archeologia virtuale: la metodologia prima del software
Comitato Scientifico: Simone Gianolio, Sofia Pescarin, Davide Borra,
Andrea D’Andrea, Fabio Remondino
Redazione: Simone Gianolio
Realizzazione grafica della sovracoperta: Alfredo Corrao
L’edizione cartacea del volume è pubblicata da:
© 2012 – Espera s.r.l.
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1° edizione
ISBN 9788890644313
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ARCHEOLOGIA VIRTUALE
LA METODOLOGIA PRIMA DEL SOFTWARE
Atti del II Seminario
Palazzo Massimo alle Terme
(Roma, 5-6 aprile 2011)
a cura di
SIMONE GIANOLIO
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MODELLAZIONE TRIDIMENSIONALE E
MODELLI DIGITALI 3D IN ARCHEOLOGIA
La conoscenza archeologica, sia essa di tipo scientifico o divulgativo, è il frutto di una piena e precisa comprensione del Bene oggetto di
indagine. La ricerca archeologica “tradizionale”, con l’analisi bibliografica, l’analisi iconografica, l’analisi ed il rilievo del manufatto, lo studio
del contesto storico prodotto da dati epigrafici, numismatici, documentali, storico-artistici, lo studio del contesto spaziale prodotto da dati antropici ed ambientali (paleobotanica, paleontologia, ecc.), è la base di partenza imprescindibile, incontestabile ed improrogabile per costruire le
fondamenta solide di un progetto di Archeologia Virtuale.
Lo studio del mondo antico non significa ricostuire la sua realtà talis et qualis, ma formulare una ipotesi la più aderente possibile ad essa,
basandosi su quanto la documentazione archeologica ha finora restituito,
avendo sempre presente che le testimonianze dell’antico sono soltanto una
piccola parte dell’espressione culturale di un popolo, dipendenti dalla geografia1, dal tempo trascorso, o più semplicemente dall’interesse finora
mostrato dagli archeologi per un particolare territorio.
Sotto questo assunto è deludente constatare che le numerose applicazioni digitali legate ai Beni Culturali siano state prodotte fin dal principio da agenti terzi spesso senza alcun contatto con i protagonisti dell’archeologia, ovvero gli archeologi ed i reperti, in un trend che lentamente e
con grandi difficoltà accenna ad essere invertito. “Roma non è stata costruita in un giorno” recita un antico adagio cantato anche dai Morcheeba, eppure il digitale ha fornito l’opportunità che questo potesse accadere, e che questo compito potesse essere portato a termine a prescindere
dall’archeologia, se non nella sua vulgata conosciuta da tutti.
1
Si intende con questo termine sia la posizione fisica di un manufatto (ad esempio è possibile ipotizzare che l’urbanizzazione moderna ad ogni latitudine abbia per sempre sepolto l’antico), sia il contesto territoriale nel quale giace (torbiere, terreni umidi, terreni secchi, sono tipologie di suolo che influenzano fortemente la conservazione di un
reperto, soprattutto se di natura organica).
DALLA CARTA ALLO SCHERMO
Il computer da qualche decennio ha “liberato” i ricercatori dalla
computazione manuale e dalla necessità di dover selezionare il dato da
registrare onde evitare ingestibili raccolte di informazioni; inoltre ha permesso una nuova consapevolezza nella formulazione del dato, costruita
sull’esigenza di riportare in modo fedele, oggettivo e puntuale ogni azione ed ogni processo portato a termine durante uno scavo o durante uno
studio. La disponibilità di supporti di registrazione sempre più efficienti e
ridotti nelle loro dimensioni e l’avanzamento tecnologico nella gestione
delle informazioni su server cloud hanno liberato i ricercatori dalla necessità di selezionare i dati, consentendo loro di annotare e catalogare lo
scibile: però, solo se questa operazione viene condotta con metodo sarà
poi possibile formulare nuove domande per ricevere nuove risposte in
grado di aprire ulteriori canali di conoscenza e comprensione del passato.
Così come ogni processo di conoscenza archeologica non può prescindere dalla ricerca archeologica “tradizionale”, se si vuole anche ampliata attraverso moderne tecnologie di indagine, allo stesso modo ogni
progetto di archeologia virtuale non può prescindere da questa ricerca.
Bisogna combattere il proliferare di applicazioni non scientifiche, invitando gli operatori terzi a lavorare nel campo dei Beni Culturali come expertises in tecnologie digitali, secondo l’accezione moderna del termine, sempre al fianco di expertises in archeologia, nella convinzione che la
cultura merita quel rispetto che non la squalifichi a mero dato economico.
È lo stesso pubblico che, riscoprendo il turismo culturale, chiede una informazione di qualità, ovvero una informazione scientificamente corretta
oltre che visivamente coinvolgente. Ancora, l’utilizzo scorretto e/o incoerente della strumentazione elettronica, lungi dal fornire maggiore
“scientificità” o maggiore “oggettività” ad un progetto di ricerca, rende
più demistificatorio il processo di ricostruzione per mezzo del virtuale, il
quale invece dovrebbe rappresentare la massima espressione nella divulgazione odierna della conoscenza scientifica, altrimenti confinata nelle
Accademie e nelle pubblicazioni specialistiche.
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L’archeologo inoltre non dovrebbe limitarsi ad un uso esclusivamente scientifico del virtuale ma aprirlo fin dalla fase iniziale a progetti
di comunicazione. Per quanto tradurre l’archeologia scritta in archeologia
visuale sia un compito per lo più destinato ai comunicatori ed ai divulgatori che meglio di uno scienziato conoscono il linguaggio adatto per rapportarsi con il pubblico, bisogna essere consapevoli che anche nella formazione dell’archeologo è indispensabile una preparazione che gli consenta di comunicare in modo divulgativo liberandolo dalla necessità di
improvvisare. Di conseguenza, se si vuole progettare una applicazione virtuale, di tipo statico o interattivo, alcune linee guida sono imprescindibili
per rimanere nel campo della scientificità e della ricerca archeologica così come nel campo della qualità del prodotto finale da realizzare.
Altro aspetto da non sottovalutare è infatti la qualità digitale dell’informazione, troppo spesso squalificata da una sua traduzione scadente
in formato virtuale: se l’impegno delle software house è quello di fornire
prodotti commerciali sempre più ad alto impatto visivo, bisogna adeguarsi allo standard della qualità attuale. Quando la comunicazione archeologica è rivolta alle nuove generazioni è necessario ricordare che
quest’ultime sono abituate ad utilizzare PC, console e mobile device in
grado di far “girare” prodotti dall’impressionante riproduzione fotorealistica di una ambientazione (reale o di fantasia non importa, ciò che conta
è l’aspetto di realtà che imprime in chi la guarda), o dall’elevata qualità
artistica dello stile tipo cartoon adottato: se il prodotto digitale legato al
patrimonio non è in linea con questo livello qualitativo, terminato l’impatto emotivo dovuto alla novità e/o all’interattività, si rischia che il visitatore-fruitore si fermi al primo stadio della conoscenza. D’altra parte è
ancora forte l’impressione che un eccessivo fotorealismo porti il visitatorefruitore ad immaginare che quella rappresentazione sia in realtà la riproduzione del mondo antico, un errore quest’ultimo per certi aspetti perfino
più grave. È possibile tuttavia coniugare entrambe le esigenze grazie proprio agli strumenti interattivi che la tecnologia oggi fornisce attraverso
l’uso di layer ad attivazione automatica temporizzata o manuale in grado
di fornire all’utente la qualità necessaria nella ricostruzione proposta ma
al contempo la qualità necessaria nell’informazione scientifica fornita.
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Infine una riflessione: l’esperienza di videogame e mondi virtuali
induce ad inserire nelle nostre ricostruzioni avatar volanti in grado di
viaggiare attraverso muri, telecamere a volo d’uccello et similia, ritenendo in tal modo di aggiungere qualità interattiva nelle nostre applicazioni.
In questo modo tuttavia si riproduce un’esperienza irreale per un uomo
“del passato”, e fornire una visione attualizzata del suo pensiero significa
alterare l’urbanistica di una città antica nei vari contesti culturali in cui si
è sviluppata la riflessione legata all’organizzazione dello spazio.
Entrando nel tema del contributo un ideale workflow per l’impostazione di un progetto virtuale teso alla ricostruzione archeologica si può
enunciare come segue, senza la pretesa che questo flusso di lavoro sia adattabile ad ogni contesto archeologico, cosa evidentemente impossibile.
Conoscenza del contesto: sono stati sopra menzionati i principali
campi di studio della ricerca archeologica, che vanno dall’epigrafia alla
numismatica, dalla ceramica ai reperti organici, dal microterritorio al macroterritorio con la sua fauna e la sua flora, le vie di comunicazione, l’orografia, i corsi d’acqua, le risorse naturali, l’iconografia e l’arte, ecc., a
partire dalle ricerche geofisiche ove possibili e praticabili. Studiare l’antico è come prevedere il tempo: come non si può conoscere l’andamento
metereologico su Roma senza studiare le celle atmosferiche che ricoprono centinaia di chilometri quadrati intorno alla capitale, così non si
può conoscere nella sua completezza un contesto antico se non viene messo in relazione con il suo mondo circostante, fatto di scambi culturali, commerciali, religiosi, ecc. che ne influenzavano la visione del mondo.
Organizzazione dei dati: la mole di dati generata dalla ricerca archeologica, immensa per ogni contesto antico (enciclopedica per l’insieme di tutti i contesti antichi), non può non avvalersi oggi di tecnologie di
gestione adeguate. I database, prodotti con qualsivoglia tecnologia, consentono di organizzare e studiare i dati sotto ottiche differenziate, ma soltanto se opportunamente organizzati: bisogna aver chiaro fin dall’inizio a
quali domande (query) si vuole che i database rispondano, “mappando”
tutti i campi con specifici metadati. Un errore comune infatti può essere
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quello di creare tabelle che nel nostro intento vanno compilate con determinati criteri, però se nel metterle a disposizione di terzi (come dovuto)
mancano di specifiche indicazioni, potrebbero essere compilate con un
differente sistema, soprattutto se queste tabelle sono nominate in maniera
“esotica”. Le norme dell’ICCD, almeno in Italia, sono la base di partenza
fondamentale per la redazione di schede tecniche, utilizzando anche i vocabolari tematici standardizzati messi a disposizione.
Divulgazione del dato scientifico: i dati scientifici che l’archeologo produce non dovrebbero rimanere appannaggio, come proprietà esclusiva, del suo studio, ma essere con il tempo condivisi con la comunità.
Oggi questa operazione può essere fatta a partire dai dati grezzi (e non
soltanto dai dati elaborati e pubblicati): l’importanza di condividere i dati
grezzi è stratosferica nella convinzione che noi archeologi necessitiamo
che colleghi qualificati verifichino le nostre intuizioni, processo possibile
solo se tali colleghi hanno accesso alle informazioni di base, certamente
più oggettive di quelle filtrate nel nostro studio. Piattaforme Web con
MySQL, PHP ed AJAX consentono la creazione e la diffusione controllata di database scientifici in tutto il mondo e a costi irrisori. In futuro il
progetto SIGEC Web dell’ICCD, di prossima attivazione, diventerà il collettore nazionale per la tutela e l’amministrazione del nostro patrimonio
culturale, e cominciare a progettare con specifici formati XML dovrebbe
essere un imperativo per tutti (immaginate un Bene che viene immediatamente inserito nel database dove accedono le Soprintendenze, il Nucleo Tutela del Patrimonio dei Carabinieri, la Guardia di Finanza e tutte
le istituzioni deputate a conoscere quel Bene, e lo stesso Bene che viene
inserito in quella base dati a distanza di anni, perché i compilatori del
Ministero non sono robot). Ogni database può diventare la colonna portante di un sistema GIS, che necessita per ogni voce di campi di geolocalizzazione da prevedere già in fase di progettazione, indipendentemente
se saremmo noi in futuro a realizzare quel GIS (potrebbero farlo altri studiosi interessati a particolari contesti che non rivestono il nostro campo
d’indagine: pensare sempre dunque al futuro).
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Il rilievo in archeologia: l’operazione di rilievo in archeologia non
dovrebbe essere propedeutica all’analisi ma susseguente alla stessa, come
ricorda un maestro del calibro di F. Giuliani. Se l’obiettivo è un asettico
rilievo strumentale indiretto, registrando in maniera oggettiva l’esistente
attraverso laser scanner, fotogrammetria, stazione totale, GNSS RTK, strumenti che devono preventivamente essere calibrati e posizionati prima di
ogni sessione di lavoro, si può parlare di semplice acquisizione di una
mole di dati grezzi da trattare; in caso contrario, poiché il rilievo manuale diretto è già una forma di interpretazione, come scritto non si può
interpretare qualcosa senza averla prima studiata e compresa. Il rilievo
strumentale va inoltre pianificato in quelli che sono i limiti tecnici degli
strumenti, da conoscere in modo completo per non procedere in lavori errati2. Nell’ottica di un progetto di ricerca archeologica la fase di acquisizione digitale non elimina assolutamente la fase di rilievo manuale, che
andrebbe nei limiti del possibile e del praticabile sempre prevista.
Comunque si intenda procedere, il modus operandi va pianificato a
monte ed ogni ricerca deve preventivamente stabilire il proprio standard
e scegliere i propri mezzi di rilievo, così da generare un dataset unico per
l’intero progetto uniformando l’errore insito in ogni sistema di misura.
Altrimenti al termine del lavoro verrebbero messe insieme situazioni che
non possono stare insieme, unificando in modo non strutturato dati generati con strumentazione dalla differente risoluzione. Inoltre se il nostro fine è generare cartografia 1:50.000, è un errore pensare che il rilievo 1:10
del basolato stradale abbia un senso. È auspicabile che ogni singolo passo
della ricerca archeologica si attenga ai massimi criteri della conoscenza,
ma è necessario calcolare tempi e fondi economici a disposizione. Altra
scelta iniziale è il sistema di capisaldi su cui realizzare le sessioni di ripresa, non solo per facilitare il lavoro di collazione dei dati dentro un sistema omogeneo ma anche per comprendere come studiare il Bene (sia
esso territorio o manufatto) evitando una inutile perdita di tempo. Il proprio standard andrebbe poi sempre dichiarato, magari attraverso una delle
2
Cfr. alcuni dei più diffusi problemi riscontrati sul campo in BENEDETTI-GAIANIREMONDINO 2010 e bibliografia ivi segnalata.
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tante piattaforme wiki open source a disposizione, all’interno delle quali
inserire i dati tecnici delle attrezzature, le metodologie di rilievo utilizzate, ecc., così da rendere trasparente il nostro lavoro e consentire un miglior interscambio dei dati grezzi generati.
Sistemi geografici: propedeutico alla comprensione del territorio
per una sua fedele ricostruzione è la creazione di un GIS, che eleva il
semplice database alla potenza della creazione di cartografie tematiche
con query in grado di restituire il dato geolocalizzato oltre che informazioni alfanumeriche. Oggi è possibile gestire in modo unificato dati raster
per lo studio del suolo con dati vettoriali facilmente interrogabili3. Come
sopra, il progredire della tecnologia semplifica la creazione di piattaforme GIS per il web, opportunità questa da cogliere sempre, nei limiti del
possibile.
LA RICOSTRUZIONE 3D IN ARCHEOLOGIA
Terminata la fase di studio e di strutturazione dei dati, operazione
che può richiedere un tempo che non va lesinato per la qualità finale della
ricerca, si può passare alla traduzione digitale. La realtà virtuale apre vastissime opportunità per la ricerca, per la rappresentazione, per la didattica, per la valorizzazione, per la divulgazione, per la salvaguardia, per la
fruizione del Bene Culturale, ovvero per il “sistema della tutela”. Queste
differenti possibilità implicano finalità diverse, quindi strumenti diversi
ed output diversi: vi sono tuttavia dei dati di base indispensabili, come le
planimetrie e le sezioni, i prospetti ed i particolari, le fotografie scientifiche ed i confronti, che devono essere assolutamente realizzati.
Il modello 3D: anche in questa fase, prima di procedere alla modellazione vera e propria è importante determinare l’output finale. Generare
modelli per immagini statiche, per animazioni o per la realtà virtuale im3
Cfr. MEDRI 2003, p. 208, fig. 3.22.
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plica differenti modalità di approccio che possono cambiare radicalmente la struttura di un progetto. Nel caso di immagini statiche è necessario
modellare soltanto ciò che sarà visibile dalla visuale delle telecamere le
cui posizioni vanno scelte preventivamente, renderizzando per canali da
montare in postproduzione; nel caso delle animazioni è necessario modellare soltanto ciò che sarà visibile dalla visuale della telecamera lungo
il suo percorso, che andrà scelto preventivamente, renderizzando in formato statico tipo PNG: la sequenza generata andrà montata in postproduzione; nel caso di realtà virtuale4 interattiva va invece modellata l’intera
scena secondo il criterio dei Levels of Detail da gestire tramite dei game
engine. Nel caso delle immagini statiche è poi possibile scegliere tra rendering biased, con simulazione approssimata della luce (ideale per sequenze video), e rendering unbiased con simulazione fisicamente corretta della luce (ideale per immagini ad alto impatto visivo): questa seconda
scelta implica tuttavia una grande padronanza nella creazione di texture,
shader, materiali e nella modellazione dei particolari, per non indurre il
software a simulare in modo fisico cose che nella fisica reale non esistono. La creazione di texture fotografiche prevede l’utilizzo corretto e
scientifico della fotografia e dell’elaborazione dell’immagine, avendo sempre ben presente che la texture deve avere assolutamente una dimensione
maggiore dell’output finale del rendering, onde evitare sgradevoli artefatti e sgranature.
Il workflow nel 3D: il flusso di lavoro di questa fase viene ripreso
dall’esperienza operativa maturata nella Computer Grafica, il campo di
applicazione che più di altri fa uso del 3D ed al quale è dunque necessario fare riferimento per non “arrangiarsi” applicandosi nella CGI. I passi sono semplici ma utili per avere un solido background di lavoro alle
spalle: in CAD si determinano misure e ingombri dei volumi, eventualmente gli alzati, evitando i dettagli; nel software 3D si importa il CAD e
si aggiungono dettagli, materiali, luci e camere per il rendering: nell’am4
Si usa qui il termine nel senso semplicistico di “ambiente digitale navigabile sia interattivamente sia attraverso la fruizione video”. Per la definizione scientifica del termine si rimanda alla bibliografia specialistica.
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biente 3D si aggiungeranno anche tutti quegli elementi utili ad una migliore ricostruzione del contesto, come la vegetazione e gli ecosistemi, le
simulazioni fluidodinamiche, la cinematica dei personaggi ed il controllo
delle masse, ecc.
Si passa poi alla generazione dell’output: inizialmente si stabilisce
il tonemap della scena, ovvero l’esposizione con l’illuminazione diretta,
la global illumination con l’illuminazione indiretta e l’ambient occlusion,
operazioni da eseguire attraverso l’uso generalizzato del c.d. “materiale
neutro”. Solo in seguito si potrà procedere alla mappatura con texture,
materiali e shader; l’output sarà poi facilmente gestibile per mezzo di appositi programmi di image editing. Nel caso di sequenze video si passa a
lavorare sulle bitmap con l’aggiunta di effetti speciali, infine il montaggio per la generazione del filmato. Qualora invece l’obiettivo è il rendering statico, si può procedere ad una elaborazione artistica dell’immagine finale secondo modelli tipici di varie arti: dallo stile antiquario modello École des Beaux Arts di Parigi, a quello vignettistico tipico dei fumetti, allo stile realistico tipico della fotografia, oppure secondo un proprio
stile personale. Nel primo e nel secondo caso il risultato si può raggiungere con relativa facilità attraverso l’applicazione di appositi filtri sulle
immagini ed un ritocco manuale per mezzo delle tavolette grafiche; nel
secondo caso è necessaria una certa perizia nell’uso dei materiali, delle
texture, delle luci e nella modellazione.
Rimando alla presentazione proposta durante il Seminario per la
slide riassuntiva legata al “Vademecum del renderman”.
UN WORKFLOW IDEALE PER L’ARCHEOLOGIA DIGITALE
Giunti al termine del progetto, ritengo sia utile proporre un elenco
puntato di questo lungo processo.
· Approfondita analisi bibliografica e documentale del contesto
· Raccolta e analisi del materiale cartografico
· Ricerca e analisi del materiale iconografico
· Digitalizzazione e vettorializzazione del materiale cartaceo
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· Compilazione di un database informatico e gestione di un sistema
GIS per l’indagine georeferenziata sui dati (consigliato)
· Impostazione in ambiente CAD della pianta ed eventualmente delle
volumetrie e degli ingombri, attraverso l’uso sapiente e ragionato
dei layer
· Importazione in ambiente 3D degli elementi generati in CAD, con
predefinito livello di approssimazione per ogni oggetto (ad esempio
le sfere per apparire tali richiedono più poligoni di un cubo)
· Decisione sulla tipologia di modello 3D da realizzare: posizionamento delle viste e dei percorsi delle camere, scelta della tipologia
di rendering, scelta dello stile artistico per la postproduzione
· Impostazione in ambiente 3D dell’output finale della scena (immagini statiche, animazione, realtà virtuale) e modellazione dei dettagli; generazione dei rendering
· Creazione delle tavole finali di presentazione, del video (che può
alternare sequenze animate ed immagini statiche), dell’applicazione
per la gestione interattiva dell’ambiente virtuale
Questo connubio tra processi di ricerca archeologica “tradizionali”
e flussi di lavoro tipici dell’informatica e della Computer Grafica, come
già detto, non va considerato come il migliore in assoluto o come l’unico
possibile, ma come un flusso metodologicamente corretto, ed una solida
metodologia è la base di ogni processo di ricerca scientifica.
Da questo percorso teorico-pratico emerge che l’archeologo è in
grado di andare oltre la definizione di archeoinformatico5 data da Vannini un decennio fa: sostantivo che rischia di apparire oltremodo tecnicistico e forse fuorviante. Acquisire competenze informatiche non rende l’archeologo necessariamente –informatico: si può rimanere ontologicamente archeologi anche conoscendo i processi tipici dell’informatica. Un archeologo potrà diventare autosufficiente nel gestire il processo di traduzione digitale delle informazioni archeologiche: questo non implica una
5
VANNINI G.: “Informatica per l'archeologia o archeologia per l'informatica?”, in Archeologia e Calcolatori 11 (2000), pp. 311-315.
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contrarietà al concetto di “multi-disciplinarietà” (termine eccessivamente
abusato ed ideologizzato nella sua accezione “politica”), ma esprime la
convinzione che la figura dell’archeologo “tradizionale” rappresenta oggi
una figura professionale incompleta, mentre l’archeologo con competenze informatiche, lungi dal dover essere considerato un tecnico, rimane lo
specialista del suo campo in grado di facilitare il lavoro all’expertise informatico che lo affianca, riducendo durata e costi della ricerca, temi particolarmente caldi nel nostro tempo.
SIMONE GIANOLIO
Università di Roma “La Sapienza”
ABSTRACT
Lo studio e la comunicazione in digitale del bene culturale è una operazione che
non può prescindere da una solida ricerca archeologica di base di tipo tradizionale. Il
flusso di lavoro che unisce questa ricerca con i workflow tipici della computer grafica è
importante per determinare una metodologia scientifica di indagine: ogni singolo passaggio richiede cura e pianificazione, ogni dato va raccolto ed analizzato con perizia,
tradotto in linguaggio digitale con puntualità e precisione. L’archeologo deve riappropriarsi del suo ruolo fondamentale di “studioso/curatore dell’antico” senza lasciare che
l’informazione di qualità sia quella prodotta al di fuori della ricerca archeologica. Per
fare questo, la conoscenza di tutti i processi con i loro pro e contro è di vitale importanza, senza necessariamente voler trasformare la preparazione archeologica in una preparazione tecnico-informatica.
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Più che singoli manuali tra i quali sono stati segnalati quelli che si ritengono fondamentali da conoscere, per rimanere aggiornati su metodologie, tecniche e tecnologie è importante seguire convegni e workshop internazionali: tra i principali
appuntamenti si segnalano il CAA, il VAST-VSMM, il CIPA, il DMARCH, il
CHNT, il VIA, 3D-Arch, ArcheoVirtual, ArcheoFOSS, oltre alla lettura di riviste
italiane come Archeologia e Calcolatori e ArcheoMedia.
In relazione ai principali software in uso nelle applicazioni di computer grafica, si
rimanda alla folta manualistica esistente in lingua inglese ed italiana.
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