CAPITOLO PRIMO
L’ONERE DELLA CONTESTAZIONE
SOMMARIO:1. Premessa - 2. Excursus storico della contestazione - 3. La fondamentale decisione delle Sezioni Unite del 23 gennaio 2002 n. 761 - 4. Le reazioni di dottrina e giurisprudenza al dictum della Cassazione n. 761/2002 - 5. La scelta del legislatore, la riforma dell’articolo 115 cod.proc.civ. la legge n.69/2009 - 6. Il ruolo del giudice nella valutazione dei fatti non contestati - 7. I fatti oggetto di contestazione - 8. La specificità della contestazione - 9. Il termine della contestazione – 10 La non contestazione nel titolo esecutivo europeo
2) EXCURSUS STORICO DELLA NON CONTESTAZIONE
2.1 La contestazione nelle epoche antiche
Nelle legislazioni processuali più antiche era previsto un vero e proprio dovere per il convenuto di comparire in giudizio e prendere posizione sulle circostanze di fatto affermate dalla controparte ed un sistema sanzionatorio più o meno complesso che diveniva operante in caso di violazione del dovere.
Si pensi alla litiscontestatio che era il momento centrale nel processo romano per legis actiones: un momento negoziato e bilaterale, da cui scaturivano la determinazione della materia del contendere e la susseguente fase apud iudicem per la decisione sui fatti controversi. L’omessa partecipazione di Negidio , il proverbiale reus, alla litiscontestatio costituiva, nella legis actio sacramento in rem, derelictio del bene in contesa; mentre nella legis actio sacramento in personam , era valutata come indefensio rispetto alla pretesa avanzata dall’attore, cui conseguivano misure coercitive(quali la missio in bona e l’addictio) volte ad indurre il convenuto a partecipare al giudizio, ma implicanti il conseguimento dell’utilità perseguita da Agerio, l’attore per antonomasia.
Si pensi, ancora, all’antico sistema dell’accusatio
Sull’accusatio germanica in confronto all’actio romana il saggio di CHIOVENDA, Romanesimo e germanesimo nel processo civile, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma 1930, rist. anastatica, Milano 1993, 197 s.; v. anche SALVIOLI, Storia della procedura civile e criminale, in DEL GIUDICE (diretto da), Storia del diritto italiano, III, Francoforte-Firenze 1969, I, 724 ss.; CAMPITELLI, voce Processo civile (diritto intermedio), in Enc. dir., XXXVI, Milano 1987, 90 s.; Chizzini, Anticam exquirite matrem. Romanesimo e germanesimo alle fonti del giusto processo civile, in Il giusto processo civ. 2006, 131 ss.
germanica, in cui era il reus a doversi discolpare dall’accusa, giusta il principio per cui onus probandi incumbit ei qui negat: regola di giudizio paradossale ai nostri giorni, eppure conforme ai mores e all’ethos di quelle comunità, connotati da profonda fede nella veridicità delle affermazioni dei consociati, giungendo ad una sorta di praesumptio iuris tantum da cui l’accusato poteva liberarsi solo affrontando la prova ordalica, detta Beweislast. Beweislast che si chiudeva nella gran parte dei casi, in praesumptio iuris et de iure o, meglio, Dei et de Deo (coincidendo lo ius con la volontà divina), perché la prova liberatoria poteva giungere solo all’esito dell’ordalia, come epifania del giudizio di Dio. Il convenuto, se non si presentava nel giorno stabilito a contestare l’accusa rivoltagli dall’accusator sotto giuramento, dimostrava con ciò di non possedere prove a discolpa e, implicitamente, riconosceva la domanda avversaria come fondata, negligendo il dovere di purgazione e di contestazione che l’accusa aveva fatto sorgere a suo carico e che consisteva nell’onere di contestare davanti al giudice la verità delle affermazioni della controparte, con tecnica da cui sarebbero germinate le positiones
Sull’origine delle positiones cfr. CHIOVENDA, Romanesimo, cit., 201 s.; Id., Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi, cit., I, 367; LIEBMAN, Sul riconoscimento della domanda, già in Studi di diritto processuale in onore di G. Chiovenda, Napoli 1927, 459 ss. e in Problemi del processo civile, Morano Editore, s.d., 183 ss.; MICHELI, L’onere della prova, rist. Padova 1966, 37 in nota; SALVIOLI, op. cit., I, 316; Pertile, op. cit., II, 70 ss. del processo romano-canonico, nonché il dovere di verità e la sentenza contumaciale che ancora oggi si trovano nei processi ad impronta germanica.
Il processo romano-canonico, sebbene nel periodo medievale conosca ibridismi per gli influssi germanici, in particolare attraverso la contumacia de respondendo e utilizzi soprattutto la tecnica delle positiones e della mancata risposta ad esse come ficta confessio che sollevava l’attore dall’onere probatorio sui fatti non contestati dal convenuto,
Sul tema e sullo specifico onere del convenuto di prendere posizione sulle affermazioni dell’attore secondo lo schema tripartito del sic, del non e del dubium v. soprattutto CASTELLARI, Delle posizioni nella procedura comune italiana, in Glück, Commentario alle Pandette, trad. it., Milano 1903, XI, spec. 77 ss. con la previsione del procedimento sommario nella celeberrima Clementina Saepe del 1306
Su cui v. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli 1933, I, 213 ss.; Id., Le forme, cit., 366 s.; SCARSELLI, La condanna con riserva, Milano 1989, 59 ss.; nonché l’ancor oggi imprescindibile Briegleb, Einleitung in die Theorie der summarischen Processe, Leipzig 1859, spec. 27 ss. la necessità della litiscontestatio e anche il correlato onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda secondo il metodo delle positiones, la cui applicazione era affidata alla discrezionalità del giudice.
Per un eloquente esempio sul modo di funzionare delle positiones v. le Costituzioni sabaude 1723, in PICARDI, GIULIANI (a cura di), Testi e documenti per la storia del processo, Milano 2002, Titolo XIV Delle Posizioni, 59 ss., nonché, seppur con maggiore sintesi, il Codice estense 1771, in PICARDI, GIULIANI (a cura di), Testi e documenti per la storia del processo, Milano 2001, Titolo XIX Delle Posizioni, 117 ss. Si tornava, così, al sistema adottato in epoca tardo-romana, nella cognitio extra ordinem e poi nel processo giustinianeo, in cui la lite veniva giudicata non secundum praesentes, ma secundum meliorem causam, restando sia la contumacia che il silenzio del convenuto del tutto indifferenti ai fini del decidere. Si ebbe insomma una ficta litis contestatio.
Con l’avvento degli statuti medievali la legislazione processuale, assunse connotazioni diverse da statuto a statuto a seconda dell’influenza del modello germanico oppure di quello romano-canonico. Ci furono statuti che abbandonarono del tutto il sistema sanzionatorio nei confronti del convenuto che omettesse di contestare le allegazioni avversarie. Anzi essi adottarono la soluzione della ficta litis contestatio: i fatti oggetto di causa erano da considerarsi sempre controversi fra le parti e quindi bisognosi di essere provati ogni volta che il convenuto si costituisse in giudizio e non contestasse nulla. Altri statuti invece adottarono la soluzione inversa ritenendo che la non contestazione del convenuto dovesse configurarsi non come ficta litis contestatio ma come ficta confessio dei fatti allegati dall’avversario, con soccombenza nel merito della parte che non si fosse attivata per evitare le sfavorevoli conseguenze della sentenza.
Per un’analisi ampia, approfondita e ulteriore dell’evoluzione storica del fenomeno della contestazione, si veda per tutti A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, pp. 17 ss.
Tale impianto normativo si giustificava sulla considerazione che la parte processuale che ometteva di contestare le circostanze indicate dal proprio avversario manifestasse, in tal modo, un chiaro disinteresse a ottenere una decisione nel merito della controversia, ovvero mostrasse, attraverso la propria inattività, di non possedere argomenti sufficienti o convincenti al fine di contrastare la ricostruzione dei fatti offerta ex adverso.
Successivamente, nei sistemi di derivazione romanistica si verificò un progressivo abbandono del disvalore che connotava originariamente l’atteggiamento inattivo della parte, e ciò avvenne in parallelo con la progressiva eliminazione del dovere per il convenuto di costituirsi in giudizio e prendere espressamente posizione sui fatti allegati dalla controparte.
Diversamente, nei sistemi di derivazione germanica venne mantenuta la necessità per il convenuto di costituirsi e di prendere posizione punto per punto sulle allegazioni avversarie; in mancanza, i fatti non contestati si consideravano ammessi e, per l’effetto, non bisognosi di prova.
2.2 La contestazione nel codice di rito del 1865
Per quanto concerne l’ordinamento italiano, la legislazione piemontese del XVIII secolo e le codificazioni del successivo XIX secolo contenevano disposizioni di chiara derivazione romanistica. Infatti, si previde la regola della ficta litis contestatio e dell’irrilevanza probatoria della mancata contestazione dei fatti, con il conseguente mantenimento della regola generale dell’onere della prova gravante in capo al soggetto che allegava in giudizio fatti, benché questi ultimi non fossero stati contestati.
Tale sistema fu trasfuso nel codice di procedura civile del 1865, ove, appunto, non si prevedeva espressamente alcun onere di contestazione dei fatti allegati dalle altre parti processuali, né si considerava il silenzio o la reticenza quale tacita ammissione delle circostanze di fatto affermate dall’avversario a fondamento della propria domanda. L’effetto di ficta confessio conseguente alla mancata contestazione si verificava soltanto in via residuale, e cioè nelle sole ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore. La ficta confessio poteva provenire solo dalla mancata risposta della parte sui capitoli deferitigli per interrogatorio (articolo 218 C.P.C. del 1865) e anche in tal caso, nonostante la lettera della norma facesse pensare ad un automatismo decisorio (“quando la parte non comparisca, o ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo”), si tendeva ad attenuarne la portata, valutando la confessione tacita nel contesto di ogni altra prova acquisita al giudizio.
In tale sistema processuale, in adesione all’impostazione liberale del codice di rito, la dottrina prevalente ritenne di esaltare il principio dispositivo, da un lato, e il concetto di autoresponsabilità delle parti processuali, dall’altro.
Quanto al principio dispositivo, esso era inteso, sul piano sostanziale, come il potere di ogni soggetto di disporre liberamente dei propri diritti; ciò aveva un immediato riflesso sul piano processuale, poiché proprio tale libertà si traduceva in giudizio nel potere delle parti di determinare sia i fatti oggetto del giudizio che le prove intese a formare il convincimento del giudice in ordine alla verità dei fatti affermati.
Così, A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile Milano, 1995 cit., p. 118
L’adesione al principio dispositivo processuale comportava, da un lato, che soltanto alle parti era riservato il potere di introdurre i fatti in giudizio, stabilendo, così, quali fossero quelli rilevanti per la decisione della causa e, dall’altro, che era escluso qualunque intervento giudiziale sulla determinazione del materiale fattuale e, quindi, probatorio. Accanto al principio dispositivo assunse grande importanza il concetto di autoresponsabilità
A. CARRATTA, Il principio della non contestazione …cit., p. 121 delle parti quale presupposto e, al contempo, conseguenza proprio del principio dispositivo sostanziale: se le parti e soltanto esse avevano il potere di “scegliere” la base fattuale della controversia, su di esse gravava anche la responsabilità derivante dall’esercizio di detto potere. Pertanto, il comportamento assunto in sede giudiziale aveva inevitabilmente riflesso sulla decisione emanata dal giudice. Dalla combinazione del principio dispositivo e di quello di autoresponsabilità era possibile giungere alla conclusione che il consenso delle parti circa l’esistenza di un fatto (per effetto, cioè, della confessione di una parte in ordine alla verità dei fatti affermati dall’avversario) era da considerarsi un atto volontario di esclusione della necessità di provare quel fatto. L’irrilevanza di accertare la verità della circostanza confessata, poi, portava con sé che il fatto medesimo andava posto alla base della decisione così come allegato, vincolando il giudice ad assumerlo come realmente accaduto.
A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile Milano, 1995 cit., p. 121
Ma, qualora la parte processuale non avesse chiaramente manifestato la sua posizione sui fatti allegati ex adverso, lasciando incerta la verità del fatto affermato dall’avversario, non era possibile espungere per ciò solo quel fatto dalle verifiche probatorie; restava, pertanto, invariato il generale principio dell’onere della prova.
La irrilevanza sul piano probatorio della mancata contestazione dei fatti venne condivisa e valorizzata da alcuni esponenti della dottrina, Antonio Castellari e Giuseppe Chiovenda, secondo i quali non esistendo nell’impianto normativo allora vigente un generale onere di prendere posizione sui fatti affermati dall’avversario, ma soltanto delle specifiche disposizioni normative che espressamente equiparavano il silenzio all’ammissione dei fatti sui quali esso verteva, la mancata contestazione non poteva considerarsi una violazione di alcun precetto normativo. E, dunque, il fatto «controverso», perché non ammesso né negato, cioè taciuto, doveva essere sottoposto a indagine probatoria, al pari del fatto contestato perché negato.
F. CARNELUTTI, La prova civile – Parte generale, Milano, rist. 1992, p. 25
La mancanza di conseguenze negative sul piano probatorio del comportamento inattivo della parte costituita era, secondo alcuni, determinata da una scelta di politica legislativa: a differenza di ordinamenti di derivazione germanica, il legislatore italiano aveva previsto l’applicazione del meccanismo della ficta confessio solo nelle ipotesi espressamente tipizzate e, oltre a ciò, non aveva previsto un generale onere di prendere posizione a carico del convenuto.
In questi termini, G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile – Le azioni. Il processo di cognizione, Napoli, rist., 1965 cit., p. 743. In tale situazione, non poteva farsi ricorso al meccanismo della contestazione per espungere un fatto dal novero di quelli bisognosi di prova. Al riguardo, Chiovenda chiarì che una simile disposizione avrebbe trovato ragion d’essere solo se accompagnata dalla previsione del fondamentale principio di preclusione che «consiste in ciò, che in seguito al compimento di dati termini è precluso alla parte il diritto di compiere altri atti processuali determinati».
Ancora G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile … cit., p. 743.
In applicazione di detto principio, il fatto non contestato diverrebbe pacifico – e, quindi, non necessiterebbe di essere provato – nel momento in cui la parte lasci spirare il termine previsto per esercitare detto potere.
Tuttavia, tale soluzione non era sostenibile sotto la vigenza del codice del 1865, proprio in quanto non esisteva ancora il principio di preclusione e le uniche ipotesi in cui la mancata contestazione aveva effetti rilevanti sul piano probatorio, come detto, riguardavano il comportamento assunto dalla parte qualora quest’ultima fosse stata sottoposta ad interrogatorio formale, ovvero qualora le fosse stato richiesto di riconoscere la scrittura privata prodotta in giudizio dalla controparte.
In ogni caso, secondo Chiovenda, l’applicazione del principio di preclusione avrebbe comportato che al mancato esercizio del diritto sarebbe conseguita la perdita del diritto medesimo, ma non conseguenze ulteriori – come l’equiparazione del fatto non contestato al fatto ammesso – che si verificavano solo ove espressamente disposto in tal senso dal codice di rito. Dunque, concludendo sul punto, posto che il legislatore del 1865 non aveva previsto uno specifico onere di contestazione entro un dato termine preclusivo, la mancata contestazione era qualificabile come una semplice inattività della parte, non sanzionabile con il meccanismo della ficta confessio.
In netto contrasto con i sostenitori dell’irrilevanza probatoria della mancata contestazione dei fatti vi furono, però, alcuni esponenti della dottrina, Lodovico Mortara e Carlo Furno, i quali, facendo leva sul principio di autoresponsabilità delle parti nel processo, sostennero che il comportamento omissivo di queste ultime dovesse avere, quantomeno, un “peso” a livello probatorio, con la conseguenza che il fatto non contestato avrebbe dovuto essere considerato una prova liberamente valutabile dal giudice. Essi criticarono l’impianto del codice di rito del 1865 sulla considerazione che le norme processuali avrebbero dovuto favorire una «trattazione leale, semplice e sollecita della controversia»
Così L. MORTARA, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, vol. III, Milano, 1905 cit., p. 568.; dunque occorreva fare un diverso percorso argomentativo, basato sulla logica, per giungere alla generale applicazione del meccanismo della specifica contestazione. Ciò, secondo Mortara, sul rilievo che «dinanzi al magistrato non si va per tacere ma per parlare, per far conoscere le proprie ragioni e i torti dell’avversario con dichiarazioni precise, positive e pertinenti alla lite».
Ancora L. MORTARA, Commentario … cit., p. 568 Per tale motivo avrebbe dovuto ritenersi che un soggetto avesse tutto l’interesse a reagire alla domanda rivolta nei suoi confronti; quindi un atteggiamento omissivo o silente avrebbe potuto ritenersi sintomatico della volontà di quel soggetto di ammettere i fatti affermati dalla controparte processuale. In tali situazioni «sarebbe stato irragionevole ed ingiusto» ritenere non provato il fatto non contestato; al contrario «la prova esiste, appunto perché la mancanza di contestazione tra le parti si manifesta in forma tale da includere riconoscimento del fatto che deve essere tema del giudizio»
Così sempre L. MORTARA, Commentario … cit., p. 541., con ciò attribuendo al fatto non contestato il valore di prova liberamente valutabile.
2.3 I progetti di riforma del codice di procedura civile e l’entrata in vigore del codice di rito del 1940
In alcuni progetti di riforma del C.P.C. avanzati tra le due guerre mondiali (Carnelutti, Chiovenda e Mortara) si contemplavano oneri di specifica contestazione e procedimenti contumaciali variamente disciplinati.
V. Chiovenda, in Saggi di diritto processuale civile, II, Roma 1931, 64 s. e 121, §§ 84 e 85 della Relazione e artt. 20 e 21 del Progetto; Mortara, Per il nuovo codice della procedura civile. Riflessioni e proposte, in Giur. it. 1923, IV, 145, art. 49 e artt. 212 ss.; e CARNELUTTI, Progetto del codice di procedura civile, I, Padova, 1926, art. 305.
Però «In nessuno di essi la non contestazione era ricondotta alla determinazione del thema decidendum e al principio dispositivo in senso sostanziale, ma semplicemente alla prova dei fatti rilevanti, concorrendo alla formazione del convincimento del giudice insieme alle altre prove acquisite al giudizio».
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011, p. 80.
Nel C.P.C. del 1940 nulla di tutto ciò fu previsto: né un onere di specifica contestazione, né un procedimento contumaciale d’ordine generale. Era dunque naturale che nei primi decenni postbellici si protraessero gli orientamenti maturati sotto il codice pregresso: occorreva un’ammissione esplicita o almeno implicita, in base ad argomentazioni inconciliabili con la contestazione dei fatti allegati dall’altra parte. C’era la piena facoltà di contestarli in ritardo, senza alcuna preclusione.
V.ANDRIOLI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1973, 513; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1984, 143
Il dibattito sulla mancata contestazione dei fatti non si spense neppure con la riforma del rito del lavoro, Legge n.533 del 12 agosto 1973. Secondo l’articolo 413 comma 3, C.P.C., riformato dalla detta Legge: «il convenuto deve prendere, in modo preciso e non limitato ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda».
La riforma del 1973 modificò il quadro normativo, introducendo un sistema di preclusioni anche istruttorie che mal si concilia con la reversibilità della non contestazione fino allora patrocinata dall’opinione dominante.
Con la stessa legge fu introdotto anche l’articolo 423 C.P.C. che contiene la previsione di una condanna al pagamento anticipata rispetto alla decisione di merito nei confronti della parte che, convenuta in giudizio per il pagamento di somme dovute, non avesse contestato, o avesse contestato solo in parte, la misura del credito della controparte.
Tali disposizioni aprirono la strada al graduale riconoscimento del principio di contestazione a livello normativo cui si giunse nel 2009 con la modifica dell’articolo 115 C.P.C.
Riguardo all’onere di prendere posizione di cui al nuovo articolo 416 comma 3 C.P.C., è opportuno rilevare che continuava a non essere previsto nessun onere di contestare i fatti avversari, né questa norma poteva essere “esportata” e applicata in un rito diverso da quello del lavoro.
Ma le novità introdotte sarebbero intervenute nel rito ordinario di cognizione.
È stato rilevato che nelle proposte di riforma susseguitesi negli anni precedenti la riforma la riforma del 1990 e che ad essa hanno condotto è sempre previsto l’onere per il convenuto di prendere posizione, in modo più o meno preciso, sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda e viene considerata utile per l’economia dei giudizi, la previsione di strumenti anticipatori di condanna, azionabili in presenza di certi presupposti tra cui la mancata contestazione di somme.
Sul punto si veda F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012, p. 76.
Infatti con la Legge 26 novembre 1990 n.353, il legislatore riformulò l’articolo 167 C.P.C. prevedendo che anche nel rito ordinario, il convenuto avrebbe dovuto proporre tutte le sue difese nella comparsa di risposta prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda.
Le disposizioni di cui agli articoli 167 e 416 del C.P.C. potevano, allora, indurre a ritenere affermata a livello legislativo l’esistenza del principio della specifica contestazione nell’ordinamento processuale.
Infatti, «l’ordine di prendere posizione significa imposizione alla parte di rendere chiara la sua opinione sui fatti affermati dall’avversario. […] Ergo, non solo l’onere di contestazione esiste, ma addirittura non poteva non esistere almeno in un contesto normativo caratterizzato dalla scelta legislativa di privilegiare modelli processuali organizzati secondo il principio di preclusione e nei quali la fase di preparazione della causa assume una significativa rilevanza».
Così, C. M. CEA, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Il giusto proc. civ., 2/2006, cit., p. 137
Tuttavia, è stato da altri giustamente rilevato che tali dati normativi erano ancora insufficienti e, comunque, troppo incerti affinché potesse affermarsi con sicurezza l’esistenza nel nostro ordinamento di un generale onere di specifica contestazione gravante su ciascuna parte. Infatti, all’onere di prendere posizione previsto, rispettivamente, dall’art. 167 e dall’art. 416 cod. proc. civ., «non si accompagnavano esplicite decadenze, a differenza di quanto era sancito per domande riconvenzionali, eccezioni in senso stretto e istanze di chiamata in causa dei terzi nonché, nel rito del lavoro, per i mezzi di prova; con l’ulteriore problema che l’onere di contestazione, per sua natura concernente tutte le parti del giudizio, veniva in quelle norme riferito al solo convenuto, mentre l’attore ne passava indenne».
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 81.
Infatti, l’art. 167 cod. proc. civ. discorreva “soltanto” della necessità per il convenuto di «prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda» e l’art. 416 cod. proc. civ., per rito del lavoro, richiedeva che la presa di posizione fosse «precisa e non limitata ad una generica contestazione», ma nessuna delle due norme esplicitava gli effetti processuali derivanti dall’eventuale inerzia del convenuto.
Per tali ragioni, continuava a non conferirsi importanza sul piano probatorio al comportamento processuale delle parti, che si riteneva avere un’influenza solo indiretta sulla formazione del convincimento del giudice. Detta concezione si fondava principalmente, non già sugli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma sull’interpretazione del disposto di una diversa norma, e cioè l’art. 116, 2° comma, cod. proc. civ.: «il giudice può desumere argomenti di prova (…), in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo».
Si è sostenuto, al riguardo, che «la novità di quest’ultima disposizione si coglierebbe in modo particolare nell’aver previsto che non sempre è possibile far scaturire dalla non contestazione la certezza del fatto allegato dall’avversario. Alla certezza del fatto non contestato, infatti, si arriverebbe soltanto nel caso in cui l’argomento di prova ricavabile dal comportamento non contestativo fosse supportato da adeguati strumenti probatori. In tutti gli altri casi, la non contestazione rimarrebbe una circostanza verificatasi nel corso del giudizio e dotata di una vis probatoria minima»
Così A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano 1995 cit., p. 176., in quanto si avrebbe un “semplice” argomento di prova, non accompagnato da altre risultanze istruttorie.
Secondo una diversa impostazione, invece, pur presupponendo che la mancata contestazione fosse annoverabile fra i comportamenti processuali delle parti, si riteneva che essa avrebbe avuto un valore “superiore” rispetto a quello di argomento di prova, in quanto la non contestazione poteva ritenersi una vera e propria fonte di prova liberamente valutabile.
Così, G. A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, rist. 1966, cit., p. 151
Seguendo tale interpretazione, dunque, l’art. 116, 2° comma, cod. proc. civ. non avrebbe inteso il contegno processuale delle parti quale mero elemento sussidiario di valutazione delle prove già assunte, ma avrebbe configurato il comportamento dei litiganti come vera e propria fonte di prova, idonea di per sé stessa a fondare il convincimento del giudice.
Così G. A. MICHELI, L’onere della prova … cit., p. 151
La possibilità di ricavare presunzioni dal comportamento processuale delle parti ha ricevuto, però, diverse critiche sulla considerazione che la parificazione tra argomenti di prova e prove presuntive sarebbe il risultato di un’interpretazione estensiva dell’art. 116, 2° comma, cod. proc. civ. Ma, è stato osservato, «con l’interpretazione estensiva si camuffa […] un’autentica estensione analogica dell’art. 2727 c.c. a disciplinare l’efficacia giuridica dell’argomento di prova, sul presupposto che l’art. 116, comma 2°, abbia omesso di farlo […] Bisogna concludere che una simile estensione nel caso di specie sarebbe ammissibile solo se si riuscisse a dimostrare che fra gli argomenti di prova e le presunzioni semplici corre un rapporto di identità strutturale e funzionale […] Ma è proprio questo, l’anello debole del ragionamento».
In questi termini, A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995 cit., p. 190
3) LA FONDAMENTALE DECISIONE DELLE SEZIONI UNITE DEL 23 GENNAIO 2002 N. 761
3.1 Gli orientamenti giurisprudenziali precedenti la sentenza 761/2002
Innanzitutto vanno esaminati gli orientamenti giurisprudenziali precedenti questa sentenza.
Le posizioni oscillavano tra il ritenere la mancata contestazione vincolante per il giudice ai fini della decisione di merito e il valorizzare il contegno processuale delle parti come argomento di prova.
Secondo il primo filone i fatti pacifici non abbisognavano di prova e, pertanto, essi dovevano essere espunti dal thema probandum.
Così, ad esempio, Cass. 27 gennaio 1955, n. 207, in Giust. civ., 1955, I, p. 1472; Cass. 29 settembre 1955, n. 2691, in Rep. Foro it., voce Prova civile, n. 17; Cass. 6 settembre 1968, n. 2889, in Rep. Giust. civ., 1968, voce Prova civile, n. 121; Cass. 10 febbraio 1968, n. 442, in Mass. Foro it.
In tali casi il giudice era esonerato da ogni accertamento d’ufficio riguardo alle circostanze che non fossero state oggetto contestazione da parte del convenuto.
Così, espressamente, Cass. 14 marzo 1974, n. 722, in Rep. Foro it., 1974, voce Procedimento civile, n. 85. Nello stesso senso, Cass. 10 febbraio 1975, n. 521, ivi, 1975, voce cit., n. 132.
Ora affinché un fatto potesse dirsi pacifico occorreva che la parte processuale contro cui il fatto era allegato: a) lo avesse ammesso in modo esplicito; b) oppure in modo implicito; c) o, infine, avesse contestato esplicitamente e nello specifico alcuni dei fatti allegati ex adverso senza accertare gli altri.
In tal senso, ex pluribus, Cass. 11 gennaio 1983, n. 195, in Rep. Foro it., 1983, voce Prova civile in genere, n. 11; Cass. 26 agosto 1986, n. 5229, ivi, 1986, voce cit., n. 12
Dunque la mancata contestazione, rendendo pacifico il fatto su cui verteva, diveniva vincolante per il giudice.
Tutto ciò (pacificità del fatto non contestato e conseguente relevatio ab onere probandi per la parte allegante) non si verificava qualora la parte avesse smentito le allegazioni avversarie, o fosse rimasta silente, oppure in caso di sua contumacia.
Questo era l’indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte sull’onere imposto al convenuto dagli articoli 167 e 416 comma 3 del cod.proc.civ., «e si fondava sul rilievo che il nostro ordinamento non prevedeva a carico della parte un generale dovere di contestare i singoli fatti dedotti ex adverso».
Così V. BATTAGLIA, in Sull’onere del convenuto di «prendere posizione» in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda (riflessioni sull’onere della prova), in Riv.dir.proc., 2009, p. 1514
Pertanto, non sussistendo un generale onere di dissentire dalle affermazioni avversarie, «non può ritenersi provato un fatto solo per mancata contestazione ad opera della controparte».
Così, M. FABIANI, Il valore probatorio della non contestazione del fatto allegato, in Corr. giur., 2003, p. 1343
In contrasto con l’orientamento analizzato si poneva l’altro filone interpretativo, che attribuiva minore importanza alla contestazione ritenendo che essa avrebbe potuto essere apprezzata solo come «argomento di prova» utilizzabile dall’organo giudicante per la decisione.
Secondo i sostenitori di questo orientamento la pacificità dei fatti non contestati ed il conseguente esonero degli stessi da qualunque verifica probatoria non era sostenibile. Infatti l’omessa contestazione di uno o più fatti compiuta dalla parte avrebbe dovuto essere considerata come uno dei numerosi contegni processuali che le parti avrebbero assunto.
Si vedano Cass. 10 giugno 1942, n. 1619, in Rep. Foro it., 1942, voce Prova in materia civile, n. 137; Cass. 3 marzo 1950, n. 534, ivi, 1950, voce Prova in genere in materia civile, n. 58; Cass. 2 marzo 1951, n. 524, ivi, 1951, voce cit., n. 105; Cass. 12 giugno 1976, n. 2178, ivi, 1976, voce cit., n. 44; Cass. 8 aprile 1987, n. 3465, ivi, 1987, voce cit., n. 1; Cass. 13 luglio 1991, n. 7800, in Mass. Giur. it., 1991. Ma all’interno della giurisprudenza che considerava la mancata contestazione un comportamento processuale generante argomenti di prova c’è stata divergenza di opinioni riguardo all’uso di tali argomenti di prova da parte del giudice.
Da un lato si è ritenuto che gli «argomenti di prova» di cui all’articolo 116 comma 2 C.P.C. dovessero essere considerati dal giudice come unica e sufficiente fonte di convincimento per la decisione e non solo come elementi integrativi di valutazione delle prove.
Così, Cass. 21 gennaio 1984, n. 533, in Rep. Giust. civ., 1984, voce Prova civile, n. 6; Cass. 5 giugno 1991, n. 6344, in Mass. Giur. it., 1991; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2273, in Dejure.
Dall’altro lato sebbene con riferimento al rito del lavoro hanno stabilito che «una generica contestazione non può equivalere ad una ammissione, da parte del convenuto, della sussistenza dei fatti affermati dall’attore, ma può integrare violazione del dovere di lealtà processuale e comunque essere valutata attenendo al contegno della parte nel processo come semplice argomento come semplice argomento di prova e pertanto solo come elemento aggiuntivo ed integrativo rispetto alle risultanze dei veri e propri mezzi di prova».
Così, Cass. 19 agosto 1994, n. 7447, in Mass. Giust. civ., 1994, p. 1097. Nello stesso senso, fra le tante, cfr. Cass. 10 novembre 1990, n. 10849, in Arch. civ., 1991, p. 295; Cass. 2 giugno 1994, n. 5359, in DeJure; Cass. 7 luglio 1994, n. 6417, in Mass. Giust. civ., 1994, p. 932; Cass. 13 marzo 1996, n. 2058, in Giust. civ., 1996, I, p. 1943; Cass. 19 agosto 1996, n. 7630, in Il lavoro nella giur., 1997, p. 275; Cass. n. 11495/2000, cit.; Cass. 27 marzo 2001, n. 4438, in Giust. civ., 2001, I, p. 1803.
3.2 La fondamentale decisione delle Sezioni Unite del 23 gennaio 2002, n. 761
Nel descritto quadro giurisprudenziale, mutando orientamento e prendendo le mosse da un precedente minoritario indirizzo dottrinale e giurisprudenziale
Ci si riferisce, quanto alla dottrina, alla posizione di G. BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 1996, IV, p. 279, secondo il quale anche il mero silenzio renderebbe pacifiche le allegazioni avversarie. Quanto alla giurisprudenza, si vedano Cass. 4 dicembre 1982, n. 6620, in Dejure; Cass. n. 4 agosto 1988, n. 4834, ivi; Cass. 14 febbraio 1995, n. 1576, in Mass. Giust. civ., 1995, p. 339; Cass. 20 agosto 1997, n. 7758, ivi, 1997, p. 1452; Cass. 23 giugno 1998, n. 6230, ivi, 1998, p. 1379; Cass. 13 aprile 2001, n. 5536, ivi, 2001, p. 787, teso a valorizzare maggiormente l’istituto della mancata contestazione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato l’esistenza in via generale nel processo civile del c.d. principio di non contestazione in relazione ai fatti principali del giudizio
La decisione n. 761 del 23 gennaio 2002 è reperibile in Foro it., 2002, I, p. 2017, con nota di C. M. CEA, Il principio della non contestazione al vaglio delle sezioni unite; in Foro it., 2003, I, p. 604, con nota di A. PROTO PISANI, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile..
Il Dictum contiene principi di valenza generale del tutto antitetici rispetto a quelli enunciati a proposito dell’onere del convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi enunciati dall’attore.
Con codesta decisione i giudici di legittimità hanno sancito la non necessità di provare il fatto che non sia stato oggetto di contestazione; la Corte di Cassazione ha riconosciuto efficacia probatoria al comportamento processuale delle parti.
Il fondamento della tesi espressa dalla Suprema Corte si ritrova nella considerazione che, in presenza di situazioni giuridiche sostanziali disponibili, il processo si atteggia secondo il principio dispositivo, cioè secondo un modello che postula l’affidamento alle parti del potere di proporre la domanda, determinando l’oggetto della lite e allegare i fatti posti a fondamento della stessa. Infatti il potere di allegazione sarebbe il riflesso processuale dell’autonomia sostanziale delle parti. E quindi, poiché l’allegazione dei fatti rientra nell’autonomia delle parti anche l’omessa contestazione vincolerebbe il giudice.
Detto ciò bisogna esaminare la sentenza. In primo luogo i giudici di legittimità hanno precisato che il difetto di contestazione è in sostanza irrilevante se riguarda l’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione del credito perché la cognizione di tale disciplina appartiene al novero dei poteri-doveri del giudice che non può essere condizionato dalle prospettazioni difensive o dal comportamento processuale delle parti. La mancata contestazione è rilevante se riguarda i fatti da accertare in giudizio
Si legge nel testo della decisione n. 761/2002 che l’assenza di contestazioni rileva sul piano probatorio quando «si riferisc[e] a fatti e non semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi; l’applicazione di queste regole, infatti, si colloca pienamente ed interamente nell’ambito dell’esercizio dei poteri del giudice, tenuto alle necessarie valutazioni, anche in difetto di specifiche contestazioni delle parti; e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull’an»..
Di conseguenza se il comportamento inattivo della parte assume rilevanza processuale solo se riferita ai fatti l’omessa contestazione dei conteggi assume rilievo processuale ogni volta che essa abbia ad oggetto fatti la cui esistenza non è esclusa dalla contestazione dell’an del diritto in contesa.
In secondo luogo le Sezioni Unite hanno rilevato che la mancata contestazione assume un ruolo diverso a seconda che riguardi fatti costitutivi del diritto (quelli posti a fondamento della domanda, i c.d. fatti principali) oppure i fatti che sono dedotti per dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi (i c.d. fatti secondari)
In termini generali, è ben noto che oggetto di prova non sono soltanto i fatti costitutivi della pretesa azionata in via giudiziale, ovvero le circostanze integranti l’oggetto di eccezioni in senso stretto, cioè i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio (c.d. fatti giuridici principali), ma anche quelle altre circostanze che non integrano direttamente il diritto in contesa, dalle quali tuttavia può desumersi l’esistenza o l’inesistenza dei fatti principali (c.d. fatti semplici o secondari). Su tale fondamentale distinzione si vedano, per tutti, B. CAVALLONE, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, p. 115; M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, 1962, pp. 343 ss.; D. BUONCRISTIANI, L’allegazione dei fatti nel processo civile. Profili sistematici, Torino, 2001, pp. 109 ss.; A. PROTO PISANI, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003, pt. I., p. 605; ID., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, pp. 406 ss.; G. TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, 2009, p. 198..
Quando la mancata contestazione investe fatti costitutivi della domanda essa assume la fisionomia di «comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualunque controllo probatorio del fatto non contestato e ritenerlo sussistente per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto dall’ambito degli accertamenti richiesti». Ciò sulla base degli articoli 167 e 416 C.P.C. che impongono al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti dedotti dall’attore a fondamento della domanda.
Se invece la mancata contestazione riguarda fatti secondari essa si colloca nella categoria dei comportamenti non vincolanti per il giudice, ma da questi apprezzabili come semplice argomento di prova
Le Sezioni Unite hanno affermato, infatti, che la mancata contestazione «rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l’esistenza di codesti fatti: A) nella prima ipotesi il comportamento della parte costituisce manifestazione dell’autonomia riconoscibile alla parte in un processo dominato dal principio dispositivo, con la conseguenza che il fatto non contestato non ha bisogno di prova perché le parti ne hanno disposto vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza; si tratta, quindi, di un ambito di incidenza estraneo alla determinazione del thema probandum ed inerente soltanto alla determinazione del tema di fatto che è a base della controversia; B) nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine all’applicazione delle regole tecnicocontabili), nonostante la mancanza di controversia sulla specifica circostanza, si è fuori del dominio esclusivo dell’autonomia delle parti ed è pur sempre necessario un controllo probatorio, ai fini del quale il comportamento tenuto dalle parti può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.»..
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno precisato che la mancata contestazione assume un diverso grado di stabilità, a seconda che investa i fatti principali ovvero quelli secondari. Nel primo caso, in quanto riflesso del potere di allegazione dei fatti, la mancata contestazione soggiace agli stessi limiti preclusivi stabiliti dalla legge per tale potere
Se la mancata contestazione «concerne fatti costitutivi del diritto, [essa] si coordina al potere di allegazione dei medesimi e partecipa della sua natura, sicché simmetricamente soggiace agli stessi limiti apprestati per tale potere; in altre parole, considerato che l’identificazione del tema decisionale dipende in pari misura dall’allegazione e dall’estensione delle relative contestazioni, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio ritenere che un sistema di preclusioni in ordine alla modificabilità di un tema siffatto operi poi diversamente rispetto all’uno o all’altro dei fattori della detta identificazione; e, pertanto: Aa) il limite della contestabilità dei fatti costitutivi originariamente incontestati si identifica, nel rito del lavoro, con quello previsto dall’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. per la modificazione di "domande eccezioni e conclusioni già formulate"; Ab) trattasi di preclusione argomentabile dal sistema e non di decadenza ex art. 416 cod. proc. civ., norma che commina tale sanzione per le sole domande riconvenzionali e per le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio e proposte oltre il limite temporale, assegnato alla memoria difensiva; Ac) ai fini della tempestività della contestazione, non rileva la tardività della costituzione in giudizio, potendo un problema di preclusioni alla contestabilità porsi soltanto nel presupposto della rilevanza di un originario atteggiamento di non contestazione».. Viceversa, qualora la mancata contestazione abbia ad oggetto i fatti secondari, ovvero le regole su cui si fondano le operazioni di quantificazione del bene in contesa, essa può considerarsi provvisoria, o reversibile, non ravvisandosi limiti o preclusioni al potere di contestazione successiva di ciò che originariamente non era stato contestato
Allorché la mancata contestazione investa «circostanze di rilievo istruttorio, trova, invece, più ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, versandosi in un ambito nel quale il controllo probatorio è, in ogni caso, necessario e l’atteggiamento difensivo del convenuto ed i suoi eventuali mutamenti rilevano solo come "argomenti", da valutarsi, nel concorso delle ulteriori risultanze istruttorie, ai fini della formazione del convincimento del giudice». La Corte prosegue riferendo che ciò non «contrasta con la struttura propria del rito speciale in quanto: Ba) una tardiva contestazione dei fatti probatori non comporta alcuna alterazione del sistema difensivo che l’attore deve, in ogni caso, avere approntato secondo il principio di eventualità (vale a dire formulando - già nell’atto introduttivo del giudizio, sotto pena di preclusione - le proprie istanze istruttorie con la completezza che si imporrebbe in presenza di un’integrale contestazione ad opera della controparte) e che, quindi, già appartiene potenzialmente al tema istruttorio della causa; Bb) le sopravvenute contestazioni che implicano modificazioni del tema istruttorio, non essendo colpite da specifica sanzione di decadenza ex art, 416 cod. proc. civ., possono essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni dell’oggetto della controversia le quali, come si è detto, si correlano al potere di allegazione ed ai limiti che lo governano; Bc) è caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della "verità materiale", di guisa che, quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova ma ha il poteredovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti».
Con la decisione de qua si è per la prima volta affermato che negli articoli 167 e 416 C.P.C. è ravvisabile un vero e proprio onere di contestazione gravante sul convenuto per cui il fatto il fatto non contestato è sottratto dall’ambito degli accertamenti probatori necessari ai fini della decisione. Uno dei principi fondamentali che giustifica l’abbandono dell’indirizzo precedente consiste nel rilievo per cui «a fronte di un onere imposto dal dettato legislativo», la mancata contestazione «rappresenta l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto» sicché diventa «sostanzialmente inavvertibile la tradizionale differenza tra ammissione implicita e non contestazione». Infatti i giudici di legittimità affermano che nella mancata contestazione dei fatti principali si ravvisa «un comportamento rilevante per la determinazione dell’oggetto del giudizio che dovrà astenersi da qualunque controllo probatorio del fatto non contestato e ritenerlo sussistente». Se invece a non essere contestati sono i fatti secondari il comportamento processuale della parte non vincolerà il giudice per la decisione, ma potrà essere valutato come semplice argomento di prova.
4) LE REAZIONI DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA AL DICTUM DELLA CASSAZIONE n.761/2002
La pronuncia delle Sezioni Unite ha stimolato fin da subito l’interesse degli interpreti. I numerosi studi compiuti dopo la sentenza n.761/2002 hanno però in larga parte dissentito dalla pronuncia de qua che è stata molto criticata dalla dottrina e trascurata da una parte della giurisprudenza.
C. M. CEA, Art. 115 c.p.c., in Le nuove leggi civili commentate, 2010, p. 799
Procedendo con ordine si è dubitato della validità del ragionamento seguito dai giudici di legittimità con riferimento sia al fondamento delle argomentazioni svolte, in base al principio dispositivo, sia alla dicotomia fondamentale che la Suprema Corte ha tracciato tra la rilevanza della mancata contestazione per i fatti principali e per quelli secondari.
Al riguardo si è affermato, che la non contestazione dovesse essere considerata una mera “tecnica di economia processuale” (e non una manifestazione del principio di dispositivo) che attiene alla prova dei fatti, i quali, se non controversi, escono dal thema probandum e determinano un alleggerimento degli oneri probatori che ne rende superflua la prova e senza che ciò significasse che essi fossero realmente accaduti alla stregua dell’effetto tipico delle prove legali.
Così afferma, A. PROTO PISANI, in Ancora sulle allegazioni di fatti e sul principio di non contestazione nel processo civile nei processi a cognizione piena, in Foro it., 2006 cit., p. 604: « l’allegazione dei fatti principali non è espressione dell’autonomia sostanziale, ma è solo un problema di tecnica processuale, di modello di processo concretamente adottato: ne segue che i fatti, fermo il superiore principio del divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice, possono emergere anche dagli atti del processo. Ne segue che il valore della non contestazione non può essere dedotta dal principio dell’autonomia privata. Ne segue, ancora, che la distinzione tra valore della non contestazione dei fatti principali e valore della non contestazione dei fatti secondari non regge: la non contestazione opera allo stesso modo sia riguardo ai fatti principali che riguardo ai fatti secondari. La non contestazione è sempre la stessa cosa: contegno processuale valutato diversamente a seconda che il processo sia relativo a diritti disponibili o a diritti indisponibili»
E anche così dice, A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art.115 c.p.c., cit., p. 83: «l’errore fondamentale del leading case testé ricordato consiste nell’aver dato corpo giurisprudenziale al dogma della non contestazione dei fatti principali quale riflesso del principio dispositivo in senso sostanziale, di cui le parti detengono il monopolio. Sol che si rifletta un poco, la non contestazione è mera tecnica di economia processuale, che trova fondamento nell’autoresponsabilità delle parti e attiene alla prova dei fatti: questi, se non controversi, escono dal thema probandum e determinano una relevatio ab onere probandi, che ne rende superflua la dimostrazione, a prescindere dal carattere principale o secondario di essi».
Il fondamento della specifica contestazione nel principio dispositivo determina due fondamentali conseguenze: «a) la non contestazione esplica i suoi effetti solo con riferimento ai fatti principali, b) il fatto non contestato probatorio del giudice che dovrà considerarlo vero senza possibilità di smentita. […] Nessuna di queste due asserzioni è condivisibile; non la prima perché il principio di non contestazione diventerebbe recessivo per gran parte dei fatti posti nel processo (fatti secondari); ma neppure la seconda perché bisognerebbe dire che il giudice è costretto a tenere per vero il fatto non contestato anche quando tale verità sia smentita dalle prove acquisite nel processo».
Così C.M.CEA, in Art. 115 C.P.C., in Le nuove leggi civili commentate, 2010
Ma così si avrebbe «una sorta di verità negoziata insindacabile per il giudice ed irrevocabile per le parti stesse a meno che non sia affetta da vizi di formazione (errore di fatto o violenza ex art.2732 c.c.), peraltro difficilmente prospettabili per un’attività omissiva dei difensori quale è la non contestazione del suo estrinsecarsi nel processo.
Così A. TEDOLDI, in La non contestazione nel nuovo art. 115 C.P.C., in Riv.proc.civ., 2011
Si è osservato che la concezione negoziale della contestazione dei fatti è discutibile per varie ragioni ma soprattutto perché essa appare fondata su un equivoco che riguarda la natura e la funzione di allegazione dei fatti e della loro contestazione effettuata o mancata. Al riguardo si è detto che «l’allegazione di un fatto consiste nella formulazione di un enunciato descrittivo di quel fatto, compiuta da una parte in uno dei suoi atti. Questo enunciato è caratterizzato da verità poiché la parte che allega il fatto lo indica come vero. […] In secondo luogo bisogna dire che l’allegazione di un fatto non ha nessun effetto dispositivo o normativo: solo nel momento in cui una parte lo riconduce ad una fattispecie legale il fatto allegato diventa “costitutivo” di una situazione giuridica».
Così M. TARUFFO, in La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009Questa considerazione induce ad escludere l’attendibilità dell’opinione per cui l’allegazione dei fatti sarebbe connessa al principio dispositivo, anzi sarebbe uno strumento finalizzato all’attuazione di tale principio perché le parti-allegando fatti-determinerebbero l’oggetto delle domande e vincolerebbero il giudice a decidere solo su quanto allegato. Considerazioni simili valgono sia per il rito ordinario che anche per il rito del lavoro infatti: «non è sancito in nessun principio di civiltà giuridica che l’omissione da parte del convenuto della contestazione doverosa significhi ammissione del fatto non contestato, con conseguente effetto di esentare il ricorrente dall’onere della prova di tale fatto costitutivo della domanda».
Così A. VALLEBONA, in L’onere di contestazione nel processo del lavoro, in Arg.dir.lav., 2003
Ciò nonostante si sono avuti anche commenti positivi sulla decisione n.761/2002. È stato infatti affermato che questa pronuncia ha avuto il merito «di superare il recinto processual-lavoristico in cui era rimasta imbrigliata dettando una disciplina compiuta valevole tanto per il processo ordinario quanto per il processo del lavoro».
Così B. SASSANI, in L’onere della contestazione, in judicium.it, 2010 Riguardo alla giurisprudenza formatasi dopo la pronuncia n.761/2002 va fin da subito detto che i giudici di legittimità non hanno sempre condiviso i principi enunciati dalle Sezioni Unite riguardo alla specifica contestazione. Infatti a numerose pronunce che si sono adeguate al dictum della Suprema Corte altre si sono opposte.
Al primo gruppo di decisioni appartengono quelle che hanno valorizzato il principio in esame, rimarcando l’insufficienza di una generica contestazione ed estendendo l’ambito applicativo dell’istituto in discorso anche ai fatti secondari
In particolare, Cass. 26 settembre 2002, n. 13972, in Mass. Giust. civ., 2002, p, 1727; Cass. 15 gennaio 2003, n. 535, ivi, 2003, p. 108, e Cass. 3 febbraio 2003, n. 1562, in Foro it., 2003, I, p. 1453.
Nelle sentenze favorevoli sono state non solo confermate ma anche rafforzate le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte nel 2002, infatti si è esplicitato che l’onere di contestazione si deve ritenere «un principio generale che informa il sistema processuale civile», poggiando le proprie basi non solo su specifiche norme, ma soprattutto (a) sul carattere dispositivo del processo, comportante una struttura dialettica a catena; (b) sulla generale organizzazione del giudizio in fasi del giudizio in fasi, scandite secondo il principio di preclusione; (c) sul dovere di lealtà e probità di cui all’articolo 88 C.P.C. ; (d) e anche sul generale principio di economia processuale dell’articolo 111 della Costituzione
Così, Cass. n. 12636/2005 cit. Nello stesso senso, si vedano le successive Cass. 24 gennaio 2007, n. 1540, in Dejure; Cass. n. 23638/2007 cit.; Cass. n. 5191/2008 cit.; Cass. 21 maggio 2008, n. 13078, in Guida al diritto, 2008, fasc. 38, p. 80; Cass. n. 27596/2008 cit.; Cass. n. 5356/2009 cit..
Come anticipato ci sono state anche decisioni che si sono discostate dalla sentenza n.761/2002 e hanno affermato le conclusioni raggiunte dagli orientamenti più risalenti e che ho già riportato ed esaminato in questo Capitolo
In tale solco interpretativo si collocano Cass. n. 2959/2002, cit.; Cass. 5 marzo 2002, n. 3175, in Rep. Foro it., 2002, voce Prova civile in genere, n. 17; Cass. 16 gennaio 2003, n. 559 e Cass. 5 febbraio 2003, n. 1672, entrambe in Foro it., 2003, I, p. 2107, con commento di C. M. CEA, Il principio di non contestazione tra fronda e disinformazione; Cass. 28 ottobre 2004, n. 20916, ivi, 2005, I, p. 728, con nota di C. M. CEA, La non contestazione dei fatti e la Corte di Cassazione: ovvero un principio poco amato; Cass. 6 febbraio 2004, n. 2299, in Dejure; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2699, in Rep. Foro it., 2004, voce Prova civile in genere, n. 17; Cass. n. 13830/2004 cit.; Cass. n. 2273/2005, cit.; Cass. 14 marzo 2006, n. 5488, in Dejure; Cass. 16 giugno 2005, n. 13958, ivi; Cass. 27 maggio 2009, n. 12274, ivi; Cass. 1° dicembre 2009, n. 25281, ivi..
5) LA SCELTA DEL LEGISLATORE, LA RIFORMA DELL’ARTICOLO 115 COD.PROC.CIV., LEGGE 69/2009
5.1 Cenni al rito societario
L’anno successivo alla sentenza delle Sezioni Unite n.761/2002 fu introdotto il rito societario (D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5).
Sebbene questo rito non sia più vigente, in quanto dichiarato incostituzionale
Mi riferisco a Corte Cost. 12 ottobre 2007, n. 340, in Foro it., 2008, I, p. 721, con nota critica di A. BRIGUGLIO, La Corte Costituzionale e la «ficta confessio» nel processo societario; in Corr. giur., 2008, esso introdusse nell’ordinamento processuale delle novità importanti riguardo al principio della non contestazione.
Al riguardo si segnala innanzitutto l’articolo 13 comma 2 che inserì il meccanismo della ficta confessio per cui la tardiva notifica della comparsa di risposta da parte del convenuto e la successiva, rapida e pronta richiesta dell’attore di fissare l’udienza per la discussione rendeva non contestati i fatti dedotti dall’attore.
Infatti è stato detto che «la norma dichiarata incostituzionale aveva provocato l’abbandono del principio storicamente adottato dalla legislazione italiana secondo cui la contumacia costituisce una ficta contestatio per approdare all’opposto principio che la stessa dà luogo ad una ficta confessio ( in base al primo modello, in caso di contumacia del convenuto, l’attore è comunque tenuto a provare i fatti costitutivi della domanda; al contrario in base al secondo sistema se il convenuto è contumace, l’attore è esonerato dalla prova dei fatti costitutivi del proprio diritto venendo considerati non contestati e quindi ammessi)»
Così B. SASSANI-R. TISCINI, in Il nuovo processo societario, in judicium.it .
In secondo luogo occorre parlare dell’articolo 10 comma 2bis del D.lgs. 5/2003 che disponeva: «la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti e non specificamente contestati». Dunque i fatti non contestati nello specifico erano fissati in modo definitivo nel momento in cui una parte avesse notificato alla o alle altre parti l’istanza di fissazione dell’udienza. Da questa analisi ci si accorge come nel 2003 vi fu un primo “segnale” del riconoscimento normativo dell’istituto della contestazione che avverrà compiutamente con la legge di riforma del processo civile n. 69 /2009.
5.2 L’iter per l’approvazione dell’attuale articolo 115 C.P.C., la Legge 69/2009
Negli anni trascorsi tra il varo del rito societario e la riforma del 2009 il tema della non contestazione non fu dimenticato, anzi nei numerosi progetti di riforma del C.P.C. se ne prestò attenzione.
Si ricordi in primis l’articolo 23 del disegno di legge delega, conosciuto anche con il nome di “bozza Vaccarella”, per l’attuazione delle modifiche al C.P.C., approvato dal C.d.m. nell’ottobre del 2003 per cui il governo era delegato a «prevedere che, nel caso di contumacia della parte avversa, il giudice il ritenga ammessi i fatti costitutivi della domanda ed emetta ordinanza di condanna esecutiva a seguito di valutazione della concludenza della domanda previo, ove il quantum non sia stato documentato, deferimento del giuramento suppletorio o estimatorio, penalmente sanzionato».
Poi l’articolo 11 del disegno di legge, approvato dal C.d.m. nel marzo 2007, recante “Disposizioni per la razionalizzazione ed accelerazione del processo civile”, mirava a modificare l’articolo 88 C.P.C. nel senso che «le parti costituite devono chiarire le circostanze di fatto in modo chiaro e veritiero» e l’art. 115 C.P.C., al quale si proponeva di aggiungere che il giudice avrebbe dovuto porre a fondamento della domanda le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza «nonché i fatti non specificamente contestati».
Infine va citato il progetto di riforma del codice di rito, progetto Proto Pisani, in cui viene attribuita gran rilevanza al principio della specifica contestazione, anche tramite la valutazione della contumacia come ficta confessio.
Giungendo all’esame dei lavori preparatori della riforma dell’articolo 115 C.P.C. va anzitutto detto che il disegno di legge n.1441 del luglio 2008 della Camera dei Deputati prevedeva in origine che al primo comma dell’articolo 115 fossero aggiunte le parole «nonché i fatti contestati in modo generico».
Poi in una seduta del settembre 2008 è stato approvato un emendamento che ha modificato l’aggiunta in «nonché i fatti ammessi o non contestati».
Quando il disegno di legge è passato all’esame del Senato, il testo dell’art.115 ha subìto ancora una modifica, poiché le commissioni del Senato in una seduta del febbraio 2009 hanno approvato un emendamento per cui il giudice deve fondare la decisione anche sui «fatti non specificamente contestati dalla parte costituita».
Il testo così emendato è stato approvato sia dal Senato che dalla Camera diventando il nuovo e vigente articolo 115 del cod.proc.civ. che dispone «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Il giudice può però, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza».
Dunque l’intervento legislativo ha finalmente riconosciuto expressis verbis l’esistenza nell’ordinamento processuale vigente del generale principio della specifica contestazione, tuttavia sarebbe stata apprezzabile una disposizione completa ed esaustiva riguardo alle numerose questioni che risultano essenziali per la corretta applicazione pratica del principio de quo da parte di tutti i soggetti processuali, giudici compresi.
6) IL RUOLO DEL GIUDICE NELLA VALUTAZIONE DEI FATTI
L’integrazione apportata al testo dell’art. 115 C.P.C ad opera della legge 69/2009 consente di parlare del “principio di non contestazione” gravante sulle parti del processo. In base ad esso le parti sono onerate di prendere posizione in modo specifico e circostanziato circa le allegazioni della controparte. In mancanza il giudice considererà le circostanze non investite da specifica contestazione come dati di fatto non bisognosi di prova, quindi pacifici, e dovrà fondare la decisione della lite sulla base di esse.
È stato detto che il principio della specifica contestazione è un «tema tormentato».
Così I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari, dopo la modifica dell’art 115 C.P.C. p. 239
Il dibattito ha riguardato e riguarda la natura dell’attività contestativa – dispositiva o probatoria; poi, il significato da attribuire alla contestazione come comportamento umano processuale – ammissione o confessione; inoltre la delimitazione temporale dell’ambito di operatività dell’onere di contestazione; ancora i comportamenti integranti in concreto la mancata contestazione – silenzio, contumacia, contestazione generica, parziale, o implicita; infine le conseguenze da attribuire al contegno contestativo delle parti – obbligo o facoltà per il giudice di tenere conto dei fatti non contestati.
Molti di questi interrogativi sono stati sviscerati con grande attenzione e dedizione incrementati da ulteriori riflessioni ed approfondimenti che hanno finito per complicare ancor più il panorama di riferimento. Il costante sedimentarsi di studi, tesi, opinioni ed interpretazioni varie e a volte antitetiche tra loro, comporta la necessità di effettuare un grande sforzo ermeneutico per lo studio, analisi del “fenomeno”.
Un primo problema di notevole importanza nello studio dell’onere di specifica contestazione è quello relativo a quale ruolo assuma l’organo giudicante dinanzi ad uno o più fatti sui quali non sia intervenuta specifica contestazione. Occorre chiedersi, cioè, se il giudice risulti vincolato a ritenere veri i fatti su cui le parti non hanno mostrato disaccordo, ovvero se la valutazione di tutte le prove raccolte ed espletate consenta al giudice di superare l’apparente “superiorità” dei fatti non contestati – dovuta all’uso del «deve» che si rinviene nell’art.115 C.P.C.- nel contesto di una valutazione generale e complessiva di tutte le emergenze istruttorie.
Secondo un primo filone ermeneutico, il giudice avrebbe l’obbligo di ritenere provato il fatto non contestato senza svolgere istruttoria. Tale posizione è a favore della equiparazione piena tra fatto non contestato e fatto provato: la non contestazione «non è rimessa alla valutazione caso per caso del giudice circa l’effettiva incompatibilità logica tra impostazione difensiva del convenuto e negazione del fatto, ma viene ricavata una volta per tutte direttamente dalla legge, intesa nel senso dell’automatica equiparazione tra omessa o generica contestazione e ammissione del fatto non contestato».
Così G. BUFFONE, L’onere di contestazione, Relazione all’incontro di studi tenutosi presso il C.S.M., 2011 p. 14 È stato sostenuto che la collocazione della disposizione nel primo comma dell’art.115 C.P.C. (dove il «deve» va letto come limite ai poteri del giudice che è autorizzato a giudicare solo iuxta probata) autorizza «anche a giudicare iuxta non oppugnata ma se e in quanto alia non obstant».
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it cit., p. 9 Secondo questa impostazione la mancata contestazione determinerebbe una relevatio ab onere probandi in favore della parte originariamente onerata, che beneficerebbe pertanto di un esonero dalla prova. Ciò significa che la mancata contestazione non dà luogo ad una prova intesa nel senso di rappresentazione o dimostrazione. In altre parole, il dato non contestato non può essere considerato come un fatto positivamente accertato nella sua esistenza o inesistenza Tale conclusione è condivisa da numerosi studiosi che ritengono che il nuovo art.115 C.P.C. non ponga vincoli al giudice nella decisione della lite sulla base del fatto non contestato: «il giudice, preso atto della non contestazione, non potrà mai dire che quel fatto non è provato ma dirà che quel fatto è vero salvo che non risultino elementi probatori che ne smentiscono la verità».
Così C.M. CEA, La modifica dell’art. 115 C.P.C. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro.it ,2009 pp. 272-273 il quale avverte che, opinando diversamente, si finirebbe per assimilare negli effetti il fenomeno della mancata contestazione alle prove legali e si trasformerebbe una tecnica di semplificazione processuale «(finalizzata, in ultima analisi, alla contrazione dei tempi processuali)» in un modo di fissazione formale dei fatti, «con l’assurda conseguenza che il giudice dovrebbe tenere per vero il fatto non contestato anche quando le risultanze processuali ne smentiscono la verità»
Altra parte della dottrina, pur parlando di relevatio ab onere probandi, assume che la mancata contestazione diventa essa stessa «fonte di prova». Per giungere a tale conclusione si osserva che la parte, non contestando nello specifico un fatto dispone in tal modo del thema probandum, consentendo al giudice «di poter ritenere quel fatto provato anche senza che sia stata acquisita al giudizio nessuna prova diretta, ad opera della parte a ciò onerata»
In questi termini, C. CAVALLINI, La non contestazione nell’arbitrato, in Riv. arb., 2009, p. 56..
Di opposta opinione Pagni, che ha precisato che la non contestazione di un fatto rende questo pacifico, non provato. Infatti l’Autrice dice che si tratta di un onere il cui significato nonostante il silenzio della norma sul punto è solo l’esclusione dei fatti non contestati dal thema probandum e la relevatio ab onere probandi della parte che ha allegato il fatto non contestato, senza che sorga un vincolo per il giudice di ritenere che il fatto sia comunque esistente anche in presenza di elementi che inducano alla valutazione contraria: «una formulazione che mira a porre una regola (di qua il “deve”), secondo cui una volta giunti al momento della decisione, da un lato, si dovrà considerare un dato acquisito il fatto che la circostanza non contestata non dovesse costituire oggetto di prove richieste dalle parti o disposte d’ufficio. Dall’altro lato quel fatto dovrà essere assunto dal giudice a fondamento della propria pronuncia, purché non siano emerse dagli atti di causa per altra via, prove contrarie all’esistenza del fatto in questione».
Così I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari, dopo la modifica dell’art. 115 C.P.C. cit., p. 238 Ciò detto sembra corretto dire che l’art. 115 C.P.C. affida al giudice il potere di valutare quali fatti siano da considerare pacifici in quanto non contestati all’esito del contraddittorio e avendo presente l’atteggiamento difensivo della controparte.
Dello stesso avviso anche Comoglio che ne ricava il dovere del giudice di sottoporre il fatto non contestato ad un attento controllo probatorio ogni volta che fonti di prova lo inducano a dubitare della veridicità del dato non smentito o ne dimostrino la falsità.
Così L.P. COMOGLIO, Art.115 C.P.C., in Commentario del codice di procedura civile, Torino,2012 p. 392
Dunque, il fatto allegato che non sia stato nello specifico contestato potrà essere ritenuto decisivo ai fini dell’accertamento del giudice quando ad esso non si contrappongono altre prove di segno contrario, oppure quando, in seguito a valutazione delle prove, il giudice lo riterrà sufficiente per la formazione del proprio convincimento. In caso contrario il giudice sarà tenuto a risolvere la questione in base alla regola generale di cui all’art.2697 c.c.
Così S. PATTI, La disponibilità delle prove in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011 cit., p. 91.
Se questo è vero, ne consegue l’esattezza indiscussa del rilievo per cui «la non contestazione, in quanto tecnica processuale semplificatrice, si risolve in sostanza in una presunzione di verità che però non può prevalere sulla verità tutte le volte che le emergenze processuali consentano di accertarla».
Così C.M. CEA, Art.115 C.P.C., in La modifica dell’art.115 C.P.C. cit., p. 273
Ancora è stato sottolineato come la collocazione del principio in esame dimostra che il legislatore non ha inteso utilizzare lo strumento della specifica contestazione come metodo per la fissazione dei fatti, ma come «comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova dei fatti medesimi».
Così G. BALENA., Art.115 C.P.C., in La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n.69/2009 p. 35 Ciò che ha il considerevole vantaggio di evitare che l’omessa contestazione, implicando in via automatica e necessaria la verità del fatto non contestato possa eventualmente collidere col risultato dell’istruzione probatoria attribuendo al fatto la stabilità propria del fatto confessato.
Di conseguenza: «il giudice conserva una certa discrezionalità nell’apprezzare la non contestazione, ossia nel valutare quanto l’atteggiamento processuale di una parte dinanzi ad una determinata allegazione dell’avversario possa reputarsi significativo e comunque sufficiente a considerare provato il fatto allegato».
Così G. BALENA., Art.115 C.P.C., in La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n.69/2009 sempre p. 35 Secondo questa ricostruzione, la mancanza di contestazione offre al giudice uno strumento per formare il proprio convincimento sulla sussistenza o non del fatto allegato. Resta in capo al giudice il potere di valutare secondo prudente apprezzamento l’idoneità degli elementi acquisiti a fondare la decisione del caso concreto.
Infatti è stato sottolineato come a seguito della nuova formulazione dell’art.115 C.P.C. il giudice può formare il proprio convincimento «attingendo elementi da due vettori conoscitivi. Il primo vettore è costituito dalle prove proposte dalle parti; sono queste un vettore informativo dato che veicolano informazioni. Il secondo vettore conoscitivo è rappresentato dalla non contestazione. Essa consiste in un semplice comportamento; ma ad esso la legge attribuisce una idoneità informativa […] La non contestazione viene trattata come se non fornisse notizie ed in base a ciò ad essa viene attribuita una forza di convincimento».
Così N. SAPONE., Il principio di non contestazione nel processo del lavoro Milano, 2012 cit., p. 20.
Quindi l’omessa contestazione di un fatto non espunge quest’ultima dal novero dei fatti sui quali deve formarsi il convincimento del giudice. Resta cioè necessario un convincimento del giudice riguardo alla verità o falsità del fatto non contestato. In altri termini, il giudice, non essendo vincolato alla mancata contestazione di una e ben potendo fare uso di altre risultanze probatorie, può ritenere falsa la circostanza allegata e non contestata, non ponendola a fondamento della decisione della controversia.
Avverte, però, Tedoldi la riformulazione dell’art. 115 C.P.C. rischia di essere «inutile e dannosa, aprendo spazi ad una discrezionalità giudiziale senza confini e non razionalizzabile a priori». Secondo l’Autore, essa è inutile perché l’enunciazione vaga e generica del potere-dovere del giudice di tenere conto, ai fini sia dell’ammissione delle istanze istruttorie, sia della decisione della lite, anche dei fatti non contestati, è ovvia. La riscrittura normativa di cui si tratta è anche dannosa perché la mancata indicazione delle modalità e dei termini per l’efficace assolvimento dell’onere contestativo lascia al giudice «un potere discrezionale incontrollabile che rischia di sconfinare nell’arbitrio, senza guide sicure nell’uso di uno strumento latu sensu probatorio per sua natura sottratto ai criteri applicativi predicabili ex ante».
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art 115 C.P.C., in Riv.dir.proc., 2011 cit., p. 88 Rilievi questi ineccepibili. Ed è proprio per queste fondamentali ragioni che occorre affrontare la lacunosa e generica disposizione di cui all’art.115 C.P.C. con vigoroso sforzo ermeneutico.
7) I FATTI OGGETTO DI CONTESTAZIONE
L’art. 115 C.P.C. dispone che il giudice debba porre a fondamento della decisione «i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita».
Dunque occorre analizzare su quali fatti la contestazione produca l’effetto di relevatio ab onere probandi a beneficio della parte allegante.
Ma innanzitutto diamo la nozione di fatto rilevante dal punto di vista processuale. Potrebbe definirsi tale ogni enunciato di un accadimento in senso naturalistico, ovvero di una circostanza o di uno stato soggettivo, che il diritto prende in considerazione in quanto giuridicamente rilevante per il concreto esercizio dell’azione giurisdizionale. Pertanto, tutti i fatti sono teoricamente idonei a divenire «fatti giuridici», ma soltanto alcuni di essi diventano tali, nella misura (e nel momento) in cui detti enunciati attengono, più o meno direttamente, all’oggetto di una lite instaurata da taluno a tutela dei propri diritti e interessi.
Ciò precisato, è possibile ora chiedersi quali tra i fatti rilevanti all’interno di un giudizio siano quelli cui deve essere applicato il principio della specifica contestazione, secondo l’art. 115 cod. proc. civ.
La norma non fornisce alcun elemento utile al fine di individuare il novero dei dati fattuali idonei ad essere investiti da tale regola processuale. Il riferimento generico ai «fatti» non è, invero, di alcun aiuto allorché occorra delimitare il reale ambito di applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e del principio ivi enunciato. Ancora una volta, dunque, spetta agli interpreti occuparsi della questione. Numerosi sono gli Autori che si sono preoccupati di individuare l’ambito di applicazione del principio oggetto del presente studio. È stato, anzitutto, precisato che l’effetto tipico della specifica contestazione, cioè la relevatio ab onere probandi, investe non tutti i fatti che l’attore allega a proprio favore, ma solo quelli che esso ha l’onere specifico di provare.
Di quest’avviso B. SASSANI, L’onere della contestazione in www.judicium.it cit., p. 10.
Ciò chiarito è stato specificato che l’onere di contestazione riguarda i fatti e non la qualificazione giuridica degli stessi.
Infatti il principio della non contestazione si riferisce ai fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda o dal convenuto a supporto dell’eccezione, ovverosia ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende, perciò, alle circostanze che implicano un’attività di giudizio o comunque a espressioni qualificatorie o definitorie, di esclusivo appannaggio giudiziale.
Così S. DEL CORE, Il principio di non contestazione diventa legge: ne erano maturi i tempi? in Il diritto delle prove – Atti del convegno di Catania, 21-22 novembre 2008, a cura di A. CARIOLA, A. CORSARO, G. D’ALLURA, F. FLORIO, Torino, 2009 cit., p. 76 Quindi esso opera solo sul piano della prova e non della qualificazione dei fatti da provare.
Vi è, tuttavia, chi avverte che l’indiscutibile soluzione proposta con riferimento all’interpretazione delle norme di diritto non risulta altrettanto certa allorché si disquisisca dell’applicazione delle disposizioni di un contratto. Al riguardo, si afferma, infatti, che «la non contestazione può riguardare fatti rilevanti ai fini della interpretazione di un contratto e, dunque, indirettamente, proprio la qualificazione della volontà contrattuale delle parti che ne deriva».
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 161 La ragione di tale posizione risiede in ciò che l’interpretazione del contratto è una questione di fatto e non di diritto.
7.1 Fatti relativi a diritti disponibili
Dopo aver chiarito che la contestazione deve riferirsi unicamente ai fatti nella loro accezione storica e non già alla qualificazione giuridica o alle implicazioni di natura sostanziale o processuale degli stessi, occorre indagare quanti e quali fatti possano “subire” l’effetto della regola della specifica contestazione.
Anzitutto, gli interpreti si sono domandati se i fatti su cui cada efficacemente la mancata contestazione siano soltanto quelli riferibili a diritti disponibili, ovvero se le conseguenze collegate all’adempimento dell’onere in parola possano verificarsi anche nelle situazioni sostanziali connotate dalla indisponibilità del diritto sotteso.
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione in www.judicium.it cit., p. 8
La tesi restrittiva parrebbe essere quella prevalente, sul rilievo che potrebbero altrimenti essere agevolmente aggirati dalle parti i divieti che operano in materia di diritti indisponibili.
Si veda, in questo senso, C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 273
Per comprendere le ragioni di una simile posizione, basti pensare al fatto che il valore del “riconoscimento” del fatto rilevante ai fini della decisione, tacito o esplicito che sia, è subordinato alla disponibilità dei diritti in contesa.
Si tratta della tesi tradizionale e maggiormente accreditata. In argomento, si vedano, ex multis, A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile cit., p. 408; F. P. LUISO, Diritto processuale civile cit., p. 55; E. T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile cit., p. 309. Ciò è senz’altro vero e trova conferma principalmente nella norma di cui all’art. 2698 cod. civ., la quale sanziona con la nullità i patti con i quali sia invertito o modificato l’onere della prova in materia di diritti indisponibili. Ciò a riprova dell’impossibilità per le parti di influire sul regime dell’onere probatorio quando si sia in presenza di diritti di cui esse non possono disporre.
Ulteriore e definitiva conferma di tale impostazione si rinviene nelle parole di chi chiaramente afferma che la limitazione dell’operatività della regola della specifica contestazione ai diritti disponibili non è espressamente prevista dall’art. 115 cod. proc. civ., ma essa «si impone in applicazione dei principi generali», nel senso che «se le parti non possono disporre di un diritto sul piano sostanziale, non pare ammissibile che ottengano il medesimo effetto con la loro condotta processuale».
Così G. CAMPESE., La non contestazione, Relazione all’incontro di studi tenutosi presso il C.S.M.,2011 p. 13
Di segno completamente antitetico all’opinione finora esposta è la tesi di Balena, a parere del quale il principio della specifica contestazione è applicabile anche ai fatti relativi a diritti indisponibili con la precisazione, però, che in questi casi il principio de quo operi con una efficacia minore. Egli ritiene, cioè, che nelle ipotesi considerate non sarebbe certamente possibile ammettere che le allegazioni concordi delle parti vincolino senz’altro il giudice a ritenere veri i fatti che ne sono oggetto. Tuttavia, occorrerebbe comunque attribuire un valore a tali contegni processuali attraverso la valutazione del comportamento non contestativo quale mero argomento di prova ex art. 116, 2° comma, cod. proc. civ., anziché quale prova liberamente valutabile ex art. 116, 1° comma, cod. proc. civ. In tal modo, secondo l’opinione in discorso, si esclude che il giudice possa fondare la decisione sul solo comportamento omissivo della parte.
Così G. BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in il Giusto proc. Civ, 2009 cit., p. 779 Probabilmente la prima delle tesi evidenziate sarebbe da preferire, sulla considerazione che i diritti di natura indisponibile non tollerano la “incondizionata” disposizione che di essi ne faccia la parte titolare e, dunque, l’utilizzazione della regola della specifica contestazione con riferimento ai diritti in oggetto si tramuterebbe in un illegittimo espediente che avrebbe l’effetto di violare le norme di legge in materia.
Potrebbe allora concludersi sul punto, in linea con quanto sostiene Tedoldi, che la regola di cui all’art. 115 cod. proc. civ. può astrattamente condurre a una decisione fondata sui soli fatti non contestati (poiché, in ipotesi, questi non hanno ricevuto smentita dalle altre risultanze istruttorie), ma ciò può ammettersi solo ove la tutela giudiziale domandata si inserisca nel campo dei diritti disponibili. Nel caso di giudizi vertenti su materie indisponibili, invece, i fatti coinvolti dal concreto operare della regola della specifica contestazione concorreranno con gli altri mezzi di prova a formare il convincimento del giudice, ma mai potranno, anche solo astrattamente, fondare da soli la decisione della lite.
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art.115 C.P.C., cit., p. 94.
7.2 Fatti conosciuti e fatti conoscibili
Non tutti i fatti introdotti in giudizio dalle parti sono necessariamente inclusi nella sfera di conoscenza delle altre. E, posto che il legislatore non indirizza a questi o a quei fatti la regola dell’onere di specifica contestazione, è importante chiarire che non tutti i fatti allegati possono subire le conseguenze che la legge collega alla loro mancata contestazione.
Anche la logica vuole, infatti, che non si possa contestare o, comunque, non si possa prendere posizione su circostanze di fatto se di esse nulla si conosce, essendo esterne alla sfera di conoscenza o conoscibilità della parte onerata di contestarle.
È dunque essenziale escludere che possa derivare una relevatio ab onere probandi per la parte che allega un determinato fatto se quest’ultimo non è o non può essere conosciuto dal soggetto tenuto a contestarlo.
In altri termini, «i diversi comportamenti processuali presuppongono a monte una distinzione dei fatti riversati nel processo e, cioè, la distinzione tra fatti che sono propri delle parti e fatti che invece fuoriescono dal dominio o dalla sfera di conoscenza delle stesse».
Così C.M. CEA, L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, in judicium.it p. 6
Ciò precisato, è agevole ricondurre l’onere di specifica contestazione ai soli fatti che si riferiscono alla parte nei cui confronti sono allegati e che rientrano nella sfera di controllo e conoscenza della medesima.
Questa, la posizione di A. BRIGUGLIO, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma sul processo civile, in Giust. civ., 2009, pt. II, p. 264
Pertanto, in tali casi, il soggetto a ciò onerato potrà liberarsi dall’onere di contestare quanto allegato ex adverso dichiarando di non essere a conoscenza dei fatti esposti dalla controparte, i quali non beneficeranno quindi di alcun esonero dal generale onere della prova.
Così G. MAERO, Il principio di non contestazione prima e dopo la riforma, in Il giusto proc. civ., 2010, cit., p. 464
Perciò, quel che rileva non è tanto che il fatto fuoriesca dalla sfera di conoscenza della parte contro cui è allegato, quanto piuttosto che quest’ultima sia in grado di difendersi pienamente ed efficacemente su quel punto.
Secondo C. M. CEA, L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, in www.judicium.it cit., p. 7
In argomento è opportuno richiamare le parole di Sassani
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it «l’onere si attiva solo riguardo agli eventi che si è tenuti ragionevolmente a conoscere: il silenzio tenuto rispetto a fatti su cui la parte non è in grado di prendere una posizione univoca non può caricarsi di alcun significato […] In altre parole, il fatto sfavorevole non contestato deve consistere a) in un fatto proprio, oppure b) in un fatto comune, oppure c) in un fatto caduto sotto la propria percezione». cit., p. 10. .
7.3 Fatti principali, fatti secondari, fatti processuali
La riformulazione dell’art. 115, 1° comma, cod. proc. civ. e, in particolare, il generico riferimento ai «fatti» che ivi si rinviene, ha riportato in auge l’“antica” dicotomia tra fatti principali e fatti secondari, distinzione tracciata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 761/2002 proprio con riguardo all’ambito di applicabilità dell’onere di contestazione.
In quella occasione, lo si ricorda, le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano affermato che soltanto i fatti principali – cioè i fatti la cui dimostrazione consente di ottenere una prova diretta della fondatezza o infondatezza del diritto in contesa – possono essere oggetto della regola della specifica contestazione. Viceversa, i fatti secondari, in quanto dedotti e allegati ai soli fini probatori, non sono da attrarre nell’orbita di applicabilità del principio della specifica contestazione.
La citata bipartizione, per un certo tempo, ha continuato a trovare riscontri sia giurisprudenziali che dottrinali, per essere, però, ben presto abbandonata sulla considerazione che si trattasse di una differenziazione teorica e artificiosa, peraltro difficilmente individuabile nella pratica, stante anche il reciproco condizionamento dei fatti (principali e secondari) oggetto di un qualunque giudizio.
La maggior parte degli interpreti si è espressa in favore dell’applicazione della regola della specifica contestazione non solo ai fatti principali, ma anche a quelli secondari, lasciando definitivamente al passato ogni discriminazione fra gli stessi.
Di questa opinione A. PROTO PISANI, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003 cit., p. 608 Nel medesimo senso si veda anche G. BALENA, La nuova pseudo-riforma … cit., p. 776 Si vedano, inoltre, B. SASSANI, Art. 115 c.p.c. cod. proc. civ., in Commentario alla riforma del codice di procedura civile (Legge 18 giugno 2009, n. 69), a cura di A. SALETTI – B. SASSANI, Torino, 2009 cit., p. 70; ID., L’onere della contestazione in www.judicium.it cit., p. 11; A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 89; S. GIANI, La non contestazione nel processo civile tra definizione del thema decidendum e del thema probandum, in www.ilcaso.it cit., p. 11; I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 239; C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009, cit., p. 271; ID., Il principio di non contestazione al vaglio delle sezioni unite in Foro it., 2002 cit., pp. 2024 e 2026; ID, Non contestazione dei fatti: passi avanti e chiarezze teoriche, in Foro it., 2006, pt. I, p. 1873
Taluno ha giustificato la generalizzata applicazione del principio di specifica contestazione sulla considerazione che, sebbene la norma di cui all’art. 115 cod. proc. civ. si riferisca ai (soli) fatti idonei ad essere posti «a fondamento della decisione», ciò non deve intendersi quale riferimento ai soli fatti principali, in quanto la medesima espressione è utilizzata dal legislatore al secondo comma della medesima disposizione normativa, con riguardo ai fatti notori; quei fatti, cioè, che nella generalità dei casi si presentano in qualità di fatti secondari.
Così, F. ROTA, I fatti non contestati e il nuovo art. 115, nel Il processo civile riformato cit., p. 206
Afferma Cea: «se si considera che la non contestazione è una tecnica di semplificazione processuale diretta ad evitare, in presenza di determinati presupposti, la fase della verifica probatoria, è evidente che essa può riferirsi a tutti i possibili fatti allegati nel processo […] Ciò perché tutti questi fatti possono essere oggetto di verifica probatoria e, quindi, in presenza di un comportamento non contestativo, possono beneficiare del privilegio probatorio della pacificità».
Così C.M. CEA, Art.115 C.P.C., in La modifica dell’art.115 C.P.C. cit., p. 802. L’argomentazione ora riferita trova, a sua volta, specificazione nel pensiero di altra dottrina, secondo la quale la diversità di vedute sul punto è speculare a quella sul fondamento dogmatico dell’onere della specifica contestazione, nel senso che, per coloro che la individuano nel principio dispositivo sostanziale, la regola della mancata contestazione opererebbe limitatamente ai fatti principali; all’opposto, per chi sostiene la sua derivazione da tecniche processuali deflattive, essa dovrebbe operare anche in relazione ai fatti secondari.
Si veda, sul punto, S. DEL CORE, Il principio di non contestazione diventa legge: ne erano maturi i tempi? cit., p. 77; ID., Il principio di non contestazione è diventato legge … cit., p. 273.
C’è chi osserva come a pronunce per le quali il principio di non contestazione opera con riferimento a tutti i fatti allegati in giudizio, ivi compresi quelli che rilevano sull’andamento del processo, se ne contrappongono altre, ove si afferma che l’effetto tipico della regola della specifica contestazione (espunzione del fatto dal thema probandum) si riferisce soltanto ai fatti principali, ma non anche a quelli secondari, precisandosi peraltro che la mancata contestazione dei fatti secondari costituisce argomento di prova valutabile ai sensi dell’art. 116, 2° comma, cod. proc. civ.
Di quest’avviso C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 269
È opportuno, al riguardo, riportare il pensiero di Sassani in ordine alla estensione del principio di specifica contestazione a tutti i fatti: «per poter concludere che il fatto secondario non contestato possa correttamente essere assunto dal giudice a fondamento del suo giudizio storico, deve trattarsi o di un fatto compreso nella allegazione (in senso proprio) della parte o di un fatto che sia stato sottoposto al controllo incrociato del contraddittorio e quindi possa dirsi ragionevolmente contestabile per la sua conoscenza o conoscibilità. Si comprende allora l’imbarazzo di ammettere l’efficacia della non contestazione nei confronti dei fatti secondari, se si tiene conto che, molto spesso, si ha a che fare con circostanze e fatti integrativi dei fatti principali ma non allegati dalla parte, nel senso di non espressamente (e tempestivamente) asseriti quali elementi rilevanti ai fini del giudizio richiesto […] È evidente che di tali circostanze si può riconoscere l’utilizzabilità da parte del giudice, ma solo se previamente sottoposte al contraddittorio».
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it p. 12.
In ogni caso, non può che confermarsi che l’attuale, generalizzata, previsione espressa dell’onere di specifica contestazione nell’art. 115 cod. proc. civ. consente di ritenere definitivamente superato ogni dubbio circa l’assoggettamento alla regola della contestazione anche dei fatti secondari.
L’operatività del principio in esame anche nei confronti dei fatti dedotti in funzione esclusivamente probatoria parrebbe consentire l’estensione del raggio d’azione dell’onere della specifica contestazione anche ai fatti processuali, la cui rilevanza opera sul piano del rito e non del merito della vicenda giudiziale; essi operano, cioè, solo sul piano delle situazioni di carattere processuale.
Ancora una volta, il generico riferimento ai «fatti» operato dall’art. 115 cod. proc. civ. rende dubbia la possibilità di applicare la regola della specifica contestazione anche alle circostanze di fatto che incidono in maniera più o meno penetrante sulle questioni processuali rilevanti in una determinata controversia.
Al riguardo è stato, infatti, ritenuto che non essendoci nella norma alcuna differenziazione tra fatti rilevanti per il rito e fatti riguardanti il merito, deve concludersi nel senso che sussista un onere di specifica contestazione avente ad oggetto tutti gli avvenimenti rilevanti ai fini della decisione, senza differenziazione alcuna.
Di tale opinione N. RASCIO, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e perciò da rinfoltire, in Corr. giur., 2010, p. 1245; C. M. CEA, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Il giusto proc. civ., cit., p. 178; ID., La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 271; ID., Art. 115 c.p.c. in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 802; I. PAGNI, La “riforma” del processo civile la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. giur., 2009 cit., p. 1314; ID., L’onere di contestazione dei fatti avversari dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 239
Qualche precisazione è, però, d’obbligo.
Anzitutto, occorre chiarire che in materia di fatti riguardanti questioni processuali, il principio di non contestazione non riguarda direttamente le questioni di rito strettamente intese, ma soltanto i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Si veda, Cass. 29 dicembre 2004, n. 24103, in Dejure In altri termini, la circostanza di fatto sulla quale poggia l’eccezione processuale, ove non contestata, dovrà considerarsi acquisita in giudizio ai fini della decisione; diversamente, l’eccezione di rito attraverso la quale la questione è stata sollevata resta del tutto slegata dall’attività contestativa delle parti, essendo detta questione sempre rilevabile, su istanza di parte o anche d’ufficio, nei limiti processuali di volta in volta previsti dalla legge.
Secondo Cass. 31 marzo 2011, n. 7530, in Dejure
In secondo luogo, è altresì necessario sottolineare che, come per i fatti aventi rilievo sostanziale, anche per i fatti a rilevanza meramente processuale l’onere di specifica contestazione sorge solo ove essi siano stati effettivamente ed espressamente allegati, e non anche quando gli stessi vengano dedotti in via implicita.
Per tutte, si veda ancora Cass. 29 dicembre 2004, n. 24103
Avendo ben presente tali precisazioni, sembra ora opportuno esaminare qualche caso in cui la giurisprudenza di legittimità ha utilizzato la tecnica della mancata contestazione con riferimento a un fatto rilevante ai fini processuali.
Si pensi, ad esempio, alle ipotesi in cui la qualità di erede venga in considerazione in una controversia ai fini della legittimazione ad agire della parte che invochi tale qualità. In tali casi la giurisprudenza è solita affermare che la questione relativa alla legittimazione della parte nel processo può essere sollevata ed esaminata, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo «ma solo in quanto in atti risultino i presupposti di fatto che tale legittimazione escludano, con la conseguenza che, qualora non sia contestata la qualità di erede, il giudice non può rilevare ex officio un difetto di legittimazione che non risulti già aliunde desumibile».
Così Cass. 2 luglio 2004, n. 12162, in Dejure.
Pertanto, secondo i giudici di legittimità, l’onere di provare la qualità di erede, gravante sul soggetto che agisce in giudizio in veste di successore universale del de cuius, viene a mancare nel momento in cui la controparte processuale abbia omesso di sollevare eccezioni in proposito, ovvero vi abbia tardivamente adempiuto.
Cass. 23 febbraio 2009, n. 4381, cit., e Cass. 15 dicembre 2010, n. 25341, in Foro it., 2012, pt. I, p. 1570, con commento di C. M. CEA, Le incertezze della Cassazione in tema di non contestazione ed il bisogno di nomofilachia.
Diversa è la situazione nelle ipotesi in cui un fatto rilevi ai fini della titolarità del diritto in contesa e non quale presupposto della legittimazione ad causam. In argomento, però, la giurisprudenza è talvolta contrastante: il confine fra legittimazione in senso tecnico e titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio è talmente labile che le decisioni assunte dalla Suprema Corte non seguono un univoco itinerario interpretativo.
Secondo N. SAPONE, Il principio di non contestazione nel processo del lavoro, Milano, 2012 cit., p. 95
Infatti, è stato chiarito che vi sono casi in cui «la tecnica della non contestazione è applicata surrettiziamente ed inconsapevolmente, celata dietro diverse coordinate giuridiche».
Così C.M. CEA, Art.115 C.P.C., Le nuove leggi civili commentate,2010 cit., p. 797. Il riferimento è proprio alle ipotesi in cui vengono in considerazione le differenze tra legittimazione processuale e titolarità (attiva o passiva) della situazione sostanziale dedotta in giudizio: nel primo caso, si è soliti affermare che la legittimatio ad causam, attiva e passiva, è istituto processuale riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l’azione in giudizio ed a quello nei cui confronti tale azione può essere esercitata. Da ciò si deduce il potere del giudice di rilevarne d’ufficio il difetto di ogni stato e grado del giudizio. Diversamente, nel caso di titolarità (attiva o passiva) della situazione sostanziale dedotta in giudizio, questione invece attinente al merito della causa, si ritiene che debba essere oggetto di un’eccezione riservata alla parte, essendo precluso al giudice ogni rilievo ufficioso al riguardo.
Si pensi, ad esempio, ai casi in cui l’erede subentri nel processo già introdotto dal de cuius, impugnando la sentenza emessa nei confronti della parte defunta. In tali fattispecie, la giurisprudenza richiede al successore la dimostrazione non solo del decesso della parte originaria, ma anche della propria qualità di erede; in difetto, l’impugnazione sarebbe dichiarata inammissibile, mancando la prova della legittimazione ad impugnare, non assumendo alcun rilievo la mancata contestazione dei fatti fondanti tale legittimazione ad opera della controparte.
Così Cass. 27 gennaio 2011, n. 1943, in Dejure Non mancano, tuttavia, decisioni che, in casi analoghi, hanno mostrato di propendere per l’opposta soluzione, non richiedendo la prova della titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio, a meno che detta qualità non sia messa in discussione dalla controparte mediante una contestazione più o meno esplicita.
Così Cass. 2 aprile 1986, n. 2235, in Dejure; Cass. 5 giugno 1996, n. 5262, ivi; Cass. 23 giugno 1997, n. 5576, ivi. Più di recente, si vedano Cass. 23 febbraio 2001, n. 2655, cit., e Cass. 16 gennaio 2009, n. 1074, in Dejure
Tale seconda lettura della questione è avversata da una parte della dottrina, secondo la quale risulta oltremodo problematico configurare la carenza di titolarità della situazione sostanziale in termini di eccezione vera e propria, laddove sarebbe più corretto parlare di mere difese, visto che la titolarità del diritto o dell’obbligo dovrebbe assurgere a rango di fatto costitutivo. Secondo la dottrina qui richiamata, stante la correttezza del menzionato presupposto, occorrerebbe allora «giungere alla conclusione che quell’orientamento attribuisce […], alla mancata contestazione della titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio la relevatio ab onere probandi della parte che allega il fatto e l’ulteriore effetto di vincolare il giudice a ritenere vero quel fatto».
Così C. M. CEA, Art. 115 c.p.c., in Le nuove leggi civili commentate,2010 cit., p. 797
Nonostante tali contrastanti orientamenti, vi è chi afferma che l’operatività del principio di specifica contestazione sia «omogenea» con riguardo ai fatti di natura processuale, e tale omogeneità escluderebbe ogni interpretazione tendente a distinguere tra gli effetti della mancata contestazione dei fatti relativi alla titolarità del potere (per la legittimazione attiva) e del dovere (per quella passiva) di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall’attore, indipendentemente dalla effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso e quelli relativi all’effettiva titolarità della situazione dedotta in giudizio.
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 185.
7.4 Fatti riguardanti contratti redatti per iscritto
Un altro aspetto degno di esame nel contesto dello studio dell’onere della specifica contestazione riguarda la possibilità o meno che un comportamento contestativo superi la necessità della prova scritta, ad substantiam o ad probationem, dei regolamenti contrattuali che richiedono detta forma. In altri termini, l’interrogativo concerne se la contestazione possa avere ad oggetto fatti che devono essere necessariamente provati per iscritto.
Parrebbe esservi concordia in dottrina circa l’inapplicabilità del principio in esame ai contratti per i quali la legge richiede la forma scritta ai fini della validità dell’atto, benché vi sia un parziale dissenso circa le ragioni sottostanti alla predetta limitazione.
Secondo alcuni, infatti, tale soluzione è inevitabile se si considerano, da un lato, il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ. e, dall’altro, il divieto assoluto di provare attraverso la testimonianza detto vincolo contrattuale, salvo il caso in cui uno dei contraenti abbia perduto il documento senza sua colpa (artt. 2725, 2° comma, e 2724, n. 3, cod. civ.).
Così A. PROTO PISANI, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003 cit., p. 607. Secondo altri, invece, la ragione dell’inapplicabilità del principio di contestazione ai fatti riferibili a contratti da redigere necessariamente per iscritto risiede nella mancata disponibilità delle parti della materia in parola.
Così A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995 cit., p. 332.
La ragione più evidente di una simile limitazione, parrebbe rinvenirsi piuttosto nella considerazione che, in caso di contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam, è l’effetto giuridico sostanziale ad essere impedito in mancanza della forma prescritta dalla legge; di conseguenza, la contestazione o la mancata contestazione, in quanto comportamento meramente endoprocessuale, non può surrogarsi al vizio di forma.
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it cit., p. 17. Analogamente S. GIANI, La non contestazione nel processo civile tra definizione del thema decidendum e del thema probandum, in www.ilcaso.it cit., p. 14; S. DEL CORE, Il principio di non contestazione è diventato legge: prime riflessioni su alcuni punti ancora controversi, Giust. civ., 2009 cit., p. 280; F. FESTI, Riflessioni sul principio di non contestazione nel processo civile, in Giur. it., 2011, p. 243.
Tale considerazione pare inattaccabile. Infatti, nel caso dei contratti da redigere necessariamente per iscritto, non solo la prova eventualmente occorrente in giudizio è condizionata alla forma scritta, ma la stessa esistenza del contratto dipende da tale precipua forma documentale. Pertanto, come i contraenti non possono stragiudizialmente determinare validamente un determinato effetto giuridico esprimendo la propria volontà in forma diversa da quella scritta, così in giudizio essi non possono raggiungere tale risultato mediante un comportamento processuale.
Ciò detto emerge con chiarezza che la mancata contestazione non può mai riguardare contratti per cui la forma scritta è richiesta dalla legge ai fini della validità dell’atto negoziale.
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 186.
Il discorso è destinato a mutare con riferimento ai fatti che si riferiscono ai contratti per i quali il legislatore prevede la forma scritta ai soli fini probatori.
In tali ipotesi, però, la soluzione appare diversa a seconda della teoria circa la natura della contestazione che si intende sposare. Infatti, se si parte dal presupposto che la contestazione è espressione del principio dispositivo sostanziale, si perviene alla soluzione per cui la mancata contestazione sarebbe idonea ad escludere la necessità della prova scritta ad probationem: «infatti, solo se la prova di un contratto si rende necessaria, se il legislatore ne esclude la prova orale (ma non richiede la forma scritta a pena di nullità del contratto), è necessario fornire una asseverazione documentale del fatto stesso; se, invece, la necessità della prova è esclusa dalla scelta difensiva della parte contro la quale il fatto-contratto è dedotto in giudizio, la necessità della prova non si pone proprio ed il contratto (o la clausola) deve considerarsi come sussistente, non solo in difetto della prova documentale, ma anche in mancanza di una qualsiasi forma di asseverazione».
Così Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 186. Invece se si resta sulla concezione probatoria del fenomeno contestativo dovrebbe ritenersi che il comportamento processuale delle parti non possa sostituirsi alla necessità della prova scritta, sia nel caso in cui essa è richiesta ad substantiam, sia in quello ove lo scritto è previsto dalla legge ad probationem.
Così Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 186. Ciononostante, secondo parte della dottrina la forma scritta ad probationem non esclude la rilevanza della mancata contestazione, rendendo quindi, di fatto, compatibile la regola di cui all’art. 115 cod. proc. civ. con i contratti redatti per iscritto ai soli fini probatori. Al riguardo, è stato infatti specificato che l’esclusione dell’onere probatorio «rende irrilevanti le modalità della prova che ne costituisce l’oggetto e nulla impedisce di considerare che l’astratta necessità dello scritto ad probationem viga in concreto solo in caso di contestazione: il fatto diviene pacifico per non contestazione, in maniera non dissimile da come potrebbe essere confessato o ammesso».
Così, B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it cit., p. 16. Analogamente I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari … cit., p. 239
In conclusione, può allora affermarsi che nelle ipotesi in cui si voglia dare prova dell’esistenza di fatti che si riferiscono a contratti redatti per iscritto ad probationem, l’“utilità” di acquisire in giudizio il testo contrattuale dipenderà dal comportamento delle parti: se i fatti in questione sono contestati, non sarà necessario procedere alla produzione in giudizio del contratto concluso per giungere alla dimostrazione dell’esistenza del fatto non bisognoso di prova; diversamente, ove detti fatti non siano contestati dalla parte a ciò onerata, l’acquisizione in giudizio del testo contrattuale redatto per iscritto a fini probatori rivestirà notevole importanza per raggiungere la prova dell’esistenza del fatto controverso.
7.5 La non contestazione nell’art.186bis
L’art.186bis prevede che su istanza di parte il giudice istruttore può disporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite; che l’ordinanza costituisce titolo esecutivo, conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo ed è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli art.177 e 178 C.P.C.
L’art.186bis ha il suo precedente immediato nell’art.423 C.P.C., introdotto dalla legge n.533/1973, che prevede un analogo provvedimento anticipatorio per il processo del lavoro.
Sui precedenti dell’art.423, v. F. CARPI, Provvedimenti interinali di condanna, esecutorietà e tutela delle parti, in Riv.trim.dir.proc.civ.,1977, pag. 615; A. PROTO PISANI., in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, pag. 742
L’analisi particolareggiata dell’art.186bis non può prescindere dall’esame dell’art.423 C.P.C.
L’art.186bis richiede che la non contestazione utile per la pronuncia dell’ordinanza provenga dalle parti costituite. La specificazione è stata suggerita dall’opportunità di evitare un’eccessiva penalizzazione della contumacia, che, per opinione comune continua ad essere considerata come semplice inattività della parte e non come comportamento processuale.
Così la Risoluzione del C.S.M. del 18 maggio 1988, in Foro it., 1988, pag.258
L’art. 186bis ci dice che il giudice affinché possa procedere alla pronuncia dell’ordinanza è necessario che vi sia istanza della parte interessata al provvedimento e che ricorra la non contestazione delle somme oggetto del giudizio.
Per quanto riguarda l’istanza essa può essere avanzata senza particolari formule sacramentali sia dall’attore che dal convenuto, quest’ultimo però con proposizione di domanda riconvenzionale per pagamento di somme. L’istanza è proponibile solo dopo che la non contestazione si è manifestata e quindi, per l’attore, dopo la costituzione del convenuto, mentre per il convenuto dopo che l’attore ha manifestato la sua non contestazione nei confronti della domanda riconvenzionale.
Insieme all’istanza di parte l’art. 186bis presuppone la non contestazione della controparte nei confronti delle somme di cui viene richiesto il pagamento.
Il provvedimento riguarda solo controversie che vertono sul quantum della pretesa di somme di denaro e mira ad evitare che il debitore ritardi il pagamento del dovuto fino alla conclusione del giudizio, va detto però che i maggiori contrasti in dottrina hanno interessato, oltre che l’identificazione dei comportamenti processuali della parte che integrano la non contestazione, l’oggetto medesimo del fenomeno.
Infatti una parte della dottrina ha usato, già per l’art.423 e poi anche per l’art.186bis, dire che essi, usando l’espressione «somme non contestate», facevano riferimento alla non contestazione del diritto di credito e non al fatto costitutivo del diritto.
Le disposizioni subordinerebbero la pronuncia di un’ordinanza di pagamento alla non contestazione sull’esistenza del diritto, dando vita ad una sorta di «accordo per non contestazione». In sostanza il legislatore non avrebbe fatto riferimento ai fatti costitutivi del diritto al pagamento, «ma all’effetto, ossia al diritto di credito pecuniario».
Così G. TARZIA., Lineamenti del nuovo processo civile, Milano, 1991, pag.130; C. MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991, 68-69; B. SASSANI., La riforma del processo civile, Milano, 1991, pag.115; C. CECCHELLA., Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, pag. 121; E. MERLIN, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate (dall’art.423 all’art. 186bis C.P.C.), in Riv.dir.proc.,1994, pag.1045.
Altra parte della dottrina, invece, pur sottolineando l’ambiguità del testo normativo, si è evidenziato che per ottenere l’ordinanza anticipatoria non è necessario arrivare alla pacificità del diritto di credito ma è sufficiente che si abbia la non contestazione dei fatti allegati dalla controparte a fondamento della domanda di pagamento delle somme.
Secondo i sostenitori di questa tesi per avere la non contestazione di cui parlano le norme de quibus, non sarebbe richiesto un riconoscimento sia pur implicito della domanda avversaria, o la formulazione di un vero e proprio accordo attraverso un comportamento concludente. E questo perché la non contestazione non sarebbe assimilabile all’accettazione di una proposta di accordo sull’esistenza del diritto di pagamento, oggetto del giudizio, in quanto l’unica ipotesi in cui il nostro codice ammetterebbe la formazione di un accordo attraverso un comportamento omissivo, è quella dell’art. 597 C.P.C., specificherebbe chiaramente «sia l’onere di formulare la dichiarazione negoziale sia la conseguenza che eccezionalmente la legge ricollega al silenzio della parte».
Così A. PROTO PISANI., in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, pag. 751, posizione ribadita dopo l’entrata in vigore dell’art. 186bis: v. ID., I provvedimenti anticipatori di condanna, in Foro it., 1990, pag. 394; ID., La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, pag. 239; A. ATTARDI., Le nuove disposizioni del processo civile, Padova, 1991, pag.87; L. MONTESANO, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, pag.53; G RAMPAZZI, in Le riforme del processo civile, Bologna, pag. 236; M.G. CIVININI, Le condanne anticipate, in Foro it, 1995 pag.335.
Se si accoglie il primo orientamento ossia l’idea che la non contestazione si riferisca al diritto alle somme, si deve anche ammettere che la mera contestazione in jure esclude la possibilità di pronuncia del provvedimento e che le ipotesi di applicazione della misura in esame si riducono in modo notevole.
Se si accoglie il secondo orientamento, invece, e si considera sufficiente per la pronuncia dell’ordinanza la sola non contestazione del fatto costitutivo della pretesa, la parte ha maggiori possibilità di essere tutelata nei limiti in cui l’avversario non contesti l’esistenza di un fatto «generatore» del diritto alle somme richieste.
Di fronte a tale alternativa la scelta non può essere orientata dalla sola interpretazione della formula «somme non contestate». Se ci si limita a questa locuzione, infatti, entrambe le opzioni interpretative risultano fondate.
La necessità di dare una risposta al quesito sull’«oggetto» della non contestazione impone non solo di tenere conto degli elementi che si ricavano dalla combinazione degli art. 186bis e 423 ma anche di considerare che sia il legislatore del ’73, sia quello del ’90, si siano limitati ad usare un istituto già presente nel nostro sistema processuale (il c.d. principio della non contestazione) come presupposto del provvedimento anticipatorio della condanna finale al pagamento di somme di denaro.
Se così è allora valgono le conclusioni che tradizionalmente valgono per l’oggetto del principio della non contestazione e cioè la regola processuale che per cui nel processo sui rapporti disponibili, non hanno bisogno di essere provati i fatti che, allegati da una parte, non sono stati espressamente contestati dall’altra.
Così A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano,1995, pag.368
A proposito dei comportamenti utili ad integrare la non contestazione delle somme è da dire che la nuova formulazione dell’art.186bis se ha risolto il problema dell’utilizzo dell’ordinanza di somme non contestate anche in caso di contumacia prevedendo che essa possa aversi solo nei confronti delle parti costituite ha lasciato i dubbi già emersi nei confronti dell’art.423 C.P.C., a proposito del valore da riconoscere alla contestazione generica, alla non contestazione implicita, al silenzio, alla dichiarazione di non conoscere i fatti ex adverso allegati. La ragione dei dubbi è da attribuire soprattutto alla diversità di posizioni assunte a proposito dell’«oggetto» della non contestazione.
Infatti chi afferma che il presupposto dell’ordinanza sia l’«accordo per non contestazione» sul diritto alle somme dice anche che il comportamento integrante la non contestazione si identifichi con «una vera e propria manifestazione di volontà a carattere negoziale», o con un riconoscimento «tacito» della domanda avanzata dall’avversario, i cui effetti si manifestano non sul piano probatorio ma su quello delle affermazioni di diritto. Corollario di questo modo di intendere la non contestazione è l’affermazione che essa non possa ritenersi integrata né dalla contestazione generica, né dal silenzio. La contestazione generica ed il silenzio, non sarebbero idonei ad integrare la non contestazione perché escluderebbero la presenza di un accordo sul diritto al pagamento delle somme richieste.
Così G. TARZIA., Lineamenti del nuovo processo civile, Milano, 1991, pag.130; C. MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991, 68-69; B. SASSANI., La riforma del processo civile, Milano, 1991, pag.115; C. CECCHELLA., Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, pag. 121.
Dall’altra parte coloro che accolgono l’idea che «oggetto» della non contestazione siano i fatti costitutivi della domanda di somme non contestate sostengono che, per avere la pronuncia dell’ordinanza di cui all’art.186bis e 423 C.P.C., non sarebbe richiesto un riconoscimento, esplicito o implicito, della domanda, o la formalizzazione di un vero e proprio accordo, anche se attraverso un comportamento concludente. Secondo questo orientamento a tal fine sarebbe sufficiente poter ricavare dal comportamento del convenuto o dell’attore rispetto alla domanda riconvenzionale di somme di denaro, la pacificità dei fatti allegati a fondamento della domanda giudiziale. I comportamenti idonei ad integrare la non contestazione delle somme sarebbero rappresentati sia dalla contestazione esplicita sia dalla non contestazione implicita, cioè dall’impostazione della propria difesa in modo che risulti compatibile con le allegazioni avversarie o dalla proposizione di eccezioni di merito compatibili con l’esistenza del fatto costitutivo o di semplici eccezioni di rito, sia, infine dal silenzio serbato sulle allegazioni avversarie.
; L. MONTESANO, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, pag.53; G RAMPAZZI, in Le riforme del processo civile, Bologna, pag. 236; M.G. CIVININI, Le condanne anticipate, in Foro it, 1995 pag.335.
Alla stessa conclusione si deve giungere se si intende l’ordinanza di somme non contestate come speciale applicazione del più generale principio della non contestazione. Infatti se i fatti allegati vanno considerati pacifici e quindi non bisognosi di prova tutte le volte che l’avversario ha omesso di ottemperare all’onere di «prendere posizione» su di essi, allora è da ritenere che la possibilità di avanzare l’istanza per la pronuncia dell’ordinanza di somme non contestate ricorra sia quando la controparte non ottemperi all’onere di «prendere posizione», sia quando ottemperi a quest’onere ma in modo da non contraddire i fatti costitutivi della domanda. La prima ipotesi si verifica in caso di silenzio e di contestazione generica; la seconda ipotesi in caso di sola contestazione in jure della domanda, di elevazione di eccezioni di merito compatibili con il diritto al pagamento delle somme di elevazione di sole eccezioni di rito.
Così A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano,1995, pag.284
8) LA SPECIFICITÀ DELLA CONTESTAZIONE
Proseguendo con l’esegesi del nuovo testo dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre ora interrogarsi sul grado di specificità che deve essere osservato nel contestare le altrui allegazioni. Si ricordi, in primo luogo, il dato normativo: il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti «non specificatamente contestati» dalla parte costituita.
La disposizione menzionata consente di porre un freno ai dubbi interpretativi che interessavano in passato la materia, con particolare riferimento al dibattito circa l’idoneità del silenzio o della contestazione generica a rendere un fatto contestato ovvero pacifico.
È stato, infatti, correttamente osservato che il nuovo testo dell’art. 115 cod. proc. civ. consente, anzitutto, di risolvere testualmente alcuni problemi. In primis, scompaiono i dubbi circa il valore da attribuire al silenzio e alla contestazione generica posto che, come emerge chiaramente dalla lettera della legge, la contestazione idonea ad evitare che il fatto diventi non bisognoso di prova deve essere specifica e tali non possono evidentemente essere il silenzio o la contestazione generica.
Così C.M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 270. Analogamente, G. F. RICCI, La riforma del processo civile, Torino, 2009, p. 40; B. ZUFFI, Art. 115 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, diretto da C. CONSOLO, Milano, 2010, p. 1374.
Ora, però, sebbene risulti inequivocabile che la norma richieda alle parti una contestazione specifica e analitica se si vuole evitare che operi il meccanismo della relevatio ab onere probandi, la questione si complica e i problemi applicativi iniziano ad affacciarsi all’attenzione dell’interprete allorché si voglia cercare di riempire di contenuto, magari con indicazioni o esemplificazioni pratiche, l’avverbio «specificatamente» utilizzato nel primo comma dell’art. 115 cod. proc. civ.
Al di là dell’indubbia necessità che la contestazione sia specifica, è stato acutamente rilevato come rimangano in ombra alcuni profili fra cui, appunto, quello delle modalità con le quali deve avvenire la contestazione perché questa possa considerarsi davvero specifica.
In questo senso I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 239.
Dunque, ci si è interrogati, anzitutto, sul significato letterale del termine utilizzato dal legislatore al fine di raccogliere elementi utili ad intendere l’esatto atteggiarsi del meccanismo della contestazione nella dinamica processuale. Ebbene, l’analisi letterale ha condotto a ritenere specifica una contestazione che sia analiticamente circoscritta ai singoli dati di fatto esposti dalla controparte processuale; una contestazione, cioè, circostanziata, precisa, puntuale, pertinente, univoca.
Ora, se è vero che i caratteri appena menzionati possono in qualche modo fornire un supporto per delimitare il perimetro applicativo dell’onere di specifica contestazione, è pur vero che resta pressoché sconosciuto quale comportamento contestativo potrà essere, in concreto, ritenuto integrante il requisito della specificità e quale invece essere considerato generico.
Ma, se da un lato non occorre un’elencazione più o meno analitica dei comportamenti esattamente integranti una contestazione specifica, inidonea a sollevare la parte allegante dal proprio onere probatorio, dall’altro, però, una norma così vaga e indeterminata nel suo precetto si presta a interpretazioni e applicazioni difformi, contraddittorie o addirittura contrarie alla finalità che la norma stessa si propone di perseguire.
È stato rilevato che una contestazione generica potrebbe rinvenirsi, ad esempio, allorché la parte contesti in modo indifferenziato una molteplicità di fatti allegati ex adverso magari con l’utilizzo di formule di stile.
Così S. PATTI, La disponibilità delle prove in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011 cit., p. 87
Nello sforzo di riempire di contenuto il carattere della contestazione richiesto dalla norma, una parte della dottrina ha perentoriamente affermato che la contestazione più radicale di un fatto consiste nella sua decisa e ferma negazione; conseguentemente, si è ritenuto che «i requisiti di precisione e non genericità prescritti dalla legge non escludono la sufficienza della mera secca negazione del fatto, che è un modo estremamente preciso di prendere posizione».
In questi termini A. VALLEBONA, L’onere di contestazione nel processo del lavoro, in judicium.it p. 4
Invece, secondo alcuni, il carattere della specificità della contestazione, lungi dall’essere rispettato con la semplice negazione del fatto allegato dalla controparte, dovrebbe essere inteso nel senso che la contestazione «non potrà mai limitarsi ad affermare puramente e semplicemente che il fatto non è vero, ma dovrà dettagliare tale negazione».
Così F. SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile, in judicium.it cit., par. 8; G. BUFFONE, L’onere di contestazione in Consiglio Superiore della Magistratura, Ufficio per gli incontri di studio, Roma 21-23 febbraio 2011 cit., p. 24 Tesi, quest’ultima, che trova consensi anche nella giurisprudenza di legittimità: la Suprema Corte si è espressa, difatti, proprio ritenendo insufficiente la negazione pura e semplice del fatto allegato dall’avversario al fine di integrare il requisito della specificità della contestazione.
Si veda Cass. 15 aprile 2009, n. 8933 Anche la giurisprudenza di merito successiva alla riforma del 2009 ha espresso il medesimo principio: «la parte non può limitarsi a negare i fatti affermati dalla controparte, ma deve contrastarli indicando altri ed ulteriori fatti positivi che siano con essi incompatibili. Se manca tale indicazione, la contestazione è generica, e pertanto il fatto genericamente contestato non ha necessità di prova».
Così, Trib. Catanzaro, ord. 29 settembre 2009, in Dejure
In ogni caso è stato opportunamente rilevato che, prima ancora di qualsivoglia indagine circa il grado di specificità dell’attività contestativa, nessuna contestazione può dirsi specifica laddove il fatto su cui l’onere de quo ricade non sia, esso stesso, sufficientemente e analiticamente descritto dalla parte allegante. Non può, infatti, pretendersi che «a taluno sia imputato di aver taciuto su eventi o dati inespressi dalla controparte».
Si veda B. SASSANI, L’onere della contestazione in www.judicium.it cit., p. 13 Si ritiene che il requisito della specificità non può che essere inteso in senso relativo, atteso che «il grado di specificità della contestazione che può essere richiesto va valutato in un’ottica di proporzionalità, trovando il suo limite nel corrispondente grado di specificità che assume il fatto oggetto di contestazione».
Così F. ROTA, I fatti non contestati e il nuovo art. 115, in Il processo civile riformato, Bologna, 2010 cit., p. 209. Analogamente G. BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della legge n. 18 giugno 2009, n. 69), in Il giusto proc. civ., 2009, cit., p. 778
In altri termini, non può considerarsi ragionevole, né logico, pretendere da taluno l’assolvimento di un onere di natura processuale, quello di contestazione, in presenza di una controparte che, dal canto suo, non ha assolto il proprio onere processuale, quello di allegazione. In questa situazione la conclusione per la quale «la mancata contestazione, per essere invocata, implica l’adempimento dell’onere di allegazione, di cui costituisce riflesso processuale».
Così S. DEL CORE, Il principio di non contestazione diventa legge prime riflessioni su alcuni punti ancora controversi, Giust. civ., 2009 cit., p. 70
In senso ancor più esplicito, si è detto che l’onere della contestazione è «preceduto dall’onere di specificazione delle ragioni di fatto e di diritto», specificazioni queste ultime che, come noto, sostanziano l’onere di allegazione incombente sull’attore.
Ancora S. DEL CORE, Il principio di non contestazione diventa legge ne erano maturi i tempi?, in Il diritto delle prove – Atti del convegno di Catania cit., sempre a p. 70
Posta questa fondamentale premessa, rimane comunque il problema di stabilire come potrebbe, in concreto, svolgersi la difesa della parte che non intenda incorrere nella relevatio ab onere probandi a beneficio dell’avversario.
In definitiva si può condividere l’opinione di chi sostiene che l’unico senso possibile da attribuire alla formula legislativa è quello di imporre al giudice una «valutazione di ragionevole certezza della non contestazione», nel senso che il giudice dovrà verificare con prudente apprezzamento se residuino margini di ambiguità, ovvero se si possa giungere a un giudizio di effettiva pacificità del fatto, e ciò indipendentemente dall’utilizzo o meno di formule di stile.
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione in www.judicium.it cit., p. 13
8.1 I principali comportamenti comunemente tenuti in giudizio
Nelle ipotesi nelle quali il legislatore espressamente prevede l’applicazione del principio della specifica contestazione neppure si pone il problema di individuare cosa, in concreto, le parti debbano fare al fine di raggiungere lo scopo, o meglio l’effetto, sotteso alla norma di volta in volta in considerazione.
Diversamente, se l’onere della specifica contestazione è sancito in termini generali e approssimativi, come avviene nel caso dell’art. 115 cod. proc. civ., esso risulta applicabile a una gamma indefinita e indefinibile di comportamenti processuali che le parti possono tenere, con la conseguenza che ci si trova dinanzi alla difficoltà di determinare quali siano le condotte integranti la specifica contestazione richiesta dalla norma.
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 94.
È allora essenziale effettuare qualche riflessione in ordine agli atteggiamenti che, con qualche probabilità, potranno essere tenuti nella generalità dei giudizi, e ciò al precipuo fine di verificare la loro effettiva aderenza al precetto contenuto nell’art. 115 cod. proc. civ.
Vengono in considerazione, in primo luogo, le ipotesi in cui va esclusa in radice la configurabilità di una, pur minima, attività contestativa. Ci si riferisce, in particolare, ai casi in cui la parte espressamente aderisce all’allegazione in fatto dell’avversario
Si veda, ad esempio, S. CENTOFANTI, Accertamento della realtà sostanziale e principio di non contestazione nel processo del lavoro, in Lav. giur., 2003, p. 518 Analogamente, più di recente, si veda V. BATTAGLIA, Sull’onere del convenuto di «prendere posizione» in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda (riflessioni sull’onere della prova), Riv. dir. proc., 2009, p. 1523. Anche la giurisprudenza di legittimità Cass. 5 marzo 2002, n. 3175, in Dejure; Cass. 11 marzo 2002, n. 3500, ivi; Cass. 1° aprile 2003, n. 4909, ivi; Cass. 30 maggio 2003, n. 8764, in Giust. civ., 2004, p. 3115; Cass. 17 novembre 2003, n. 17371, in Dejure; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2699, ivi; Cass. 8 giugno 2004, n. 10815, in Giust. civ., 2005, p. 2442; Cass. 23 luglio 2004, n. 13830, in Dejure; Cass. 24 settembre 2004, n. 19260, ivi; Cass. 28 ottobre 2004, n. 20916, ivi; Cass. 14 marzo 2006, n. 5488, ivi; Cass. 24 novembre 2010, n. 23816, ivi., oppure dichiara esplicitamente di non contestare le circostanze di fatto enunciate dalla controparte
Ad esso si riferiva, ad esempio, Virgilio Andrioli, voce «Prova (dir. proc. civ.)» … cit., p. 275, oppure, infine, alle fattispecie in cui entrambe le parti alleghino di comune accordo il medesimo fatto in maniera esplicita.
Di questa opinione G. BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della legge n. 18 giugno 2009, n. 69), in Il giusto proc. civ., 2009, cit., p. 778; ID., Art. 115 c.p.c. in La riforma della giustizia civile – Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69/2009, di G. BALENA, R. CAPONI, A. CHIZZINI, S. MENCHINI, Torino, 2009 cit., p. 71; ID., Onere di contestazione delle avverse allegazioni, in Guida al diritto, cit., p. 112.
Per agevolare l’analisi delle fattispecie descritte è possibile raggruppare i citati atteggiamenti processuali nella categoria della contestazione inesistente o, meglio, nell’ammissione esplicita della verità dei fatti allegati ex adverso.
Detti comportamenti, è bene specificarlo, possono essere assunti non solo dalla parte, titolare del diritto sostanziale in contesa, ma anche dal proprio difensore nel corso del giudizio in virtù del mandato difensivo ricevuto.
In particolare, qualora l’ammissione sia contenuta in un atto processuale scritto, sottoscritto dalla parte o dal suo rappresentante legale, la dichiarazione ammissiva si considera proveniente dalla parte e non dal proprio difensore. La stessa considerazione va svolta con riferimento alle ipotesi in cui la dichiarazione viene resa attraverso un’attività che non potrebbe essere che propria e personale della parte, come le risposte fornite in sede di interrogatorio libero, ovvero in occasione della eventuale comparizione personale in udienza.
Diversamente, le ammissioni o contestazioni si considerano provenienti dal difensore quando l’ammissione o le altre fattispecie non contestative siano formulate oralmente in udienza, oppure quando siano contenute in uno scritto difensivo sottoscritto dal solo difensore, al quale non sia stata conferita procura anche per la disposizione del diritto dal punto di vista sostanziale.
Si veda, ad esempio, Cass. 26 marzo 1999, n. 2894, in Giust. civ., 2000, I, p. 374
Altra importante ipotesi nella quale la contestazione si considera inesistente consiste nella c.d. ammissione implicita, che si verifica qualora la parte, pur non riconoscendo espressamente la verità dei fatti allegati dall’avversario, ovvero, mancando di dichiarare espressamente di non contestare quanto ex adverso dedotto, ponga in essere un’attività difensiva incompatibile con la volontà di contestare l’impianto fattuale della controparte.
Si veda V. ANDRIOLI, voce «Prova (dir. proc. civ.)» … cit., p. 274 Si veda, poi, G. VERDE, voce «Prova» (dir. proc. civ.)», in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988 cit., p. 618 L. P. COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, p. 124; G. A. MICHELI, L’onere della prova Padova, rist. 1966 cit., p. 115; F. P. LUISO, Diritto processuale civile cit., p. 53
Ultima ipotesi degna di nota riguarda il silenzio mero, serbato da una parte in ordine a uno o più fatti allegati dall’avversario. Si tratta di un’ipotesi differente dalle attività difensive incompatibili con la volontà di contestare – fra le quali, lo si è visto, si annovera l’ammissione implicita – alle quali può accompagnarsi (e normalmente si accompagna) il silenzio su uno o più fatti rilevanti ai fini della decisione. Il mero silenzio, difatti, si sostanzia nell’assoluta mancanza di presa di posizione su una o più circostanze introdotte in giudizio dalla controparte, ma tale atteggiamento non è, di per sé, incompatibile con la volontà di contestarle.
Così, in particolare, Cass. 10 aprile 2000, n. 4533, in Foro it., 2000, pt. I, p. 2196; Cass. 8 maggio 2003, n. 7026, in Dejure; Cass. 14 gennaio 2004, n. 405, ivi. In senso contrario, v. Cass. 17 novembre 2003, n. 17371, cit
Con riferimento al valore da attribuire a simile contegno processuale, antecedente alla riformulazione dell’art. 115 cod. proc. civ. si ponevano, in astratto, notevoli dubbi. In particolare, non vi era concordia fra chi riteneva che il silenzio mero dovesse essere equiparato alla figura dell’ammissione e chi, all’opposto, riteneva che esso fosse inquadrabile nel fenomeno della contestazione.
In particolare, chi propendeva per la teoria dispositiva sostanziale quale fondamento dell’istituto della specifica contestazione, escludeva che il silenzio avesse i medesimi effetti della mancata contestazione, posto che l’omissione della parte a ciò onerata non poteva considerarsi espressione di una determinata o determinabile volontà.
Era di quest’avviso G. VERDE, voce «Prova» (dir. proc. civ.)», in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988 cit., p. 616 Per coloro che, invece, si mostravano sostenitori della natura probatoria del fenomeno contestativo, il silenzio poteva integrare un’ipotesi di mancata contestazione solo se apprezzato quale violazione di una specifica regola comportamentale che imponesse alle parti di non tacere.
Si annoverano, in particolare, G. A. MICHELI, L’onere della prova Padova, rist. 1966 cit., p. 115, nt. 22; B. CIACCIA CAVALLARI, La contestazione nel processo civile, Milano, 1992, vol. I, p. 159 M. TARUFFO, Verità negoziata? in Riv. trim. dir. proc. civ. cit., p. 87; ID., La semplice verità – Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009 cit., p. 127 C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 270; ID., Art. 115 c.p.c. in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 801
In ogni caso, al giorno d’oggi, indipendentemente dalla concezione che si intende privilegiare circa il fondamento della contestazione, occorre fare i conti con la norma contenuta nel riformato art. 115 cod. proc. civ. E da questa non sembra possa residuare alcuno spazio per dubbi di sorta, posto che la necessaria specificità che deve connotare la contestazione rende quest’ultima assolutamente inaccostabile al comportamento omissivo per eccellenza, quale è proprio il silenzio mero.
In argomento si vedano, ancora, C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 270; ID., Art. 115 c.p.c. in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 801; C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile cit., vol. I, p. 216 e vol. III, p. 129; N. RASCIO, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e perciò da rinfoltire, in Corr. Giur., 2010 cit., p. 1246; S. DEL CORE, Il principio di non contestazione è diventato legge prime riflessioni su alcuni punti ancora controversi, Giust. civ., 2009 cit., p. 279; M. FABIANI, Il nuovo volto della trattazione e dell’istruttoria, in Corr. Giur., 2009 cit., p. 1171; G. IANNIRUBERTO, Il principio di non contestazione dopo la riforma dell’art. 115 c.p.c., in Giust. civ., 2010 cit., p. 315; M. MOCCI, Principio del contraddittorio e non contestazione, in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 325; B. ZUFFI, Art. 115 c.p.c. cit., p. 1374; I. PAGNI, La “riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. giur., 2009 cit., p. 1313; ID., L’onere di contestazione dei fatti avversari, dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 239; G. F. RICCI, La riforma del processo civile – Legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009 cit., p. 40; G. DEL TORTO, Il principio della non contestazione alla luce della L. 18 giugno 2009, n. 69 un punto di svolta?, in Giur. merito, 2010, cit., p. 983; M. ACIERNO – M. GRAZIOSI, La riforma del 2009 nel primo grado di cognizione: qualche ritocco o un piccolo sisma?, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 169.
8.2 La riserva a favore delle sole parti costituite
La norma di cui all’art. 115, 1° comma, cod. proc. civ. nella formulazione post 2009 dispone che il principio della specifica contestazione operi solo laddove il contegno processuale integrante l’attività contestativa provenga «dalla parte costituita».
Chiaro dunque il “messaggio” del legislatore: non può attribuirsi alcun rilievo, sul piano processuale, alla parte che resti contumace, la cui ovvia inattività in giudizio non potrà mai essere apprezzata quale confessione, ammissione, ovvero mancata contestazione delle circostanze di fatto allegate dalla controparte.
In altre parole, quindi, il principio della specifica contestazione e, di conseguenza, l’effetto della relevatio ab onere probandi, è destinato a non operare ogni qualvolta in giudizio siano presenti una o più parti non costituite. L’opzione legislativa in parola rappresenta l’ennesima conferma dell’orientamento assolutamente prevalente in dottrina
La tesi della neutralità della contumacia risale a tempi piuttosto lontani. Si pensi, ad esempio, al pensiero di V. ANDRIOLI, voce «Prova» … cit., p. 275 Si vedano anche L. MORTARA, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, vol. III, Milano, 1905, p. 542; B. CIACCIA CAVALLARI, voce «Contumacia», in Digesto it., disc. priv., sez. civ., vol. IV, Torino, 1989, p. 320. Più di recente, si veda, per tutti, F. P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. II, Milano, 2009, p. 54. e in giurisprudenza
La decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 761/2002 ha condiviso la teoria citata nel testo. Successivamente a tale pronuncia, nello stesso senso, si registrano, ex pluribus, Cass. 28 novembre 2003, n. 18263, in Dejure; Cass. 18 marzo 2004, n. 5487, ivi; Cass. 10 febbraio 2005, n. 2707, ivi; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3601, ivi; Cass. 12 luglio 2006, n. 15777, ivi; Cass. 2 maggio 2007, n. 10098, cit.; Cass. 3 maggio 2007, n. 10182, ivi; Cass. 23 giugno 2009, n. 14623, ivi. Precedentemente all’arresto giurisprudenziale del 2002, si vedano, tra le tante, Cass. 22 luglio 1981, n. 4722, in Dejure (s.m.); Cass. 17 maggio 1982, n. 3056, ivi (s.m.); Cass. 11 aprile 1985, n. 2410, ivi (s.m.); Cass. 7 marzo 1987, n. 2427, ivi; Cass. 9 marzo 1990, n. 1898, ivi; Cass. 9 dicembre 1994, n. 10554, ivi; Cass. 2 marzo 1996, n. 1648, ivi; Cass. 28 marzo 2001, n. 4457, cit. secondo il quale la contumacia rappresenta un comportamento dotato di neutralità dal punto di vista processuale.
Ciononostante sul fronte legislativo, in un’occasione non molto remota, era stato attribuito alla contumacia il valore di mancata contestazione delle asserzioni avversarie. Ciò che avveniva nel vigore dell’abrogato rito societario (D. Lgs. n. 5/2003) il cui art. 13, 2° comma, stabiliva, appunto, che la tardiva notificazione della comparsa di costituzione ad opera del convenuto determinava l’effetto di considerare non contestata la domanda avversaria, tanto che «il tribunale decide sulla domanda e in base alla concludenza di questa». Detta norma, si ricorderà, prima ancora che abrogata ad opera della riforma del 2009, era stata dichiarata incostituzionale con la decisione della Consulta n. 340/2007, nella quale – con specifico riferimento al tema della contumacia – si legge che l’attribuzione alla contumacia di valore non neutrale è del tutto estranea alla «tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito valore di confessione implicita».
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali Roma, 2012 cit., p. 138
La previsione societaria sopra menzionata aveva dato l’occasione per ribadire come la mancata attribuzione di un valore positivo al comportamento processuale inattivo per eccellenza integrasse un’ingiustificata disparità di trattamento tra le parti in lite. Si auspicava, pertanto, un intervento legislativo volto a “sanzionare” la mancata costituzione in giudizio, eventualmente considerando non contestate le circostanze di fatto enunciate dalla parte costituita, proprio come era avvenuto con il D. Lgs. n. 5/2003.
In argomento si veda, in particolare, A. PROTO PISANI, I modelli di fase preparatoria dei processi a cognizione piena in Italia dal 1940 al 2006, in Foro it., 2006, pt. V, p. 386
Ma a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del citato art. 13 del D. Lgs. n. 5/2003 non vi era stato alcun segnale sul fronte legislativo che mostrasse l’intenzione di dar voce alle istanze degli studiosi.
Anzi, la concezione neutrale della contumacia può dirsi, oggi, definitivamente consacrata dal nuovo art. 115 cod. proc. civ. ove, come detto, il legislatore della riforma ha inteso escludere espressamente dall’ambito di applicazione del principio di specifica contestazione il contegno processuale inattivo per antonomasia quale è, appunto, la mancata partecipazione al giudizio.
Di tale opinione C. M. CEA, L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, in judicium.it cit., p. 8; ID., La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009, cit., p. 270; A. BRIGUGLIO, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile, in Giust. civ., 2009 cit., p. 263; N. RASCIO, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e perciò da rinfoltire, in Corr. Giur., 2010 cit., p. 1246; M. FORNACIARI, Il contraddittorio a seguito di un rilievo ufficioso e la non contestazione (nel più generale contesto della problematica concernente allegazione, rilievo e prova), in www.judicium.it, cit., pp. 11 e 23; F. FESTI, Riflessioni sul principio di non contestazione nel processo civile, in Giur. it., 2011
Non si può dubitare del fatto che la norma intenda delimitare il campo di applicazione dell’onere di contestazione soltanto ai casi di costituzione delle parti. Al riguardo, una parte della dottrina ha infatti efficacemente affermato che «la nettezza della scelta legislativa non lascia adito a dubbi ermeneutici di alcun genere».
Così C. M. CEA, L’evoluzione del dibattito …, in judicium.it cit., p. 8.
Tuttavia, qualche considerazione si rivela opportuna, soprattutto se si vuole dare qualche seguito al pensiero di coloro i quali hanno fin da subito evidenziato una disparità di trattamento abbastanza evidente fra il convenuto che decida di costituirsi e quello che, all’opposto, decida di restare contumace.
Infatti, solo sul primo di essi incombe l’onere di contestare «specificatamente» quanto allegato dalla controparte, con la notevole conseguenza di alleviare l’onere della prova in capo alla parte allegante. Viceversa, il convenuto contumace non solo non dovrà “preoccuparsi” di partecipare attivamente al giudizio, ma la sua condotta volontariamente negligente non determinerà alcuno snellimento dell’attività istruttoria; al contrario, la parte costituita non beneficerà di alcuna relevatio del proprio onere della prova.
Vi è, quindi, una folta schiera di studiosi mostratisi critici nei confronti della nuova disposizione nella parte in cui il legislatore non ha esteso l’ambito di applicazione del principio della specifica contestazione anche alla parte contumace.
M. FABIANI, Il nuovo volto della trattazione e dell’istruttoria, in Corr. Giur., 2009 cit., p. 1169; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2009, vol. I, p. 123 e vol. II, pp. 196 e 332; G. TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano,2009 cit., p. 201; B. ZUFFI, Art. 115 c.p.c. cod. proc. civ., in Codice di procedura civile diretto da C. CONSOLO, Padova, 2013 cit., p. 1373; F. ROTA, I fatti non contestati e il nuovo art. 115, ne Il processo civile riformato, diretto da M. TARUFFO, Bologna, 2010 cit., p. 217; S. PATTI, La disponibilità delle prove in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011 cit., p. 87 il quale dichiara di avvertire «un certo disagio, poiché … diventa sempre più favorevole la posizione di chi – da contumace – si disinteressa del processo, rispetto a quella della parte che, a volte per insufficiente attenzione, non contesta in modo adeguato le allegazioni della controparte». Si veda, poi, G. IANNIRUBERTO, Il principio di non contestazione dopo la riforma … cit., p. 313, il quale arriva a dubitare della costituzionalità della nuova disposizione di cui all’art. 115 cod. proc. civ. in considerazione del trattamento favorevole riservato alla parte non costituita (che quindi trascuri di difendersi) rispetto al trattamento deteriore previsto per la parte che, più diligentemente, mostra interesse al giudizio partecipandovi attivamente, con la conclusione che «o è irragionevole il trattamento più favorevole che viene riservato a chi trascuri del tutto di difendersi, oppure è irragionevole il trattamento più penalizzante per chi, comunque, costituendosi si mostra più diligente». In considerazione di ciò, la dottrina in esame addirittura giunge ad affermare che la domanda dell’attore che si renda contumace può essere accolta se il convenuto non contesti i fatti posti a fondamento della stessa. Dello stesso avviso, M. ACIERNO – C. GRAZIOSI, La riforma del 2009 … cit., p. 169, secondo le quali la limitazione dell’operatività del principio di specifica contestazione alle sole parti costituite permette l’utilizzo di una tattica dilatoria per la parte che, nella maggior parte dei casi, non si costituisce solo perché non ha difese da contrapporre. Analogamente si veda A. TEDOLDI, La non contestazione … cit., p. 85, il quale rileva come sia paradossale introdurre una norma che contenga un «implicito invito a restare contumaci, piuttosto che a partecipare al giudizio quando si abbia ben poco da dire e da contestare». Nella medesima prospettiva, si sostiene che il legislatore è rimasto sordo alle sollecitazioni provenienti dalla dottrina, che metteva in risalto l’irrazionalità (o quanto meno l’inopportunità) di una soluzione che si risolve, in ultima analisi, in un incentivo a non costituirsi in giudizio, soprattutto quando si hanno poche ragioni da spendere. V., sul punto, N. SAPONE, Il principio di non contestazione … cit., p. 110. Analoghi rilievi critici erano stati mossi anche precedentemente alla riforma del 2009, in particolare in occasione del dibattito sul progetto Mastella. In argomento si vedano, per tutti, F. P. LUISO, Prime osservazioni sul disegno di legge Mastella, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 609; M. C. GHIRGA, La riforma della giustizia civile nei disegni di legge Mastella, in Riv. dir. proc., 2008, p. 459. Critico, poi, anche L. P. COMOGLIO, Art. 115 c.p.c. … cit., p. 387, il quale osserva che la limitazione operata dalla norma non sia da condividere, non solo alla luce delle indicazioni comparatistiche (gli ordinamenti tedesco ed austriaco, ad esempio, attribuiscono alla contumacia l’efficacia di ficta confessio), ma soprattutto nell’ottica di una effettiva responsabilizzazione del convenuto o, in genere, di ogni parte. Si veda, ancora, F. P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. II … cit., pp. 55 e 214, il quale, a dimostrazione dell’inopportunità della previsione legislativa in esame, riferisce un esempio paradossale: il convenuto ammette l’esistenza dei fatti costitutivi, ma ne contesta le conseguenze giuridiche; dunque, l’attore non formula le relative istanze istruttorie. In fase di decisione il giudice rileva d’ufficio un difetto nella costruzione del convenuto e lo dichiara contumace, ed è altresì costretto a respingere la domanda dell’attore per mancanza di prova dei fatti che il convenuto aveva dichiarato esistenti. Sul punto, tuttavia, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che la contumacia c.d. formale – quella, cioè, derivante dalla invalida costituzione della parte – non incide sull’idoneità della difesa della parte stessa a escludere l’applicazione del principio della specifica contestazione. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che «anche se si volesse attribuire alla contumacia lo stesso significato o effetto quale comportamento processuale suscettibile di valutazione probatoria, di certo ne resterebbe esclusa la contumacia “formale”, determinata cioè dalla irregolarità formale della costituzione della parte che pure ha, sia pure invalidamente, partecipato al giudizio: il principio di non contestazione, infatti, si basa sulla interpretazione del comportamento processuale della parte quale elemento di convincimento razionale cerca la verità della vicenda storica oggetto del giudizio, nel senso che chi non contesta una circostanza contro di lui dedotta dalla controparte, pur avendo l’onere di farlo in modo specifico e fornendo la propria versione dei fatti ai sensi dell’art. 167 c.p.c., ammette implicitamente la verità del fatto esposto dalla controparte» (cfr. Cass., 17 settembre 2010, n. 19732). La critica più severa, tuttavia, proviene da Sassani (L’onere della contestazione … cit., p. 17), a parere del quale «la stretta e puntigliosa limitazione del valore della non contestazione alle parti costituite costituisce un difetto che doveva essere evitato», risultando «veramente difficile vedere nella invocata ‘tradizione del diritto processuale italiano’ un vero impedimento a riconsiderare il senso della contumacia volontaria del convenuto. La ‘risalente tradizione’ è veramente solo l’incrostazione delle abitudini, nessuno essendo in grado di provare che il sistema del diritto processuale italiano imponeva di dare valore di ficta contestatio all’inerzia del convenuto … E vale poco ricordare che la ‘neutralità’ della contumacia – l’accettazione cioè del fatto che essa non abbia, non possa e non debba ricevere alcun significato – è formula che la dottrina ripete, e che la giurisprudenza estremizza, senza che nessuno abbia mai saputo spiegare perché». Interessante, infine, il pensiero di G. F. RICCI, La riforma del processo civile, Torino, 2009, p. 40, secondo cui il riferimento alla parte costituita è del tutto superfluo, in quanto assorbito dalla previsione della necessaria specificità della contestazione, ciò che all’evidenza rende necessario un comportamento attivo della parte, di per sé non individuabile nella contumacia.
Degna di nota è, in particolare, l’aspra critica mossa da Sassani, il quale ha ricordato che «nessuna attenzione è stata mai data al fatto che nella ‘Relazione’ che accompagnava il codice di procedura civile si trova che ‘generale principio’ è quello per il quale ‘l’inattività va a carico della parte inerte’ nel senso che la negligenza della parte volontariamente assente ‘non deve in nessun caso costituire un espediente per mandare in lungo il processo a danno della parte comparsa e diligente’».
Così B. SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it cit., p. 18
Se questo è vero pare evidente, allora, lo stridore della nuova norma, da un lato, con i (decennali, antichi) valori fondanti il processo civile di cognizione e, dall’altro, con le esigenze sottostanti le riforme processuali degli ultimi anni, caratterizzate quasi prevalentemente dalla necessità di abbreviare i tempi processuali mediante l’introduzione di istituti e meccanismi aventi efficacia deflattiva più o meno penetrante.
Difatti, la mancata attribuzione di qualsivoglia valore al comportamento volontariamente omissivo della parte chiamata in causa si scontra con la stessa finalità che il legislatore del 2009 ha inteso perseguire: vi è, invero, una assoluta antiteticità tra il dato normativo – la contumacia non consente di liberare la controparte del carico probatorio su di essa incombente, con il conseguente, ovvio, allungamento dei tempi processuali – e il dichiarato fine di ridurre la durata dei giudizi di cognizione.
Così B. ZUFFI, Art 115 C.P.C., Codice di procedura civile commentato,2013 cit., p. 1373
Ora occorre interrogarsi sul concetto di «parte» cui fa riferimento il nuovo art. 115 cod. proc. civ. La disposizione, secondo la maggioranza degli studiosi, non darebbe adito a dubbi circa l’applicabilità del principio di specifica contestazione a tutte le parti in giudizio, convenuto, attore o terzo intervenuto che sia.
Dunque, il principio della contestazione ha oggi acquisito il carattere della reciprocità, nel senso che l’effetto collegato all’adempimento dell’onere in questione può giovare non solo all’attore, ma anche al convenuto o al terzo, nelle ipotesi in cui siano questi ultimi ad allegare una o più circostanze di fatto, la cui contestazione spetterebbe, quindi, alla parte attrice.
Come ricorda N. SAPONE, Il principio di non contestazione nel processo del lavoro, Milano, 2012 cit., p. 109
In altre parole, gli effetti della mancata contestazione si producono bilateralmente, tanto per il convenuto rispetto ai fatti dedotti dall’attore a fondamento della propria domanda, quanto per l’attore rispetto ai fatti impeditivi, modificativi o estintivi eccepiti dal convenuto, ovvero rispetto ai fatti dedotti a supporto di eventuali domande riconvenzionali.
Si assiste, così, a una evidente “soluzione di continuità” con le previsioni finora caratterizzanti i poteri del convenuto in fase di costituzione: gli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., nel prevedere l’onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti affermati dall’attore nel momento di costituzione in giudizio, si riferiscono, appunto, al solo convenuto. In altre parole, la presa di posizione richiesta dalle citate norme non è, estensibile anche all’attore, benché sia previsto che il convenuto possa allargare il thema decidendum mediante la formulazione di una domanda riconvenzionale, con la conseguente necessità per l’attore di prendere a sua volta posizione sulla medesima.
Ora, il riformato art. 115 cod. proc. civ. ha ristabilito l’equilibrio fra le parti, menzionando genericamente la «parte costituita» quale quella soggetta alla regola della specifica contestazione, con ciò “proseguendo” idealmente le previsioni di cui ai succitati artt. 167 e 416 cod. proc. civ.: fino al 2009 poteva affermarsi senza rischiare di cadere in errore che il convenuto è tenuto a prendere posizione sul contenuto della domanda attorea con la comparsa di costituzione e risposta, ma, com’è noto, a tale previsione non era collegata alcuna “sanzione” circa le conseguenze della mancata presa di posizione. Attualmente è invece possibile sostenere, ancora una volta senza incorrere in errori o imprecisioni, che il convenuto deve, così come in passato, espressamente prendere posizione sui fatti affermati dall’attore a fondamento della sua domanda (artt. 167 e 416 cod. proc. civ.); ma si prevede altresì che, in mancanza, le circostanze di fatto sulle quali non sia intervenuta specifica contestazione saranno considerate pacifiche, nel senso che l’attività istruttoria eventualmente richiesta con riferimento a quelle dovrà essere dichiarata superflua e irrilevante (art. 115 cod. proc. civ.).
Tale soluzione, però, non appare un’assoluta novità nel nostro sistema processuale. Difatti, da più parti si ritiene che l’art. 115 cod. proc. civ., come attualmente formulato, ha un precedente nella disciplina degli artt. 186 bis e 423 cod. proc. civ., i quali prevedono, rispettivamente per il rito ordinario e per quello del lavoro, che il giudice possa, su istanza di parte e fino al momento della precisazione delle conclusioni, emanare un’ordinanza esecutiva di condanna al pagamento delle somme non contestate.
E’ opportuno rilevare che l’art. 186 bis cod. proc. civ. dispone espressamente che la mancata contestazione delle somme oggetto dell’ordinanza di pagamento debba provenire dalle «parti costituite». Tale precisazione manca, invece, nella norma di cuiall’art. 423 cod. proc. civ. Si ritiene, però, che nonostante tale omissione «l’evidente analogia dei due istituti, in mancanza di ragioni che giustifichino un’interpretazione divergente, deve far ritenere che anche l’ordinanza di pagamento di somme non contestate del rito del lavoro, nel quale pure c’è un onere di contestazione entro un termine di preclusione, pur essendo scaduto questo termine possa essere emanata nei confronti del contumace». Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali … cit., p. 147. Analogamente, nel senso della necessaria costituzione della parte contro la quale debba essere emessa l’ordinanza di pagamento nel rito laburistico, si vedano, fra gli altri, G. TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, p. 256; F. P. LUISO, Il processo del lavoro, Torino, 1992, p. 226. Si veda, ancora una volta, F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali … cit., p. 148, secondo il quale lo sforzo interpretativo volto a limitare l’operatività della norma di cui all’art. 423 cod. proc. civ. alle sole parti costituite rappresenta «un falso problema, da un lato perché … la non contestazione (compresa la contumacia) può aprire la strada ad altri provvedimenti anticipatori di condanna, anche quando non sia possibile concedere l’ordinanza di pagamento di somme non contestate; dall’altro perché quando tutti i fatti costitutivi non sono contestati, e quindi non sono bisognosi di prova, non essendo necessaria attività istruttoria, si può passare direttamente alla fase decisoria ed alla emanazione della sentenza. In definitiva, le ordinanze anticipatorie ex art. 186 bis e 423, primo comma, c.p.c. presuppongono una non contestazione necessariamente parziale, quindi diversa da quella del contumace … che invece è inevitabilmente ed oggettivamente totale».
Le norme de quibus sono considerate fattispecie tipiche di non contestazione. Peraltro, in esse si utilizza il fenomeno della contumacia quale evento escludente l’applicazione della regola ivi contenuta, proprio come avviene nella nuova disposizione dell’art. 115 cod. proc. civ.
Così S. DEL CORE, Il principio di non contestazione diventa legge ne erano maturi i tempi?, in Il diritto delle prove – Atti del convegno di Catania, 21-22 novembre 2008, a cura di A. CARIOLA, A. CORSARO, G. D’ALLURA, F. FLORIO, Torino, 2009 cit., p. 72
Vi è, tuttavia, chi avverte che occorre essere cauti nel parlare di un parallelismo così netto fra le ordinanze di pagamento di somme non contestate e il principio generale della specifica contestazione. Si sostiene, infatti, che nell’individuazione della mancata contestazione quale presupposto dell’emanazione di ordinanze di pagamento di somme non contestate, bisogna chiarire che, pur essendo necessario, non è sufficiente che il convenuto ponga in essere un comportamento difensivo qualificabile come omessa contestazione, tale da escludere la necessità della prova del fatto ai fini della decisione definitiva, atteso che è altresì necessario che al comportamento medesimo si accompagni il mancato rilievo di eccezioni processuali e/o di merito volte alla dichiarazione di inammissibilità oppure al rigetto della domanda.
Così F. DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012 cit., p. 148
Anche altra parte della dottrina rileva che gli istituti previsti dagli artt. 186 bis e 423 cod. proc. civ. siano eccezionali e tale loro eccezionalità risieda nel fatto che mentre, di norma, la regola della specifica contestazione comporta la sola relevatio ab onere probandi a favore dell’avversario, nelle ipotesi delle ordinanze anticipatorie di condanna la medesima regola viene utilizzata anche come presupposto per la pronuncia, già nella fase di trattazione della causa, di un provvedimento anticipatorio della condanna finale, fondato sull’accertamento del diritto di credito “per mancata contestazione”, destinato peraltro ad acquistare efficacia piena di giudicato a seguito dell’eventuale estinzione del giudizio.
Così A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995 cit., p. 399
Altro aspetto degno di menzione nello studio della limitazione soggettiva del principio di contestazione concerne l’atteggiarsi dell’istituto della contumacia nei giudizi plurisoggettivi.
In effetti, la norma di cui all’art. 115 cod. proc. civ., riferendosi genericamente alla «parte», lascia irrisolto il problema della concreta operatività del meccanismo della contestazione nelle ipotesi in cui in giudizio siano costituite più di due sole parti.
Dunque l’interrogativo è: se vi sono più parti in causa, la mancata contestazione di una di esse produce effetti anche nei confronti delle altre? Bisogna, cioè, chiedersi se la contestazione di alcune parti su determinati fatti allegati, che siano comuni anche ad altre parti nel medesimo giudizio, sia sufficiente o meno ad evitare gli effetti della mancata contestazione anche per i soggetti che tale contestazione non hanno effettuato.
Una risposta errata a tale interrogativo comporterebbe, in concreto, il rischio non banale di ritenere una medesima circostanza pacifica (e, quindi, potenzialmente vera) in relazione a una parte e non provata in relazione ad altro contraddittore.
In ogni caso, occorre specificarlo, il problema si pone in entrambi i sensi: l’estensione dell’efficacia della mancata contestazione anche alla parte che ha contestato in modo specifico comporterebbe un’indebita espansione degli effetti della volontà della parte non contestante nei confronti dell’altra. Analogamente, si verificherebbe un’indebita intromissione nella sfera dispositiva di un soggetto qualora una circostanza di fatto fosse contestata da un’altra parte in causa e, quindi, messa in discussione sul piano probatorio quando, invece, la parte non contestante aveva scelto con il proprio comportamento di escludere quel fatto dal novero degli elementi da sottoporre a verifica probatoria.
Il dubbio sussiste sia quando il litisconsorzio è necessario, sia quando è facoltativo, sia quando è originario, sia quando è frutto di un intervento in causa da parte di un terzo, sia, infine, quando è frutto di una riunione di cause.
La ragione è manifesta: l’imprescindibile soggettività del comportamento contestativo potrebbe, teoricamente, essere di ostacolo alla necessaria unitarietà che caratterizza l’accertamento nelle ipotesi di giudizio cumulato o litisconsortile.
Infatti, in caso di litisconsorzio non potrebbe mai giungersi alla conclusione che un medesimo fatto, contestato da un litisconsorte e non dall’altro, sia valutato in modo diverso per l’uno e per l’altro. Dovrebbe piuttosto inferirsi che in ipotesi di processi litisconsortili non sia possibile limitare l’effetto della mancata contestazione o della specifica contestazione a una sola delle parti in causa, ma la valutazione di simili contegni e dei fatti che ne sono oggetto dovrebbe essere necessariamente unitaria.
Si fa, qui, riferimento all’istituto del litisconsorzio necessario che come noto, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ., si verifica qualora la decisione della lite debba pronunciarsi necessariamente nei confronti di più parti. Secondo autorevole dottrina «la presenza di più parti nel processo non può dipendere che dal fatto che il rapporto sostanziale fatto valere abbia (o, più esattamente, sia affermato come avente) più di due soggetti». Così, C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale … cit., vol. I, p. 212.
Ancora una volta, la soluzione che viene fornita presuppone una chiara scelta alla natura – dispositiva o probatoria – del fenomeno della contestazione.
Infatti, ove si accedesse alla teoria per la quale la contestazione costituisce un comportamento espressivo della volontà della parte di disporre della situazione sostanziale controversa, si manifesterebbe un contrasto fra la volontà della parte che, contestando, ha manifestato il proprio interesse a che il fatto venga sottoposto a verifica probatoria e quella di un’altra parte che, invece, mediante la mancata contestazione ha reso incontroverso il medesimo fatto.
In tali ipotesi si dovrebbe concludere che la circostanza di fatto necessiterebbe di verifica probatoria solo per la parte che ne ha contestato la verità, mentre sarebbe pacifica nei confronti della parte non contestante. Tale soluzione, tuttavia, sembra evidentemente inaccettabile posto che nel medesimo giudizio, benché cumulato, una medesima circostanza non può essere considerata, al contempo, pacifica e controversa, a seconda della parte che ha o meno dubitato della sua verità. Parimenti inaccettabile è che il giudice, nella stessa pronuncia, consideri per la decisione un unico fatto come vero e, allo stesso tempo, come non provato ovvero addirittura smentito da altre risultanze istruttorie.
Per venire a capo del problema, allora, va sacrificato l’argomento per il quale la volontà manifestata da una parte – contestando o non contestando un dato fatto – non possa produrre effetti nella sfera di disponibilità di un altro soggetto. Infatti, una circostanza di fatto specificamente contestata da una sola parte deve essere, per ciò solo, bisognosa di essere provata, indipendentemente dalla eventuale mancata contestazione degli altri litisconsorti.
In altre parole, dovrebbe risultare sufficiente la contestazione di una sola delle parti contro le quali è allegato il fatto comune affinché gli effetti dell’omessa contestazione non si verifichino, di modo che l’onere della prova per il soggetto allegante resti invariato.
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 89; M. MOCCI, Principio del contraddittorio nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 331; F. ROTA, I fatti non contestati e il nuovo art. 115, ne Il processo civile riformato, diretto da M. TARUFFO, Bologna, 2010, cit., p. 208; F. SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile in www.judicium.it cit., par. 5.2; G. MAERO, Il principio di non contestazione prima e dopo la riforma, in Il giusto proc.civ cit., p. 468; C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 cit., p. 271; ID., Art. 115 c.p.c. … cit., p. 802. Quest’ultimo, in particolare, specifica che se l’intervento in giudizio determina un ampliamento della base fattuale della controversia, in caso di intervento principale l’onere di contestazione investe sia l’attore che il convenuto e la contestazione di uno solo di essi rende il fatto bisognoso di essere provato; diversamente, nel caso di intervento adesivo, l’onere di contestare riguarda esclusivamente la parte contro la quale si è schierato il terzo intervenuto.
Coloro che sostengono la tesi appena menzionata giustificano il proprio pensiero in considerazione della regola prevista dall’art. 2733, 3° comma, cod. civ., a norma del quale, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcune soltanto delle parti non assume valore di prova legale, bensì è oggetto di prudente apprezzamento da parte del giudice. Dunque, traslando il medesimo principio nell’area di applicazione dell’onere di specifica contestazione, si ritiene che in caso di litisconsorzio necessario la mancata contestazione da parte di alcuni soltanto dei litisconsorti necessari non espunge, nei confronti degli altri contraddittori, il fatto medesimo dalla gamma di quelli da sottoporre a controllo probatorio, attribuendo in questo modo al contegno contestativo delle parti un’efficacia “minore” e più attenuata rispetto all’effetto tipico collegato alla regola di cui all’art. 115 cod. proc. civ.
Diversamente, coloro che aderiscono all’opzione probatoria quale fondamento del principio della contestazione ritengono che i comportamenti delle diverse parti in giudizio non si influenzino tra loro. Ciò in quanto, essendo l’effetto della mancata contestazione assimilabile a una prova liberamente valutabile dall’organo giudicante, non si rinviene alcuna espansione della volontà di una parte nei confronti della sfera dispositiva delle altre. Il contegno di ciascuna parte sarà, pertanto, oggetto di autonoma e separata valutazione da parte del giudice.
Così G. MAERO, Il principio di non contestazione prima e dopo la riforma, in Il giusto proc.civ.,2010 cit., p. 469
Però un medesimo fatto non può considerarsi al contempo pacifico e controverso, a seconda dell’atteggiamento assunto da ciascuna parte nei confronti di esso. Una simile evenienza, infatti, comprometterebbe la correttezza della decisione e manifesterebbe, quanto meno, la fallacia della ricostruzione in fatto sulla quale deve poggiare l’intero impianto motivazionale della pronuncia.
Ancora diverso è il concreto atteggiarsi dell’onere della specifica contestazione nelle ipotesi di litisconsorzio facoltativo.
Così, F. P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. I, cit., p. 306
Quando si verifica un cumulo di cause nel medesimo giudizio ciò che viene valorizzato è l’unitarietà della cognizione e dell’accertamento da compiersi ai fini della decisione del merito. Ciò che caratterizza il litisconsorzio facoltativo, allora, è proprio la possibilità lasciata alle parti di “accorpare” l’attività giurisdizionale necessaria per la soluzione di più controversie tra loro connesse per l’oggetto o per il titolo.
In tali ipotesi, il principio di unitarietà opera essenzialmente con riferimento all’istruzione e alla trattazione delle diverse controversie, mentre in relazione agli atti implicanti la disposizione del processo o del diritto e alla fase di decisione prevale il principio dell’autonomia sostanziale dei giudizi riuniti. Infatti, l’unitarietà della decisione nel cumulo facoltativo è soltanto eventuale e ulteriore rispetto alle finalità proprie dell’istituto, benché sia innegabile che proprio il cumulo consente di giungere a una decisione coerente e armonica delle diverse controversie.
Secondo Cass. 10 febbraio 2003, n. 1954, in Dejure
Ora, con specifico riferimento al tema della contestazione in controversie caratterizzate da un cumulo di natura facoltativa, si è sostenuto che partendo dal presupposto che il principio di contestazione operi sul piano probatorio, quale filtro che consente di ridurre l’ampiezza dell’istruzione probatoria, la mancata contestazione dovrebbe rientrare tra quei profili per i quali prevale il principio di unitarietà, con la conseguenza che «l’effetto di prova (liberamente apprezzabile) della non contestazione può essere esteso anche al litisconsorte che ha contestato. In sostanza, la contestazione di un litisconsorte dovrebbe essere sufficiente di solito a rendere (se non necessaria almeno) opportuna l’istruttoria. E la non contestazione diventa uno tra gli elementi di convincimento in sede di decisione».
Così N. SAPONE, Il principio di non contestazione nel processo del lavoro, Milano, 2012 cit., p. 117.
Ma questo è esattamente ciò che avviene nel caso di contestazioni o mancate contestazioni in giudizi caratterizzati da litisconsorzio necessario. Se è così, non vi sarebbe in apparenza alcuna differenza fra le due ipotesi di cumulo processuale.
Vi è, nondimeno, chi precisa che occorre distinguere a seconda che il processo cumulato abbia ad oggetto un medesimo fatto storico ovvero circostanze fattuali differenti: solo nel primo caso dovrebbe prevalere l’esigenza di non contraddizione, o unitarietà, con la conseguenza che il contegno contestativo di una delle parti renda comunque necessario l’accertamento probatorio del fatto cui esso si riferisce, indipendentemente dalla mancata contestazione degli altri litisconsorti. Al contrario, qualora il giudizio abbia ad oggetto più fatti, parrebbe possibile far valere la mancata contestazione solo nei confronti della parte che ometta di adempiere al relativo onere.
Così G. BUFFONE, L’onere di contestazione, in Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 2011 cit., p. 28
9) IL TERMINE E LA STABILITÀ DELLA CONTESTAZIONE
La norma di cui all’art. 115, 1° comma, cod. proc. civ. nella sua attuale formulazione non si occupa – né espressamente, né implicitamente – di un cruciale aspetto concernente la regola della contestazione, che riveste fondamentale rilievo sia dal punto di vista scientifico, sia, soprattutto, sul piano della pratica applicazione del meccanismo contestativo.
Ci si riferisce al tema dell’esistenza di eventuali limiti temporali che assistono il principio sancito dalla norma sopra citata.
La questione del termine per l’assolvimento dell’onere della specifica contestazione risulta, poi, intimamente collegato al diverso tema della eventuale irreversibilità del comportamento processuale inizialmente non contestativo. Le due questioni sono fra loro fortemente interconnesse, poiché nell’ipotesi in cui si considerasse irrevocabile un atteggiamento inizialmente qualificabile come non contestativo, ciò presupporrebbe giocoforza l’individuazione di un preciso momento della dialettica processuale oltre il quale non potrebbe più essere ammessa alcuna possibilità di avversare i fatti allegati dalla controparte.
Il legislatore ha completamente omesso di dettare una specifica disciplina sul termine ultimo per effettuare le contestazioni, lasciando così gli interpreti e gli operatori in balìa delle più disparate opzioni ermeneutiche che la scarna disposizione del nuovo art. 115 cod. proc. civ. teoricamente consente. Cea parla di un «problema colpevolmente ignorato dal nuovo legislatore».
Così C. M. CEA, Art. 115 c.p.c. in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 803; ID., La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009 cit., p. 271
Intanto, non si può assolutamente restare inerti dinanzi al vulnus della disciplina codicistica, in quanto un comportamento processuale che, come la contestazione, è idoneo ad incidere sull’estensione quantitativa e temporale della fase istruttoria, non può essere lasciato alla mercé delle parti e dei loro interessi.
L’assenza di un termine per la contestazione metterebbe, dunque, gravemente a rischio il concreto rispetto dei precetti, anche costituzionali, fondanti il corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
È evidente, infatti, che l’assenza di limiti temporali per lo svolgimento dell’attività contestativa comporterebbe che quest’ultima potrebbe avvenire in ogni stato e grado del giudizio e ciascuna parte potrebbe, del tutto arbitrariamente, scegliere il momento in cui effettuarla. Una simile impostazione condurrebbe alla paradossale situazione nella quale ciascuna parte, anche nel corso della fase decisoria della causa, potrebbe mettere in discussione la verità di un fatto precedentemente non contestato, con ciò rendendo necessario l’accertamento dello stesso e la conseguente regressione del giudizio alla fase istruttoria. Si tratta di una soluzione, quindi, da scongiurare ad ogni costo, anche al fine di salvaguardare l’effettivo rispetto del canone costituzionale del giusto processo, nella particolare accezione di ragionevole durata del giudizio.
Così F. DE VITA, Non contestazione (principio di), in Digesto it., disc. priv.,2010 cit., p. 848
Inoltre tutto ciò contrasta apertamente con un modello processuale caratterizzato dal sistema delle preclusioni nell’allegazione di fatti e nell’indicazione dei mezzi di prova, il quale aspiri ad essere efficiente anche attraverso l’imposizione di un onere di contestazione.
Quindi si può considerare assodata la vitale necessità di un termine di preclusione per l’adempimento dell’onere della contestazione.
Occorre, tuttavia, segnalare l’opposta opinione di chi sostiene che non vi sarebbe alcuna esigenza di individuare un termine per la contestazione sull’assunto che «ricostruita la non contestazione come comportamento significativo e rilevante sul piano probatorio. Appare agevole dedurne che l’assolvimento dell’onere di contestazione deve apprezzarsi, da parte del giudice, in concreto, avendo riguardo al complessivo e reciproco comportamento processuale delle parti, escludendo qualunque automatismo e disancorando la contestazione, comunque, da specifici termini di decadenza».
Così G. BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della legge n. 18 giugno 2009, n. 69), in Il giusto proc. civ., 2009 cit., p. 779
La posizione assunta da coloro che escludono la necessità di un termine per la contestazione si fonda sulla considerazione che, in caso di contestazione successiva ad un fatto originariamente incontestato, è necessario garantire alla parte che “subisce” la contestazione tardiva la possibilità di avanzare controallegazioni e controdeduzioni probatorie.
Tuttavia, se vuole attribuirsi efficacia deflattiva al principio della contestazione, l’eliminazione della necessità che l’attività contestativa si svolga entro e non oltre un preciso limite temporale comporterebbe che il processo, anziché semplificarsi e snellirsi, finirebbe con il complicarsi ancora di più, e l’inutilità dell’istruttoria sui fatti non contestati derivante dalla regola sancita dall’art. 115 cod. proc. civ. resterebbe lettera morta.
Di questo avviso, in dottrina, v. N. SAPONE, Il principio di non contestazione nel processo del lavoro, Milano, 2012 cit., p. 123 e F. SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile in www.judicium.it cit., par. 3.
Peraltro, non può ignorarsi il rischio che il concreto operare del meccanismo della contestazione slegato da vincoli di temporali renda altamente probabile un utilizzo strumentale dell’istituto de quo.
Conseguentemente, l’individuazione di un termine è un momento essenziale nell’operazione di delimitazione dell’estensione e dell’oggetto dell’onere della specifica contestazione.
In assenza di dati normativi certi, è opportuno partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 761 del 23 gennaio 2002 che, aveva aperto la strada al riconoscimento generalizzato del principio della contestazione specifica nell’ambito dei processi ordinario e del lavoro.
In quella occasione, la Suprema Corte aveva affermato la «tendenziale irreversibilità» dell’attività contestativa, salvo che per i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria (i c.d. fatti secondari). Dunque, secondo i giudici di legittimità, la contestazione è un’attività stabile, destinata a produrre l’effetto di vincolare l’organo giudicante a ritenere vere le circostanze non investite dalla tempestiva contestazione della parte a ciò onerata.
Questa irreversibilità costituisce, come detto, il presupposto per definire il termine ultimo entro il quale è ammissibile la contestazione dei fatti avversari. Sul punto le Sezioni Unite, operando un chiaro distinguo tra fatti principali e fatti secondari, avevano stabilito che solo i primi soggiacciono a un limite temporale, individuabile nel momento ultimo in cui è ammessa la modificazione delle domande e delle eccezioni già formulate dalle parti, mentre i fatti secondari possono essere investiti dalla contestazione anche in un momento successivo a tale termine, essendo valutati dal giudice unitamente al complessivo atteggiamento difensivo della parte.
Secondo i giudici di legittimità, «il potere di contestare i fatti allegati dall’avversario non è cronologicamente illimitato, ma è destinato a consumarsi irreversibilmente, se non esercitato entro un determinato lasso di tempo». Invero, «perché la contestazione possa produrre i suoi effetti tipici, è necessario che operi all’interno di un processo che si ispiri, in misura più o meno variabile, al principio di preclusione».
Così C.M. CEA., Art.115 C.P.C., in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 803 E i modelli processuali del rito ordinario e del rito del lavoro sono caratterizzati proprio da una struttura di preclusioni definite. Ciò conferma ulteriormente e ancora una volta l’assoluta necessità di vincolare temporalmente le parti alla scelta di contestare o meno quanto dedotto dagli avversari. Insomma si può con serenità affermare che la possibilità di contestare i fatti avversari «in ogni caso si chiude con il passaggio alla fase istruttoria in senso stretto o alla discussione».
Così F. DE VITA, Non contestazione (principio di), in Digesto it., disc. priv.,2010 cit., p. 848
Ciò posto, non vi è tuttavia per nulla concordia fra gli interpreti circa l’esatto momento in cui la preclusione dovrebbe scattare.
Quanto a un primo filone interpretativo, si ritiene necessario operare un coordinamento fra il nuovo art. 115 cod. proc. civ. e gli artt. 167 e 183, quinto comma, cod. proc. civ. i quali, come ben noto, sanciscono l’onere di prendere posizione sui fatti introdotti rispettivamente dall’attore e dal convenuto già nelle fasi introduttive del giudizio. Per l’effetto, «il convenuto ha l’onere di contestare i fatti affermati dall’attore in citazione con la comparsa di costituzione e risposta, mentre l’attore ha l’onere di contestare i fatti contenuti nella comparsa del convenuto o all’udienza di trattazione, ovvero con la prima memoria ex art. 183, sesto comma c.p.c.».
Così F. SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile, in judicium.it cit., par. 3. Analogamente F. DE VITA, voce «Non contestazione (principio di)» in Digesto it., disc. priv., sez. civ 2010, cit., p. 850
Una seconda opzione interpretativa si attesta, invece, nel senso che la contestazione sarà possibile fino a quando non sia avvenuta la definitiva fissazione del thema probandum e, dunque, nel rito del lavoro, fino alla memoria di costituzione per il convenuto, salvo quanto dispone l’art. 420, e fino all’udienza, per l’attore; nel rito ordinario, fino al momento in cui per la controparte sarà possibile articolare le proprie richieste istruttorie, ex art. 183, comma 6, n. 2, e perciò fino alla prima memoria di appendice scritta.
Si veda, sul punto, I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari, dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 240.
Una terza soluzione ermeneutica del problema sostiene espressamente che «se si riflette sull’efficacia lato sensu probatoria della non contestazione e sulla sua appartenenza al novero dei mezzi mediante i quali il giudice forma il proprio convincimento, senza necessità di far luogo a istruttoria sui fatti non specificamente contestati, il momento in cui meglio potrà e dovrà esplicarsi la specifica e reciproca contestazione delle parti sui fatti addotti dall’avversario cadrà in coincidenza con le terze memorie di cui all’art. 183, c. 6».
Così A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art.115 C.P.C. in Riv.proc.civ., 2011 cit., p. 90. Dello stesso avviso C. M. CEA, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it. 2009 cit., p. 272 Difatti, nella terza memoria ex art. 183, 6° comma, cod. proc. civ. ciascuna parte dovrà non solo argomentare l’irrilevanza o l’inammissibilità delle istanze istruttorie dedotte dall’avversario, ma dovrà anche esprimersi sulla verità o falsità delle allegazioni della controparte, con specifica contestazione dei fatti narrati.
Infine, un’ultima e ancora diversa ipotesi di soluzione al quesito cui si cerca di dare risposta è stata avanzata dalla giurisprudenza, secondo la quale «ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte da relativo onere probatorio».
In questi termini, Cass. 27 febbraio 2008, n. 5191, in Dejure
Come si vede, lo stato dell’arte è tale e tanto magmatico e incerto che non risulta possibile attualmente determinare con un pur minimo grado di sicurezza quale sia, in concreto, il termine entro il quale la parte è tenuta ad assolvere utilmente l’onere di contestazione su di essa gravante. Nella pratica, allora, in presenza di simili considerevoli dubbi interpretativi, le parti tenderanno ad essere quanto più caute possibile; esse si adatteranno presumibilmente a quella tra le soluzioni proposte che si presenta maggiormente restrittiva, dunque tenderanno a contestare gli assunti avversari alla «prima occasione utile», e ciò al fine di allontanare il pericolo che la propria presa di posizione sui fatti avversari, se non effettuata “subito”, possa essere tacciata di tardività e, perciò, di inefficacia.
In ogni caso, indipendentemente da quale comportamento concretamente “convenga” adottare nella prassi giudiziaria, la tesi che individua il termine per la contestazione nella «prima difesa utile» sembrerebbe quella che meglio si adatta alle peculiarità della controversia di volta in volta considerata. In tal modo, invero, l’attività contestativa delle parti risulterebbe sì svincolata da un termine specifico e fisso, ma una contestazione effettuata “appena possibile” consentirebbe di salvaguardare l’affidamento che, in ogni caso, verrebbe ingenerato nelle altre parti da un comportamento processuale inizialmente non contestativo. Infatti, volendo immaginare un esempio pratico a chiarificazione di quanto detto, laddove il convenuto non contestasse alcuni fatti nella comparsa di risposta, l’attore sarebbe legittimato a ritenere che su quelle circostanze non vi sia controversia, con la conseguenza che su quegli stessi assunti non domanderebbe l’ammissione di mezzi istruttori per ottenerne una verifica di veridicità. Lasciare, invece, che l’attore “resti nel dubbio” e, per l’effetto, consentire a costui di articolare le proprie difese, in punto di istanze istruttorie, sino addirittura al termine ultimo per lo scambio delle memorie di cui all’art. 183, 6° comma, cod. proc. civ., rischierebbe di dilatare, non certo i tempi, ma indubbiamente l’entità dell’appendice scritta della prima udienza di trattazione e la mole di istanze sottoposte al vaglio dell’organo giudicante, mentre tale attività potrebbe essere ben ridotta se fosse già in precedenza definito il novero dei fatti che occorre verificare nella fase probatoria. In realtà, nell’ipotesi da ultimo considerata, una dilatazione dei tempi processuali potrebbe, in astratto, esservi. Basti pensare, infatti, alla necessità per l’attore di essere posto in grado di reagire con pienezza di poteri al mutato atteggiamento processuale della controparte.
Questa riflessione consente di agganciare idealmente il discorso sul termine di preclusione a un importante, ulteriore, profilo della questione. Al rilievo che l’individuazione per via interpretativa di un termine preclusivo per l’assolvimento dell’onere di contestazione non è sancito in maniera perentoria e inflessibile.
Infatti, pressoché tutti i commentatori della nuova norma di cui all’art. 115 cod. proc. civ., indipendentemente dalle rispettive e differenti opinioni circa lo specifico termine ritenuto idoneo a cristallizzare l’estensione dei fatti da sottoporre a controllo istruttorio, sono favorevoli all’utilizzo dell’istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153 cod. proc. civ., qualora fosse necessario “porre rimedio” tardivamente a un comportamento inizialmente non contestativo.
In particolare, essi ritengono che successivamente alla scadenza del termine di preclusione per la contestazione di un fatto allegato dall’avversario, «visto il prezzo che il processo dovrebbe pagare ad una contestazione tardiva della parte (la riapertura del potere istruttorio altrui, resa inevitabile dal corretto dispiegarsi del principio del contraddittorio), è corretto ritenere, in ossequio alla norma sulla ragionevole durata del processo, che la trasformazione dell’iniziale non contestazione in contestazione sia possibile solo quando la parte scopra, senza propria colpa, che il fatto che credeva si atteggiasse in una certa maniera doveva essere inteso, in realtà, in modo diverso. Saranno ipotesi analoghe a quelle della rimessione in termini, anche perché, in questi casi, si avrà la necessità di una riammissione alla prova della controparte, irrimediabilmente decaduta dal potere di avanzare le proprie richieste istruttorie».
Così I. PAGNI, L’onere di contestazione dei fatti avversari dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011 cit., p. 240. Si veda, inoltre, M. FORNACIARI, Il contraddittorio a seguito di un rilievo ufficioso e la non contestazione (nel più generale contesto della problematica concernente allegazione, 379 rilievo e prova), in www.judicium.it cit., p. 34, anche C. M. CEA, Art. 115 in Le nuove leggi civili commentate, 2010 cit., p. 803; ID., La modifica dell’art. 115 e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it., 2009, cit., p. 272; A. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011 cit., p. 92, F. SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile in www.judicium.it cit., par. 4
Sul punto, è necessario, però, puntualizzare che la possibilità di “annullare” l’effetto che la contestazione oramai non effettuata ha esercitato sulla mappa fattuale del giudizio non può essere riconosciuta senza limiti né riserve, atteso che è sempre indispensabile che la parte si sia trovata nella impossibilità di contestare precedentemente una circostanza di fatto e che ciò abbia sì determinato per quel soggetto la decadenza dall’attività contestativa, ma senza sua colpa.
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