori di
un nazionalismo senza radici sul suolo peruviano, imparato nei vangeli imperialisti
d’Europa e che, come già ho avuto l’occasione di rimarcare, è il sentimento più stra
niero e artificiale che esista in Perù.
IV
Il dibattito che comincia deve, appunto, chiarire tutti questi problemi. Non deve
preferire la comoda finzione di dichiararle risolte. L’idea di un congresso di intellettua
li ibero-americani sarà valida ed efficace, innanzitutto, nella misura in cui riuscirà a
proporle. Il valore dell’idea si trova quasi interamente nel dibattito che suscita.
Il programma della sezione argentina della accennata Unione Latino-Americana, il
questionario della rivista Repertorio Americano della Costa Rica e la discussione del
gruppo che qui lavora per il congresso, invitano gli intellettuali della nostra America a
meditare e ad esprimersi su tutti i problemi fondamentali di questo continente in for
mazione. Il programma della sezione argentina incoraggia uno spirito moderno e una
volontà rinnovatrice. Questo spirito, questa volontà, gli conferiscono il diritto di diri
gere il movimento. Perché il congresso, se non rappresenta e organizza la nuova gene
razione ispano-americana, non rappresenterà né organizzerà assolutamente niente.
(Trad, di Elisabetta Eineschi)
67
«U iberoamericanismo e il panamericanismo», uscito sempre in «Mundial» l’8 maggio
1925 e raccolto anch’esso in Temas de Nostra América, svolge una battaglia su due fron
ti. Da una parte contro gli anacronistici tentativi egemonici della Spagna, in nome delle
comuni matrici culturali. Dall’altra contro il panamericanismo degli Stati Uniti, che
maschera il progetto imperialista.
Libero-americanismo e il Pan-americanismo
i
L’ibero-americanismo riappare in forma sporadica nei dibattiti della Spagna e
dell’America spagnola. E un ideale o un tema che ogni tanto occupa il dialogo degli
intellettuali della lingua. (Mi pare che non si possa proprio dire gli intellettuali della
razza).
Ma ora la discussione ha una portata più ampia e un’intensità maggiore. Nei gior
nali di Madrid i luoghi comuni deU’ibero-americanismo suscitano, attualmente, un
notevole interesse. Il movimento di avvicinamento o di coordinamento delle forze
intellettuali ibero-americane, gestito e propugnato da alcuni nuclei di scritto della
nostra America, attribuisce oggi a questi luoghi comuni un valore concreto e un
nuovo rilievo.
Questa volta la discussione ripudia in molti casi, o almeno ignora, in altri, l’iberoamericanismo di protocollo (Ibero-americanismo ufficiale di don Alfonso, che si incar
na nella borbonica e decorativa stupidità di un infante e della cortigiana mediocrità di
Francos Rodriguez). L’ibero-americanismo si spoglia, nel dialogo degli intellettuali
liberi, di qualsiasi ornamento diplomatico. Ci rivela così la sua realtà di ideale per la
maggior parte dei rappresentanti dell’intellighenzia e della cultura della Spagna e
dell’America indo-iberica.
Il pan-americanismo, invece, non gode del favore degli intellettuali. Non conta,
in questa astratta e disorganica categoria, su adesioni degne di nota e di stima.
Raccoglie solo alcune larvate simpatie. La sua esistenza è esclusivamente diplomati
ca. Anche la mente più tarda scopre facilmente nel pan-americanismo un travesti
mento deU’imperialismo nordamericano. Il pan-americanismo non appare come un
ideale del continente; appare, piuttosto, inequivocabilmente, come un ideale natu
rale dell’Impero yankee. (Gli Stati Uniti, prima che una grande democrazia, come
amano definirli gli apologeti di queste latitudini, costituiscono un grande Impero).
Ma il pan-americanismo esercita - nonostante tutto questo, o meglio a causa di
tutto questo - una vigorosa influenza sull’America indo-iberica. La politica norda
mericana non si preoccupa troppo di far passare come un ideale del Continente
l’ideale dell’Impero. Non ha eccessivo bisogno del consenso degli intellettuali. Il
pan-americanismo ricama la sua propaganda su una forte maglia di interessi. Il capi
talismo yankee invade l’America indo-iberica. Le vie del traffico commerciale pana
mericano sono le vie di questa espansione. La moneta, la tecnica, le macchine e le
merci dominano sempre più nell’economia delle nazioni del Centro e del Sud. Per
questo l’Impero del nord può facilmente sorridere di una teorica indipendenza
dell’intelligenza e dello spirito deH’America indo-spagnola. Gli interessi economici
e politici gli assicureranno, a poco a poco, l’adesione o almeno la sottomissione
della maggior parte degli intellettuali. Nel frattempo gli bastano, per le parate del
pan-americanismo, i professori e i funzionari che riesce a mobilitare l’Unione pana
mericana di Mr. Rowe.
68
II
Niente risulta più inutile, quindi, che intrattenersi in platonici confronti tra
l’ideale ibero-americano e l’ideale pan-americano. A poco giova all’ibero-americanismo il numero e le qualità delle adesioni intellettuali. Ed ancor meno gli giova l’elo
quenza dei suoi letterati. Mentre l’ibero-americanismo si fonda sui sentimenti e
sulle tradizioni, il pan-americanismo si fonda sugli interessi e sui traffici. La borghe
sia ibero-americana ha molto più da imparare alla scuola del nuovo impero yankee
che alla scuola della vecchia nazione spagnola. Il modello yankee, lo stile yankee, si
propagano nell’America indo-iberica mentre l’eredità spagnola si consuma e si
perde. Il proprietario terriero, il banchiere, il finanziere dell’America spagnola,
guardano molto più attentamente a New York che a Madrid. L ’andamento del dol
laro interessa loro m olto di più del pensiero di U nam uno o della Revista de
Occidente di Ortega y Gasset. A questa gente che governa l’economia, e quindi la
politica, dell’America del Centro e del Sud, dell’ideale ibero-americano importa
pochissimo. Nel migliore dei casi sono disposti a sposarlo insieme all’ideale panamericanista. I commessi viaggiatori del pan-americanismo, d ’altra parte, sembrano
loro più efficaci, anche se meno pittoreschi, dei commessi viaggiatori - accademici
battaglieri - dell’ibero-americanismo ufficiale, che è l’unico che un borghese pru
dente può prendere sul serio.
Ili
La nuova generazione ispanoamericana deve definire in maniera netta ed esatta il
senso della sua opposizione agli Stati Uniti. Deve dichiararsi avversaria dell’Impero
di Dawes e di Morgan, non del popolo né dell’uomo nordamericani. La storia della
cultura nordamericana ci offre molti nobili casi di indipendenza dell’intelligenza e
dello spirito. Roosevelt è il depositario dello spirito dell’Impero, ma Thoreau è il
depositario dello spirito dell’Umanità. Henri Thoreau, che nell’epoca attuale riceve
l’omaggio dei rivoluzionari europei, ha anche il diritto di ricevere la devozione dei
rivoluzionari della Nostra America. È forse colpa degli Stati Uniti se noi ibero-americani conosciam o più il pensiero di T heodore Roosevelt che quello di H enri
Thoreau? Gli Stati Uniti sono certamente la patria di Pierpont Morgan e di Henri
Ford; ma sono anche la patria di Ralph Waldo Emerson, di Williams James, di Walt
Whitman. La nazione che ha prodotto più grandi capitali dell’industria ha prodotto
anche i più grandi maestri dell’idealismo continentale. E oggi la stessa inquietudine
che agita l’avanguardia dell’America spagnola muove l’avanguardia dell’America del
Nord. I problemi della nuova generazione ispanoamericana sono, con varianti dovu
te al diverso contesto e alla diversa intensità, gli stessi problemi della nuova genera
zione nordamericana. Waldo Frank, uno degli uomini nuovi del Nord, nei suoi studi
sulla Nostra America dice cose valide sia per la gente della sua America che per la
gente della nostra.
Gli uomini nuovi dell’America indo-iberica possono e devono capirsi con gli
uomini dell’America di Waldo Frank. Il lavoro della nuova generazione ibero-ame
ricana può e deve articolarsi e solidarizzare con il lavoro della nuova generazione
yankee. Queste due generazioni coincidono. Le differenzia la lingua e la razza, ma
le unisce e le accomuna la stessa emozione storica. L ’America di Waldo Frank è
anch’essa, come la Nostra America, avversaria dell’Impero di Pierpont Morgan e
del Petrolio.
Invece, la stessa emozione storica che ci avvicina all’America rivoluzionaria ci sepa
ra dalla Spagna reazionaria dei Borboni e di Primo Rivera. Che cosa ci può insegnare la
69
Spagna di Vàsquez de Mella e di Maura, la Spagna di Pradera e di Francos Rodriguez?
Niente; neppure il metodo di un grande stato industriale e capitalista. La civiltà della
Potenza non ha la sua sede né a Madrid né a Barcellona, ma a New York, a Londra, a
Berlino. La Spagna dei Re Cattolici non ci interessa assolutamente. Signor Pradera,
Signor Francos Rodriguez, tenetevela pure.
IV
L’ibero-americanismo ha bisogno di un po’ più di idealismo e di un po’ più di
realismo. Ha bisogno di compenetrarsi con i nuovi ideali deH’America indo-iberica.
Ha bisogno di inserirsi nella nuova realtà storica di questi popoli. Il pan-americanismo si appoggia sugli interessi dell’ordine borghese; l’ibero-americanismo deve
appoggiarsi sulle masse che lavorano per creare un ordine nuovo. L’ibero america
nismo ufficiale sarà sempre un ideale accademico, burocratico, impotente, senza
radici nella vita. Come ideale dei nuclei rinnovatori diventerà, invece, un ideale
militante, attivo, di massa.
(Trad, di Silvia Poggianti)
L'attenzione agli aspetti del costume e della vita quotidiana, forgiata
cizio del giornalismo, non viene meno negli anni della maturità.
gustosa nota su «La civiltà e i capelli», pubblicata su «Mundial» il
oggi raccolta nel voi. 4 delle Obras completas, La Novela y la Vida.
sor Canella-Ensayos sintéticos-Reportaijes y encuestas.
in tanti anni di eser
Lo dimostra questa
7 novembre 1924, e
Siegfried y el profe-
La civiltà e i capelli
'
Il tipo di vita che la civiltà produce è, necessariamente, un tipo di vita raffinato,
depurato, artificioso. La civiltà stilizza, cesella e lustra gli uomini e le cose. È naturale,
pertanto, che la civiltà occidentale non ami né barbe né capelli. L ’uomo di questa
civiltà si è evoluto dalla più primitiva esuberanza delle chiome a una rasatura quasi
assoluta. Le barbe e i capelli si trovano attualmente in decadenza.
L’uomo della civiltà occidentale era originariamente barbuto e con lunghe chiome.
Carlo Magno, l’imperatore dalla barba fiorita, rappresenta genuinamente il Medioevo
da questo e da altri punti di vista. Merovingi e carolingi portarono, come Carlo Magno,
frondose barbe. Il misticismo e la marzialità erano, nel Medioevo, due grandi generato
ri di barbe e capelli. Né gli anacoreti, né i crociati avevano disposizione spirituale né
fisica per radersi.
Il Rinascimento esercitò grande influenza sull’acconciatura. L’umanità occiden
tale tornò agli ideali e ai gusti pagani. Dopo alcuni secoli di cupo misticismo, retti
ficò il suo atteggiamento di fronte alla bellezza effimera. Leonardo da Vinci passò
alla posterità con una lunga e abbondante barba da astrologo e Papa Giulio II non
pensò a tagliarsi la sua, prima di posare per il celebre ritratto di Raffaello. Ma con il
suo recupero dell’estetica greco-romana, il Rinascimento provocò una crisi delle
barbe medioevali. Michelangelo non potè fare a meno di immaginare solennemente
e taumaturgicamente barbuto Mosè; ma, invece, concepì David ellenicamente nudo
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e imberbe. In questo il Rinascimento era coerente con le sue origini e i suoi orienta
menti. La scultura e la pittura greche e romane non screditavano totalm ente la
barba. La attribuivano a Giove, a Ercole e a altri personaggi della mitologia e della
storia. Ma, ad Atene e a Roma, la barba ebbe limiti discreti. Mai arrivò alla lun
ghezza di una barba carolingia. E fu un attributo umano piuttosto che divino.
Policleto, Fidia, Prassitele, ecc. sognarono per gli dei più leggiadri una bellezza
totalmente imberbe. Apollo, Mercurio, Dioniso, nessuno li ha mai immaginati bar
buti. L’Apollo di Belvedere con baffi e basette sarebbe stato, in verità, un Apollo
assurdo.
L’epoca barocca non portò l’umanità a una restaurazione delle barbe tagliate dal
Rinascimento; ma mostrò evidente favore per gli eccessi delle chiome. Tutto fu esube
rante e manierato nell’estetica barocca: la decorazione, l’architettura, la capigliatura.
Questa estetica portò la gente all’uso delle chiome più lunghe che registra la storia
dell ’acconciatura.
L’estetica rococò segnò una nuova reazione contro la barba. Impose la moda delle
parrucche incipriate.. La Rivoluzione, più tardi, lasciò poche parrucche intatte. E il
Direttorio, molto sobrio per quello che riguarda la capigliatura, tollerò la moda pru
dente e moderata della basetta. Le basette di Napoleone, di Bolivar e di San Martin
appartengono a questo periodo dell’evoluzione dell’acconciatura.
Il fenomeno romantico provocò un tentativo di restaurazione del più arcaico ed
eccessivo uso delle chiome e delle barbe. Gli artisti romantici si comportarono in
modo molto reazionario. Chi non ha visto in qualche incisione la testa chiomata e bar
buta di Théophile Gautier? E dove non è arrivata una fotografia del quadro di Fantin
Latour di un cenacolo letterario della sua epoca? Il parnassianesimo avrebbe dovuto
indurre gli uomini di lettere a un certo atticismo nella loro acconciatura; ma, a quanto
pare, non accadde così. Fino ai nostri tempi, Anatole France, letterato di ascendenza
parnassiana, conservò e coltivò una barba poco patriarcale!
Ma tutte queste restaurazioni di baffi, barbe e capigliature furono parziali, transi
torie, interine. La civiltà capitalista non le ammetteva. Le considerava come tentativi
reazionari. Lo sviluppo dell’igiene e del positivismo crearono, inoltre, un’atmosfera
avversa a queste restaurazioni. La borghesia sentì una crescente necessità di alleggerir
si da barbe e capelli. Gli yankee si rasarono radicalmente. E i tedeschi non rinunciaro
no del tutto al baffo; ma, invece, rispettosi del progresso e delle leggi, decisero di
radersi integralmente la testa. Si propagò in tutto il mondo la «gillette». Questa ten
denza della borghesia alla depilazione provocò una protesta romantica di molti rivolu
zionari che, per affermare la loro opposizione al capitalismo, decisero di lasciarsi cre
scere smisuratamente la barba e i capelli. Le gloriose barbe di Karl Marx e di Leone
Tolstoy influirono probabilmente su questa attitudine estetica, sostenuta con il suo
esempio da Jean Jaurès e da altri leaders della Rivoluzione. Provengono da questi
tempi, dal romanticismo delle chiome degli uomini della Rivoluzione, la parrucca
liscia dell’ex-socialista Briand, l’acconciatura aristocratica di Mac Donald e la barba
ruvida e procace di Turati.
La parrucca femminile è l’ultimo capitolo di questo processo di decadenza dei
capelli. Le donne si tagliavano i capelli per le stesse ragioni storiche degli uomini.
Acquisiscono in ritardo questo progresso. Ma con ritardo hanno acquisito anche altri
progressi sostanziali. La civiltà occidentale, dopo aver m odificato fisicamente
l’uomo, non poteva lasciare intatta la donna. E probabile che questo sia un altro
aspetto del destino delle culture. Abbiamo già visto come nemmeno la civiltà antica
tollerò troppe barbe e capigliature eccessive. Le dee dell’Olimpo non portavano
sciolti, né fluenti, né lunghi, i capelli. L’acconciatura della Venere di Milo e di tutte
le altre Veneri era, senza dubbio, l’acconciatura ideale e prediletta dell’antichità.
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Qualcuno osserverà, maliziosamente, che Venere fu una dama poco austera e poco
casta. Ma nessuno dubiterà dell’onestà di Giunone che, nella capigliatura, non si dif
ferenziava da Venere.
La moda occidentale ha stilizzato, con un gusto cubista e sintetista, il vestito
dell’uomo. La figura dell’uomo metropolitano è sobria, semplice, geometrica come
quella di un grattacielo. La sua estetica rifiuta, per questo, le barbe e i capelli boscosi.
A mala pena è accettato un esiguo e discreto baffo. Lo stile della moda femminile,
malgrado alcune fugaci deviazioni, ha seguito la stessa direzione. Il processo della
moda è stato, insomma, un processo di semplificazione del vestito e della acconciatu
ra. Il vestito si è fatto sempre più utile e sommario. È stato così che sono morte, per
non rinascere, le crinoline, le gorgiere, gli strascichi, le frondosità passate. Tutti i ten
tativi di restaurazione dello stile rococò sono falliti. La moda femminile si ispira a
estetiche più remote dell’estetica rococò o dell’estetica barocca. Adotta gusti egizi o
greci. Tende alla semplicità. La parrucca nasce da questa tendenza. È uno sforzo per
uniformare totalmente l’acconciatura femminile, il nuovo stile del vestito e della
forma femminile.
Georg Simmel, in un originale saggio, sosteneva la tesi dell’arbitrarietà più o meno
assoluta della moda. «Quasi mai - scriveva - possiamo scoprire una ragione materiale,
estetica o di altra indole che spieghi le creazioni. Così, per esempio, praticamente, i
nostri vestiti sono, generalmente, adatti alle nostre necessità; ma non è possibile trova
re la minima traccia di utilità nelle decisioni con cui la moda interviene per dare loro
questa o quella forma». Mi sembra che l’unica arbitrarietà flagrante è, in questo caso,
l’arbitrarietà della tesi dell’originale filosofo e saggista tedesco. Le creazioni della moda
sono instabili e mutevoli; ma riappare sempre in esse una linea duratura, una trama
persistente. Contrariamente a ciò che asseriva Georg Simmel, è possibile scoprire una
ragione materiale, estetica o di altra indole che le spieghi.
Il vestito dell’uomo moderno è una creazione utilitaria e pratica. Sottostà a ragioni
di utilità e comodità, la moda ha adattato il vestito al nuovo genere di vita. Le sue cause
non sono state disinteressate. Non sono state estranee, e meno ancora superiori, alla
prosaica realtà umana. Ed è per questo, appunto, che il vestito maschile subisce la dia
triba e il disprezzo romantici di molti artisti. La moda femminile ha avuto uno sviluppo
più libero dalla pressione della realtà. Il vestito della donna può concedersi il lusso di
essere più ornamentale, più decorativo, più arbitrario del vestito dell’uomo. L’uomo ha
accettato la prosa della vita; la donna ha preferito generalmente la poesia. Le sue mode,
pertanto, hanno sacrificato molte volte l’utilità alla civetteria. Ma, man mano che la
donna è diventata impiegata, elettrice, politica ecc., ha cominciato a dipendere dalla
stessa realtà prosaica del maschio. Questo cambiamento ha dovuto riflettersi nella
moda. Una donna giornalista, per esempio, non può usare un vestito troppo mondano e
frivolo. Ma non è indispensabile che rinunci alla bellezza, né alla grazia, né alla civette
ria. Io conobbi alla Conferenza di Genova una giornalista inglese che era riuscita a com
binare e a coordinare il suo tailleur, il suo cappello di feltro e i suoi occhiali di tartaruga
con lo stile della sua bellezza. Nemmeno nei momenti in cui prendeva appunti per il suo
giornale perdeva qualcosa della sua bellezza superiore, originale, strana. Non mancava
di eleganza. Ed era la sua un’eleganza personale, nuova, insolita.
Le abitudini, le funzioni e i diritti della donna moderna codificano inevitabilmente
la sua moda e la sua estetica. La parrucca, considerata oggettivamente, appare come un
fenomeno spontaneo, come un prodotto logico della civiltà. A molte persone la parruc
ca pare quasi un attentato contro la natura. Ma la civiltà non è altro che artificio. La
civiltà è un permanente attentato contro la natura, un continuo sforzo per correggerla.
I romantici avversari della parrucca hanno sprecato le loro energie. La parrucca non è
una creazione fugace della moda. E qualcosa di più di una tappa del suo itinerario. La
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parrucca non conquisterà il mondo intero; ma si ambienterà ampiamente nelle urbi. E
non sarà fatale né alla bellezza nè all’estetica. L’estetica e la bellezza sono volubili e
instabili come la vita. E, in ogni caso, sono indipendenti dalla lunghezza dei capelli. La
moda, insomma, non imporrà alle donne transizioni troppo brusche. Non è probabile
per esempio, che le donne si decidano a radersi la testa come i tedeschi. Le donne,
dopo tutto, sono più ragionevoli di quello che sembra. E sanno che un po’ di capelli
saranno sempre molto decorativi, sebbene non siano rigorosamente necessari.
(Trad, di Antonella Cancellier)
Alcuni anni dopo Mariàtegui pubblica nella stessa rivista, I’l l settembre 1927, un artico
lo dal titolo, nell’originale, quasi identico. «La civiltà e il cavallo», oggi raccolto nello
stesso voi. 4 delle Obras completas, si ricollega in realtà al nucleo più profondo della
riflessione dell’autore sulla società andina.
La civiltà e il cavallo
L’indio a cavallo è una delle testimonianze viventi su cui Luis E. Valcàrcel basa,
nel suo libro Tempeste sulle Ande, il suo vangelo - proprio così vangelo: buona
novella - del «nuovo indio». L’indio a cavallo costituisce, per Valcàrcel, un simbolo
di carne. «L’indio a cavallo - scrive Valcàrcel - è un indio nuovo, altero, libero
padrone, orgoglioso della sua razza, che disprezza il bianco e il meticcio. Là dove
l’indio ha infranto la proibizione spagnola di cavalcare, ha infranto anche le catene».
Lo scrittore cuzchegno parte da una valutazione esatta del ruolo del cavallo nella
Conquista. Il cavallo, come ben si sa, contribuì in modo essenziale e decisivo a dare
allo spagnolo, agli occhi dell’indio, un potere soprannaturale. Gli spagnoli, per sotto
mettere l’indigeno, portarono con sé, come armi materiali, il ferro, la polvere da
sparo e il cavallo. E stato detto che la debolezza fondamentale della civiltà autoctona
fu la sua non conoscenza del ferro. Ma, in verità, non è esatto attribuire a un unico
fattore di superiorità la vittoria della cultura occidentale sulle culture indigene
dell’America. Questa vittoria trova la sua completa spiegazione in un insieme di supe
riorità fra le quali non primeggiano, certamente, quelle fisiche. E tra queste, va rico
nosciuta la priorità di quelle zoologiche. Primo, la creatura; poi l’elemento creato,
artificiale, tecnico. E tutto ciò, a prescindere dal fatto che l’addomesticamento
dell’animale, la sua utilizzazione per gli scopi e per il lavoro umani, rappresenta forse
la più antica delle tecniche.
Piuttosto che soggiogato dal ferro e dalla polvere da sparo, preferiamo immagi
nare l’indio soggiogato non tanto dal cavallo bensì dal cavaliere. Nel cavaliere rivi
veva ingentilito, spiritualizzato, umanizzato, il mito pagano del centauro. Il cavalie
re, archetipo del Medioevo - che mantiene il suo dominio spirituale sulla moder
nità, fino a tuttoggi, dato che il borghese psicologicamente non ha fatto altro che
im itare e so p p ia n ta re il n o bile - è l ’eroe della C o n q u ista. E la C onquista
dell’America, l’ultima crociata, appare come la più storica, la più illuminata, la più
straordinaria impresa della cavalleria. Impresa tipicamente cavalleresca al punto che
con essa doveva morire la cavalleria stessa, alla morte - tragica, cristiana e grandiosa
- del Medioevo.
Il Colonialismo intuì e rivendicò a tal punto il ruolo del cavallo nella Conquista
che - con i suoi decreti che proibivano all’indio l’uso del cavallo - il merito dell’epo73
pea sembra appartenere più al cavallo che all’uomo. Il cavallo, sotto il dominio spa
gnolo, era tabù per l’indio. Ciò poteva essere inteso come una conseguenza della sua
condizione di servo, se si ricorda che Cervantes, attento al valore della cavalleria, non
concepì Sancio cavaliere di un ronzino come don Chisciotte, bensì di un asino. Ma,
poiché nella Conquista si mescolarono nobili e villani, bisogna supporre l’intenzione
di riservare allo spagnolo gli strumenti - vale a dire il segreto - della Conquista.
Perché il rigore di questo tabù condusse lo spagnolo a mostrarsi più generoso a con
cedere il suo amore piuttosto che i suoi cavalli. L’indio ebbe il cavaliere prima del
cavallo.
La più acuta intuizione poetica di Chocano, sebbene come tutte le sue cose si
rivesta di toni retorici e ampollosi, è forse quella che fu creata dal suo elogio de I
cavalli dei conquistatori. Cantare in questo modo la Conquista è sentirla, prima di
tutto, come epopea del cavallo senza il quale la Spagna non avrebbe imposto la sua
legge nel Nuovo Mondo.
L’immaginazione creola conservò dopo la Colonia questo senso medioevale del
cavallo. Tutte le metafore del suo linguaggio politico denunciano eredità e pregiudi
zi da cavalieri. L’espressione caratteristica di ciò che ambiva il «caudillo» sta nel
luogo comune delle «redini del potere». E «montare a cavallo» fu chiamata sempre
l’azione di insorgere per ottenerle. Il governo che vacillava si trovava «sopra un cat
tivo cavallo».
L’indio a piedi e, ancor più, la coppia malinconica dell’indio e del lama, è l’allego
ria di una servitù. Valcàrcel ha ragione. Il gaucho deve la metà del suo esistere alla
pampa e al cavallo. Senza il cavallo come sarebbe pesato sul creolo argentino lo spa
zio e la distanza! Come pesano ancora adesso, sulle spalle dell’indio chasqui *. Gorkj
ci presenta il mugik schiacciato dalla steppa senza fine. Il fatalismo, la rassegnazione
del mugik, derivano da questa impotenza di fronte alla natura. Per sopportare di più,
il mugik contava sulla sua tradizione di nomadismo e sui temprati e rurali cavallini
tartari che così tanto assomigliavano a quelli di Chumbivilcas.
Ma Valcàrcel ci deve un’altra stampa, un altro simbolo: l’indio chauffeur, come lo
vide a Puno, quest’anno, quando erano già scritte le cartelle di Tempesta sulle Ande.
L’epoca industriale borghese della civiltà occidentale rimase, per molte ragio
ni, legata al cavallo. Non solo perché persistette nel suo spirito l’attaccamento ai
moduli e allo stile della nobilità equestre, ma perché il cavallo continuò a essere,
per molto tempo, un ausiliario indispensabile dell’uomo. La macchina sostituì, a
poco a poco, il cavallo per molti dei suoi impieghi. Ma l’uomo, riconoscente,
inserì per sempre il cavallo nella nuova civiltà, chiam ando «cavallo m otore»
l’unità di potenza motrice.
L’Inghilterra, che conservò sotto il capitalismo gran parte del suo stile e del suo
gusto aristocratici, stilizzò e sublimò il cavallo inventando il pur sang da corsa. Vale a
dire, il cavallo emancipato della tradizione servile dell’animale da tiro e dell’animale
da soma. Il cavallo puro che, sebbene possa sembrare irriverente, rappresenterebbe,
nel suo ambito, qualcosa di simile a ciò che la poesia pura rappresenta nel proprio. Il
cavallo fine a se stesso, sopra al quale il cavaliere sparisce per essere sostituito dal
jockey. Il cavaliere resta a piedi.
Tuttavia questo sembra essere l’ultimo omaggio della civiltà occidentale alla spe
cie equina. Con lo spostamento dall’Inghilterra agli Stati Uniti dell’asse del capitali
smo, l’arte del cavalcare ha perso il suo senso cavalleresco. L’America del nord prefe
risce la boxe alle corse. Proibito il gioco - la scommessa -, l’ippica si è ridotta
* Corriere degli Inc^s.
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all’equitazione. Questo, senza dubbio, ha portato Keyserling a supporre che il chauf
feur succeda come simbolo al cavaliere. Ma il tipo, il campione verso il quale ci avvi
ciniamo, è piuttosto quello dell’operaio. Ormai l’intellettuale accetta questo titolo
che compendia e trascende tutti. Il cavallo, d ’altra parte, come mezzo di trasporto, è
troppo individualista. E la nave a vapore e il treno, per eccellenza sociali e moderni,
non lo sentono neanche come rivale. L’ultima esperienza bellica segna, infine, la
decadenza definitiva della cavalleria.
E qui concludo. Il tema di una decadenza conviene, più che a me, a qualunque
discepolo di José Ortega y Gasset.
(Trad, di Antonella Cancellier)
Tra le creazioni di Mariàtegui, accanto ai suoi scritti, va certamente annoverata la rivista
«Amauta». Pubblicata tra il 1926 e il 1930, è forse la più bella rivista politico-culturale
prodotta dall’America latina. La «Presentazione di Amauta», apparsa nel n. 1 del settem
bre 1926, e oggi raccolta nel voi. 13 della Obras completas, Ideologia y Politica, esprime
con grande lucidità il progetto della rivista.
Presentazione di «Amauta»
Questa rivista, nel campo intellettuale non rappresenta un gruppo. Rappresenta,
piuttosto, un movimento, uno spirito. In Perù si avverte da un pò di tempo una cor
rente, sempre più vigorosa e definita di rinnovamento. I fautori di questo rinnova
mento sono chiamati avanguardisti, socialisti, rivoluzionari, ecc. La storia non li ha
ancora battezzati definitivamente. Esistono tra di loro alcune divergenze formali,
alcune differenze psicologiche. Ma al di sopra di ciò che li differenzia, tutti questi
spiriti pongono ciò che li avvicina e li accomuna: la loro volontà di creare un Perù
nuovo all’interno del mondo nuovo. L’intelligenza, il coordinamento dei più volitivi
di questi elementi, progrediscono gradualmente. Il movimento - intellettuale e spiri
tuale - acquisisce a poco a poco organicità. Con l’apparizione di «Amauta» entra in
una fase di definizione.
«Amauta» ha avuto un processo normale di gestazione. Non nasce improvvisa
mente da una determinazione esclusivamente mia. Sono venuto dall’Europa col pro
posito di fondare una rivista. Dolorose vicende personali non mi hanno permesso di
portarlo a termine. Ma questo tempo non è trascorso invano. Il mio sforzo si è unito
a quello di altri intellettuali e artisti che pensano e sentono come me. Due anni fa,
questa rivista sarebbe stata una voce personale. Ora è la voce di un movimento e di
una generazione.
Il primo risultato che noi scrittori di «Amauta» ci proponiamo di ottenere è di
accordarci e conoscere meglio noi stessi. Il lavoro della rivista ci renderà più solidali.
Nello stesso momento in cui attrarrà altri buoni elementi, ne allontanerà altri fluttuanti
e svogliati che per il momento civettano con l’avanguardismo, ma che appena questo
gli chiederà un sacrificio, si affretteranno a lasciarlo. «Amauta» vaglierà gli uomini
dell’avanguardia - militanti e simpatizzanti - fino a separare la paglia dal grano.
Produrrà o farà precipitare un fenomeno di polarizzazione e concentrazione.
Non c’è bisogno di dichiarare esplicitamente che «Amauta» non è una tribuna libe
ra, aperta a tutti i venti dello spirito. Noi che abbiamo fondato questa rivista non con75
cepiamo una cultura e un’arte agnostiche. Ci sentiamo una forza militante, polemica.
Non facciamo nessuna concessione al criterio generalmente fallace della tolleranza
delle idee. Per noi ci sono idee buone e idee cattive. Nel prologo del mio libro La scena
contemporanea, ho scritto che sono un uomo con una filiazione e una fede. Lo stesso
posso dire di questa rivista, che rifiuta tutto ciò che è contrario alla sua ideologia così
come tutto ciò che non esprime nessuna ideologia.
Per presentare «Amauta» sono di troppo le parole solenni. Voglio eliminare da
questa rivista la retorica. Mi sembrano assolutamente inutili i programmi. Il Perù è un
paese di insegne e di etichette. Facciamo finalmente qualcosa con contenuto, vale a
dire con spirito. «Amauta» d ’altra parte non ha bisogno di un programma; ha bisogno
solamente di una destinazione, di uno scopo.
Il titolo probabilmente preoccuperà qualcuno. Ciò si dovrà all’importanza eccessi
va, fondamentale, che ha tra noi l’insegna. Non si guardi in questo caso all’accezione
stretta della parola. Il titolo non traduce nient’altro che l’adesione alla Razza, non
riflette nient’altro che il nostro omaggio all’Incaismo. Ma specificamente la parola
«Amauta» acquisisce con questa rivista una nuova accezione. La creeremo un’altra
volta.
L’obiettivo di questa rivista è quello di proporre, chiarire e conoscere i problemi
peruviani da punti di vista dottrinari e scientifici. Ma considereremo sempre il Perù
all’interno del panorama mondiale. Studieremo tutti i grandi movimenti di rinnova
mento politici, filosofici, artistici, letterari, scientifici. Tutto ciò che è umano ci appar
tiene. Questa rivista legherà gli uomini nuovi del Perù, prima di tutto con quelli degli
altri popoli d’America, poi con quelli degli altri popoli del mondo.
Non aggiungerò altro. Bisognerebbe essere ben poco perspicaci per non rendersi
conto che in Perù nasce in questo momento una rivista storica.
(Trad, di Alessandra Turchi)
A distanza di due anni, nel n. 17 di «Amauta», «Anniversario e bilancio» (poi raccolto in
Ideologia y Politicai annuncia la scelta di campo della rivista. Il lavoro di definizione
ideologico si è ormai compiuto e Amauta si proclama decisamente come una rivista socia
lista. Si è intanto consumata la rottura con il populismo dell Apra e Mariàtegui si muove
rapidamente verso la fondazione del Partito socialista. Ma afferma che il socialismo deve
essere una creazione eroica, radicato nella realtà americana, e non una trasposizione mec
canica di un modello europeo.
Anniversario e bilancio
«Amauta» giunge con questo numero al suo secondo compleanno. È stata sul
punto di naufragare al nono numero, prima del primo anniversario. L’ammonimen
to di Unamuno - «rivista che invecchia, degenera» - sarebbe stata l’epitaffio di
un’opera risonante, ma effimera. Ma «Amauta» non era nata per rimanere un episo
dio, bensì per essere storia e per farla. Se la storia è creazione degli uomini e delle
idee, possiamo affrontare con speranza l’avvenire. Di uomini e di idee, è la nostra
forza.
Il primo obbligo di tutta l’opera, del genere di quello che «Amauta» si è impo
sta, è questo: durare. La storia è durata. Non conta il grido isolato, per quanto
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lunga sia la sua eco; conta la predica costante, continua, persistente. Non conta
l’idea perfetta, assoluta, astratta, indifferente ai fatti, alla realtà mutevole e instabile,
conta l’idea germinale, concreta, dialettica, operante, ricca di energia e capace di
movimento. «Amauta» non è un divertimento né un gioco da intellettuali puri: pro
fessa un’idea storica, confessa una fede attiva e moltitudinaria, obbedisce ad un
movimento sociale contemporaneo. Nella lotta tra due sistemi, tra due idee, non ci
viene in mente di sentirci spettatori né di inventare un terzo termine. L’originalità
ad oltranza, è una preoccupazione letteraria e anarchica. Nella nostra bandiera,
iscriviamo questa sola, semplice e grande parola: Socialismo. (Con questa parola
affermiamo la nostra assoluta indipendenza di fronte all’idea di un partito nazionali
sta, piccolo borghese e demagogico).
Abbiamo voluto che «Amauta» avesse uno sviluppo organico, autonomo, indivi
duale, nazionale. Per questo abbiamo cominciato a ricercare il suo titolo nella tradizio
ne peruviana. Prendevamo una parola incaica, per crearla di nuovo. Affinché il Perù
indio, l’America indigenà, sentissero propria questa rivista. E abbiamo presentato
«Amauta» come la voce di un movimento e di una generazione. «Amauta» é stata, in
questi due anni, una rivista di definizione ideologica, che ha raccolto nelle sue pagine i
propositi di quanti, con sincerità e competenza, hanno voluto parlare in nome di que
sta generazione e di questo movimento.
Il lavoro di definizione ideologica ci sembra compiuto. In ogni caso abbiamo ormai
sentito esprimersi le opinioni categoriche sollecite. Ogni dibattito si apre verso coloro
che esprimono opinioni, non verso coloro che tacciono. La prim a stagione di
«Amauta» è conclusa. Nella seconda stagione, non ha più bisogno di chiamarsi rivista
della «nuova generazione», dell’«avanguardia», delle «sinistre». Per essere fedele alla
Rivoluzione, le basta essere una rivista socialista.
«Nuova generazione», «nuovo spirito», «nuova sensibilità», tutti questi termini
sono invecchiati. Lo stesso si può dire di queste altre insegne: «avanguardia», «sini
stra», «rinnovamento». Furono nuovi e validi a suo tempo. Ci siamo serviti di essi
per stabilire demarcazioni provvisorie, per ragioni contingenti di topografia e orien
tamento. Oggi risultano ormai troppo generici anfibologici. Sotto queste insegne,
cominciano a passare grandi contrabbandi. La nuova generazione non sarà effettiva
mente nuova se non nella misura in cui saprà essere, infine, adulta, creativa.
La stessa parola Rivoluzione, in quest’America di piccole rivoluzioni, si presta
abbastanza all’equivoco. Dobbiamo rivendicarla rigorosamente e intransigentemen
te. Dobbiamo restituirle il suo significato preciso e pieno. La rivoluzione latino
americana sarà né più né meno che una tappa, una fase della rivoluzione mondiale.
Sarà semplicemente e puramente, la rivoluzione socialista. A questa parola aggiun
gete, secondo i casi, tutti gli aggettivi che volete: «anti-imperialista», «agrarista»,
«nazionalista-rivoluzionaria». Il socialismo li suppone, li precede, li comprende
tutti.
Al Nord America capitalista, plutocratico, imperialista, è possibile solamente
opporre efficacemente un’America latina o iberica, socialista. L ’epoca della libera
concorrenza nell’economia capitalista è terminata in ogni campo ed in ogni aspetto.
Siamo nell’epoca dei monopoli, vale a dire degli imperi. I paesi latino-americani
giungono con ritardo alla competizione capitalistica. I primi posti sono già stati asse
gnati definitivamente. Il destino di questi paesi, nell’ordine capitalista, è quello di
semplici colonie. L’opposizione di idiomi, di razze, di spiriti, non ha alcun significato
decisivo. È ridicolo parlare ancora del contrasto tra un’America sassone materialista
e un’America latina idealista, tra una Roma bionda e una Grecia pallida. Tutti questi
sono luoghi comuni definitivamente screditati. Il mito di Rodò non opera più - non
ha mai operato - in modo utile e fecondo sulle anime. Scartiamo, inesorabilmente,
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tutte queste caricature simulacri di ideologie e facciamo i conti, seriamente e franca
mente, con la realtà.
Il socialismo non è, certamente, una dottrina indo-americana. Ma nessuna dottri
na, nessun sistema contemporaneo lo è né può esserlo. Ed il socialismo, malgrado sia
nato in Europa, come il capitalismo, non è specificatamente né particolarmente euro
peo. E un movimento mondiale, al quale non si sottrae nessuno dei paesi che si muo
vono nell’orbita della civiltà occidentale. Questa civiltà conduce, con una forza e con
dei mezzi dei quali nessuna civiltà ha disposto, all’universalità. L’Indoamerica, in
quest’ordine mondiale, può e deve possedere individualità e stile; ma non una cultu
ra né un destino particolari. Cento anni fa abbiamo dovuto la nostra indipendenza
come nazioni al ritmo della storia di Occidente, che a partire dalla colonizzazione ci
impose ineluttabilmente il suo ritmo. Libertà, Democrazia, Parlamento, Sovranità
del Popolo, tutte le grandi parole che hanno pronunciato i nostri uomini di allora,
derivano dal repertorio europeo. La storia, tuttavia, non misura la grandezza di que
sti uomini dall’originalità di queste idee, ma dall’efficacia e dallo spirito con i quali le
servirono. E i popoli che marciano più avanti nel continente sono quelli in cui si
radicarono meglio e più velocemente. L’interdipendenza, la solidarietà dei popoli e
dei continenti, erano senza dubbio, a quel tempo, minori di adesso. Il socialismo,
insomma, è nella tradizione americana. La più avanzata organizzazione comunista,
primitiva, che registra la storia, è quella Incaica.
Non vogliamo, certamente, che il socialismo sia in America calco e copia. Deve
essere creazione eroica. Dobbiamo dar vita, con la nostra realtà, nel nostro linguaggio,
al socialismo indo-americano. Ecco una missione degna di una generazione nuova.
In Europa la degenerazione parlamentare e riformista del socialismo ha imposto,
dopo la guerra, designazioni specifiche. Nei popoli dove questo fenomeno non si è
sviluppato, perché il socialismo appare solo ora nel loro processo storico, la vecchia
e grande parola mantiene intatta la sua grandezza. La conserverà anche nella storia,
domani, quando le necessità contingenti e convenzionali di demarcazione che oggi
distinguono pratiche e metodi, saranno scomparse.
Capitalismo o Socialismo. Questo è il problema della nostra epoca. Non antici
piamo la sintesi, le transazioni, che possono operarsi soltanto nella storia. Pensiamo e
sentiamo come Gobetti che la storia è un riformismo, ma a condizione che i rivolu
zionari operino come tali. Marx, Sorel, Lenin, ecco gli uomini che fanno la storia.
E possibile che molti artisti e intellettuali osservino che rispettiamo assolutamen
te l’autorità di maestri irremissibilmente compresi nel processo per «la trahison des
clercs». Confessiamo, senza scrupoli, che ci sentiamo, nel campo di ciò che è tempo
rale, di ciò che è storico, e che non abbiamo nessuna intenzione di abbandonarlo.
Lasciamo alle loro preoccupazioni sterili e alle loro lacrimose metafisiche, gli spiriti
incapaci di accettare e comprendere la loro epoca. Il materialismo socialista racchiu
de tutte le possibilità di ascesa spirituale, etica e filosofica. E mai ci sentiamo in
maniera più rabbiosa ed efficace e religiosa idealisti come quando teniamo ben pian
tati i piedi nella materia.
(Trad, di Alessandra Turchi)
«L’anima mattutina» è il saggio d’apertura del libro omonimo, El alma matinal y otras
estaciones del hombre de hoy (voi. 3 delle Obras completasi pubblicato postumo nel
1950, ma preparato dall’autore nella sua organizzazione interna. E un esempio
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dell’importanza che assume nell’elaborazione di Mariàtegui la dimensione simbolica.
L ’immagine dell’alba, così frequente anche nella creazione letteraria dell’epoca, incarna
un’aspirazione più generale alla rinascita e alla liberazione. Lo scritto apparve per la
prima volta il 3 febbraio 1928 su «Mundial».
L’anima mattutina
Tutti sanno che la Rivoluzione mise avanti gli orologi della Russia sovietica nella
stagione estiva. Anche l’Europa occidentale adottò l’ora legale dopo la guerra. Ma lo
fece solo per risparmiare sull’illuminazione. Era una misura da tempi di crisi e di care
stia, priva di qualsiasi convincimento mattutino. L’alta e media borghesia continuava a
frequentare il tabarin. La civiltà capitalistica accendeva tutte le sue luci la notte, anche
se clandestinamente. A questo periodo corrisponde la voga del dancing e di Paul
Morand.
Ma con Paul Morand era già stato licenziato il crepuscolo. Paul Morand rappresen
tava la moda della notte. I suoi romanzi ci portavano a passeggio in un’Europa nottur
na, illuminata da una perenne luce artificiale. E il nome che con maggiore legittimità
presiede la notte della decadenza postbellica non è quello di Morand, ma di Proust.
Marcel Proust inaugurò con la sua letteratura una notte estenuata, elegante, metropolitana, licenziosa, da cui l’Occidente capitalistico non è ancora uscito. Proust era il not
tambulo raffinato, ambiguo e di bell’aspetto che si congeda alle due del mattino, prima
che le coppie siano ubriache e commettano eccessi di cattivo gusto.
Si ritirò dalla soirée della decadenza quando non era ancora arrivato il charleston,
né Josephine Baker. Paul Morand, diplomatico e demimondain, potè presentarci solo
la notte postproustiana.
La voga del crepuscolo appartenne alla moda fine secolo e decadente d ’anteguerra.
I suoi grandi pontefici furono Anatole France e Gabriele D ’Annunzio.
Il vecchio Anatole si distinse nel genere dei crepuscoli classici e archeologici; cre
puscoli d ’Alessandria, di Siracusa, di Roma, di Firenze, economicamente conosciuti nei
volumi delle biblioteche ufficiali e nei viaggi da turista lento che non dimentica mai le
valige sul treno e che ha già previsto tutte le stazioni e gli alberghi del suo itinerario.
Era al momento del tramonto, sempre discreto, senza eccessive nuvole rosse o scanda
losi cirri policromi, che a monsieur Bergeret piaceva affilare le sue ironie. Quelle ironie
che dieci anni fa ci incantavano con il loro spirito tagliente e sottile, e che ora ci
annoiano con la loro monotona incredulità e il loro fastidioso scetticismo.
D’Annunzio era più fastoso e teatrale, e anche più vario, nei suoi crepuscoli di Venezia
vagamente wagneriani, con il campanile di San Giorgio Maggiore su un lato, assaporati
sulla terrazza dell’Hotel Danieli da amanti inevitabilmente celebri, alloggiati nella stessa
stanza dove trovò rifugio, sotto antiche coltri ricamate, il famoso amore di George Sand e
Alfred de Musset; crepuscoli abruzzesi deliberatamente rustici e agresti, con capre, capro
ni, pastori, falò, formaggi, fichi e un incesto da tragedia greca; crepuscoli dell’Adriatico
con barche di pescatori, spiagge lubriche, cieli patetici e fetore afrodisiaco; crepuscoli
semiorientali, semibizantini di Ravenna e di Rimini, con vergini innamorate dalle trecce
inverosimili e ondeggianti e un lieve sapore di ostrica perlifera; crepuscoli romani, traste
verini, declamatori, olimpici, goduti sul colle del Gianicolo, rinfrescati dall’acqua paola
che cade in conche di marmo antico, con reminiscenze del sogno di Scipione e dei discorsi
di Cola di Rienzo; crepuscoli di Quinto al Mare, eroici, repubblicani, garibaldini, retorici,
un po’ marinari, dignitosissimi nonostante la compromettente vicinanza di Portofino
Kulm e la prospettiva equivoca di Montecarlo. D ’Annunzio esaurì nella sua opera magni
ficamente crepuscolare, tutti i colori, tutti i deliqui, tutte le ambiguità del tramonto.
79
Concluso il periodo dannunziano e anatoliano, in Spagna, se non fosse per le sona
te del grande Valle Inclàn, non resterebbe altra traccia che i sonetti di Villaespesa, i
romanzi del Marchese di Hoyos y Vinent e le false gemme orientali di Tòrtola
Valenciascese in una stazione ferroviaria di Madrid, con una sola valigia in mano, pas
seggero di terza classe, Ramón Gómez de la Serna, scopritore dell’alba.
La sua scoperta era un po’ prematura. Ma come è giocoforza che sia ogni vera sco
perta. Proust, col suo smoking severo e una perla sullo sparato, languido, tacito, palli
do, presiedeva invisibile la più lunga notte europea -notte un po’ boreale talmente era
prolungata-, dai piaceri estremi e dai terribili presagi, ninnata dal fuoco delle mitraglia
trici di Noske a Berlino e delle bombe a mano fasciste sulle vie della pianura lombarda
e romana e dei monti dell’Appennino.
Adesso, benché conservi molto della notte di Charlottenburg e della notte di
Dublino, l’Europa che vuole salvarsi, l’Europa che non vuole morire, anche se è sem
pre l’Europa borghese, stanca dei suoi piaceri notturni, sospira perché venga presto
l’alba. Mussolini manda a letto l’Italia alle dieci di sera, chiude cabaret, proibisce il
charleston. Il suo ideale è un’Italia di provincia che si sveglia di buon’ora, contadina,
priva di mollezze e di artifici urbani, con molti figli rustici nel suo ampio grembo. Per
suo ordine, come ai tempi di Virgilio, i poeti cantano la campagna, la semina, la mieti
tura. E anche la borghesia francese, quella che ama la tradizione e il lavoro, borghesia
laboriosa, economa, misurata, continente -non malthusiana-, reclama a casa propria
l’orario fascista e sogna un dittatore dalle virtù romane e dal genio napoleonico che
coltivi nelle vacanze il suo grano e la sua vigna. Sentite come ammonisce Lucien
Romier la Francia nottambula: «E grave che un popolo si dia ai piaceri della notte,
non per il male che vi trovano i predicatori. E grave come indice del fatto che quel
popolo perde i suoi giorni. Se vuoi crescere e prosperare, oh francese!, ricordati che
la virilità dell’uomo si afferma nel trionfo mattutino. E all’alba che l’invasore viene
inseguito dal sol levante».
E improbabile che Lucien Romier sappia rinunciare alla notte. Appartiene a una
borghesia, lungimirante nella sua rovina, conscia che l’uomo nuovo è l’uomo mattutino.
('Traduz. di Hide Carmignani)
Un esempio degli aspetti vitalistici presenti nel pensiero di Maridtegui si trova in «Due
concezioni della vita», apparso su «Mundial» il 9 gennaio 1925 e poi inserito nel libro El
Alma Matinal. La battaglia contro le concezioni positiviste, presenti anche nella tradizio
ne socialista, ispira questa rivendicazione della soggettività e del mito.
Due concezioni della vita
i
La guerra mondiale non ha modificato e fratturato solo l’economia e la politica
dell’Occidente. Ne ha anche modificato o fratturato la mentalità e lo spirito. Le conse
guenze economiche, definite e precisate da John Maynard Keynes, non sono più evi
denti né più sensibili delle conseguenze spirituali e psicologiche. I politici, gli statisti,
attraverso una serie di esperimenti, troveranno forse una formula e un metodo per
risolvere le prime; ma non troveranno, sicuramente, una teoria e una pratica adeguate
80
ì
per annullare le seconde. Più probabile mi sembra che debbano adeguare i loro pro
grammi alla pressione dell’atmosfera spirituale, alla cui influenza il loro lavoro non può
sottrarsi. Ciò che differenzia gli uomini di questo tempo non è soltanto la dottrina, ma,
soprattutto, il sentimento. Due concezioni della vita opposta, una pre-bellica, l’altra
post-bellica, ostacolano l’intelligenza di uomini che, apparentemente, servono lo stesso
interesse storico. Ecco il conflitto centrale della crisi contemporanea.
La filosofia evoluzionista, storicista, razionalista, univa nei tempi pre-bellici, al di
sopra delle frontiere politiche e sociali, le due classi antagoniste. Il benessere materiale,
la potenza fisica delle urbi avevano generato un rispetto superstizioso verso l’idea di
progresso. L’umanità sembrava aver trovato una strada definitiva. Conservatori e rivo
luzionari accettavano praticamente le conseguenze della tesi evoluzionista. Sia gli uni
che gli altri concordavano nella stessa adesione all’idea di progresso e nella stessa
avversione nei confronti della violenza.
Ma c’erano anche uomini che non si lasciavano attrarre né sedurre da questa piatta
e comoda filosofia. Georges Sorel, uno degli scrittori più acuti della Francia pre-belli
ca, denunciava per esempio, le illusioni del progresso. Don Miguel de Unamuno predi
cava il donchisciottismo. Ma la maggior parte degli europei aveva perso il gusto
dell’avventura e dei miti eroici. La democrazia otteneva il favore delle masse socialiste
e sindacalizzate, compiaciute dalle loro facili conquiste graduali, orgogliose delle loro
cooperative, della loro organizzazione, delle loro «case del popolo» e della loro buro
crazia. I capi e gli oratori della lotta di classe godevano di una popolarità, senza rischi,
che faceva sopire nelle loro anime ogni velleità rivoluzionaria. La borghesia si lasciava
guidare da leaders intelligenti e progressisti che, sedotti dalla stoltezza e dall’impru
denza di una politica di persecuzione delle idee e degli uomini del proletariato, preferi
vano una politica diretta ad addomesticarli e ad ammorbidirli con sagaci transazioni.
Uno spirito decadente ed estetizzante si diffondeva, sottilmente, tra gli strati supe
riori della società. Il critico italiano Adriano Tilgher, in uno dei suoi notevoli saggi,
definisce così l’ultima generazione della borghesia parigina: «Prodotto di una civiltà
plurisecolare, satura di esperienza e di riflessione, analitica ed introspettiva, artificiale e
libresca, a questa generazione cresciuta prima della guerra è toccato di vivere in un
mondo che sembrava consolidato per sempre ed assicurato contro ogni possibilità di
cambiamento. E a questo mondo si è adattata senza sforzo. Generazione dai nervi e dal
cervello totalmente consumati e stanchi a causa delle grandi fatiche dei loro genitori:
non sopportava gli sforzi tenaci, le tensioni prolungate, le scosse brusche, i rumori
forti, le luci vive, l’aria libera e agitata; amava la penombra e i crepuscoli, le luci dolci e
discrete, i suoni smorzati e lontani, i movimenti misurati e regolari». L’ideale di questa
generazione era quello di vivere dolcemente.
II
Quando l’atmosfera dell’Europa, prossima alla guerra, si caricò troppo di elettri
cità, i nervi di questa generazione sensuale, elegante e ipersensibile, soffrirono di uno
strano malessere e di un’insolita nostalgia. Un po’ annoiati dal vivre avec douceur, ven
nero scossi da un appetito morboso, da un desiderio malsano. Invocarono, quasi con
ansia, quasi con impazienza, la guerra. La guerra non appariva come una tragedia,
come un cataclisma, ma piuttosto come uno sport, come un alcaloide o come uno spet
tacolo. Ah!, la guerra, - come in un romanzo di Jean Bernier, questa gente la presagiva
e l’auspicava - elle serait très chic la guerre.
Ma la guerra non corrispose a questa previsione frivola e stupida. La guerra non
volle essere così mediocre. Parigi sentì, nelle sue viscere, lo strazio del dramma bellico.
L’Europa, incendiata, lacerata, cambiò mentalità e psicologia.
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Tutte le energie romantiche dell’uomo occidentale, anestetizzate da tanti lustri di
pace confortevole e pingue, rinacquero tempestose e prepotenti. Risuscitò il culto della
violenza. La Rivoluzione Russa infuse nella dottrina socialista un’anima guerriera e
mistica. E al fenomeno bolscevico seguì il fenomeno fascista. Bolscevichi e fascisti non
assomigliavano ai rivoluzionari e ai conservatori pre-bellici. Erano privi dell’antica
superstizione del progresso. Erano testimoni, coscienti o incoscienti, del fatto che la
guerra aveva dimostrato all’umanità che potevano ancora sopraggiungere dei fatti
superiori alle previsioni della Scienza e anche dei fatti contrari all’interesse della
Civiltà.
La borghesia, spaventata dalla violenza bolscevica, fece appello alla violenza fasci
sta. Era molto scettica sul fatto che le sue forze legali bastassero a difenderla dagli
assalti della rivoluzione. Ma, a poco a poco, appare, successivamente, nel suo animo, la
nostalgia della crassa tranquillità pre-bellica. Questa vita ad alta tensione la disgusta e
l’affatica. La vecchia burocrazia socialista e sindacale condivide questa nostalgia.
Perché non tornare - si domanda - ai bei tempi pre-bellici? Uno stesso sentimento
della vita lega e accorda spiritualmente questi settori della borghesia e del proletariato,
che lavorano, in accomandita, per screditare, in un colpo solo, il metodo bolscevico e il
metodo fascista. In Italia, quest’episodio della crisi contemporanea presenta i contorni
più nitidi e più precisi. Lì, la vecchia guardia borghese ha abbandonato il fascismo e si
è accordata sul terreno della democrazia, con la vecchia guardia socialista. Il program
ma di tutta questa gente si condensa in una sola parola: normalizzazione. La normaliz
zazione sarebbe il ritorno alla vita tranquilla, il licenziamento o il seppellimento di ogni
romanticismo, di ogni eroismo, di ogni donchisciottismo di destra o di sinistra. No al
ritorno, con i fascisti, al Medio Evo. No all’avanzare, con i bolscevichi, verso l’Utopia.
Il fascismo parla un linguaggio belligerante e violento che allarma coloro che
aspirano solo alla normalizzazione. Mussolini in un discorso, ha detto: «Non vale la
pena di vivere come uomini e come partito e soprattutto non varrebbe la pena di
chiamarsi fascisti, se non si sapesse che si sta in mezzo alla tempesta. Chiunque è
capace di navigare in bonaccia, quando i venti gonfiano le vele, quando non ci sono
onde né cicloni. La bellezza, la grandiosità, e oserei dire l’eroismo, consiste nel navi
gare quando infuria la tempesta. Un filosofo tedesco diceva: vivi pericolosamente.
Io vorrei che questa fosse la parola d ’ordine del giovane fascismo italiano: vivere
pericolosamente. Questo significa essere pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, a qual
siasi pericolo, a qualsiasi azione, quando si tratta di difendere la patria e il fasci
smo». Il fascismo non concepisce la controrivoluzione come un’impresa volgare e
poliziesca ma come un’impresa epica ed eroica. Tesi eccessiva, tesi incandescente,
tesi esorbitante per la vecchia borghesia, che non vuole assolutamente andare così
lontano. Che si fermi e fallisca la rivoluzione, chiaro, ma se è possibile con le buone
maniere. Il manganello non deve essere impiegato se non in casi estremi. E non
bisogna toccare, in nessun caso, né la Costituzione né il Parlamento. Bisogna lascia
re le cose come stavano. La vecchia borghesia aspira a vivere in modo dolce e parla
mentare. «Liberamente e tranquillamente», scriveva in polemica con Mussolini 11
Corriere della Sera di Milano. Ma sia gli uni che gli altri termini designano la stessa
aspirazione.
Da parte loro i rivoluzionari, così come i fascisti, si propongono di vivere pericolo
samente. Nei rivoluzionari, così come nei fascisti, si avverte lo stesso impulso romanti
co, lo stesso spirito donchisciottesco. La nuova umanità, nelle sue due espressioni
antitetiche, accusa una nuova intuizione della vita. Questa intuizione della vita non si
affaccia, esclusivamente, nella prosa belligerante dei politici. In alcune divagazioni di
Luis Bello trovo questa frase: «Bisogna correggere Cartesio: Combatto, quindi esi
sto». La correzione risulta, in verità opportuna. La formula filosofica di un’età razio82
nalista doveva essere: «Penso, quindi esisto». Ma a quest’età romantica, rivoluzionaria
e donchisciottesca, non serve più la stessa formula. La vita, più che pensiero, oggi
vuol essere azione, cioè lotta. L’uomo contemporaneo ha bisogno di fede. E l’unica
fede, che può occupare il suo io profondo, è una fede combattiva. Non torneranno,
chissà per quanto, i tempi del dolce vivere. La dolce vita pre-bellica non ha generato
altro che scetticismo e nichilismo. E dalla crisi di questo scetticismo e di questo nichi
lismo, nasce l’aspra, la forte, la perentoria necessità di una fede e di un mito che spin
ga gli uomini a vivere pericolosamente.
{Trad, di Lia Ogno)
«Esiste u n ’inquietudine propria nel nostro tempo?» è uno degli ultim i scritti
dell’autore, uscito su «Mundial» il 29 marzo 1930 e poi inserito nella raccolta El arti
sta y la època. Si tratta della risposta a un’inchiesta della rivista francese «Cahiers de
l’Etoile».
Esiste un’inquietudine propria del nostro tempo?
L’inquietudine contemporanea è un fenomeno che comprende gli atteggiamenti
più opposti. Pertanto, il termine si presta necessariamente alla speculazione e all’equi
voco. All’interno dell’inquetudine contemporanea si muovono sia coloro che professano
una fede sia coloro che ne vanno in cerca. Il cattolicesimo di Max Jacob figura tra i
segni di quest’inquietudine alla stessa stregua del marxismo di André Breton e dei suoi
compagni de La Révolution Surréaliste. Il fascismo pretende di rappresentare uno «spi
rito nuovo», esattamente come il bolscevismo.
Esiste un’inquietudine propria del nostro tempo, nel senso che questo tempo pos
siede, come tutti i periodi di transizione e di crisi, dei problemi che lo caratterizzano.
Ma quest’inquietudine in alcuni è disperazione, in altri è vuoto.
Non si può parlare di un ’inquietudine contemporanea come dell’uniforme e miste
riosa preparazione spirituale di un mondo nuovo.
Così come nell’arte delle avanguardie, gli elementi di rivoluzione vengono confusi
con gli elementi di decadenza, nell 'inquietudine contemporanea si confonde la fede fit
tizia, intellettuale, pragmatica di quelli che trovano il loro equilibrio nei dogmi e
nell’ordine antico, con la fede appassionata, rischiosa, eroica di quelli che combattono
pericolosamente per la vittoria di un ordine nuovo.
La storia clinica dell’inquietudine contemporanea prenderà nota, con meticolosa
obiettività, di tutti i sintomi della crisi del mondo moderno, ma ci servirà ben poco
come mezzo per risolverla. L’inchiesta dei «Cahiers de l’Etoile» non invita a nient’altro
che a un esame di coscienza, dal quale non può emergere altro, come risultato o indica
zione complessiva, che la pluralità disorientante di proposte.
Ciò che si designa con il nome di inquietudine non è altro, in ultima analisi, che
l’espressione intellettuale e sentimentale. Gli artisti e i pensatori del nostro tempo si
rifiutano, per orgoglio o per timore, di vedere nel loro disagio e nella loro angoscia il
riflesso della crisi del capitalismo.
Si vogliono sentire estranei o superiori a questa crisi. Non si rendono conto che la
morte dei principi e dei dogmi che costituivano l’Assoluto borghese è stata decretata
su un piano diverso da quello della loro speculazione personale.
83
La borghesia ha perduto il potere morale che prima le aveva permesso di includere
tra le sue schiere, senza conflitto interno, la maggior parte degli intellettuali. Le forze
centrifughe, secessioniste, agiscono su di essi con un’intensità e una molteplicità prima
sconosciuta. Derivano da ciò tanto le diserzioni quanto le conversioni. L’inquietudine
appare come una grande crisi di coscienza.
L’inquietudine contemporanea, pertanto, si compone di fattori negativi e di fattori
positivi. L’inquietudine degli spiriti che tendono esclusivamente alla sicurezza e al
riposo è priva di qualsiasi valore creativo. Attraverso questo sentiero si scopriranno
solo i rifugi, le cittadelle del passato. Nell’uomo moderno, l’abdicazione più vile è
quella di chi cerca asilo in essi.
La nostra prima dichiarazione di guerra deve essere fatta a ciò che il mio compa
triota iberico definisce «filosofie di ritorno». Il fiorire di queste filosofie, in un clima
malaticcio di decadenza, rientra in gran misura in Occidente nell 'inquietudine contem
poranea? Questa è la questione principale che bisogna chiarire se non si vogliono
scambiare dei sottili alibi dell’Intelligenza e delle teorie disfattiste sulla modernità per
elaborazioni di uno spirito nuovo.
(Trad, di Lia Ogno)
«Il problema delle razze in America Latina» è un documento preparato per la Conferenza
dei Partiti Comunisti Latinoamericani, svoltasi a Buenos Aires nel giugno del 1929.
Riportiamo la prima parte del testo, redatta da Maridtegui, che non potè intervenire per
sonalmente alla riunione . In essa troviamo uno dei tentativi più lucidi di operare una
sintesi tra un discorso classista e una considerazione della specificità dei problemi tecnici.
Il testo è compreso nel volume Ideologia y Polìtica.
Il problema delle razze in America Latina
1. Impostazione del problema
Il problema delle razze in America Latina, nella speculazione intellettuale bor
ghese, serve tra le altre cose ad occultare o ignorare i veri problemi del continente.
La critica marxista ha l’obbligo improrogabile di impostarlo nei suoi termini reali,
separandolo da ogni deformazione pretestuosa e pedantesca. Dal punto di vista eco
nomico, sociale e politico, il problema delle razze, come quello della terra, è fonda
mentalmente, quello della liquidazione del feudalesimo.
Le razze indigene in America Latina si trovano in uno stato di arretratezza e di
ignoranza clamoroso a causa della schiavitù che pesa sulle loro spalle a partire dalla
conquista spagnola. L’interesse della classe sfruttatrice, - prima spagnola poi creola
- ha mirato costantemente, sotto vari travestimenti, a spiegare la condizione delle
razze indigene con l’argomento della loro inferiorità o del loro primitivismo. Con
ciò, quella classe non ha fatto altro che riprodurre, in questa questione nazionale
interna, le ragioni della razza bianca nella questione del trattamento e della tutela dei
popoli coloniali.
Il sociologo Vilfredo Pareto, che riduce la razza a uno solamente dei vari fatto
ri che determinano le forme di sviluppo di una società, ha denunciato l’ipocrisia
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dell’idea di razza nella politica imperialista e schiavista dei popoli bianchi nei
seguenti termini: «La teoria di Aristotele sulla schiavitù naturale è anche quella
dei popoli civili moderni per giustificare le proprie conquiste e il proprio dominio
su popoli da loro definiti di razza inferiore. E come Aristotele diceva che esistono
uomini naturalmente schiavi e altri padroni, che è conveniente che quelli servano
e questi comandino, il che è inoltre giusto e proficuo per tutti; allo stesso modo i
popoli moderni che si gratificano da soli con l’epiteto di civili, sostengono l’esi
stenza di popoli che devono naturalmente dominare, e sono loro e altri popoli che
non meno naturalmente devono obbedire, e sono quelli che vogliono sfruttare;
essendo giusto, conveniente e per tutti proficuo che gli uni comandino e gli altri
servano. Da ciò risulta che se un inglese, un tedesco, un francese, un belga, un ita
liano lotta e muore per la patria è un eroe; ma se un africano osa difendere la pro
pria patria contro queste nazioni è un vile ribelle e un traditore. E gli europei
compiono il sacrosanto dovere di distruggere gli africani, come per esempio in
Congo, per insegnare loro ad essere civili. Non manca poi chi acriticam ente
ammira quest’opera ‘di pace, di progresso, di civiltà’. E necessario aggiungere che
con un’ipocrisia veramente ammirevole, i buoni popoli civili pretendono di fare il
bene dei popoli a loro sottomessi, quando li opprim ono e addirittura li distruggo
no; e dedicano loro così tanto amore che li vogliono ‘liberi’ per forza. Così gli
inglesi liberarono gli indiani dalla tirannia dei Rajah, i tedeschi liberarono gli afri
cani dalla tirannia dei re negri, i francesi liberarono gli abitanti del Madagascar e,
per renderli più liberi, ne uccisero molti riducendo gli altri a uno stato che solo
nel nome non è di schiavitù; così gli italiani liberarono gli arabi dall’oppressione
dei turchi. Tutto ciò viene detto seriamente e c’è perfino chi ci crede. Il gatto
afferra il topo e se lo mangia, ma non dice che lo fa per il bene del topo, non pro
clama il dogma dell’uguaglianza di tutti gli animali e non alza ipocritamente gli
occhi al cielo per adorare il ‘Padre N ostro’ (Trattato di Sociologia Generale, voi.
II)».
Lo sfruttamento degli indigeni in America Latina cerca anche di giustificarsi con
il pretesto che serve alla redenzione culturale e morale delle razze oppresse. La colo
nizzazione dell’America Latina da parte della razza bianca ha avuto, come è facile
provarlo, solo effetti regressivi e deprimenti sulla vita delle razze indigene. La loro
evoluzione naturale è stata interrotta dall’oppressione umiliante del bianco e del
meticcio. Popoli come quello quechua e quello azteco che avevano raggiunto un
livello avanzato di organizzazione sociale, regredirono sotto il regime coloniale alla
condizione di tribù agricole disperse. Gli elementi di civiltà che sussistono nelle
comunità indigene del Perù sono soprattutto ciò che sopravvive dell’antica organiz
zazione autoctona. Nella campagna feudalizzata la civiltà bianca non ha creato nuclei
di vita urbana, non ha nemmeno sempre significato industrializzazione e meccanizza
zione: nel latifondo della sierra, eccetto in certe aziende dove si alleva il bestiame, la
dominazione bianca non rappresenta, nemmeno tecnologicamente, alcun progresso
nei confronti della cultura aborigena.
Ciò che definiamo problema indigeno è lo sfruttamento feudale dei nativi nella
grande proprietà agraria. L’indio, nel 90 per cento dei casi, non è un proletario ma
un servo. Il capitalismo, come sistema economico e politico, si rivela incapace in
America Latina di costruire un’economia emancipata dalle tare feudali. Il pregiudi
zio dell’inferiorità della razza indigena, gli consente il massimo sfruttamento del
lavoro di questa razza, e non è disposto a rinunciare a questo vantaggio da cui ottie
ne tanti profitti. In agricoltura, l’istituzione del salario, l’adozione della macchina,
non cancellano il carattere feudale della grande proprietà. Perfezionano semplicemente il sistema di sfruttamento della terra e delle masse contadine. Buona parte dei
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nostri borghesi e proprietari rurali sostiene calorosamente la tesi dell’inferiorità
dell’indio: il problema indigeno è a loro giudizio un problema etnico la cui soluzione
dipende dall’incrocio della razza indigena con razze superiori straniere. La perma
nenza di un’economia di stampo feudale si presenta però in opposizione inconcilia
bile con un movimento immigratorio sufficiente a produrre quella trasformazione
per mezzo dell’incrocio. I salari che vengono pagati nelle aziende della costa e della
sierra (quando in quest’ultima si adotta il salario) eliminano la possibilità di impiega
re immigranti europei in agricoltura. Gli immigranti contadini non accetterebbero
mai di lavorare nelle condizioni degli indigeni; si potrebbero convincere solo trasfor
mandoli in piccoli proprietari. L’indio non ha mai potuto essere sostituito nei lavori
agricoli delle aziende della costa se non con lo schiavo negro o con il «coolie» cinese.
I piani di colonizzazione con immigranti europei hanno come ambito esclusivo, per
ora, la regione boscosa d ’Oriente, conosciuta con il nome di Selva. La tesi secondo
cui il problema indigeno è un problema etnico, non merita neppure di essere discus
sa; ma conviene osservare fino a che punto la soluzione che propone è in contrasto
con gli interessi e le possibilità della borghesia e dei proprietari terrieri, all’interno
dei quali trova i suoi aderenti.
Per l’imperialismo yankee o inglese, il valore economico di queste terre sarebbe
molto minore se oltre alla loro ricchezza naturale non possedessero una popolazione
indigena, arretrata e miserabile che, con l’appoggio della borghesia locale, si può
sfruttare al massimo. La storia dell’industria zuccheriera peruviana, attualmente in
crisi, dimostra che i suoi utili si sono basati, soprattutto sulla manodopera a buon
mercato, cioè sulla miseria dei braccianti. Tecnicamente questa industria non è stata
in grado di competere con quelle degli altri paesi del mercato mondiale in nessuna
epoca. La distanza dei mercati di consumo gravava con elevati carichi sulla sua
esportazione. Ma tutti questi svantaggi venivano compensati largamente dalla mano
dopera a buon mercato. Il lavoro delle masse contadine schiavizzate, alloggiate in
capanne ripugnanti, prive di ogni libertà e diritto, sottomesse a una giornata di lavo
ro opprimente, metteva gli zuccherieri peruviani in condizione di competere con
coloro che in altri paesi coltivavano meglio la propria terra o erano protetti da tariffe
protezionistiche o collocati in una situazione geografica più vantaggiosa. Il capitali
smo straniero si serve della classe feudale per sfruttare a proprio vantaggio queste
masse contadine. Ma a volte l’incapacità dei latifondisti (eredi dei pregiudizi, della
superbia e dell’arbitrarietà medievali) a ricoprire la funzione di dirigenti di imprese
capitaliste, è tale che esso si vede obbligato a prendere in mano l’amministrazione
dei latifondi e quella degli zuccherifici. Questo è ciò che avviene, particolarmente,
nell’industria zuccheriera, m onopolizzata quasi com pletam ente nella valle di
Chicama da un’azienda inglese e una tedesca.
La razza ha soprattutto quest’importanza per la questione dell’imperialismo. Ma
ha anche un altro ruolo, che impedisce di assimilare il problema della lotta per l’indi
pendenza nazionale nei paesi d ’America, con una forte percentuale di popolazione
indigena, allo stesso problema in Asia o in Africa. Gli elementi feudali o borghesi,
nei nostri paesi, provano per gli indios, come per i negri e i mulatti, lo stesso disprez
zo degli imperialisti bianchi. Il sentimento razziale agisce sulla classe dominante in
senso assolutamente favorevole alla penetrazione imperialista. Il signore o borghese
creolo ed i suoi braccianti di colore non hanno niente in comune. La solidarietà di
classe si unisce alla solidarietà di razza o di pregiudizio, per fare delle borghesie
nazionali uno strumento docile dell’imperialismo yankee o britannico. E quel senti
mento si estende a gran parte delle classi medie, che imitano l’aristocrazia e la bor
ghesia nel disprezzo per la plebe di colore, anche se il proprio meticciato è anche
troppo evidente.
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La razza negra, importata in America Latina dai colonizzatori per aumentare il
proprio potere sulla razza indigena americana, svolse passivamente la propria fun
zione colonialista. Sfruttata essa stessa duramente, rafforzò l’oppressione della clas
se indigena da parte dei conquistatori spagnoli. Un maggior grado di mescolanza, di
familiarità e di convivenza con questi nelle città coloniali, la trasformò in alleato del
dominio bianco, nonostante qualsiasi slancio di umore turbolento o ribelle. Il negro
o il mulatto, nelle proprie prestazioni di artigiano o di domestico, costituì la plebe
di cui dispose sempre, più o meno incondizionatamente la casta feudale. L ’indu
stria, la fabbrica, il sindacato, redim ono il negro da questa sottom issione.
Cancellando tra i proletari la frontiera della razza, la coscienza di classe eleva
moralmente e storicamente il negro. Il sindacato significa la rottura definitiva delle
abitudini servili che perpetuano in lui, al contrario, la condizione di artigiano o ser
vitore.
L’indio, per le sue facoltà di assimilazione al progresso, alla tecnica di produzione
moderna, non è assolutamente inferiore al meticcio. Al contrario è, generalmente,
superiore. L’idea della sua inferiorità razziale è troppo screditata perché meriti, di
questi tempi, l’onore di una confutazione. Il pregiudizio del bianco, che è stato
anche quello del creolo, sull’inferiorità dell’indio, non si basa su nessun fatto degno
di essere preso in considerazione nello studio scientifico della questione. La dipen
denza da coca e l’alcolismo della razza indigena, molto esagerati dai loro critici, non
sono nient’altro che la conseguenza, i risultati dell’oppressione bianca. I proprietari
terrieri fomentano e sfruttano questi vizi, che per certi aspetti si alimentano con gli
impulsi della lotta contro il dolore, particolarmente vivi e operanti in un popolo sog
giogato. L’indio nell’antichità non beveva nient’altro che «chicha», bevanda fermen
tata di mais, ma da quando il bianco introdusse nel continente la coltivazione della
canna da zucchero, beve alcool. La produzione di alcool di canna è uno degli affari
più «garantiti» e sicuri del latifondismo, nelle cui mani si trova anche la produzione
di coca nelle valli calde della selva.
Da un po’ di tempo l’esperienza giapponese ha dimostrato la facilità con cui
popoli di razza e tradizioni diverse da quelle europee, si appropriano della scienza
occidentale e si adattano all’uso della sua tecnica di produzione. Nelle miniere e
delle fabbriche della Sierra del Perù, l’indio contadino conferma quella esperienza.
E già la sociologia marxista ha fatto giustizia sommaria delle idee razziste, tutte
prodotto dello spirito imperialista. Bukharin scrive nella Teoria del Materialismo
Storico: «La teoria delle razze è prima di tutto contraria ai fatti. Si considera la razza
nera come una razza ‘inferiore’, incapace di svilupparsi per sua propria natura.
Tuttavia è provato che gli antichi rappresentanti di questa razza nera, i kushiti, ave
vano creato una civiltà molto avanzata in India (prima degli indù) e in Egitto. La
razza gialla, che neppure gode di un gran favore, ha creato con la civiltà cinese una
cultura che era infinitamente più elevata di quella dei propri contemporanei bian
chi; allora i bianchi non erano che bambini se paragonati ai cinesi. Oggi sappiamo
molto bene ciò che i greci antichi attinsero dagli assiro-babilonesi e dagli egizi.
Questi fatti sono sufficienti per dimostrare che le spiegazioni basate sull’argomento
della razza non servono a nulla. Comunque ci si potrebbe dire: “Forse avete ragio
ne; ma potete affermare che un negro medio corrisponda per le sue qualità a un
europeo medio?” Non si può rispondere a tale domanda con una battuta come
quella di certi professori liberali: “Tutti gli uomini sono uguali”; secondo Kant la
personalità umana costituisce un fine in se stessa; Gesù Cristo insegnava che non
c’erano nè Greci nè Ebrei, ecc. (si veda, per esempio, in Khvestov: “è molto proba
bile che la verità sia dalla parte dei difensori dell’uguaglianza degli uomini”. La
Teoria del processo storico). Quindi tendere all’uguaglianza degli uomini, non vuol
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dire riconoscere l’uguaglianza delle loro qualità e, d ’altra parte, si tende sempre
verso ciò che non esiste ancora, perché sarebbe altra cosa forzare una porta aperta.
Noi non cerchiamo per il momento di sapere verso cosa si debba tendere. Ciò che
interessa è sapere se esiste una differenza tra il livello di cultura dei bianchi e quello
dei negri in generale. Certamente questa differenza esiste. Attualmente i “bianchi”
sono superiori agli altri. Ma questo cosa prova? Prova che attualmente le razze
hanno cambiato di posto. E questo contraddice la teoria delle razze. Infatti questa
teoria riduce tutto alla qualità delle razze, alla loro “natura” si sarebbe fatta sentire
in tutti i periodi della storia. Che cosa si può dedurre da tutto ciò? Che la «natura»
stessa cambia costantemente, in relazione alle condizioni di esistenza di una deter
minata razza. Queste condizioni sono prodotte dalle relazioni tra la società e la
natura, cioè dallo stato delle forze produttive. Quindi la teoria delle razze non spie
ga assolutamente le condizioni dell’evoluzione sociale. Appare qui chiaro che dob
biamo iniziare l’analisi dallo studio del movimento delle forze produttive» (La teo
ria del materialismo storico, p. 129-130).
Dal pregiudizio deH’inferiorità della razza indigena si inizia a passare all’estremo
opposto: quello per cui la creazione di una nuova cultura americana sarà essenzial
mente opera delle forze razziali più autoctone. Sottoscrivere questa tesi equivale a
cadere nel più ingenuo e assurdo misticismo. Al razzismo di coloro che disprezzano
l’indio perché credono nella superiorità assoluta e permanente della razza bianca,
sarebbe insensato e pericoloso opporre il razzismo di coloro che sopravvalutano
l’indio, con una fede messianica nella sua missione di razza nella rinascita americana.
Le possibilità che l’indio si elevi dal punto di vista materiale ed intellettuale
dipendono dal cambiamento delle condizioni economico-sociali. Non sono determi
nate dalla razza ma dall’economia e dalla politica. La razza da sola non si è sveglia
ta, nè potrebbe risvegliarsi, fino a comprendere un’idea emancipatrice. Soprattutto
non acquisirebbe mai il potere di imporla e realizzarla. Ciò che assicura la sua
emancipazione è il dinamismo di un’economia e di una cultura che hanno nelle loro
viscere il germe del socialismo. La razza india non fu vinta, nella guerra di conqui
sta, da una razza superiore dal punto di vista etnico o qualitativo; ma fu certamente
vinta dalla tecnica che era molto superiore alla tecnica degli aborigeni. La polvere
da sparo, il ferro, la cavalleria, non erano vantaggi razziali, erano vantaggi tecnici.
Gli spagnoli arrivarono in queste terre lontane perché disponevano di mezzi di
navigazione che consentivano loro di attraversare gli oceani. La navigazione ed il
commercio gli permisero più tardi lo sfruttamento di alcune risorse naturali delle
proprie colonie. Il feudalesimo spagnolo si sovrappose al sistema agricolo indigeno,
rispettando in parte le sue forme comunitarie. Ma questo stesso adattamento creava
un ordine statico, un sistema economico i cui fattori di stagnazione erano la miglio
re garanzia della servitù indigena. L ’industria capitalista rompe questo equilibrio,
interrompe questo ristagno, creando nuove forze produttive e nuovi rapporti di
produzione. Il proletario cresce gradualmente a discapito dell’artigianato e della
servitù. L’evoluzione economica e sociale della nazione entra in un’era di attività e
di contraddizioni che, sul piano ideologico, causa la comparsa e lo sviluppo del
pensiero.
In tutto ciò, l’influenza del fattore razza si dimostra evidentemente insignificante di
fronte all’influenza del fattore economia, - produzione, tecnica, scienza, ecc. -. Senza
gli elementi materiali che crea l’industria moderna, o se si vuole il capitalismo, sarebbe
possibile abbozzare il piano, o almeno l’intenzione, di uno stato socialista, basato sulle
rivendicazioni, sull’emancipazione delle masse indigene? Il dinamismo di questa eco
nomia, di questo regime che rende instabile ogni rapporto e che, oltre alle classi con
trappone le ideologie, è senza dubbio ciò che rende possibile la resurrezione indigena,
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un evento deciso dal gioco di forze economiche, politiche, culturali, ideologiche, non
di forze razziali. La più grossa accusa contro le classi dominanti della repubblica è
quella di non essere riuscite ad accelerare, con un’intelligenza più liberale, più borghe
se, più capitalista della loro missione, il processo di trasformazione dell’economia colo
niale in economia capitalista. La feudalità oppone all’emancipazione, alla rinascita indi
gena, la sua stagnazione e la sua inerzia; il capitalismo, con i suoi conflitti, con i suoi
stessi strumenti di sfruttamento, spinge le masse verso le loro rivendicazioni, le destina
ad una lotta in cui acquisiscono un’abilità materiale e mentale per presiedere a un ordi
ne nuovo.
Il problema delle razze non è comune a tutti i paesi deH’America Latina, né pre
senta in tutti quelli che lo vivono le stesse proporzioni e gli stessi caratteri. In alcuni
paesi latinoamericani ha una localizzazione regionale e non influisce significativa
mente sul processo sociale ed economico. Ma in paesi come il Perù e la Bolivia e un
po’ meno in Ecuador, dove la maggior parte della popolazione è indigena, la rivendi
cazione dell’indio è la rivendicazione popolare e sociale dominante.
In questi paesi il fattore razza si complica con il fattore classe in modo tale che una
politica rivoluzionaria non può evitare di prenderlo in considerazione. L’indio que
chua o aymara vede il suo oppressore nel «misti», nel bianco. E nel meticcio, soltanto
la coscienza di classe è capace di distruggere l’abitudine al disprezzo, alla repulsione
nei confronti dell’indio. Non è raro trovare negli stessi elementi della città che si pro
clamano rivoluzionari il pregiudizio dell’inferiorità dell’indio e la resistenza a ricono
scere questo pregiudizio come una semplice eredità o contagio mentale dell’ambiente.
La barriera della lingua si interpone tra le masse contadine indie e i nuclei operai
rivoluzionari di razza bianca o meticcia.
Ma, attraverso i propagandisti indigeni, la dottrina socialista, per la natura delle
sue rivendicazioni, attecchirà velocemente tra le masse indigene. Ciò che finora è
mancata è stata la preparazione sistematica di questi propagandisti. L’indio alfabetiz
zato, che viene corrotto dalla città, si trasforma regolarmente in un collaboratore
degli sfruttatori della sua razza. Ma nella città, nell’ambiente operaio rivoluzionario,
l’indio inizia già ad assimilare l’idea rivoluzionaria, ad appropriarsene, a capire il suo
valore come strumento di emancipazione di questa razza, oppressa dalla stessa classe
che sfrutta in fabbrica l’operaio, in cui scopre un fratello di classe.
Il realismo di una politica socialista sicura e precisa nella valutazione e nell’utiliz
zazione dei fatti sui quali deve agire in questi paesi, può e deve convertire il fattore
razza in fattore rivoluzionario. Lo Stato attuale in questi paesi si basa sull’alleanza
della classe feudale di proprietari terrieri con la borghesia mercantile. Abbattuta la
feudalità latifondista, al capitalismo urbano mancheranno le forze per resistere a
quella operaia in ascesa. Lo rappresenta una borghesia mediocre, debole, cresciuta
nel privilegio, senza spirito combattivo e organizzato, che perde ogni giorno di più il
suo ascendente sull’oscillante strato intellettuale.
{Trad, di Stella Soldani)
Anche Difesa del marxismo è un’opera organica, benché l’autore non sia riuscito a veder
ne la pubblicazione, che avverrà solo nel 1959, dopo un’edizione parziale del 1934. Oggi
costituisce il voi. 5 delle Obras completas, Defensa del marxismo. Polémica revolucionaria. Il primo saggio è un confronto serrato con Henri de Man e il suo celebre libro
«revisionista» Au-delà du marxisme.
89
Henri de Man e la «crisi» del marxismo
In un volume che probabilmente aspira alla stessa popolarità e divulgazione dei
due temi de II Tramonto dell’Occidente di Spengler, Henri de Man si propone - andan
do al di là dell’impegno di Eduard Bernstein che risale a un quarto di secolo fa - non
solo la «revisione», ma la «liquidazione» del marxismo.
Il tentativo non è certamente originale. Il marxismo è stato vittima, fin dalla fine
del XIX secolo - cioè da prima che avesse inizio la reazione contro le caratteristi
che di quel secolo razionalista, tra le quali viene annoverato -, degli attacchi, più o
meno documentati e istintivi, di professori universitari, eredi del rancore della
scienza ufficiale verso Marx e Engels, e di militanti eterodossi, disgustati dal forma
lismo della dottrina del partito. Nel 1897, il professor Charles Andler pronosticava
la «dissoluzione» del marxismo e dalla cattedra intratteneva i suoi ascoltatori, con
le sue divagazioni erudite su questo tema. Il professor Masaryk, oggi Presidente
della Repubblica Cecoslovacca, diagnosticò, nel 1898, la «crisi del marxismo», e
questa frase, meno categorica e più universitaria di quella di Andler, ebbe maggiore
fortuna. Masaryk accumulò, più tardi, in seicento pagine a caratteri gotici, le sue
dotte argomentazioni di sociologo e filosofo sul Materialismo Storico, senza che la
sua critica pedante che, come venne subito dimostrato da vari commentatori, non
coglieva il senso della dottrina di Marx, riuscisse a scalzare minimamente i fonda
menti di essa. E nella stessa epoca, E duardo B ernstein, insigne studioso di
Economia, proveniente dalla scuola social-democratica, formulò la sua tesi revisio
nista, elaborata con dati sullo sviluppo del capitalismo, che non confermavano le
previsioni di Marx rispetto alla concentrazione del capitale e aU’impoverimento del
proletariato. A causa del suo carattere economico, la tesi di Bernstein ebbe una eco
più vasta di quella dei professori Andler e Masaryk; ma né Bernstein, né gli altri
«revisionisti» della sua scuola, riuscirono a espugnare la cittadella del marxismo.
Bernstein, che non pretendeva di suscitare una corrente secessionista, ma di esigere
la considerazione delle circostanze non previste da Marx, si mantenne aH’interno
della social-democrazia tedesca, che in quell’epoca era dominata, d ’altra parte,
dallo spirito riform ista di Lasalle p iu tto sto che dal pensiero rivoluzionario
dell’autore de II Capitale.
Non vale la pena di elencare altre offensive minori, effettuate con argomenti identi
ci o analoghi e circoscritte ai rapporti tra il marxismo e una scienza determinata, ad
esempio il diritto. L’eresia è indispensabile per verificare la salute del dogma. Alcune
sono servite a stimolare l’attività intellettuale del socialismo, compiendo un’opportuna
azione di reagenti. Di altre, puramente individuali, ha fatto giustizia implacabile il
tempo.
La vera revisione del marxismo, nel senso di rinnovamento e continuazione
dell’opera di Marx, è stata realizzata, nella teoria e nella pratica, da un’altra catego
ria di intellettuali rivoluzionari. Georges Sorel, nei suoi studi che separano e distin
guono ciò che in Marx è essenziale e sostanziale da ciò che è formale e contingente,
ha rappresentato, nei primi decenni di questo secolo, forse più che la reazione del
sentimento classista dei sindacati, contro la degenerazione evoluzionistica e parla
mentare del socialismo, il ritorno alla concezione dinamica e rivoluzionaria di Marx
e il suo inserimento nella nuova realtà intellettuale e organica. Attraverso Sorel, il
marxismo assimila gli elementi e le acquisizioni sostanziali delle correnti filosofiche
posteriori a Marx. Superando i fondamenti razionalistici e positivisti del socialismo
della sua epoca, Sorel trova in Bergson e nei pragmatisti delle idee che corroborano
il pensiero socialista, restituendolo alla missione rivoluzionaria da cui era stato pro
gressivamente allontanato dall’imborghesimento intellettuale e spirituale dei partiti
90
e dei loro parlamentari, che si accontentavano, in campo filosofico, dello storicismo
più inconsistente e dell’evoluzionismo più pavido. La teoria dei miti rivoluzionari,
che applica al movimento socialista l’esperienza dei movimenti religiosi, stabilisce le
basi di una filosofia della rivoluzione, profondamente impregnata di realismo psico
logico e sociologico, e allo stesso tempo precorre le conclusioni del relativismo con
temporaneo, così care a Henri de Man. La rivendicazione del sindacato, come fatto
re primordiale di una coscienza genuinamente socialista e come istituzione caratteri
stica di un nuovo ordine economico e politico, indica la rinascita dell’idea classista
messa a tacere dalle illusioni democratiche nel periodo di apogeo del suffragio uni
versale, in cui risuonò, magnifica, l’eloquenza di Juarès. Sorel, nel chiarire il ruolo
storico della violenza, è il continuatore più vigoroso di Marx in quel periodo di par
lamentarismo social-democratico, il cui effetto più evidente, nell’ambito della crisi
rivoluzionaria post-bellica, fu la resistenza psicologica e intellettuale dei leaders
operai alla presa del potere a cui li spingevano le masse. Le Riflessioni sulla Violenza
sembrano avere avuto un’influenza decisiva sulla formazione mentale di due capi
così antagonistici come Lenin e Mussolini. E in questo periodo Lenin appare incon
testabilmente come il restauratore più energico e fecondo del pensiero marxista,
qualunque siano i dubbi che a questo proposito tormentino il disilluso autore di
Oltre il Marxismo. La rivoluzione russa costituisce, che piaccia o no ai riformisti,
l’avvenimento più importante del socialismo contemporaneo. E in questo avveni
mento, la cui portata storica non si può ancora misurare, che bisogna andare a cer
care la nuova tappa marxista.
In Oltre il Marxismo, Henri de Man, per una sorta di impossibilità ad accettare e
comprendere la rivoluzione, preferisce raccogliere i malumori e le disillusioni del
dopoguerra del proletariato occidentale, come espressione dello stato attuale del sen
timento e della mentalità socialisti. Henri de Man è un riformista disilluso. Egli stesso
racconta, nel prologo al suo libro, come le delusioni della guerra distrussero la sua
fede socialista. All’origine del suo libro c’è, senza dubbio, «l’abisso, sempre più
profondo, che lo separava dai suoi vecchi correligionari marxisti convertiti al bolsce
vismo». Disilluso dalla prassi riformista, de Man - discepolo dei teorici della socialdem ocrazia tedesca, benché la sua ortodossia fosse sensibilm ente attenuata
dall’influenza di Juarès -, ma decise, come i correligionari di cui parla, di seguire la
strada della rivoluzione. La «liquidazione del marxismo», di cui si occupa, rappresen
ta prima di tutto la sua esperienza personale. Quella «liquidazione» è avvenuta nella
coscienza di Henri de Man, come in quella di molti altri socialisti intellettuali, che con
l’egocentrismo tipico della loro mentalità, si affrettarono a identificare il giudizio della
storia con la loro esperienza.
Per questo de Man ha scritto, potremo dire deliberatamente, un libro disfattista
e negativo. L’aspetto più importante di Oltre il Marxismo è, senza dubbio, la sua
critica della politica riformista. L’ambiente in cui si colloca, per la sua analisi dei
moventi e delle motivazioni del proletariato, è l’ambiente mediocre e passivo in cui
ha combattuto: quello del sindacato e quello della social-democrazia belga. Non è
mai l’ambiente eroico della Rivoluzione che, durante l’agitazione del dopoguerra,
non fu esclusivo della Russia, come qualsiasi lettore di queste righe può verificare
nelle pagine rigorosamente storiche, giornalistiche - sebbene l’autore introduca in
questo tema un lieve elemento romanzesco - de II Sentiero Rosso, di Alvarez del
Vayo. De Man ignora e elude l’emozione, il pathos rivoluzionario. Il proposito di
liquidare e di superare il marxismo, lo ha condotto ad una critica minuziosa di un
ambiente sindacale e politico che, ai nostri giorni, non è assolutam ente quello
marxista. Gli studiosi più severi e autorevoli del movimento socialista constatano
che il dirigente effettivo della social-democrazia tedesca, quella a cui teoricamente
91
e praticamente si sente così vicino de Man, non fu Marx ma Lassalle. Il riformismo
lassalliano concordava molto di più con le motivazioni e la prassi impiegate dalla
social-democrazia nel processo della sua crescita che con il rivoluzionarismo marxi
sta. Tutte le incongruenze, tutte le discrepanze che de Man osserva tra la teoria e la
pratica della social-democrazia tedesca, non sono, quindi, strettamente imputabili
al marxismo, se non nella misura in cui si voglia chiamare marxismo qualcosa che
aveva smesso di esserlo quasi fin dalla sua origine. Il marxismo attivo, vivo, di oggi,
ha molto poco a che vedere con le desolate dimostrazioni di Henri de Man, le quali
devono preoccupare, piuttosto, Vandervelde, e altri politici, della social-democra
zia belga, i quali, a quanto pare, sono rimasti profondamente impressionati dal suo
libro.
{Trad, di Lucia Lorenzini)
«Freudismo e Marxismo», oltre a ribadire il profondo interesse di Maridtegui per la
psicanalisi, rappresenta la resa dei conti con un altro tipo di revisionismo, quello inter
pretato da Max Eastman. Criticando la tendenza di una scienza a erigersi a criterio di
interpretazione globale della realtà, critica anche ogni pretesa totalizzante dello stesso
marxismo.
Freudismo e Marxismo
Il recente libro di Max Eastman, La Scienza della Rivoluzione, coincide con quello
di Henri de Man nella tendenza a studiare il marxismo con i dati della nuova psicolo
gia. Ma Eastman, che, risentito verso i bolscevichi, non è esente da moventi revisioni
stici, parte da punti di vista diversi da quelli dello scrittore belga e, per certi aspetti,
offre alla critica del marxismo un contributo più originale. Henri de Man è un eretico
del riformismo e della social-democrazia; Max Eastman è un eretico della Rivoluzione.
Il suo atteggiamento critico da intellettuale supertrotskista, lo allontanò dai Soviets di
cui aveva attaccato violentemente i capi, soprattutto Stalin, nel suo libro Depuis de la
Morte de Lenin.
Ma Eastman è ben lontano da credere che la psicologia contemporanea in gene
rale, e la psicologia freudiana in particolare, sminuiscano la validità del marxismo
come scienza pratica della rivoluzione. Al contrario: afferma che la rafforzano e indi
ca delle interessanti affinità sia tra il carattere delle scoperte essenziali di Marx e
quello delle scoperte di Freud, che tra le reazioni provocate nella scienza ufficiale
dall’uno e dall’altro. Marx dimostrò che le classi idealizzavano o mascheravano i loro
momenti e che, dietro alle loro ideologie, cioè ai loro principi politici, filosofici e
religiosi, agivano i loro interessi e i loro bisogni economici. Questa asserzione, for
mulata con il rigore e l’assolutismo che caratterizzano sempre all’origine ogni teoria
rivoluzionaria, e che si acuisce per ragioni polemiche nel dibattito con i suoi avversa
ri, feriva profondamente l’idealismo degli intellettuali, restii fino ad oggi ad ammet
tere qualsiasi nozione scientifica che implichi una negazione o una riduzione
dell’autonomia e del prestigio del pensiero o, più precisamente, dei professionisti o
funzionari del pensiero.
Freudismo e marxismo, benché i discepoli di Freud e di Marx non siano ancora i
più propensi a capirlo e a rendersene conto, sono imparentati, nei loro rispettivi
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domini, non solo per ciò che le loro teorie avevano di «umiliazione», come dice
Freud, per le concezioni idealistiche dell’umanità, ma per il modo in cui affrontano i
problemi di cui si occupano. «Per curare i turbamenti individuali - osserva Max
Eastman -, lo psicanalista presta un’attenzione particolare alle deformazioni della
coscienza causate dai moventi sessuali repressi. Il marxista, che cerca di curare i tur
bamenti della società, presta un’attenzione particolare alle deformazioni generate
dalla fame e dall’egoismo». Il vocabolo «ideologia», di Marx è semplicemente un
nome che serve a designare le deformazioni del pensiero sociale e politico prodotte
dai moventi repressi. Questo vocabolo traduce l’idea dei freudiani, quando parlano
di razionalizzazione, di sostituzione, di trasferimento, di dislocazione, di sublimazione.
L’interpretazione economica della storia non è altro che una psicoanalisi generalizza
ta dello spirito sociale e politico. La prova di ciò è la resistenza spasmodica e irrazio
nale opposta dal paziente. La diagnosi marxista viene considerata come un oltraggio,
piuttosto che come una constatazione scientifica. Invece di essere accolta con spirito
critico davvero comprensivo, si scontra con razionalizzazioni e «reazioni di difesa»
delle più violente e infantili.
Freud, nell’esaminare le resistenze alla Psicoanalisi, ha già descritto queste reazioni,
che né nei medici né nei filosofi hanno obbedito a criteri propriamente scientifici o
filosofici.
La Psicoanalisi veniva contestata, prima di tutto, perché contrastava e smuoveva
una spessa cappa di sentimenti e di superstizioni. Le sue affermazioni sul subcosciente,
e soprattutto sulla libido, infliggevano agli uomini un’umiliazione grave quanto quella
provata con la teoria di Darwin e con la scoperta di Copernico. All’umiliazione biolo
gica e all’umiliazione cosmologica, Freud avrebbe potuto aggiungere un terzo prece
dente: quello dell’umiliazione ideologica, causata dal materialismo economico, quando
la filosofia idealista era all’apogeo.
L’accusa di pan-sessualismo a cui va incontro la teoria di Freud, ha un preciso
equivalente nell’accusa di pan-economicismo a cui è ancora soggetta la teoria di Marx.
A parte il fatto che il concetto di economia in Marx è altrettanto ampio e profondo di
quello della libido in Freud, il principio dialettico su cui si basa tutta la concezione
marxista escludeva la riduzione del processo storico a un mero meccanismo economi
co. E i marxisti possono confutare e distruggere l’accusa di pan-economismo con la
stessa logica con cui Freud difende la Psicoanalisi affermando che «le è stato rimprove
rato il suo pan-sessualismo, benché lo studio psicanalitico degli istinti fosse sempre
stato rigorosamente dualistico e non avesse mai trascurato di riconoscere, accanto agli
appetiti sessuali, altri moventi abbastanza forti da produrre il rifiuto dell’istinto sessua
le». Allo stesso modo, l’influenza del sentimento antisemitico negli attacchi alla
Psicoanalisi non è stata minore nelle resistenze al marxismo. E molte delle ironie e
delle riserve con cui in Francia viene accolta la Psicoanalisi, per il fatto che proviene da
un tedesco, la cui nebulosità si concilia poco con la chiarezza e la misura latine e fran
cesi, assomigliano in modo sorprendente a quelle che ha sempre trovato il Marxismo, e
non solo tra gli anti-socialisti, in quel paese, dove un nazionalismo subconscio ha por
tato abitualmente la gente a considerare il pensiero di Marx come quello di un boche*
oscuro e metafisico. Gli italiani, da parte loro, non gli hanno risparmiato gli stessi epi
teti né sono stati meno estremisti e zelanti nell’opporre, a seconda dei casi, l’idealismo
o il positivismo latini al materialismo e all’astrazione tedeschi di Marx.
Come osserva Max Eastman, ai movimenti di classe e di educazione intellettuale
che sono alla base della resistenza al metodo marxista, non riescono a sottrarsi, tra gli
Termine spregiativo con cui i francesi designano i tedeschi.
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uomini di scienza, gli stessi discepoli di Freud, propensi a considerare l’atteggiamento
rivoluzionario come una semplice nevrosi. L’istinto di classe determina questo giudizio
di stampo reazionario.
Il valore scientifico, logico, del libro di Max Eastman - e questa è la curiosa conclu
sione a cui si arriva al termine della sua lettura, ricordando i precedenti del suo Depuis
de la Morte di Lenin e della sua clamorosa scomunica da parte dei comunisti russi risulta essere molto relativo, non appena si indaghi sui sentimenti che inevitabilmente
lo hanno ispirato. La Psicoanalisi, da questo punto di vista può essere dannosa per
Max Eastman come elemento di critica marxista. Per l’autore di La Scienza della
Rivoluzione sarebbe impossibile provare che sui suoi ragionamenti neo-revisionisti,
sulla sua posizione eretica e, soprattutto, sui suoi concetti a proposito del bolscevismo,
non influiscono minimamente i suoi risentimenti personali. Il sentimento prevale trop
po spesso sul ragionamento di questo scrittore, che così appassionatamente pretende
di collocarsi su un terreno oggettivo e scientifico.
{Trad, di Lucia Loren zi ni)
Cronologia di José Carlos Mariàtegui
1894 Nasce il 14 giugno a Moquegua, nel sud del Perù, da Francisco Javier Mariàtegui
e Amalia La Chira. Il padre abbandona quasi subito la famiglia, che si trasferisce
a Lima.
1902 Per un incidente di gioco resta invalido alla gamba sinistra.
1908 Dopo la morte del padre, avvenuta l’anno prima, entra come operaio al quotidia
no «La Prensa».
1912 Inizia a scrivere alcuni articoli di cronaca.
1914 Comincia a utilizzare lo pseudonimo di Juan Croniqueur.
1915 Scrive, insieme a Julio de la Paz, Las Tapadas, un dramma in versi di ambiente
coloniale.
1916 Passa al quotidiano «E1 Tiempo», dove s’incarica di una rubrica sulle attività par
lamentari. Pubblica un altro dramma in versi, La Mariscala, in collaborazione con
Abraham Valdelomar.
1917 Ottiene un premio per un suo articolo sulla processione tradizionale. Viene arre
stato, insieme a un gruppo di amici, dopo avere assistito alla danza notturna di
una ballerina nel cimitero.
1918 Con gli amici César Falcón e Félix del Valle fonda la rivista «Nuestra Epoca» di
cui escono solo due numeri. Per un articolo sulle spese dell’esercito, subisce
un’aggressione da parte di un gruppo di militari.
1919 Fonda il quotidiano «La Razón», che sostiene le lotte operaie e studentesche.
Dopo la chiusura del giornale, viene allontanato dal paese, con un esilio masche
rato dalla nomina ad agente di propaganda del Perù in Italia.
1920 Dopo un viaggio che lo ha portato, attraverso New York, in Francia, si trasferisce
in Italia. Inizia le sue corrispondenze per «El Tiempo» di Lima sotto il titolo
Cartas de Italia («Lettere dall’Italia»).
1921 Dal suo matrimonio con la lucchese Anna Chiappe nasce il primogenito Sandro.
Assiste al Congresso di Livorno che vede la nascita del Partito Comunista
d’Italia.
1922 Partecipa come giornalista alla Conferenza Economica Internazionale di Genova.
Viaggia in Germania, Austria, Ungheria e Cecoslovacchia.
94
1923 II 18 marzo ritorna in Perù. In giugno inizia un ciclo di conferenze sulla crisi
mondiale presso l ’Università Popolare «Manuel Gonzàlez Prada». Dopo la
deportazione di Haya de la Torre, assume la direzione della rivista «Claridad»
Viene arrestato insieme ai docenti dell’Università Popolare.
1924 Dopo una violenta crisi che lo porta sull’orlo della morte, subisce l’amputazione
della gamba destra.
1925 Fonda la casa editrice Minerva. Pubblica La scena contemporanea.
1926 In settembre esce il primo numero della rivista «Amauta».
1927 «Amauta» viene chiusa dal governo e Mariàtegui arrestato per un presunto
«complotto comunista». Dopo alcuni mesi di sospensione, la rivista riprende le
pubblicazioni.
1928 Si consuma la rottura con l’Apra e viene fondato il Partito Socialista Peruviano. Il
quindicinale «Labor», dedicato alle lotte sindacali, affianca «Amauta». Pubblica
7 saggi di interpretazione della realtà peruviana.
1929 Fonda La Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù. I documenti da lui
preparati per il Congresso Sindacale di M ontevideo e per la Conferenza
Comunista di Buenos Aires sono criticati dai rappresentanti dell’ortodossia. Il
governo impone la chiusura di «Labor». Pubblica i saggi destinati a Difesa del
marxismo. Pubblica a puntate II romanzo e la vita, ispirato al celebre caso
Bruneri-Canella.
1930 Sottoposto a un assedio sempre più stretto dalla dittatura di Leguia, progetta di
trasferirsi a Buenos Aires. Il 16 aprile muore a Lima.
Bibliografìa essenziale
a) Opere di Mariàtegui:
L’edizione più ampia e accessibile di Mariàtegui è quella popolare delle Obras com
pletasi pubblicata a Lima dalla Biblioteca Amauta tra il 1959 e il 1970. Sono venti volu
metti, continuamente ristampati, di cui sedici contengono propriamente le opere di
Mariàtegui:
voi. 1: La escena contemporànea
voi. 2: 7 ensayos de interpretación de la realidad peruana
voi. 3 : El alma matinal y otras estaciones del hombre de boy
voi. 4: La novela y la vida. Siegfried y el profesor Can ella - Ensayos sintéticos Reportajes y encuestas
voi. 5 : Defensa del marxismo. Polémica revolucionaria
voi. 6: El artista y la època
voi. 7 : Signos y obras
voi. 8: Historia de la crisis mundial (Conferencias)
voi. 11: Peruanicemos al Perù
voi. 12: Temas de nuestra América
voi. 13: Ideologia y politica
voi. 14: Temas de educación
voi. 15: Cartas de Italia
voi. 16: Figuras y aspectos de la vida mundial (I)
voi. 17: Figuras y aspectos de la vida mundial (II)
voi. 18: Figuras y aspectos de la vida mundial (III)
95
Recentemente è stata intrapresa la pubblicazione, presso la stessa casa editrice, degli
Escritos juveniles, con il sottotitolo La edad de piedra, come lo stesso autore aveva
qualificato questa sua prima stagione. A partire dal 1987 sono usciti finora 6
volumi degli 8 complessivamente previsti. Uno strumento imprenscindibile per
ricostruire l’attività dell’autore sono, inoltre, i due volumi della Corrispondencia
(1915-1930), Lima, Biblioteca Amauta, 1984.
Sono state inoltre pubblicate ristampe anastatiche delle riviste «Nuestra Epoca»,
«Amauta» e «Labor».
Dal 1989 esce a Lima un Anuario Mariateguiano.
b) Traduzioni italiane:
Lettere dall’Italia e altri saggi, trad, e scelta a cura di Gaetano Foresta, Palermo, Editori
Stampatori Associati, 1970.
Sette saggi sulla realtà peruviana, Saggio introduttivo di Robert Paris, trad, di Bruno
Mari e Gabriella Lapasini, Torino, Einaudi, 1972.
Lettere dall’Italia e altri scritti, a cura di Ignazio Delogu, Roma, Editori Riuniti, 1973.
Avanguardia artistica e avanguardia politica, a cura di Antonio Melis, Milano, Mazzotta,
1975.
Il romanzo e la vita, a cura di Antonio Melis, Genova, Marietti - In Forma di Parole,
1990.
Mariàtegui con la moglie Anna Chiappe, nella loro casa, 1928.
96
G erardo Ram irez Vidal
Le fonti letterarie della conquista:
alcune considerazioni
1.
La “scoperta” e la conquista dell’America diedero origine a una ricca letteratura
testimoniale, sia dei nuovi arrivati come degli aborigeni, che oggi rimane come fonte
preziosa per lo studio tanto delle civiltà incontrate e distrutte che delle azioni dei pro
tagonisti della Conquista. Le nostre attuali conoscenze e l’immagine che abbiamo di
quei popoli e dei fatti avvenuti si basa proprio su questa letteratura testimoniale.
Ovviamente le diverse tendenze ideologiche dei singoli studiosi hanno comportato
l’uso o l’abuso solo di alcune fonti specifiche e la sottovalutazione o l’omissione di
altre. Forse l’esempio più noto è la preziosa opera divulgativa di M. León-Portilla ini
ziata nel lontano 1959 con la quale l’autore cercava di rappresentare l’importanza degli
scritti dei testimoni indigeni: “In questo libro parleranno i vinti”, dice l’autore all’inizio
de II rovescio della Conquista, “ecco le parole che sulla Conquista ci hanno lasciato
alcuni superstiti aztechi, maya e quechua”. E alcuni paragrafi dopo presenta l’obiettivo
del suo lavoro: “Questa antologia... vuole avvicinarci alla valutazione definitiva e piena
mente cosciente che ci hanno lasciato i superstiti delle tre culture” (corsivo mio). LeónPortilla aveva pienamente ragione nel diffondere una voce che era stata dimenticata
fino a quel momento, e la sua opera ebbe una fortuna meritata.
Dietro il tentativo dello studioso messicano si intravede un atteggiamento critico nei
confronti delle altre fonti letterarie della Conquista, cioè quelle degli europei, e ciò,
chiaramente, con assoluta ragione. Tuttavia i dubbi o addirittura il totale rifiuto di ciò
che i testimoni del “Vecchio M ondo” avevano scritto sulla Conquista non è cosa
nuova, ha una lunga storia che inizia proprio con gli stessi scrittori delle indie. Si
potrebbe fare una relazione interessante sul diverso atteggiamento che gli studiosi
hanno avuto nei confronti degli scritti dei testimoni. Qui però ci limiteremo a fare una
breve esemplificazione di quello che gli stessi autori dell’epoca pensavano reciproca
mente delle loro testimonianze e a fornire qualche idea di come queste fonti potrebbe
ro essere meglio utilizzate.*
* Filologo, ricercatore presso V In stitu to de Investigaciones Filológicas dell’Unam Universidad Nacional Autònoma de Mexico. Un ringraziamento a Laura Lepore per la lettura e le
osservazioni al testo.
97
2.
Già nel primo documento scritto indirizzato al Re di Spagna sulla conquista
dell’impero azteca, la Prima Lettera di Relazione, attribuita per errore al capitano spa
gnolo Hernàn Cortés, gli autori affermavano senza complimenti che “tutte le relazioni
finora fatte su queste terre non sono attendibili, perché i loro autori non seppero mai
dei loro segreti se non quello che hanno voluto dire” (Cortés, 1987, p. 29). Questa
frase sintetizza con tutta chiarezza l’utilizzazione di un luogo comune negli autori cin
quecenteschi sulla Conquista: essi si accusavano a vicenda di dire menzogne dichiaran
dosi ognuno come portatore della verità; affermavano con forza che gli altri scrittori
avevano una totale ignoranza del mondo indigeno e che le loro relazioni erano piene di
invenzioni e modificazioni dei fatti.
Uno degli esempi più noti di questo luogo comune lo troviamo in una opera singo
lare della letteratura sulla Conquista, la Storia vera della conquista della Nuova Spagna
(1632) di Bernal Diaz del Castillo. Quest’uomo ebbe una profonda conoscenza dei
fatti poiché aveva partecipato come soldato fin da giovanissimo alle prime incursioni
nell’attuale territorio messicano e soprattutto alla conquista dell’impero azteca. Del
Castillo scrisse la sua opera molto tempo dopo lo svolgimento dei fatti, quando era
diventato vecchio, e quindi poteva ponderare con buon giudizio i fatti accaduti.
L’obiettivo dell’opera era indirizzato propio in questo senso. Infatti, l’autore afferma
che scrisse l’opera col fine di lasciare ai suoi discendenti una narrazione vera dei fatti,
considerati da lui talmente straordinari che meritavano di non essere dimenticati.
L’intenzione dell’autore si manifesta appunto nel titolo dell’opera: dire la verità sui
fatti, rifiutare le menzogne e correggere gli errori che altri cronisti della Conquista ave
vano divulgato (cf. Cap. XVII). I meriti dell’opera vengono rafforzati dalla straordina
ria memoria degli avvenimenti che l’autore mostra di avere. Infatti egli fa una relazione
dei fatti in modo geniale, presentando immagini nitide e luminose dell’accaduto come
se quei fatti gli fossero ancora davanti agli occhi. Ricorda un numero impressionante di
nomi dei suoi compagni, di cui fornisce anche segni particolari (cf. Cap. CCV e
CCVI), narra con vivacità e precisione delle battaglie, descrive con accuratezza e a
volte riferisce addirittura i nomi, le qualità e i colori dei cavalli, eccetera. La Storia di
del Castillo è diventata quindi una lunga e pregiatissima fonte sulla Conquista.
Il cronista, informatissimo com’era, accusa i cronisti che l’avevano preceduto di
avere raccontato solo falsità. Oggetto delle sue accuse era soprattutto Francisco Lopez
de Gómara, uomo che - secondo lui - aveva scritto Hispania Victrix (1552) solo col fine
di lodare senza limiti Hernàn Cortés, senza valutare invece i grandi meriti dei soldati.
Da una parte il cronista afferma che Gómara non diceva neppure un po’ (“ni cabo”) di
ciò che era successo nella Nuova Spagna (Cap. XVIII) e dall’altra che egli, con la sua
Storia, cercherà appunto di fare giustizia verso tutti gli altri conquistatori e verso se
stesso facendo una storia “vera” di ciò che era accaduto. Nel prendere in considerazio
ne le sue conoscenze sui fatti e la sua narrazione straordinariamente bella non si può
non ritenere affidabili le sue accuse e la sua storia. Infatti, secondo C. Pereyra, oltre al
genio letterario, quest’opera ha la qualità della verità: “in tutto ciò che viene raccontan
do non c’è un solo indugio, una calcolata reticenza, un dato ingannevole” h
Tuttavia, nel considerare l’opera nei suoi dettagli ci si rende conto che la singolare
relazione dei fatti presenta molti punti deboli e che l’autore cade, forse ingenuamente,
in errori impressionanti. Così per esempio, quando del Castillo vuole rifiutare l’accusa1
1
In genere gli studiosi si innamorano dell’oggetto del proprio studio, cf. ad esempio J.
Miranda che, come Pereyra, afferma, in relazione a Gonzalo Fernandez de Oviedo: “la verità
nella narrazione di ciò che per lui [Oviedo] era noto è una delle grandi virtù di Fernandez de
Oviedo... la verità e il suo fine supremo” (1950, p. 59). .
98
fatta ai conquistatori riguardo alle stragi di indiani, argomenta che gli indiani morti
non potevano essere tanti come i cronisti dicevano. Inoltre che tal cosa era inverosimile
perché, essendo gli Spagnoli quattrocentocinquanta e gli indiani moltissimi, si sarebbe
ro trovati nella condizione più di difendersi che di uccidere, soprattutto se si conside
rava che l’armamento degli indiani era ottimo e talvolta superiore al loro (il che rappre
senta un bel eikos sofistico). Non c’è bisogno di dilungarsi su questo argomento. Sul
numero di indiani morti la testimonianza di Cortés rifiuta la difesa fatta da del Castillo.
E’ chiaro che del Castillo fa considerazioni assurde sull’armamento degli indiani; parte
da argomenti falsi per provare ciò che lui voleva: gli spagnoli erano pochi, l’armamento
indiano era uguale all’armamento dei conquistatori, quindi non ci sono stati i massacri
che si attribuivano agli spagnoli.
Inoltre quando si riferisce all’accusa che i conquistatori marcavano col ferro gli
indiani, egli afferma che non erano affatto loro che lo facevano, ma coloro che erano
arrivati dopo la Conquista: “spagnoli poveri e molto cupidi” (Cap. CCXIII). Prima
aveva riferito di una punizione capitale (che per caso non si fece) decisa da Cortés nel
1519 contro uno dei suoi uomini per aver rubato tre galline agli indiani (Cap. LI), per
dimostrare il rispetto che il Capitano aveva imposto ai soldati per le proprietà degli
indiani e per dare un esempio ai sacerdoti del suo tempo perché questi non prendesse
ro i beni degli indiani. Sono due metodi argomentativi per respingere le accuse. Uno è
responsabilizzare gli altri di un fatto negativo; l’altro è generalizzare un fatto isolato
per mostrare un aspetto positivo2. E ’ evidente che la sua narrazione è parziale: così
come Gómara cercava di ingrandire la figura del Capitano, del Castillo vuole rafforzare
il ruolo svolto dai partecipanti alla Conquista, “ripulendo” le storie a loro favore (senza
però sminuire la forza e la grandezza dell’immagine di Cortés). Del resto la storia di del
Castillo non ha sempre avuto fortuna. I suoi manoscritti furono pubblicati solo nel
1632; l’autore fu considerato come un’uomo invidioso di Cortés e rivalutato solo alla
fine del secolo scorso. Qualcuno addirittura affermava che in realtà del Castillo non
aveva neppure partecipato alla Conquista. Questi due fatti testimoniano la valutazione
negativa della sua utilizzazione delle testimonianze scritte, e ciò presumibilmente
dipendeva degli interessi della Corona Spagnola; togliere cioè potere agli encomenderos
che pretendevano di continuare a sfruttare i loro privilegi sugli indiani.
L’accusa di menzogna di del Castillo era anche indirizzata implicitamente contro
Hernàn Cortés. La figura del Capitano fu oggetto di una lunga disputa tra gli scrittori
cinquecenteschi: c’erano quelli che lo biasimavano e quelli che lo lodavano. L’accusa
di menzogna contro il Capitano viene soprattutto da Las Casas. Per esempio, nel Cap.
CXX della sua Storia delle Indie (1559) il domenicano si esprime nel modo seguente:
“Vedete qui come Cortés si prenda gioco d’ogni persona; e non senza colpa di molti
tra quanti leggono la sua falsissima storia [cdr], non tenendo in nessun conto che quelli
se ne stavano tranquilli nelle loro dimore, senza recar offesa a noi e a nessuno”.
Altri autori invece prendevano la difesa di Cortés e tacciavano gli altri di essere
bugiardi. Un esempio singolare di questa posizione è rappresentata da un frate
dell’ordine di san Lrancesco, Diego Valadés, il quale, secondo molti studiosi, sarebbe
stato figlio di un conquistatore e di una indiana tlaxcalteca; il suo atteggiamento però è
del tutto europeo. Al di là del fatto che fosse o no meticcio, Valadés visse fin da picco-
2 Valbuena Briones afferma “Bernal Diaz vuole mostrarci un Bernal Diaz che non fu”, e rife
risce come l’autore cerca di ingrandire la sua figura. Il suo è un memoriale di meriti e servizi.
Nella seconda metà della sua vita, Diaz ebbe due fervorosi momenti: quello di aumentare le sue
encomiende e quello di redigere un favoloso memoriale con destino alla Corte per facilitare que
sto aumento (1969, p. 5).
99
lo nella Nuova Spagna dove fece i suoi studi e dove si dedicò per intero alla evangeliz
zazione degli indiani. Il prete francescano, il quale aveva imparato quattro lingue indi
gene, si trovava in una eccellente posizione per raccontare i fatti posteriori alla
Conquista, giacché ne aveva una conoscenza diretta. Nel 1579 Valadés pubblicò la sua
Rhetorica Christiana, opera in lingua latina che costituisce il primo testo pubblicato in
Europa da uno scrittore novoispano. Valadés si riferisce a ciò che sapeva della
Conquista affermando con autorità che: “abbonda di molti errori e menzogne la storia
della Nuova Spagna e di tutto il Nuovo M ondo” 3, e prosegue facendo le lodi di
Cortés, che è chiamato “bonus” e “optimus”, e del lavoro evangelizzatore dei missio
nari, soprattutto dei francescani, senza fare neppure un accenno alla situazione degli
indiani sotto il dominio spagnolo, riferendosi di solito soltanto all’idolatria, ai sacrifici
umani e alla ferocità degli indiani prima di essere conquistati ed evangelizzati.
Ovviamente l’accusa di menzogna viene indirizzata contro quelli che denunciavano le
stragi e i misfatti commessi da Cortés e dai suoi uomini. Un’attenta analisi del testo
mostra con chiarezza la tendenziosità del francescano nei confronti degli indiani. La
parzialità domina la sua opera e quindi non la si può considerare degna di fede.
Tra gli “scrittori delle Indias” fu però fra Bartolomé de Las Casas il principale accu
sato. Non solo nel secolo XVI ma anche nei secoli posteriori, fino ai nostri giorni, la
sua opera è stata oggetto delle peggiori critiche. Ad esempio, in relazione all’accusa di
Las Casas per la strage commessa dai conquistatori in Cholula (cf. Las Casas 1988, p.
64), del Castillo risponde che: “[esso] afferma che senza nessun motivo, se non per
passatempo nostro e perché ci venne la voglia si fece quella punizione, e ciò lo dice in
modo artificioso nel suo libro a quelli che non videro ciò né lo sanno, così che gli farà
credere questa ed altre crudeltà sulle quali scrive; tutto ciò però fu l’opposto, e non
accadde così come egli lo scrive” (Cap. CXXXIII) 4. Tuttavia la testimonianza de Las
Casas è stata rivalutata, benché insufficientemente. Oggi non pare esagerato che l’isola
Spagnola sia stata abitata da tre milioni di persone (cf. però Biscione 1992). Las Casas
si avvicina, più di quanto ci si potrebbe aspettare, ai calcoli moderni, soprattutto a
quelli della cosiddetta “Scuola di Berkeley” (cf. Cook-Borah 1971, Sànchez-Albornoz
1977). Per quanto riguarda la popolazione totale del continente Americano, la cifra
fornitaci da Las Casas è pure inferiore ai calcoli moderni.
Il difensore degli Indios però non scappa alla caratterizzazione generale. Molte cifre
infatti sono chiaramente sbagliate. Ad esempio, nella sua Apologetica storia sommaria
(Cap. L) calcola per la città del Messico-Tenochtitlan una popolazione di ben più di un
3 L’opera è stata tradotta in spagnolo a città del Messico dal Fondo di Cultura Economica,
1979 (il riferimento è alla pag. 465 di questa edizione). Contro l’ipotesi sull’origine meticcia del
Valadés mi convincono gli argomenti di Vàzquez Janeiro 1987, pp. 842-871. Sul francescano si è
fatto di recente un convegno a Perugia, dal 28 al 30 maggio 1992, dal titolo “Diego Valadés e la
Rhetorica Christiana”.
4 Ovviamente in Spagna i giudizi si sono manifestati in modo radicale contro le sue relazioni
sul trattamento degli spagnoli verso gli indiani e sui dati fomiti sulla vastità del massacro com
piuto dai conquistatori. Menéndez Pidal, convinto che Las Casas era un bugiardo, cercò di tro
vare le cause di tale comportamento, concludendo che: “Las Casas era un paranoico. Non un
demente o un pazzo in stato di incoscienza. La sua lucidità abituale fa sì che la sua anormalità sia
cosa difficile da stabilire o misurare, come è molto difficile con alcuni malati mentali decidere se
ricoverarli o no in un manicomio”. Un tale Fiieter non risparmia accuse contro il domenicano.
Tra le altre cose dice: “Egli è un teorico fanatico, un perfetto dottrinario che non sa trarre alcun
insegnamento neanche dalle peggiori esperienze” (cf. l ’Introduzione di A. Pincherle in Las Casas
1972, p. XXX). La valanga di critiche contro Las Casas constituiscono tentativi disperati per
nascondere l’enorme ingiustizia commessa contro gli indigeni.
100
milione. Il calcolo erroneo forse proviene da Cortés il quale pensava che soltanto nel
mercato di Tlaltelolco ci fossero ben 70 mila persone. Tuttavia, ci sono anche alterazio
ni più pericolose nelle opere del domenicano, come il non vedere le differenze tra le
diverse culture indiane e raccomunare tutti gli aborigeni con giudizi generali, benché
senza dubbio Bartolomé conoscesse molto bene la loro diversità. L’alterazione princi
pale però consiste nella caratterizzazione che fa degli indiani, con cui contribuì notevol
mente a modellare l’immagine del “buon selvaggio”. Uomini buoni, mansueti, pacifici,
amichevoli, ecc. mentre descrive i conquistatori come il contrario di tutto questo. La
caratterizzazione di Las Casas dà come risultato un’immagine falsamente idilliaca nel
cercare, con spirito umanitario e cristiano, di contrastare le manifestazione contrarie.
Las Casas intendeva elaborare un’argomentazione verosimile a partire della sua pro
pria esperienza (che non era poca), facendo appello non solo alle fonti e agli informa
tori oculari degni di fede che egli riusciva a interrogare, ma anche al giuramento pren
dendo come testimone Dio: “davanti a Dio dirò la verità”. Tuttavia, se il religioso
aveva avuto la possibilità di denunciare con qualche fortuna gli atti brutali dei conqui
statori, ciò era stato possibile grazie al benestare dei Re della Spagna, fin tanto che non
divenisse contrario ai loro interessi. Il domenicano era uno strumento utilizzato dalla
Corona spagnola contro coloro che si schieravano contro il potere regale, cioè gli stessi
encomenderos. Questi volevano avere le mani libere nel Nuovo Mondo per continuare
a sfruttare a loro capriccio e senza limiti gli indiani. Lasciare crescere queste pretese
portava svantaggio economico per la Corona e quindi queste voci fornivano le argo
mentazioni per ridurre la giurisdizione e il potere degli encomenderos. Quelle voci però
in genere risultavano vere testimonianze. Las Casas non attaccava la Chiesa o la
Corona, ma gli encomenderos 5. Alla fine, quando le sue denunce furono considerate
pericolose anche per il prestigio della Spagna, Las Casas fu isolato e fu vietata la pub
blicazione delle sue opere.
Un’altra eccellente testimonianza sulla falsità delle fonti letterarie spagnole è la
dichiarazione marginale di fra Diego Duràn il quale, dopo aver accennato che “hanno
sempre lodato, innalzato e glorificato in ogni parte del mondo il coraggio mostrato
dagli spagnoli”, afferma che “se dovessi attenermi al vero, e per ciò seguire le relazioni
e memoriali degli Indigeni; e allora la storia mi obbligherebbe a scrivere, fra le mille
nobili ed eroiche gesta, le atrocità disumane che causano morte e dolore; ché, trattan
do di ciò, rischierei di offendere e di contrariare coloro che è mia intenzione compiace
re e servire con questo mio libro” (Cap. LXXIV). In Duràn c’erano quindi due versio
ni della storia, e quella raccontata dagli indiani è da lui considerata “vera”; egli però si
vede nel bisogno di raccontare gli avvenimenti degni di memoria e cancellare ciò che
era accaduto realmente.
Ma i dubbi sulla veridicità storica non si limitavano alle testimonianze scritte degli
spagnoli, esisteva anche l’idea molto diffusa che gli indiani stessi ingannavano gli spa
gnoli. Fra Bernardino de Sahagun, nel compilare il prezioso materiale sull’eloquenza
degli indigeni, che costituisce il sesto libro della sua Storia generale delle cose della
Nuova Spagna, vide la necessità di difendere la veridicità delle testimonianze dei suoi
informatori e non trovò altro argomento se non il fatto che la maniera nella quale si
5
R. Romano (1974, p. 50) accenna che “la posizione di Las Casas, desideroso di sottrarre gli
indiani alla tutela degli encomenderos, riflette assai bene quella della Corona, mentre Sepulveda,
partigiano della «giusta guerra» contro gli indiani e forte del buon diritto degli spagnoli a ridurli
in schiavitù, non è altro che il portavoce degli encomenderos". Sepulveda aveva pure “ricevuto
del denaro dagli encomenderos e Las Casas un’ottima accoglienza presso il potere centrale” (cf.
Gliozzi 1977, p. 64).
101
esprimevano gli indiani non poteva essere menzognera: “alcuni emuli hanno affermato
che tutto ciò che è stato scritto in questi libri prima e dopo di questo sono finzioni e
menzogne: parlano in modo appassionato e sono bugiardi giacché ciò che in questo
libro si trova scritto non può essere finto da nessun uomo intenditore e nessun uomo
vivo può imitare il linguaggio nel quale è scritto, e qualsiasi Indiano intenditore che
verrà interpellato dirà che questo linguaggio è proprio dei suoi antenati e delle opere
fatte da loro”. L’argomento di Sahagun è verosimile nella sfera del senso comune, ma
dal punto di vista “scientifico” è poco consistente.
3.
Le osservazioni precedenti permettono di esemplificare con molta chiarezza la
situazione di fronte alla quale si trova lo studioso dell’America indigena all’epoca della
Conquista, e da ciò si può arrivare alla conclusione che i testi letterari sulla Conquista
non sono degni di fiducia come documenti storici, che si deve dubitare di ogni affer
mazione, ogni valutazione e ogni giudizio degli scrittori delle Indie. Tuttavia gli studio
si moderni non hanno considerato con sufficiente attenzione l’importanza di tale feno
meno e generalmente cadono nella trappola degli autori cinquecenteschi. Un esempio
tra molti è l’accettazione acritica e quasi assoluta della supposta credenza degli Aztechi
nel carattere divino degli spagnoli. Gli studiosi moderni hanno creduto senza reticenze
a tale idea, e non sono riusciti a pensare che possa trattarsi di una invenzione che tro
vava la sua spiegazione falsamente razionale nella concezione azteca del divenire cicli
co. Come si potrebbe dimostrare, tale idea fu elaborata dagli spagnoli stessi dopo la
Conquista e servì a giustificare le atrocità compiute contro gli Aztechi, che mai credet
tero a tale cosa; si potrebbe invece ipotizzare che abbiano sempre visto con disprezzo
gli spagnoli (inoltre sul cannibalismo cf. Arens 1980).
La valutazione delle opere scritte sull’America indigena e sulla Conquista può esse
re fatta con le parole di Montaigne: “le persone d ’ingegno..., per far valere le loro
interpretazioni e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la sto
ria; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo
l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincerne,
aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la
ampliano” {Saggi, Lib. 1, Cap. XXXI). Così, uno studioso conclude con tutta ragione
che “non possiamo considerarli [gli storici delle Indie] fonti vere d’informazione sul
mondo precolombiano” (Alvarez 1991, p. 55).
Ovviamente gli studiosi, pur accettando il giudizio critico che qui abbiamo dato,
non possono permettersi di fare tabula rasa delle testimonianze scritte. Il fenomeno
non è caratteristico soltanto di questi testi, lo stesso problema infatti ritrova chi si
occupa di altre culture. Quindi, dal nostro punto di vista, tali testi possono essere uti
lizzati come fonti storiche soltanto se sono analizzati prima secondo una prospettiva
antropologica e retorica.
C’è bisogno infatti di osservare attentamente il complesso culturale, e in particolare
la forma mentis della quale erano portatori gli scopritori e i conquistatori. Così
l’influenza della Chiesa, che era un freno assoluto alla libertà di esprimere il pensiero:
in merito, la bruciatura della maggior parte dei codici preispanici dà un’idea della por
tata di questi limiti. Oltre al pregiudizio religioso si trovava anche un profondo atteg
giamento etnocentrico, sviluppatosi sul sostrato della cultura classica greco-romana. La
considerazione aristotelica dell’esistenza degli schiavi per natura (cf. Hanke 1959) ebbe
un ruolo centrale nelle discussioni sulla natura dell’indio e né Las Casas né nessuno in
quell’epoca tentò di rifiutare tale impostazione, ma si cercò a volte di adattarla alla
finalità perseguita. Lo studio antropologico del sistema di pensiero dell’europeo del
secolo quindicesimo dovrebbe permettere di capire la cornice culturale degli scrittori
della Conquista.
102
Inoltre penso che per capire meglio i testi dei cronisti e di altri scrittori, oltre
all’applicazione dei metodi antropologici, è necessario applicare anche altri strumenti
di indagine: devono essere sottoposti ad una analisi retorica, cioè devono essere studia
ti come se fossero opere indirizzate a convincere i loro destinatari, in un contesto e in
un momento particolari. L’analisi retorica potrà mostrare come si può essere ingannati
dall’apparente semplicità di un’opera, dalla ricchezza dell’informazione, dalla veridi
cità dichiarata dall’autore, eccetera. Lo studio dei testi sulla “scoperta” e sulla
Conquista mi sembra che non sia stato fatto fino ad oggi secondo questa prospettiva 6.
E ciò non è un problema di facile soluzione, sebbene potrebbe sembrare banale; a
quanto pare infatti non siamo riusciti a sottrarci al potere retorico di questi testi caden
do nell’errore di fidarci troppo di loro o semplicemente di rifiutarli.
Gli autori dei testi della Conquista fin dall’inizio cercano, con una serie di accorgi
menti di natura diversa, di condizionare i destinatari fino ad azzerare la loro forma men
tis e sovrapporre o sostituire a quella la forma mentis di cui essi sono portatori. Infatti,
gli autori non avevano “buone intenzione”: Cortés cercava di ottenere da parte del Re il
riconoscimento delle sue azioni; del Castillo presentava una relazione dei fatti per
mostrare i suoi meriti, cercando con ciò di conservare e aumentare i benefici ricevuti
grazie alla Conquista; Gómara aveva soprattutto l’obiettivo di innalzare la figura del
Capitano spagnolo; Las Casas cercava di sminuire il potere degli encomenderos facendo
così un servizio al Re ed alla famiglia di Colombo, eccetera. Tutti loro tentavano di per
suadere i destinatari delle loro opere, ma in genere ebbero poca fortuna. L’opera di del
Castillo fu pubblicata molto tempo dopo essere stata scritta; le opere di Las Casas furo
no incluse tra i libri che potevano circolare. Cortés ebbe una fortuna diversa, giacché le
sue Lettere di Relazione furono pubblicate immediatamente e molto diffuse in varie lin
gue, ed egli stesso ottenne dal Re di Spagna il comando delle truppe spagnole. Per otte
nere ciò gli fu necessaria una descrizione parziale e tendenziosa dei fatti.
Gli studiosi moderni però sono più ricettivi dei destinatari originari ai racconti dei
cronisti, sono predisposti a credere ciò che viene raccontato da alcuni, ma non da altri,
e questa è una condizione importante per il buon esito di un’opera.
Gli autori della Conquista utilizzano una lunga serie di accorgimenti retorici per
convincere di ciò che loro vogliono. Qui ci riferiremo soltanto ad alcuni espedienti uti
lizzati dai cronisti per creare nel destinatario un atteggiamento a loro favorevole; tali
espedienti costituiscono una parte della retorica.
In primo luogo cercano di lasciare i destinatari senza dubbi sulla verità del loro rac
conto dicendo che non hanno la capacità di scrivere con belle parole, come fanno gli
altri, e che invece scriveranno in modo semplice però diranno la verità. Non c’è da stu
pirsi. Questo modo di esprimersi era una tecnica comune nella retorica classica. Gli
oratori greci davanti al tribunale fingevano di non saper parlare bene (in realtà leggeva
no testi preparati in anticipo da persone espertissime nel mestiere di logografo) e rassi
curavano i giudici che ciò che dicevano era il vero. L’esempio più chiaro di questo pro
cedimento lo troviamo in Diaz del Castillo che nel suo brevissimo prologo afferma:
“molti famosi cronisti prima di iniziare a scrivere le loro storie fanno prima il loro pro-
6
Uno studio di alcuni accorgimenti retorici in un’opera particolare è stato fatto da M.
Scaramuzza Vidoni, Algunas cosas de Hernàn Cortés y M exico : un’elaborazione retorica della
figura del conquistatore, in Bellini 1990, pp. 153-164. La studiosa afferma: “Le prime storie
delle imprese dei conquistatori non solo sono state costruite attraverso determinati filtri retorici,
ma sono state anche elaborate in base a determinati moduli retorici provenienti dalla tradizione
classica” (p. 153). Il nostro studio presuppone anche questo tipo di analisi a partire dalla retori
ca tradizionale, analisi che mette in chiaro la manipolazione retorica anche nell’aspetto formale.
103
logo e preambolo con ragionamenti e retorica molto alta per dare luce e rendere degni
di fiducia i loro argomenti... ma io, che non so il latino, non mi azzardo a fare pream
bolo né prologo... tuttavia ciò che io udii e a cui partecipai lottando, essendo buon
testimone oculare, io lo scriverò, con l’aiuto di Dio, in modo molto semplice, senza
deviare da una parte o dall’altra...”. Però le cose non stanno così anche se, dal punto di
vista letterario, la cronaca di del Castillo è forse la più bella delle opere scritte dai testi
moni della Conquista.
Un’altra tecnica utilizzata è quella di presentarsi in modo adeguato per attirare la
benevolenza dei destinatari. Normalmente - possiamo supporre - fingono di essere per
sone di un certo tipo, cioè leali, giuste, brave, di nobili natali, buoni cristiani, che
hanno sofferto molte fatiche, eccetera. Le cronache della Conquista sono piene di que
ste cose: “poiché siamo molto buoni e leali vassalli e devoti della Sua Maestà... abbia
mo offerto tutti i nostri beni e le nostre persone...” (Castillo, Cap. CCXTV). Inoltre, i
cronisti cercavano di mettere in buona luce i loro amici ed in cattiva luce i loro nemici.
Con lo stesso fine, i cronisti cercano di lodare il più possibile i loro destinatari, di solito
il Re di Spagna. Ci sono infatti delle forme specifiche per lodare il Re (cf. ad esempio
l’inizio delle Lettere di Cortés). Inoltre, i cronisti affermano molto frequentemente che
facevano e sopportavano tutto il lavoro e tutte le loro fatiche solo per servire il Re. Si
potrebbe dire che questo modo di procedere è assolutamente normale in testi di que
sto genere, e non deve sfuggire neanche che queste sono essenzialmente forme retori
che adottate allo scopo di captatio benevolentiae.
4.
Inoltre si deve applicare l’analisi storica alle fonti. E’ normalissimo trovare nelle
opere storiche di carattere generale la classificazione e valutazione delle fonti. Ci sono
vari tipi di classificazione: una è quella basata sul contenuto. Ci sono le fonti dirette e le
fonti indirette; le prime hanno un maggior valore storico. Normalmente si potrebbero
considerare le cronache come fonti dirette perché i loro autori furono testimoni degli
avvenimenti. Però la cronaca non è un documento, come potrebbero essere le Lettere di
relazione di Cortés. Le testimonianze indigene sono a volte fonti primarie (come il
famoso Colloquio dei Dodici, basato su un documento) a volte fonti secondarie, come le
opere storiche. Oltre alle classificazioni basate sul contenuto, sulla trasmissione, sul
genere, c’è bisogno di operare la distribuzione cronologica delle fonti e le relazioni che
intercorrono fra di loro. E ’ necessario analizzare la consistenza storica delle fonti.
Nella prima Lettera di relazione si dice che Cortés iniziò il suo viaggio con dieci
caravelle e cinquecento soldati tra cui numerosi nobili e gentiluomini (cosa del tutto
falsa), e sedici uomini a cavallo (Cortés 1987, p. 31). Del Castillo informa che all’isola
di Cozumel il Capitano fece l’appello dei suoi uomini: cinquecentootto soldati, circa
cento marinai ed altri; sedici cavalli; undici navi grandi e piccole, ecc. (Cap. XXVI). Le
cifre, tranne i cavalli, non corrispondono. Ciò non è un argomento importante e
potrebbe anche essere spiegabile (ovviamente nella lettera le cifre sono arrotondate). Si
trattava però di un dato che sarebbe dovuto rimanere impresso nella memoria dei con
quistatori. Quindi è verosimile che in altri fatti meno importanti o più difficili da capi
re da parte degli spagnoli, gli “sbagli” potrebbero essere stati deliberatamente più
abbondanti e più gravi. Del Castillo voleva dimostrare, con fragili argomenti, che i
conquistatori non avevano compiuto i massacri degli Indios durante la Conquista, ma
lo stesso Cortés smentisce il cronista frequentemente, come quando racconta ciò che
era accaduto a Cholula: “Riuniti i signori in quella sala, lasciai che li legassero e uscii a
cavallo, diedi ordine di sparare e il nostro attacco fu così violento che in due ore mori
rono più di tremila uomini [cdr]” (ib., p. 78).
La strage del Tempio Maggiore e le morti di Moctezuma e Cuauhtémoc sono altri
esempi paradigmatici di contraddizioni fra i cronisti. Le contraddizioni però possono
104
trovarsi non soltanto tra autori diversi, ma anche nello stesso autore e pure nella stessa
opera. Ad esempio, nel Cap. CCXII della sua Storia, Diaz del Castillo afferma di non
“correggere nessuna cosa, giacché tutto ciò che scrivo è molto vero”. Le cose però non
vanno così. Quando il cronista fa il conto dei morti degli spagnoli durante la loro fuga
da Città del Messico-Tenochtitlan afferma che “nell’arco di cinque giorni furono uccisi
e sacrificati circa ottocento soldati, e settanta e due che uccisero nel paese chiamato
Tustepeque e cinque donne di Castiglia... Cortés ci disse che erano pochi perché non
ne rimanevamo più di quattrocentoquaranta e venti cavalli, dodici balestrieri e sette
escopeteros” (Cap. CXXVIII). Dopo invece (nel Cap. CLXIX) dice che “dei mille tre
cento soldati ne m orirono più di ottocentocinquanta, insieme a quelli uccisi a
Tuxtepeque e per i sentieri, e sono rimasti vivi soltanto quattrocentoquaranta di cui
molti feriti” e, nel cap. CCXIII, accenna che “dei milletrecento soldati... che in nove
giorni che combatterono, di tutti riuscirono a salvarsi solo quattrocentosessantotto”.
Cioè nel primo passo si dice che morirono 872 soldati, nel secondo invece che i morti
furono 850 e nell’ultimo che in 9 giorni i morti furono 832 (1300-468=832). Il totale
dei conquistatori era 1450, cioè 80 che rimasero a Città del Messico (Cap. CXV), circa
1300 di fanteria, 90 cavalli e 80 escopeteros che arrivarono con Cortés da Veracruz
(Cap. CXXV). La differenza qui riportata non è insignificante se si considera che il
cronista aveva come scopo di narrare le prodezze e i fatti dei soldati. Si potrebbe cerca
re di far coincidere le cifre forzando il testo di del Castillo. Ma in ogni modo la caratte
rizzazione generale di questo tipo di opere non potrà subire delle variazioni.
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106
Natalia Giannoni
La poetica di Juan Gonzalo Rose
tra impegno politico e smitizzazione
Juan Gonzalo Rose (Tacna 1928 - Lima 1983) è uno dei poeti peruviani appartenen
ti alla denominata generazione del ‘30. Vale a dire quella generazione che ha la propria
significativa produzione letteraria nel corso della dittatura del generale Odria (19481936), ossia nel periodo definito «Ochenio». E’ in quella fase che si crea in Perù un
clima letterariamente propizio che favorisce l’irrompere sulla scena creativa di giovani
autori, tra i quali si annovera anche Juan Gonzalo.
Il clima politico autoritario, determina una spinta alla resistenza ed alla lotta contro
la dittatura che si estrinseca nei versi di Rose come un sostanziale impegno pacifista e
una presa di posizione a favore dell’ideale socialista. In lui, come in altri autori della
stessa generazione poetica, si scorge l’influenza di Vallejo, di Neruda e degli autori spa
gnoli della Repubblica. Chiare sono le assonanze della poesia di Rose Si Espana resucita
con Espana aparta de mi este caliz\ in una abbiamo toni di speranza, nell’altra di perico
lo e di minaccia, ma sono evidenti nel poema di Rose i riferimenti ai ritmi vallejiani.
Già in questa prima produzione si scorge uno dei nodi della problematica di Rose:
la tensione e la contrapposizione tra il dialogo intimo-sentimentale con la propria
amata e la volontà di condividere con essa l’esigenza di inserimento in un progetto
sociale, necessità, questa, che scaturisce dal suo impegno di militante politico. Tale
contrapposizione risulta palese ne La oración sencilla che apparve nel 1931 sulla rivista
«Letra Peruana», ma rappresenterà per lungo tempo la costante polarizzazione interna
all’opera di Rose, da cui avrà origine la tormentosa dialettica tra avvenimenti esterni, di
taglio politico, e la tendenza a filtrare la realtà, sia individuale sia oggettiva, attraverso
la prospettiva di una tenera intimità.
In Rose, dunque, la duplice tensione centrifugo-sociale e centripeto-intimista ha
radici profonde e durature.
Tuttavia l’iter letterario rosiano risolverà questa polarizzazione attraverso il conse
guimento dell’unità simbolica all’interno dei testi della successiva raccolta Informe al
rey (1967), nella quale opera un netto cambiamento di prospettiva rispetto ai testi pre
cedenti, e di cui è prima testimonianza la poesia Machu Picchu.
Il risultato di questa nuova tendenza sarà una mutata indole del linguaggio utilizzato.
Il suo impegno consisterà dunque nel desiderio di infrangere le false immagini, per
mettere a nudo la realtà occulta.
107
Attraverso dissonanti accostamenti lessicali, in cui obsoleti espedienti stilistici con
trastano con sempre più marcate espressioni colloquiali, Rose crea ed alimenta, con
questo nuovo registro linguistico, un clima ironico e disilluso.
Si può dunque dire che le ultime composizioni di Rose rappresentano una smitizzazione del potere attraverso la denuncia di ogni genere di ipocrisia.
(da cantos desde lejos, 1957)
se la Spagna risorge
E quando ci vedremo con gli al
tri, sull’orlo d’una mattina
eterna, sazi tutti.
César Vallejo
Se la Spagna risorge,
quanti pugni assediano la cintura del giorno,
quanti roseti sgretolano la notte,
quanto muschio sul labbro vermiglio della ferita,
quanta urgenza nel pianto per giungere all’incontro,
quanto Miguel Hemàndez e quanto Federico,
quanto César Vallejo
se la Spagna risorge.
Nella branda spoglia appoggiata alla porta,
nelle mute alcove con cuscini a lutto,
nella chiave incastrata in caparbia serratura,
nell’aria avambraccio del giorno che galoppa
ci sarà un’aurora immensa
se la Spagna risorge!
Tornerà il miliziano a separar le sue dita
cucite dalla morte della Spagna fascista,
tornerà il miliziano alla porta di sempre
a togliersi le bende putride e calde,
l’amore che ritorna
se la Spagna risorge!
Torneranno sul Tago montando le loro canzoni
i giovani di Spagna che nel partire sotterrarono
i loro dittonghi di amori e le loro fotografie.
Torneranno, svolazzanti volatori,
Pascual alla sua donna,
Pedro al suo turno agreste d’olive
e indosseranno l’abito del sorriso
con tutti i suoi bottoni!
Per questo, risorgi!
Risorgi ragazza contadina
nel cui cestino è rimasta
ì
108
la sera incompiuta;
risorgi spagnola nel mare
e sulla sierra.
Quel giorno così tanto
farai bollire il brodo della gioia
che si dovrà versare a fiotti
in tutti le cucine della terra!
la domanda
Mia madre mi diceva:
se uccidi a sassate gli uccellini bianchi,
Dio ti punirà;
se picchi il tuo amico,
quello dal faccino d’asino,
Dio ti punirà.
Era il simbolo di Dio
due legnetti:
e i suoi dieci teologali comandamenti
stavano nella mia mano
come dieci dita in più.
Oggi mi dicono:
se non ami la guerra,
se non uccidi ogni giorno una colomba,
Dio ti punirà;
se non picchi il negro,
se non odi il rosso,
Dio ti punirà;
se al povero dai idee
invece di dargli un bacio,
se gli parli di giustizia
invece di carità,
Dio ti punirà.
Dio ti punirà.
Non è questo il nostro Dio,
vero, mamma?
109
(dapoeta en la costa)
anche se
Anche se la guerra è scatenata,
anche dopo
l’angosciata ora di tutte le ceneri,
anche dopo che la tristezza sarà
come un gomitolo nero
nel ventre di tutte le donne,
anche dopo che le fidanzate torneranno
in lacrime dai ponti
e gli amici saranno
santi di gesso in dolorosa statua;
anche,
dopo tutto questo,
creeremo l’aria esultante
e una crepa di rose sulla parete del tempo.
le lettere sequestrate
Ho nell’anima una ringhiera in ombra.
Ad essa quotidianamente m’affaccio, mattutino,
per chieder se non è giunta lettera;
e quante volte
la tristezza celebra col mio volto
le sue opere di nulla.
una lettera
Che mi scriva una lettera chi mi ha reso
gli occhi cupi e la scrittura gotica,
che mi scriva una lettera quell’amica
analfabeta di passione cristiana;
pèschi della mia terra: che mi scrivano,
e componga una lettera piccina
mia sorella sillabante e pensierosa.
Morti quelli della mia infanzia
che se n’andarono
assopiti tra l’effluvio dei fiori,
fidanzate che si allontanarono
sotto un faro dicendo eternità,
amici fino al vino tormentato:
non c’è una lettera per Juan Gonzalo?
Se non fossi poeta, ex-detenuto,
straniero fino al colmo della grazia,
scopritore di strade nella notte,
110
collezionista di cognomi pallidi:
vorrei essere postino degli affliti
perché essi benedicano le mie scarpe.
(da informe al rey y otros libros secretos, 1963-1967)
a Guaman Poma de Ayala
bravo scrivano, cattivo letterato, uomo
magnifico.
machn picchu
Machu Picchu, due volte
mi sono seduto sulle tue pendici
per guardare la mia vita.
Per guardare la mia vita
e non per contemplarti,
perché abbiamo bisogno
di meno bellezza, Padre,
e di più saggezza.
terre del re
Chi è il Re? Chi è il Re?
domandano.
Il Re è ciò che resta dopo gli incendi.
Il Re è solo il Tempo.
E questo, Guaman,
il Re non lo sapeva.
(da cuarantena, 1968)
lucciole e versus
Che sorte ammirevole quella dell’insetto
che più illumina
quanto più muore.
E non quella dell’uomo
che si offusca lentamente
ed è tanto più cupa
quanto più dura.
(peldanos
sin
escalera)
Continuità
Questa notte vado verso la mia vita
a seminare un figlio
a scrivere un albero.
Fratelli taglialegna
non abbattete quel bosco
perché crescano sempre
le luci degli uomini,
l'ombra degli alberi
il seme del tempo.
Mausoleo di Mariàtegui nel Cimitero Generale di Lima. Opera di E. Gastelu Macho.
112
C ulture indigene
La «Inca atahualpa» e la sua storia
Il movimento indigeno ecuadoriano, che negli ultimi anni ha fatto con forza irruzione
nella scena politica del paese, ha una struttura che è stata definita a piramide, alla cui
apice troviamo la Conaie (Confederation de Naaonalidades Indigenas del Ecuador) seguita
da organizzazioni regionali (costa, sierra ed Amazzonia), provinciali e cantonali, Queste
ultime sono anche chiamate organizzazioni di secondo grado (Osgs). L’immagine della
piramide, però, non deve farci pensare che esiste una forte interdipendenza fra i diversi
livelli descritti. Ogni organizzazione mantiene, infatti, la sua autonomia: l’affiliazione al
nucleo «gerarchicamente» superiore non è obbligatoria e ciascuna può mantenere la sua
indipendenza. In questo articolo analizzerò gli elementi che hanno portato alla formazione
di una organizzazione di secondo grado, la Inca Atahualpa, per cercare di capire i mecca
nismi interni di una Osg che non ha mai voluto affiliarsi a nessuna istanza superiore.
Siamo a Tixàn, un nebbioso paesino della sierra ecuadoriana nella provincia del
Chimborazo, cantone Alausi L Novecentosedici abitanti bianco-meticci costituiscono
la popolazione del capoluogo parrocchiale, da cui amministrativamente dipendono 32
comunità indigene e meticce. L’attività economica dominante è costituita dall’agricol
tura: lo sfruttamento delle terre è generalmente familiare e nel caso delle comunità
anche comunitario. Il conflitto etnico è sempre stato, e lo è ancora, il nodo cruciale
della vita sociale della parrocchia, realtà non dissimile da quella di molte altre parroc
chie rurali del paese nelle quali il «plusvalore» simbolico dei bianco-meticci è il frutto
dello sfruttamento e del razzismo di cui gli indios sono oggetto.
Nel 1982 di catechisti indigeni del settore di Tixàn iniziarono a parlare di federazione ai
presidenti delle comunità in base a una iniziativa della chiesa cattolica. Dal 1986 si comin
ciò a promuovere grandi riunioni chiamate in lingua quechua tendanacui alle quali parteci
pavano i presidenti delle varie comunità di Tixàn e di Achupallas, altra parrocchia del can
tone. Al principio la partecipazione della gente era piuttosto rilevante, ma qualcosa accad
de: al tandanacui di febbraio nel 1988 non partecipò quasi nessuno. Il parroco Pedro
Torres vede nella presenza della Fei12 nella zona la causa principale della mancata parteci
pazione; alcune delle comunità del settore, che avevano lottato per le terre durante la rifor1 I termini cantone e parrocchia si riferiscono alla divisione amministrativa del territorio delle
varie province del paese.
2 La Fei, Federación Ecuatoriana de Indios, prima federazione indigena del paese, nata nel
1944 nel seno del Partido Comunista Ecuadoriano, portò avanti le lotte per le terre e per la rego
lamentazione del lavoro agricolo prima e durate la promulgazione delle due leggi di riforma
agraria rispettivamente nel 1964 e 1972.
113
ma agraria erano ancora affiliate alla Fei. Nel 1986 un dirigente di quest’ultima, Estuardo
Gualle, aveva fatto irruzione in una riunione di catechisti per ostacolare il processo di for
mazione di un’altra organizzazione sostenendo che non valeva la pena di continuare a sud
dividere il movimento dato che molte delle comunità appartenevano alla Fei. Tuttavia,
sembra esserci un’altra ragione: lo stesso parroco Torres spiega che la gente non compren
deva ancora il concetto di federazione, non sapeva di cosa si trattasse esattamente e agli
scontri tra la Fei e la chiesa rispose con un allarmante assenteismo. Altri, dunque, furono gli
elementi che spinsero alla formazione dell’organizzazione. Le comunità di un settore della
parrocchia di Tixàn denominato Totoras, zona di paramo nonché mineraria a 4.000 metri
di altitudine, le comunità di «sopra» erano profondamente divise: due famiglie di bianchi, i
Coronel e i Jayas, erano riusciti a coinvolgere queste comunità nelle loro dispute per otte
nere l’appalto della miniera di marmo di Zula, approfittando delle controversie esistenti fra
di esse dovute alle divergenze fra cattolici e evangelici. Nel 1988 alcune di queste comunità
erano entrate in un processo di formazione di una associazione attraverso la quale intende
vano ottenere esse stesse l’appalto della miniera in questione, ma dati gli scontri esistenti, si
videro nella necessità di dover chiedere l’appoggio delle comunità di «sotto» 3. Non si
trattò, secondo ciò che racconta la gente di «sotto», di una semplice richiesta di aiuto ma
della imposizione di un obbligo accompagnata da minacce di saccheggio, di fronte alle
quali le comunità di sotto, alla fine del 1988, decisero di partecipare a una riunione nella
quale si sarebbe dovuto dar vita all’associazione di minatori indigeni Atamzich (.Asociación
de Trabajadores Autónomos Minas de Zula Indigenas de Chimborazo).
Ma una soffiata li trattenne, il saccheggio stava arrivando. Di fronte al pericolo le
comunità di sotto, perlomeno le 11 più attiviste, si riunirono fra di loro e decisero di
formare un’altra organizzazione il cui nome in un primo momento fu Rey Atahualpa.
Una volta presa questa decisione, tutta la gente entusiasmata si recò in corteo al luogo
prefissato per la riunione con le comunità di sopra al grido di «viva Rey Atahualpa».
Questa dimostrazione di forza e determinazione non permise alla gente di sopra di
imporsi; fu così che nacquero due organizzazioni, una di sopra Atamzich ed una di
sotto che prese poi il nome di Inca Atahualpa.
Come abbiamo visto, il processo di formazione della Inca Atahualpa partecipa in un
primo momento degli stessi elementi che intervennero nel processo formativo di molte
altre Ong del paese. La Fei aveva iniziato la sua attività di coscientizzazione e politicizza
zione del settore rurale negli anni ‘50, incentrando la tematica delle rivendicazioni conta
dine sulla lotta per il recupero delle terre e contro il sistema di sfruttamento latifondista.
Nella decade del 70 la chiesa cattolica, in base al Concilio Vaticano Secondo, smette di
essere il terzo asse su cui si basava il sistema di potere latifondista ed inizia un lavoro di
coscientizzazione e formazione a favore dei contadini indigeni, promuovendo la tematica
del riscatto culturale su cui baserà anche la lotta per il recupero delle terre. Attraverso la
lettura della bibbia, in cui si legge che Dio crea la terra per tutti, e considerazioni storiche
sulla conquista dalle quali si apprende come i bianchi si impossessarono delle terre degli
indios, si costruisce il discorso indigenista della chiesa e le rivendicazioni etniche con le
quali si procedeva a far prendere coscienza gli indios. Tutti questi elementi hanno avuto il
loro peso anche nel caso di Tixàn ma, come abbiamo visto, non furono sufficienti. E’ stata
la rivalità fra quelli di sopra e quelli di sotto, rivalità che secondo molti studi antropologici
sembra essere una caratteristica del mondo indigeno andino, più che una reale coscienza
di unione a determinare la nascita della organizzazione Inca Atahualpa. Un altro elemento
contingente che agglutinò le comunità e che favorì l’unione fu la difesa contro il banditi3
La differenziazione «sopra» «sotto» non si riferisce esclusivamente all’ubicazione geografi
ca secondo la altitudine ma anche a differenze di natura culturale secondo le quali le comunità
di sopra sono considerate, e si considerano, più tradizionali ed animose.
114
smo. Come molte persone del settore raccontano, esisteva una forte incidenza di furti ed
atti di violenza perpetrati da indios e contadini meticci, i chagras 4, della zona; «i ladri arri
vavano di notte con le facce coperte, entravano nelle nostre misere capanne e ci buttavano
fuori tutti e poi si portavano via tutto, animali, soldi, tutto quello che trovavano; a volte ci
picchiavano o addirittura uccidevano, così senza ragione. Non ci si poteva più difendere:
l’unica cosa era unirsi per cercare di acciuffare i malfattori e castigarli». Con un’azione
congiunta nell’ottobre del 1988, si riuscì a smascherarne alcuni i quali furono interrogati e
castigati duramente. Con tale dimostrazione di forza si ottennero due cose: i furti diminui
rono e la gente iniziò a convincersi che solo con l’unità potevano conquistare il benessere
delle comunità. Questo avvenimento conferì molta forza alla futura organizzazione fino al
punto che attualmente tutti considerano la vittoria sul banditismo come il primo successo
della Inca anche se in quell’ottobre l’organizzazione non si era ancora formalmente costi
tuita. In più, la giustizia fatta contro i ladri portò all’imposizione degli indios sui chagras.
Infatti, molti dei furti commessi avevano per colpevoli alcuni chagras di due comunità di
un settore denominato Pishillig; gli indios di questa zona raccontano che avevano sempre
avuto problemi con i chagras di lì, subendo gli abusi e gli insulti; era stato per questo moti
vo che si erano divisi in quattro comunità, una indigena, una mista e due di meticci. Dopo
il castigo, i colpevoli furono reintegrati alla vita delle comunità ed iniziarono anche a colla
borare con l’organizzazione.
Un altro grande successo che marcò un momento molto importante nella storia
della Inca è l’intervento dell’organizzazione nei conflitti di terre, le cui dinamiche ho
trattato in altra sede5. Ricorderei solo che grazie alla forza catalizzatrice della Inca, si
verificavano concentrazioni di massa nelle comunità in problema con i latifondisti i
quali, di fronte alla presenza di 500, 600 o anche 1000 indios si vedevano costretti al
dialogo ed alla negoziazione.
La Inca Atahualpa continuava il suo cammino ponendosi come obiettivo princi
pale delle sue azioni il benessere delle comunità affiliate e la difesa dei propri dirit
ti in quanto indios. Con il conseguimento della personalità giuridica nel 1990 si
aprono tutte le porte: «adesso siamo giuridici per cui abbiamo il diritto di farci
giustizia» dice Miguel Paca, ex presidente dell’organizzazione. Tutte le domeniche
negli spogli locali del convento del paese i cinque dirigenti della Inca ricevevano, e
lo fanno ancora, tutti coloro che avevano qualche problema come, per esempio,
litigi matrimoniali, riconoscimenti di figli, dispute familiari per eredità e così via,
problemi ai quali i dirigenti delle singole comunità non erano riusciti a trovare una
soluzione. Il temente politico, massima autorità governativa a livello parrocchiale,
rimase poco a poco con le mani in mano, senza più casi da risolvere a parte quelli
dei «bianchi» del paese. Sono finiti i tempi dei cantari 6 da offrire alle autorità loca
li per farsi semplicemente ascoltare, sono finiti Ì tempi degli abusi di potere dei
bianchi che si difendono sempre tra di loro; adesso si fa giustizia sul serio, senza
riscuotere nulla. Lentam ente anche la gente del paese ha iniziato a ricorrere
all’aiuto dell’organizzazione soprattutto in quei casi in cui una delle due contro
parti era indigena. In questo modo gli indios si sono ormai guadagnati, secondo
Miguel Paca, il rispetto delle persone; non si dirigono più ai bianchi con parole
come «signore» o «padrone» ma si trattano da compari, anche se non lo sono; «la
4 Chagras è il termine dispreggiativo usato dagli indios per riferirsi ai contadini meticci che
vivono nelle comunità.
5 Cfr. «Latinoamerica» n. 48.
6 In lingua quecha camari indica una forma di regalo fra persone subalterne. Nel caso in cui
era dovuto ad un bianco, ed usando una terminologia molto attualizzata, lo potremmo definire
come una piccola forma di tangente.
115
gente della parrocchia non voleva capire ma dopo che hanno visto che noi faccia
mo le feste 7, che cerchiamo di risolvere i problemi rapidamente senza spese, loro
stessi prendono coscienza... C’era molta gente che prima non salutava proprio... allora
formando l’organizzazione abbiamo ottenuto che adesso ci salutano» (Miguel Paca).
Fino ad ora sembra che l’attività della Inca Atahuapla sia stata orientata esclusivamente
alla risoluzione di conflitti: «la cosa principale è cercare di risolvere problemi da tutte le
parti»; i furti, i conflitti di terre, i problemi quotidiani. Persino la personalità giuridica è in
funzione di questo, non ancora di progetti di sviluppo. La Inca sostituisce le autorità locali,
gli avvocati e gli scribacchini per dimostrare che gli indios sono capaci e per conquistarsi il
proprio spazio di potere e la propria capacità di negoziazione nella parrocchia. Nel 1992
questa espansione di potere cerca di raggiungere il cantone quando Miguel Paca, allora
presidente, si presenta alle elezioni come candidato alla presidenza del consiglio cantonale
nelle liste del Fadi (Frente Amplio De Izquierda). Le lotte interne, l’analfabetismo ed il pote
re gamonalista 8 ancora vigente nel cantone furono le cause della sua sconfìtta.
Nel frattempo la Inca Atahualpa era entrata nella fase del cosiddetto sviluppo.
Grazie all’appoggio del parroco Torres e di alcune organizzazioni non governative
nazionali erano stati ottenuti fondi per finanziare progetti di sviluppo nel settore: un
centro di deposito per lana e cereali, un mulino, attività culturali e la presenza di due
cooperanti canadesi che si dedicano l’uno alla istallazione di sistemi di acqua potabile
0 intubata nelle comunità e l’altra a corsi di formazione sullo sviluppo infantile per le
promotrici di un programma rurale del governo che concerne l’attenzione dei bambini
in età prescolare. Nell’agosto 1992 cambia totalmente la dirigenza dell’organizzazione;
la vicepresidenza e la segreteria toccano a due giovani indios provenienti da una comu
nità con il più alto tasso di migrazioni periodiche alla costa mentre la presidenza viene
affidata ad un indio evangelico non più giovane che nonostante il suo analfabetismo
gode di un forte prestigio sociale nella sua comunità d’origine.
Di tutti i progetti segnalati quello ad avere maggior peso è quello che ha portato alla
istallazione di mulini e depositi di cereali nel paese. Infatti il problema dello sfruttamento
e degli abusi perpetrati dai bianchi nel capoluogo parrocchiale continuava ad essere una
realtà, soprattutto nel caso dell’acquisto e della commercializzazione della produzione
delle comunità. I mulini ed i depositi, dunque, non rappresentano semplicemente una
attività produttiva ma si trasformano in uno strumento di rivendicazione etnica. L’attuale
presidente afferma che il mulino è stato istallato nel capoluogo affinché i bianchi si renda
no conto di quanto sta facendo l’organizzazione e anche del fatto che gli indios sono capa
ci; inoltre, è più conveniente per le comunità perché offre prezzi migliori per la macinazio
ne e per la vendita di cereali, la qual cosa vale anche per gli abitanti del paese. La risposta
dei bianchi non si fa attendere: usufruiscono dei servizi offerti dagli indios quando gli con
viene ma non si fanno mai mancare commenti del tipo: «questi indios adesso hanno anche
1 soldi!». Inoltre gli fanno la concorrenza: il proprietario di quello che prima era l’unico
mulino del paese ha dovuto ribassare subito i prezzi per poter mantenere la sua clientela;
non può più speculare. Lo scontro continua ma stavolta ad armi più o meno pari.
Purtroppo la medaglia del fatidico sviluppo ha anche il suo rovescio; le contraddi
zioni interne al mondo indigeno si sono inasprite mettendo a volte in pericolo l’unità
della stessa organizzazione. La possibilità di facili entrate scatena le invidie ed i contra
sti che si celano sotto critiche e rimproveri; ognuno cerca di approfittare delle oppor7 In agosto nella piazza del paese ha luogo una festa indigena, la festa del raccolto, che è vis
suta come momento di riaffermazione pubblica della cultura propria da una parte e della stessa
forza dell’organizzazione dall’altra.
8 II termine indica un sistema di potere di stampo mafioso in cui il latifondista controlla
anche la scena politica locale.
116
tunità offerte a beneficio di se stesso e del suo gruppo familiare; si verifica una forma
di clientelismo comunale che porta a voler ottenere vantaggi solo per la propria comu
nità di provenienza. Iniziano anche oggi le lotte interne a livello di dirigenza: i giovani
criticano l’operato del presidente; il suo analfabetismo è il punto di partenza con il
quale si mettono in dubbio le sue capacità ed il suo prestigio. In più, la concorrenza
mette a volte in pericolo le stesse rivendicazioni etniche: se il mulino del mishu, offre
un prezzo migliore, perché usufruire del mulino della Inca? Si è arrivati anche a casi di
furto: il segretario ha rubato dei quintali di cereali dai depositi dell’organizzazione. La
Inca in questo caso non sembra essere sentita come qualcosa di proprio ma come una
istituzione che offre dei vantaggi e della quale vale approfittare. Come riprova lo stesso
personaggio, ormai non più segretario, sta cercando di formare una associazione paral
lela per richiedere fondi per la realizzazione di un sistema di irrigazione. Questo pro
getto, inizialmente limitato all’ambito della sua comunità, dovrebbe ora essere aperto a
tutte le comunità interessate che in tal caso dovrebbero rinunciare alla loro affiliazione
alla Inca. Sembra che la politica dello sviluppo, per lo meno nel caso di Tixàn, abbia
esasperato la già esistente tendenza al settarismo ed all’individualismo, mettendo in
pericolo l’unità e la forza della stessa organizzazione.
Queste ultime considerazioni fanno riflettere. Lo spirito ed i valori comunitari che
molte volte sono stati attribuiti alla cultura indigena hanno assunto le sembianze di un
mito nel discorso portato avanti dalla chiesa cattolica, dalla sinistra ed anche da alcuni
antropologi ed etnologi i quali hanno parlato di un socialismo comunitario che ha preso il
posto del mito del buon selvaggio. Questi discorsi sono diventati parte del discorso politi
co della dirigenza indigena a livello nazionale ed hanno ispirato politiche di sviluppo agra
rio che richiedono lo spirito comunitario come condizione sine qua non per ottenere
finanziamenti. Per fare un esempio, la condizione fondamentale per poter accedere ai pre
stiti del Fepp 9101per l’acquisto di terre è che tali terre non siano divise e, per tanto, lavorate
comunitariamente. Un dirigente di questa Ong mi confessò che una volta estinto il debito,
la maggioranza delle comunità procedevano a dividersi le terre tra i vari soci. Con questo
non voglio suggerire che i valori comunitari siano stati totalmente inventati ma che
andrebbero smitizzati e cercati in altri meccanismi quali, per esempio, la reciprocità del
«prestamano», della minga 11 e delle feste. Inoltre, bisogna considerare che le migrazioni
periodiche ed i contatti sempre più frequenti con il mondo esterno hanno prodotto la
necessità di riadattamenti e la nascita di nuove esigenze che in certi casi mettono a dura
prova alcuni dei valori tradizionali. Mi riferisco soprattutto a nuove esigenze economiche
ed a cambiamenti dei criteri di prestigio sociale. I contrasti nati fra il presidente ed il vicepresidente e segretario della Inca fanno luce sul problema: il fatto di godere del prestigio
sociale a livello comunale, il fatto cioè di sapersi far rispettare ed ascoltare non sono più
considerati, agli occhi di due esponenti giovani di una comunità fortemente migratoria,
requisiti sufficienti per poter assumere l’incarico di presidente.
Evidentemente si stanno verificando dei cambiamenti nelle dinamiche interne del
mondo indigeno, cambiamenti che possono portare ad una ridefinizione di alcuni dei
valori tradizionali.
Emma Cervone
9 Parola dispregiativa usata dagli indios per riferirsi ai bianchi.
10 II Fepp è una Ong nata nel seno della chiesa cattolica, che concede prestiti a basso tasso di
interesse alle organizzazioni contadine di base del paese o per l’acquisto di terre.
11 II prestamano si riferisce a una pratica di reciprocità, fra parenti, nella prestazione di lavo
ro, mentre la minga è una forma di lavoro comunitario per il quale ogni famiglia ha l’obbligo di
partecipare con un suo membro.
117
Strumenti, scale, “arcani legam i” con l’Oriente ed altro nella
cultura musicale degli Incas e... dintorni
Com’è noto l’impero Inca comprendeva i territori dell’Ecuador settentrionale,
della Bolivia meridionale, del Cile settentrionale, dell’Argentina nord-occidentale,
del Perù, in particolare, della regione di Cuzco - toponimo che significa «ombelico»
- la quale, data la sua posizione geografica, costituiva il cuore dell’impero. Si presu
me che gli Incas non abbiano esercitato il loro dominio su quelle terre prima del
1200 d.C.
La cultura musicale di questo popolo risentì profondamente delle tradizioni cul
turali formatesi precedentemente nelle zone costiere, come quella chimu, nazca e
mochica. Nonostante la relativa vicinanza cronologica, la ricostruzione dell’attività
musicale incaica non è stata impresa facile: innanzi tutto perché questa civiltà non
elabora alcun sistema di notazione musicale, e poi perché la stessa tradizione orale,
con l’avvento degli spagnoli, subì tante di quelle alterazioni da causare, già agli inizi
del XVII see., la totale perdita della fisionomia originaria (per esempio: la tendenza
a melodizzare per salti melodici assai ampi, non sopravvisse sotto il peso di quella
europea basata, per lo più, su articolazioni per gradi congiunti; inoltre, come osser
va Gilbert Chase: «[...] l’usanza - già raffigurata negli antichi vasi dipinti del Perù secondo la quale i suonatori di quena suonano a coppie, continua ancora al giorno
d’oggi, ma ora avviene di frequente che il secondo suonatore accompagni la melodia
a una terza inferiore con un risultato decisamente europeo [...] Nella musica indige
na l’influenza europea non si è fatta sentire soltanto nel modo, nella melodia e
nell’armonia, bensì anche nella forma. Ciò si manifesta nella tendenza alla regolarità
del metro e al periodare simmetrico.» 1).
Dobbiamo rassegnarci all’idea che quel tipo di canto «armonizzato» a distanza di
terza, praticato ancora oggi in Perù (ed esportato in tutto il mondo), ben strutturato
sul piano metrico (con frasi e periodi regolari),si presume abbia assai poco a che vede
re con quello degli antichi suonatori a coppie di quena, di cui l’iconografia vascolare ci
trasmette, purtroppo, solo il ricordo.
Le stesse cronache e i vocabolari relativi ai due principali idiomi indigeni, quechua e
aymara, redatti dai missionari spagnoli durante i secoli XVI e XVII, presentano scarse
informazioni relative all’attività musicale di questo popolo. Non risulta, inoltre, che gli
spagnoli abbiano trascritto alcun esempio musicale di canto indio; o meglio, se ne tra
scrissero alcuno, è andato perduto.
Tuttavia, è stato usualmente possibile ricostruire in parte il sistema musicale di cui
si servirono gli Inca e le popolazioni che li precedettero, grazie agli strumenti musicali
superstiti. L’organologia, in tal senso, ha fornito un contributo determinante per la
ricostruzione delle scale e del modalismo insito nella cultura musicale di queste antiche
civiltà. Cultura musicale, questa, che, come si vedrà, presenta sorprendenti analogie
con altre culture geograficamente assai lontane. Scrive a tal proposito Armand
Machabey:
«Il carattere etico e simbolico delle note della scala cromatica cinese e delle cinque
note (più tardi aumentate a sette) che fino all’XI secolo a.C. ne erano state tratte per
formare la scala pentatonica hanno dato luogo, soprattutto dal XVIII secolo (P.
Amiot) a studi talmente sviluppati a cui sarebbe inutile soffermarvisi sopra; ma, quasi
1 Gilbet Chase, America Latina. Musica primitiva e popolare, in “La Musica. Enciclopedia sto
rica”, dir. G.M. Gatti, Utet, Torino 1966, voi. I, p. 68
118
agli antipodi presso gli Indiani d ’America (Perù, Messico, ecc.) ritroviamo in certe
melodie precolombiane press’a poco conservate e confermate dalla struttura dei flauti
antichi, questa scala pentatonica priva di semitoni, implicante cinque modi [...] cinque
forme diverse, delle quali la più usata è SOL-MI-RE-DO-LA (la tendenza generale è
discendente) [...]» 2.
Della stessa idea sembra essere Tran Van Khé, il quale, dopo aver preso in
esame le scale regolari del ciclo delle quinte (ossia: la tritonica, la tetratonica e la
pentatonica) in uso in varie zone del continente asiatico, giunge alla seguente con
clusione:
«Tra tutte queste scale, quella che s’incontra più spesso nel mondo cino-giapponese
è la pentatonica. Questa scala, sovente definita ‘cinese’, non esiste soltanto nella musica
dei paesi asiatici del sud-est (Cina, Giappone, Corea, Viet-Nam, Mongolia, Tibet,
Cambogia, Laos, Tailandia, India) ma anche in Europa (Scozia, Ungheria, Romania,
Sardegna), in America (Incas, Perù)»3.
Curt Sachs, il padre dell’organologia moderna, nel celeberrimo The History of
Musical Instruments, e per l’esattezza al capitolo relativo alle siringhe (huayra-puhura) 4
sud-americane, focalizza anch’egli questo misterioso legame con la cultura musicale
asiatica:
«Le siringhe sembra siano state portate in questo continente tramite qualche
contatto con l’Estremo Oriente. La corrente oceanica che si dirige dalla Melanesia
verso il Sud a girare intorno alla Nuova Zelanda e quindi all’Est e al Nord verso il
Perù, può aver trasportato occasionalmente navigli e uomini. [...] Diverse caratteri
stiche nelle siringhe sudamericane indicano l’Occidente: lo strumento stesso, ben
noto e molto usato nell’Asia Orientale e meridionale e nelle isole del Pacifico; la
disposizione in due file di canne che si trova in certe isole della Melanesia e della
Polinesia; la legatura peculiarmente melanesiana e polinesiana per cui i tubi son
tenuti in posizione contro una stecca di canna da una corda annodata. Per di più,
Erich M. von Hornbostel ha riscontrato una sorprendente somiglianza tra le altezze
assolute e le scale delle siringhe americane, melanesiane e dell’Oriente asiatico. I
risultati di Hornbostel non furono completamente accettati dagli americanisti i
quali, più di altri antropologi, tendono a negare influenze straniere sui loro speciali
protetti. [...] le siringhe dell’Asia orientale erano accordate nei dodici liu. Son que
sti i semitoni canonici, derivati da una serie di quinte consecutive e trasposti alla
medesima ottava; sei di essi, quelli di numero dispari all’interno della serie, son con
siderati maschili, e i sei di numero pari son considerati femminili. Le due scale a
toni interi che ne risultano son tra loro ben conciliabili, ma le serie maschili e fem
minili vengono divise o tra due separati strumenti, o in due parti distinte dello stes
so strumento. Il che avvenne pure in America. Molte terrecotte dell’antico Perù
rappresentano siringhe gemelle esattamente della forma che l’archeologo americano
Charles W. Mead (il quale non conosce il parallelo strumento cinese), descrive con
2 Armand Machebey, Modalità, in “La Musica. Enciclopedia storica”, cit., voi. Ili, p. 357.
3 Tran van Khé, Asia, in “La Musica...”, cit. voi. I, p. 202.
4 Raoul e Marguerite Béclard d ’Harcourt nel loro prezioso studio La M usique des Incas,
Parigi, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, 1925 (ristampato di recente in Perù col titolo: La
mùsica de los Incas y sus supervivenicias. Lima, Occidental Petroleum Corporation of Perù, 1990)
elencano i vari nomi che da sempre vengono attribuiti in America latina al flauto di Pan: antara
(in quechua), siku (in ayamara), ayarichi (nella regione di Cusco), pfucu (cfr. Leandro Alvina, La
Musica Incaica, tesi, Cusco. 1908), huayara-puhura, zampona (in Perù), rondandor (in Ecuador),
capador (in Colombia).
119
queste parole: «Due siringhe legate insieme da una lunga corda e sonate da due ese
cutori sono molto comuni oggi in Bolivia. Ogni strumento possiede soltanto metà
delle note della scala, e manca di tutte le altre, le quali debbono essere fornite
dall’esecutore che suona la siringa complementare» 5. Gli indiani Cuna a Panama
(detentori d’una scrittura che ha rapporti con la più antica scrittura cinese) unisco
no siringhe «maschili» e «femminili» al fine d ’ottenere quinte parallele [...]
Nessuno scetticismo potrebbe negare l’origine occidentale delle siringhe americane.
«E difficile poter supporre che una scala, distribuita alternativamente tra due sirin
ghe unite da una corda allentata, possa essersi originata spontaneamente in diverse
parti del mondo.[...] Le scale riportate in alcuni cataloghi di antichi strumenti peru
viani, ottenute soffiando in questi flauti6 e occludendone i fori con varie diteggiatu
re a forchetta e altri artifizi di correzione, sono del tutto prive di significato e certa
mente false, in particolare perché ‘la nota scritta è in molti casi non quella prodotta
dallo strumento, ma la più vicina a essa nella nostra scala diatonica’. Sarebbe più
importante trovare una misurazione non musicale tra i fori per le dita, quale abbiam
visto usata in altri flauti. Seguendo questa idea l’autore trovò, su un flauto ben con
servato della collezione Gaffron, che le distanze tra l’estremità superiori e i centri
dei sette fori anteriori corrispondevano all’antichissimo piede cinese di 229,9 mm;
lo scarto massimo era di 1,1 mm e quello minimo di 0,1 mm: lo scarto medio equi
valeva a soli 0,6 mm. E questa è un’altra prova d’una connessione con l’Estremo
Oriente.» 7
Dallo scritto di Sachs, oltre alla straordinaria connessione con l’Estremo Oriente,
emerge un altro dato importante: la pentafonia del sistema musicale incaico potreb
be essere messa in discussione dall’analisi di alcuni antichi strum enti musicali
(soprattutto aerofoni) rinvenuti in quelle zone. Infatti, dall’analisi mediante frequenziometro di alcuni esemplari di antara si evince che lo strumento poteva produrre
intervalli di semitono e, perfino, microtoni; smentendo così la tesi sostenuta da molti
studiosi, e in particolare dai francesi Raoul e Marguerite Béclard d ’Harcourt, secon
do la quale il sistema melodico di questo antico strumento sarebbe stato «esclusivamente» pentatonico. Ciò non esclude, tuttavia, che l’impiego della scala pentatonica
fosse assai frequente presso quei popoli. Occorre anche ricordare che alcuni canti
presentano particolari «fioriture», le quali confermano l’ipotesi di un sistema ove
figuravano anche i semitoni: l’inserimento di note di passaggio e di volta all’interno
dell’ambito melodico è assai ricorrente nella musica dei suonatori quechua; tale
aumento delle note ornamentali conduce, inevitabilmente, allo sgretolamento del
puro genere pentafonico. Gli stessi coniugi Harcourt, pur sostenendo a spada tratta
la teoria pentafonica, confermano l’esistenza di un tipo di canto in «stile fiorito»:
«Los cantos indìgenos se adornan con notas que les dan un aire bastante particular,
gracioso y flexible. Està preceden a la nota principal a intervalos conjuntos o a intervalos disjuntos, algunas veces de gran dimension, corno por ejemplo a distancias de sexta
o de séptima, disposición verdaderamente tipica.» 8
5 Charles W. Mead, The musical instruments o f the Incas, supplemento de “America Museum
Journal” voi. Ili n. 4, New York 1903.
6 Sachs si riferisce ad un tipo di antico flauto diritto peruviano d ’osso, provvisto di 3-5 fori.
In quechua prende il nome di pinkullo o kena-kena. I primi a descrivere quest’aerofono furono i
cronisti europei F.G. Poma de Ayala e P.B. Cobo.
7 Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, a cura di P. Isotta e M. Papini, Milano, 1990, pp.
230-233 (tit. orig.: The History o f Musical Instruments, New York, 1940).
8 R. e M. d ’Harcourt, op. cit., p. 137.
120
Si noti come i due studiosi francesi, pur confermando l’esistenza di queste note
accidentali melodiche, non facciano alcun riferimento al possibile impiego di un
sistema modale che andasse oltre la scala pentatonica. I Due, inoltre, attaccano
Charles Mead, il quale, dopo aver esaminato alcuni esemplari di flauti, per primo
ipotizzò l’esistenza di un sistema che prevedesse l’impiego di semitoni e di micro
intervalli:
«[...] pues algunos autores al analizar las escalas de los instrumentos que se encuentran en los museos han llegado a conclusiones, si no opuestas, al menos muy alejadas
de las nuestras. Asi, sobre las veintiséis flautas rectas cuyas escalas proporciona Ch.
Mead, apenas existen cinco o seis instrumentos de escala pentatònica muy clara. [...]
De las veintiséis flautas estudiadas por Mead, veintidós son de hueso y parecen mas
rudimentarias. Nos apartamos de la opinion de Hombostel para sostener que es entre
estas flautas donde se encuentran las escalas mas incoherentes y que no responden
seguramente a las intenciones de su constructor» 9E possibile che difetti di costruzione o alterazioni dovute al tempo abbiano
potuto generare tale «equivoco». Ma, occorre ricordare che, oltre agli strumenti
«mal riusciti», vi sono diversi canti raccolti da W inthrop Sargeant 101nei quali figura
un massiccio impiego di semitoni e anche di micro-intervalli; impiego che scaturisce
da un tipo di articolazione melodica ricca di note di passaggio. Si osservi il seguente
yaravi registrato da Sargeant a Huancayo (si tenga presente che il nostro sistema di
notazione, figlio di una cultura musicale assai diversa da quella americana con tutti i
limiti imposti dal temperamento equabile e dall’ organizzazione del tempo mediante
le figure di durata, non potrà mai riprodurre fedelmente il canto indio):
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Emerge da questi canti in «stile fiorito» (perdonate questa ennesima dicitura da
manuale d’armonia) raccolti da Sargeant verso gli anni Trenta, un sostrato pentatoni
co, una sorta di stampo sul quale l’artista indio è riuscito a liberare il proprio estro
«melismatico». Sul fatto che possa esserci stata una reale «coscienza» pentatonica
all’interno della cultura musicale degli Incas, non vi è alcun dubbio. Ancor prima dei
coniugi Harcourt, Frédéric Lacroix n , Leandro Alvina 12 e Albert Friedenthal13 indi
viduarono tale tendenza.
Raoul e Marguerite d’Harcourt escludono, inoltre, che la scala pentatonica sia stata
portata in quelle terre d’America dai conquistadores spagnoli: difatti, in Europa quel
tipo di scala si trova solo nella musica popolare scozzese. I Due assecondano la tesi
sostenuta dal musicologo spagnolo Felipe Pedrell, il quale scrive: «[...] lo que no se
encuentra, que yo sepa, en Espana, es el modo pentàfono [...]» 14. Questa «coscienza
9 Ibid., pp. 45-47.
10 W. Sargeant e J. Lahiri, Types o f Quechua Melody, in “The Musical Quarterly”, 1934.
11 Cfr. Frédéric Lacroix, Pérou, Parigi, l’Univers pittoresque. Amérique, 1843.
12 Cfr. L. Alvina, op. cit.
13 Cfr. Albert Friedenthal, Stimme, der Vólker in Liedern, Tanzen und Charakterstuken,
Berlino 1911.
14 Felipe Pedrell, Cancionero popular musical espanol, Valls, 1920,1.1, p. 27.
121
pentatonica», che nel corso dei secoli non sembra aver mai rappresentato per la civiltà
incaica, entità dogmatica, ma, diadema ove incastonare le gemme di un gusto melismatico, straordinariamente ricco di frequenze (e non ci si riferisce solo a toni e semitoni!),
non può essere giunta in America dall’Europa. Ancora una volta, appare all’orizzonte
il mondo orientale, la Cina, come punto di partenza. Scrive l’etnomusicologo Richard
Garthe: «[...] nell’Estremo Oriente troviamo l’Estremo Oriente, in Europa troviamo
l’Oriente, in America Latina ritroviamo l’Estremo Oriente.» 15 .
Il seguente itinerario organologico, ipotizzato da Sachs, potrebbe, forse chiarirci (se
si ha un po’ di fede!) le idee:
«[...] [è] probabile che questi strumenti siano stati portati, in epoca neolita, in
America dalla Cina[?] Sarebbe difficile negare una connessione sia tra i flauti a tacca
della Cina con quelli sud-americani, che tra le siringhe cinesi e quelle del Sud America.
[...] dobbiamo prendere in esame il campo nella sua interezza e trovare l’area di diffu
sione di tutti gli antichi strumenti americani [...] Gli antichi strumenti americani inclu
dono un primo gruppo, esistente in tutto il mondo: sonagli, campanelli, trombe di con
chiglia, fischietti, flauti diritti e flauti globulari. Ma i restanti strumenti offrono un qua
dro significativo. La curiosa ‘fessura esterna’ dei fischietti è nota nel Bhutan, Borneo e
nelle Filippine; la fessura centrale si trova nel Bengala orientale,nella Birmania e nelle
isole Nicobar; flauti a salsiccia si costruiscono nella Nuova Zelanda [...] Ciò implica
che, a eccezione di pochi strumenti universali, tutti gli strumenti affini a quelli america
ni si trovano esclusivamente in un territorio che comprende la Cina, l’area tra Cina e
India, l’Arcipelago Malese e le Isole del Pacifico. Oltre la metà possono essere localiz
zati nell’interno della Birmania e nelle adiacenti regioni, ossia tra i popoli che si suppo
ne siano stati spinti verso sud dai Cinesi invasori in epoca neolitica. Gli antichi stru
menti americani possono venir classificati come ‘strumenti del Pacifico’». 16
Per concludere: è forse, di una «cultura musicale del Pacifico» che la moderna
musicologia dovrebbe parlare? L’organologia può svelare il mistero che avvolge il siste
ma musicale di questi antichi popoli? L’etnomusicologia fino a che punto può fornire
delle indicazioni attendibili? Una cosa è certa: tante sono le risposte, ma anche tante le
perplessità.
Roberto Carnevale - Elina Patané
15 R. Garthe, M usik der Indianer , Hullma, 1960, p. 201.
16 C. Sachs, op. cit., pp. 236-237.
122
Recensioni
e schede
Daniele Pompejano, La crisi dell’Ancien
Regime in America Centrale. Guatemala
1839-1871, Franco Angeli, Milano, 1993,
pp. 248.
È soltanto da pochi anni che gli studi sul
liberalismo latinoamericano tentano di usci
re fuori dalle secche di una storiografia che,
imponendo paradigmi elaborati e consolida
tisi nell’analisi di specifiche esperienze euro
pee a una realtà molto diversa, ha prodotto,
nella sostanza, interpretazioni piatte e lineari
che non evidenziano la complessità dei pro
cessi. Il risultato di tale storiografia non
spiega in sostanza, la genesi dei regimi libe
rali della seconda metà dell’Ottocento lati
noamericano e i contesti in cui maturano,
che, nella maggioranza dei casi, vengono
analizzati in base a coppie di opposti: pro
gresso contro conservazione, modernità
contro tradizione, continuità contro rottura.
Pertanto, per ciò che si riferisce al
Guatemala, il periodo di ininterrotto potere
dei conservatori (1839-1871), viene conside
rato come una parentesi, una stasi nell’evo
luzione, dalla quale le società centroameri
cane riescono a venir fuori grazie all’opera
dei liberali della seconda generazione.
Il lavoro di Pompejano si colloca nella
scia della più recente storiografia, tutta tesa
nella ricerca e valorizzazione delle specificità
'* dei vari liberalismi latinoamericani rispetto a
quelli europei, preoccupata di evidenziare la
complessità dei processi che rivelano la con
tinua coniugazione e intreccio degli opposti
dianzi citati. L’analisi del «caso» Guatemala
è il suo contributo al dibattito storiografico
in atto.
Pompejano, partendo dal panorama più
vasto delle complesse dinamiche che opera
no nella società centroamericana e che pro
ducono, nella seconda metà dell’800, la
nascita degli stati oligarchici e liberali, ana
lizza i processi e le tensioni che rendono
possibile, in Guatemala, la rivoluzione libe
rale del 1871, che ha, a sua volta, effetti dif
fusivi su tutte le altre repubbliche del
Centroamerica, ad eccezione del Nicaragua.
L’arco cronologico in cui si muove va dal
1939, ossia la fine della Federazione e della
prima fase dell’egemonia liberale seguita
all’indipendenza dalla Spagna e, appunto, il
1871. Il periodo dunque, convenzionalmen
te indicato come i «treinta anos» di ininter
rotto dominio dei conservatori e che, secon
do l’autore, lungi dall’essere messo «tra
parentesi», dev’essere rivisitato.
Nel rintracciare le cause della crisi dello
stato di Ancien Régime, Pompejano concen
tra la sua analisi essenzialmente sulle que
stioni inerenti alla sfera fiscale, monetaria e
finanziaria. A suo avviso, soltanto rico
struendo in modo minuzioso e preciso le
dinamiche fiscali e finanziarie e stabilendo
dei nessi tra queste ultime e le tensioni poli
tiche e sociali che si manifestano chiaramen
te negli anni Sessanta del secolo scorso, è
possibile venire a capo e sciogliere il nodo
non risolto della genesi della rivoluzione
liberale del 1871. Infatti, proprio nel corso
del regime conservatore dei «treinta anos» è
possibile individuare dinamiche economi
che e sociali modernizzatrici, trattenute e
costrette dal quadro istituzionale e politico
vigente. Tali dinamiche, e soprattutto
l’avvio della produzione del caffè quale pro
dotto per l’esportazione che sostituisce gra
dualmente quella della cocciniglia, spingono
l ’élite al potere, per poter continuare a
garantirsi l’egemonia su tutta la regione che
storicamente aveva gestito, a cambiare le
regole del gioco politico.
All’origine della crisi del modello eco
nomico e politico vigente che riposa sulle
esportazioni, c’è l’incepparsi del suo mec
canism o m otore: la dom anda estera.
Difatti, l ’aspetto più dinamico di tale
modello è costituito dalla produzione e
commercializzazione della cocciniglia
esportata sui mercati europei, Londra in
123
particolare, e utilizzata come colorante. È
per questa via che lo stato, in misura sem
pre insufficiente e progressivamente defi
citaria entra in possesso di divise che poi
destina al funzionamento della macchina
burocratica e militare. Ed è ancora il
commercio internazionale l’unico terreno
che permette alle élites di commercianti e
produttori guatemaltechi di arricchirsi
ma anche di dover fare i conti con le
forze produttive salvadoregne. Antico è
infatti il conflitto che oppone i produttori
di indaco salvadoregni ai grandi commer
cianti guatemaltechi che monopolizzano
la com m ercializzazione dei p ro d o tti
dell’istmo.
E anche necessario tener presente che,
nel corso dei trenta anni presi in esame, E1
Salvador conosce un’evoluzione economica
e politica rilevante. Con una superficie di un
1/5 rispetto a quella del Guatemala e una
popolazione pari a poco più della metà, rie
sce ad attivare un volume commerciale con
l’estero di poco inferiore al paese confinan
te. Un calcolo del 1860 fa ammontare il
commercio estero di El Salvador a
2.832.205 pesos contro i 3.148.279 del
Guatemala.
Il conflitto tra i due paesi centroamerica
ni registra diversi episodi di guerra aperta
ma la più deleteria per il Guatemala è quella
del 1863. Il costo della supremazia regionale
è così esoso che la vittoria militare, ancora
una volta dei conservatori del Guatemala, e
la crisi del prezzo della cocciniglia, verificatasi proprio a ridosso della guerra del 1863,
segnano l’inizio della fine della loro egemo
nia su tutto l ’istmo, sino all’eversione
dell’ordine conservatore nel 1871.
A tutto questo, Pompeiano collega
diverse dinamiche: il ridotto gettito delle
alcabalas marittime - cioè dei dazi doganali
- a favore dell’erario, le maggiori spese
militari necessarie a garantire l’egemonia
guatemalteca sull’istmo, la necessità di
disporre di risorse finanziarie e di mezzi
istituzionali e legislativi per la modernizza
zione del paese e lo sviluppo della produ
zione del caffè, necessità che non può
essere soddisfatta da un fragilissimo siste
ma impositivo di tipo indiretto. Inoltre la
124
funzione ancora essenzialmente privatisti
ca dell’emissione e la mancata ripresa delle
attività di conio, sin dal periodo successivo
all’Indipendenza, rendono estremamente
deficitaria la circolazione di moneta pri
maria alla quale si cerca di ovviare con la
circolazione fiduciaria che finisce per
innescare una dissennata speculazione, al
punto da provocare una situazione di vera
e propria bancarotta dello stato. Il collasso
del sistema di approvvigionamento ali
mentare e il conseguente malessere delle
zone urbane che si salda con la mobilita
zione delle zone rurali, rendono ancora
più drammatico il quadro complessivo.
Gli effetti di questo intreccio di contraddi
zioni, al livello delle stesse condizioni di
sopravvivenza, risultano distruttivi. Non
vale, a questo punto, il ricorso al prestito
che la finanza inglese concede, nel 1869,
allo stato del Guatemala per far fronte al
suo avvitamento nel debito e per risolvere
il marasma finanziario e l’insolvibilità
verso i creditori interni. Anzi il fattore
esterno si rivela ancora una volta come ele
mento irreversibile di dipendenza, matura
to all’interno della formazione economicosociale periferica.
La configurazione politica e istituzionale
di ancien régime, per quanto funzionale alla
difesa degli interessi di una ridotta oligar
chia, non è in grado di reggere. Ciò impone
un ripensamento, cambiamenti radicali, se
non dei giocatori, almeno delle regole del
gioco. E il pretesto è fornito dall’ennesimo
«pronunciamento» militare che rispecchia
gli interessi di una nascente borghesia
meticcia della zona occidentale del paese
che, sulla strada della lotta per la moderniz
zazione legata alla produzione del caffè, rie
sce a guadagnarsi l’adesione e addirittura la
guida politico-militare di alcuni membri
della vecchia oligarchia.
Il quadro che Pompeiano offre, anche se
in uno stile un po’ tortuoso e di difficile let
tura, ci permette non soltanto di cogliere gli
elementi di continuità dinamica fra l’epoca
dei conservatori e la repubblica liberale oli
garchica instauratasi nel 1871, ma di capire
processi di più lungo periodo che riguarda
no, non soltanto il paese preso in esame, ma
l’intera area centroamericana e che proprio
attorno alla metà del secolo scorso prendono
l’avvio.
Maria Rosaria Stabili
L’America e la differenza, materiali dal II
Seminario Interdisciplinare della facoltà di
lettere e Filosofia, a cura di Luciano
Giannelli e Maria Beatrice Lenzi, Siena,
1994, pp. 243.
Frutto di una attività seminariale svoltasi
dal dicembre 1991 al maggio 1992 per
l’impegno personale del prof. Antonio
Melis, il volume continua ed approfondisce
gli studi fioriti intorno all’occasione del
Cinquecentesimo anniversario della
Conquista dell’America. Il Laboratorio
EtnoAntropologico di Siena aveva già pub
blicato un bel volume a cura di Massimo
Squillacciotti, America. Cinque secoli dalla
conquista, già recensito su questa rivista, sta
volta pero gli studiosi, fra cui studenti e lau
reandi, hanno posto l’accento sulla differen
za, sulla percezione dell’altro americano da
parte degli osservatori ed esperti europei.
Apre il volume un conciso e limpido saggio
di Martin Lienhard sulla scrittura come
marca di differenza e di superiorità bianca e
sulla «via crucis che deve affrontare la voce
emarginata per insinuarsi nel testo scritto».
L’autore ha già espresso queste sue tesi in
maniera articolata e persuasiva nel volume
La voz y su huella che meritò il Premio Casa
de las Américas nel 1990 ma nel breve sag
gio introduttivo marca un indirizzo al quale
si atterranno gli altri scritti del volume, a
cominciare dall’avventura di viaggio e nau
fragio del funzionario spagnolo Cabeza de
Vaca nel 1527 e del chirurgo pirata inglese
Lionel Wafer nel 1690. Da queste due
avventure, lontane nel tempo ma simili per
circostanze (il naufragio, la permanenza fra
popolazioni indigene, la sopravvivenza e il
ritorno), Lidia Bai e Daniela Rossi traggono
interessanti conclusioni sulle finalità degli
scritti autobiografici nell’un caso e nell’altro
e sui concetti di differenza / inferiorità e di
uguaglianza / assimilazione che sono dei
concetti chiave per interpretare i diversi
atteggiamenti del conquistatore. Vi si sottolinea anche l’importanza del possesso dei
mezzi di comunicazione, tornando cosi al
fondamentale problema della scrittura come
arma della conquista già molto ben svolto,
anni fa, da Anita Seppilli nel suo bellissimo
volume La Memoria e l ’assenza. Maria
Beatrice Lenzi indaga ancora sul problema
della scrittura a proposito della cultura
popolare andina e della letteratura indigena
che è, e non potrebbe non essere, un ibrido
nel momento in cui passa dall’oralità al
codice di scrittura portato dai conquistatori.
Mezzo secolo di resistenza ha permesso la
conservazione del patrimonio orale, ma la
sua trascrizione in segni alfabetici occidenta
li implica complessi processi di adattamento
con le inevitabili perdite e adeguamenti, in
una parola produce un sincretismo sul quale
indaga Riccardo Badini, sempre per quel
che riguarda le culture andine e lo spettro
semantico delle loro parole chiave che
denunciano una cultura «di alternanza e di
cambiamento che coinvolge le categorie di
tempo e spazio»; Badini riporta il grande
dibattito dei primi decenni del nostro secolo
fra gruppi letterari e riviste indigeniste
incentrato su un purismo improbabile e una
espressione «contaminata» ma attuale e
reale. Il glottologo Luciano Giannelli si
occupa della percezione delle lingue native
da parte dei grandi linguisti dell’occidente e
dà conto di un dibattito che continua ai
giorni nostri e che apre spazi interessantissi
mi per la comprensione dell’altro e per
l’accettazione delle differenze. L’autore
mette in rilievo il fatto che nell’affrontare le
lingue indigene si è partiti tradizionalmente
dalle categorie greco-latine e che «la man
canza di regole, l ’instabilità della lingua,
supposte imprecisioni» venivano definite
semiumane. Solo recentemente si è comin
ciato ad accettare che fra gli uomini vi sia
uniformità nella natura del pensiero e
«varietà nel modo di esprimerlo». Su questa
stessa falsariga scrive Barbara Cucini che
analizza il percorso del linguista Whitney,
125
operante nel secolo scorso, che appare come
un precursore della linguistica strutturale
ma che si muove fra paternalismo e imperia
lismo. A conclusione del volume, la tradu
zione in italiano de lui tragedia della fine di
Atahualpa, un’anonima opera teatrale del 18
71, in cui viene messa in scena la m orte
dell’imperatore inca per mano di Pizarro e
Almagro. Questo breve testo, rappresentato
dagli studenti pisani nel corso del seminario,
ha una p resen tazio n e di M aria B eatrice
Lenzi che chiarisce il senso del testo e lo col
loca nel suo contesto. Forse quanto o più
dei saggi che lo precedono, questo dramma
anonimo sottolinea la diversità delle culture,
il potere della scrittura in mano al bianco e
l’intolleranza di quest’ultimo.
Alessandra Riccio
Ode alla giovane luce. Panorama della
poesia cubana contemporanea, a cura di
Virgilio Lopez Lemus e G aetano Longo,
Udine, Campanotto Editore, 1993, pp. 225.
In una breve e intelligente presentazio
ne, lo scrittore cubano Miguel Barnet para
gona gli antologi ad un plotone d ’esecuzio
ne: ad essi infatti tocca eliminare, «fucila
re», autori degni del massimo rispetto in
nome della necessità di scelta implicita in
ogni antologia. E un fatto risaputo, tuttavia
le antologie continuano a vivere, a rip ro
dursi e a dimostrare la loro utilità. Nel caso
in questione si tratta di u n ’opera meritoria
la cui responsabilità ricade sulla studioso
cubano Virgilio Lopez Lemus e il ricercato
re italiano Gaetano Longo, entram bi poeti.
Essi h a n n o scelto u na m o stra (a d ir la
verità, solo un piccolo assaggio) della gran
de poesia cubana degli ultim i tre n t’anni.
Nulla da eccepire sulla scelta dei nomi, che
sono veramente fra i più grandi, direi ormai
dei veri e propri classici, ma un p o ’ di con
fusione la ingenera quella precisazione tem
porale poiché abbraccia praticam ente gli
anni della rivoluzione m en tre gli au to ri
antologati sono per la maggior parte poeti
già maturi e formati prima dell’avvento di
126
quel «sovvertimento dei valori» (sono paro
le di Miguel Barnet) che è stata la rivoluzio
ne. Un peccato veniale che si accompagna
ad un altro fastidioso peccatuccio costituito
dai numerosi e reiterati errori del tipografo
nella trascrizione dello spagnolo. Ma supe
rati questi due scogli, il lettore potrà tuffarsi
nella g ra n d e p o esia cu b an a di N icolas
Guillén e di Lezama Lima, di Eliseo Diego
e di Cintio Vitier, delle tre illustri poetesse
Dulce Maria Loynaz, Carilda Oliver e Fina
G arcia M arruz che stan n o al pari con i
grandi e spesso li superano. Comprimere 1’
an to lo gia in circa d u e c e n to pag in e con
testo a fronte ha significato dover «fucilare»
non solo altri autori, ma soprattutto testi,
poesie entrate ormai nel patrimonio cultu
rale della nazione, poesie-sim bolo com e
p o tr e b b e e sse re p e r n o i L ’infinito di
L eo p ardi o i sonetti del Foscolo; ma su
questa decisione coraggiosa degli autori
non mi sento di esp rim ere critiche: p er
alcuni testi sommersi, ne em ergono altri,
forse non tanto conosciuti ma validi e sug
gestivi. Seguendo il cam m ino indicato da
Lopez Lemus, attraversiamo il neorom anti
cismo e la poesia negra, il colloquialismo e
l’origenismo ma ritroviamo sempre un’ eco,
u n ’allusione, un grido che ci riporta ad un
c o n te sto p e r cui n e ssu n o , n em m en o il
poeta più squisito, nemmeno Lezama Lima,
poteva vivere in una intangibile torre d ’avo
rio. C ’è li a dimostrarlo una sorprendente e
bellissim a poesia d e ll’o rig en ista C in tio
Vitier che consiglio di leggere attentamente:
«La voz arrasadora».
Alessandra Riccio
AA. VV ., America Latina. Temi e pro
blemi di antropologia, a cura di V. Lattanzi,
S o p rin te n d e n z a S p e c ia le al M u seo
N a z io n ale P re is to ric o E tn o g ra fic o «L.
Pigorini», Roma, 1st. Poligrafico e Zecca
dello Stato, 1992, pp. 511.
Q uesto ponderoso volume, che esce in
una costosa quanto elegante edizione, è il
p rim o di una collana di su p p lem en ti al
BuUettino di Paletnologia Italiana, dedicata
agli studi etno-antropologici. «La scelta del
tema latinoamericano», scrive Lattanzi nel
saggio introduttivo, «punta consapevol
mente l’obiettivo sul già detto, ma come
‘ripetizione’ necessaria per pensare o ripen
sare (...) i termini di una questione che non
è solo ecologica né solo politica, ma più
complessivamente storica» (p.4).
Si tratta insomma di fare il punto su
alcuni nodi della ricerca contemporanea in
questa disciplina, facendo riferimento al
contesto latinoamericano, da sempre luogo
simbolico dell’interrogarsi dell’Occidente
su se stesso e sulle culture altre, per
«rispondere alla domanda diffusa di analisi
antropologica del mondo contemporaneo,
nel quale la conoscenza interculturale non è
curiosità oziosa ma necessità vitale alla coo
perazione» (Tentori, p. XIII).
In primo piano si pone il problema
della valorizzazione del patrimonio musica
le, poiché il museo (e la riflessione prende
le mosse proprio dal Pigorini) non è più
soltanto collezione di oggetti appartenenti a
culture estranee, ma anche e soprattutto
centro di ricerca e approfondim ento
dell’identità dell’Altro e, attraverso tale
processo, della propria. Ecco quindi il sag
gio di Silvia Carvalho e Miguel Menéndez
sui musei etnografici, che ne propone un
ripensamento in una duplice direzione: da
una parte la presentazione del materiale
deve rendere conto del contesto in cui è
stato prodotto e della «ideologia soggiacen
te»; dall’altra lo sforzo di attualizzazione del
museo, ivi compresa l’apertura al contribu
to degli stessi indigeni, deve sconfiggere il
vecchio pregiudizio secondo cui le culture
tradizionali sarebbero uno stadio dell’evo
luzione umana che raggiunge con
l’Occidente la sua perfezione (p. 126).
Fondamentale in questo senso appare
l’esperienza di Darcy Ribeiro che ha indica
to la via da seguire già nel 1953 con l’istitu
zione del Museu do Indio a Rio de Janeiro,
di cui parla D. Saviola nel suo saggio sul
grande antropologo brasiliano. Il libro rac
coglie una serie di saggi, nati come inter
venti per un ciclo di incontri intitolato
«Sotto il sole giaguaro: idee per un dibattito
sulla civilizzazione», svoltosi al Museo
Pigorini nel 1989, cui si aggiungono, oltre a
quello citato di Lattanzi, altri saggi dai
«Seminari americanistici» organizzati da M.
Curatola nel 1991.
Il senso di tale operazione culturale è
ben illustrato da Lattanzi, che individua
quattro nuclei problematici del volume: la
riflessione sull’identità, la ricerca sul
campo, il concetto di sviluppo e quello di
civilizzazione; tutto, come risulta dalla let
tura dei vari contributi, ruota attorno alla
«ineludibile necessità - in Sudamerica come
in ogni ‘altrove’ possibile - di coniugare
insieme antropologia e storia» (p.5).
Occupa uno spazio centrale in tale riflessio
ne il saggio di Gasbarro, che svolge una cri
tica della scienza antropologica dai suoi
albori al dibattito odierno, passando per
Lévi-Strauss: «l’unica possibilità di salvare
almeno la comprensione dei fenomeni», è
la conclusione, «è la storia dei rapporti tra
le culture» (p. 308). I contributi sono distri
buiti in tre sezioni. La prima, dedicata al
tema «Memoria storica e identità cultura
le», comprende i saggi di Curatola su realtà
e mito dell’impero incaico, di A. Flores
Gaiindo su Arguedas e di J. Rappaport sul
valore dell’araldica tra gli indios colombiani
(quest’ultimo sembra avvalorare l’esigenza
di storicizzare la complessità delle dinami
che culturali, dimostrando l’inconsistenza
del mito delle società «pure»); ad essi si
aggiunge il citato saggio di Carvalho e
Menéndez e una selezione di illustrazioni e
fotografie dai libri di viaggio della bibliote
ca del Museo Pigorini, presentata da L.
Paderni.
La seconda sezione («Processo civilizza
tore, modernizzazione e antropologia») rac
coglie un saggio di S. Gatta sui Chichimecas;
uno di A. Argueta sulle popolazioni indigene
messicane, in cui si indica la necessità di con
vertire le aree protette in spazi per il dialogo
interculturale, al fine di salvaguardare sia gli
abitanti, «custodi dell’eredità genetica mon
diale» (p.215), che l’ambiente; dopo il ricor
dato saggio su Ribeiro, troviamo il testo di
un incontro con Ribeiro e con M. Pereira
Gomes, sempre a cura di D. Saviola, avvenu
to al Pigorini nel 1989, il citato saggio di
127
Gasbarro e un itinerario iconografico (cura
to da L. Paderni) con splendide foto che
«dialogano» con l’osservatore mostrando,
attraverso il loro valore estetico, suscitatore
di emozioni, la realtà dei villaggi sudamerica
ni. È un po’ l’esplicitazione visiva del discor
so di M. Canevacci, che indica nell’estetica
una «parte costitutiva la prassi antropologica
contemporanea» (p.416). In sostanza la
«polifonia» dei meccanismi cognitivi, trala
sciando ogni tentativo filosofico di sintetizza
re arte e scienza, apre nuove possibilità ad
un’antropologia che resta bifronte: l’atten
zione è posta sul «come» si scrive, quale
parte integrante del metodo di ricerca, in cui
il diario, l’intervista, il dialogo, ma anche il
cinema o il teatro diventano generi con pari
valore cognitivo: è il metodo «spezzato»
della «massima intemità» rispetto all’oggetto
studiato, visto in un secondo tempo dalla
«massima distanza» (pp. 402 e 420). Questo
saggio fa parte della terza sezione dell’opera,
dedicata appunto allo «sguardo dell’antro
pologo». Il ruolo di mediatore o traduttore
di culture è assegnato all’antropologo da M.
Biscione nelle sue considerazioni metodolo
giche su antropologia pura e antropologia
applicata, e da G. Bamonte, che mette a
fuoco la situazione dei movimenti indigeni in
rapporto all’Occidente. Completano il qua
dro G. Mazzoleni, che parte dalla sua espe
rienza nel Chaco argentino per evidenziare
l’esplosione di contraddizioni dovute
all’incontro tra culture, e una bibliografia
ragionata di M. R. Innico sui movimenti
indigeni contemporanei. Si tratta in sintesi di
un’opera che analizzando lo stato presente
delle tendenze della ricerca antropologica,
contribuisce a definirne l’evoluzione (e le
inquietudini) rispetto alle esigenze del
mondo contemporaneo; un mondo in cui
l’antropologo assume su di sé l’onore e
l’onere di fungere come un decodificatore
nei rapporti con l’Altro, affidandosi non più
alle antiche certezze eurocentriche o ai miti
del buon selvaggio, ma restando sul terreno
di un dialogo «storico», che costituisce
ormai l’essenza della sua metodologia.
Valerio Corvisieri
128
Les cultures du café, “Caravelle”, n. 1
1993, pp. 292.
Dopo un lungo periodo iniziale, in cui
aveva alternato numeri misti e numeri
monografici dedicati a specifici paesi,
“Caravelle”, rivista àzW Institut Pluridisdplinaire pour les Etudes sur l’Amerique
Latine a Toulouse, in un secondo periodo
aveva optato per la presentazione di numeri
monografici dedicati a specifici temi, come
nel n. 28 dedicato al tema «La terra e i con
tadini nell’America latina».
Questo cambiamento ha permesso a
“Caravelle”, che si presenta con il sottotito
lo «Cahiers du Monde Hispanique et LusoBresilien» un allargamento dei propri inte
ressi e l’adozione di un taglio d’analisi di
maggior respiro e, soprattutto, effettiva
m ente interdisciplinare. Q uest’ultimo
numero si colloca pienamente in quest’otti
ca e risponde felicemente a questa aspira
zione: ispirato inizialmente dal lavoro del
gruppo Moca (Università di Toulouse Le
Mirail e GRAL-CNRS), si situa all’incrocio
di più orientamenti d’analisi collocandosi
allo stesso tempo tra «terra e contadini» e
«testimonianza culturale» in senso lato. Il
numero riguarda i paesi di lingua spagnola,
i pro d u tto ri di caffè dell’Istm o, delle
Grandi Antille e del Nord delle Ande, con
esclusione del Brasile per via del tipo di
proprietà della terra sulla quale produce il
suo caffè. Ci si è limitati a studiare essen
zialmente l’universo della piccola proprietà
caffeicola, largamente dominante nell’area
sopra definita, senza per altro impedire uno
sguardo sulle unità più grandi che pure esi
stono anche in questa area (cfr. l’articolo di
Charles-Eduard de Suremain). L’universo
della piccola proprietà è estremamente
ricco di temi di osservazione e più ricco
ancora se si considerano tutte le rappresen
tazioni che si sono avute dalle mitologie
nazionali dei paesi produttori qui conside
rati. La varietà e la frammentazione spaziale
dei produttori di caffè è certamente una
regola, ma in questo numero della rivista
non si cerca di considerare la questione
come una somma di frammenti dissimili,
ma richiama una forte impressione di unità.
In tutti i casi, dal minore di questi - domi
nante - della piccola proprietà familiare,
fino ad una classe contadina popolare,
dinamica e specifica, i cui tratti si ritrovano
nel tempo e nello spazio per ciascuno dei
paesi considerati in questo numero (cfr.
l’articolo di Jean Christian Tulet). In una
parola, si cerca di verificare se esiste, nelle
tante isole montagnose di variabile grandez
za, una sola e stessa civiltà del caffè, con
delle sfumature, certo, a seconda dei paesi,
ma delle sfumature che appaiono più come
le variabili regionali di una stessa cultura,
così come le differenti nazionalità
nell’ambito del più vasto insieme costituito
dai Caraibi.
Nei paesi dell’area considerata, il caffè è
stato elevato in altri tempi alla categoria di
prodotto nazionale e questo fatto costitui
sce ancora oggi un elemento chiave nella
rappresentazione della storia del paese e
della sua identità. Ma questa situazione
generale ricopre delle situazioni estremamente varie: il caffè può funzionare ancora
come un simbolo molto forte là dove non
se ne è prodotto tanto e può quasi essere
passato sotto silenzio là dove la produzione
è insieme importante e significativa (cfr.
l’articolo di Claire Pailler). Questo rappor
to, intersecato con il concetto di naziona
lità, deve molto alle particolarità dei diversi
processi nazionali (cfr. l’articolo di Mario
Semper). Il caffè ha potuto occupare un
posto capitale nel diciannovesimo secolo
per lo sviluppo economico e giocare paral
lelamente il ruolo di catalizzatore del
discorso d’identità. Così Cuba, nel rigettare
l’appartenenza alla Spagna, ha visto nella
cultura del caffè un simbolo catalizzatore
dell’energia e dell’emozione collettiva (cfr.
gli articoli di Mario Zequeia e Michele
Guicharnaud-Tollis). Ancora, Porto Rico
passato da un giogo coloniale all’altro, ha
fatto della sua precaria cultura del caffè
l’attività nazionale per eccellenza, ma di
una nazione ancora più precaria che la sua
stessa produzione simbolica (cfr. l’articolo
di Fernando Picó e Jaques Gilard). In un
altro caso, il Costa Rica in particolare, se le
linee sono più vere e durature, sono anche
meno profonde (cfr. l’articolo di Claire
Pailler): il caffè, cultura eroica, non ha sto
ria e non può acquisire una certa importan
za se non in contrasto con altre produzioni
più problematiche, come la banana. La
risorsa, anche questa «nazionale», che
aveva il difetto di «m altrattare» la sua
manodopera: la banana, marcata con le
stigmate della presenza straniera, come si è
verificato dal Costa Rica alla Colombia, ma
si può pensare anche al Guatemala.
Sembrava che il paesaggio del caffè non
si vedesse, mentre la canna da zucchero
ottiene maggiore attenzione. Per il tipo di
organizzazione che esige - latifondiario
massiccio e dolorosamente stagionale - la
canna è un’esperienza collettiva mal vissuta;
fonte di indignazione o di compassione,
essa suscita la presa di coscienza, il discorso
politico, l’invettiva. In più essa è un’invasio
ne del paesaggio; quando è presente, si
estende a perdita d’occhio, come un’osses
sione, ed anche per questo è un’esperienza
collettiva più forte di quella del caffè, che
non può apparire che nel paesaggio di ver
santi frammentati e limitati, sempre ristret
to da un orizzonte stretto. Il caffè è un’
esperienza di ordine privato, quasi intimo,
mentre la canna è una tirannia che si subi
sce. Si possono formulare delle osservazioni
simili sulle banane: anch’esse provocano
tensione e drammi, marcati più nettamente
che lo zucchero dalla presenza straniera. Le
piantagioni della United Fruit Company
sono sentite come delle enclave dove è stata
beffeggiata la nazionalità. I massacri che
hanno ispirato la società Nord-Americana e
gli interventi di questa nel tale e tal’altro
paese hanno finito per rendere la banana
un frutto odioso. Si parla, in termini peg
giorativi, della «Repubblica delle Banane»
mentre si può usare poco, o addirittura per
niente, per l’America latina l’espressione
«Repubblica del Caffè». I metodi culturali
bananieri, apparsi come contrassegnanti
l’esperienza storica dei popoli, si sono com
pletamente arenati del caso della cultura
del caffè (cfr. l’articolo di Caterine
Caipeau).
Di fronte a questi due tipi di pianta
gione, la cultura del caffè è stata conside
rata come una produzione senza storia e
129
come un’attività nazionale, amabilmente
legata al sole del paese. Nello stesso
tempo motivo di fierezza ed oggetto di un
consenso tacito, il caffè è a volte menzio
nato, ma senza troppa insistenza, e si può
ugualmente arrivare a dimenticarlo o pas
sarlo sotto silenzio. La letteratura costarichegna s’è poco interessata all’universo
della cultura del caffè del paese, mentre il
caffè è piuttosto l’elemento agglutinante
nella concezione della nazionalità (cfr.
l’articolo di Claire Pailler e Ivàan Molina).
Si può ricordare, di passaggio, che la let
teratura colombiana conta più opere con
sacrate alla «zona balneare» che ai suoi
territori caffeicoli. Per questo il caffè è
oggetto di consenso, perché senza dubbio
significa molto per tutte le vie economi
che del paese dove è prodotto in quantità
significative. Il suo trasporto fa interveni
re numerosi operatori e mobilita impor
tanti interessi al di là delle zone di produ
zione. A centinaia di chilometri dall’ulti
ma caffetteria, gioca un ruolo determinan
te nella domanda e nella creazione di
infrastrutture e contribuisce all’organizza
zione di uno spazio che, grazie a lui,
diventa spazio nazionale (cfr. l’articolo di
Eduardo Posada). Esso condiziona nello
stesso modo le mentalità. Sembra avere
più peso nelle zone che non lo produco
no, dove è un simbolo di prosperità, nel
sottolineare in un certo modo una situa
zione di dipendenza. Senza contare che la
regione del caffè può anche, molto sem
plicemente, far sognare i suoi vicini per
tutto quello che implica la densità demo
grafica, la fertilità del terreno, la vita
sociale e del benessere, segnatamente per
ciò che è la qualità e la varietà e la prossi
mità dei servizi.
Se la letteratura e la canzone popolare
fanno un po’ di spazio al caffè nel periodo
recente ed attuale - per cui il caffè è anco
ra un simbolo nazionale - il consenso deve
avere altre risorse. E un aspetto che non
appare nel complesso degli articoli, ma
Jacques Gilard e Jean-Christian Tulet che introducono il numero e da cui sono
essenzialmente tratte queste note - formu
lano a riguardo un’ipotesi, che giustifica
130
certe allusioni di Eduardo Posada: la stam
pa, fino allo sviluppo della radio e poi
della televisione, ha potuto essere la crea
trice del consenso e del mito. Come veico
lo del dibattito parlamentare della politica
del caffè, come informazione su tutto ciò
che era trattato nei mercati internazionali,
come canale d ’espressione dei diversi
gruppi di pressione legati alla produzione
ed all’esportazione del caffè. Tutto questo
con una istanza che ha potuto suggellare
l’identificazione di tutto un paese al suo
prodotto. Si può ricordare che la stampa
colombiana aveva il costume d’annunciare
in caratteri enormi - come per una dichia
razione di guerra- le gelate che colpivano
le coltivazioni brasiliane o i giorni partico
larm ente idonei per la produzione del
caffè nazionale. La stampa assume sempre
più un ruolo maggiore nell’immagine
«morale» che si dà della cultura del caffè.
L’editoriale della stampa non ricorre che a
nobili e buoni sentimenti ed era inevitabile
che le lobby del caffè, nelle loro rivendica
zioni, mettessero l’accento proprio sui
valori morali del lavoro! Si intravede che,
messi da parte i casi dei grandi proprietari
(o passati o minoritari nell’area qui consi
derata), se il caffè ha potuto dare spazio a
queste mistificazioni è perché la sua pro
duzione è essenzialmente un fatto di pic
coli proprietari. L’immagine proposta non
era dissimile da quella di Jean-Jacques
Rousseau per il primitivo d ’America: la
piccola capanna, la famiglia unita, frugale
ma onesta, il piccolo terreno onestamente
lavorato e redistribuito lo sforzo con gene
rosità, questo nella cornice di una società
«armoniosa» dove spariscono le opposi
zioni di classe (cfr. l ’articolo di Jean
Christian Tulet). Stereotipo che aiuta
l’incoscienza occidentale fin dal diciottesi
mo secolo e che si è superbamente trasci
nata in America con immagini folcloriche ma non meno irreali - del «criollismo lette
rario»: il piccolo piantatore di caffè è
l’unico caso in cui questo stereotipo di
«criollismo» ha potuto in un certo modo
divenire realtà, per l ’espediente della
somma di una infinità di piccole proprietà
individuali e per l’espediente del decollo
econom ico nazionale. Ma si com p ren d e
che non è una questione che riguarda sola
m ente il piccolo p ro p rie ta rio , anche se
sono esclusi dall’immagine idilliaca i lavo
ratori stagionali, senza i quali non sarebbe
possibile niente.
Alcune piante non sem brano suscitare
in America latina l’identificazione indivi
duale o l’identificazione patriottica, come
invece è accaduto per la pianta del caffè. Il
cittadino invitato a partecipare alla raccolta
risente molto di quest’emozione di parteci
pazione più ad un m odo d ’essere che ad
un’attività produttiva - e la sensazione sarà
ancora più forte se il lavoro di raccolta del
caffè è legato a dei ricordi fam iliari. La
testimonianza del romanziere costarichegno
Carmen Naranjo ha degli accenti che ricor
dano inevitabilmente ad un francese quello
che può ispirare la vigna. E possiamo spin
gere oltre questa analogia se pensiamo che
il bisogno di caffè, con i suoi rituali e le sue
preparazioni multiple, rinvia in una certo
modo al ruolo che il vino può giocare nei
rapporti sociali e nei rituali tra i francesi
(cfr. l’articolo di Pascal de Robert). La testi
monianza del grande pittore venezuelano
Jesùs Rafael Soto è estremamente significa
tiva. Venuto da una cultura di consumo del
caffè, il pittore ha effettuato un ritorno alle
origini; è diventato piantatore, un piantato
re e ste ta ch e si m era v ig lia alla v ista
dell’arbusto, ma certamente non un pianta
tore dilettante: l’amore per il caffè chiude il
vuoto del fantasm a delle p ro p rie radici,
concretamente e metaforicamente. L ’ultima
analogia è fornita dalla testimonianza della
p o e te ssa n ic a ra g u e g n a G lo ria n to n ia
H enriquez: si pensi alla frontiera che in
Europa separa la birra dal vino, con la frat
tura regionale che questa evoca ed i pregiu
dizi connessi al loro rispettivo consumo.
Infine, chiude il num erò una n u trita
sezione di recensioni su saggi, atti di conve
gni, numeri di rivista. Anche qui è presente
con efficacia il taglio complessivo della rivi
sta: interdisciplinarietà ed offerta di stru
menti d ’analisi. Una rivista da seguire, dun
que, e con cui confrontarsi.
Massimo Squillacciotti
Manuel Ulacia, Origami para un dia de
lluvia. Valentia, Editorial Pretextos/poesia,
1992, pp. 128
Nel 1992 la casa editrice Pretextos/poe
sia di Valencia ha pubblicato il poem a di
M anuel Ulacia Origami para un dia de lluvia
(già pubblicato nel 1990 a Città del Messico
p re s s o la casa e d itric e E1 T u c à n de
Virginia). Ulacia, quarantunenne poeta e
critico messicano, ha al suo attivo altre for
tunate raccolte di liriche La materia corno
ofrenda (Città del Mexico, UNAM, 1980),
El Rio y la piedra (V alencia, E d ito ria l
Pretextos, 1989), Arabian Knigth (Caracas,
La pequena Venecia, 1993).
Origami para un dìa de lluvia consta di
728 versi sciolti, compresi in 24 stanze.
D edicatario: «Horacio». P recedono il
poema q u a ttro citazioni: «T he Child is
father o f the Man...» (W. W ordsw orth);
«Will you turn a deaf ear,./ To what they
sdid on the shore...» (W.H. Auden); «Times
out of mind, the bubble-gleam / To our char
red level dreiv / A pril back. A sudden
beam.../ - Keep talking while I change into /
The pattern o f a stream / Bordered with
rushes uhite on blue.» (J. Merril); «Al caer la
tarde, absorto / Tras el cristal,. el nino mira /
Llover” (L. Cernuda). G iusto quest’ultimi
versi dello spagnolo C ern u d a sem brano
suggerire a Ulacia l’incipit per la sua lirica:
«Està lluvia que bate los cristales / es la
misma de ayer. / [...] Absorto tras el cristal
ves llover” [Origamipara..., vv. 1-2 e 14].
Il « te m p o si fe rm a » , « in c o n tri
C ernuda» che «ti narrava storie» in «quei
pomeriggi di pioggia... pomeriggi in fuga di
u n ’estate breve», «il tempo senza memoria
né v o g lia n a u fra g ò co m e i g io c a tto li
rotti...»: tutte immagini con le quali Ulacia
«dipinge» il suo passato, un passato che,
però, non diviene strum ento evocativo di
una infanzia lontana, ma, piuttosto, «rilet
tura» del p ro p rio io (che nei versi è tu).
Passato e presente sembrano rivivere grazie
a una concezione quasi «mitica» che avvol
ge il ricordo. Inoltre, ogni oggetto, ogni
situazione rivive nella doppia realtà del pre
sente e del passato, attraverso un procedi
m ento da realismo psicologico (ove l’atto
d d ricordare viene pervaso da torti sensa
zioni). Sul piano stilistico, la lirica si p otreb
be considerare tu tta un enjambement in
grado di indicare la «spezzatura» del sog
getto (un p o ’ come avviene nella poesia di
Rimbaud). A ciò si deve aggiungere l’impie
go di sinestesie, un ricco apparato simboli
co, allusioni, una andatura talvolta affanno
sa e un «composto» sensualismo. «Està Illi
rici que bate los cristales / es la misma de
siempre.» così si conclude la lirica, ribaden
do quell’immagine dietro i vetri; u n ’imma
gine al sicuro, ma, forse, totalm ente estra
nea alla storia. Sembrerebbe che la memo
ria si co struisca un diafram m a p er non
cedere del tutto ai sensi...
Elina Paterne
Un m om ento del funerale di M ariàtegui. L avoratori e intellettuali lo po rtan o a spalla
fino al C im itero generale di Lima, 17 aprile 1930.
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