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Appunti - Filosofia pubblica - Massa e potere, primi capitoli
Filosofia pubblica (Università degli Studi di Milano)
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Elias Canetti
MASSA E POTERE
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INDICE.
LA MASSA.
Capovolgimento del timore d'essere toccati.
Massa aperta e chiusa.
La scarica.
Impulso di distruzione.
Lo scoppio
Senso di persecuzione
Domesticazione delle masse nelle religioni mondiali
Panico
La massa come cerchio
Le qualità della massa
Ritmo
Staticità
Lentezza o lontananza della meta
Le masse invisibili
Suddivisione secondo la dominante affettiva
Masse aizzate
Masse in fuga
Masse del divieto
Masse di rovesciamento
Masse festive
La massa doppia: uomini e donne. I vivi e i morti.
La doppia massa: la guerra.
Cristalli di massa.
Simboli di massa.
LA MASSA
Capovolgimento del timore d'essere toccati. Nulla l'uomo teme di più che essere toccato dall'ignoto.
Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo.
Dovunque, l'uomo evita d'essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il
timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti
garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda,
liscia, indifesa dell'aggredito. Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate
dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente
relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di
rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende
per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel
timore. Molto di questo concetto è entrato nel duplice significato della parola "angreifen"
(protendersi per prendere, per toccare). Vi si trovano insieme sia il contatto innocuo sia
l'aggressione pericolosa, e qualcosa di quest'ultima è sempre presente anche nel primo. Nel
sostantivo "Angriff" (aggressione) è però rimasto soltanto il significato negativo. La ripugnanza
d'essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo
per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là
dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto
ci è possibile di toccarli. Se facciamo l'opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno;
nostra è quindi l'iniziativa di avvicinarci a lui. La prontezza con cui gli altri si scusano se ci toccano
involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a
volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l'odio che proviamo per il «malfattore» - anche se
non possiamo essere affatto certi che sia stato lui - tutto questo groviglio di reazioni psichiche
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intorno all'essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci
conferma che si tratta qui di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di
qualcosa che non lascia più l'uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona.
Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo
facilmente da un timore di questo tipo. Solo nella "massa" l'uomo può essere liberato dal timore
d'essere toccato. Essa è l'unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. E"
necessaria per questo la massa "densa", in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche
nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi «ci sta addosso». Dal momento in
cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d'esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali.
Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi.
Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D'improvviso, poi, sembra che tutto accada "all'interno di
un unico corpo". Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa
vuole liberarsi il più compiutamente possibile dal timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli
uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l'uno
dell'altro. Questo capovolgimento del timore d'essere toccati è peculiare della massa. Il sollievo che
si estende in essa - e di cui si parlerà in un altro contesto assume proporzioni vistose nelle masse
estremamente dense.
Massa aperta e chiusa.
Fenomeno enigmatico quanto universale è la massa che d'improvviso c'è là dove prima non c'era
nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si
preannunciava, nulla era atteso. D'improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono
altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos'è accaduto, non sanno
rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. Nel
loro movimento c'è una determinazione che ben si distingue da un'espressione di semplice curiosità.
Si direbbe che il movimento degli uni si comunichi agli altri, ma non si tratta solo di questo: tutti
hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il nero è più nero
- il luogo dove la maggioranza si è radunata. Ci saranno parecchie cose da dire sulla forma estrema
della massa spontanea. Ove nasce, nel suo nucleo essenziale, essa non è così genuinamente
spontanea come appare; ma per tutto il resto, se si prescinde dalle cinque o dieci o dodici persone da
cui ha avuto origine, è spontanea davvero. Da quando esiste, vuol essere "di più". La spinta a
crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia
raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è
massa aperta: non c'è limite alla sua crescita. Essa non riconosce case, né porte, né serrature;
chiunque si chiuda dinanzi a lei le appare sospetto. «Aperto» dev'essere inteso qui in tutti i sensi: la
massa è aperta dovunque e in ogni direzione.
La massa aperta esiste fin tanto che cresce. La disgregazione subentra non appena essa cessa di
crescere. Poiché, infatti, d'improvviso com'è sorta, la massa si disgrega. In questa forma spontanea
essa è una struttura vulnerabile. La sua apertura, che le permette di crescere, allo stesso tempo la
mette in pericolo. Un presentimento della disgregazione che la minaccia è sempre vivo in lei, ed
essa cerca di smentirlo con un rapido incremento. Finché può, la massa accoglie in sé ogni cosa; ma
proprio perché accoglie ogni cosa, essa si disgrega. In contrasto con la massa aperta, che può
crescere all'infinito, si trova dovunque, e perciò appunto pretende interesse universale, si pone la
massa chiusa.
La massa chiusa rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca
innanzitutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell'atto in cui si confina, crea la propria sede; lo
spazio che riempirà le è stato assegnato, e può paragonarsi a un vaso in cui si versa del liquido e di
cui si conosce la capienza. Gli accessi a tale spazio sono contati; non vi si può penetrare in un modo
qualunque. Il confine viene rispettato: può essere di pietra, di solida muraglia. Forse è necessaria
una cerimonia particolare per essere accolti; forse bisogna versare una certa tassa d'ingresso.
Quando lo spazio è stato sufficientemente riempito, non può più entrare nessuno. Anche quando
esso trabocca, la massa densa nello spazio chiuso rimane la cosa essenziale, e quelli rimasti fuori
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non ne fanno parte veramente. Il confine impedisce un incremento sregolato, ma in compenso
ostacola e ritarda il deflusso. La massa guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita.
Essa è difesa da influenze esterne che potrebbero esserle ostili e pericolose. In particolare però essa
conta sulla "ripetizione". E" sempre nella prospettiva di ricostituirsi che la massa accetta,
illudendosi, la propria "dispersione". L'edificio la aspetta, è lì per lei, e fintanto che esiste i
componenti della massa vi si raduneranno come sempre. Lo spazio appartiene loro anche quando
subisce il riflusso, e nel suo vuoto ricorda il tempo dell'alta marea.
La scarica.
Il principale avvenimento all'interno della massa è la "scarica". Prima, non si può dire che la massa
davvero esista: essa si costituisce mediante la scarica. All'istante della scarica i componenti della
massa si liberano delle loro differenze e si sentono "uguali".
In particolare, dobbiamo intendere le differenze imposte dal di fuori: differenze di rango, di
condizione, di proprietà. Gli uomini, in quanto singoli, sono sempre coscienti di queste differenze,
che pesano su di loro e li spingono con forza a staccarsi gli uni dagli altri. Ciascun uomo ha un suo
posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener
lontano da sé tutto ciò che gli si avvicina. Egli sta come un mulino a vento in un'immensa pianura,
pieno d'espressione e mobile: non c'è nulla fino al prossimo mulino. La vita intera, come egli la
conosce, è impostata su distanze; la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietà, l'incarico
che riveste, il rango cui aspira tutti servono a creare, consolidare, ingrandire "distacchi". La libertà
di ogni movimento più profondo dall'uno all'altro uomo è impedita a priori. Impulsi e controimpulsi
inaridiscono come in un deserto. Nessuno può avvicinarsi o mettersi all'altezza dell'altro. Gerarchie
solidamente stabilite in ogni ambito dell'esistenza non permettono a nessuno, se non in apparenza,
di toccare chi sta più in alto, di calare verso chi sta più in basso. Entro società diverse, queste
distanze sono reciprocamente bilanciate in modo diverso. In alcune l'accento sta sulle differenze
d'origine, in altre sulle differenze di occupazione o di proprietà.
Non è il caso di distinguere singolarmente tali gerarchie. E" essenziale notare che esse si trovano
dappertutto, che si annidano ovunque nella coscienza degli uomini e determinano il loro
comportamento verso gli altri. La soddisfazione di trovarsi più in alto degli altri nella gerarchia non
indennizza della perdita di libertà di movimento. Nelle proprie distanze l'uomo si irrigidisce e si
oscura. Egli si trascina sotto il peso di questi carichi e non riesce a spostarsi. Ha dimenticato
d'esserseli imposti da solo, e vagheggia d'esserne liberato. Ma come potrebbe liberarsene da solo?
Qualsiasi cosa facesse e per quanto grande fosse la sua determinazione si troverebbe fra altri uomini
che preverrebbero i suoi sforzi. Fino a quando essi tengono alle loro distanze, egli non può
avvicinarli. Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. E" precisamente ciò
che avviene nella massa. Nella "scarica" si gettano le divisioni e tutti si sentono "uguali". In quella
densità, in cui i corpi si accalcano e fra essi quasi non c'è spazio, ciascuno è vicino all'altro come a
se stesso. Enorme è il "sollievo" che ne deriva. E" in virtù di questo istante di felicità, in cui
nessuno è "di più", nessuno è meglio d'un altro, che gli uomini diventano massa.
Ma l'istante della scarica, tanto agognato e tanto felice, porta in sé un particolare pericolo. E" viziato
da un'illusione di fondo: gli uomini che d'improvviso si sentono uguali, non sono divenuti
veramente e per sempre uguali. Essi tornano nelle loro case separate, vanno a dormire nei loro letti.
Essi conservano la loro proprietà e non abbandonano il loro nome. Non cacciano di casa i loro
parenti. Non fuggono dalle loro famiglie. Soltanto con autentiche conversioni gli uomini rinunciano
ai loro vecchi vincoli e ne formano di nuovi. Definirei cristalli di massa "tali" associazioni che per
natura possono accogliere soltanto un numero limitato di membri e devono garantire la propria
durata con regole ferree. Della loro funzione parleremo esaurientemente più oltre.
La massa in quanto tale, però, si disgrega. Essa presente la propria disgregazione e la teme. La
massa può sopravvivere soltanto se il processo di scarica continua su nuovi uomini che le si
aggiungono. Solo l'incremento della massa impedisce ai suoi membri di tornare a strisciare sotto il
peso dei loro carichi privati.
Impulso di distruzione.
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Spesso si parla dell'impulso di distruzione della massa: è la sua caratteristica più vistosa, quella che,
innegabilmente, si ritrova ovunque, nei paesi e nelle civiltà più diverse. Esso è, sì, individuato e
biasimato, ma non è mai chiaramente definito.
Case e oggetti sono ciò che la massa distrugge più volentieri. Poiché si tratta spesso di cose fragili,
come lastre di vetro, specchi, vasi, quadri, vasellame, si è tentati di credere che proprio la fragilità
degli oggetti stimoli la massa a distruggerli. Certamente il rumore della distruzione, il frangersi del
vasellame, il fracasso dei vetri, contribuiscono considerevolmente ad aumentare il piacere. Sono i
forti suoni di vita di una creatura nuova, le grida di un neonato. La facilità con cui si suscitano li
rende ancora più graditi; tutti si uniscono nel grido, e il fracasso è l'applauso delle cose. Un
particolare bisogno di questo tipo di rumore sembra manifestarsi all'inizio degli avvenimenti,
quando la massa non consiste ancora di molte persone e poco o nulla è accaduto. Il rumore promette
il rinforzo in cui si spera, ed è un presagio felice per ciò che verrà. Sarebbe però errato credere che
l'elemento decisivo sia la facilità di rompere. Si sono aggredite delle statue di dura pietra e non ci si
è dati pace finché non sono state sfigurate, rese irriconoscibili. Da cristiani sono state distrutte teste
e braccia di divinità greche. Da riformatori e da rivoluzionari sono state abbattute le immagini dei
santi, a volte da luoghi altissimi, a rischio della propria vita; e spesso la pietra che si cercava di
spezzare era talmente dura da costringere a lasciar l'opera a metà. La distruzione di immagini che
raffigurino qualcosa è distruzione di una gerarchia che non si riconosce più. Si violano distanze
stabilite in generale, che sono evidenti a tutti e valgono ovunque. La loro rigidità era l'espressione
della loro permanenza; si crede che esistano da tempo, ritte e inamovibili; ed era impossibile
avvicinarle con intenzione ostile. Ora sono travolte e giacciono in rovina. In quest'atto si è compiuta
la "scarica". Ma non sempre essa va così lontano. La distruzione consueta, di cui si è parlato
all'inizio, non è altro che un attacco a tutti i "confini". Vetri e porte appartengono alle case: sono la
parte più vulnerabile dei loro confini verso l'esterno. Quando porte e vetri sono frantumati la casa ha
perso la sua individualità.
Ognuno ormai può penetrarvi a piacere, e nulla e nessuno vi sono al sicuro. Si ritiene, però, che di
solito in quelle case si rintanino gli uomini che cercano di escludersi dalla massa: i suoi nemici. Ma
ora è distrutto ciò che li divide. Nulla si frappone più tra essi e la massa. Possono uscir fuori e unirsi
a lei. Si possono andare a prendere. Ma c'è dell'altro. Lo stesso uomo singolo ha la sensazione di
oltrepassare nella massa i confini della propria persona. Egli prova sollievo, poiché sono abolite
tutte le distanze che lo rigettavano e lo chiudevano in sé. Tolto il peso della distanza, egli si sente
libero e la sua libertà è passar oltre questi confini. Ciò che gli accade dovrà accadere anche agli altri
e lui se lo aspetta. E" stimolato dal fatto che un vaso di coccio sia soltanto confine, limite. Di una
casa lo stimolano le porte chiuse. Si sente minacciato da riti e cerimonie; tutto ciò che mantiene le
distanze gli appare minaccioso e insopportabile. Ovunque si cercherà di riportare la massa che si è
frantumata in quei recipienti prefabbricati. Essa odia le sue prigioni future, le ha sempre viste come
prigioni. Alla massa nuda tutto appare come la Bastiglia. Il mezzo di distruzione più impressionante
di tutti è il fuoco. Lo si vede da lontano e attira altra gente. Distrugge in maniera irrevocabile. Nulla
dopo il fuoco rimane com'era prima. La massa che appicca il fuoco si considera irresistibile. Tutti si
uniranno a lei mentre il fuoco divampa. Esso annienterà tutto ciò che le è ostile. Come si vedrà più
oltre, è il simbolo più efficace della massa. Dopo ogni distruzione, massa e fuoco devono
estinguersi.
Lo scoppio.
La massa vera e propria è la massa "aperta", che si abbandona liberamente al suo impulso naturale
di crescita. Una massa aperta non ha la chiara sensazione né l'immagine di quanto possa diventare
grande. Non prende a modello alcun edificio che conosca e che dovrebbe riempire. La sua misura
non è stabilita; vuole crescere all'infinito, e perciò le sono indispensabili sempre più uomini. In
questo stato nudo la massa è più che mai appariscente. Tuttavia essa conserva qualcosa di insolito e,
dal momento che sempre si disgrega, non è considerata del tutto salda. Forse la massa non sarebbe
ancora considerata con la serietà che le è dovuta, se l'enorme incremento della popolazione che si
riscontra ovunque e il rapido ingrandirsi delle città, tipici della nostra epoca, non avessero fornito
alla sua formazione occasioni sempre più frequenti.
Le masse chiuse del passato, di cui si parlerà più oltre, erano tutte diventate istituzioni con cui si
aveva dimestichezza. Lo stato particolare nel quale si trovavano spesso i loro partecipanti sembrava
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cosa naturale; sempre ci si radunava in vista di uno scopo preciso, religioso, o festivo o guerresco, e
lo scopo pareva consacrare lo stato. Chi assisteva a una predica credeva in buona fede d'essere
interessato alla predica, e si sarebbe stupito e forse anche indignato se qualcuno gli avesse spiegato
che la sua soddisfazione proveniva più dal gran numero dei presenti che non dalla predica stessa.
Tutte le cerimonie e tutte le regole di tali istituzioni tendono in fondo a "catturare" la massa: meglio
una chiesa sicura, piena di fedeli, che l'intero mondo infido. Nel frequentare regolarmente la chiesa,
nel ripetersi familiare e preciso di certi riti, si assicura alla massa una sorta di esperienza
addomesticata di se stessa. Il susseguirsi di queste funzioni in tempi prescritti serve a compensare
bisogni più duri e violenti. Forse tali istituzioni sarebbero bastate se il numero degli uomini fosse
rimasto all'incirca lo stesso. Ma sempre più uomini percorrevano le città e sempre più in fretta è
cresciuta la popolazione negli ultimi secoli. Così si manifestarono anche tutti gli impulsi alla
formazione di nuove e più grandi masse, e nemmeno la direzione più esperta e raffinata sarebbe
stata in grado di bloccarli in tali circostanze.
Tutte le ribellioni contro il cerimoniale ricevuto in eredità, di cui narra la storia delle religioni, sono
rivolte contro la limitazione della massa che finalmente vuole sentirsi crescere una volta di più. Si
pensi al Discorso della Montagna nel Nuovo Testamento: esso ha luogo all'aperto, migliaia possono
ascoltarlo, ed esso è rivolto - non può esservi dubbio contro il limitativo affaccendarsi cerimoniale
del Tempio ufficiale. Si pensi alla tendenza del cristianesimo paolino di evadere dai limiti nazionali
e tribali dell'ebraismo e di diventare una fede universale per tutti gli uomini. Si pensi al disprezzo
del buddhismo per l'organizzazione di casta dell'India di allora. Anche la storia "interna" delle
singole religioni mondiali è ricca di avvenimenti analoghi. Troppo stretti sono sempre il Tempio, la
Casta, la Chiesa. Le crociate portano alla formazione di masse d'una dimensione che nessuna chiesa
di allora avrebbe potuto contenere. Più tardi, intere città divengono spettatrici delle manifestazioni
dei flagellanti, le quali successivamente dilagano di città in città. Ancora nel secolo Diciottesimo,
Wesley fonda il suo movimento su prediche all'aperto. Egli è ben conscio delle enormi masse dei
suoi ascoltatori, e ogni tanto calcola nel suo diario quanti in quella circostanza sarebbero convenuti
ad ascoltarlo. Lo scoppio fuori dai chiusi luoghi di culto significa ogni volta che la massa vuole
ritrovare il suo vecchio gusto di crescita subitanea, rapida e illimitata. Direi di chiamare "scoppio"
la trasformazione subitanea di una massa chiusa in massa aperta. Questo processo si ripete di
frequente; non va però inteso troppo in senso spaziale. Spesso la massa sembra traboccare da uno
spazio in cui si trovava al riparo nella piazza e nelle strade di una città, dove, attraendo tutto a sé ed
essendo esposta a tutto, si espande liberamente.
Più importante di questo processo esterno è tuttavia quello interno che gli corrisponde: la
scontentezza per il numero limitato dei partecipanti, l'improvvisa voglia di "attrarre", la
determinazione appassionata di raggiungere "tutti". Dalla rivoluzione francese questi scoppi hanno
acquistato una forma che sentiamo moderna. Forse perché la massa si è liberata in modo così ampio
del contenuto di religioni tradizionali, riusciamo da allora più facilmente a vederla nuda, si direbbe
biologicamente, senza le interpretazioni e i fini trascendenti che in passato essa si faceva inoculare.
La storia degli ultimi cinquant'anni si e orientata sempre più verso l'incremento di tali scoppi: le
stesse guerre, divenute guerre di massa, sono comprese in esso. La massa non si accontenta più di
condizioni e di promesse devote, essa vuole sentirsi sommamente nella sua forza e nella sua
passione animalesche, e a questo fine torna sempre a servirsi delle occasioni e delle esigenze sociali
che le si offrono. Importa innanzitutto stabilire che la massa non si sente mai sazia. Fin quando resta
un uomo non ancora catturato da lei, essa mostra il suo appetito. Nessuno può dirlo con sicurezza,
ma è molto probabile che la massa manterrebbe il suo appetito anche quando avesse assorbito in sé
"tutti" gli uomini. C'è una qualche impotenza nel suo sforzo di "durare". A questo fine, l'unica via
promettente è la formazione di doppie masse: processo, in cui l'una massa si commisura sull'altra.
Quanto più sono vicine in forza e intensità, ambedue commisurandosi durano in vita.
Senso di persecuzione.
Fra le vene più salienti nella vita della massa c'è qualcosa che chiameremmo forse senso di
persecuzione: una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti di nemici designati
come tali una volta per tutte. Essi possono fare tutto ciò che vogliono, possono essere rigidi o
disponibili, impegnati o freddi, duri o miti - le loro azioni sono sempre intese come se scaturissero
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da un'imperturbabile malvagità, da una mentalità negativa contro la massa, da un'intenzione
preconcetta di distruggerla apertamente o subdolamente.
Per spiegare questo senso di inimicizia e di persecuzione si deve nuovamente partire dal fatto di
fondo, che la massa - una volta costituita - vuole crescere in fretta. L'immagine che ci si fa della
forza e della fermezza con cui essa si espande, è difficilmente esagerata. Fin quando la massa sente
di crescere ad esempio in circostanze rivoluzionarie, che partono da masse piccole ma ad alta
tensione -, essa riconosce una costrizione in tutto ciò che si oppone alla sua crescita. La massa può
essere dispersa con la violenza dalla polizia, ma ciò ha effetto puramente temporaneo - una mano
che si caccia in uno sciame di zanzare. Essa però può anche subire una aggressione dall'interno, da
chi venga incontro alle esigenze che hanno determinato la sua formazione. Dei deboli se ne
staccano; altri, che stavano per unirvisi, fanno dietrofront a metà strada. L'aggressione "esterna" alla
massa può solo renderla più forte. Coloro che sono stati fisicamente dispersi tendono tanto più
fortemente a riunirsi. L'aggressione "dall'interno", invece, è veramente pericolosa. Uno sciopero che
abbia conseguito qualche risultato si sbriciola a vista d'occhio. L'aggressione dall'interno si appella
a voglie individuali. Essa è considerata dalla massa un ricatto, un'azione «immorale», poiché
contrasta con la sua convinzione di fondo chiara e pulita. Chiunque appartiene a tale massa porta in
sé un piccolo traditore, che vuole mangiare, bere, amare e starsene tranquillo. Fin quando adempie a
queste funzioni tra parentesi e non ne fa troppo chiasso non glielo si impedisce.
Ma da quando il suo comportamento diviene troppo palese, si comincia ad odiarlo e a temerlo. Si sa
che egli ha subito le tentazioni del nemico. La massa è sempre una sorta di fortezza assediata, ma
assediata in senso duplice: essa ha il nemico dinanzi alle mura, e ha il nemico in cantina. Durante lo
scontro, la massa attira sempre più persone. Dinanzi a tutte le porte si adunano i suoi nuovi amici e
chiedono impetuosamente d'essere accolti. In momenti favorevoli questa richiesta viene soddisfatta;
ma essi possono anche scavalcare le mura. La città si riempie sempre più di combattenti; ma
ognuno di essi porta con sé un suo piccolo, invisibile traditore, che si rifugia frettolosamente in
cantina. L'assedio consiste nel tentativo di catturare le nuove reclute. Per i nemici all'esterno le mura
sono più importanti che per gli assediati all'interno. Proprio gli assedianti continuano a costruire e a
elevarle. Essi cercano di ricattare le nuove reclute, e se non possono affatto fermarle, fanno sì che il
piccolo traditore che le accompagna raccolga sufficiente inimicizia durante il suo cammino in città.
Il senso di persecuzione della massa non è altro che la sensazione di questa duplice minaccia.
La cerchia delle mura viene costruita sempre più stretta e le cantine dall'interno sono sempre più
minate. Le attività del nemico sono aperte e controllabili durante la costruzione delle mura, nascoste
e subdole nelle cantine. Ma tali immagini coincidono solo con un aspetto della verità. Coloro che
affluiscono dall'esterno, che vogliono entrare in città, non sono soltanto nuove reclute, rinforzi,
appoggi, ma anche il "nutrimento" della massa. Una massa che non aumenta di peso è in
Quaresima. Ci sono mezzi per sopravvivere alla Quaresima; le religioni hanno sviluppato in ciò
grande maestria. Mostreremo come le religioni mondiali riescano a tenere con sé le proprie masse,
anche senza che esse crescano in modo incisivo e violento.
Domesticazione delle masse nelle religioni mondiali.
Religioni con pretese universali, che sono state riconosciute, modificano molto presto l'accento
della loro propaganda. Dapprima esse tentano di raggiungere e di convincere tutti coloro che
possono essere raggiunti e convinti. La massa che si prefigurano è universale; importa ogni singola
anima, e ogni anima dovrebbe divenire loro. Ma la lotta che esse devono sostenere porta a mano a
mano ad una specie di celato rispetto per gli avversari, le cui istituzioni già esistono. Esse si
rendono conto di quanto sia difficile durare e considerano sempre più importanti le istituzioni che
garantiscono loro solidarietà e durata.
Stimolate dai loro avversari, fanno di tutto per introdurne esse stesse; e se ciò accade, queste
istituzioni divengono col tempo la cosa principale. Il peso proprio delle istituzioni, che acquistano
poi vita autonoma, addomestica progressivamente l'impeto della propaganda originaria.
Vengono edificate chiese, in modo da accogliere i fedeli già esistenti. Si ingrandiscono con riserva e
cautela, se di ciò esiste un vero bisogno. C'è una forte tendenza a raggruppare i fedeli esistenti in
unità separate. Proprio perché sono ormai in molti la tendenza a disgregarsi è assai grande e
rappresenta un pericolo, contro il quale occorre prendere misure. Per così dire, le religioni storiche
mondiali portano nel sangue un presentimento delle insidie della massa. Le loro proprie tradizioni,
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di carattere impegnativo, insegnano loro quanto improvvisamente e inaspettatamente esse siano
cresciute. Le storie delle conversioni di massa appaiono loro miracolose, e lo sono. Nei movimenti
apostati, che le chiese temono e perseguitano, lo stesso tipo di miracolo si rivolge contro di esse, e
le ferite che così subisce il loro corpo sono dolorose e indimenticabili. Ambedue, la rapida crescita
dei primordi e le non meno rapide apostasie, mantengono sempre viva la loro sfiducia verso la
massa.
Ciò che esse desiderano è, al contrario, un "gregge" duttile. E" consueto considerare i fedeli come
pecore e lodarli per la loro ubbidienza. Essi rinunciano del tutto alla tendenza essenziale della
massa, cioè alla rapida crescita. Si accontentano di una passeggera finzione di eguaglianza tra i
fedeli, la quale però non è mai realizzata troppo severamente, bensì con una determinata densità,
mantenuta entro moderati confini e secondo una direzione ben definita. I fedeli collocano volentieri
la meta a grande distanza, in un aldilà nel quale non si debba affatto entrare subito – giacché si è
ancora vivi - e che ci si deve meritare con molti sforzi e con molte sottomissioni. La direzione
diventa a mano a mano la cosa più importante. Quanto più lontana è la meta, tanto maggiori sono le
eventualità che essa duri. Al posto dell'altro, apparentemente indispensabile, principio di crescita, si
pone qualcosa di completamente diverso: la ripetizione.
In determinati spazi, in determinati tempi, i fedeli vengono radunati e, mediante funzioni sempre
uguali, posti in uno stato di massa mitigato, che li impressiona senza diventare pericoloso, ed a cui
si abituano. La sensazione della loro unità viene ad essi somministrata in dosi prestabilite. Dipende
da questo giusto dosaggio la durata della chiesa. Ovunque gli uomini si siano abituati a questa
esperienza esattamente ripetuta e limitata nelle loro chiese o templi essi non possono più farne a
meno. Ne dipendono come dal nutrimento e da tutto ciò che costituisce la loro esistenza. Un
improvviso divieto del loro culto, la soppressione della loro religione mediante un decreto di Stato,
non possono rimanere senza conseguenze. L'alterazione del loro bilancio di massa accuratamente
equilibrato deve, dopo un certo periodo, portare allo scoppio di una massa "aperta". Questa ha poi
tutte le note caratteristiche elementari. Essa si espande rapidamente. Determina un'eguaglianza vera
anziché fittizia. Si appropria di nuove e ora più sostanziose densità. Rinuncia, per il momento, a
quella meta lontana e difficilmente raggiungibile, a cui era educata, e se ne pone una "qui", nella
vicinanza immediata di questa vita concreta. Tutte le religioni improvvisamente vietate si vendicano
con una sorta di "secolarizzazione": in un grande e inatteso scoppio selvaggio il carattere della loro
fede cambia completamente, senza che gli stessi fedeli capiscano la natura di questa svolta. Essi vi
riconoscono la loro fede di prima, e credono soltanto di restare legati alle loro più profonde
convinzioni. Ma in realtà sono improvvisamente diventati del tutto diversi, con una sensazione
acuta e singolare della massa aperta che ora formano, e da cui non vorrebbero a nessun costo cader
fuori.
Panico.
Il panico in un teatro, come spesso è stato osservato, è un "disgregarsi" della massa. Tanto più
legati erano gli uomini durante la rappresentazione, tanto più chiusa la forma del teatro,
esteriormente nificatrice, tanto più violento è il disgregarsi. Può darsi però che, per la
rappresentazione stessa, non vi sia stata alcuna massa genuina. Spesso il pubblico non si sente
affascinato e rimane unito solo perché si trova già lì. Ciò che il pezzo teatrale non ha provocato, lo
determina in un istante un "fuoco". Esso è non meno pericoloso per l'uomo che per l'animale: è il
più forte e il più antico simbolo di massa. L'accorgersi del fuoco porta improvvisamente all'eccesso
quanto nel pubblico preesisteva del senso di massa. Per il comune e inequivocabile pericolo nasce
un timore comune a tutti. Per breve tempo è nel pubblico una vera massa. Se non si fosse in un
teatro, si potrebbe fuggire tutti insieme come un branco di animali in pericolo, incrementando
l'energia della fuga con movimenti orientati nello stesso senso. Un attivo timore di massa di questo
tipo costituisce la grande esperienza collettiva di tutti gli animali che vivono in gruppo e si salvano
in quanto buoni corridori.
Nel teatro, invece, la massa deve disgregarsi nel modo più violento. Le porte lasciano passare solo
una o poche persone. L'energia della fuga diventa di per sé un'energia che ricaccia indietro. Tra le
file può passare solo un uomo per volta e l'uno è nettamente staccato dall'altro; ognuno siede per
conto proprio, ognuno sta in piedi per contoproprio, ognuno ha il proprio posto. La distanza fino
alla porta più vicina è diversa per ognuno. Il teatro normale è strutturato in modo da bloccare gli
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uomini, lasciando loro soltanto la libertà delle mani e delle voci. Il movimento delle gambe è
limitato il più possibile. L'ordine improvviso di fuggire che gli uomini ricevono dal fuoco, viene
così confrontato subito con l'impossibilità di un movimento collettivo. La porta, per cui ognuno
deve passare, che gli sta dinanzi, che gli sta intorno, nettamente tagliata da tutto il resto, costituisce
la cornice di un quadro al quale ognuno sottostà ben presto. Così la massa, appena giunta all'apice,
già deve disgregarsi con la violenza. Il rovescio diviene evidente nelle tendenze individuali più
violente: ci si urta, ci si colpisce, ci si calpesta selvaggiamente.
Tanto più si lotta «per la propria vita», tanto più chiaramente si lotta "contro" gli altri, che ti
ostacolano da ogni parte. Ti stanno davanti come poltrone, balaustre, porte chiuse, ma con la
differenza che ti aggrediscono. Ti spingono di qua e di là, a loro piacere, oppure proprio dove
vengono spinti essi stessi.
Non vengono risparmiati donne, bambini e vecchi: non si fa distinzione tra loro e gli uomini. Ciò fa
parte della conformazione della massa, in cui tutti sono uguali; e mentre non ci si sente più massa, si
è pur sempre avvolti da essa. Il panico è un disgregarsi della massa nella massa.
Il singolo se ne stacca e vuole sfuggire ad essa che, come insieme, è in pericolo. Ma essendo sempre
inserito in essa fisicamente, deve aggredirla. Abbandonarsi ora ad essa sarebbe la sua rovina,
siccome essa stessa è minacciata dalla rovina. In un momento simile egli non può sottolineare
abbastanza la sua individualità. Con urti e spinte egli provoca urti e spinte. Tanto più ne
distribuisce, tanto più ne riceve, tanto più sente chiaro "se stesso", tanto più nitidi sono nuovamente
tracciati anche per lui i confini della sua persona.
E" significativo osservare quanto la massa assuma, per chi lotta in essa, il carattere del fuoco. La
massa è nata per l'apparizione inattesa di una fiamma o per il grido «Al fuoco!»; essa gioca come
fiamma con chi cerca di sfuggirle. Gli uomini che questi spinge via sono per lui oggetti incendiati, il
cui contatto gli è nemico e lo spaventa in ogni parte del suo corpo.
Chiunque si trovi coinvolto, è contagiato da questa concezione comunemente ostile del fuoco; il
modo in cui esso si espande, in cui a mano a mano si fa strada intorno, infine ti circonda
interamente, corrisponde molto al comportamento della massa, che ti minaccia da ogni parte. I
movimenti imprevedibili in essa, il levarsi improvviso di un braccio, di un pugno, di una gamba,
sono come le fiamme del fuoco che subitaneamente possono divampare da ogni parte. Il fuoco
come incendio di foresta o di steppa "è" una massa nemica: una sensazione violenta di ciò
si può ridestare in ogni uomo. Il fuoco come simbolo della massa si è inserito nel bilancio psichico
dell'uomo e ne è parte inalterabile. Quell'energico calpestare gli uomini, però, che si può osservare
così spesso in momenti di panico, e che sembra così insensato, non è altro che
l'estinguere il fuoco "calpestandolo". Il panico come disgregazione si può prevenire soltanto
prolungando lo stato originario di unitario timore di massa. Si può provocare ciò in una
chiesa che sia minacciata: si prega nel comune timore un dio comune,
nelle cui mani stia la facoltà di estinguere il fuoco con un miracolo.
La massa come cerchio.
Nell""arena" si ha dinanzi una massa doppiamente chiusa. Vale la pena di esaminarla in questa
singolare qualità. L'arena è ben delimitata dall'esterno. La si vede di lontano. La sua ubicazione
nella città, lo spazio che essa occupa, sono comunemente noti. Si sente sempre dove si trova, anche
se non ci si pensa. Da essa risuonano grida da lontano. Se è aperta superiormente, parte della vita
che vi si svolge si comunica alla città circostante.
Per quanto eccitanti possano anche essere queste comunicazioni, un afflusso illimitato nell'arena è
impossibile. Il numero di posti che essa consente è limitato. C'è un limite alla loro concentrazione. I
sedili sono disposti in modo che non ci si spinga troppo. La gente nell'arena dovrebbe star comoda.
I presenti dovrebbero poter vedere bene, ciascuno dal proprio posto, senza disturbarsi a vicenda.
Verso l'esterno, verso la città, l'arena rivolge un muro "privo di vita". Verso l'interno, essa
costruisce un muro di uomini. Tutti i presenti nell'arena voltano la "schiena" alla città. Si sono
staccati dalla struttura della città, dalle sue mura, dalle sue strade. Per la durata della loro
permanenza nell'arena, nulla di ciò che accade in città li preoccupa. Essi si lasciano dietro la vita dei
loro rapporti, delle loro regole e abitudini.
Il loro stare insieme in gran numero è assicurato per un certo periodo; l'agitazione è stata loro
promessa - ma a una condizione davvero determinante: che la massa si scarichi verso "l'interno".
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Le file sono poste l'una sopra l'altra, in modo che tutti vedano cosa sta succedendo in basso. Ma la
conseguenza di ciò è che la massa sta seduta dinanzi a se stessa. Ognuno ha dinanzi a sé mille
uomini e mille teste. Fin quando lui c'è, ci sono tutti. Ciò che lo agita, agita anche loro, ed egli se ne
"accorge". Essi stanno seduti a una certa distanza da lui; le particolarità che altrimenti li distinguono
e li fanno individui, si smussano. Divengono tutti assai simili, e si comportano in modo simile.
Egli percepisce in loro solo ciò che ora riempie lui stesso. La loro visibile agitazione accresce la
sua. La massa che così si mette in mostra di per se stessa, non è interrotta in alcun luogo. L'anello
che essa forma è chiuso. Nulla le sfugge. L'anello di volti affascinati gli uni sopra gli altri ha
qualcosa di stranamente omogeneo. Esso comprende e contiene tutto ciò che accade in basso.
Nessuno lo perde d'occhio, e nessuno vuole andarsene. Ogni vuoto in questo anello potrebbe
ricordare il disgregamento, lo scioglimento successivo.
Ma non ve n'è alcuno: questa massa è chiusa verso l'esterno e in se stessa, dunque in modo duplice.
Le qualità della massa.
Conviene riassumere brevemente le qualità della massa, prima di tentare una "classificazione".
Bisogna mettere in evidenza i seguenti quattro aspetti:
1. "La massa vuol sempre crescere". Per la sua stessa natura, non c'è limite alla sua crescita. Dove
tali limiti vengono posti artificialmente, cioè in tutte le istituzioni che servono a conservare masse
chiuse, uno scoppio della massa è sempre possibile e di volta in volta avviene. Non esistono
istituzioni che possano prevenire una volta per tutte l'accrescimento della massa e siano
incondizionatamente sicure.
2. "All'interno della massa domina l'eguaglianza". Essa è assoluta e indiscutibile, e non è mai
posta in questione dalla massa stessa. La sua importanza è talmente fondamentale che lo stato della
massa potrebbe essere addirittura definito uno stato di assoluta eguaglianza. Una testa è una testa,
un braccio è un braccio: non sussistono differenze fra loro. Per questa eguaglianza si diventa massa.
Si ignora qualunque cosa che potrebbe distrarre da ciò. Tutte le pretese di giustizia, tutte le teorie
egualitarie, traggono energia in fin dei conti da questa esperienza di eguaglianza che ognuno deriva
dalla sua conoscenza della massa.
3. "La massa ama la concentrazione". Essa non può mai essere troppo concentrata. Non dovrebbe
esserci nulla di mezzo, non dovrebbe essere interrotta da nulla; possibilmente tutto dovrebbe essere
essa stessa. Essa ha la sensazione della massima concentrazione all'istante della scarica. Sarà poi
possibile determinare e misurare più precisamente questa concentrazione.
4. "La massa ha bisogno di una direzione". Essa è in movimento, e muove verso qualcosa. La
direzione comune a tutti gli appartenenti rinforza la sensazione di eguaglianza. Una meta, che sta al
di fuori di ogni individuo e diventa la stessa per tutti, spinge di sotterra le mete private, dissimili,
che sarebbero la morte della massa. Per la sua durata, la direzione è indispensabile. La paura del
disgregamento, che sempre vive in essa, rende possibile orientarla verso qualunque meta. La massa
esiste fin quando ha una meta non ancora raggiunta. - Ma persiste ancora in essa una oscura
tendenza a muoversi che porta a formazioni superiori e nuove. Spesso non è possibile predire la
natura di queste formazioni.
Ciascuna delle quattro qualità che abbiamo osservato può esistere in misura maggiore o minore. A
seconda che si metta a fuoco l'una o l'altra di esse, si giunge a una "classificazione" diversa delle
masse. Abbiamo parlato di masse aperte e chiuse, e abbiamo anche spiegato che questa
classificazione si riferisce alla loro "crescita". La massa è aperta fin quando la sua crescita non è
bloccata, ed è chiusa da quando la sua crescita viene limitata. Un'altra differenza, di cui parleremo
ancora, esiste fra massa ritmica e massa statica. Essa si riferisce ad ambedue le qualità successive,
"eguaglianza" e "concentrazione".
La massa "statica" vive nell'attesa della scarica; ma ne ha la sicurezza e la ritarda. Essa desidera
un periodo abbastanza lungo di concentrazione, per potersi preparare al momento della scarica. Si
direbbe che trovi calore nella sua concentrazione e trattenga indietro finché è possibile la scarica.
La genesi della massa, in questo caso, non comincia con l'eguaglianza ma con la concentrazione.
L'eguaglianza diviene così meta principale della massa, cui essa infine giunge; ogni grido comune,
ogni manifestazione comune, esprime poi validamente questa eguaglianza.
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All'opposto, nella massa ritmica eguaglianza e concentrazione coincidono fin dall'inizio. Tutto,
qui, dipende dal movimento. Tutti gli impulsi fisici che devono essere conferiti, sono predeterminati
e si trasmettono in una danza. Mediante divergenze e riavvicinamenti la concentrazione si forma
coscientemente. Ma l'eguaglianza mette in evidenza se stessa. Simulando concentrazione ed
eguaglianza si provoca artificiosamente la sensazione di massa. Queste strutture ritmiche sorgono
rapidamente, e solo la fatica fisica mette loro fine. La seguente coppia di concetti, massa "lenta" e
massa "rapida", si riferisce esclusivamente alla meta perseguita. Le masse salienti, di cui si
parla solitamente, che costituiscono una parte così essenziale della nostra vita moderna, le masse
politiche, sportive, belliche, che ci stanno dinanzi quotidianamente, sono tutte "rapide". Molto
diverse da esse sono le masse religiose rivolte all""aldilà" o al "pellegrinaggio"; la loro meta è
lontana, la strada è lunga e la vera formazione della massa è spostata in un paese remotissimo o in
un regno celeste. Di queste masse lente riusciamo essenzialmente a vedere solo gli affluenti, poiché
gli stadi finali cui tendono sono "invisibili" e irraggiungibili per i non credenti. La massa lenta si
raduna lentamente e colloca lontano la propria durata. Tutte queste forme, di cui è stata qui solo
sfiorata l'essenza, richiedono un esame più approfondito.
Ritmo.
Il ritmo è originariamente ritmo dei piedi. Ogni uomo cammina, e poiché esso cammina su due
gambe toccando alternativamente il suolo con i piedi, poiché avanza soltanto quando tocca
ripetutamente il suolo, nasce un suono ritmico indipendentemente dal fatto che sia intenzionale o
no. I due piedi non premono mai il suolo con forza esattamente uguale. La differenza può essere più
o meno grande a seconda della disposizione o dell'umore personale. Ma possiamo anche camminare
più rapidamente o più lentamente, possiamo correre, fermarci improvvisamente o saltare. L'uomo
ha sempre ascoltato i passi altrui, e certo vi prestava più attenzione che ai propri. Anche gli animali
avevano il loro passo ben noto. Molti dei loro ritmi erano più ricchi e percepibili di quelli umani.
Gliungulati fuggivano in branchi come reggimenti tambureggianti. La conoscenza degli animali che
lo circondavano, lo minacciavano, e ai quali dava la caccia, era il sapere più antico dell'uomo. Nel
ritmo del loro movimento imparava a conoscerli. La più antica scrittura che egli imparò a leggere fu
quella delle "orme": era una sorta di notazione ritmica, che esisteva da sempre; si imprimeva da sola
nel terreno morbido, e l'uomo che la lesse vi collegò lo strepito del suo formarsi. Molte di quelle
impronte si trovarono vicinissime in gran numero.
Gli uomini che originariamente vivevano in piccole orde, potevano accorgersi anche mediante
l'osservazione tranquilla di tali orme del contrasto fra il loro numero limitato e quello enorme di
certi branchi. Erano affamati e sempre in cerca di preda; quanta più preda trovavano, tanto meglio
era per loro. Ma volevano anche essere "di più" loro stessi. Il senso umano del proprio
accrescimento è sempre stato molto forte. Ciò non va inteso in alcun modo come spinta alla
procreazione (secondo un'espressione inadeguata). Gli uomini vogliono essere di più ora, in questo
determinato luogo, in questo momento. Il grande numero di un branco, cui davano la caccia, e il
loro numero che avrebbero voluto fosse grande, si intrecciarono in modo particolare nel loro sentire.
Essi esprimevano ciò mediante un determinato stato di eccitazione comune, che definirei massa
"ritmica" o "sobbalzante". Si giungeva a ciò innanzitutto mediante il ritmo dei piedi. Dove molti
camminano, altri vanno insieme a loro. Passi che si sommano a passi in rapida ripetizione, danno
l'illusione di un maggior numero di uomini. Essi non si allontanano di un passo, durano nella danza
sempre nello stesso posto. I loro passi non si estinguono, si ripetono e durano per lungo tempo,
sempre con la stessa forza e con la stessa vivacità. Essi sostituiscono con l'intensità ciò che manca
loro nel numero. Se pestano il suolo più forte suonano come se fossero di più. Essi esercitano su
tutti gli uomini nelle vicinanze una forza d'attrazione che non diminuisce, fin quando non cessano la
danza. Tutto ciò che vive nel loro ambito sonoro si aggiunge a loro e resta con loro.
Sarebbe naturale che sempre nuovi uomini si aggiungessero a loro. Ma poiché ben presto non c'è
più nessuno che possa aggiungersi a loro, essi devono crearsi l'illusione da soli, con il loro numero
limitato. Si muovono come se diventassero sempre di più. La loro eccitazione cresce e degenera in
parossismo. Ma come sostituiscono ciò che il numero crescente non può dare loro? Da un lato, è
importante che ciascuno di loro faccia la stessa cosa. Ognuno pesta il suolo, ed ognuno lo fa nello
stesso modo. Ognuno agita le braccia, ognuno muove la testa. L'equivalenza degli appartenenti alla
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massa "procede" nell'equivalenza delle loro membra. Tutto ciò che vi è di mobile nell'uomo
acquista esistenza propria, ogni gamba, ogni braccio vive autonomo. Le singole membra vengono
tutte a coincidere. Sono tra loro vicinissime e spesso posano le une sulle altre. Alla loro equivalenza
si aggiunge così la loro concentrazione; concentrazione ed eguaglianza divengono un'identica cosa.
Infine ci danza davanti un essere unico, con cinquanta teste, cento gambe, cento braccia, che
agiscono tutte precisamente nello stesso modo o con la stessa intenzione. Al colmo della loro
eccitazione questi uomini si sentono davvero una sola cosa, e soltanto l'esaurimento fisico li
abbatte. Tutte le masse sobbalzanti hanno - proprio grazie al ritmo che in esse prevale - qualcosa di
simile. La documentazione destinata a mettere in evidenza una simile danza proviene dal primo
terzo del secolo scorso. Si tratta della "Haka" dei Maori della Nuova Zelanda, che originariamente
era una danza di guerra. «I Maori si disponevano in lunga fila per quattro. La danza, chiamata
"Haka" (1), doveva riempire di terrore e di angoscia chi la vedeva per la prima volta. Tutta la
comunità, uomini e donne, liberi e schiavi, erano mescolati fra loro, senza considerazione per il loro
rango sociale. Gli uomini erano completamente nudi; si erano solo appesi al corpo la cartuccera.
Tutti erano armati di fucili o di baionette che avevano fissato a bastoni o a fusti di lancia. Le donne
giovani, compresa la moglie del capo, partecipavano alla danza con la parte superiore del corpo
nuda. «Il tempo del canto che accompagnava la danza veniva rigorosamente rispettato. L'agilità dei
danzatori era impressionante. D'improvviso saltavano in alto perpendicolarmente, tutti insieme,
come se fossero animati da una sola volontà. Nello stesso istante agitavano le armi e contraevano i
volti: i lunghi capelli di molti di essi, uomini e donne, li facevano assomigliare a un esercito di
Gorgoni. Ricadendo a terra, battevano rumorosamente i piedi al suolo, tutti insieme. Questi salti in
alto si ripetevano spesso e sempre più in fretta. «I lineamenti venivano contorti in ogni modo
possibile a un volto umano, ogni nuova smorfia era puntualmente ripresa da tutti i danzatori.
Quando uno di essi contrasse il volto tanto da farlo parere stretto da una vite tutti gli altri lo
imitarono. Gli occhi venivano roteati qua e là - a volte se ne vedeva solo il bianco -, e sembrava che
da un istante all'altro dovessero cadere dalle orbite. Dilatavano la bocca da un orecchio all'altro.
Tutti insieme tiravano fuori la lingua quant'era lunga, come un europeo non sarebbe mai riuscito a
fare: ne erano capaci, grazie al lungo esercizio precedente. I loro volti presentavano un aspetto
terrifico; era un sollievo distoglierne gli occhi. «Ogni parte del loro corpo agiva separatamente: dita
delle mani e dei piedi, occhi, lingue, braccia e gambe. Con il palmo della mano si colpivano
sonoramente sia sul seno sinistro, sia sulla coscia. Il frastuono del canto era assordante: più di
trecentocinquanta persone partecipavano alla danza. Ci si può immaginare quale effetto abbia
questa danza in tempo di guerra, quanto ecciti gli animi e porti al culmine l'ostilità di un gruppo
contro l'altro». Il ruotare degli occhi e il tirar fuori la lingua sono segni di sfida e di provocazione.
Ma, sebbene la guerra in generale sia cosa dei maschi, e precisamente dei maschi liberi, "tutti" si
abbandonano all'eccitazione della Haka. La massa qui non conosce né sesso né età, né rango: tutti
agiscono come uguali. E tuttavia ciò che distingue quella danza da altre con intenzione analoga, è
specialmente un estremo "procedere" dell'eguaglianza.
Sembra che ogni corpo si sezioni in tutte le sue singole parti, non soltanto in gambe e braccia perché ciò capita spesso -, ma anche in dita dei piedi e delle mani, lingue ed occhi: ed ora pare che
tutte le lingue si mettano insieme e agiscano all'unisono. Presto tutte le dita dei piedi, tutti
gli occhi, si fanno uguali nella stessa azione. Gli uomini in ogni più piccola loro parte sono presi da
questa eguaglianza, che sempre manifestano in un'azione dalla crescita violenta. Lo spettacolo di
trecentocinquanta uomini che saltano in alto insieme, che insieme sporgono la lingua, insieme
ruotano gli occhi, deve dar l'impressione di un'insuperabile unità. La concentrazione non è soltanto
delle persone, ma anche delle loro membra separate. Si penserebbe che le dita e le lingue,
anche se non appartenessero agli uomini, si metterebbero insieme e lotterebbero da sole. Il ritmo
della Haka fa valere singolarmente ciascuna di queste eguaglianze. Nella loro crescita e insieme,
esse sono irresistibili. Poiché tutto accade in base alla supposizione che sia "visibile": il nemico
guarda. L'intensità della minaccia comune costituisce la Haka. Ma poiché la danza è esistita una
volta, essa si è anche accresciuta sempre più. La danza si pratica fin dall'infanzia, ha molte forme
diverse e viene presentata in ogni possibile occasione. A molti viaggiatori è stato dato il benvenuto
con una Haka. Dobbiamo la nostra documentazione a un'occasione simile. Se un gruppo amico si
unisce ad un altro, ambedue si salutano con una Haka; e la cosa è presa tanto sul serio che uno
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spettatore ignaro teme che possa scoppiare una battaglia da un momento all'altro. In occasione di
riti funebri per un grande capo, dopo tutte le fasi di lamentazione e di mutilazione più violenta,
proprie dei Maori, dopo un banchetto festivo molto copioso, tutti d'improvviso si alzano, prendono
le armi, e si predispongono per una Haka. In questa danza, cui tutti possono partecipare, la tribù si
sente massa. I Maori se ne servono ogniqualvolta sentono il bisogno di essere massa e di sembrare
tale dinanzi ad altri. Nella perfezione ritmica che ha raggiunto, la Haka adempie con sicurezza al
suo scopo. Grazie alla Haka, l'unità della massa non è mai minacciata seriamente dall'interno.
Staticità.
La "massa statica" è compatta; un movimento veramente libero non
le sarebbe affatto possibile. Il suo movimento ha qualcosa di passivo: la
massa statica "attende". Attende una testa, che dovrà esserle mostrata;
attende parole, oppure assiste a un combattimento. Qui conta soprattutto la
densità: la pressione che è sentita da ogni parte potrebbe servire agli
interessati anche come misura della forza della struttura di cui ormai fanno
parte. Quanti più uomini confluiranno, tanto maggiore sarà la forza di
quella pressione. I piedi non hanno scampo, le braccia sono serrate, restano
libere solo le teste, per vedere e per sentire; i corpi si passano impulsi
direttamente l'un l'altro.
Tutt'intorno si partecipa simultaneamente col proprio corpo a diversi
uomini. Si sa che si tratta di più uomini; ma poiché essi dipendono anche
così strettamente gli uni dagli altri, si sentono una cosa sola. Questo tipo di
concentrazione prende tempo: la sua efficacia per una certa durata è
costante; essa è amorfa, non soggetta ad alcun ritmo conosciuto e
praticato. Per molto tempo non accade nulla, ma la voglia di agire si
accumula e cresce per scoppiare finalmente in modo tanto più violento.
La pazienza delle masse statiche forse non è tanto sorprendente se si
valuta correttamente il significato di tale sensazione di concentrazione. La
massa quanto più concentrata è, tanti più uomini nuovi attrae. Sulla propria
concentrazione essa misura la propria grandezza, ma la concentrazione è
anche impulso essenziale per ulteriore crescita. La massa concentrata
cresce nel modo più rapido. La staticità prima della scarica è un'esibizione
di tale concentrazione. Quanto più a lungo essa rimane statica, tanto più
sene e dimostra la sua concentrazione.
Dal punto di vista dei singoli che costituiscono la massa, il tempo di
staticità è tempo di accumulo; si mettono da parte armi e punte, di cui ci si
è altrimenti muniti gli uni contro gli altri; ci si tocca ma non ci si sente
stretti; la presa non è più tale, non si ha più paura gli uni degli altri. Prima
della sortita, qualunque sia la direzione, si vuole essere certi di restare
insieme. E" un crescere insieme, per cui bisogna restare indisturbati. La
massa statica non è ancora del tutto sicura della sua unità e si tiene perciò
calma il più a lungo possibile.
Ma questa pazienza ha i suoi limiti. Una scarica è infine
indispensabile: senza di essa non si può nemmeno dire se una massa esista
davvero. Il grido improvviso, che un tempo era solito nelle esecuzioni
pubbliche quando la testa del malfattore era levata in alto dal boia, oppure
il grido che oggi conosciamo da manifestazioni sportive, sono la "voce"
della massa. La spontaneità di tali grida è della massima importanza. Grida
addestrate e ripetute a distanze regolari non sono ancora segno che la
massa abbia raggiunto vita propria. Esse devono, sì, condurvi; ma possono
essere esteriori come i movimenti condizionati di un reparto di soldati. Di
fronte a ciò il grido spontaneo, non predeterminabile, della massa, è
inequivocabile, la sua efficacia è enorme. Tale grido può esprimere
reazioni affettive d'ogni genere; spesso conta meno di quali affettività si
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tratti, che di quanto siano forti e diverse e di quanto sia grande la libertà
che le segue. Esse conferiscono alla massa il suo spazio psichico.
Esse però possono essere così violente e concentrate da "lacerare"
subito la massa. Esecuzioni pubbliche provocano questo effetto: una stessa
vittima può essere uccisa una sola volta. Se si tratta addirittura di chi era
sempre stato considerato invulnerabile, si dubita fino all'ultimo istante
della possibilità di ucciderlo. Il dubbio che così scaturisce dalla situazione
rafforza la naturale staticità della massa.
Tanto più penetrante e incisiva è la parvenza della testa tagliata. Il
grido che seguirà sarà tremendo, ma sarà l'ultimo grido di quella massa
ben determinata. Si potrebbe dunque dire che in questo caso la massa
paghi con la propria morte subitanea l'eccesso di attesa statica di cui ha
goduto nel modo più intenso.
Le nostre moderne manifestazioni sportive servono più direttamente
allo scopo. Gli spettatori possono star seduti: la pazienza di tutti diviene a
tutti evidente. Essi hanno i piedi liberi per pestare (2), ma rimangono lo
stesso al loro posto.
Hanno le mani libere per applaudire. Per la manifestazione è previsto
un determinato periodo di tempo; in genere non ci si aspetta che esso
venga abbreviato; almeno per quel periodo si rimane di certo insieme.
Entro quel periodo, inoltre, tutto potrà accadere. Non si può prevedere se,
quando, e da quale parte si farà un goal; e anche oltre simili avvenimenti
desiderati, ci sono molte altre cose che provocano scoppi fragorosi. La
voce si leva in frequenti e diverse occasioni. Ma al disgregarsi definitivo,
al dileguare della massa, la predeterminazione temporale ha tolto qualcosa
del suo carattere doloroso. La squadra sconfitta avrà inoltre l'occasione di
prendersi la rivincita, e non finirà tutto lì per sempre. Così la massa può
veramente espandersi; essa può dapprima accumularsi agli ingressi, poi
rimanere statica sui sedili; gridare in vari modi quando si offre il momento
giusto; e addirittura sperare quando tutto è trascorso, in analoghe occasioni
future.
Masse statiche di tipo molto più passivo si formano nei teatri.
La situazione ideale è che si reciti dinanzi a una sala piena.
Il numero desiderato di spettatori è dato fin da principio. Essi si
radunano da soli; con l'eccezione di limitati ristagni alle casse, ciascuno
raggiunge la sala per conto proprio. Ai singoli posti, però, si è
accompagnati. Tutto è prestabilito: il pezzo che verrà rappresentato, gli
attori che andranno in scena, l'ora dell'inizio e gli spettatori stessi ai loro
posti. I ritardatari sono accolti con leggera ostilità. Come un gregge
addestrato, gli uomini restano seduti tranquilli e in infinita pazienza.
Ciascuno però è ben cosciente della propria singola esistenza; egli ha
pagato e si rende conto esattamente di chi gli siede a fianco. Prima
dell'inizio egli osserva tranquillamente la fila di teste radunate: esse
risvegliano in lui una sensazione piacevole, ma non troppo pressante, di
concentrazione.
L'eguaglianza fra gli spettatori consiste essenzialmente nel fatto che
essi accolgono tutti passivamente la medesima realtà che giunge dal
palcoscenico. Ma le loro reazioni spontanee sono ora limitate a ciò. Lo
stesso applauso ha i suoi momenti predeterminati; spesso infatti si
applaude solo quando è il momento di applaudire. Dalla sola forza
dell'applauso possiamo dedurre quanto una massa si sia costituita;
l'applauso è la sola misura di ciò, ed è valutato così dagli stessi attori.
Lo staticizzarsi in teatro è divenuto rito in tale misura da imporsi
come moderata pressione dall'esterno, che tocca non profondamente gli
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uomini e in ogni caso dà loro difficilmente la sensazione di un'interna unità
e omogeneità. Non si deve però dimenticare quanto grande e comune sia
l""attesa", mentre gli spettatori restano seduti, e in quale misura continui
durante l'intera rappresentazione. Soltanto raramente essi lasciano il teatro
prima della fine; anche se sono stati delusi, resistono; ciò presuppone però
che fossero legati insieme fino a quel momento.
Il contrasto fra la quiete degli spettatori e l'attività rumorosa
dell'organizzazione cui sottostanno è ancora più evidente nei "concerti". In
tali casi ciò che conta più di tutto è l'assenza di ogni disturbo. Ogni
movimento è escluso, ogni rumore biasimato. Mentre la musica, che viene
eseguita, vive per buona parte del proprio ritmo, non si deve avvertire
nulla del suo effetto ritmico sugli uditori. Le reazioni affettive suscitate
dalla musica in uno scambio continuo, sono del tipo più vario e intenso. Si
esclude che esse non vengano percepite dalla maggior parte dei presenti, e
si esclude che non vengano percepite "simultaneamente" da tutti. Vengono
però a mancare tutte le reazioni esterne. Gli uomini rimangono seduti
immobili, come se riuscissero a non sentire nulla. Evidentemente, in tal
caso, è stata necessaria una lunga educazione artistica alla staticità,
educazione i cui risultati ci sono divenuti abituali.
Osservando con spregiudicatezza, nella nostra vita culturale ci sono
pochi eventi così stupefacenti come il pubblico dei concerti. Gli uomini
che subiscono la musica in modo "naturale", si comportano ben
diversamente; e coloro che non avessero mai udito musica, potrebbero
cadere nell'eccitazione più sfrenata quando la sperimentassero per la prima
volta. Quando i marinai che sbarcavano eseguivano la Marsigliese dinanzi
agli indigeni della Tasmania, questi ultimi esprimevano la loro
soddisfazione con strane contorsioni e gesti stupefacenti, in modo da
costringere i marinai a torcersi dalle risa. Un giovane particolarmente
entusiasmato si strappò i capelli, si grattò la testa con ambe le mani e
lanciò ripetutamente alte grida.
Un misero resto di scarica fisica è sopravvissuto anche nei nostri
concerti. L'applauso è offerto come ringraziamento agli esecutori: un
rumore breve e caotico in cambio di uno lungo e ben organizzato. Se
l'applauso manca del tutto ci si allontana quietamente così come si stava
seduti; tanto si è già immersi nella sfera del raccoglimento religioso.
Da quella sfera deriva originariamente la quiete del concerto.
Stare "comunitariamente" dinanzi a Dio è un esercizio diffuso in
alcune religioni. Esso si caratterizza per le stesse prerogative di staticità
ora riconosciute nelle masse profane, e può condurre a scariche altrettanto
subitanee e violente.
Forse l'esempio più impressionante e la famosa «sosta nell'Arafat»
(3), momento culminante del pellegrinaggio alla Mecca. Nella pianura di
Arafat si radunano, in un giorno ritualmente determinato, 600000-700000
pellegrini. Essi si raggruppano in grande cerchio attorno al «Monte della
Grazia», un colle spoglio che sorge in mezzo a quella pianura. Verso le
due del pomeriggio, nell'ora più calda, i pellegrini prendono i loro posti, e
vi rimangono fino al tramonto. Sono a capo scoperto e indossano tutti lo
stesso abito bianco da pellegrino.
In appassionata tensione, essi ascoltano le parole del predicatore che
si rivolge loro dalla sommità del colle. La sua predica è una lode
ininterrotta di Dio. Essi gli rispondono con una formula che si ripete mille
volte: «Noi attendiamo i tuoi ordini, Signore, noi attendiamo i tuoi
ordini!». Alcuni singhiozzano per l'eccitazione, altri si battono il petto.
Alcuni svengono nell'enorme calore. Ma è essenziale che resistano
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per quelle lunghe ore incandescenti nella sacra pianura. Solo al tramonto
giunge loro il segnale della partenza.
I successivi avvenimenti, fra i più enigmatici nell'ambito religioso,
saranno affrontati e spiegati più oltre, in altro contesto. Qui ci interessa
soltanto il "momento di staticità" che si prolunga per ore. Centinaia di
migliaia di uomini in eccitazione crescente vengono immobilizzati nella
pianura di Arafat, e non devono lasciare quella sosta prima di Allah,
qualunque cosa succeda loro. Essi sono infiammati dalla predica, e si
infiammano essi stessi con grida. L"«attendere» è contenuto nella formula
che essi usano e ritorna perennemente come tale.
Il sole, che si sposta con impercettibile lentezza, immerge tutto nella
stessa luce abbagliante, nello stesso fulgore; si direbbe la "incarnazione"
della staticità.
Esistono tutte le gradazioni di irrigidimento e di quiete nelle masse
religiose; ma il più alto grado di passività che esse possano raggiungere
viene loro imposto con la violenza dall'esterno. Nella "battaglia" si
affrontano due masse, ciascuna delle quali vuol essere più forte dell'altra.
Con le grida di guerra cercano di dimostrare a sé e al nemico d'essere
veramente i più forti. La meta della battaglia è far ammutolire la parte
avversa. Quando tutti gli avversari sono schiacciati, la loro voce forte,
raccolta in uno, minaccia temuta con ragione, è ammutolita per sempre. La
massa più silenziosa è quella dei "nemici morti". Quanto più era
pericolosa, tanto più si gode di vederla mucchio immobile. Si brama di
vedere quell'indifeso gruppo di morti. Perché prima si sono gettati in
gruppo contro l'avversario, in gruppo hanno lanciato contro di esso il loro
grido. Questa "massa resa silenziosa" di morti, in passato non era affatto
considerata priva di vita. Si credeva che i morti avrebbero continuato a
vivere altrove nel modo a loro proprio, tutti di nuovo insieme; e in fondo
avrebbe dovuto essere una vita simile a quella che già si era conosciuta in
loro. I nemici che giacevano cadaveri rappresentavano così per
l'osservatore il caso estremo di una massa statica.
Ma anche questa immagine è stata superata. Anziché i nemici
abbattuti, possono giacere nella terra comune proprio "tutti i morti": là
attendono la resurrezione. Chiunque muore ed è sepolto accresce il loro
numero; chiunque sia mai vissuto vi appartiene, e sono ormai moltitudine
infinita. La terra che li unisce li concentra, così che, sebbene giacciano
separati, sembrano l'uno a fianco dell'altro. Restano a giacere così, per un
tempo infinitamente lungo, fino al giorno dell""ultimo giudizio". La loro
vita si arresta fino al momento della resurrezione, e tale istante coincide
con quello del loro raduno dinanzi a Dio che li giudicherà. Non c'è nulla di
mezzo: giacciono là come massa, come massa si rialzeranno. Questa
concezione di resurrezione e di giudizio finale è la maggior prova della
realtà e dell'importanza della massa statica.
Lentezza o lontananza della meta.
La lontananza della meta è tipica della massa "lenta". Ci si avvicina
con grande costanza a una meta inamovibile, e strada facendo si rimane
uniti in ogni circostanza. La strada è lunga, gli ostacoli sconosciuti;
pericoli minacciano da ogni parte. Una scarica è consentita prima che la
meta sia raggiunta.
La massa lenta ha la forma di un convoglio. Essa fin da principio può
consistere di tutti coloro che le appartengono, come nell'esodo dei figli
d'Israele dall'Egitto. La loro meta è la terra promessa, ed essi sono una
massa fin tanto che sperano in quella meta. La storia della loro
peregrinazione è la storia di quella fede. Spesso le difficoltà sono così
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grandi che essi cominciano a dubitare. Hanno fame o sete, e appena si
lamentano sono minacciati dalla disgregazione. L'uomo che li guida si
sforza senza sosta di rinfocolare la loro fede. Ogni volta egli ci riesce, e, se
non lui, ci riescono i nemici da cui essi si sentono minacciati. La storia di
quella peregrinazione, che copre quarant'anni, contiene molte singole
formazioni di massa veloce e incisiva, e all'occasione avremo parecchie
cose da dire in proposito. Tali formazioni, però, sono tutte subordinate alla
concezione di una massa unica, lenta, che si avvicina alla meta garantita,
alla terra che è stata promessa. Gli adulti invecchiano e scompaiono,
giovani nascono e crescono, ma anche se gli individui cambiano tutti, il
convoglio come insieme rimane il medesimo. Non vi affluiscono gruppi
nuovi. Fin da principio è stabilito chi vi appartiene, e quindi ha diritto alla
terra promessa. Poiché tale massa non può crescere a sbalzi, si pone
durante tutto il peregrinare la domanda fondamentale: come fa a non
"disgregarsi"?
Una seconda forma di massa lenta può essere piuttosto paragonata a
un sistema fluviale. Essa comincia con piccoli ruscelli, che a mano a mano
confluiscono; nel corso d'acqua che ne nasce, altri sboccano da ogni parte;
tutto il complesso, se ha dinanzi a sé abbastanza terra, diventa un grande
fiume, e la sua meta è il mare. Il pellegrinaggio annuale alla Mecca è forse
l'esempio più impressionante di questa forma di massa lenta. Dai luoghi
più remoti del mondo islamico, carovane di pellegrini procedono tutte
nella direzione della Mecca. Alcune all'inizio sono forse piccole, altre equipaggiate con grande fasto da principi sono fin da principio l'orgoglio
dei paesi da cui provengono. Ma tutte, durante il loro peregrinare,
incontrano altre carovane che hanno la medesima meta; e così crescono
sempre più, per divenire ampi fiumi presso la meta. La Mecca è il mare in
cui sboccano.
E" proprio della condizione di tali pellegrini avere molto spazio per
esperienze di tipo comune, del tutto estranee al senso del pellegrinaggio.
Essi vivono il loro giorno più volte rinnovato, si dibattono fra molti
pericoli, sono per la maggior parte poveri e devono preoccuparsi di cibo e
bevanda. La vita di questi uomini, svolgendosi in terre straniere che
mutano sempre, è molto più esposta a pericoli di quella trascorsa in patria.
Non si tratta affatto di pericoli relativi al tipo della loro impresa. Così
questi pellegrini in larga misura rimangono individui, che continuano a
vivere separati tra loro come ovunque gli uomini. Ma fin quando essi
tendono alla loro meta, e questo è il caso dei più, essi continuano sempre a
far parte di una massa lenta che - indipendentemente dal loro
comportamento nei suoi confronti - continuerà ad esistere finché non avrà
raggiunto la meta.
Si ha una terza forma di massa lenta in tutti i fenomeni che si
riferiscono a una meta invisibile e irraggiungibile in questa vita. L'aldilà in
cui i beati attendono tutti coloro che vi si saranno meritato un posto, è una
meta ben articolata e appartenente ai soli fedeli. Essi la vedono nitida e
chiara dinanzi a sé, e non devono accontentarsi di un vago simbolo di essa.
La vita è come un pellegrinaggio verso quella meta; tra i pellegrini e
l'aldilà sta la morte. Il cammino non è esattamente definito ed è difficile
coglierlo in un solo sguardo. Molti deviano dal cammino e si smarriscono
lungo la strada. La speranza nell'aldilà, però, colora sempre la vita del
fedele, così che si ha ragione di parlare di una massa lenta, cui
appartengono tutti insieme i seguaci di una fede. Poiché essi non si
conoscono fra loro e vivono sparsi in molte città e paesi, l'anonimato di
questa massa è particolarmente impressionante.
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Ci chiediamo però come appaia tale massa "all'interno", e che cosa la
distingua maggiormente dalle forme "veloci".
Alla massa lenta è negata la "scarica". Si potrebbe dire che questo sia
il suo principale segno di riconoscimento, e quindi si potrebbe anche
parlare di masse senza scarica anziché di masse lente. La prima definizione
è però preferibile poiché in realtà non si può "completamente" fare a meno
della scarica.
Essa rimane sempre compresa nell'immagine di una condizione
definitiva. La scarica è collocata in remota lontananza. Là dove c'è la meta,
c'è anche la scarica. Una forte immagine di essa dura sempre: alla fine si
verificherà con certezza.
Nella massa lenta ci si propone con lungimiranza di ritardare il
processo che porta alla scarica. Le grandi religioni hanno sviluppato una
particolare maestria in queste misure ritardanti.
Esse sono interessate a conservare i seguaci che si sono conquistati.
Per conservarli e per attirarne altri, devono organizzare dei raduni di tempo
in tempo. Se durante questi raduni si sono verificate delle scariche
violente, tali scariche devono essere ripetute e possibilmente superate in
violenza; almeno una ripetizione regolare di scariche sarebbe
indispensabile affinché l'unità dei fedeli non andasse perduta.
Ciò che accade durante questo tipo di servizio religioso, che ha luogo
all'interno di masse ritmiche, non può essere controllato a grande distanza.
Il problema centrale delle religioni universali è la sovranità sui fedeli per
vaste regioni della terra. Tale sovranità è possibile soltanto mediante un
cosciente ritardo di fenomeni di massa. Le mete remote devono acquistare
significato, quelle prossime devono sempre più perdere peso, per apparire
infine senza valore. La scarica terrestre non ha durata, ciò che viene
collocato nell'aldilà perdura.
Meta e scarica così coincidono, ma la meta è inattaccabile. La terra
promessa, qui in questo mondo, può essere occupata e devastata da nemici,
e il popolo cui era stata promessa può esserne cacciato. La Mecca fu
conquistata e saccheggiata dai Carmati; la sacra pietra della Kaaba fu da
loro asportata. Per molti anni nessun pellegrinaggio poté dirigervisi.
Ma l'aldilà con i suoi beati è al riparo da tutte le devastazioni di tal
genere. Vive di sola fede e può essere incontrato solo in essa. La
disgregazione della massa lenta del cristianesimo è iniziata nell'istante in
cui la fede in quell'aldilà cominciò a decomporsi.
Le masse invisibili.
Dovunque ci siano uomini, per tutta la terra, si trova la nozione
dell""invisibilità dei morti". Si potrebbe considerarla la più antica nozione
dell'umanità. Non ci fu sicuramente alcuna orda, alcuna stirpe, alcun
popolo che non possedesse una qualche concezione dei propri morti.
L'uomo ne era ossessionato; essi avevano enorme significato per lui; la
loro influenza sui vivi costituiva una parte essenziale della vita stessa.
Si immaginava che i morti fossero tutti insieme, come sono insieme
gli uomini, e si tendeva a supporre che fossero in molti. «Gli antichi
Beciuana, come gli altri indigeni dell'Africa del Sud, credevano che tutto
lo spazio fosse pieno degli spiriti degli antenati. Terra, aria e cielo erano
colmi di spiriti, che potevano arbitrariamente esercitare un influsso
malvagio sui viventi». (4) «I Boloki del Congo si credono circondati da
spiriti, che tentano di far loro del male in ogni occasione e di nuocere loro
in ogni ora del giorno e della notte. Fiumi e ruscelli sono pieni degli spiriti
degli antenati.
Anche selva e macchia sono ricolme di spiriti. Essi possono
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diventare pericolosi per i viaggiatori sulla terra o sull'acqua che si lasciano
sorprendere dalla notte. Nessuno è tanto coraggioso da attraversare di notte
la selva che divide un villaggio dall'altro, e nemmeno la prospettiva di una
larga ricompensa può tentarvi alcuno. La risposta a tali proposte suona
sempre: "Ci sono troppi spiriti nella selva"». (5)
Si crede generalmente che i morti abitino insieme in un paese
lontano, sottoterra, in un'isola o in una casa celeste. Un canto dei Pigmei
del Gabon dice: (6)
«Le porte della caverna sono chiuse. Le anime dei morti vi si
spingono in frotta, come un nugolo di mosche che danzano nella sera. Un
nugolo di mosche che danzano nella sera, quando la notte è diventata
oscura, quando il sole è scomparso, un nugolo di mosche: roteare di foglie
morte in una tempesta ululante».
Ma non basta che i morti divengano sempre più numerosi e
incominci ad affermarsi la sensazione della loro moltitudine.
Essi sono anche in movimento e tendono a imprese collettive. I morti
rimangono invisibili alle persone comuni; ma vi sono uomini con
particolari doti, "sciamani", che si intendono di esorcismi e possono
soggiogare spiriti destinati a divenire così loro servitori. Presso i Ciukci
della Siberia «un buon sciamano dispone di intere legioni di spiriti
aiutanti; e quando li chiama tutti, essi giungono in tale quantità da
circondare da ogni parte, proprio come se fossero un muro, la piccola
tenda in cui avviene l'esorcismo». (7)
Gli sciamani "dicono" ciò che vedono. «Con voce che trema
dall'eccitazione, lo sciamano grida dalla sua abitazione di neve:
«"Lo spazio celeste è colmo di esseri nudi che giungono attraverso
l'aria. Creature umane, uomini nudi, donne nude, che vagano e suscitano la
tempesta e la tormenta.
«"Sentite come sibila? Sibila come il battito delle ali di grandi uccelli
su nell'aria. E" la paura di uomini nudi, è la fuga di uomini nudi! Gli spiriti
dell'aria soffiano la tempesta, gli spiriti dell'aria spingono sulla terra la
neve volante"». (8)
Questa visione grandiosa di spiriti nudi in fuga ci giunge dagli
Esquimesi.
Alcuni popoli immaginano i loro morti o un numero limitato di essi,
come eserciti in lotta. Presso i Celti degli Highlands scozzesi (9) l'esercito
dei morti e designato da una parola particolare: "sluagh", che si traduce in
inglese con "spirit multitude", moltitudine di spiriti. L'esercito dei morti
vola di qua e di là in grandi nuvole, come gli storni sopra la faccia della
terra. Essi tornano sempre sul luogo delle loro colpe terrestri. Con le loro
infallibili frecce avvelenate essi uccidono gatti, cani, pecore e armenti,
combattono battaglie per l'aria, così come gli uomini in terra. Nelle notti
chiare e gelide si possono sentire e vedere i loro eserciti avanzare l'un
contro l'altro e ritirarsi, ritirarsi e avanzare. Dopo una battaglia il loro
sangue tinge di rosso rocce e pietre. La parola "ghairm" significa "urlo",
"grido", e "sluaghghairm" era il grido di battaglia dei morti. Ne è derivata
più tardi la parola "slogan": la denominazione del grido di guerra delle
masse moderne deriva dall'esercito di morti degli Highlands.
Due popolazioni nordiche, che vivono lontane l'una dall'altra, i
Lapponi in Europa e gli indiani Tlinkit in Alaska, hanno la stessa
concezione dell""aurora boreale" come battaglia. (10) «I lapponi Kolta
credono di vedere nell'aurora boreale i caduti in guerra, che continuano a
combattere fra loro per l'aria come spiriti. I lapponi Russi riconoscono
nell'aurora boreale gli spiriti degli uccisi. Quegli spiriti vivono in una casa
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ove talvolta si radunano: là si trafiggono a morte, e il suolo è pieno di
sangue. L'aurora boreale annuncia l'inizio delle battaglie fra le anime degli
assassinati. Per i Tlinkit dell'Alaska, tutti coloro che muoiono di malattia e
non cadono in guerra, finiscono negli Inferi. Arrivano al cielo soltanto gli
eroici combattenti, morti in guerra. Di tanto in tanto il cielo si apre per
accogliere nuovi spiriti. Allo sciamano essi si mostrano sempre armati di
tutto punto. Le anime dei caduti appaiono spesso come aurora boreale,
particolarmente come quelle fiamme dell'aurora boreale che si manifestano
come frecce o fasci di raggi e si muovono qua e là, talvolta si oltrepassano,
cambiano posto, ricordando da vicino la tecnica di combattimento dei
Tlinkit. Una forte aurora boreale annuncia - si crede - un grande
spargimento di sangue, poiché in tal caso i morti combattenti vogliono
nuovi compagni».
Un numero enorme di combattenti si raduna nella Walhall, secondo
le credenze dei Germani. Tutti gli uomini caduti in guerra fin dal principio
del mondo giungono nella Walhall. Il loro numero cresce sempre, poiché
le guerre non hanno fine. Là, essi mangiano e bevono a dismisura; sempre
si rinnovano per loro i cibi e le bevande. Ogni mattina afferrano le armi e
scendono in campo. Si uccidono a vicenda come in torneo, ma poi si
rialzano giacché la loro non è vera morte. Attraverso 640 porte tornano
nella Walhall, in schiere di ottocento uomini.
Ma non soltanto gli spiriti dei defunti costituiscono le moltitudini
invisibili ai comuni mortali. «L'uomo deve sapere,» dice un antico testo
ebraico «l'uomo deve ricordarsi, che non esiste spazio vuoto fra cielo e
terra, bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini. Una parte di esse è pura,
piena di grazia e di dolcezza; ma l'altra parte è composta di creature
impure, nocive e tormentatrici. Tutti girano per l'aria: alcuni vogliono la
pace, altri cercano la guerra; alcuni fanno il bene, altri il male; alcuni
portano la vita, altri la morte». (11)
Nella religione degli antichi persiani i demoni formano un esercito
particolare, sottoposto a un comando supremo. Per questi innumerevoli
demoni si trova nello "ZendAvesta", il libro sacro persiano, la seguente
formula: «Migliaia e più di migliaia di demoni, decine di migliaia e più di
decine di migliaia, le loro innumerevoli miriadi». (12)
Il medioevo cristiano ha meditato seriamente sul numero dei demoni.
Nel "Dialogo sui miracoli" di Cesario von Heisterbach (13) si tramanda
che un giorno i demoni riempirono il coro di una chiesa in tal numero da
disturbare il canto dei monaci, i quali avevano incominciato il terzo salmo,
«Quanti sono, o Signore, i miei nemici». I demoni volarono da una parte
all'altra del coro e si mescolarono ai monaci. Questi non seppero più cosa
stavano cantando, e nella confusione una parte cercò di coprire le voci
degli altri. Se tanti demoni si radunano in un posto per disturbare un solo
servizio divino quanti ce ne saranno su tutta la terra! Ma già il Vangelo,
opina Cesario, conferma che una legione di essi entrò in un singolo uomo.
Un cattivo prete disse sul letto di morte a un parente che stava al suo
capezzale: «Vedi quel grande pagliaio dinanzi a noi?
Sotto il suo tetto si trovano tanti fili di paglia quanti sono i demoni
radunati ora intorno a me». Stavano là in agguato della sua anima, per
trascinarla alla punizione. Essi però cercano soddisfazione anche al letto di
morte dei pii. Al funerale di una buona badessa erano radunati più demoni
di quante foglie sono in un gran bosco. Attorno a un abate moribondo ce
n'erano più dei granelli di sabbia sulle spiagge del mare. Dobbiamo queste
informazioni a un demone che era presente e a un cavaliere con cui entrò
in conversazione, rispondendo alle sue domande. Il demone non nascose la
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sua delusione per quegli sforzi vani, e confessò d'essere già stato seduto su
un braccio della croce alla morte di Cristo.
Si vede che l'invadenza di quei demoni è smisurata quanto il loro
numero. Quando l'abate cistercense Richalm chiuse gli occhi, li vide densi
come la polvere intorno a sé. Egli ha fornito censimenti più precisi sul loro
numero. Ne conosco due, che però divergono ampiamente. L'uno parla di
44635569; l'altro, di undici bilioni.
In grande e naturale contrasto con tutto ciò è l'immagine che ci si
crea degli angeli e dei beati. Qui tutto è quiete, non si vuol più ottenere
nulla, si è raggiunta la meta. Ma anch'esse si sono radunate, le schiere
celesti, «un numero incalcolabile di angeli, patriarchi, profeti, apostoli,
martiri, confessori, vergini e altri giusti». (14) Stanno disposti in grandi
cerchi attorno al trono di Nostro Signore, volti verso il loro sovrano come i
sudditi d'una corte. Testa affianca testa; la loro beatitudine è fondata sulla
vicinanza al Signore. Sono stati accolti per sempre presso di lui, e
resteranno uniti fra loro non meno di quanto staranno uniti a lui. Sono
immersi nella visione di lui, e lo lodano. Fanno soltanto ciò, e lo fanno
tutti insieme.
Di tali concezioni di masse invisibili è pieno lo spirito dei fedeli.
Morti, demoni o santi, sono immaginati in grandi schiere concentrate. Si
direbbe che le religioni "comincino" con queste masse invisibili. La loro
posizione varia: in ciascuna fede si determina un particolare equilibrio.
Una classificazione delle religioni in base al modo in cui adoperano le loro
masse invisibili, sarebbe non solo possibile ma molto auspicabile. Le
religioni «elevate» - quelle che hanno raggiunto validità generale dimostrano in ciò una sicurezza e una chiarezza sovrane. Alle masse
invisibili, che esse tengono in vita con le prediche, si ricollegano timori e
desideri degli uomini. Gli invisibili sono il sangue della fede. Non appena
essi sbiadiscono, la fede appare indebolita, e mentre essa tende a svanire
altre schiere prendono il posto di quelle impallidite.
Di "una" massa di questo tipo - forse la più importante - non si è
ancora parlato. E" la sola che appare naturale anche a noi, uomini di oggi,
nonostante la sua invisibilità: la "posterità".
Un uomo potrebbe abbracciare con lo sguardo due o forse tre
generazioni; di là da ciò i posteri si collocano interamente nel futuro.
Proprio perché innumerevoli, i posteri non sono visibili per nessuno. Si sa
che essi devono aumentare, dapprima gradualmente, poi con crescente
intensità. Stirpi e interi popoli sentono di derivare da un padre comune; e
dalle promesse che quest'ultimo aveva ricevuto si comprende quanto
eccellenti ma soprattutto "quanti" - discendenti egli desiderasse: numerosi
come le stelle del cielo e come la sabbia del mare.
Nello "Shih Ching", il classico libro di canti cinese, si trova una
poesia nella quale la posterità è paragonata a uno stormo di cavallette: (15)
Le ali delle cavallette dicono: spingi, spingi!
Siamo i tuoi figli e i nipoti un esercito innumerevole!
Le ali delle cavallette dicono: lega, lega!
Si susseguano i tuoi figli e i nipoti in linea senza fine!
Le ali delle cavallette dicono: unisci, unisci!
Siano i tuoi figli e i nipoti per sempre una sola cosa!
Gran numero, sequenza ininterrotta - dunque una sorta di densità
attraverso il tempo - ed unità, sono i tre desideri espressi in questa poesia
per la posterità. Lo stormo di cavallette come simbolo della massa dei
posteri è particolarmente significativo, poiché quegli animali non vengono
evocati qui per la loro attività nociva, bensì proprio per la loro forza di
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moltiplicarsi.
Il senso della posterità è oggi vivo quanto lo fu sempre. Ma
l'immagine della propria posterità come massa si è staccata per trasferirsi
nel complesso dell'umanità futura. Per la maggior parte di noi gli eserciti
dei morti sono diventati mera superstizione. Tuttavia è considerato nobile
e non vano sforzo il presentire la massa dei non ancora nati, il voler loro
bene, il preparare loro una vita migliore e più giusta. Nella preoccupazione
generale per il futuro della terra, questo senso dei non ancora nati ha il
maggior significato. Può darsi che l'orrore delle loro mutilazioni,
l'immaginarli mentre combattiamo le nostre guerre moderne, portino
all'abolizione di tali guerre e della guerra in genere, più di tutti i timori
privati che ci riguardano.
Se inoltre si pensa al "destino" delle masse invisibili di cui si è
parlato, si può dire che alcune di esse sono scomparse in larga misura, e
altre interamente. A queste ultime appartengono i demoni che, nella loro
immagine consueta, non appaiono più in alcun luogo, sebbene in passato
fossero moltitudine. Essi però hanno lasciato tracce. Testimonianze
impressionanti della loro "piccolezza" si sono potute raccogliere al tempo
del loro rigoglio, per esempio da Cesario von Heisterbach. Da allora essi
hanno perso tutte le caratteristiche che potrebbero ricordare l'aspetto
umano, e sono divenuti ancora più piccoli. Sono quindi risorti, molto
cambiati e in turbe ancor più numerose, nel Diciannovesimo secolo come
"bacilli". La loro aggressione, anziché contro l'anima, punta contro il corpo
dell'uomo. Per quest'ultimo possono diventare molto pericolosi. Solo una
piccola minoranza di uomini li ha davvero guardati in faccia attraverso un
microscopio. Ma chiunque ne abbia sentito parlare è sempre cosciente
della loro presenza e si sforza di non venire in contatto con loro: impresa
un po'"precaria, data la loro invisibilità. La loro pericolosità e la
concentrazione di enormi numeri di essi in uno spazio ristretto,
provengono certamente loro dai demoni.
Una massa invisibile, esistente da sempre, ma riconosciuta come tale
solo dall'avvento del microscopio, è quella dello "sperma".
Duecento milioni di spermatozoi partono insieme. Sono uguali fra
loro e si trovano insieme nella massima concentrazione. Hanno tutti una
meta, e, tranne uno, periscono tutti strada facendo.
Si potrebbe dire che non sono affatto uomini, e quindi che non si
dovrebbe parlare propriamente di massa nel senso descritto.
Ma questa obiezione non tocca affatto l'essenza della questione.
Ogni spermatozoo porta seco tutta l'eredità dei predecessori che
potrebbe salvarsi. Esso contiene i predecessori, "esso è" i predecessori. E"
una sorpresa sconvolgente ritrovarli qui, fra una generazione e l'altra, con
l'aspetto profondamente cambiato: tutti in "una" creatura minuscola,
invisibile, e di tali creature un numero così smisurato.
Suddivisione secondo la dominante affettiva.
Le masse che abbiamo considerato sono ricche di forme affettive diversissime. Di quali affetti si
tratti, s'è appena accennato. Primo obiettivo dell'indagine è stata la suddivisione secondo princìpi
formali. Sapere soltanto che la massa è aperta o chiusa, lenta o veloce, invisibile o visibile, significa
conoscere ben poco delle sue sensazioni e del suo contenuto. Tale contenuto non si può sempre
concepire allo stato puro. Abbiamo già esaminato le circostanze in cui la massa vive tutta una
gamma di esperienze affettive che si susseguono veloci. Gli uomini possono trascorrere a teatro ore
su ore, e le loro esperienze comuni sono le più svariate. Al concerto le loro sensazioni sono
ancora più indipendenti dall'occasione che a teatro; si direbbe che là esse raggiungano la
massima varietà.
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Ma questi avvenimenti sono artificiali; la loro ricchezza è un prodotto finito di alte e complesse
culture. La misura del loro effetto è prevista. Gli estremi si annullano. Queste istituzioni servono in
genere a
mitigare e ridurre le passioni cui gli uomini soli si sentono esposti.
Le forme affettive principali della massa risalgono, pero, molto più
indietro. Esse sorgono molto presto; la loro storia è antica quanto l'umanità
stessa, e due di queste forme sono ancora più antiche. Ciascuna di esse si
distingue per una peculiare colorazione unitaria, una singola passione
dominante.
Dall'istante in cui vi vediamo chiaro, non è più possibile che le
confondiamo tra loro.
In seguito si distingueranno cinque tipi di masse, a seconda del loro
contenuto affettivo. La massa aizzata e la massa in fuga sono le due più
antiche. Si trovano fra gli animali così come fra gli uomini, e
probabilmente la loro formazione tra gli uomini è sempre tornata a
ispirarsi a esempi animali. La «massa del divieto», la «massa del
rovesciamento» e la «massa della festa», sono specificamente umane. Una
descrizione di queste cinque specie e la loro interpretazione può portare a
conoscenze di considerevole ampiezza.
Masse aizzate.
La massa aizzata si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota,
precisamente designata, e vicina. Essa si propone di uccidere, e sa chi ucciderà. Con determinazione
senza confronto essa persegue il suo scopo; è impossibile distoglierla. Basta annunciare quello
scopo, basta far sapere chi dovrebbe perire, perché una massa si formi. La concentrazione
sull'uccidere è del tutto particolare: nessun'altra la supera in intensità. Ognuno vuol parteciparvi,
ognuno colpisce. Per poter vibrare il proprio colpo, ciascuno si fa dappresso alla vittima. Se non
può colpire, vuole almeno vedere come gli altri colpiscono. Sembra che tutte le braccia siano di una
sola creatura. Ma le braccia che "colpiscono" hanno maggior valore e peso. Lo scopo è tutto. La
vittima è o scopo, ma essa è anche il punto di massima concentrazione: essa riunisce in sé le azioni
di tutti. Scopo e concentrazione coincidono. Un'importante ragione della rapida crescita della massa
aizzata è l'assenza di pericolo nell'impresa. Non c'è pericolo, poiché la superiorità della massa è
schiacciante. La vittima non può nuocere. Fugge o è legata. Non può colpire; inerme, è soltanto una
vittima. E" stata messa a disposizione per essere soppressa. E" destinata alla sua sorte; per la sua
morte nessuno deve temere sanzioni. L'omicidio autorizzato compensa di tutti gli omicidi cui si
deve rinunciare, di tutti quelli che farebbero temere pesanti punizioni. Un omicidio senza pericolo,
permesso, raccomandato, e spartito con molti altri, è irresistibile per la maggioranza degli uomini.
Si deve aggiungere che la minaccia della morte, cui sottostanno tutti gli uomini e che è sempre viva
sotto molteplici maschere, sebbene non stia continuamente dinanzi agli occhi, crea il bisogno di
"deviare" la morte su altri. La formazione di masse aizzate viene incontro a quel bisogno. L'impresa
è così facile e si svolge così rapidamente che occorre affrettarsi per parteciparvi in tempo. La fretta,
lo slancio e la sicurezza della massa aizzata hanno qualcosa di terrificante.
E" l'eccitazione di ciechi, che sono più ciechi nell'istante in cui credono di vedere. La massa si
spinge sulla vittima e sull'esecuzione per liberarsi subitaneamente e per sempre dalla morte di tutti
coloro che la compongono. Ciò che poi veramente le accade, è l'opposto. A causa dell'esecuzione,
ma solo dopo di essa, la massa si sente più che mai minacciata dalla morte, si scioglie e si disperde
in una sorta di fuga. Tanto più alta era la vittima, tanto più grande è l'angoscia della massa. La
massa può restare unita solo quando una serie di avvenimenti analoghi si susseguono velocemente.
La massa aizzata è antichissima; essa risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli
uomini: la muta di caccia. Delle mute più piccole e distinte anche altrimenti dalle masse, si parlerà
più tardi dettagliatamente. Qui vogliamo occuparci soltanto di alcune circostanze generali che
danno origine alla formazione di masse aizzate.
Fra le specie di morte decretate contro un singolo da un'orda o da un popolo, possiamo distinguere
due forme principali, una delle quali è l""espulsione". Il singolo viene esposto là dove sarà vittima
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indifesa di animali selvaggi, o morirà di fame. Gli uomini cui prima era simile, non hanno più nulla
a che fare con lui; essi non devono più ospitarlo, né fornirgli alcun cibo.
Fraternizzare con lui significa contaminarsi e divenire colpevoli. La solitudine nella forma più
rigorosa, è qui la punizione estrema; il distacco dal proprio gruppo è un tormento cui, soprattutto in
condizioni primitive, riescono a sopravvivere solo pochissimi. Una variante di quell'isolamento è
l'esposizione ai nemici. Trattandosi di uomini, e in assenza di lotta, tale isolamento è considerato
particolarmente crudele e umiliante, come una doppia morte. L'altra forma è quella dell""uccisione
collettiva". Il condannato viene condotto sul luogo dell'esecuzione e lapidato. Ognuno partecipa
all'uccisione; colpito dalle pietre di tutti, il colpevole crolla. Nessuno ha l'incarico di fare il boia:
tutta la comunità uccide. Le pietre rappresentano la comunità; esse sono il simbolo della sua
decisione e del suo gesto. Anche dove la lapidazione non è più in uso, rimane la tendenza
all'uccisione collettiva. Vi si può paragonare la "morte per fuoco": il fuoco agisce per la folla che ha
augurato la morte al condannato. La vittima è raggiunta da ogni parte dalle fiamme; da ogni parte, si
direbbe, essa è afferrata e uccisa. Nelle religioni che prevedono un inferno si aggiunge qualcosa
d'altro: alla morte collettiva per fuoco, che è un simbolo della massa, si ricollega l'idea
dell'espulsione: cioè, l'espulsione nell'inferno, la consegna ai nemici infernali. Le fiamme
dell'inferno si protendono sulla terra e catturano l'eretico che loro spetta. - Trafiggere di frecce la
vittima, fucilare un condannato mediante un plotone di soldati, sono azioni in cui il gruppo
esecutivo è delegato della totalità. Seppellendo gli uomini in formicai - come si fa in Africa e
altrove -, si delega la penosa attività alle formiche, che rappresentano una massa numerosa.
Tutte le forme di esecuzione pubblica dipendono dall'antica pratica dell'uccisione collettiva. Il vero
boia è la massa che si raduna intorno al patibolo. Essa approva il dramma; con moto veemente
affluisce di lontano per assistervi insieme dal principio alla fine. Vuole che ciò accada, e non si
lascia sfuggire facilmente la vittima. L'annuncio della condanna di Cristo coglie questo processo
nella sua essenza. Il «Crucifige!» proviene dalla massa. Essa è essenzialmente attiva; in altri
tempi avrebbe fatto da sola,
lapidando Cristo. Il processo che di solito si celebra dinanzi a un gruppo
limitato di uomini, vale per la moltitudine che poi assisterà all'esecuzione.
La condanna capitale che, inflitta in nome del diritto, suona astratta e
irreale, diventa vera quando è eseguita dinanzi alla moltitudine. Per essa
essenzialmente si legifera, e con il diritto pubblico ci si riferisce appunto
alla massa.
Nel medioevo le esecuzioni avvengono con gran pompa, e si
compiono il più lentamente possibile. Può accadere che la vittima
ammonisca gli spettatori con discorsi edificanti. E" preoccupata del loro
destino: essi non dovrebbero imitarla. La vittima dimostra agli spettatori
dove si giunga con una simile vita. Essi si sentono non poco lusingati dalla
sua preoccupazione. La vittima può trovare un'ultima soddisfazione
nell'essere ancora una volta "uguale" fra loro, un buono come loro, che
insieme con loro si libera della propria vita precedente e la condanna. Il
rimorso dei malfattori o dei miscredenti, cui mirano i sacerdoti con ogni
mezzo, rispecchia oltre l'intenzione predeterminata di salvare le anime
anche questo significato: esso deve trasformare la massa aizzata nel
presentimento di una futura massa festiva. Ognuno deve sentirsi
confermato nei propri buoni princìpi, e credere nella ricompensa che
quindi gli spetterà nell'aldilà.
In tempi di rivoluzione, le esecuzioni si accelerano. Il boia parigino
Samson si vantava del fatto che i suoi aiutanti non impiegassero più di «un
minuto per persona». Molto della febbrile disposizione d'animo in tali
tempi deriva dal rapido susseguirsi di innumerevoli esecuzioni. E"
importante per la massa che il boia le mostri la testa dell'ucciso. Questo e
non altro è il momento della scarica. Chiunque fosse il proprietario della
testa, è ormai degradato; nell'attimo in cui egli fissa la massa, è una testa
come tutte le altre. Può essersi presentata sulle spalle di un re; ma, nel
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processo fulmineo di degradazione dinanzi agli occhi di tutti, è stata
parificata ad ogni altra.
La massa, qui costituita da teste che fissano, raggiunge la sensazione
della sua eguaglianza nell'istante in cui anche quella testa le rivolge lo
sguardo. Tanto più potente era stato il decapitato, tanto più grande la
distanza che prima lo separava dagli altri, tanto più grande è l'eccitazione
della scarica della massa. Se era un re o un potente di simile stile,
s'intreccia inoltre la soddisfazione del rovesciamento. Il diritto di giustizia
cruenta di cui per tanto tempo egli dispose, ora è stato rivolto contro di lui.
Coloro che egli prima fece uccidere, ora lo hanno ucciso. Il valore di tale
rovesciamento è enorme; c'è una forma di massa che si costituisce
mediante il solo rovesciamento.
L'effetto della testa, levata dinanzi alla moltitudine, non si esaurisce
per nulla nella scarica. Quando la moltitudine riconosce con grande
veemenza nella testa una delle proprie, quando la testa cade fra la
moltitudine e non è più superiore ad essa, quando tutti diventano uguali fra
loro, ogni individuo vede se stesso in quella testa. La testa tagliata è una
"minaccia". La moltitudine ha guardato con tale avidità nei suoi occhi
morti, che ormai non potrà più liberarsene. Poiché la testa appartiene alla
massa, la massa stessa è stata colpita dalla sua morte: ammalata e atterrita
segretamente, la massa comincia a disgregarsi. Si disperde ora in una sorta
di fuga dinanzi alla testa.
La massa aizzata che ha avuto la sua vittima si disgrega in modo
particolarmente rapido. I potenti minacciati sono ben coscienti di questo
fatto. Per fermare la crescita della massa, essi le gettano una vittima. Molte
esecuzioni politiche sono state ordinate solo per tale scopo. D'altra parte i
portavoce di partiti radicali spesso non sanno affatto di nuocere più a se
stessi che al partito avversario raggiungendo la loro meta: l'esecuzione
pubblica di un nemico pericoloso. Può accadere che, dopo simili
esecuzioni pubbliche, la massa dei loro seguaci si disperda, ed essi non
raggiungano più - o almeno per molto tempo - la precedente forza. Si
dovrà ancora parlare a lungo di altri motivi di tale rovesciamento, quando
ci si occuperà delle mute e in particolare della muta del lamento.
Il "disgusto" per l'uccisione collettiva è di recentissima data.
Non bisogna sopravvalutarlo. Anche oggi ognuno partecipa alle
esecuzioni pubbliche attraverso il giornale. Solo che oggi anche ciò - come
tutto - è più agevole. Non è necessario scomodarsi, e fra cento particolari
ci si può soffermare su quelli che eccitano in maggior misura. Si applaude
soltanto quando tutto è fatto, e neppure la più piccola traccia di complicità
guasta il godimento. Non si è responsabili di nulla, né della condanna, né
dei testimoni oculari, né della loro deposizione, e neppure del giornale che
ha stampato la deposizione. E però se ne sa di più che nei tempi passati,
quando bisognava camminare e stare in piedi per ore, e alla fine si vedeva
abbastanza poco. Nel pubblico dei lettori di giornali è sopravvissuta una
massa aizzata più moderata ma più irresponsabile per la lontananza dagli
avvenimenti - si sarebbe tentati di dire: la forma più spregevole e al tempo
stesso più stabile. Poiché non deve neppure radunarsi, tale forma di massa
può anche evitare la propria disgregazione; il giornale, nella sua
ripetizione quotidiana, si prende cura delle sue distrazioni.
Masse in fuga.
La "massa in fuga" è determinata dalla "minaccia". E" sua caratteristica che tutto fugga; tutto è
trascinato insieme. Il pericolo da cui si è minacciati è per tutti il medesimo; si concentra in un
determinato luogo e non fa alcuna distinzione.
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Esso può minacciare gli abitanti di una città, o tutti coloro che hanno la medesima fede o parlano la
medesima lingua. Si fugge insieme, poiché così si fugge meglio. L'eccitazione è la stessa: l'energia
degli uni accresce quella degli altri, gli uomini si spingono avanti nella stessa direzione. Fin tanto
che si resta insieme, si percepisce il pericolo distribuito su tutti. Persiste l'antichissima concezione
che il pericolo aggredirà tutti in "un solo" luogo. Mentre il nemico afferra uno, tutti gli altri possono
fuggire. I fianchi della fuga sono scoperti, ma, data la loro estensione, è impensabile che il pericolo
possa attaccare tutti insieme. Fra i tanti, nessuno crede d'essere "egli stesso" la futura vittima.
Poiché il movimento unitario serve alla salvezza di tutti, ci si sente profondamente animati dalla
raggiungibilità di quella salvezza. L'elemento più evidente della fuga di massa è la forza della sua
direzione. La massa è divenuta, per così dire, tutta direzione, via dal pericolo. Poiché conta solo la
meta presso la quale ci si salva, il percorso che vi porta e null'altro, le distanze che prima
separavano gli uomini sono ormai irrilevanti. Le più strane e contrastanti creature che non si erano
mai avvicinate le une alle altre, ora d'improvviso possono ritrovarsi insieme. Pur non cancellandosi
tutte le differenze fra loro, si aboliscono tutte le distanze. Di tutte le forme di massa, la massa in
fuga è la più ampia. L'immagine non uniforme che essa offre, non è però determinata soltanto dalla
partecipazione di tutti; essa viene ulteriormente complicata dalle diverse velocità di cui sono capaci
gli uomini in fuga. Fra di loro ci sono giovani, vecchi, forti, deboli, più o meno carichi. I molti
colori di questa immagine potrebbero confondere uno spettatore che guardasse dall'esterno. Essi
sono casuali e - in rapporto con la forza travolgente della direzione - del tutto insignificanti.
L'energia della fuga si moltiplica finché chiunque vi sia coinvolto
tiene conto degli altri: egli può spingerli innanzi ma non cacciarli da parte.
Tuttavia, a partire dall'istante in cui si pensa solo a se stessi e si
considerano i circostanti unicamente come ostacoli, il carattere della fuga
di massa cambia completamente e si tramuta nel suo opposto: diviene
"panico", lotta di ogni singolo contro tutti gli altri che gli sbarrano la
strada. Tale rovesciamento ha luogo soprattutto quando la direzione della
fuga viene ripetutamente turbata.
Basta tagliare la strada alla massa perché essa dilaghi in un'altra
direzione. Se si torna spesso a tagliarle la strada, ben presto la massa non
sa più dove dirigersi. Essa comincia a dubitare della propria direzione, e
così si altera la sua consistenza. Il pericolo che fino a quel momento
esercitava un effetto animatore e unificatore, rende l'uno nemico
dell""altro", e ciascuno cerca la salvezza unicamente per sé.
La fuga di massa, in contrasto col panico, trae la propria energia dalla
propria coesione. Fin tanto che essa non si lascia disperdere da nulla e
permane nella sua continuità inalterata, vigorosa corrente, che non si
divide, rimane anche sopportabile il timore da cui è spinta. Una sorta di
elevazione caratterizza la fuga di massa, da quando si mette in moto:
l'elevazione del movimento collettivo. Nessuno è meno in pericolo degli
altri, e sebbene ognuno corra con tutte le proprie forze o cavalchi, per
mettersi in salvo, egli ha pur sempre il posto che riconosce suo, in cui resta
in mezzo al turbamento generale.
Nel corso della fuga, che può durare per giorni e settimane, alcuni
rimangono indietro, sia che manchino loro le forze, sia che vengano colpiti
dal nemico. Ogni caduto è per gli altri un incitamento a proseguire. Il
destino che ha raggiunto il caduto li ha evitati. Il colpito è una vittima
sacrificata al pericolo.
Per quanto importante fosse stato personalmente come compagno di
fuga, tanto più importante egli diviene per tutti come caduto.
Il suo aspetto conferisce nuova forza a chi sta per soggiacere alla
fatica. Egli era più debole di loro, e il pericolo mirò su di lui. L'isolamento
in cui egli rimane indietro, in cui è visto ancora per poco, aumenta agli
occhi degli altri il valore del loro tenersi insieme. Non si sottolineerà mai
troppo il significato del caduto per la consistenza della fuga.
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La fine naturale della fuga è il raggiungimento della sua meta.
Nella sicurezza, quella massa torna a sciogliersi. Il pericolo, tuttavia,
può anche essere eliminato alla fonte. Si dichiara una tregua, e la città da
cui si è fuggiti non è più minacciata. Si ritorna uno per uno, mentre si era
fuggiti insieme; e si è tutti nuovamente divisi, come prima. Ma c'è anche
una terza possibilità che si potrebbe definire un disperdersi della fuga nella
sabbia. La meta è lontana, l'ambiente ostile, gli uomini hanno fame, e
diventano deboli e fiacchi. Crollano non solo pochi individui, ma
centinaia, migliaia. Questa disgregazione fisica avviene lentamente, e il
moto originario perdura infinitamente a lungo. Gli uomini si trascinano
ancora avanti quando ogni prospettiva di salvezza è svanita. Di tutte le
forme di massa, quella della fuga è la più tenace: fino all'ultimo istante gli
ultimi fuggiaschi rimangono insieme.
Non mancano affatto esempi di fuga di massa. I nostri tempi ne sono
nuovamente ricchi. Fino alle esperienze dell'ultima guerra, si sarebbe
pensato innanzitutto alla sorte della Grande Armée di Napoleone durante
la ritirata di Russia. Essa costituiva il caso più straordinario: la
composizione di quell'armata di uomini di tante e diverse lingue e
nazionalità, il tremendo inverno, il lunghissimo percorso che dovette
essere compiuto a piedi dalla maggior parte: quella ritirata che degenerò in
una fuga di massa, è conosciuta in tutti i particolari. Si è sperimentata per
la prima volta davvero nella stessa misura la fuga di una "metropoli"
quando i tedeschi si avvicinarono a Parigi nel 1940.
Il famoso «esodo» non durò a lungo, perché sopravvenne presto la
tregua. Ma l'intensità e l'estensione di quel movimento furono tali che esso
per i francesi divenne il principale ricordo di massa dell'ultima guerra.
Non vogliamo accumulare qui esempi del tempo più recente. In tutti
è ancora fresco il ricordo. Bisogna però sottolineare che la fuga di massa
era già nota, da sempre, agli uomini, anche quando vivevano ancora in
piccolissimi gruppi. Essa aveva già svolto la sua parte nella loro
immaginazione, prima che il loro numero permettesse di realizzarla.
Ricordiamo la visione dello sciamano esquimese:
«Lo spazio celeste è colmo di esseri nudi che giungono attraverso
l'aria. Creature umane, uomini nudi, donne nude, che vagano e suscitano la
tempesta e la tormenta. Sentite come sibila? Sibila come il battito delle ali
di grandi uccelli su nell'aria. E" la paura di uomini nudi, è la fuga di
uomini nudi!».
Masse del divieto.
Un tipo particolare di massa si forma mediante un "divieto": molte persone riunite insieme vogliono
"non" fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli. Il divieto è improvviso; essi
se lo impongono da soli. Può trattarsi di un antico divieto, che era caduto in oblio; oppure di uno
che riaffiora di tempo in tempo. Ma può anche trattarsi di un divieto completamente nuovo. In ogni
caso esso incide con la massima forza. E" categorico come un ordine; per esso è tuttavia decisivo il
carattere negativo. Non giunge mai veramente dall'esterno, anche se dovesse dare l'impressione
contraria. Esso deriva da un bisogno di coloro che lo subiscono. Appena il divieto è stato espresso,
la massa comincia a formarsi. Tutti si rifiutano di fare ciò che un mondo esterno si aspetta da
loro. D'improvviso non farebbero più per nessuna ragione ciò che fino a quel momento avevano
fatto senza molta ostentazione, come se fosse stato naturale e per nulla difficile. Dalla
determinatezza del loro rifiuto si riconosce la loro coesione. La massa dall'istante della sua nascita è
conscia dell'aspetto negativo del divieto, il quale - fin tanto che essa persiste – resta la sua
caratteristica essenziale. Si potrebbe dunque parlare anche di una massa negativa. E" costituita dalla
resistenza: il divieto è limite e diga che nulla può oltrepassare, superare. L'uno sorveglia l'altro, per
vedere se continua a far parte della diga. Chi cede e trasgredisce al divieto, diviene spregevole agli
occhi degli altri.
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L'esempio migliore della massa negativa o massa del divieto è lo
"sciopero". I lavoratori sono abituati a compiere regolarmente il loro
lavoro in tempi determinati. Vi sono molteplici tipi di produzione: ad
alcuni spetta una certa attività, ad altri un'attività completamente diversa.
Ma essi si accingono a cominciare tutti nello stesso momento, e nello
stesso momento tutti lasceranno il posto di lavoro. Essi sono uguali fra
loro rispetto al momento comune del principio e della fine del lavoro. La
maggioranza compie il proprio lavoro a mano. Essi sono anche uguali dal
punto di vista della retribuzione del loro lavoro. Ma, a seconda dell'attività
produttiva, le paghe differiscono. Come è evidente, l'uguaglianza dei
lavoratori non va molto lontano. Essa sola non è sufficiente per
determinare la formazione della massa. Se però è indetto uno sciopero, i
lavoratori divengono uguali in modo più impegnativo: nel rifiuto di
continuare a lavorare. Questo rifiuto coinvolge l'intero uomo. Il divieto di
lavorare crea un atteggiamento che si impone e può resistere.
Quello della fermata è un grande momento, celebrato nelle canzoni
dei lavoratori. Molti elementi contribuiscono alla sensazione di sollievo
con cui lo sciopero inizia per i lavoratori. La loro eguaglianza fittizia, di
cui si parla loro, ma che in realtà non va oltre la loro comune attività
manuale, diviene improvvisamente reale. Finché lavoravano dovevano
svolgere compiti diversissimi, e tutto era loro prescritto. Ma
nell'interrompere il lavoro fanno tutti la stessa cosa. Sembra che lascino
ricadere le mani tutti nello stesso momento, come se ora dovessero
impegnarsi tutti a non sollevarle più, indipendentemente da quanto
possano essere affamati. La fine del lavoro rende uguali i lavoratori. In
rapporto con l'efficacia di tale momento, le loro esigenze concrete non
pesano molto. Lo scopo dello sciopero potrebbe essere un aumento
salariale, e certamente essi si trovano anche d'accordo a questo proposito.
Ma esso da solo non sarebbe sufficiente a farne una massa.
Le mani che ricadono esercitano un'influenza di contagio su altre
mani. Ciò che esse "non" fanno si comunica all'intera società. Lo sciopero
che cresce per «simpatia», impedisce di proseguire l'attività consueta
anche a coloro che originariamente non pensavano a una fermata. Il senso
dello sciopero è che nessuno dovrebbe fare alcuna cosa finché i lavoratori
non fanno nulla; e quanto più tale intenzione si realizza, tanto più grande e
la loro prospettiva di riuscire vittoriosi nello sciopero.
Durante lo sciopero è importante che ciascuno si attenga alla parola
del divieto. Sorge spontaneamente un'organizzazione di massa dalla massa
stessa. Essa ha la funzione di uno Stato che nasce con piena coscienza
della propria breve vita e nel quale valgono soltanto poche leggi; queste
però vengono osservate nel modo più rigoroso. Picchetti sorvegliano gli
accessi alla fabbrica da cui ha avuto origine l'azione: le officine stesse sono
terreno vietato. L'interdetto che grava su di esse le libera dalla loro
quotidianità e conferisce loro una dignità del tutto particolare. La
responsabilità che si è assunta verso di esse, ne fa una proprietà collettiva.
Come tali esse sono protette e arricchite di un significato più alto. Nel loro
vuoto e nella loro quiete hanno qualcosa di sacrale. L'atteggiamento di
chiunque vi si avvicina viene controllato. Chi vi si avvicina con intenzioni
profane, e cioè vuole lavorare, è ritenuto nemico o traditore.
L'organizzazione si preoccupa di una equa distribuzione di viveri o di
denaro. Le scorte esistenti dovranno durare il più possibile. E" importante
che ciascuno riceva poco quanto gli altri. Non verrà in mente al più forte
che dovrebbe avere di più; anche l'avido sarà disposto ad accontentarsi.
Siccome di solito c'è pochissimo per tutti e il regolamento è applicato
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onestamente - cioè in pubblico - questo tipo di distribuzione contribuisce
all'orgoglio della massa per la propria eguaglianza. Intorno a una simile
organizzazione c'è qualcosa di enormemente serio e degno di stima. Non si
può far a meno di pensare alla coscienza responsabile e alla dignità di una
simile formazione, nata spontaneamente dalla base, quando si parla della
massa selvaggia e avida di distruzione. Analizzare la massa del divieto è
indispensabile anche solo per il fatto che essa presenta caratteristiche del
tutto diverse, addirittura opposte. Finché rimane fedele alla sua essenza,
essa non è disposta ad alcuna distruzione.
E" vero però che non riesce facile mantenerla in tale condizione.
Quando le cose vanno male e la penuria raggiunge una misura
difficilmente sopportabile, in particolare però quando la massa si sente
aggredita o assediata, la massa negativa tende a tramutarsi in una positiva
e attiva. Dopo un certo tempo può costare grande sforzo agli scioperanti
che hanno d'improvviso vietato alle loro mani l'attività consueta,
continuare a non far niente con esse. Appena sentono minacciata l'unità
della loro resistenza, essi tendono a distruggere, e prima di tutto a
distruzioni nella sfera dell'attività loro peculiare e familiare. Qui inizia il
compito principale dell'organizzazione; essa deve mantenere puro il
carattere della massa del divieto, e impedire ogni positiva azione singola.
Essa deve pure cogliere il momento in cui bisogna abolire il divieto al
quale la massa deve la propria esistenza. Se tale percezione coincide con la
sensazione della massa, l'organizzazione deve decidere il proprio
scioglimento, ritirando il divieto.
Masse di rovesciamento.
«Caro, buon amico, i lupi hanno sempre mangiato le pecore; questa volta saranno le pecore a
mangiare i lupi?» Questa frase si trova in una lettera che Madame Jullien scrisse al proprio figlio
durante la Rivoluzione francese. Essa contiene, in una formula concisa, l'essenza del rovesciamento.
Finora pochi lupi hanno affrontato molte pecore. Ormai è giunta l'ora per le molte pecore di volgersi
contro i pochi lupi. Si sa che le pecore non sono carnivore. Ma quella frase è significativa proprio
nella sua apparente insensatezza. Le rivoluzioni sono i periodi essenziali del rovesciamento.
Coloro che tanto a lungo furono indifesi, mettono
d'improvviso i denti. Il loro numero deve compensare ciò che manca loro
quanto a esperienza di malvagità.
Il rovesciamento presuppone una società stratificata. L'opposta
delimitazione di determinate classi, di cui una ha maggiori diritti dell'altra,
dev'essere esistita da molto, dev'essersi fatta sentire nella vita quotidiana
degli uomini prima che potesse nascere il bisogno di un rovesciamento. Il
gruppo superiore aveva il diritto di impartire ordini a quello inferiore, sia
che si trattasse di conquistatori impostisi sugli indigeni, sia che la
stratificazione fosse avvenuta mediante processi interni.
Ogni ordine lascia una penosa spina in chiunque sia stato costretto ad
eseguirlo. Parleremo più oltre, dettagliatamente, della natura di tali spine.
Gli uomini che ricevono molti ordini e quindi sono pieni di quelle spine,
provano un forte impulso a sbarazzarsene. Essi possono liberarsene in due
modi. Possono trasmettere verso il basso gli ordini che hanno ricevuto
dall'alto; perciò devono esserci degli inferiori, pronti a ricevere ordini da
essi. Possono però anche ripagare i superiori delle sofferenze che hanno
dovuto accumulare per causa loro. Un singolo, debole e privo d'aiuto, avrà
solo raramente la fortuna di farlo. Se però molti si riuniscono in una
massa, possono ottenere ciò che sarebbe stato negato ai singoli. Insieme
possono volgersi contro coloro che li hanno comandati fino a quel
momento. La situazione rivoluzionaria può essere considerata come la
condizione di tale rovesciamento. Ma la massa. la cui scarica consiste
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essenzialmente in una liberazione collettiva da «ordinispine», dev'essere
intesa come "massa di rovesciamento".
La presa della Bastiglia è considerata l'inizio della Rivoluzione
francese. Essa era cominciata già prima con un bagno di sangue fra lepri.
Nel maggio del 1789 si erano radunati a Versailles gli Stati Generali, per
discutere l'abolizione del diritto feudale, entro il quale era compreso il
diritto di caccia dei nobili. Il 10 giugno, un mese "prima" della presa della
Bastiglia, Camille Desmoulins che partecipava alle discussioni come
delegato riferiva in una lettera al padre: «I brettoni mettono in pratica
provvisoriamente alcuni articoli dei loro cahiers de doléance. Essi
uccidono le colombe e la selvaggina. Al tempo stesso, cinquanta giovani in
questa regione fanno una strage senza paragone di lepri e di conigli. Si
dice che abbiano ammazzato sotto gli occhi dei guardiani
quattrocinquemila capi di selvaggina nella pianura di SaintGermain». (17)
Prima di osare contro i lupi, le pecore si volgono verso le lepri. Prima del
rovesciamento diretto contro i superiori stessi, ci si sfoga sugli inferiori,
sugli animali da cacciare.
L'avvenimento essenziale è, poi, il giorno della Bastiglia.
L'intera città si procura armi. La sommossa è diretta contro la
giustizia reale, personificata dall'edificio assalito e conquistato. Vengono
liberati prigionieri che poi si uniranno alla massa. Vengono giustiziati il
governatore, responsabile della difesa della Bastiglia, e i suoi aiutanti. Ma
si impiccano anche dei ladri ai lampioni. La Bastiglia è rasa al suolo, viene
asportata pietra per pietra. La giustizia passa nelle mani del popolo, nei
suoi due aspetti principali, la condanna capitale e la grazia. Così, per il
momento, il rovesciamento si è compiuto.
Masse di tale specie si formano nelle circostanze più svariate; può
trattarsi di sommosse di schiavi contro i loro signori, di soldati contro gli
ufficiali, di uomini di colore contro i bianchi che vivono in mezzo a loro.
In ogni caso gli uni hanno dovuto sottostare a lungo agli ordini degli altri.
In ogni caso i ribelli sono mossi dalle loro spine, e sempre trascorre molto
tempo prima che agiscano.
Gran parte di ciò che si osserva alla superficie delle rivoluzioni
avviene però entro le "masse aizzate". Si va in caccia di singoli uomini e,
quando si catturano, si uccidono insieme, con un giudizio formale o anche
senza condanna. Ma la rivoluzione non "consiste" affatto di ciò. Non
possono bastare le masse aizzate, che presto hanno naturalmente fine. Una
volta iniziato, il rovesciamento non si arresta più. "Ognuno" cerca di
raggiungere una condizione in cui possa sbarazzarsi delle proprie spine, ed
ognuno ne ha molte. La massa di rovesciamento è un processo che
coinvolge un'intera società, e se forse da principio ha successo, raggiunge
però la fine soltanto con lentezza e con difficoltà. Tanto velocemente si
esaurisce la massa aizzata, che si trova alla superficie, quanto lentamente
si compie il rovesciamento dal basso, in molti scatti successivi.
Ma il rovesciamento può essere ancora più lento: può essere
promesso per l'aldilà. «Gli ultimi saranno i primi». Fra questa e quella
condizione, c'è la morte. Nell'altro mondo si tornerà a vivere. Chi è stato
qui il più povero, e non ha commesso niente di male, là varrà più di tutti,
continuerà ad esistere come uomo nuovo, privilegiato. Al credente viene
promessa la liberazione dalle proprie spine. Non ci si pronuncia, però,
sulle circostanze precise di tale liberazione; e se anche in futuro tutti
staranno insieme nell'aldilà, non si presenta la massa come substrato di
rovesciamento.
Al centro di questo tipo di promessa sta il concetto di resurrezione. I
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Vangeli riferiscono casi di resurrezione operati da Cristo in questo mondo.
I predicatori dei noti "Revivals"
(18) nei paesi anglosassoni si sono serviti in tutti i modi dell'efficacia
della morte e della resurrezione. I peccatori riuniti furono da loro
minacciati delle più tremende punizioni infernali, e caddero in uno stato di
angoscia quasi indescrivibile. Videro dinanzi a sé un lago spalancato di
fuoco e di zolfo, e la mano dell'Onnipotente che stava per precipitarli
nell'abisso terrifico. (19) Si dice di un simile predicatore che la violenza e
l'efficacia delle sue invettive era accresciuta dalle ripugnanti contrazioni
del suo volto e dal tuono della sua voce. Da quaranta, cinquanta, cento
miglia, gli uomini affluivano per ascoltare tali predicatori; e portavano con
sé le famiglie su carri coperti, rifornendosi di giacigli e di viveri per molti
giorni. Verso il 1800 riunioni di questo tipo fecero cadere parte dello Stato
del Kentucky in una condizione febbrile. Le riunioni si tenevano all'aperto:
nessun edificio, a quei tempi, avrebbe potuto contenere masse così grandi.
Al "meeting" di Cane Ridge, nell'agosto del 1801, si trovarono insieme
ventimila uomini. (20) Il ricordo di quel convegno non si era spento nel
Kentucky neppure dopo cent'anni.
Gli ascoltatori furono talmente atterriti dai predicatori che crollarono
e giacquero come morti. Gli ordini di Dio li minacciavano. Vennero messi
in fuga da quegli ordini e cercarono scampo in una forma di morte
apparente. Il predicatore aveva l'intenzione ben precisa e dichiarata di
«abbatterli». Era come un campo di battaglia: a destra e a sinistra intere
file cadevano a terra. Il paragone con il campo di battaglia fu avanzato dai
predicatori stessi. Questo terrore supremo e ultimo pareva loro
indispensabile per determinare il rivolgimento morale che si proponevano.
Il successo della predica fu misurato sul numero degli «abbattuti». Un
testimone oculare, che ne fece una cronaca precisa, riferisce che durante
quel "meeting" di molti giorni, tremila uomini caddero a terra svenuti:
quasi un sesto dei presenti. Tutti i caduti vennero portati in un locale di
riunione adiacente. Più della metà del pavimento era perennemente coperta
di uomini in deliquio. Molti, moltissimi, vi giacquero per ore, quieti;
incapaci di parlare o di muoversi.
Talvolta tornavano in sé per pochi istanti e emettendo un profondo
gemito, un grido penetrante o una fervida richiesta di grazia, facevano
capire d'essere vivi.
Alcuni tambureggiavano per terra con i calcagni. Altri gridavano nei
tormenti della morte e sobbalzavano intorno come pesci fuor d'acqua. Altri
si rotolavano per terra ore ed ore. E c'erano quelli che d'improvviso
balzavano selvaggiamente oltre la tribuna e i banchi per precipitarsi nel
bosco al grido: «Perduti, perduti!».
Quando i caduti tornarono in sé erano uomini diversi. Si sollevarono
ed esclamarono: «Redenzione!». Erano «neonati» e potevano ora
incominciare una vita buona e pura. Avevano lasciato dietro di sé il loro
essere di peccatori. Ma la conversione era solo degna di fede se era stata
preceduta da una specie di morte.
C'erano anche fenomeni di tipo meno estremo, che pure agivano nel
medesimo senso. Un'intera assemblea scoppiava in pianto.
Molti erano assaliti da sussulti irrefrenabili. Alcuni, di solito in
gruppi di quattro o cinque, cominciavano ad abbaiare come cani. Dopo
alcuni anni l'eccitazione assunse forma più mite e sopravvenne un «riso
sacro» (21), dapprima isolato, poi in coro.
Ma lutto ciò che accadeva, accadeva nella massa. Forme di essa più
eccitate ed a più alta tensione sono difficilmente immaginabili.
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Il rivolgimento cui si mira qui è diverso da quello delle rivoluzioni.
Si tratta della condizione degli uomini dinanzi ai comandamenti divini.
Essi finora li hanno trasgrediti. Ora li ha colti l'angoscia della punizione.
Tale angoscia, accresciuta con ogni mezzo dal predicatore, li spinge in uno
stato di assenza di coscienza. Essi si fingono morti come gli animali
fuggiaschi; ma la loro angoscia è così grande da far loro perdere davvero
coscienza. Quando tornano in sé, si dichiarano pronti ad arrendersi agli
ordini e ai divieti di Dio. Così si placa l'angoscia giunta al culmine per la
propria immediata punizione.
Il processo è per così dire una domesticazione: ci si lascia
addomesticare dal predicatore come obbedienti servitori di Dio.
In una rivoluzione - come si è detto in precedenza - si verifica un
fenomeno esattamente opposto. Là si compie infatti una liberazione dalle
spine, di cui ci si era lentamente riempiti durante la lunga sottomissione a
una signoria. Qui, si ha un nuovo assoggettamento sotto i comandamenti di
Dio, e si è dunque disposti a ricevere tutte le spine che essi possono
produrre. I due fenomeni hanno in comune soltanto la realtà di un
mutamento e la scena psichica su cui ambedue si svolgono: nell'uno e
nell'altro caso, la massa.
Masse festive.
Potrei definire un quinto tipo di masse, masse "festive". In uno spazio limitato c'è moltissimo, e i
molti che si muovono entro quell'area possono tutti parteciparvi. Il rendimento di qualsiasi coltura o
allevamento viene offerto alla vista in grandi mucchi. Cento maiali stanno legati in fila. Si sono
accatastate montagne di frutta. In enormi recipienti è stata preparata la bevanda più gradita, che ora
aspetta l'amatore. C'è più di quanto tutti insieme potrebbero consumare, e allo scopo di consumarlo
affluiscono sempre più persone. Finché resta qualcosa, esse ne prendono - e sembra che non possa
mai finire. C'è sovrabbondanza di femmine per i maschi, e sovrabbondanza di maschi per le
femmine. Nulla e nessuno li minaccia, nulla li mette in fuga; vita e piacere sono assicurati durante
la festa. Molti divieti e molte separazioni sono stati aboliti, accostamenti del tutto inconsueti
vengono consentiti e favoriti. L'atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. Non c'è
una meta comune a tutti, che tutti insieme dovrebbero raggiungere. La "festa" (22) è la meta, ed
essa è stata raggiunta. La concentrazione è molto alta, ma l'uguaglianza è per buona parte
uguaglianza di arbitrio e di piacere. Ci si spinge avanti caoticamente e non parallelamente. Le cose
che stanno là accatastate, cui si partecipa, costituiscono una parte essenziale della concentrazione, il
suo nucleo. Dapprima sono state raccolte, e soltanto quando tutte sono state riunite gli uomini
cominciano a radunarsi intorno a loro. Possono passare degli anni prima che tutto sia pronto, e si
può soffrire una lunga carestia in cambio di questa breve sovrabbondanza. Si vive nella prospettiva
del momento di festa e lo si determina coscientemente. Persone che altrimenti si vedono di rado,
sono state invitate cerimoniosamente e in gruppi. L'arrivo dei singoli contingenti è fortemente posto
in evidenza; esso accresce a scatti la gioia comune. In tali circostanze si ha la sensazione di
garantire molte feste future, partecipando al piacere comune della festa di oggi. Con danze rituali e
rappresentazioni drammatiche si ricordano occasioni simili del passato. La loro tradizione è nel
presente della festa attuale. Se si ricordano gli iniziatori primordiali di tali manifestazioni, i
promotori mitici di tutte le meraviglie di cui si gode, gli antenati o, come in società più fredde e
tardive, solo i ricchi benefattori - la ripetizione futura di simili occasioni sembra garantita in ogni
caso. Le feste si "chiamano" l'un l'altra, e attraverso la concentrazione di cose e persone si
moltiplica la vita.
La massa doppia: uomini e donne. I vivi e i morti.
Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di "conservarsi" consiste nell'esistenza di
una seconda massa cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che
si minaccino gravemente l'un l'altra; l'aspetto o l'immagine intensa di una seconda massa non
permettono alla prima di disgregarsi. Mentre in una schiera le gambe stanno accostate alle gambe,
gli occhi fissano altri occhi di fronte. Mentre le braccia si muovono in cadenza comune, le orecchie
si tendono in attesa del grido che giungerà dalla schiera opposta. Si sta con la propria gente in
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vicinanza fisica e si agisce con essa in familiare e naturale unità. All'opposto, ogni curiosità, ogni
attesa, ogni angoscia sono rivolte verso un secondo raggruppamento di uomini, separati dagli altri
da un'evidente distanza. Non appena li si vede di fronte,
si è affascinati dal loro aspetto; e anche se non si vedono, si possono
sempre sentire. Tutto ciò che fanno gli uni è condizionato dall'azione o
dall'intenzione degli altri. L'opposizione incide sulla contiguità. Il
confronto che provoca in ambedue una particolare attenzione modifica il
tipo di concentrazione all'interno di ciascun gruppo. Per un gruppo è
necessario restare insieme finché i membri del secondo gruppo non si
siano separati gli uni dagli altri. La tensione fra i due gruppi determina una
pressione sulla propria gente. Se si tratta della tensione di un gioco rituale
la pressione sembra acquistare la parvenza del pudore: si fa tutto il
possibile per non esporre il proprio fianco all'avversario. Ma se gli
avversari sono davvero minacciosi ed è in gioco la vita, quella pressione si
trasforma nella corazza di una difesa decisa e unita.
L'una massa tiene in vita l'altra, supposto che esse siano all'incirca di
pari grandezza ed intensità. Per restare massa non si deve avere avversario
troppo superiore, o almeno non lo si deve credere tale. Quando domina la
sensazione di non poter resistere, si cerca di salvarsi con la fuga di massa,
e quando tale fuga si rivela senza speranza la massa cade nel panico:
ognuno fugge da solo. Ma questo non è il caso che qui ci interessa. Alla
formazione del "sistema delle due masse" - come si può anche definire contribuisce da ambedue le parti la sensazione di forze pressoché uguali.
Se si vuole afferrare la genesi di tale sistema, occorre partire da tre
contrapposizioni di fondo. Esse si trovano ovunque siano degli uomini, e
ogni società ne è cosciente. La prima e più saliente contrapposizione è fra
uomini e donne; la seconda, fra vivi e morti; la terza, forse la sola cui oggi
si pensi quando si parla di due masse contrapposte, è quella fra amici e
nemici.
Se si considera la prima ripartizione, fra uomini e donne, non appare
subito evidente in qual modo essa abbia a che fare con la formazione di
masse particolari. Uomini e donne vivono insieme in famiglia. Essi
possono aver predisposizione ad attività diverse, ma difficilmente si
potrebbero raffigurare come due gruppi separati ed ecci tati, contrapposti
l'uno all'altro. Per ottenere un'altra immagine della forma di questa
contrapposizione, si deve ancora ricorrere a testimonianze sulle condizioni
di vita primordiali.
Jean de Léry, un giovane ugonotto francese, nel 1557 assistette a una
grande festa presso i Tupinambu del Brasile. (23)
«Ci ordinarono di restare nella casa in cui si trovavano le donne. Non
sapevamo ancora cosa stessero per fare, quando d'improvviso cominciò un
rumore molto profondo nella casa in cui si trovavano gli uomini, distante
meno di trenta passi da noi e dalle donne. Suonava come un mormorio di
preghiere.
«Appena le donne, circa duecento, lo udirono, balzarono su tutte,
tesero le orecchie e si affollarono in gruppo, strette le une alle altre. Poco
dopo gli uomini elevarono le voci. Udimmo chiaramente che tutti
cantavano insieme e si animavano sempre più ripetendo il grido: " He, he,
he, he!". Eravamo assai stupiti; le donne risposero loro emettendo il
medesimo grido: "
He, he, he, he!". Per un quarto d'ora urlarono e strillarono così forte
che non sapevamo più che faccia fare.
«Mentre urlavano, le donne balzavano in aria con gran violenza, i
petti vibranti, la bava alla bocca. Alcune caddero a terra prive di
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conoscenza, come epilettiche. Mi sembrava che il diavolo fosse entrato in
loro e ne fossero completamente invasate.
«Nelle nostre immediate vicinanze udimmo il trambusto e il chiasso
dei bambini, che si trovavano nel particolare spazio loro riservato. Sebbene
già da più di mezzo anno mi trovassi con i selvaggi e avessi anche
familiarizzato con essi, ero - non voglio nascondere nulla - completamente
atterrito. Mi chiedevo come la cosa sarebbe finita e mi auguravo di essere
di nuovo nel nostro fortino».
Il sabba delle streghe infine si placa, ammutolite le donne e i
bambini, e Jean de Léry ascolta gli uomini cantare in coro così
meravigliosamente che egli non riesce più a contenere il desiderio di
vederli. Le donne cercano di trattenerlo: conoscono il divieto e sanno che
non potranno mai passare dall'altra parte, dagli uomini. Egli tuttavia riesce
a penetrare furtivamente dall'altra parte, non gli accade nulla, e con due
compagni francesi partecipa alla festa.
Uomini e donne sono dunque rigorosamente separati gli uni dalle
altre, in abitazioni diverse, che però si trovano vicine. Essi non possono
vedersi, ma ciascun gruppo tende l'orecchio con grande attenzione ai
rumori dell'altro. Ambedue lanciano le stesse grida e partecipano sempre
più di una collettiva condizione di eccitazione di massa. Gli avvenimenti
essenziali si svolgono presso gli uomini. Anche le donne, però,
partecipano allo scatenamento della massa. E" notevole che esse, ai primi
suoni provenienti dalla casa degli uomini, si stringano in fitto gruppo, e
che, alle improvvise grida selvagge che giungono di là, rispondano esse
stesse sempre più selvaggiamente. Esse sono piene d'angoscia poiché sono
rinchiuse - non possono in alcun caso uscire -, e poiché non possono
sapere ciò che accade dagli uomini, la loro eccitazione conserva una
colorazione particolare. Esse saltano verso l'alto, così come salterebbero
fuori. I moti isterici, notati dall'osservatore, sono caratteristici di fuga di
massa impedita. E" tendenza naturale delle donne correre a rifugiarsi
presso gli uomini; ma poiché su ciò pesa un grave divieto, esse per così
dire fuggono restando sul posto.
Sono notevoli anche le sensazioni dello stesso Jean de Léry.
Egli partecipa dell'eccitazione delle donne, per quanto non possa
davvero appartenere alla loro massa. E" uno straniero, ed è un uomo. In
mezzo a loro, ma separato da loro, egli dovette temere di divenire vittima
di quella massa.
Che la partecipazione delle donne non fosse insignificante, si
apprende anche in un altro punto della relazione. Gli stregoni delle tribù o
«Caraibi» - come li chiama Jean de Léry vietano alle donne nel modo più
severo di lasciare la loro casa. Essi però ordinano loro di fare molta
attenzione al canto degli uomini.
L'influenza delle donne riunite sulla schiera dei loro uomini può
essere significativa anche quando esiste fra loro una distanza molto
maggiore. In alcuni casi le donne contribuiscono al successo di una
spedizione bellica. Si possono citare tre esempi, dall'Asia, dall'America e
dall'Africa; esempi tratti da popolazioni che non ebbero mai contatti
reciproci e certamente non esercitarono alcun influsso l'una sull'altra.
Presso i Kafir dell" Hindukush le donne eseguono la danza di guerra
mentre gli uomini sono assenti per una spedizione. (24)
Esse infondono ai guerrieri forza e coraggio e li rendono così vigili
che un nemico astuto non possa sorprenderli.
Fra i Jivaros del Sudamerica, mentre gli uomini sono impegnati in
guerra, le donne si radunano ogni notte in una determinata casa e vi
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eseguono una danza particolare, portando indosso sonagli di conchiglie e
cantando scongiuri. (25) Questa danza di guerra femminile deve avere un
potere peculiare: essa protegge i padri, i mariti e i figli dalle lance e dai
proiettili del nemico, culla il nemico in falsa sicurezza così che egli non si
accorga del pericolo se non quando è troppo tardi, e gli impedisce poi di
vendicare una sconfitta.
Nel Madagascar si chiama "Mirary" un'antica danza delle donne che
viene ballata solo al momento della battaglia. (26) Quando si annuncia un
combattimento, le donne ne vengono informate da messi. Esse allora si
sciolgono i capelli, cominciano la danza e stabiliscono in questo modo un
collegamento con gli uomini.
Quando nel 1914 i tedeschi marciarono su Parigi, a Tananarive le
donne ballarono il "Mirary" per proteggere i soldati francesi.
Sembra che avesse successo, nonostante la grande distanza.
In tutta la terra si celebrano feste nelle quali uomini e donne danzano
in gruppi separati, ma reciprocamente visibili e di solito anche
contrapposti. Non è il caso di descriverle, poiché sono generalmente note.
A ragion veduta mi sono limitato ad alcuni casi estremi in cui la
separazione, la distanza e anche la misura dell'eccitazione sono
particolarmente vistose. Su queste basi si può pienamente parlare di massa
doppia, profondamente radicata. Ambedue le masse sono reciprocamente
ben disposte. L'eccitazione dell'una deve contribuire al benessere e alla
prosperità dell'altra. Gli uomini e le donne fanno parte di "un" popolo e
dipendono gli uni dagli altri.
Invece, nei miti delle Amazzoni, che non sono affatto limitati
all'antichità greca ma di cui esistono esempi presso gli stessi indigeni del
Sudamerica, le donne si sono staccate per sempre dagli uomini e fan loro
guerra come un popolo contro un altro.
Ma prima di volgerci allo studio della guerra, in cui l'essenza
pericolosa e apparentemente inevitabile della massa doppia ha trovato la
più forte espressione, è opportuno uno sguardo alla contrapposizione
primordiale fra "vivi e morti".
Tutto ciò che accade attorno agli agonizzanti ed ai morti rivela la
concezione dell'attività di una più grande schiera di spiriti, nell'aldilà, ove
il defunto giungerà infine. Il regno dei vivi non cede volentieri chi gli
appartiene. Quella perdita lo indebolisce; e se si tratta di un uomo nel
vigore degli anni, la perdita è sentita in modo particolarmente doloroso
dalla sua gente. Essi si difendono contro tale sottrazione per quanto
possono, ma sanno che la loro difesa non servirà a molto. La massa
nell'aldilà è più grande e più forte, e l'uomo viene tratto ad essa.
Qualunque cosa si intraprenda, si resta sempre coscienti di quello
strapotere presente nell'aldilà. Ogni cosa che possa offenderlo è da evitarsi.
La massa nell'aldilà esercita un'influenza sui vivi e può nuocere loro
ovunque.
Secondo alcuni popoli, la massa dei morti è il vivaio da cui
provengono le anime dei neonati. Da essi dunque dipende se le donne
avranno figli. Talvolta gli spiriti vagano come nuvole e recano la pioggia.
Essi possono negare ai vivi le piante e gli animali di cui l'uomo si nutre.
Possono afferrare tra i vivi nuove vittime. ll proprio morto, ceduto soltanto
dopo dura resistenza, dev'essere placato ora che fa parte di quell'enorme
esercito nell'aldilà.
Il morire è dunque una lotta: lotta fra nemici di forze disuguali. Le
grida che si lanciano, le ferite che ci si infligge nel lutto e nella
disperazione, sono forse intese come espressione di tale lotta. Il morto non
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deve credere d'esser stato ceduto facilmente: per lui si è combattuto.
E" qui in gioco una lotta tutta particolare. E" una battaglia sempre
perduta, indipendentemente dal coraggio con cui la si conduce. Fin da
principio si è in fuga dinanzi al nemico, e in fondo lo si affronta solo
apparentemente, nella speranza di staccarsene con scontri di retroguardia.
La battaglia è anche simulata come lusinga per il moribondo, che presto
accrescerà le fila del nemico. Il morto che passa nell'aldilà dovrebbe essere
ben disposto o almeno non ostile verso i vivi. Se infatti egli giungesse
irato, potrebbe incitare i potenziali nemici a un nuovo e pericoloso
saccheggio.
Peculiarità di questo particolare tipo di lotta fra morti e vivi è il suo
carattere intermittente. Non si sa mai quando accadrà nuovamente
qualcosa. Forse non accadrà nulla per molto tempo. Ma non vi si può
contare. Ogni nuovo colpo giunge improvvisamente dalle tenebre. Non c'è
alcuna dichiarazione di guerra. Dopo una sola morte, tutto potrebbe essere
finito. Ma potrebbe anche continuare a lungo, come nei contagi e nelle
epidemie. Si è sempre in ritirata, e non è mai davvero la fine.
Si parlerà più oltre del rapporto fra vivi e morti. Qui si trattava
soltanto di configurare ambedue come massa doppia le cui parti si
riferiscono continuamente l'una all'altra.
La terza forma di massa doppia è la guerra. E" quella che oggi ci
interessa più da vicino. Si darebbe molto per comprenderla e scioglierla,
dopo le esperienze di questo secolo.
La doppia massa: la guerra.
In guerra si tratta di uccidere. «Le fila del nemico si sono
assottigliate». Si tratta di uccidere a "gruppi". Si abbatte il maggior numero
possibile di nemici; la massa pericolosa di avversari vivi dovrebbe
trasformarsi in un gruppo di morti. E" vincitore chi ha ucciso più nemici.
In guerra si affronta la massa crescente dei vicini. La loro crescita è di per
sé temibile. La minaccia, già contenuta nella sola crescita, crea la massa
aggressiva che spinge alla guerra. Nel corso di questa, si cerca sempre di
essere superiori, e cioè di avere sul posto il gruppo più numeroso e di
sfruttare sotto ogni aspetto la debolezza dell'avversario, prima che egli
abbia potuto aumentare il proprio numero. La conduzione della guerra è
dunque nei particolari l'esatta immagine di ciò che accade nel complesso:
si vuole essere la maggiore massa di vivi. Dalla parte opposta sia dunque il
maggior gruppo di morti. In tale gara di masse crescenti sta la ragione
essenziale, potremmo dire la più profonda ragione, delle guerre. Anziché
uccidere, si può anche catturare degli schiavi: in particolare donne e
bambini, che serviranno ad accrescere la massa. Ma la guerra non è mai
vera guerra, se non si punta dapprima su di un gruppo di morti nemici.
Tutte le parole anche troppo consuete per avvenimenti bellici, nelle
lingue antiche e moderne, esprimono precisamente questo rapporto. Si
parla di «Schlacht», (27) di «Gemetzel». (28) Si parla di «Niederlage».
(29) Fiotti di sangue arrossano i fiumi.
Il nemico viene abbattuto fino all'ultimo uomo. E ci si batte «fino
all'ultimo uomo». Non si fa «grazia a nessuno».
E" però significativo notare che anche il "gruppo dei morti" è sentito
come "unità" e in alcune lingue designato da parole particolari. La parola
tedesca «Walstatt», "campo di battaglia", contiene l'antica radice «wal»
che significa «i rimasti sul campo di battaglia». L'antico scandinavo «valr»
significa «le salme sul campo di battaglia»; «valhall» non è altro che «la
sede dei guerrieri caduti». Mediante apofonesi dall'anticoaltotedesco
(althochdeutsch) «wal», è derivata la parola «wuol» che significa
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«sconfitta». Ma in anglosassone la parola corrispondente, «wol», significa
«peste», «contagio». Si tratti di rimasti sul campo, di sconfitta, di peste o
di contagio, è comune a tutte queste parole l'immagine di un "gruppo di
morti".
Ma tale immagine non è affatto solo germanica. Si trova ovunque.
In una visione del profeta Geremia tutta la terra appare come un solo
campo di cadaveri che si decompongono. «Là giaceranno nello stesso
istante gli uccisi dal Signore, da un'estremità all'altra della terra; non
saranno né lacrimati, né portati via, né sepolti, ma dovranno giacere sul
campo e divenire concime ». (30)
Il profeta Maometto ha un senso così forte del gruppo dei nemici
uccisi, da rivolgersi ad essi in una sorta di predica trionfale.
(31) Dopo la battaglia di Bedr, prima grande vittoria sui suoi nemici
della Mecca, egli «fece gettare in una cisterna i nemici uccisi. Solo uno di
essi fu sepolto sotto terra e pietre poiché era tanto gonfiato che non gli si
poteva facilmente levare la corazza: così rimase solo, e lo si lasciò giacere.
Appena gli altri furono gettati nella cisterna, Maometto vi si pose dinanzi e
gridò: "O voi, uomini della cisterna! Si è compiuta la promessa del vostro
Signore? Io ho trovato vera la promessa del mio Signore". I suoi compagni
dissero: "Oh, inviato di Dio! Ma sono cadaveri!". Maometto rispose: "Essi
sanno "lo stesso" che la promessa del Signore si è compiuta"».
Così egli ha radunato coloro che prima non volevano ascoltare le sue
parole; nella cisterna essi sono ben sistemati e stretti gli uni agli altri. Non
conosco alcun esempio più impressionante di questo resto di vita e
carattere di massa, attribuiti al gruppo dei nemici morti. Essi non
minacciano più, ma possono essere minacciati. Ogni infamia verso di loro
rimane impunita. Ne abbiano o meno la percezione, si suppone che essi
effettivamente se ne accorgano perché così si può meglio innalzare il
proprio trionfo. La loro condizione comune nella cisterna è tale che
nessuno di loro potrebbe muoversi. Se uno di loro si ridestasse avrebbe
solo morti intorno a sé, e proprio la sua gente gli toglierebbe il respiro; il
mondo in cui ritornerebbe sarebbe un mondo di morti, composto di coloro
che gli erano più vicini.
Fra i popoli dell'antichità gli Egizi non furono considerati
essenzialmente bellicosi; l'energia dell'Antico Impero era rivolta più alla
costruzione delle piramidi che alle conquiste.
Anch'essi, tuttavia, durante quel periodo intrapresero alcune
campagne. Une, un giudice di alto grado, nominato dal re Pepy
comandante contro i beduini, ne trae la seguente immagine. Une (32) dice
di se stesso nella sua tomba:
«Questo esercito marciò felice e frantumò il paese dei beduini.
Questo esercito marciò felice e distrusse il paese dei beduini.
Questo esercito marciò felice e travolse le loro torri.
Questo esercito marciò felice e tagliò i loro fichi e le loro viti.
Questo esercito marciò felice e gettò il fuoco in tutti i loro villaggi.
Questo esercito marciò felice e là macellò truppe a decine di
migliaia.
Questo esercito marciò felice e riportò prigionieri di là, una grande
moltitudine».
La forte immagine di distruzione culmina nella riga che annuncia le
decine di migliaia di nemici abbattuti. Nel Nuovo Impero, poi, gli Egizi
intrapresero una politica di pianificata aggressione, anche se non per molto
tempo. Ramesse Secondo condusse lunghe guerre contro gli Hittiti. In un
inno di lode si dice di lui:
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«Colui che schiaccia il paese degli Hittiti e ne fa un "mucchio di
cadaveri", come Sechmet quando è irata dopo la "peste"». (33)
Già nel mito la dea Sechmet dalla testa leonina ha compiuto fra gli
uomini indocili una terribile strage. Essa resta la dea della guerra e del
massacro. Il poeta dell'inno di lode, tuttavia, lega l'immagine del mucchio
di cadaveri hittiti a quella delle vittime di un contagio; un rapporto che per
noi non è nuovo.
Nella sua famosa narrazione della battaglia di Kadesh, (34)
combattuta contro gli Hittiti, Ramesse Secondo racconta come egli fosse
rimasto isolato dai suoi, e con quale forza e coraggio sovrumani abbia
vinto da solo la battaglia. La sua gente constatò che «tutti i popoli fra cui
mi ero spinto giacevano là nel loro sangue dopo la strage, con tutti i
migliori guerrieri hittiti, e i figli e i fratelli del loro principe. Io avevo fatto
sì che il campo di Kadesh divenisse bianco, e non si poteva camminare per
la loro moltitudine». E" la moltitudine dei cadaveri e delle loro vesti
bianche che muta il colore del campo: frase sommamente terrifica e
plastica per il risultato di una battaglia.
Ma questo risultato può essere osservato solo dai combattenti.
La battaglia si è svolta lontano, e anche il popolo rimasto in patria
vuole avere qualcosa dal mucchio di morti nemici.
Ingegnosamente gli si insegna a ottenere tale soddisfazione. Il
successivo sovrano, Merenptah, figlio di Ramesse Secondo, narra come fu
vinta una grande battaglia contro i libici. (35) Il loro intero accampamento
con tutti i suoi tesori e con la famiglia del principe cadde nelle mani degli
egizi, venne saccheggiato e incendiato. 9376 prigionieri completarono il
bottino. Ma non bastava ancora; per dimostrare al popolo rimasto in patria
il numero dei morti, si tagliarono i genitali ai caduti; nel caso in cui fossero
già tagliati, ci si accontentò delle mani, e tutto questo bottino venne
caricato sugli asini.
Successivamente, anche Ramesse Terzo combatté contro i Libici.
(36) In quell'occasione il numero dei trofei ammontò a 12535 pezzi.
Questi cumuli raccapriccianti evidentemente non sono altro che una
riduzione del gruppo dei morti nemici, trasportabile e resa evidente per
tutto il popolo. Ogni caduto contribuisce in qualche misura al gruppo con
il proprio corpo; ed è importante che essi, come trofei, divengano tutti
uguali.
Altri popoli mirano piuttosto alle teste. Presso gli Assiri c'era un
premio sulla testa di ogni nemico; ogni soldato si sforzava di ottenerne il
più possibile. Su di un rilievo del tempo del re Assurbanipal si vedono gli
scribi, nelle loro grandi tende, in atto di registrare il numero delle teste
tagliate. (37) Ogni soldato porta loro le teste, le ammucchia, comunica il
suo nome e il suo reparto, e se ne va. I sovrani assiri nutrivano una vera
passione per quei cumuli di teste.
Quando si trovavano presso l'esercito, presiedevano essi stessi alla
consegna dei trofei e spartivano i premi fra i soldati. E quando erano
lontani si facevano arrivare gli interi mucchi di teste; e se ciò non era
possibile dovevano accontentarsi di quelle dei comandanti nemici.
Lo scopo immediato e molto concreto della guerra è dunque chiaro.
Sarebbe superfluo cercarne ulteriori illustrazioni. La storia ne è davvero
prodiga. Si ha l'impressione che essa le prediliga e che non senza grandi e
ripetuti sforzi sia stata indotta a volgersi verso altre memorie delle vicende
umane.
Se si considerano insieme ambedue le parti combattenti, la guerra
offre l'immagine di "due masse doppiamente intrecciate".
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L'esercito più grande possibile tende a determinare il più grande
gruppo possibile di nemici morti. Esattamente lo stesso si può dire per la
parte opposta. L""intreccio" deriva dal fatto che ogni partecipante a una
guerra appartiene sempre, simultaneamente, a "due" masse: per la propria
gente, egli appartiene al numero dei guerrieri viventi, per l'avversario al
numero dei morti potenziali e augurabili.
Per mantenere vivo lo stato d'animo guerresco, bisogna innanzitutto
ripetere continuamente che si è forti, cioè che il proprio esercito è
composto di moltissimi combattenti, e in secondo luogo far notare quanto
sia già grande il numero dei nemici morti. Dai tempi antichissimi, le
cronache di guerra sono caratterizzate da questa doppia statistica: tanti
soldati della propria gente hanno combattuto, e tanti nemici sono morti. Si
è sempre portati a esagerare, specialmente sul numero dei nemici morti.
Durante la guerra non si ammetterà che il numero dei nemici ancora
in vita sia troppo forte. Anche se lo si sa, lo si tace, e si cerca di rimediare
a questo inconveniente distribuendo opportunamente le truppe
combattenti. Come già s'è detto, si fa di tutto per ottenere una superiorità
sul campo mediante la facile manovrabilità e mobilità dei reparti. Solo
"dopo" la guerra si parlerà di quante perdite si siano subite.
Il fatto che le guerre durino così a lungo e continuino ad essere
combattute anche quando sono già perse da tempo, è collegato al più
profondo impulso della massa, di mantenersi nel suo stato vigile, di non
disgregarsi, di restare massa. Questa sensazione è a volte così forte da far
preferire di morire con gli occhi bene aperti, anziché riconoscere la
sconfitta e sperimentare la disgregazione della propria massa.
Ma come avviene la "formazione" della massa bellica? Cosa crea, da
un attimo all'altro, questa coesione spaventosa? Cosa spinge d'improvviso
l'uomo a mettere in gioco tanto, e tutto? Questo processo resta così
enigmatico che bisogna accostarvisi con qualche cautela.
E" un'impresa davvero stupefacente. Si conclude d'essere minacciati
dalla distruzione fisica, e si proclama questo pericolo pubblicamente
dinanzi al mondo. «Io potrei essere ucciso», si dichiara, e si aggiunge fra
sé: «perché vorrei uccidere questo o quello». In verità l'accento dovrebbe
essere collocato sulla seconda parte della frase: «Vorrei uccidere questo o
quello, e perciò potrei essere ucciso anch'io». Ma in vista dell'inizio della
guerra, del suo "scoppio", per la genesi dell'atteggiamento bellico presso la
propria gente, si ammette soltanto la prima versione. Si sia o meno gli
aggressori, si cercherà sempre di creare la finzione d'essere minacciati.
La minaccia consiste nel fatto che qualcuno si riconosca il diritto di
uccidere. Ogni individuo di un gruppo sottostà alla medesima minaccia;
rivolgendosi contro ognuno, la minaccia rende tutti uguali. Da un
determinato momento che è lo stesso per tutti, e cioè dall'istante della
dichiarazione di guerra, la medesima cosa può accadere a ognuno.
L'annientamento fisico, contro il quale si è altrimenti difesi dalla vita nella
propria società, si fa vicinissimo proprio a causa di quella società,
dell'appartenenza a essa. Su tutti coloro che costituiscono un determinato
popolo sembra quasi pendere la più terribile delle minacce. Migliaia di
persone, a ciascuna delle quali è stato detto nel medesimo istante: «Tu
dovrai morire», si riuniscono fra loro per allontanare il pericolo di morte.
Esse cercano di attrarre rapidamente tutti coloro che potrebbero cadere
sotto la medesima minaccia; si radunano in grandi concentrazioni e, per la
difesa, si sottomettono a una direzione comune delle operazioni.
Da ambedue le parti, gli interessati generalmente si trovano insieme
molto presto, sia in termini fisici, sia in termini di immagine e sensazione.
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Lo scoppio di una guerra è innanzitutto lo "scoppio di due masse". Una
volta costituita, ciascuna di tali masse si preoccupa essenzialmente di
"durare" nell'atteggiamento e nell'azione, il cui abbandono significherebbe
una rinuncia alla vita stessa. La massa bellica agisce sempre come se tutto
"all'esterno" di essa fosse "morte"; il singolo, per quante guerre abbia
sperimentato, durante un nuovo conflitto si lascerà prendere dalla
medesima illusione.
La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev'essere
proclamata come "condanna collettiva" perché ci si possa opporre ad essa
attivamente. Ci sono, per così dire, "dichiarati tempi di morte" durante i
quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto
arbitrariamente. «Ora si va contro tutti i francesi», oppure «Ora si va
contro tutti i tedeschi». L'entusiasmo con cui gli uomini accolgono una
dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo
dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. E" già
più facile in due, quando due nemici eseguono per così dire la reciproca
condanna; e non è più affatto la medesima morte quando migliaia la
affrontano insieme.
Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra - e cioè morire
"insieme" -, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di
tutto.
Ma essi non pensano nemmeno che quel peggio possa accadere.
Vedono la possibilità di allontanare e di trasferire su altri la condanna
che è stata pronunciata contro di loro. Il loro "paramorte" ("Todableiter") è
il nemico, e devono quindi preoccuparsi soltanto di precederlo. Si deve
soltanto essere veloci e non esitare un istante nel somministrare la morte. Il
nemico giunge come se fosse chiamato; egli ha pronunciato la condanna,
egli per primo ha detto: «Morite!». Ciò che egli ha rivolto contro gli altri,
ricade su di lui. E" sempre il nemico che così ha cominciato. Se forse non
lo ha espresso per primo, lo ha pur sempre progettato; e se non lo ha
progettato, vi ha almeno pensato; e se non vi ha già pensato, vi avrebbe
certo pensato. La morte come desiderio si trova davvero ovunque, e non è
necessario scavare molto nell'uomo per trarla alla luce.
La singolare e inconfondibile tensione che caratterizza tutti i processi
bellici ha due cause: "si vuole precedere la morte" e "si agisce in massa".
Senza la seconda, la prima non ha alcuna prospettiva di successo. Per la
durata della guerra si deve restare massa; e la guerra è veramente terminata
quando non si è più massa. La prospettiva di una certa durata per la massa
come tale, ha contribuito molto al favore delle guerre. Si può dimostrare
che la concentrazione e la durata delle guerre nei tempi moderni è
collegata alle masse doppie molto maggiori, che si colmano del sentimento
bellico.
Cristalli di massa.
Definisco cristalli di massa quei piccoli e rigidi gruppi di uomini, ben
distinti gli uni dagli altri e particolarmente durevoli, che contribuiscono
alla formazione delle masse.
E" importante che si possano osservare globalmente tali gruppi,
cogliendoli in un solo sguardo. La loro unità conta molto più della loro
grandezza. La loro attività dev'essere nota, occorre sapere a cosa essi
servano. Un dubbio sulla loro funzione li priverebbe d'ogni senso; nella
migliore delle ipotesi, essi rimangono sempre uguali a se stessi.
Dovrebbero essere inconfondibili. Sono loro molto opportuni una divisa o
un determinato luogo d'azione.
Il cristallo di massa è "durevole". Esso non altera mai la propria
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grandezza. Coloro che vi appartengono sono addestrati nella loro attività o
nel loro modo di concepire le cose. Essi possono avere funzioni suddivise,
come in un'orchestra, ma è importante che si manifestino come insieme.
Chi li vede o li sperimenta deve sentire innanzitutto che essi non si
disgregheranno mai. La loro vita all'esterno del cristallo non conta. Anche
quando si tratta di una professione, come nel caso dei musicisti d'orchestra,
non si penserà mai alla vita privata: essi sono l'orchestra. In altri casi essi
vestono l'uniforme e si presentano solo così tutti insieme. Appena levata
l'uniforme, sono uomini completamente diversi. Soldati e monaci si
possono definire la forma più importante di questo tipo. Nel loro caso
l'uniforme significa che gli appartenenti a un cristallo "abitano" insieme;
anche se essi si presentano isolatamente, si pensa sempre alla salda unità
cui appartengono: il convento o il reparto dell'esercito.
La chiarezza, l'isolamento e la costanza del cristallo, spiccano
paurosamente dalle agitazioni all'interno della massa. Il processo di
crescita rapida e incontrollata, e la minaccia di disgregazione, che
conferiscono alla massa la sua singolare irrequietezza, non agiscono
all'interno del cristallo. Anche nella massima eccitazione, il cristallo risalta
sempre nella massa. Qualunque massa esso provochi e in qualsiasi misura
ne sia assorbito, non perderà mai del tutto il senso della sua individualità, e
si ristabilirà subito dopo la disgregazione della massa stessa.
La massa "chiusa" si distingue dal cristallo non solo per la sua
maggiore ampiezza, poiché possiede anche un senso più spontaneo di sé e
non può permettersi alcuna effettiva ripartizione di funzioni. Con il
cristallo essa non ha in comune molto di più della limitatezza e della
ripetizione regolare. Nel cristallo tutto è limite; ogni singolo che vi
appartiene è nella struttura un limite. Alla massa chiusa, invece, sono posti
limiti solo alle estremità: per esempio, nella forma e nella grandezza di un
edificio in cui si raduna. All'interno di quei limiti, là dove chiunque vi
appartiene urta contro gli altri, la massa rimane fluida e sono possibili in
ogni momento sorprese e mutamenti di comportamento improvvisi,
inaspettati. Sempre, anche in tale condizione limitata, la massa può
raggiungere un grado di concentrazione e di intensità che porta al suo
scoppio. Il cristallo di massa è invece assolutamente statico. Il suo tipo di
attività gli è prescritto. Esso è perfettamente cosciente di ogni sua
manifestazione o movimento.
Anche la permanenza "storica" del cristallo di massa è stupefacente.
E", sì, vero che ogni giorno compaiono forme nuove, tuttavia le vecchie
forme sopravvivono pertinaci al loro fianco. Possono per un certo periodo
ritrarsi nello sfondo e divenire meno acute e indispensabili. Forse le masse
che appartenevano loro sono scomparse o furono completamente
soppresse. Come gruppi innocui, privi di qualsiasi influenza verso
l'esterno, i cristalli continuano a vivere di per sé.
Permangono piccoli gruppi di comunità religiose in paesi che nel loro
complesso hanno mutato fede. L'istante in cui essi saranno utili tornerà
sicuramente, così come si è certi che nasceranno nuovi tipi di massa, che
essi potrebbero eccitare e provocare.
Tutti i gruppi in riposo irrigiditi di questo tipo possono essere fatti
riaffiorare e riattivati. Essi possono venir nuovamente richiamati in vita e
reimpiegati con modifiche minime della conformazione di cristalli di
massa. Non c'è rivolgimento politico di una certa entità che non ricordi i
vecchi gruppi deposti, non li afferri, li galvanizzi e li impieghi con tale
intensità che essi appaiono del tutto nuovi e pericolosamente attivi.
Vedremo più oltre come funzionino in particolare i cristalli di massa.
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Solo in base a casi concreti si può precisare in quale modo essi provochino
la formazione di masse. I cristalli sono variamente conformati, e quindi
portano a masse del tutto diverse le une dalle altre. Nel corso di questa
indagine, quasi senza accorgersene si conoscerà tutta una serie di tali
masse.
Simboli di massa.
Definisco "simboli di massa" le unità collettive che non sono
costituite da uomini e tuttavia vengono sentite come masse. Tali unità sono
il grano, la foresta, la pioggia, il vento, la sabbia, il mare e il fuoco.
Ciascuno di questi fenomeni contiene caratteristiche essenziali della
massa. Pur non essendo costituito da uomini, esso ricorda la massa e sta
simbolicamente al suo posto nel mito e nel sogno, nel discorso e nel canto.
Conviene distinguere in modo preciso e inconfondibile questi simboli
dai "cristalli". I cristalli di massa si presentano come un gruppo di uomini
che spicca per la sua coesione e unità. Essi sono intesi come unità, sono
vissuti come unità, ma sempre sono composti da uomini che davvero
agiscono - soldati, monaci, un'intera orchestra. I simboli di massa invece di
per se stessi non sono mai uomini, e vengono soltanto "sentiti" come
massa.
Un loro esame approfondito può sembrare, a prima vista, non
appropriato al tema. Vedremo però che così sarà possibile avvicinare la
massa stessa in modo nuovo e fruttuoso.
L'osservazione dei suoi simboli fa cadere su di essa una luce
naturale; sarebbe sciocco chiudersi dinanzi a tale luce.
FUOCO.
Del fuoco potremmo dire per prima cosa che dappertutto è uguale:
sia piccolo o grande, si appicchi qui o là, duri molto o poco, per la nostra
immaginazione ha sempre qualcosa di simile, indipendentemente dalle sue
cause. L'immagine del fuoco è per noi come una bruciatura, forte,
inestinguibile e determinata.
Il fuoco dilaga; è contagioso e insaziabile. La veemenza con cui
afferra intere foreste e steppe, intere città, è una delle sue caratteristiche
più impressionanti. Prima dell'incendio, ogni albero stava presso gli altri
alberi, ogni casa presso le altre case, ben separati, singoli. Ma ciò che era
separato è destinato ad essere unito in breve tempo dal fuoco. Gli oggetti
diversi e isolati vengono tutti assorbiti nelle medesime fiamme, e
divengono così uguali da sparire interamente: case, creature, tutto è
afferrato dal fuoco. Esso è contagioso: appare ogni volta stupefacente
l'impotenza a difendersi dal contatto delle fiamme. Quanto più una cosa è
viva, tanto meno può difendersi; solo le cose più inanimate, i minerali,
possono tollerare il fuoco. La sua rapida spietatezza non conosce limite.
Esso vuol contenere tutto, non ne ha mai abbastanza.
Il fuoco può nascere ovunque: la sua fulmineità. Non sorprende
nessuno che qui o là sia scoppiato un incendio; ovunque ci si aspetta un
fuoco. Ma la sua fulmineità è sempre impressionante, e si indagherà sulle
cause dell'incendio. Il fatto che esse sovente non siano rintracciabili,
contribuisce alla sensazione di rispetto collegata con la concezione del
fuoco. Gli è propria una misteriosa onnipresenza: può manifestarsi in ogni
istante e ovunque.
Il fuoco è molteplice. Non soltanto si è sempre coscienti della
presenza del fuoco in molti, innumerevoli luoghi; anche il singolo fuoco è
molteplice: si parla di fiamme e di lingue. Nei "Veda" il fuoco è chiamato
«l'unico Agni, il molteplicemente infiammato». (38)
Il fuoco è distruttore; può essere combattuto e domato: si estingue. Il
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suo naturale avversario è l'acqua che lo affronta sotto forma di fiumi e di
temporali. Quell'avversario c'è da sempre, e con tutte le sue caratteristiche
multiformi è pari al fuoco. La loro inimicizia è proverbiale. «Fuoco e
acqua» è l'espressione dell'inimicizia più estrema e implacabile. Nelle
antiche figurazioni della fine del mondo prevale l'uno o l'altra. Il diluvio
pone fine a ogni vita nell'acqua. L'incendio universale distrugge il mondo
col fuoco. Talvolta appaiono ambedue, reciprocamente limitati, in una
stessa mitologia. Ma l'uomo nella sua esistenza temporale ha imparato a
dominare il fuoco. Non solo egli riesce sempre a contrapporre l'acqua al
fuoco, ma è anche riuscito a conservare la fiamma. La tiene prigioniera in
focolai e stufe. La nutre come si nutrono gli animali; può lasciarla morire
di fame, può anche soffocarla.
Così già si accenna all'ultima importante caratteristica del fuoco: lo si
tratta come se fosse vivo. Ha una vita inquieta, e finisce per estinguersi.
Anche se viene completamente soffocato in un luogo, sopravvive altrove.
Se riuniamo insieme queste singole caratteristiche del fuoco, ne
risulta un'immagine sorprendente: esso è dappertutto uguale; dilaga
rapidamente; è contagioso e insaziabile; esso può nascere ovunque,
fulmineamente; è molteplice; è distruttore; ha un solo nemico; si estingue:
agisce come se fosse vivo, e così viene trattato. Tutte queste caratteristiche
sono quelle della massa; sarebbe difficile trovare una coincidenza più
precisa con i suoi attributi. Consideriamoli uno per uno. La massa è
dovunque uguale; è essenzialmente la stessa nelle epoche e presso le
civiltà più diverse, fra uomini di ogni origine, lingua, formazione.
Ovunque sia nata, essa dilaga intorno con la massima veemenza. Pochi
possono resistere al suo contagio: vuol sempre continuare a crescere e non
ha limiti all'interno. Può nascere ovunque uomini siano insieme; la sua
spontaneità e la sua fulmineità sono spaventose. E" molteplice e
interdipendente; innumerevoli uomini la compongono, e non si sa mai
quanti siano esattamente. La massa può essere distruttrice. Viene smorzata
e domata. Essa si cerca un avversario. Si estingue improvvisamente così
come era nata, e spesso altrettanto inspiegabilmente; e si capisce che essa
abbia la sua vita inquieta e intensa. Queste analogie tra fuoco e massa
hanno determinato il loro stretto intreccio. Fuoco e massa si trasformano
l'uno nell'altra e possono stare l'una al posto dell'altro. Fra i simboli di
massa che sono stati sempre efficaci nella storia dell'umanità, il fuoco è
uno dei più importanti e mutevoli. Bisogna esaminare più a fondo alcuni di
tali rapporti tra fuoco e massa.
Fra i tratti pericolosi della massa più spesso sottolineati, spicca
particolarmente la tendenza incendiaria. Tale tendenza ha un'importante
radice nell""incendio della foresta". La foresta, di per sé antichissimo
simbolo di massa, viene spesso incendiata dagli uomini che vogliono avere
maggiore spazio per i loro insediamenti. Si può supporre ragionevolmente
che gli uomini abbiano imparato a maneggiare il fuoco negli incendi delle
foreste. Tra foresta e fuoco c'è un vincolo evidente e primordiale. I campi
sono destinati a prendere il posto delle foreste bruciate, e se i campi
dovranno essere ingranditi bisognerà abbattere sempre nuove foreste.
Gli animali "fuggono" dalla foresta incendiata. L'angoscia di massa è
la reazione naturale, si potrebbe dire perenne, degli animali dinanzi al
grande fuoco, e un tempo fu anche la reazione degli uomini. Questi
tuttavia si sono impossessati del fuoco, tengono in mano l'incendio e non
devono temerlo. Alla vecchia angoscia se n'è sovrapposta una nuova, e
ambedue si sono unite in stupefacente alleanza.
La massa che un tempo dinanzi al fuoco fuggiva, ora si sente attratta
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da esso con la massima forza. E" noto l'effetto magico degli incendi su
uomini di ogni tipo. Essi non si accontentano dei focolari e delle stufe che
ogni gruppo insediato mantiene privatamente per sé; vogliono un fuoco
visibile da lungi, per starvi intorno e radunarsi tutti presso di esso. Una
strana inversione dell'antica angoscia di massa impone loro di accorrere sul
luogo dell'incendio, purché sia abbastanza grande; là essi percepiscono
qualcosa del calore luminoso che prima li univa. Nei periodi di pace essi
devono spesso rinunciare per molto tempo a tale esperienza. Uno dei più
forti istinti di massa è quello che la spinge, appena formata, a procurarsi il
fuoco da sola e ad usarne la forza d'attrazione per favorire la propria
crescita.
Una piccola sopravvivenza di questi importanti e antichi rapporti sta
oggi nelle tasche di ognuno di noi: la scatola dei fiammiferi. Essa
costituisce, ben uniformemente, una foresta di singoli tronchi, ciascuno dei
quali è munito di una testa infiammabile. Si potrebbero accendere in parte
o tutti insieme, e si provocherebbe così artificialmente l'incendio di una
foresta. Si potrebbe aver la tentazione di farlo, ma di solito vi si rinuncia
poiché le dimensioni minime di tale avvenimento gli toglierebbero tutto
l'antico splendore.
L'attrazione del fuoco può andare però molto oltre: non solo gli
uomini vi accorrono e lo circondano, ma, secondo alcune antiche
consuetudini, vi si identificano. Uno dei migliori esempi in proposito e la
celebre danza del fuoco degli indiani Navajos.
«I Navajos del Nuovo Messico preparano un gigantesco fuoco,
attorno al quale danzano l'intera notte. Fra il tramonto e l'alba vengono
ritualmente rappresentati undici atti diversi.
Appena il disco del sole è scomparso, i partecipanti alla cerimonia
danzano selvaggiamente nella radura, seminudi, imbrattati di colore,
lasciando roteare intorno a sé i loro lunghi capelli. Portano bastoni di
danza con pennacchi alla sommità, e a balzi selvaggi si avvicinano alle alte
fiamme.
Questi indiani danzano con impacciata goffaggine, metà accoccolati,
metà carponi. E in realtà il fuoco è così ardente che gli attori rituali devono
strisciare a terra per avvicinarvisi. Essi cercano di porre tra le fiamme le
piume dei bastoni di danza. Viene alzato un disco che rappresenta il sole, e
attorno ad esso continua la danza selvaggia. Ogni volta che il disco è
abbassato e poi rialzato, inizia una nuova danza. Verso l'alba le cerimonie
sacre volgono alla fine. Avanzano uomini imbrattati di bianco che
accendono pezzi di corteccia alle braci morenti, poi si lanciano di nuovo in
una selvaggia caccia intorno al fuoco, gettandosi addosso scintille, fumo e
tizzoni ardenti. Essi si buttano proprio in mezzo alle braci, fidando
nell'argilla bianca che dovrebbe proteggerli dalle scottature più gravi».
(39)
Danzano il fuoco, divengono il fuoco. I loro movimenti sono quelli
delle fiamme. Ciò che tengono in mano e incendiano dovrebbe farli
apparire incendiati essi stessi. Alla fine, soffiano via dalle ceneri le ultime
faville fin quando il sole sorge: il sole si riprende così il fuoco che aveva
affidato loro al tramonto.
Qui il fuoco è ancora massa vivente. Così come altri indiani nella
danza divengono bufali, questi nella danza rappresentano il fuoco. Più
tardi il fuoco vivente nel quale si trasformano i Navajos diverrà un mero
simbolo di massa.
Per qualsiasi simbolo di massa conosciuto è possibile identificare la
massa concreta di cui esso si nutre. In questi casi non ci si basa solo su
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supposizioni. La tendenza degli uomini a divenire fuoco e a riattivare
questo antico simbolo è forte anche in civiltà più tardive e complesse. Città
assediate, prive ormai di speranza di soccorso, spesso si appiccano fuoco.
Re con la loro corte, giunti in situazioni senza uscita, scelgono la
morte per fuoco. Di ciò si trovano esempi tanto nelle antiche civiltà
mediterranee quanto in India e in Cina. Il medioevo, che credeva nelle
fiamme dell'inferno, si accontentava di singoli eretici, bruciati al posto
della folla radunata per l'esecuzione: in tal modo si delegavano, per così
dire, i propri rappresentanti nell'inferno e anche ci si assicurava che
bruciassero davvero. Un'analisi dell'importanza assunta dal fuoco nelle
diverse religioni sarebbe estremamente interessante; essa tuttavia avrebbe
valore solo se fosse sufficientemente ampia: dovrà perciò esser rimandata.
Fin d'ora però mi sembra opportuno indagare sul significato che gli
"impulsi ad appiccare il fuoco" hanno per il singolo nel quale insorgono:
per il singolo che effettivamente è isolato e non appartiene alla sfera di una
convinzione religiosa o politica.
Kräpelin narra il caso di una donna vecchia e sola, che durante la sua
vita appiccò circa venti incendi dolosi, i primi durante l'infanzia. Per sei
volte essa fu accusata di incendio doloso e trascorse in carcere più di
ventiquattro anni. (40) «Oh se questo o quello si incendiasse!» pensava
sempre tra sé: era la sua idea fissa. Specialmente quando aveva in tasca dei
fiammiferi, pareva spinta verso il fuoco da una forza invisibile. Amava
stare a vedere il fuoco, ma anche lo "confessava" volentieri e con molti
particolari. Fin da principio essa doveva aver sperimentato il fuoco come
un mezzo per attirare l'attenzione della gente. Probabilmente l'affollamento
attorno a un incendio era stato la sua prima impressione della massa. In tali
casi il fuoco può facilmente prendere il posto della massa stessa.
Nell'accusare e autoaccusarsi, la donna era spinta dalla sensazione che tutti
guardassero verso di lei. Essa voleva essere guardata, e lo otteneva
mediante il fuoco che attrae gli sguardi di tutti. Il suo rapporto con
l'incendio doloso aveva dunque carattere duplice. Da un lato, essa voleva
far parte della massa che fissa il fuoco: il fuoco è simultaneamente negli
occhi di tutti, e li riunisce sotto "una sola" potente coercizione. Per la sua
triste preistoria personale, che la rese isolata fin dall'infanzia, quella donna
non ebbe mai la possibilità di far parte positivamente di una massa, e tanto
meno durante gli interminabili anni di carcere. Poi, quando fu avviato il
primo processo dell'incendio e la massa minacciò di nuovo di sfuggirle,
essa la mantenne in vita negli istanti in cui d'improvviso trasformava se
stessa in fuoco. E ciò accadeva in modo molto semplice: essa confessava
l'incendio doloso. Quanto più dettagliata era la sua narrazione, quanto più
essa aveva da dire in proposito, tanto più essa restava al centro
dell'attenzione, tanto più era essa stessa il fuoco.
Casi di questo tipo sono più frequenti di quanto si creda. Anche
quando non appaiono sempre così estremi, essi, dal punto di vista
dell'individuo isolato, forniscono una prova irrefutabile della connessione
tra massa e fuoco.
MARE.
Il mare è molteplice, è in movimento, ha una sua profonda coesione.
La sua molteplicità è nelle onde: molteplici onde lo costituiscono. Le onde
sono innumerevoli; chi si trova sul mare è circondato da esse per ogni
dove. L'omogeneità del loro movimento non apre fra di esse grandi
differenze. Esse non sono mai interamente in riposo. Il vento che giunge
segna la loro direzione: esse si gettano di qua e di là secondo i suoi ordini.
La stretta coesione delle onde esprime ciò che anche gli uomini
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sentono pienamente nella massa: un'arrendevolezza verso gli altri, come se
si fosse "loro", come se non si fosse più appartati; una dipendenza cui non
si sfugge, e una sensazione di forza, uno slancio, ottenuti proprio
dall'essere tutti insieme.
Non si sa nulla della peculiarità di tale coesione fra gli uomini.
Anche il mare non la spiega, bensì la esprime.
Oltre alle onde, il mare possiede anche un'altra componente
molteplice: le "gocce". Esse tuttavia sono isolate, sono proprio soltanto
gocce, se non appaiono collegate le une alle altre; piccole e singole, sono
un simbolo di impotenza. Sono pressoché nulla e destano compassione in
chi le osserva. Si immerge la mano nell'acqua, la si solleva e si osservano
le gocce che ne scivolano, isolate e deboli. Si prova per esse compassione
come se fossero individui umani disperatamente soli. Le gocce
ricominciano a "contare" quando non è più possibile contarle, quando sono
confluite nella vasta totalità delle acque.
Il mare ha una "voce", estremamente mutevole, che non tace mai.
E" una voce che risuona di mille voci. Crediamo che esprima
pazienza, dolore, collera; ma soprattutto impressionante è la sua tenacia. Il
mare non riposa mai. Lo si ode sempre, di giorno, di notte, per anni, per
decenni; si sa che già da secoli fu udito. Nel suo impeto e nel suo insorgere
ricorda una sola creatura che possiede in medesima misura tali qualità: la
massa.
Il mare però possiede anche la costanza, di cui la massa è priva. Il
mare non si disperde né scompare di tempo in tempo: è sempre là. Esso dà
compimento al più grande e sempre vano desiderio della massa, al
desiderio di "perdurare".
Il mare può contenere tutto e non si riempie mai. Tutti i fiumi, i
torrenti, le nubi, tutte le acque della terra, potrebbero riversarsi nel mare
senza accrescerlo veramente; esso non muterebbe, e sempre si
riconoscerebbe in esso il medesimo mare.
Il mare è dunque così grande che potrebbe servire da esempio della
massa, la quale vuole divenire sempre più grande. La massa potrebbe
divenire grande come il mare, e a tale scopo attrae a sé un numero sempre
maggiore di uomini. Nella parola "oceano" il mare acquista la sua dignità
più solenne. L'oceano è universale, giunge ovunque, bagna ogni terra;
secondo un'antica concezione, su di esso nuota la terra. Se il mare potesse
riempirsi, non vi sarebbe alcun simbolo dell'insaziabilità peculiare della
massa, e la massa non diverrebbe pienamente cosciente del proprio
profondissimo e oscuro impulso ad attrarre sempre più uomini.
L'oceano, inoltre, che sta naturalmente dinanzi agli occhi della
massa, fornisce una giustificazione mitica alla sua invincibile spinta verso
l'universalità.
Il mare è profondamente mutevole nelle sue passioni: ma quieto o
minaccioso, o prorompente in tempesta, esso è pur sempre presente. Si sa
dove si trova, la sua sede è palese, non celata.
Esso non appare d'improvviso là dove un istante prima non era.
Mancano al mare la segretezza e la subitaneità del fuoco; il fuoco
sembra scaturire dal nulla, come una belva, e ce lo si può aspettare
ovunque. Ma ci si può aspettare di trovare il mare solo là dove si sa per
certo che sia.
E tuttavia non possiamo dire che il mare sia privo di mistero.
Il suo mistero non consiste nella sua subitaneità, bensì nel suo
contenuto. La vita multiforme che lo riempie, gli è peculiare come la sua
evidente costanza. Così, la grandiosità dell'immagine del mare cresce se si
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pensa a ciò che il mare contiene: a tutte le piante, a tutti gli animali che vi
trovano sede in sterminate moltitudini.
Il mare non ha alcun interno confine, non è suddiviso in regioni e in
aree di popolazioni. Ha una sola lingua, uguale dovunque.
Si può dire che nessun uomo sia escluso dal mare. Il mare non
corrisponde esattamente ad alcuna delle masse conosciute, poiché il suo
contenuto è troppo vasto. E" tuttavia l'esempio di una umanità in sé
quietata, che tutto comprende e nella quale sfocia ogni vita.
PIOGGIA.
Dovunque, ma specialmente nei luoghi in cui è rara, la "pioggia"
è sentita come un'unità, prima che essa cada. Quando le nuvole
s'avvicinano e coprono il cielo, scende l'oscurità; prima della pioggia tutto
diviene grigio. Si ha forse più unitaria coscienza di ogni istante in cui la
pioggia si manifesta, che del fenomeno in sé. Molto spesso si spera nella
pioggia: che la pioggia cada può essere necessità vitale. Non è sempre
facile ottenere il suo arrivo, e lo si sollecita con incantesimi; ci sono
numerosi e disparati metodi per attirare la pioggia.
La pioggia cade in molte gocce. Le vediamo, e ne vediamo con
esattezza la direzione. In tutte le lingue si dice che la pioggia "cade". Gli
uomini vedono la pioggia in molte linee parallele; il numero delle gocce
che cadono pone in evidenza l'unità della loro direzione. La direzione che
impressiona maggiormente gli uomini è quella della caduta: tutte le altre,
paragonate ad essa, sembrano derivate, secondarie. La caduta è la cosa che
si teme di più dall'infanzia: la prima cosa contro la quale ci si arma. Si
impara a non cadere; a partire da una certa età, ogni caduta è ridicola o
pericolosa. In confronto con l'uomo, la pioggia è invece ciò che "deve"
cadere. Nulla cade così spesso e così copiosamente come la pioggia.
Può darsi che il numero delle gocce attenui un poco la pesante
violenza del rovescio di pioggia. Si odono rimbalzare, ed è un piacevole
rumore. Si sentono sulla pelle, ed è una piacevole sensazione. Forse non è
trascurabile che almeno tre sensi partecipino dell'esperienza della pioggia:
la vista, l'udito, il tatto. Tutti questi sensi percepiscono la pioggia come
molteplicità. E" facile ripararsi da essa. La pioggia di rado è veramente
minacciosa; nella maggior parte dei casi, circonda l'uomo in modo
benefico.
Le gocce si sentono cadere tutte allo stesso modo. Il parallelismo
delle righe di pioggia, il rumore identico, la stessa sensazione di umidità
che ciascuna goccia provoca sulla pelle - tutto tende a sottolineare
l'eguaglianza delle gocce.
La pioggia può divenire più violenta o più lieve, la sua intensità
muta. Il numero delle gocce è soggetto a notevoli variazioni. Non si fa per
nulla affidamento sul suo continuo incremento; al contrario, si sa che la
pioggia avrà fine: quando finirà, le gocce si perderanno nel terreno senza
lasciar traccia.
Come simbolo di massa, la pioggia non segna quella fase di furioso e
inarrestabile accrescimento che è simboleggiata dal "fuoco". La pioggia
non possiede la costanza del "mare", e solo qualche volta sembra com'esso
inesauribile. La pioggia è la massa nell'istante della scarica, e della massa
simboleggia pure il dissolvimento. Le nuvole da cui la pioggia trae origine
si disciolgono in essa; le gocce cadono appunto perché non possono più
restare insieme, e non si sa se e come torneranno a radunarsi.
IL FIUME.
La caratteristica più evidente del fiume è la sua direzione.
Esso scorre tra stabili rive, e il suo passaggio è incessantemente
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visibile. La mobilità delle sue masse d'acqua che si susseguono ininterrotte
fintanto che il fiume è propriamente fiume, la risolutezza nella direzione
comune, anche quando le acque si mutano le une nelle altre, il confluire di
altri fiumi minori - sono tutte innegabili caratteristiche di massa. Il fiume è
dunque simbolo di massa, e non solo della massa vera e propria bensì
anche delle sue singole forme d'espressione. I limiti della sua ampiezza,
entro i quali esso può crescere non continuamente e non improvvisamente,
fanno sì che il fiume come simbolo di massa abbia sempre qualcosa di
provvisorio. E" simbolo di processioni: le persone che stanno a guardare ai
lati della via sono come gli alberi sulle rive; ciò che è solido delimita ciò
che scorre.
Le dimostrazioni nelle grandi città presentano analoghe
caratteristiche di fiume. Dai vari quartieri provengono gli affluenti, fin
quando non si è costituita la corrente principale. I fiumi sono, in
particolare, un simbolo del tempo in cui la massa si forma: del tempo in
cui la massa non ha ancora ottenuto ciò che otterrà. Fra le caratteristiche
del fiume non vi sono né la facoltà di propagarsi, tipica del fuoco, né
l'universalità del mare. Vi è invece, accentuata all'estremo, la direzione: lo
scorrere delle acque la conferma sempre più, e si può dire che essa sia
implicita fin da principio - che dia l'impressione di qualcosa di
inesauribile, ma che se ne debba prendere più sul serio l'origine anziché la
meta.
Il fiume è la massa nella sua "vanità", la massa che presenta se stessa.
La componente del divenire visibile non è meno importante della
direzione. Senza sponde non può esservi fiume; la spalliera di piante che
fiancheggia il fiume è analoga alla fila degli spettatori. Il fiume - si direbbe
- ha una pelle che vuole essere vista. Tutte le forme simili al fiume - come
le processioni o le dimostrazioni - mettono in mostra la massima parte
possibile della loro superficie: esse si tendono fino all'estremo e offrono la
loro vista al maggior numero possibile di osservatori. Vogliono essere
ammirate o temute. Non è davvero importante la loro meta immediata;
importante è invece l'ampiezza della distanza che le separa da essa, la
lunghezza delle strade su cui si estendono. Non ha invece alcun carattere
impegnativo la densità dei partecipanti. Essa è maggiore fra coloro che
stanno a guardare, e un tipo particolare di densità coinvolge sia gli
osservatori sia i partecipanti alla manifestazione. E" una sorta di
avvicinamento amoroso fra due lunghissime creature, delle quali l'una
circonda l'altra e a poco a poco, teneramente, le consente di scorrere
attraverso a sé. Procedendo dalla fonte il fiume cresce, accoglie affluenti
ben delimitati nello spazio.
Nel fiume l'eguaglianza delle gocce è sottintesa; il fiume però porta
con sé ogni sorta di elementi diversi, e ciò che esso trascina è più
importante e determinante per il suo aspetto di quanto lo siano per il mare i
carichi che lo percorrono: quei carichi scompaiono sull'immensa superficie
marina.
Concludendo, solo in modo limitato si può riconoscere nel fiume un
simbolo di massa. Il fiume è simbolo di massa in modo completamente
diverso dal fuoco, dal mare, dalla foresta o dal grano. E" simbolo di una
condizione ancora controllata, "prima" dello scoppio e "prima" della
scarica: è il simbolo della massa "lenta".
FORESTA.
La foresta è "sopra" gli uomini. Essa può essere chiusa e intrecciata
ad ogni sorta di sterpaglia; può costare fatica penetrarvi, ancor più fatica
uscirne. Tuttavia, ciò che rende fitta la foresta, ciò che davvero la
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caratterizza - il fogliame- , sta "in alto". Il fogliame di singoli tronchi,
intrecciandosi, forma un tetto ininterrotto; il fogliame esclude tanta parte
della luce del giorno e getta le grandi ombre collettive della foresta.
L'uomo che è cresciuto diritto come un albero, si mette in fila con gli
altri alberi. Ma gli alberi sono molto più alti di lui ed egli deve levare gli
occhi per guardarli. Non vi è alcun'altra manifestazione della natura che
stia così durevolmente al di sopra dell'uomo, essendo al tempo stesso così
vicina e così multiforme. Le nuvole, infatti, vagano lungi; la pioggia cola
via, e le stelle sono remote. Di tutti questi fenomeni che nella loro
molteplicità agiscono dall'alto sull'uomo, nessuno è perennemente vicino
all'uomo come la foresta. L'altezza degli alberi non è irraggiungibile: ci si
arrampica sui tronchi, si colgono i frutti, si può perfino vivere lassù.
La direzione nella quale la foresta trascina gli sguardi degli uomini, è
la direzione del suo divenire: la foresta cresce continuamente verso l'alto.
L'eguaglianza dei tronchi è approssimativa: è appunto un'eguaglianza di
direzione. Chi si trova nella foresta, si sente al sicuro; egli non è nel punto
più alto della foresta, in perenne crescita, né nel punto più fitto. Ma proprio
il folto della foresta lo ripara, e quel folto sta sopra il suo capo. Così la
foresta è divenuta simbolo di "raccoglimento". Essa costringe l'uomo a
guardare in alto, riconoscente per la protezione che riceve di lassù. Levare
lo sguardo su molti tronchi, diviene in ogni senso guardare in alto. La
foresta anticipa la sensazione della chiesa, lo stare dinanzi a Dio tra
colonne e pilastri. La sua espressione più regolare e più completa è la volta
della cattedrale: tutti i tronchi sono coinvolti in una suprema e inscindibile
unità.
Un'altra non meno importante caratteristica della foresta è la sua
molteplice immobilità. Ogni singolo tronco è radicato a terra e non teme
alcuna minaccia dall'esterno. La sua resistenza è assoluta: non abbandona
il suo posto. Può essere abbattuto, ma non spostato. In questo senso, la
foresta è divenuta simbolo dell""esercito": un esercito in formazione, un
esercito che non fugge in alcuna circostanza; che si lascia fare a pezzi fino
all'ultimo uomo, prima di cedere un palmo di terreno.
GRANO.
Il grano è sotto molteplici aspetti una foresta in miniatura.
Cresce dove un tempo sorgeva la foresta, ma non raggiunge mai
l'altezza di quella. E" interamente in potere dell'uomo, frutto del suo
lavoro. L'uomo lo semina, lo miete; negli antichi riti si cercava di favorire
la sua crescita. Il grano è flessibile come l'erba, s'incurva a ogni vento.
Tutti gli steli cedono insieme al moto del vento, l'intero campo si piega
come una cosa sola. La tempesta abbatte al suolo gli steli, che poi vi
giacciono a lungo. Il grano ha però la misteriosa capacità di raddrizzarsi di
nuovo; se non è stato colpito troppo duramente, l'intero campo
d'improvviso risorge. Le spighe piene sono come pesanti teste; si piegano
ad assentire o a negare, a seconda di come spira il vento.
Di solito il grano è meno alto dell'uomo. L'uomo, comunque, resta
sempre il signore del grano, anche se questo cresce alto più del suo capo. Il
grano è mietuto tutto insieme, così come insieme è cresciuto, come
insieme era stato seminato. Anche le erbe che l'uomo non utilizza restano
sempre insieme. Ma tanto più collettivo è il destino del grano, seminato,
mietuto, trasportato, trebbiato e immagazzinato. Finché cresce, il grano
resta radicato nel terreno; nessuno stelo può allontanarsi dagli altri. Ciò
che accade, accade a "tutti" gli steli. Il grano, dunque, cresce folto nel
campo, ma molto dissimile dagli uomini; considerato nella sua forma
collettiva, sembra quasi altrettanto grande. Il suo ritmo, quando è mosso
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dal vento, pare quello di una semplice danza.
L'eguaglianza degli uomini dinanzi alla morte trova agevolmente
esempio nell'immagine del grano. Il grano però cade "tutto insieme", e lo
attende una morte ben determinata: morte comune nella battaglia che fa
cadere intere file: il campo come campo di battaglia.
La flessibilità diviene servilità; il campo di grano assomiglia a una
folla di sudditi fedeli, che non possono concepire l'idea d'una resistenza.
Essi rabbrividiscono nell'obbedire, pronti a qualsiasi comando. Quando il
nemico giunge su di loro, finiscono spietatamente calpestati.
E" importante e significativo: il grano ha origine da mucchi di
semente - e finisce in mucchi - di grano ammassato. Il grano può rendere
sette o cento volte: comunque, i mucchi in cui verrà ammassato saranno
proporzionalmente più grandi di quelli da cui ebbe origine. Mentre
cresceva e restava in collettività, si moltiplicava; questo moltiplicarsi è la
sua benedizione.
VENTO.
La sua forza muta, e con essa la sua voce. Può piagnucolare o
ululare, piano, forte, di ben pochi suoni non è capace. Così, esso continua a
sembrare vivo, mentre altri fenomeni naturali hanno da tempo perduto la
loro vitalità agli occhi dell'uomo.
Oltre alla sua voce, è specialmente evidente la sua direzione.
Per denominarlo, è importante sapere da dove soffia. Poiché si è
interamente avvolti dall'aria, le spinte che si ricevono da essa sembrano
molto corporee: ci si sente interamente nel vento; il vento unisce insieme;
nella tempesta esso fa vorticare dinanzi a sé insieme tutto ciò che afferra.
Il vento è invisibile; tuttavia il movimento che esso conferisce a
nuvole e onde, foglie ed erbe, lo rende manifesto; e quel movimento è
molteplice. Negli inni vedici, gli dèi della tempesta - "Marut" - compaiono
sempre al plurale. (41) Sono tre volte sette, o tre volte sessanta. Fratelli
della medesima età, abitano tutti nel medesimo luogo e sono nati nel
medesimo luogo. Il loro strepito è il tuono e l'urlo del vento. Scuotono i
monti, abbattono gli alberi e si avventano nelle foreste come elefanti
selvaggi. Spesso si chiamano anche «i cantori»: il canto del vento. Sono
possenti, furibondi e terribili come leoni, ma anche allegri e pronti al gioco
come bambini o puledri.
L'antichissima equivalenza tra il respiro e il vento dimostra quanto
intensamente l'uomo senta il vento. Il vento ha l'intensità del respiro.
Invisibile, esso può simboleggiare un'invisibile massa. Può dunque
trasformarsi in "spiriti" che giungono mugghianti come tempesta, esercito
selvaggio; oppure spiriti in fuga - come nella visione dello sciamano
esquimese già ricordata.
Le "bandiere" sono vento reso visibile. Sembrano brandelli di nuvole,
più vicini e più colorati, tenuti fermi, sempre della medesima forma. Esse
davvero impressionano quando sventolano. I popoli, quasi potessero
ripartire il vento, si servono delle bandiere per contrassegnare come
propria l'aria sopra di loro.
SABBIA.
Due caratteristiche della sabbia vanno sottolineate, poiché
specialmente importanti in questo contesto. La prima è costituita dalla
piccolezza e dall'identità delle sue parti. Si tratta di una caratteristica sola,
giacché i granelli di sabbia appaiono identici, per quanto piccoli siano. La
seconda caratteristica è l'infinità della sabbia. La sabbia è incalcolabile; ce
n'è sempre più di quanto si possa afferrare con gli occhi. Quando la si
trova in piccoli mucchi, non vi si fa caso. E" veramente appariscente là
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dove è innumerevole, sulla spiaggia del mare, nel deserto.
A causa del suo moto incessante, la sabbia sta pressoché a mezzo tra
i simboli di massa liquidi e quelli solidi. Essa forma onde come il mare e
può sollevarsi in nuvole; la "polvere" è una sabbia ancora più fine. Un
tratto significativo è la minaccia della sabbia, il modo in cui essa può
presentarsi aggressiva e nemica all'uomo isolato. L'uniformità, l'immensità
e la mancanza di vita del deserto pongono l'uomo a confronto con una
forza quasi insuperabile: la sabbia è composta di innumerevoli particelle
uguali. Essa affoga l'uomo come il mare, ma in modo più perfido, più
lentamente.
Il rapporto fra l'uomo e la sabbia del deserto preannuncia alcuni
ulteriori atteggiamenti umani; è una battaglia che l'uomo deve affrontare
con forza crescente contro grandi schiere di piccolissimi nemici. La
sterilità della sabbia è una caratteristica che si ritrova dove passano le
cavallette. L'uomo che coltiva le piante, teme le cavallette come la sabbia:
quegli insetti lasciano dietro di sé il deserto.
E" sorprendente che la sabbia possa sempre divenire simbolo della
posterità. Questo fatto, ben noto dalla Bibbia, dimostra d'altronde quanto
sia forte il desiderio di moltiplicarsi senza limite. Nella riproduzione non ci
si preoccupa soltanto della qualità. Certo, l'uomo si augura una schiera di
figli forti e coraggiosi. Ma per il futuro più remoto, quale somma della vita
di generazioni, non bastano gruppi o schiere: ci si augura una massa di
posterità; e la più grande, sterminata, incalcolabile massa che l'uomo
conosca è quella della sabbia. Quanto poco conti a questo proposito la
valutazione delle qualità individuali dei discendenti, appare evidente in un
simbolo analogo dei cinesi. Tale simbolo identifica i discendenti con uno
sciame di cavallette: la posterità dovrà possedere il loro numero, la loro
coesione, la loro inscindibile unitarietà.
Le stelle sono un altro simbolo usato dalla Bibbia per la posterità.
Anche in questo caso, la caratteristica fondamentale è il numero
sterminato; non si parla delle qualità di singole stelle predominanti. E"
importante piuttosto il fatto che esse durano, che non spariscono mai, che
ci sono sempre.
MUCCHI.
Tutti i mucchi di cui l'uomo si interessa sono radunati insieme.
L'unità dei mucchi costituiti da frutta o da grani è il risultato di una
determinata attività. Molte mani sono state impegnate nel raccolto o nella
cernita; simili attività sono collegate a stagioni ben determinate, e la loro
importanza incide a tal punto che una antichissima ripartizione dell'anno si
fondava appunto su di esse. Nelle feste gli uomini celebrano la loro gioia
sui mucchi che hanno fatto sorgere e che ora mettono in mostra con
orgoglio. Spesso le feste hanno precisamente questo scopo.
Il materiale accumulato e di identica natura: un determinato tipo di
frutta, un determinato tipo di grano. Lo si è ammassato con la maggiore
concentrazione possibile. Quanto più ce n'è, quanto più fitto è il mucchio,
tanto meglio. Vuol dire che se ne ha molto sotto mano, e non si dovrà
andarne a prendere altro lontano. La grandezza del mucchio è importante,
ci si vanta di essa; solo quando è abbastanza grande, il mucchio basta per
tutti o per lungo tempo. Una volta che ci si è abituati ad ammassare
mucchi di derrate, i mucchi non saranno mai troppo grandi. Soprattutto si
celebrano gli anni che arrecarono maggiori raccolti. Essi verranno segnati
negli annali come le epoche più felici. I raccolti rivaleggiano gli uni con
gli altri, da anno a anno o da luogo a luogo. Sia che appartengano a una
comunità, sia che appartengano a singole persone, tali mucchi sono
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esemplari e la loro sicurezza è garantita.
E" vero che essi saranno poi consumati: in più d'un luogo
improvvisamente, per speciali occasioni, altrove lentamente, secondo il
bisogno. La loro durata è alquanto limitata, la loro diminuzione è già
prevista fin da principio. Il loro rinnovamento è dunque soggetto al ritmo
delle stagioni o delle piogge. Ogni raccolto è un ritmico ammucchiare, e la
celebrazione della festa è determinata da tale ritmo.
MUCCHIO Di PIETRE.
Vi sono però anche altri mucchi, di materiali non commestibili.
Si erigono mucchi di pietre, per quanto sia faticoso; essi torneranno
poi a disgregarsi. Quei mucchi si erigono per molto tempo, per una sorta di
eternità. Essi non devono mai diminuire, devono sempre restare uguali. Il
materiale che li costituisce non andrà mai a finire nello stomaco di alcuno,
e non sempre gli uomini abitano vicino ad essi. Nella forma più antica,
ogni singola pietra corrispondeva a ciascun uomo che aveva contribuito a
erigere il mucchio. Successivamente, la grandezza e il peso delle pietre
aumentò, così che solo parecchie persone insieme poterono maneggiarle.
Mucchi di tal sorta riassumevano la fatica concentrata di innumerevoli e
pesanti cammini. E" spesso incomprensibile come simili mucchi siano stati
realizzati. Quanto più si stenta a capire la loro presenza, quanto più è
lontano il luogo di provenienza delle pietre, quanto più lungo è il
cammino, tanto più grande fu il numero degli uomini che ci si deve
immaginare impegnati nella loro costruzione, tanto più forte è
l'impressione che essi suscitano nelle generazioni successive. Essi
testimoniano lo sforzo ritmico di molti, dei quali non resta null'altro che
simili indistruttibili monumenti.
IL TESORO.
Anche il tesoro, come ogni mucchio, è stato accumulato. A
differenza, però, dai mucchi di frutta o di granaglie, esso è costituito di
unità che non sono né commestibili, né deperibili.
E" importante il valore particolare di tali unità, e solo la fiducia nella
durata del loro valore induce a formare un tesoro.
Il quale è un mucchio che deve rimanere indisturbato e crescere.
Il tesoro appartiene a un potente: altri potenti sono stimolati a
rubarlo. Il prestigio che esso conferisce al suo possessore, mette
quest'ultimo in pericolo. Battaglie e guerre sono scoppiate per il possesso
di tesori, e molti sarebbero vissuti più a lungo se più piccolo fosse stato il
loro tesoro. Perciò il tesoro è spesso necessariamente tenuto "segreto". E"
caratteristica peculiare del tesoro la tensione fra lo splendore che esso deve
irradiare e il segreto che lo protegge.
La delizia del "numero zampillante" trova nel tesoro la sua forma più
percepibile. Tutti gli altri calcoli che hanno per scopo un risultato sempre
più alto - per esempio, la conta del bestiame o degli uomini - non
raggiungono una concentrazione così alta dell'oggetto calcolato.
L'immagine del possessore, che conta in segreto il proprio tesoro, è
impressa nello spirito umano tanto profondamente quanto la speranza di
acquisire d'improvviso un tesoro: il tesoro è così ben occultato che non
appartiene più a nessuno, è stato dimenticato nel suo nascondiglio. Eserciti
perfettamente disciplinati sono stati sopraffatti e disgregati da questa
improvvisa avidità di tesori, per essa molte vittorie si sono trasformate in
sconfitte. La metamorfosi di un esercito in una torma di scavatori di tesori,
ancor prima della battaglia, è descritta da Plutarco nella "Vita di Pompeo":
«Appena Pompeo fu approdato con la sua flotta presso Cartagine,
settemila uomini disertarono le file nemiche per passare alle sue; egli
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aveva condotto in Africa sette legioni complete. Là gli accadde un comico
fatto. Alcuni soldati scoprirono per caso un tesoro e ne ricavarono una
considerevole somma di denaro.
Appena la cosa fu nota, tutti gli altri soldati immaginarono che quella
regione fosse piena di ricchezze, sepolte dai cartaginesi al momento della
sventura. Pompeo per molti giorni non poté intraprendere nulla con i suoi
soldati, che pensavano unicamente a ricercare tesori. Egli ne rise e stette a
guardare molte migliaia di uomini che scavavano e rovistavano il terreno.
Finalmente quelli si stancarono della cosa, e invitarono Pompeo a
guidarli dovunque volesse; erano già stati puniti a sufficienza per la loro
stoltezza». (42)
Oltre a questi mucchi che esercitano un'attrazione irresistibile per la
loro segretezza, ve ne sono anche altri che sono stati accumulati in modo
del tutto palese, come una sorta di tassa spontaneamente versata, in attesa
che successivamente toccasse a un singolo o a pochi. A tale categoria
appartengono tutte le forme di lotteria, rapide accumulazioni di tesori: si sa
che il tesoro verrà consegnato non appena si sarà tirato a sorte.
Quanto più piccolo sarà il numero di coloro cui toccherà, tanto più
grande risulterà l'entità del tesoro, e tanto più forte la sua attrazione.
L'avidità che unisce gli uomini in tali circostanze presuppone
un'assoluta fiducia nell'unità del tesoro. E" difficile esagerare
nell'immaginare la forza di quella fiducia. L'uomo si immedesima
nell'unità del suo denaro. Un dubbio su di essa lo offende, una sua
oscillazione fa vacillare la fiducia in se stessi. La svalutazione dell'unità
monetaria colpisce l'uomo stesso, lo umilia. Quando la velocità di tale
fenomeno cresce, quando sopravviene un'inflazione, gli uomini svalutati si
trovano a formare vere e proprie masse in fuga. Quanto più gli uomini
perdono, tanto più divengono uniti nel loro destino. Ciò che è il panico per
alcuni privilegiati, i quali sono in grado di salvare qualcosa per sé, diviene
fuga di massa per tutti gli altri che perdono quanto possiedono e in ciò,
dunque, divengono uguali. Le conseguenze del fenomeno, che
specialmente nel nostro secolo ha avuto un'incalcolabile portata storica,
saranno esaminate in un capitolo ad esse dedicato.
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