P.O.I. – RIVISTA DI INDAGINE FILOSOFICA E DI NUOVE PRATICHE
DELLA CONOSCENZA – N. 3, II/2018
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LA QUESTIONE DELL’IDENTITÁ
PERSONALE IN E. HUSSERL
di Mario Autieri
Abstract
The question of personal identity in Husserl's work: Husserl’s analysis shows
that the perceptual present always displays a train of retained impressions;
retention motivates protention through a passive process of association, governed by essential laws of genesis. Intentionality changes over time and experience; so we can say that intentionality is constituted by experience that predelineates horizons of possible experiences. In this conceptual framework the
ego as an identical pole that accompanies every experience is investigated because, in constituting the object, the ego constitutes itself. Person is the conscious being in the fullest account of constitution, not just as psyche but a
conscious and responsible agent living in a state of affects, emotions, etc. and
as essentially embodied. Finally, the self-constitution of the ego through its
own habitus is discussed focusing on the concept of monad and on Derrida’s
point of view.
Key-words: Intentionality, Ego, Person, Monad
1. Breve storia della persona
I
n termini foucaultiani potremmo dire che il termine persona
costituisce un dispositivo che articola una distinzione funzionale all’interno della società romana o si è persona o si è nella disponibilità delle persone e, attraverso la non aderenza della persona al corpo, una distinzione all’interno dello stesso individuo: si è
persona fin quando, per colpa di alcune circostanze, non si diventa
una cosa, mettendo il proprio corpo nella totale disponibilità di una
persona, come accadeva ad un debitore insolvente. Mettendo da
parte la filosofia cristiana e la distinzione ontologica che il dispositivo della persona comporta si è persona nella misura in cui si
riesce a padroneggiare l’altra parte, quella materiale , a noi interes-
127
DOI 10.30443/POI2018-0021
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sa rilevare l’invenzione giuridica e ontologica della persona ficta1, la
quale svincola completamente il concetto di persona da quello di
corpo umano. Solo così possiamo capire perché Locke può definire
persona colui che è capace di attribuire a sé pensieri ed azioni. In
questo modo, però, invece di ricomporre la frattura propria sia del
diritto romano che del cristianesimo, Locke articola la frattura su
due nuovi piani non coincidenti; perché, dal suo punto di vista, una
persona dovrebbe scindersi per poter vedere se stesso prima come
agente e poi come oggetto di giudizio. Questa distinzione lockiana
riceve un’articolata investitura metafisica da Kant, il quale attribuisce lo status di persona solo all’Io penso, alla nostra appercezione
trascendentale, mentre il nostro io fenomenico, quello su cui ci
fermiamo a riflettere quando, ad es., dobbiamo ricostruire una catena di azioni, è una cosa, una parte di noi che viene estromessa e
su cui dobbiamo riacquistare padronanza; vediamola con le sue parole:
io ho coscienza di me stesso […] nell’unità sintetica originaria
dell’appercezione, non come io apparisco a me, né come io sono in
me stesso, ma solo che sono. […] Per questo Io o egli o quello (la cosa), che pensa, non ci si rappresenta altro che un soggetto trascendentale dei pensieri = X, che non viene conosciuto se non per mezzo dei
pensieri, […] e di cui non possiamo mai avere astrattamente il minimo
concetto2.
Come si evince da queste citazioni, l’atto dell’Io penso non è
mai oggetto di un’esperienza interiore, visto che manca il minimo
concetto; di conseguenza, se ho coscienza solo che sono, vuol dire
che la forma che accompagna ogni mia rappresentazione, l’Io penso, è una forma vuota, è priva di ogni determinazione; a differenza
di Cartesio, non accedo a me stesso come sostanza pensante, ma
come X che è. E, come nel diritto romano, anche in Kant è il corpo che rende questa scissione interna funzionale anche al rapporto
1
Per il concetto di persona ficta vedi P. BOJANIC, “As”. Person as Corporation
- Corporation as Person. What is (in)corporatio?, in «Phainomena», XXIII, 2
(2014), pp. 143-156.
2 I. KANT, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1995, p. 399.
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con l’altro. Kant, infatti, quando passa ad analizzare i soggetti nella
disponibilità di un padrone, riconosce anche alla moglie lo status di
soggetto nelle mani del padrone tramite i suoi organi sessuali. Poiché Kant sa bene che questa caratterizzazione contrasta con la sua
difesa della ragione come prerogativa universale di tutte le persone
libere, finisce col trovare un compromesso che mostra tutto
l’imbarazzo della contraddizione. Il compromesso consiste nel coniare l’espressione «diritto personale reale» – ricordiamo che in
Kant il diritto reale si riferisce alle cose, quello personale alle persone , ovvero un ibrido che «consiste nel possedere un oggetto
esterno come una cosa e nell’usarne come una persona»3; ancora
una volta l’autoappropriazione diventa la dinamica per cui sono
persona se riesco a possedermi come cosa, se dispongo di me come
voglio, fino al punto, nel caso della moglie, di poter passare dallo
status di persona a cosa con estrema disinvoltura.
2. Husserl e l’idea di Io nella modernità
La prima domanda che si impone è da dove iniziare a praticare
la fenomenologia; secondo Husserl l’esperienza è, nella sua ultima
originarietà, percezione4, ed è in questa che noi troviamo le prime
evidenze, escludendo tutto ciò che non è realmente percepito.
Questo metodo, dice Husserl, è un ampliamento del metodo del
dubbio cartesiano, ampliamento reso necessario dal difetto di fondo dell’impostazione del filosofo francese, ovvero la mancata
esclusione delle trascendenze obiettive, in particolare la corporeità.
La confusione tra fenomenologia e psicologia nasce proprio da
questo, dal confondere l’evidenza della riflessione sul cogito con
l’evidenza dell’esperienza psicologica di sé; infatti, anche nella sesta
Ricerca Logica Husserl non manca di tornare su questo aspetto:
3 ID., Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965, p. 452. Rimando, per questo percorso interpretativo, a R. ESPOSITO, Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014.
4 Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica
I, Einaudi, Torino 1950, p. 70.
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è una teoria molto ovvia e molto diffusa dai tempi di Locke in poi, ma
anche fondamentalmente erronea quella che sostiene che […] le categorie
logiche come essere e non essere, unità, pluralità […] sorgono dalla riflessione su certi atti psichici, quindi nel campo del senso interno, della ‘percezione interna’. […] Un sistema, ad esempio, è dato e può essere dato in una
riunione attuale, quindi in un atto che perviene ad espressione nella
forma del collegamento congiuntivo A e B e C… Ma il concetto di sistema non nasce dalla riflessione su questo atto; invece che all’atto che
opera questa datità dobbiamo guardare piuttosto a ciò che esso dà, al
sistema che esso porta in concreto a manifestazione, ed elevare la sua
forma generale alla coscienza della generalità concettuale5.
Il confronto di Husserl con la filosofia moderna, soprattutto
con l’empirismo inglese, è costante e non privo di interessi anche
per cogliere il suo distanziamento dalla psicologia, per molti aspetti
debitrice di questa corrente filosofica. In effetti, è noto che Cartesio, nelle prime due Meditazioni, scopre il presupposto fondamentale di ogni filosofia trascendentale: l’idea di una soggettività chiusa in
se stessa che può sempre, in una assoluta indubitabilità, prendere
coscienza di sé. Ma sappiamo anche come le successive tre Meditazioni prendano una strada completamente diversa, con il loro riferimento a Dio per giungere alla conoscenza del mondo extrasoggettivo. Il merito di Locke è proprio quello di aver ripreso ciò
che non era stato fatto da Cartesio, la tematizzazione diretta
dell’ego. Senza dilungarci troppo, qual è il punto debole individuato
da Husserl? Locke considera l’esistenza dei corpi come assoluta
nelle loro componenti geometrico-meccaniche; queste componenti,
o qualità primarie, hanno degli effetti sui nostri sensi, e di conseguenza noi abbiamo intuizioni empiriche di questi corpi, con la
conseguente percezione di qualità secondarie perché solo soggettive come il suono, il caldo, il colore; il merito di queste qualità
secondarie è quello di indicare le proprietà geometrico-meccaniche
tramite leggi psico-fisiche (ad es. la percezione del suono indica la
vibrazione dell’aria). Evidente, anche qui, il modello delle scienze
della natura; alla base sia degli stati fisici che di quelli psichici, vi sa5
ID., Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. II, pp. 442-444 [corsivo nel testo].
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rebbe una sostanza sconosciuta di cui nulla si può sapere, responsabile delle azioni della natura e della trascrizione dei segni sulla tabula rasa. Il risultato è un circolo vizioso in cui si presuppone il
modello delle sostanze della scienza naturale proprio quando ci si
interroga sulla sua possibile validità. In tutto ciò, continua Husserl,
è come se vi fosse di fronte alla coscienza qualcuno che interpreta i
segni che vengono trascritti sulla nostra lavagna interna, e si presenta come sostanza inconoscibile; infatti Locke riduce l’Io al
complesso dei vissuti di coscienza; e però non è affatto semplice
negarlo come istanza indipendente, perché tutta la descrizione di
Locke presuppone un Io come soggetto di attività, come polo identico in tutti quei vissuti che posso chiamare i miei vissuti. Questa è
la contraddizione, dice Husserl, in cui si cade ogni qual volta si costruisce una psicologia che soggiace al pregiudizio naturalistico; e
ciò finisce col renderci ciechi di fronte a tutto ciò che riguarda l’Io
e la coscienza in quanto tale, perché siamo erroneamente indotti a
trattare le sintesi di identità quelle che appunto ci fanno parlare di
cose come la mia coscienza come delle connessioni reali. Berkeley coglie le «assurdità» implicite in Locke, confutando sia la distinzione tra qualità primarie e secondarie, quanto il passaggio dai dati
sensibili immanenti alla coscienza ad una causa sostanziale esterna
che produrrebbe gli effetti sui corpi: un’inferenza, osserva Berkeley,
ingiustificabile. Da qui il tentativo di dispiegare la costituzione del
mondo reale nella soggettività conoscitiva; solo che Berkeley, continua Husserl, resta prigioniero di un pregiudizio caratteristico di
tutto l’empirismo, ovvero il fatto che solo «i momenti individuali»
possono essere intuiti; ragion per cui la cosa percepita nell’evidenza
è, di volta in volta, un corrispondente complesso di dati visivi, o
tattili, etc.: «(Berkeley) è cieco nei confronti della coscienza della
cosa come coscienza d’unità»6; chiaro che così è difficile spiegare il
perdurare di un’identità personale. Berkeley, in altre parole, considera, come già Locke prima di lui, l’associazione come il principio
che tiene insieme dei complessi di dati sensoriali che si presentano
con una regolarità empirica; ma l’associazione è un principio psico6
ID., Storia critica delle Idee, a cura di G. Piana, Guerini, Milano 2013, p.
166.
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fisico che viene assunto come principio assoluto, quando l’unica
regione assoluta dovrebbe essere la coscienza immanente; il riferimento husserliano alla «coscienza di unità» equivale a rimproverare
Berkeley per non aver scoperto l’intenzionalità. Analogamente,
scrive Husserl, in Hume si verifica il seguente paradosso; date certe
«impressioni» come percezioni primitive e vivaci esse, fondendosi
tra loro, dovrebbero darmi o una percezione attuale mettiamo, di
un colore , o il ricordo, o la semplice fantasia di un colore; in modo del tutto analogo ognuno di noi si percepisce come persona, anche se non esiste un’impressione corrispondente all’io; e tutto ciò
non esprimerebbe altro che il carattere fittizio di ogni realtà in
quanto prodotto dell’immaginazione che può produrre solo parvenze di realtà. Ma cosa autorizza queste distinzioni, si chiede Husserl? Il riferimento alla vivacità o alla fugacità di queste impressioni
non autorizza delle distinzioni così radicali, a meno che «non si
esamini l’unico grande tema dell’intenzionalità, che si sviluppa
all’infinito in molteplici diramazioni»7.
3. L’intenzionalità come campo della conoscenza di sé
Nelle Ricerche Logiche l’ideale della conoscenza, attraverso la percezione interna, è costituito dall’evidenza dei vissuti. La prima e
fondamentale evidenza è quella connessa all’Io; eppure Husserl
non considera questo punto di partenza come caratterizzato da
un’esplicita determinabilità, nel senso che la rappresentazione connessa all’Io presenta una certa vaghezza concettuale. Ragion per
cui, enunciati in prima persona come ‘Io odo, percepisco, etc.’ risultano allo stesso tempo un dominio assolutamente certo di quanto è connesso all’Io e, ugualmente, un vissuto in cui l’Io si confonde con la stessa sensazione. La mancata distanza tra Io e vissuto è
solidale con un’immagine della temporalità l’ora identificata
con un attimo effimero, puntuale, come il tempo della sensazione.
Ovviamente Husserl sa bene che la sensazione può durare nel tempo, assumere la forma di un ricordo e, quindi, chiamare in causa
l’unità del soggetto che la esperisce e la ricorda; ma questa unità,
7 Ivi,
p. 180.
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proprio per quanto detto, non si distingue dai vissuti; è l’unità della
connessione stessa dei vissuti e, in ultima analisi, fa affidamento su
un meccanismo causale che tiene in piedi la connessione tra i vissuti.
In effetti il campo d’indagine dell’intenzionalità è amplio, comprendendo tutto il campo dei significati verbali; al di fuori restano
solo le indagini sulla costituzione del tempo immanente. Quando
parliamo di significati verbali vogliamo dire che la comprensione
delle parole il suo significato non è un’immagine associata alla
percezione uditiva e visiva della stessa; noi non associamo due fatti
psicologici il suono e l’immagine appunto ma nell’espressione
noi miriamo ciò che pensiamo. L’unica forma di esteriorità che
Husserl concede è esattamente la relazione tra il pensiero come attività e il pensato; la povertà dell’empirismo consiste nel partire dalla realtà dell’oggetto, mentre nella prospettiva husserliana l’oggetto
è interno all’atto di dare un senso. Questa impostazione realizza
una serie di implicazioni reciproche da verificare; se l’intenzionalità
è posizione di un oggetto (il desiderato di un desiderio, il sentito di
un sentimento, etc.) ne consegue che l’intenzionalità è indissolubilmente intrecciata alla rappresentazione?
Ma se abbiamo associato il processo di comprensione
all’evidenza, cioè ad un processo di identificazione, vuol dire che
esso può anche essere indeterminato, come dotato di un senso, ma
non oggettivo. Il pervenire ad una verità non implica il collegare
due o tre concetti attraverso il giudizio; il modello che qui fa da riferimento è connesso alla visione, all’evidenza della percezione; anche su questo punto, però, attenzione a non restringere troppo il
campo. Assumere come modello delle percezioni non significa limitare il campo della verità a dei con-tenuti materiali: «deve esserci
un atto che svolge rispetto agli elementi significanti la stessa funzione assolta dalla percezione sensibile nei confronti degli elementi
materiali»8. Esiste cioè un’intuizione categoriale oltre ad
un’intuizione sensibile, e le due forme differiscono per il modo in
cui l’oggetto viene raggiunto; il che, d’altro canto, non è da intendersi come un capriccio della coscienza. Se gli oggetti rivelano delle
8
ID., Ricerche Logiche, cit., vol. II, p. 445.
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strutture materiali e formali, vuol dire che l’intenzionalità assume
forme specifiche a seconda degli oggetti: se osservo un colore, se
provo una paura o percepisco una relazione, avrò differenti forme
di intenzionalità e differenti intuizioni. Nel caso del colore avrò
un’intuizione sensibile, ovvero l’immediata esposizione dell’oggetto
allo sguardo; nel caso di un sentimento avremo una particolare
forma di intensità che dovremo indagare; se percepisco una relazione –ad es. una similitudine tra due oggetti ho un’intuizione categoriale, la quale non deriva direttamente dall’intuizione sensibile,
ma si appoggia su di essa per costruire un’intenzione più generale.
L’intenzionalità husserliana rivela degli aspetti decisamente originali. L’intenzionalità non è la caratteristica di una coscienza passiva che si mette in moto quando la realtà preme su di essa; al contrario, è la realtà ad essere subordinata alla coscienza come produzione di senso. Ancora una volta, però, anticipiamo una possibile
lettura; questo non è un tipo di idealismo in cui tutta la realtà,
comprese le forme logiche, sono costruite da noi; la produzione di
senso è il modo originario in cui gli oggetti, secondo la loro struttura, vengono presi di mira dall’intenzionalità; e questo esser presi di
mira ci offre un’immagine della coscienza in cui essa non è una
realtà piena di contenuti psicologici che rispecchierebbero la realtà
materiale, quanto un insieme di significati. Se noi abbiamo significati imperfetti, indeterminati, mutevoli, non è perché la nostra coscienza è limitata; le sue imperfezioni sono i diversi modi di accedere alle caratteristiche degli oggetti. Una coscienza che si identifica
con la molteplicità dei suoi significati è una coscienza che è determinata in tutte le sue forme di identificazione, senza che nulla possa essere considerato irrilevante: ogni manifesta-zione della coscienza ha un senso. Su quanto mi viene dato dal mondo io posso
certo avanzare dei dubbi, ma anche quando ho tutti gli strumenti
per accedere ad un’intuizione adeguata di questo mondo, in modo
da superare gli inganni della percezione, io sto pur sempre ricorrendo ad una scienza che presuppone l’esistenza del mondo a cui si
applica; il mio pensiero, in altre parole, è completamente ignaro
delle sintesi che l’hanno condotto a certe oggettualità e si comporta, invece, come un abituale modo di enunciare proposizioni su delle oggettualità abitualmente ammesse al commercio tra gli uomini e
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il mondo: l’atteggiamento naturale non è falso, è solo tremendamente ingenuo. Ed è questa ingenuità ad aver liquidato la coscienza
attraverso la sua psicologizzazione9 e sostanzializzazione. Come se
l’Io fosse un oggetto individuale e individuabile, e i contenuti di coscienza dei semplici oggetti rimpiccioliti ricavati dalla realtà. Applicare la «riduzione» significa dunque fare violenza contro la nostra
naturale ingenuità, al fine di sospendere ogni tesi che contenga
l’esistenza degli oggetti. Questa sospensione da un lato si esercita
rilevando che la percezione del mondo presenta sempre delle anticipazioni – Io non osservo un oggetto nella sua totalità ma da punti
di vista che mi fanno però presumere ciò che ancora manca alla
mia percezione- ; ragion per cui l’esistenza del mondo non può essere considerata assoluta. Ma accanto a questa argomentazione, tutto sommato tradizionale, c’è un’altra direzione. Chi è che compie
questa riduzione? Ovviamente un soggetto; ma non devo sospendere la tesi anche su di esso? Ora, mentre l’oggetto emerge nella
continuità dei profili che si danno alla mia percezione,
la corrente dei vissuti che è la mia, di colui che cogita, è corrente dei
vissuti, e per quanto non venga afferrata che in ristretta misura […],
appena dirigo lo sguardo sulla vita che fluisce nel suo vero presente e
colgo me stesso quale puro soggetto di questa vita […], necessariamente e in maniera assoluta affermo: io sono, questo vivere è, io vivo:
cogito10.
Mentre una cosa spaziale, continua Husserl, può non esistere,
un vissuto, invece, non può non esistere. Questo significa, e Husserl lo dice esplicitamente, che l’Io può esistere anche senza il
mondo e quindi Io non devo applicare nessuna riduzione su di esso, perché assumere l’assolutezza dei vissuti non implica
l’assunzione dell’io come res cogitans. Dal punto di vista husserliano
la nostra libertà non consiste, a questo punto, nell’operare nel
mondo e sul mondo, quanto nella possibilità di pervenire
9
Cfr. E. HUSSERL, Fenomenologia e Psicologia, a cura di A. Donise, Filema,
Napoli 2003.
10 ID., Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica I, cit., § 46, p.
111.
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all’evidenza della costituzione degli oggetti. Una volta sospesa
l’evidenza degli oggetti, e una volta che ci si è concentrati sugli atti
di conoscenza, l’atto ci appare come un intendere (Meinen) rivolto
ad un elemento inteso (Gemeint); il suo carattere trascendentale è
dato dal fatto che questa operazione di conferimento di un senso
non è una necessità psicologica, ma una struttura ideale necessaria;
rispetto all’illustre precedente, cioè il trascendentale kantiano, quello husserliano non conosce distinzioni tra intelletto e ragione.
Quando intenziono l’Io, ciò che viene intenzionato è un’attività
e il pensiero è questa stessa attività; anche se Io intenziono qualcosa di diverso dal mio pensare, il pensiero che si dirige sull’oggetto è
sempre un pensiero presente a se stesso in questa attività. Dove si
esplica la successione, l’identificazione, la duplicazione di questi
contenuti? Esattamente nell’analisi della coscienza del tempo, a
partire dall’ «impressione originaria». Husserl si accorge che le sintesi originarie del tempo avvengono nella sfera della passività e precedono, di fatto, la coscienza di queste stesse sintesi. In altri termini, solo quando l’Io è recettivo rispetto a se stesso in quanto atto
che temporalizza l’appercezione, la coscienza può poi tematizzare
se stessa come tempo, in virtù dell’essenziale temporalità dell’atto.
Ma ciò ci induce a porre la seguente domanda: il presente si riduce
alla sua fase di contenuto singolo, oppure non può prescindere da
un orizzonte protenzionale e ritenzionale disposizione verso il
passato e il futuro che ne costituisce la struttura? Quando intendo il presente in quest’ultimo modo non lo sto considerando più
come impressione istantanea frutto di un’astrazione , ma come
un durare, cioè un fluire, un processo continuo; questo ovviamente
apre un’ulteriore difficoltà, ovvero il fatto che la coscienza mi appare sia come un flusso che come una struttura portatrice di una
forma di autoriflessione. Ora, tutto ciò che è per me è sempre nella
situazione del «di fronte a»; posso avere anche me stesso in questa
situazione. Nel cambiamento di vissuto, l’Io che prima era fungente puro essere attivo , mi si pone ‘di fronte’: «la riflessione è la
differenza e coincidenza dell’Io […], è perciò l’esplicitazione origi-
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naria del tempo e della temporalità»11; dunque la riflessione non
produce la temporalità, ma solo la esplicita; e questo significa che la
coscienza irriflessa non è esterna al tempo, perché la riflessione è
sempre una possibilità attiva della coscienza irriflessa. Questa stessa
distinzione appare ad Husserl il frutto di un’attività dell’Io, che si
esercita su pre-datità passive il flusso vivente e solo in virtù di
questa operazione riflessiva rendiamo oggettiva la temporalizzazione immanente.
All’epoca non pochi neokantiani pensarono che, dopotutto, la
questione di Husserl fosse la stessa di Kant, ma viziata da un pregiudizio empiristico un soggetto originariamente presente a se
stesso tramite un flusso di vissuti ; in realtà non è così. Come diverrà progressivamente chiaro a partire dagli anni ‘20, il problema
di Husserl non è quello del criticismo.
4. La vita della coscienza: Io corporeo, Io personale
In un manoscritto del 1911, facente parte delle annotazioni che
Husserl conduce sul testo Motivi e motivazioni di Pfänder, si fa riferimento ad una tendenza come mero stimolo e ad una tendenza
che può diventare un cogito attuale, cioè un’autentica intenzione
dossica. Come esempio della prima tendenza troviamo il respiro,
perché è un accadimento soggettivo nella forma di un cieco impulso; eppure lo stesso impulso, in questo caso, può diventare anche
oggetto di una risoluzione intenzionale con la quale accelerare, rallentare o semplicemente ascoltare il proprio respiro. Tra questi due
estremi troviamo una vasta gamma di tensioni. Se sono impegnato
in un compito teoretico posso, contemporaneamente, pensare o no
11
G. BRAND, Mondo, Io e Tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani,
Milano 1960, p. 135. Brand fa notare che quando Sartre attribuisce ad Husserl l’idea della riflessione come coscienza istantanea, misconosce il fatto che
per Husserl non si dà mai l’identità tra coscienza riflessa e irriflessa, perché al
posto dell’io riflesso si presenta sempre e necessariamente un nuovo io anonimo e fluente: il flusso accade, non dipende da un’attività dell’io. Cosicché, il
presente dell’io è nella costante disposizione verso il passato e il futuro; il che,
come vedremo, mette Husserl nella necessità di sviluppare il concetto di monade.
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di assecondare la tendenza ad accendere una sigaretta. In un caso
intermedio come questo, nota Husserl, la volontà di fumare è già
presente anche se latente. Per questo, qui, il passaggio dall’atto latente a quello manifesto è diverso rispetto alla risoluzione
dell’esempio precedente nei confronti del respiro. L’aspetto rilevante sta nel fatto che la tendenza viene assunta come dimensione della coscienza, arrivando a qualificare un tipo di intenzionalità appunto come tendenza. Ma cos’è questa intenzionalità non cosciente,
non necessariamente diretta su un oggetto? Husserl riconosce nella
sensibilità un’intenzionalità che è senza intreccio con una rappresentazione e comprende questa forma di intenzionalità come un
sistema di impulsi (Triebsystem) originariamente sussistente. In altre
parole, la coscienza è «affezione originaria»12. La funzione di questi
impulsi o istinti è duplice: essi rendono possibile l’apertura del soggetto al mondo, per cui vengono denominati da Husserl «istinti diretti mondanamente» (Instinkte der Weltlichkeit); in secondo luogo, il
dinamismo che impongono alla coscienza è volto al preservamento
di sé da parte di quest’ultima (Selbsterhaltungs instinkte13). Ma allora
come si dispiegano questi istinti? Gli istinti si dispiegano mediante i
movimenti del corpo, i quali, pertanto, vanno considerati eventi intenzionali chiamati «cinestesi». Essi sono esplicazioni delle tendenze del percepire, in certo senso attività, sebbene non azioni volontarie. Cosa accade da un punto di vista noetico perché la mia intenzionalità si diriga verso qualcosa? Gli esempi più chiari ci vengono
forniti nelle Lezioni sulle sintesi passive, dove Husserl si chiede esplicitamente: «quando emerge una serie di suoni come una melodia?»14.
E risponde: «perché si formi un’unità sensibile debbono realizzarsi
condizioni di somiglianza contenutistica e di contrasto, ma non sono sufficienti; è necessario che […] subentri un’altra forza; è necessaria una forza affettiva»15. Accade, insomma, che una melodia
12
E. PACI, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Laterza, Bari 1961,
p.114.
13 Cfr. E. HUSSERL, cit. in I.A. BIANCHI, Fenomenologia della volontà. Desiderio, volontà, istinto nei manoscritti inediti di Husserl, Franco Angeli, Milano 2003, p.
157.
14 ID., Lezioni sulle Sintesi Passive, Guerini, Milano 1993, p. 209.
15 Ivi, p. 211.
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possa risuonare senza essere avvertita, fino al momento in cui un
frammento mi colpisce e trascina con sé l’intera melodia; in questo
caso la parte precede la manifestazione dell’intero. Dobbiamo forse
considerare questa parte come indipendente dall’affezione, si chiede Husserl? In realtà, l’affezione è sempre presente e, benché la sua
propagazione non contribuisca alla formazione dell’unità, tuttavia
costituisce un incremento di intensità che determina il ridestarsi
dell’attenzione: «un qualsiasi quid costitutivo è pre-dato se esercita
uno stimolo affettivo, è dato se l’Io ha aderito allo stimolo»16.
Quello che emerge nelle Analisi sulle sintesi passive, e che viene confermato anche nei testi successivi, è il concetto di predelineazione,
cioè la direzione fornita all’intenzione nell’ambito di una intenzionalità fungente che la predispone a un possibile riempimento. La
costituzione coscienziale degli oggetti rimanda alla costituzione di
oggetti precedenti. È indubbia la centralità assunta dall’Io rispetto
ad ogni ente in questo modo, e questo perché nel momento in cui
cerco di risalire ai dati originari a partire dal mondo così come è costituito, non posso non ritrovare l’Io come ciò che pensa questa
datità, che l’interroga, etc.; non c’è, insomma, alcuna caratteristica
dell’oggetto che possa essere considerata senza un riferimento al
soggetto. In che modo riesco a cogliere all’opera questo necessario
ancoraggio al soggetto? È attraverso la sensibilità. In una serie di
testi classificati (M III 3 II), di cui Langrebe ha tenuto conto
nell’introduzione ad Esperienza e Giudizio17, Husserl prende in considerazione alcune particolari situazioni. Mettiamo il caso in cui io
stia mangiando diverse parti di un dolce, e che ne riceva sensazioni
di estrema gradevolezza; ad un certo punto, però, subentra un senso di sgradevolezza, come esito finale di una serie cospicua di pezzi
dello stesso dolce; cosa è successo? È successo che il sentimento
riferito al pezzo di dolce ha cambiato verso al termine della serie
dei pezzi; ma se il primo pezzo procurava sentimenti gradevoli,
cioè era lo stesso oggetto a suscitare determinati sentimenti di sensazione, non è possibile che sia lo stesso oggetto a causare poi sentimenti sgradevoli; dobbiamo ipotizzare, dice Husserl, sentimenti
16
17
Ivi, p. 220.
E. HUSSERL, Esperienza e Giudizio, Bompiani, Milano 1995, pp.29-36.
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sensibili intenzionali, dove ad un certo «ritmo» della tendenza affettiva subentra un altro «ritmo» rivolto sempre verso il dolce. Un altro esempio considerato è quello dell’umore (Stimmung); se mi accade qualcosa di positivo ad es. vedere un film che mi piace succede che la sensazione piacevole mostri la capacità di propagarsi,
colorando di sé altre sensazioni che, in altri momenti, sarebbero risultate sgradevoli, indifferenti, etc. Ma se una situazione sarebbe
dovuta risultare sgradevole, e invece io la trovo addirittura divertente in virtù del mio umore felice, non posso certo dire che sia
l’oggetto a suscitare questi sentimenti contrastanti; devo concludere
che anche l’umore è intenzionale. Husserl sta dicendo, cioè, che
esistono forme di intenzionalità affettive, non dirette oggettualmente infatti, nel caso dell’umore, si suole dire ‘non so perché mi
sento così’ , ovvero non supportate da una rappresentazione; ed è
proprio per queste forme di intenzionalità che Husserl parla di «sistema di impulsi» di carattere originario; la vita della coscienza, nella sua essenza, è questa capacità di affezione originaria. In altre parole, la vita della coscienza appare ad Husserl come uno strato di
sedimenti, alla cui base ci sono queste formazioni istintuali passive,
e al cui vertice ci sono le formazioni coscienziali propriamente dette. Sono gli stessi istinti che, dotati di una precisa intenzionalità, si
direzionano verso il livello logico-predicativo a partire da questa
originaria condizione ante-predicativa. Su questo versante intervengono le cinestesi corporee. Come Husserl chiarisce nel § 76 di Esperienza e giudizio18, il corpo, anche senza alcuna consapevolezza, è
sempre implicato in possibili movimenti di organi a cui corrispondono modificazioni del sistema di apparizione tattile, visivo, etc. È
questa costitutiva attività a fare del nostro Korper qualcosa in rapporto cinestetico col mondo e, dunque, originariamente implicato
in atti di costituzione; non esiste dato hyletico grezzo, poiché la
possibilità stessa di un mondo di oggetti è una formazione egoica19.
18
Ivi., p.278
Cfr. J.-L. PETIT, La spazialità originaria del corpo proprio. Fenomenologia e
Neuroscienze, in Neurofenomenologia. Le scienze della mente e l’esperienza cosciente; a
cura di M. Cappuccio, Mondadori, Milano 2006, p. 169: «Husserl ha reinterpretato l’esperienza del corpo proprio come quella dell’intervento dell’io nel
19
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Fondamentale risulta, a tal fine, la considerazione che Husserl matura attorno all’idea di «polo egologico». Se, in conformità a quanto
stabilito in Idee I20, Husserl ha concepito per molti anni l’Io come
uno statico centro di irradiazione di atti che permane identico pur
nella continuità dei vissuti, nel momento in cui si sofferma, come
già accennato, sulla dimensione pre-predicativa della conoscenza,
l’Io comincia ad essere valutato come la funzione di continuità che,
mediante forme non oggettuali di intenzionalità, conduce dai «profili delle cose» alla determinazione predicativa dello «stato di cose»,
ossia allo sviluppo di quegli impulsi tendenziali della volontà verso
la datità completa dell’oggetto; così Husserl focalizza il passaggio
dalle oggettività ricettivamente date alle oggettività dell’intelletto:
il fare dell’Io che motiva il flusso dei complessi molteplici di dati sensoriali può essere completamente involontario; i flussi si racchiudono
anche passivamente in unità, senza che arrechi differenza il fatto che
l’io si volga a ciò che in essi appare mediante una prensione ricettiva
oppure no. In certo modo l’oggetto c’è anche così […]. Al contrario,
l’oggettività dell’intelletto o lo stato di cose non può costituirsi se non
essenzialmente nel fare spontaneamente produttivo e cioè a condizione di una compresenza dell’io. Se questa non ha luogo, si resta tutt’al
più all’oggetto ricettivamente costituito che rimane nel campo come
percepibile, ma nulla di nuovo si costituisce sulla base dell’oggetto21.
Quello che Husserl chiama «Io personale», su cui a breve torneremo, si costituisce, appunto, attraverso la comprensione di sé e
mette in atto, dunque, uno sdoppiamento, nel senso che il sé può
diventare una «datità assoluta» solo sotto lo sguardo puro del pensiero; ovvero, di fronte ai tanti vissuti, «l’Io puro» non cambia mai.
Questo non vuol dire che esso sia una puntualità cristallizzata, ma
che è la perenne sedimentazione di una serie di habitus nelle forme
mondo. Essendosi la concezione tradizionale delle cinestesie ‘sensazioni di
movimento’ rivelata incompatibile con questa interpretazione, egli ha osato
ricollegare le sinestesie alla volontà, e ha cominciato a ripensarle sotto la categoria della praxis» [corsivo nel testo].
20 Cfr. nota 10
21 E. HUSSERL, Esperienza e Giudizio, Bompiani, Milano 1995, pp. 229-230.
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dispiegate dalla struttura del tempo immanente alla coscienza, in
modo tale, cioè, che Io possa sempre riconoscermi; l’unità del flusso temporale è la stessa unità dell’Io.
5. Dalla persona alla monade
L’Io privo di qualità del flusso di coscienza, il primo ad affacciarsi nell’analisi fenomenologica, realizza solo il primo strato di un
complesso che vede avvicendarsi un Io corporeo, psichico e infine
spirituale, a cui è associato il tratto distintivo dell’essere umano:
compiere atti liberi, cioè avere la capacità, accompagnando il flusso
di coscienza, di deviare il corso dei vissuti verso altre possibilità
presenti all’interno dell’esperienza. In altre parole, l’Io personale fa
esperienza di sé prendendosi di mira, mostrandosi come un complesso di disposizioni che tendono a realizzare un’unità nel flusso
di coscienza:
Io sono il soggetto della mia vita, e vivendo il soggetto si sviluppa;
primariamente, esso non esperisce se stesso, bensì costituisce oggetti
naturali, cose di valore, strumenti, ecc. […]. L’Io si esercita, si abitua,
nel comportamento successivo è determinato da quello precedente, la
forza di certi motivi si accresce. L’Io conquista certe capacità, si pone
certi scopi, e raggiungendo questi scopi attinge certe facoltà pratiche22.
Questa unità si realizza nella figura dello «spettatore» che diviene consapevole delle pulsioni, delle inclinazioni caratterologiche,
cioè di un habitus riconoscibile nei suoi modi di comportamento. E
quando «prendo posizione» come soggetto di volontà, lo faccio sulla base di un ordine immanente di leggi, una forma di psichicità che
Husserl chiama «sensibile» e «passiva», perché per poter essere motivato a i vissuti motivanti devono già poter agire così come essi si
sono tra loro associati23. Esattamente, quali sono i rapporti tra questi strati? Originariamente, dice Husserl, sono il soggetto della mia
22
E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica.
Libro secondo. Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, Einaudi, Torino 2002,
pp. 253-254.
23 Ivi, pp. 272-279.
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vita, ma non sono oggetto per me stesso, quanto un soggetto che si
sviluppa costituendo cose, strumenti, plasmando un mondo circostante, fin quando non comincio a conoscermi, a fare esperienza di
me stesso in modo che certi insiemi di attività diventano scopi e
con essi le facoltà corrispondenti, animato da un continuo esercizio
di «autoconservazione»24. Quella che qui Husserl sta descrivendo è
una forma di intenzionalità che non è solo coscienza di qualcosa,
ma chiama in causa «un mondo posto con un suo particolare statuto di senso attraverso i vissuti intenzionali del soggetto stesso»25; ed
è qualcosa che fa esplicito riferimento alla capacità di andare oltre
la realtà attuale. In altre parole l’Io può scegliere, non solo abbandonarsi alla spontaneità dei vissuti, ma scegliere a quale decorso cinestetico abbandonarsi26, quale schema di esperienza adottare; in
questo modo Io dispongo di me stesso al fine di rendere attuali dei
mondi in cui si dispiegheranno determinati orizzonti inclusi nelle
mie intenzioni pratiche non ancora realizzate. Husserl sembra dire
che la vera libertà27 consiste non solo nel non farsi trascinare da alcun tipo di tendenza, ma scegliendo sempre in rapporto agli orizzonti di senso che le mie azioni manifesteranno. L’Io persona si riconosce, dunque, perché tutte le sue tendenze comportamentali
sono sempre razionalmente motivate; il che implica che Io, spirito
agente, posso riappropriarmi della mia vita nel corso di ogni rammemorazione. La continua riproposizione di certi valori rende la
persona un’unità che non si limita ad autoconservarsi come corpovivo, ma si trascende nell’affermazione di un mondo che non coin24
Ivi, p. 254.
Ivi, p. 190.
26 «L’essere sovrappensiero, oppure l’essere impegnato in qualche riflessione e imboccare passivamente la ‘solita strada’, senza che vi sia una scelta,
senza una decisione volontaria diretta in modo particolare a ciò. Ma allo stesso tempo non contro la mia volontà, piuttosto nel senso di un’introduzione
[ad essa]. […] Quindi non involontariamente, non senza una struttura volontaria. Ma si tratta di Willenspassivitä»; ancora: «L’agire conseguente è preceduto da una forma inferiore di volontà, una volontà passiva [Willenspassivität] in confronto all’attività dell’‘io voglio’»; E. HUSSERL, cit. in M. UBIALI, La
fenomenologia del volere. Husserl, Pfänder e Geiger, «Lebenswelt», 2, 2012, p.75.
27 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica.
Libro secondo, cit., p. 273.
25
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cide con quello esistente. La questione per noi decisiva, a questo
punto, è la seguente; se l’Io giunge al suo sviluppo massimo nella
forma dell’autocoscienza rammemorante, nei precedenti stadi di
sviluppo cosa assicura l’unità dei vissuti in quanto identità di un Io?
Non possiamo dire che l’Io sia un semplice prodotto del flusso di
coscienza, perché questo significherebbe che l’identità dura
l’attualità del vissuto che riesce a dire Io. Se l’Io non è un polo vuoto, vuol dire che quando mi colgo in maniera apodittica, proprio
perché non coincido con alcun vissuto in particolare, sono indotto
a riappropriarmi della genesi di questa costituzione. Giunto a questo punto Husserl, però, insiste sempre più su un nuovo concetto
che permette, appunto, di dare fenomenologicamente ragione
dell’Unità temporale dell’Io: Io sono numericamente uno anche
quando penso, da adulto, alla mia infanzia; com’è possibile?
Nel § 27 di Idee II Husserl ci dice che tutti gli atti sono attuali,
anche quelli latenti; solo che non sono al centro della coscienza, e
questo li rende incompiuti:
L’Io puro deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni.
Questa proposizione kantiana ha un senso se per rappresentazioni intendiamo la coscienza oscura. Per principio l’Io puro può penetrare e
vivere entro tutti i vissuti intenzionali incompiuti (inconsci in un senso
particolare, assopiti). Inoltre può gettare la luce della coscienza desta
su quelli che sono sprofondati verso lo sfondo, che non vengono più
attuati; l’Io agisce soltanto nell’attuazione, nelle vere e proprie cogitationes. Ma può inviare il suo sguardo verso tutto ciò che il raggio della
funzione dell’Io può investire28.
Ma come può l’Io essere un riferimento di vissuti non compiuti?
È proprio il concetto di «monade» che risolve questa questione.
Nel 1908 il filosofo aveva introdotto il concetto di monade, divenuto operativo a cavallo degli anni venti, in virtù dell’esigenza di
reimpostare il problema della soggettività costituente; Io e coscienza hanno ormai un valore metaforico in quanto inadeguati a esprimere l’autocostituzione del flusso, la sua concretezza e genesi
28
Ivi, p. 113.
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spontanea. Husserl ci dice che solo la monade riesce a esprimere
l’unificazione dei flussi in un’unica struttura genetica:
la monade è un essere semplice, non spezzettabile, è ciò che è in quanto continuamente diveniente nel tempo, e tutto ciò che le appartiene è
in un punto qualsiasi di questo divenire continuo e ha il suo essere
come pienezza temporale in questo tempo immanente riempito, e non
è nulla per sé, perché tale riempimento è continuo ed è riferito a uno
stesso identico io polo29.
La monade viene ad essere il campo dell’Io; ora, se quest’ultimo
ha una vita solo nel contesto dei correlati intenzionali in cui si colloca, vuol dire che, tenendo insieme monade e sintesi passive, c’è
anche quando non si manifesta, e a variare sono solo le intensità
delle affezioni capaci di destarlo e il grado di sviluppo della monade; tutto è immanente alla monade che Io sono, in un senso per cui
ogni elemento immanente è individuale ma non indipendente; ad
avere quest’ultimo carattere è solo la monade. Poiché sappiamo che
l’Io-sono non è un’evidenza eidetica, ma un fatto, vuol dire che esso ha la possibilità di trascendere un orizzonte temporale per attivare altre possibili conformazioni del contesto stesso, costruendo
un’immagine concordante del sistema dei vissuti che lo attraversa;
ed è proprio la costruzione di questa immagine che definisce il telos
della monade e la definizione dell’Io come persona capace di scegliere quali vissuti assecondare: «come esito dell’esperienza, dapprima soggettiva e poi intersoggettiva, abbiamo sempre un’unità di
molteplicità»30.
6. L’obiezione Derrida: solo tracce dell’Io
Il discorso condotto da Husserl fin qui presenta alcune questioni inaggirabili. La questione che tenteremo di analizzare porta la
firma di Derrida; attraverso La voce e il fenomeno il filosofo francese
ci mostra come la delimitazione del campo intenzionale della pre29
ID., Metodo statico e genetico, Il Saggiatore, Milano 2003, p .67.
ID., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo, cit., p. 494.
30
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senza e del presente, così come la possibilità di ottenere una presenza immediata, mettono Husserl di fronte a dei fenomeni non
riducibili all’interiorità e alla presenza. Eppure lo sforzo di Husserl
è proprio quello di chi reputa necessario dimostrare come il significato sia qualcosa di sempre presente, disponibile ad uno sguardo
che sappia cogliere nel segno la distinzione tra indice ed espressione o tra comunicazione ed espressione.
Per segni indicativi si intende un tipo di oggetti empirici o stati
di cose il cui sussistere rimanda al sussistere di altri oggetti o stati di
cose. Un segno significativo, invece, non necessita di fungere in
questo modo; ad esso compete solo significare qualcosa in senso
pregnante, anche se, all’interno di un discorso comunicativo, può
anche indicare qualcosa. Prendendo in considerazione solo i segni
significativi o espressioni , noi distingueremo, dal lato oggettivo,
tra segno e designato, e dal lato soggettivo tra la parte fisica
dell’espressione (complesso fonetico) e parte psichica (cioè i vissuti
psichici). Prendere in considerazione solo le espressioni autentiche
significa prescindere dalla comunicazione e dai rapporti tra parlante
e ciò di cui si discorre; cioè significa riferirsi, in modo paradigmatico, al pensare e al parlare solitari. Perché proprio il pensare e il parlare solitari? Perché da un punto di vista fenomenologico le relazioni significanti facenti riferimento all’indice e all’espressione non
si trovano mai isolate l’una dall’altra: «il voler dire nel discorso comunicativo si trova sempre intrecciato in un certo rapporto con
l’essere indice»31. A partire da quest’intreccio Husserl vuole elaborare la possibilità di una separazione d’essenza tra queste due funzioni. Se ciò non fosse possibile in base all’intreccio tra indice ed
espressione, dovremmo concludere sull’assimilazione della parola al
gesto, che è esattamente quanto Husserl vuole scongiurare, dimostrando l’estraneità dell’espressione alla specie dell’indicazione. Poiché è proprio nel discorso comunicativo che, secondo Husserl,
espressione ed essere indice si trovano concatenati, dobbiamo risalire ad un linguaggio senza comunicazione, «alla vita solitaria
dell’anima»32. L’intenzione di un soggetto che anima il segno si
31
32
ID., Ricerche Logiche, vol. I, cit., p. 291.
J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 2010, p.64
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scontra, nel caso dell’indicazione, con la fisicità tanto del segno,
quanto dell’indicato che esiste nel mondo, mentre nell’espressione
l’intenzione mira un segno senza corpo (la voce interiore) e
l’espresso è una idealità che non esiste nel mondo. L’espressione
sembra procedere secondo il binario intenzionalità/coscienza volontaria, visto che dall’espressione sono esclusi «il gioco mimico e i
gesti con i quali involontariamente […] accompagniamo il nostro
discorrere»33. L’idealità, qui, è sinonimo della purezza
dell’intenzionalità e dell’espressione; l’assenza della comunicazione,
infatti, scongiura la presenza dell’indice e quindi della realtà
perché non essendo presente il vissuto altrui, la cui assenza alla nostra intuizione originaria rende necessaria l’indicazione,
l’espressione «sarà presente ad un’intuizione o ad una percezione
interna»34. Ogni volta che la presenza piena è sottratta alla «percezione interna» noi non abbiamo un «essere vissuto», ma solo un
«essere presupposto». L’espressività è dunque associata alla presenza immediata di un contenuto significato. Vivere nel significato,
come dice Husserl, significa mirare al significato come unità ideale,
senza alcun riferimento «all’avvenimento fisico del linguaggio»35.
Nel pensare e nel parlare interiori si compie un flusso di rappresentazioni fantastiche, ma ai complessi fonetici in questo modo fantasticati non è assegnato alcun riferimento al mondo reale36. Tra la
coscienza del complesso fonetico, o del segno scritto, e la coscienza del significato vi è una differenza fenomenologica; nel seguire
con lo sguardo i segni scritti abbiamo di mira qualcosa di completamente diverso: le oggettualità del significato. Sulla parola «grava la
tendenza» a dirigere la nostra attenzione all’oggettualità significata:
«essa distoglie lo sguardo da sé»37. Qual è l’essere dell’idealità? Non
è quello dell’esistenza sensibile, abbiamo visto; il suo essere è legato
33
E. HUSSERL, Ricerche Logiche, vol. I, cit., p. 298.
J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 72.
35 Ivi, p. 73.
36 Cfr. ivi, pp. 75-76: «dei segni non esistenti mostrano dei significati (bedeutungen) ideali, dunque non esistenti, e certi, perché presenti all’intuizione».
37 E. HUSSERL, La teoria del significato, Bompiani, Milano 2008, p. 205
34
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alla possibilità di rappresentazioni che si legano in vista di relazioni
di identità38.
Husserl si trova fin qui ad operare su più livelli. Innanzitutto,
considerando il monologo, egli ha detto che in questo caso non ci
si comunica nulla, non si fa altro che rappresentare se stessi come
persone che parlano e che comunicano. Il che fa pensare alla comunicazione comune come alla circostanza in cui la rappresentazione non interviene in maniera essenziale. Ma Derrida fa notare
che questa separazione tra rappresentazione e realtà non regge perché «un fonema o un grafema è sempre necessariamente altro, in
una certa misura, ogni volta che si presenta in un’operazione o una
percezione, ma può funzionare come segno o linguaggio soltanto
se un’identità formale permette di riprenderlo e di riconoscerlo»39.
La dinamica husserliana dell’espressione presente all’intuizione riceve nelle Idee I una precisa formulazione nei termini di «un vissuto
presentemente vissuto»40; in questo modo l’essere come presenza
viene a coincidere con la forma generale della prossimità ad una
sguardo presente alla presenza di turno. Su questo aspetto Derrida
fa incrociare il vissuto come originaria intenzione di significato e la
genesi di ogni produzione, compresa quella dell’atto significante.
L’idealità ha sempre la forma dell’oggetto preso di mira dall’atto di
ripetizione; a sua volta la ripetizione, come decorso temporale, ha
sempre un inizio, un «ora» da cui partire. Se la struttura del segno è
originariamente ripetitiva, allora, nota Derrida, «la presenza del presente deriva dalla ripetizione e non il contrario»41: la presentazione,
38 Ivi, p. 261: «in ogni giudizio non è presente nient’altro che una certa
rappresentazione in esso manifestantesi, e nel migliore dei casi, una seconda
rappresentazione di contenuto diverso che si lega a essa nella sintesi di identità». Su questo aspetto ha insistito anche J.F. LYOTARD: Economia libidinale,
Pgreco, Milano 2012, p. 60: «l’Io si costituisce in questa relazione di segno
allo stesso tempo come destinatario e come decifratore e inventore di codici.
Qui la ricettività non è che il momento costitutivo indispensabile
dell’autoattività».
39 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 83.
40 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica I,
cit., p. 243.
41 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 85.
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la rappresentazione (sia quest’ultima quella del semiologo, quella
dello psicologo etc.), non hanno il privilegio dell’unità, come vorrebbe Husserl. Su questa base Derrida opera l’assimilazione tra la
necessità del segno e la necessità della ritenzione; perché proprio la
ritenzione? Perché Husserl è costretto ad un’estensione della sfera
dell’originarietà per salvaguardare la continuità del flusso temporale. Derrida fa notare che nel § 35 delle Lezioni sul tempo42 Husserl
sostiene che non bisogna rappresentarsi il flusso come se ogni sua
fase si estendesse in identità con se stessa. E, nonostante ciò, continua il filosofo francese, nel § 78 del primo libro di Idee si parla di
validità assoluta della percezione e della ritenzione: «in tutte queste
direzioni, la presenza del presente è pensata a partire dalla piega del
ritorno, dal movimento della ripetizione, e non il contrario»43. Questo comporta conseguenze non in linea con le distinzioni husserliane; il primato fenomenologico del discorso interiore si basava
sull’inutilità del segno nel rapporto a sé, visto che nel monologo ci
sono rappresentazioni fantastiche e non comunicazioni effettive.
Ma il costitutivo intreccio presenza/non presenza visto all’opera
rende vano ogni tentativo di fare a meno dell’indice, perché la
semplicità del presente è inattingibile visto il ruolo della ripetizione;
e però è esattamente quello che Husserl si sforza di circoscrivere. Il
primato della voce interiore si spiega esattamente in questo contesto. La voce, dice Derrida, è l’unico medium capace di preservare la
presenza dell’oggetto ideale, in virtù del fatto che parlare implica
ascoltarsi; non è certo il fatto di costituire un’auto-affezione a rendere peculiare questo fenomeno. La peculiarità della voce rispetto
ad altre auto-affezioni descritte da Husserl le due mani che si
toccano è che essa è pura: «le mie parole sono vive perché sembrano non lasciarmi: non cadere fuori di me, fuori dal mio respiro»44; in altre parole, qui non c’è esteriorità, mondo, come invece
accade nel caso delle mani. L’espressione è «improduttiva» e «riflettente» proprio perché, secondo Husserl, qui non c’è scarto tra si42
E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano 1981.
43 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 104.
44 Ivi, p. 114.
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gnificante e significato. Abbiamo detto, però, che l’idealità non è
fuori dal tempo; il suo essere è legato alla ripetizione senza limiti e
poiché il movimento della temporalizzazione ha sempre una sorgente e quest’ultima è “genesi originaria”, noi possiamo parlare, secondo Husserl, solo nella temporalità costituita e non costituente.
Il problema, nota Derrida, è che «si è sempre già deviato nella metafora ontica […]. Il presente vivente sgorga a partire dalla sua non
identità a sé e dalla possibilità della traccia ritenzionale. […]. Il sé
del presente vivente è originariamente una traccia»45.
45
Ivi, pp. 123-124.
150