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I LIMITI DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN AMBITO DIDATTICO

2019, CONFERENCE PROCEEDINGS "TECNOLOGIA E COMPETENZA SOCIALE" - NAPLES, ITALY

L’erogazione di contenuti didattici attraverso unità minime di apprendimento (Microlearning), supportata dall’utilizzo delle tecnologie multimediali, se da un lato sembra essere in linea con gli attuali meccanismi di apprendimento dei “nativi digitali”, dall’altro evidenzia un grosso rischio: quello di favorire la frammentazione delle conoscenze e la perdita della visione unitaria del sapere disciplinare. La tentazione di semplificare i contenuti e sintetizzare i concetti di una lezione non deve esimere i docenti dall’impegno di guidare i propri studenti verso un utilizzo consapevole delle nuove tecnologie, favorendo un’appropriazione critica delle conoscenze e non la semplice banalizzazione del sapere. Questo breve contributo presenta alcune riflessioni sui rischi connessi all’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica scolare, fornendo alcuni suggerimenti affinchè le tecnologie stesse non rappresentino un limite, ma una concreta opportunità di accesso ad un nuovo modello di conoscenza.

I limiti delle nuove tecnologie in ambito didattico di Giuseppe Galetta, Ph.D. Docente di Didattica e Multimedialità Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, ISSR “Giovanni Duns Scoto” – Nola (Napoli) ABSTRACT L’erogazione di contenuti didattici attraverso unità minime di apprendimento (Microlearning), supportata dall’utilizzo delle tecnologie multimediali, se da un lato sembra essere in linea con gli attuali meccanismi di apprendimento dei “nativi digitali”, dall’altro evidenzia un grosso rischio: quello di favorire la frammentazione delle conoscenze e la perdita della visione unitaria del sapere disciplinare. La tentazione di semplificare i contenuti e sintetizzare i concetti di una lezione non deve esimere i docenti dall’impegno di guidare i propri studenti verso un utilizzo consapevole delle nuove tecnologie, favorendo un’appropriazione critica delle conoscenze e non la semplice banalizzazione del sapere. Questo breve contributo presenta alcune riflessioni sui rischi connessi all’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica scolare, fornendo alcuni suggerimenti affinchè le tecnologie stesse non rappresentino un limite, ma una concreta opportunità di accesso ad un nuovo modello di conoscenza. Fra le metodologie didattiche supportate dalle nuove tecnologie, negli ultimi anni si parla molto di Microlearning, un approccio didattico multimediale basato sull’erogazione di unità minime di apprendimento, ovvero segmenti brevi e circoscritti di sapere, in grado di condensare i contenuti di una specifica materia d’insegnamento in frammenti di conoscenza (microcontenuti), che il discente dovrà poi essere in grado di ricomporre e contestualizzare, secondo un’ottica costruttivista, in discorsi più ampi e strutturati, dotati di specifico significato, equivalenti in sostanza alla lezione trasmissiva di tipo tradizionale: in pratica, allo studente viene assegnato un puzzle da ricomporre, confidando nella sua capacità di ricostruire, attraverso piccole “tessere” di conoscenza, un oggetto di sapere coerente e unitario, secondo un modello di didattica individuale e personalizzata. Tale metodologia, già ampiamente diffusa e consolidata nell’ambito della formazione aziendale e del training professionale, sta determinando la possibilità di strutturare percorsi di apprendimento agili e innovativi anche in ambito scolastico, grazie alla versatilità delle sue applicazioni in modalità 1 multiplatform e alle possibilità di declinazione in modalità e-learning, ovvero esterne all’ambiente di apprendimento istituzionale, unicamente centrato sull’aula tradizionale: basti pensare alle molteplici applicazioni dell’aula TEAL (TechnologyEnhanced Active Learning), finalizzate all’interconnessione tra didattica tradizionale e tecnologie avanzate in un contesto fortemente collaborativo e flessibile, che coniuga insieme lezioni frontali, attività laboratoriali, ed attivismo pedagogico, secondo il modello proposto nel 2003 dal MIT di Boston, che sfrutta appieno le potenzialità della Rete e sta forgiando il nuovo modo di insegnare ai tempi del Cloud. Appare tuttavia chiaro che un approccio del genere, se da un lato è in grado stimolare i processi di apprendimento degli studenti, attivandone i processi metacognitivi attraverso dinamiche coinvolgenti e “alla moda”, dall’altro comporta il coinvolgimento diretto del docente in qualità di guida e facilitatore di un modello di apprendimento che lascia agli studenti stessi ampie facoltà di sperimentazione e ricerca rispetto ai contenuti proposti (ad esempio, la ricerca attiva di informazioni sul web e la manipolazione dei testi recuperati), richiedendo la risoluzione pratica di problemi (problem based learning) finalizzate a potenziare le capacità di apprendimento attraverso esperienze realistiche, intense e immersive, ma di durata limitata. Sul versante della ricerca educativa si parla infatti di didattica “non lineare” o di microprogettazione didattica, ma un tale approccio pedagogico, specie se rivolto a soggetti in età evolutiva e scolare (e non ad una popolazione di dipendenti aziendali), comporta un rischio importante: quello di favorire lo sviluppo di una conoscenza frammentaria, episodica, acritica e decontestualizzata (se non addirittura una perdita di memoria storica), imponendo e diffondendo un modello di conoscenza non più coerente e unitario (secondo i canoni della didattica tradizionale), ma disgregato e potenzialmente in grado di minare le basi di una solida preparazione culturale negli studenti. Infatti, l’esaltazione della sintesi e del “pensiero breve”, incentivato da un lato dalla diffusione dei dispositivi mobili, come gli smartphone e i tablet (che stanno ormai dettando la nuova sintassi del linguaggio), dall’altro dalle dinamiche comunicative imposte dai social media, sta determinando nei giovani studenti la perdita delle capacità di discorso, narrazione ed argomentazione, nonché un impoverimento del linguaggio stesso. Il gusto per il discorso ampio, strutturato e articolato, la ragionevolezza di un’affermazione, la logicità del pensiero, la conoscenza di uno specifico contesto di riferimento, la coerenza del ragionamento, la decodificazione corretta delle informazioni acquisite, la ricerca di senso, la concatenazione degli eventi secondo il nesso causa-effetto, il rispetto della memoria storica degli eventi, l’appropriazione critica e ragionata dei contenuti, la 2 ristrutturazione delle conoscenze acquisite, gli opportuni collegamenti interdisciplinari: sono solo alcuni degli elementi fondamentali di un testo (sia scritto che orale) oggi del tutto estranei alle pratiche discorsive ed argomentative dei giovani studenti, i quali procedono per consumi minimi e decontestualizzati d’informazione, agevolati dalle modalità di fruizione rapida e disimpegnata delle tecnologie digitali. Ma può tale “brevità” favorire la maturazione delle capacità logiche, argomentative e culturali (ovvero delle competenze) dei nativi digitali o finisce piuttosto per limitarle? La metodologia didattica basata su “microcontenuti” – i cui primi riferimenti possono essere già rintracciati nelle sperimentazioni di Microteaching da parte di Dwight W. Allen presso la Stanford University negli anni ’60 (Allen, 1967), che hanno favorito la diffusione del Costruttivismo in ambito pedagogico e la nascita della teoria costruzionista negli anni ’80 (Papert, 1989) – è certamente molto seduttiva e intrigante, in quanto sembra perfettamente adattarsi agli attuali meccanismi di apprendimento (e alle modalità di consumo delle informazioni) da parte dei “nativi digitali” (Prensky, 2001), sempre connessi ed abituati a navigare in maniera disimpegnata, se non addirittura casuale, da un contenuto all’altro della Rete attraverso i propri smartphone (attraverso il sistema ipertestuale dei link), accedendo “per salti” ad un sapere delocalizzato e globale che, risulta essere paradossalmente “ridotto”, in quanto basato su micro-contenuti, ma al tempo stesso “aumentato”, grazie all’apporto di contenuti multimediali legati ad uno stesso item di ricerca. Purtroppo tale pratica, che nei giovani sta diventando sempre più naturale e istintiva, grazie alla facile usabilità dei mobile devices e all’interfaccia amichevole dei touchscreen, sta ormai determinando la progressiva frantumazione e decontestualizzazione dei contenuti in ogni ambito del sapere, agevolando un accesso disimpegnato, ingenuo, acritico e superficiale alla conoscenza, nonché la diffusione di una tendenza alla sintesi e alla brevità del discorso, diretta conseguenza del massiccio utilizzo dei sistemi di messaggistica breve o sms (come WhatsApp), che sta causando a sua volta un’involuzione ed un impoverimento del linguaggio, testimoniati ad esempio dalla sostituzione di molte parole con acronimi o, secondo una diffusa tendenza, emoticon: una comunicazione “minima”, essenziale e, a volte, pericolosamente neutra o ambigua, ovvero priva di pregnanza e di reale significato. Secondo i principi del Costruzionismo, l’apprendimento avverrebbe in maniera più efficiente se il soggetto che apprende è coinvolto nella produzione o manipolazione di un oggetto tangibile (learning object o “artefatto cognitivo”): nel caso specifico, il soggetto si serve di un dispositivo tecnologico, quale lo smartphone o il tablet, per reperire, produrre e condividere conoscenza attraverso l’accesso alla vastità dei 3 contenuti offerti dal web. Si tratta però di una pratica che, se da una parte costituisce un’interessante applicazione della teoria costruzionista, nonché un’espediente didattico in grado di agevolare i processi di apprendimento degli studenti (grazie alla semplificazione dei contenuti, alle modalità immersive della fruizione online ed ai meccanismi seduttivi e gratificanti della gamification, spesso basati su applicazioni di virtual reality), dall’altro evidenzia i limiti delle nuove tecnologie nella didattica. Tale approccio, infatti, indica la tendenza da parte delle nuove tecnologie a disgregare il modello unitario del sapere disciplinare, determinando lo sviluppo di una conoscenza frammentaria, episodica e superficiale negli studenti, ovvero di una conoscenza reticolare sganciata da uno specifico contesto di riferimento. In realtà, lo stesso modello costruzionista, che è alla base delle varie metodologie e pratiche didattiche supportate dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (come ad esempio la Flipped Classroom, il BYOD o la didattica EAS), implica la perdita di centralità della lezione tradizionale (di tipo frontale) a favore di un’attività di costruzione personale del sapere, in grado di favorire un apprendimento significativo attraverso l’attività di ricerca e sperimentazione da parte dello studente (attraverso, ad esempio, i cosiddetti “compiti di realtà”), favorendo in tal modo una conoscenza individuale e “situata” per mezzo dell’esperienza diretta. Si ritiene infatti che una didattica “breve” (basata su microlezioni) favorisca i processi di apprendimento degli studenti, in quanto lo studio non risulta essere più statico e noioso (ossia unicamente basato sull’ascolto della lezione e sulla lettura di ampi brani del libro di testo), ma dinamico e stimolante perché basato su contenuti multimediali brevi, incisivi ed accattivanti (in grado di sollecitare stili cognitivi diversi), coinvolgente in quanto erogato in un ambiente immersivo ed ipertecnologizzato, decentrato e “nomade” rispetto al contesto didattico istituzionale (aula-classe vs. Mobile Learning), determinando modalità di apprendimento fortemente esperienziali, basate sulla simulazione di esperienze reali, rese ancora più verosimili dall’utilizzo della realtà virtuale (VR) e della logica narrativa dei videogames, se non addirittura potenziate e ampliate attraverso le applicazioni di “realtà aumentata” (AR). Questo significa che lo studente può essere incentivato a sfruttare le potenzialità delle tecnologie digitali a scopi didattici, a patto che tale processo preveda un’attenta opera di guida, supervisione e controllo da parte del docente, affinchè venga salvaguardata l’unitarietà dei saperi disciplinari (su cui si basano ancora i tradizionali programmi didattici, secondo il modello che ancora resiste nella scuola italiana, pur dopo la revisione delineata nelle Indicazioni Nazionali del 2012), evitando in tal modo i rischi di diffusione e viralizzazione di una conoscenza frammentaria, superficiale, acritica 4 negli studenti: un’informazione estrapolata dal proprio contesto originario e sganciata dalla logica di concatenazione causa-effetto, se non opportunamente riferita ad uno specifico quadro di unitario riferimento, può perdere il suo reale significato determinando la dissoluzione della visione d’insieme, con pericolose ripercussioni sull’impalcatura culturale e formativa dei giovani studenti. Inoltre, il rischio più immediato è che troppi microcontenuti, privi di uno specifico quadro di riferimento, possano determinare un aumento del “carico cognitivo” negli studenti, i quali, essendo iperconnessi, sono costantemente sottoposti ad un sovraccarico di informazioni: ciò potrebbe determinare una reale difficoltà nei processi di apprendimento ed un incremento del deficit di attenzione, ovvero l’esatto contrario cui la metodologia didattica del Microlearning mira (Chandler e Sweller, 1991). Il docente è quindi chiamato a fornire ai discenti adeguati framework cognitivi ed interpretativi, all’interno dei quali poter sviluppare e sperimentare le proprie conoscenze attraverso un utilizzo critico, coerente e mirato dei dispositivi tecnologici, evitando in tal modo il rischio di frammentazione e disgregazione dei saperi disciplinari in una miriade di micro-unità didattiche slegate fra loro, in quanto non riconducibili dallo studente ad una cornice concettuale unitaria e coerente, che costituisce l’imprescindibile contesto di riferimento. L’estensione della tecnologia alle attività didattiche, quindi, non può sostituire l’indispensabile azione di guida da parte docente, il quale deve educare i propri studenti a discernere e valutare criticamente contenuti che, sempre più spesso, vengono estrapolati in maniera acritica da contesti più ampi, causando la perdita di visione unitaria del sapere disciplinare e determinando una sorta di un approccio anarchico e “fai da te” alla conoscenza da parte dei giovani discenti che, se non opportunamente contestualizzato, guidato e monitorato dai docenti, può portare ad consumo acritico delle informazioni e a decodifiche aberranti della conoscenza (Feyerabend, 2013). Tale impegno richiede ovviamente un’adeguata preparazione tecnologica da parte dei docenti stessi, sostenuta da un aggiornamento continuo e costante rispetto al già vasto panorama delle apps di riferimento in ambito didattico. Infatti, il docente interessato a sperimentare il Microlearning quale metodologia didattica supportata dalle nuove tecnologie dell’informazione, alternativa alla lezione tradizionale di tipo trasmissivo, dovrà imparare a progettare la lezione per microcontenuti (bite-sized), fornendo informazioni brevi, essenziali ed accattivanti (snackable) sotto forma di “gustose” pillole di conoscenza (learning nuggets) da condividere con il gruppoclasse, attraverso l’utilizzo dei supporti multimediali orientati allo sviluppo di specifiche competenze (focused). Ma il docente dovrà essere in grado di fare tutto ciò senza mai 5 perdere la visione d’insieme del contesto, il quadro generale di riferimento, l’unitarietà del sapere disciplinare: egli dovrà riuscire a selezionare, semplificare e ridurre i contenuti utili a favorire i processi di apprendimento (dotando la lezione di maggior appeal, aumentando la retention delle informazioni, migliorando le performance sia individuali che di gruppo), ma solo dopo aver fornito agli studenti il quadro generale di riferimento all’interno del quale tali contenuti sono situati, riuscendo a contestualizzare opportunamente i “microcontenuti” rispetto ad un sapere disciplinare più ampio e unitario, senza pretendere di ridurre o velocizzare le lezioni. Il Microlearning infatti non rappresenta una metodologia valida in assoluto solo perché nuova o interessante, o una soluzione spicciola per sintetizzare la lezione: spesso la complessità dei contenuti relativi a una materia richiede un maggior approfondimento degli argomenti, per cui l’utilizzo di tale proposta didattica potrebbe rivelarsi una scelta poco opportuna; in tal caso sarebbe meglio sperimentare un approccio metodologico di tipo blended, alternando il Microlearning ad una metodologia di tipo tradizionale. Il Microlearning non deve quindi costituire una mera semplificazione dei contenuti didattici (o meglio una “didattica breve”), ma un’importante opportunità di trasformazione della didattica scolare all’interno di ambienti di apprendimento modellati dalle nuove tecnologie, rappresentando per la community dei docenti un’occasione di adattamento della didattica stessa ai nuovi scenari digitali. Una conoscenza “nidificata” che, in un’ottica di semplessità, potrebbe progressivamente evolversi verso un nuovo modello di sapere, più adeguato alla nostra società “liquida”, ipercomplessa ed altamente tecnologizzata (Berthoz, 2011). Tale metodologia può, quindi, certamente giovare alla didattica scolare, ma a patto che i microcontenuti proposti siano solo dei “nodi” di partenza, attorno ai quali tessere (in un’ottica costruzionista) la rete di esperienze testuali e laboratoriali degli studenti, ma preservando sempre l’oggetto unitario di conoscenza. In conclusione, non bisogna sottovalutare i rischi di frammentazione del sapere determinati dall’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica e dall’abuso di una didattica per “microcontenuti”, per cui i docenti dovranno vigilare su un utilizzo corretto, critico e consapevole dei dispositivi digitali da parte degli studenti ai fini di una corretta azione educativa e formativa. Solo in questo modo la tecnologia potrà porsi efficacemente al servizio della didattica, costruendo modelli virtuosi d’insegnamento e best practices esemplari, in grado di limitare i rischi di frammentazione del sapere, dispersione delle conoscenze e banalizzazione della cultura, favorendo realmente i processi di apprendimento delle nuove generazioni di studenti. 6 Riferimenti bibliografici Allen D.W. (1967), Micro-teaching: A description, Stanford Teacher Education Program, Stanford CA, Stanford University Press. Berthoz A. (2011), Semplessità, Torino, Codice Edizioni. Chandler P. & Sweller J. (1991), Cognitive Load Theory and the Format of Instruction, Cognition and Instruction, Vol. 8, Issue: 4, pp. 293-332. Feyerabend P.K. (2013), Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli. Hug T. (2006), Microlearning: A New Pedagogical Challenge (nota introduttiva), in T. Hug, M. Lindner, & P.A. Bruck, (Eds.), Microlearning: Emerging Concepts, Practices and Technologies After E-Learning: Proceedings of Microlearning Conference 2005: Learning & Working in New Media (pp. 8-11). Innsbruck: Innsbruck University Press. Hug T. & Lindner M. (Eds.) (2007), Didactics of Microlearning. Muenster, Waxmann. Papert S. (1989), Constructionism: A New Opportunity for Elementary Science Education - A proposal to the National Science Foundation, Cambridge MA, MIT Press. Prensky M. (2001), Digital Natives, Digital Immigrants, On the Horizon, Vol. 9, Issue: 5, pp.1-6. Prensky M. (2013), La mente aumentata. Dai nativi digitali alla saggezza digitale, Trento, Erickson. Torgerson C. (2016), The Microlearning Guide to Microlearning, Raleigh NC, Torgerson Consulting. 7