Il Treno 8017
Una Tragedia Dimenticata
Balvano, 3 marzo 1944
Salvatore Argenziano
1
Il 3 marzo 2004 ricorre il sessantesimo anniversario di una tragedia a suo tempo
sottaciuta, è resa poco nota per ragioni diverse: le responsabilità, il clima di quegli anni
ma anche l'indifferenza alla morte covata negli anni di guerra. Solo anni dopo, alcuni
giornalisti riproposero quell'avvenimento terribile. Di Torre del Greco morirono più di
trenta persone, anche giovanissimi e qualche donna. Oggi soltanto pochi torresi ricordano
quella tragedia. Avevo dieci anni e il ricordo di quei giorni, vago, impreciso mi ha
sempre accompagnato, pur senza alcun coinvolgimento di familiari o conoscenti. I miei
scritti si contano sulle dita di una mano ma, in due di questi, avevo citato quella tragedia.
Sabato, 24 gennaio 2004. Per caso sento alla radio ... galleria... 500 morti... ,
treno.... Un romanzo, "Treno 8017". La sollecita cortesia del curatore del programma,
Luca Crovi e del prof. Alessandro Perissinotto, autore del romanzo, mi mette sulla strada
giusta per conoscere una vicenda di cui nessuno mai aveva saputo darmi notizie.
Balvano (Potenza), notte tra il 2 e il 3
marzo 1944
-Pieno carico questa notte!-Ogni volta è così: cominciano a salire
'ncopp' ’o treno a Portici e a Salerno ci
sta già la folla; dopo sono assalti all'arma
bianca ogni volta che rallenti-.
-Bisognerebbe sbatterli giù tutti; 'stu
treno è un merci, ci stanno dei
regolamenti-.
-Eh, hai voglia coi regolamenti; ma lo
sai tu quanti treni passeggeri passano su
questa linea?-No-.
-Due la settimana. E ti pare che con
due treni alla settimana tutti sti cristiani
possono campare?-.
-Hai ragione pure tu. Io scendo a
buttare dentro un po' di carbone, che mo'
arriviamo alla galleria in salita-.
-Galleria Dell'Armi si chiama. Ecco,
ci siamo dentro-.
-Ih, 'cca sta già pieno 'e fumo, si fatica
a respirare-.
-Resisti che è ancora lunga. Due
chilometri quasi-.
-Perché caspita rallenti?-Non ce la fa, stiamo perdendo
trazione. Spala, santo dio, spala-.
-Qui il focolare è pieno, controlla 'a
pressione-.
-E' al massimo-.
-Ma stiamo quasi fermi; qui si
soffoca-.
-Santa madonna quanto fumo.
Torniamo indietro, dài il segnale a quelli
della macchina davanti, fischia su-.
-Speriamo che abbiano capito. Ehi,
voi della 480, leva indietro! Si torna
fuori, qui ci sta troppo fumo!-.
-Leva indietro, forza-.
-E' bloccato, pare frenato-.
-Mi sento male, dammi una mano...-Arrivo, aspetta...Questo è l'incipit del romanzo
"Treno
8017"
di
Alessandro
Perissinotto, editore Sellerio, 2003.
2
Corriere della Sera - Milano,
6 marzo 1944, pagina 1
Nell'Italia meridionale Cinquecento
morti per soffocazione in una galleria
*** 20 ***. Dopo il sogno, la dura
realtà.
Lisbona 6 marzo.
L'agenzia Reuter comunica da Napoli
che cinquecento italiani sono periti
venerdì mattina per asfissia in una
galleria
ferroviaria
dell'Italia
meridionale. Altre 49 persone sono
attualmente degenti all'ospedale. Per
mancanza di treni viaggiatori, un gran
numero di persone era salito su un merci
diretto verso oriente, stipando i carri
aperti
che
lo
componevano.
Nell'attraversare una lunga galleria il
treno, che già procedeva assai
lentamente, rallentava ancora la marcia,
sicchè il denso fumo che ingombrava la
galleria stessa in seguito al passaggio di
altri convogli provocava la soffocazione
della maggior parte dei disgraziati
viaggiatori.
Mercato nero
della ricchezza americana
e di vitali alimenti dalla campagne.
Treni stracolmi
corpi appiattiti
sul tetto delle carrozze
tornano dalle campagne del sud
anche i figli di zia Lena
con olio carne e farina.
Il lugubre acuto fischio
la frenata abusiva fuori stazione
tra lo stridio e lo scintillio sulle rotaie.
ad evitare le guardie
e la fuga tra i binari scavalcando
le punte aguzze delle cancellate
Centinaia di morti
soffocati dal fumo nero
della locomotiva
groviglio di corpi
calpestati dal panico
nel buio della galleria
di Balvano.
da "Ricordi" di S. Argenziano.
1998
da "Storie Torresi" di S. Argenziano
Balvano
......
Nt’â stazzione attaccaieno n’ata
lucumutiva e ppo u treno partette pe
Pputenza. Giruzzo s’addurmette e io me
mettietti a gguardia r’i mmappate.
Arrivaiemo â stazzione ’i Balvano e
llà u treno se fermaie pe na cuincidenza.
Era mezanotte e io già penzavo ’i
m’appapagná nu poco.
Sentevo ogni tanto i vvoci r’i
machinisti ca se chiammavano nt’â
nuttata.
Nt’û vagone i rrunciate ’i chilli ca
rurmevano.
Era quasi l’una ’i notte quanno u treno
s’avviaie p’a sagliuta.
Giruzzo rurmeva e io penzavo r’u
scetá a Pputenza.
Trasiéttimo nt’a na gallaria e i
pparpetule
’i
l’uocchi
mieie
addeventavano sempe cchiù pesanti.
Verévo già i ppalummella.
sovraccaricarono il treno o inevitabile
fato?
"Spero che un giorno venga sollevato
il velo su un fatto tanto grave. E forse
alle famiglie delle vittime dopo tanto
tempo basterebbe che le Ferrovie e il
ministero della Difesa deponessero un
mazzo di fiori. Basterebbe quello".
Gennaro Francione cita
Simone Navarra
Oggi, 3 marzo 2002, ricorre
l'anniversario del disastro ferroviario del
'44 in cui morirono oltre 600 persone. E
ancora ci sono dubbi sulle responsabilità.
Colpa
degli
americani
che
4
Balvano oggi
Balvano, antico piccolo centro lucano notevolmente danneggiato dal sisma del 23
novembre 1980. L'effetto devastante del tremore della terra causò decine e decine di
vittime e reso impossibile il recupero di molti antichi edifici andati irrimediabilmente
distrutti. Tre interessanti strutture con sorti diverse oggi sopravvivono al terremoto/80:
Notizie storiche e dati demografici
Il Paese sorge lungo il bacino del Sele, alle falde Nord-Occidentale del monte La
Rotonda e si concentra per la maggior parte alle pendici del castello costruito nei sec. XIXII.
Balvano proviene dal nome di un feudatario normanno molto potente. Come la maggior
parte dei Paesi lucani, il feudo passò nelle mani dei vari feudatari che dominarono l'Italia
meridionale.In epoca moderna il Paese fu dominato da poche famiglie legate al clero che,
sfruttarono la miseria e l'ignoranza della popolazione composta da contadini e pastori. Con
la rivoluzione francese e gli ideali di fraternità e libertà, i balvanesi sperarono di
migliorare le loro condizioni economiche ottenendo terre. Presto vennero delusi così
divennero anti-borbonici con l'arrivo dei francesi a Napoli. Proprio Murat, infatti, nominò
il parroco Don Fabrizio Pacelli, giudice di pace di Balvano. Nel 1799 la maggior parte del
clero locale costituì il governo repubblicano, eleggendo presidente il sacerdote Michele di
Jacovo, il quale organizzò insieme al popolo manifestazioni intorno all'albero della libertà.
Nell' '800 Balvano divenne sede di riunioni settarie aderenti alla carboneria. Il malessere
dei contadini sembrò placarsi con l'arrivo di Garibaldi. Successivamente, boicottata
l'assegnazione delle terre da parte della borghesia, i balvanesi accolsero in trionfo l'arrivo
del brigante Crocco nel 1861 e dei suoi luogotenenti, ma anche questo evento non portò
miglioramenti.
ABITANTI : 2030 (ultimo censimento)
Altitudine : 425 MT s.l.m.
Archivio Centrale dello Stato. Verbali del Consiglio dei Ministri. Luglio 1943 - maggio
1948. Edizione critica a cura di Aldo G. Ricci. Volume I Governo Badoglio 25 luglio 1943
- 22 aprile 1944
VERBALI DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI GOVERNO BADOGLIO
SEDUTA DEL 9 MARZO 1944
SOMMARIO
Sinistro ferroviario della linea di Potenza VERBALE
Alle ore 16 si è riunito in Salerno, nel palazzo municipale, sotto la Presidenza del Capo
del Governo, il Consiglio dei Ministri nelle persone di:
Maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo, Ministro degli Affari Esteri; Avv. Vito
Reale, Ministro dell'Interno; Avv. Ettore Casati, Ministro di Grazia e Giustizia; S.E. Guido
Jung, Ministro delle Finanze; Gen. Taddeo Orlando, Ministro della Guerra; Amm.
Raffaele De Courten, Ministro della Marina; Gen. Renato Sandalli, Ministro
dell'Aeronautica; Prof. Avv. Giovanni Cuomo, Ministro dell'Educazione Nazionale; Avv.
Raffaele De Caro, Ministro dei Lavori Pubblici; Avv. Falcone Lucifero, Ministro
dell'Agricoltura e Foreste; Prof. Avv. Tommaso Siciliani, Ministro delle Comunicazioni;
Prof. Epicarmo Corbino, Ministro dell'Industria, Commercio e Lavoro.
Esercita le funzioni di Segretario l'Avv. Dino Philipson, Sottosegretario di Stato alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il Ministro delle Comunicazioni riferisce sul sinistro ferroviario della linea di Potenza il
quale è da attribuirsi alla pessima qualità di carbone fornito dagli Alleati. I morti sono 517.
Tutto il personale ferroviario addetto al treno è deceduto, all'infuori di un fuochista. Tutti
gli altri erano viaggiatori di frodo (5).
Il Segretario PHILIPSON
Il Capo del Governo BADOGLIO
NOTE
(5) Si allega la relazione:
A seguito delle notizie sommarie già trasmesse per telefono, comunico all'E.V. le
risultanze dei primi accertamenti eseguiti da alcuni funzionari di questo Sottosegretariato,
subito inviati sul posto, circa il grave incidente in oggetto:
I - ACCERTAMENTI
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1) Il 2 corrente la stazione di Battipaglia effettuò il treno straordinario n. 8017 su
Potenza, così costituito:
a) veicoli: n. 47, dei quali n. 6 carichi con merci varie civili e n. 41 vuoti.
b) destinazione: 2 veicoli (T. 55) per la stazione di Persano; 1 veicolo (T. 28) per la
stazione di Sicignano; i rimanenti carri per Potenza e oltre.
c) assi: n. 94.
d) peso lordo complessivo: T. 520.
e) doppia trazione: (due locomotive n. 476020 e n. 480016 appartenenti al deposito di
Salerno - entrambe in testa al treno).
Sul convoglio aveva preso posto, abusivamente, anche una massa di viaggiatori,
valutata a circa 600, per lo più contrabbandieri, come devesi ritenere dal genere di colli e
di merci raccolte nei carri e depositati nella stazione di Balvano.
Partito da Battipaglia alle ore 19 del 2/3 il treno subì nella stazione di Balvano 37' di
ritardo per accudienza locomotive riprendendo la marcia alle ore 0,50 del giorno 3.
Alle ore 5,10, uno dei frenatori in servizio al treno comunicava al dirigente della
stazione di Balvano la notizia che il convoglio era fermo nella galleria delle «Armi» con
molti cadaveri a bordo.
Servendosi della locomotiva del treno 8025 sopraggiunto, il capo stazione di Balvano
dispose una ricognizione in galleria con l'ordine di far retrocedere il treno.
Partita alle ore 5,25, la locomotiva rientrava però in stazione senza aver potuto muovere
il materiale del treno stesso causa la presenza di molti cadaveri, oltre che nei carri, anche
sulle banchine della galleria. Fu quindi organizzata ed inviata una squadra di soccorso.
Raccolte le salme, il materiale del treno infortunato poteva in definitiva essere ricoverato a
Balvano alle ore 8,40.
Sul posto si recavano prontamente l'Ecc. il Prefetto [Mario De Goyzueta] ed il Questore
con squadre di pompieri e CC.RR. di Potenza nonché i Capi Reparto Movimento e
Trazione delle FF.SS. di Salerno.
Le salme, in numero di 501, furono scaricate e successivamente trasportate nel cimitero
di Balvano.
Fra i colpiti è risultato tutto il personale in servizio al treno meno un fuochista ed un
frenatore: complessivamente 7 agenti morti, le cui salme furono trasportate, con
l'autorizzazione dell'Ecc. il Prefetto di Potenza, a Salerno.
2) La linea, nel senso della marcia del treno, da Battipaglia a Potenza, presenta i
seguenti tronchi:
a) Battipaglia-Sicignano, con pendenze variabili di limitata entità;
b) Sicignano-Baragiano, con pendenza in salita variabile fino al massimo del 13‰
circa;
c) Baragiano-Tito, con pendenza in salita massima del 25‰ circa.
La galleria delle «Armi» trovasi nel tronco Sicignano-Baragiano, tra le stazioni di
Balvano e di Bella Muro, e precisamente fra le progressive Km. 126+623 e Km. 128+409.
Il suo sviluppo è quindi di m. 1692,22.
La sua pendenza è del 12,80‰ ed il grado di prestazione è conseguentemente il 16º.
L'asse del F.V. della stazione di Balvano (prog. Km. 124+482) dista dall'ingresso della
galleria stessa m. 1791.
7
3) I funzionari, che hanno fatto gli accertamenti, non hanno potuto prendere contatto
con alcun viaggiatore superstite, ad eccezione del fuochista che si è salvato e che
apparteneva alla locomotiva di testa.
Detto fuochista ha riferito che ad un certo momento si è sentito mancare il respiro ed è
svenuto. Ricorda di avere visto il proprio macchinista nell'atto di manovrare la leva di
inversione allo scopo, ritiene, di disporre la locomotiva a marcia indietro.
L'infortunato non ha saputo precisare come sia giunto a Balvano. Che un tentativo di far
retrocedere il treno verso Balvano ci sia stato si può arguire dal fatto che il veicolo di coda
del convoglio fu trovato all'ingresso della galleria stessa - lato Balvano e la leva delle
locomotive fu trovata realmente disposta nella posizione indicata dal fuochista
II - CAUSE CHE HANNO ORIGINATO IL GRAVE INCIDENTE
1) La morte di un così elevato numero di vittime è da ritenersi dovuta ad asfissia e
probabilmente all'azione dei gas tossici derivanti da incompleta combustione del carbone
(ossido di carbonio).
Salvo diverse conclusioni da parte della Commissione presieduta dal Capo
Compartimento di Napoli, che, con l'intervento di ufficiali e di tecnici della Direzione
Generale del «Military Railway Service», sta svolgendo regolare inchiesta, la sciagura
devesi attribuire alla pessima qualità del carbone fornito dal Comando Militare Alleato, la
cui combustione dà luogo alla produzione:
a) di una forte percentuale di vapori di zolfo;
b) di una elevata quantità di ceneri, scorie e di residui volatili.
Ne consegue:
- facile e continua ostruzione della griglia e quindi una insufficiente entrata di aria nel
forno;
- ostruzione dei tubi bollitori in caldaia con relativa difficoltà di tiraggio;
- ritorno in cabina, ad ogni apertura del forno, di gas tossici che colpiscono il personale
di macchina mettendolo in condizioni di non potere più fare servizio;
- difficoltà nella condotta del fuoco;
- depressione in caldaia e quindi diminuzione nello sforzo di trazione della locomotiva
con conseguente lenta corsa e talvolta arresto del convoglio in piena linea là ove
specialmente, come nelle gallerie, alle difficoltà di trazione si aggiunge lo slittamento delle
ruote motrici per umidità esistente sulle rotaie.
8
Già in precedenza, lungo la galleria esistente nel tronco Baragiano-Tito, con pendenza
di oltre il 22‰, erasi verificato un caso mortale di asfissia nel personale di macchina di un
treno per conto dell'Autorità americana. La stessa Autorità Alleata, riconosciuta la
fondatezza del rilievo aveva disposto che:
a) il peso dei treni nel tratto di maggiore pendenza, fra Baragiano e Tito, non dovesse
superare le 350 tonn.;
b) la doppia trazione in detto tratto sarebbe stata effettuata impiegando locomotori
americani Diesel-elettrici con spinta in coda data a mezzo di locomotiva a vapore italiana
disposta con il fumaiolo nel senso contrario alla marcia dei treni così da convogliare i
prodotti della combustione verso la coda dei treni stessi senza nuocere al personale di
macchina.
Allo scopo poi di evitare il dimezzamento dei treni, nella stazione di Baragiano,
all'inizio, cioè, del tronco di maggiore acclività, fu disposto che i convogli in partenza da
Battipaglia non superassero il peso prescritto delle 350 tonnellate.
III - RESPONSABILITÀ DEL PERSONALE
1) Come si è detto, la sciagura si è verificata nella galleria delle «Armi» con pendenza
massima del 13‰ circa, per la quale non era stato necessario emanare apposite
disposizioni limitative del peso dei treni in circolazione.
Sotto questo punto di vista, salvo eventuali ulteriori risultanze in contrasto, non si può
fare carico al personale di stazione di una vera e propria responsabilità sull'accaduto.
Tuttavia sono state rilevate le seguenti gravi infrazioni:
a) il capostazione di Battipaglia non avrebbe dovuto consentire la effettuazione di un
treno avente peso superiore alle 350 tonn., anche se la prestazione delle due locomotive ne
consentiva il traino.
Era noto infatti, e le disposizioni scritte lo confermano, che causa la cattiva qualità del
carbone, la prestazione delle locomotive non poteva e non doveva calcolarsi secondo le
norme fissate dalla Prefazione all'Orario Generale di Servizio, ma applicando ad essa un
coefficiente di riduzione che dall'Autorità Alleata era stato fissato con criteri di un largo
margine di sicurezza.
Il capostazione di Battipaglia ha commesso quindi una grave mancanza in quanto può
sorgere il dubbio che qualora il treno, invece di 600 tonn., come in realtà è risultato, avesse
avuto il peso di 350 tonn. non si sarebbe probabilmente verificata la difficoltà di trazione e
conseguente arresto del convoglio nella galleria ed asfissia dei viaggiatori;
b) i Dirigenti delle stazioni di Balvano e di Bella Muro hanno commesso delle gravi
infrazioni al regolamento sulla circolazione in quanto non si sono curati di accertare la
posizione del treno partito da una stazione e non giunto in orario nella successiva.
Forse il loro tempestivo interessamento, come del resto prescrivono le Norme di
Circolazione, avrebbe potuto rendere meno grave e meno tragica la sciagura che ha
causato tante vittime;
c) non è del tutto da escludere che il personale di macchina abbia trascurato di
assicurarsi, all'atto della partenza, del regolare funzionamento delle sabbiere e che ciò
abbia impedito di superare, al momento opportuno, lo slittamento delle ruote.
L'inchiesta in corso preciserà le singole responsabilità: tuttavia le mancanze accertate a
carico dei Capi Stazione di Battipaglia, Balvano e Bella Muro vanno severamente punite,
9
indipendentemente dalla eventuale responsabilità penale, che potrà essere stabilita dalla
Autorità giudiziaria.
Ho disposto intanto che i tre agenti siano sospesi a norma dell'art. 101 del Regolamento
del Personale.
Faccio riserva di trasmettere il verbale di inchiesta, non appena compilato.
(Salerno, Rel. per.).
Galleria dele Armi
Terry Allen
10
Galleria dele Armi
(Terry Allen & Will Sexton, Green
Shoes Pub./Jalapeño Cornbread, BMI)
[I]
During the time of the second World
War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
Train number 8017
It wasn’t strafing of bombing
Clandestine de-railings
It was just
Some bad coal
The stockyard was selling
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
[II]
All the allied forces
Shut down the town
Made rich men and poor men
The same
poor
So they hid
In the night
Shivered
Til the 8017 came
Their families were starving
In the village of Bovano
They had to break
The rules
Just to try
To find food
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017 to hell of to heaven
Train 8017 climb aboard
Galleria dele Armi
(Terry Allen & Will Sexton, Green
Shoes Pub./Jalapeño Cornbread, BMI)
[I]
Era il tempo della seconda Guerra
Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
Treno numero 8017
Non fu attacco di bombardamento
Né sabotante deragliamento
Fu soltanto
Quel cattivo carbone
Che i depositi vendevano
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
[II]
Tutto gli eserciti alleati
Hanno occupato il Paese
E ricchi e poveri hanno reso
Indistintamente
Poveri
Così nascosti
Nella notte
Tremanti
Finché l'8017 arrivò
I familiari morivano di fame
Nel paese di Balvano
Infrangere toccò
Le leggi
Per cercare
Trovar da mangiare
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017 all'inferno del cielo
Treno 8017 montati a bordo
11
[III]
Just through the mountains
Is Galleria dele Armi
A rich valley so fertile
And full
And only one train can get there
there’s only one tunnel
To pass through
But the train
It stopped
In the middle
Of the tunnel
And smoke
From bad coal
Turned black
The 500
From Bovano
Who hungered
But died
Before
They got through
Climb aboard everybody
To Galleria dele Armi
Train 8017
Train 8017 climb aboard
During the time of the 2° World War
A small town in Italy
Death
Came
Aboard
III]
Proprio tra quei monti
La Galleria delle Armi
Vallata ricca cosi fertile
Abbondante
Soltanto un treno ci può arrivare
Là c'è solo un tunnel
Che porta di là
Ma il treno
Si fermò
Nel mezzo
Del tunnel
Ed il fumo
Dal cattivo carbone
Nero circondò
I 500
Da Balvano
Affamati
Ma morti
Già prima
Di passare di là
Montati a bordo tutti quanti
Verso la Galleria delle Armi
Il treno 8017
Treno 8017 montati a bordo
Era il tempo della 2° Guerra
Mondiale
Un paesino in Italia
La morte
Venne
A bordo
12
Marzo 1944. Avvenimenti in Italia.
01 - Sciopero generale in tutta l’Italia occupata
03 - Prato-deportati in Germania 400 operai (solo 9 sopravviveranno)
14 - L’Urss stabilisce rapporti diplomatici con il governo Badoglio.
19 - Cervarolo (Reggio Emilia) - fucilati 27 partigiani
20 - Poggiobustone-i nazisti saccheggiano e incendiano il paese
23 - Azione di Via Rasella
24 - Eccidio delle Fosse Ardeatine
27 - Palmiro Togliatti rientra in Italia dopo 18 anni di esilio
28 - Torino-arrestati gli 8 componenti del Comitato militare. Saranno fucilati al
Martinetto il 5 aprile.
Il Corriere - Salerno, 23 marzo 1944,
La commissione ufficiale ha concluso la sua inchiesta sulla disgrazia ferroviaria
avvenuta la notte del 3 marzo u. s.
La catastrofe è stata determinata da una combinazione di cause materiali, quali
densa nebbia, foschia atmosferica, mancanza completa di vento, che non ha mantenuto la
naturale ventilazione della galleria, rotaie umide, ecc., cause che malauguratamente si
sono presentate tutte insieme e in rapida successione.
Il treno si è fermato a causa del fatto che scivolava sulle rotaie e il personale delle
macchine era stato sopraffatto dall'avvelenamento prodotto dal gas, prima che avesse
potuto agire per condurre il treno fuori del tunnel.
A causa della presenza dell'acido carbonico, straordinariamente velenoso, si è
prodotta l'asfissia dei passeggeri clandestini.
L'azione di questo gas è così rapida, che la tragedia è avvenuta prima che alcun
soccorso dall'esterno potesse essere portato.
È stato constatato che nessun fattore ha contribuito più di un altro; quindi si può
trovare giustificazione dell'avvenuto, classificandolo, con fraseologia legale, un «caso di
forza maggiore» piuttosto che negligenza di personale e difetto di macchine.
La cifra ufficiale mostra che invece di 509 morti, come precedentemente
annunziato, si deplorano 426 vittime, per asfissia prodotta dall'acido carbonico.
13
Elenco delle vittime identificate di Torre del Greco
Dai Registri di Morte del Comune di Torre del Greco, dell’anno 1944.
Atti nr. 38/2/C registrato il 13.06.1944.
Atti nr. 43/2/C registrato il 20.07.1944.
Atti nr. 56/2/C registrato il 18.09.1944
Accardo Antonio, 24 anni, (23.10.1919) cantoniere, di Domenico (ferroviere) e di
Lombardo Carolina.
Amato Rosario, (13.09.1914) di Francesco e di Scognamiglio Concetta.
Amitrano Giacomo, 29 anni, (12.07.1914) di Vito e di Sorrentino Rosa.
Ascione Giovanni, 22 anni (25.04.1921) di Giacomo e di Pinto Vincenza
Ascione Luigi (19.10.1910) di Michele e di Borriello Nunziatina.
Avventurato Agostino, 49 anni, (04.06.1895) nato a Napoli.
Avventurato Vincenzo, 17 anni, (06.02.1927) di Agostino e di Luna Nunziata.
Balzano Luigi, 28 anni, (17.06.1915) di Pietro e di Visciano Libera.
Brancaccio Giulia, in Francione. La signora Giulia era la nonna di Gennaro Francione,
magistrato e artista.
Castaldo Maria Teresa, 45 anni, (18.02.1899) di Giovanni e di Ginestra Maria Teresa.
D'Aniello Carmela, 19 anni, (30.08.1924) di Nicola e di Castaldo Maria Teresa.
De Luca Francesco Paolo, 17 anni, (09.06.1929) di Enrico e di Izzo Teresa.
Di Cristo Domenico, 45 anni, (13.10.1998) di Luigi e di Di Cristo Rosa.
Di Somma Armando, 22 anni, (24.09.1921) di Francesco e di Palomba Maria.
Esposito Enrico, 52 anni, (06.02.1892) di Antonio e di Montella Giovanna
Formisano Antonio, 19 anni, (09.10.1925) di Vincenzo e di Pernice Maddalena.
Giocondo Tommaso, 35 anni, (04.08.1908) di Giovanni e di Nocerino Anna.
Izzo Carmine, 24 anni, (27.03.1919) di Sebastiano e di Fiorello Colomba.
Luna Antonio, cognato di Avventurato Agostino.
Organista Gennaro, 21 anni, (09.10.1922) di Giuseppe e di Ciaravolo Maria Vittoria
Paduano Aniello, 29 anni, (06.04.1915) di Pasquale e di Ascione Maria Giuseppa.
Pernice Vincenzo, 16 anni, (20.05.1927) di Vincenzo e di D’Onofrio Lucia.
Pierini Arturo, 51 anni, (10.11.1912) nato a Napoli.
Pinto Natale, 17 anni, (01.11.1926) di Ciro e di Gargiulo Maria.
Pontino Gerardo, 24 anni, (24.01.1920) di Giovanni e di Di Cristo Lucia.
Tammaro Antonio, di Fabiano.
Velardo Giuseppe, 52 anni (02.04.1892) di Gennaro e di Sorrentino Costanza.
Versante Giuseppe, 14 anni, di Ciro.
I nominativi dei Torresi sono tratti dall'Elenco dei Morti Identificati riportato nel
libro di Mario Restaino "Un treno, un'epoca: storia dell'8017" (Melfi, Arti grafiche
Vultur, 1994) pagine 102-122.
I dati anagrafici sono stati corretti e completati dal sig. Mario Colamarino,
dell'Ufficio Anagrafe, CED, di Torre del Greco.
14
IL DISASTRO DELL'8017
di Giulio Frisioli
Articoli di Giulio Frisoli, pubblicati in "L'Europeo", 11 marzo 1956, pagine 12-15;
18
marzo
1956,
pagine
52-55;
25
marzo
1956,
pagine
37-41
Fu la più grande catastrofe ferroviaria del mondo. Pochi sanno che accadde in Italia
dodici anni fa
COMINCIA LA RICOSTRUZIONE DI UNA CATASTROFE IGNOTA
Galleria di Balvano, 3 marzo 1944: la più grande tragedia ferroviaria di tutti i
tempi
Il ferroviere dice: «Accadde là sotto» Balvano. Alle 0,50 del 3 marzo 1944 un
treno merci, dopo aver sostato trentotto minuti a Balvano, si inoltrò lentamente nella
galleria delle Armi di là dalla quale a sette chilometri c'è la stazione di Bella-Muro.
Doveva percorrere la distanza in venti minuti. Non arrivò: 521 persone morirono
asfissiate sotto la galleria. Il manovale Angelo Caponegro, in servizio a Balvano nel '44,
indica l'ingresso della galleria.
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Prima puntata - 11 marzo 1956, pagine 12-15
IL CAPOSTAZIONE DÀ IL VIA AL LUGUBRE 8017
Si era in guerra. Sulla linea Battipaglia-Potenza un solo treno passeggeri alla
settimana. Ai borsari neri ne occorrevano molti: quindi salivano sui «merci». Autorità
e ferrovieri erano costretti a chiudere gli occhi.
All'una circa della notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944, un treno merci in servizio
sulla linea Battipaglia-Potenza entrò in una galleria, e non riuscì a percorrerla. Il
lunghissimo convoglio, composto di 47 carri trainati da due locomotive del tipo 476
di alta montagna, una delle quali era stata aggiunta alla stazione di Romagnano, a
metà strada circa fra Eboli e Potenza, dato che il peso del treno appariva eccessivo
(470 tonnellate), era giunto alla stazione di Balvano-Ricigliano alle 0,12. Qui aveva
sostato per trentotto minuti.
Alle 0,50, il capostazione Vincenzo Maglio dette il segnale di partenza. Il merci,
che era contrassegnato dal numero convenzionale 8017, si avviò lentamente. La
stazione di Balvano dista da Potenza 39 chilometri; la stazione immediatamente
seguente, quella di Bella-Muro, 32; fra Balvano e Bella-Muro la distanza è quindi di
soli sette chilometri, che un treno, per quanto vada lentamente, non dovrebbe
percorrere in più di venti minuti.
SOLO UN GIORNALE PARLÒ DELLA TRAGEDIA, IN POCHE RIGHE
Il merci 8017 non riuscì a percorrere questo brevissimo tratto né in venti minuti né
in un'ora; la coincidenza di due fattori (il primo, quello che esso era sovraccarico, il
secondo, che il carbone bruciato dalle locomotive non era di buona qualità) concorse
a farlo fermare, circa trecento metri dopo che esso aveva imboccato la galleria detta
«delle Armi». Quasi tutti coloro che si trovavano sul convoglio morirono per asfissia:
se si pensa al poco personale che di solito si trova sui treni merci, si potrebbe dedurne
che persero la vita nel drammatico incidente solo alcuni individui. Se le cose stessero
così, queste rievocazione del disastro di Balvano non avrebbe ragione di essere.
Ma le cose stavano, invece, in tutt'altra maniera: perché a bordo del merci 8017
avevano preso abusivamente posto circa seicento passeggeri, dei quali 521 compirono
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il quel treno l'estremo viaggio della loto vita, un viaggio la cui stazione d'arrivo aveva
il nome «Morte».
Quella di Balvano fu una tragedia allucinante e silenziosa; pur costituendo la più
grave sciagura ferroviaria mai verificatasi nel mondo, la sua eco non giunse quasi
all'orecchio del grosso pubblico; o, diremo meglio, vi giunse attenuata, tanto da non
suscitare nessun moto sentimentale. Solo un giornale, il quotidiano napoletano
Risorgimento, l'unico autorizzato dalle autorità alleate a vedere la luce, accennò
vagamente al fatto, il 7 marzo del 1944, in poche righe della sua cronaca regionale,
senza specificare né la località nella quale la tragedia era avvenuta né il numero delle
vittime. La censura, in quel periodo, ostacolava il lavoro dei giornalisti; anche quando
le cose tornarono normali, nessuno, per molto tempo, pensò di rievocare quel tragico
accaduto.
Fu solo nel 1951 che due giornalisti napoletani, i quali svolgevano quella forma di
attività tipica di quei pubblicisti che nelle nazioni anglosassoni vengono definiti «free
lance writers», vale a dire scrittori indipendenti, pubblicarono sulle catene di
quotidiani italiani ai quali collaboravano un articolo sul disastro di Balvano,
argomento che venne ripreso da alcuni settimanali. Ma anche stavolta i fatti furono
narrati frettolosamente, senza entrare nei particolari, e quindi molti aspetti del
tristissimo avvenimento rimasero oscuri.
Che cosa accadde con precisione nella gallerie delle Armi? A chi doveva essere
fatta risalire la responsabilità dell'accaduto? L'Europeo si è proposto di rispondere a
questi interrogativi, al secondo dei quali, lo diciamo subito, non è possibile dare una
risposta precisa, perché l'ingarbugliatissima vicenda giudiziaria che prese le mosse
dalla tragedia di Balvano non giunse alla sua fine.
Prima di inoltrarci nella cronache del disastro, sarà bene ricordare un po' ai lettori,
specie a quelli che vivevano nel 1944 al di sopra della Linea gotica, quali erano le
condizioni in cui si viaggiava nell'Italia meridionale. Le comunicazioni erano
ovviamente mal servite, dato lo stato di guerra. I treni partivano, ma non sempre, in
orario, e giungevano sempre con un elevato ritardo alle stazioni terminali. Quanto
alla linea Battipaglia-Potenza, che tuttora non gode della trazione elettrica, e in molti
tratti è ad un solo binario, essa era stata dichiarata di interesse militare, e il Governo
Militare Alleato la gestiva in proprio, con l'aiuto del personale italiano delle Ferrovie
dello Stato, consentendo che su di essa transitasse un solo treno la settimana per
passeggeri.
A questo punto, è necessario ricordare quel tipico fenomeno del tempo di guerra
che fu la borsa nera. Fosse esercitata su vasta o su piccola scala, la borsa nera metteva
in condizione gli abitanti delle grandi città di rifornirsi di quei viveri dei quali si
avvertì la deficienza negli ultimi anni di guerra. Napoli specialmente, la grande città
che soffrì, dal 1942 in poi, una grande fame, era un mercato che si presentava, per
così dire, stimolante nei riguardi di chi se la sentiva di sottoporsi alla corvée di recarsi
a reperire dove fosse possibile generi alimentari, per poi rivenderli con un certo
margine di guadagno. Migliaia di individui dei paesi circostanti, sui quali si abbatté la
disgrazia della disoccupazione, si orientarono quindi verso la borsa nera; poco per
volta, essi giunsero alla convinzione, esatta, che la località in cui si sarebbero potuti
più facilmente fornire di quei generi che mancavano a Napoli, come la carne, l'olio, il
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grano, il tabacco, e perfino la verdura, oltre che i cereali e i legumi, era Potenza, il
capoluogo di una provincia la cui economia si fonda proprio sull'agricoltura e
sull'allevamento del bestiame.
I RIFORNIMENTI PER IL MERCATO NERO DI NAPOLI
Potenza dista da Napoli solo 166 chilometri; partendo la sera da Napoli era
possibile giungervi all'alba, fare i propri acquisti, e tornare nella capitale della
Campania nel pieno pomeriggio. Il piano di lavoro dei borsaneristi era semplice, se
pur faticoso; ma, a stroncare la loro attività, venne la requisizione della linea
ferroviaria Napoli-Potenza, effettuata dal Governo Militare Alleato subito dopo
l'ingresso a Napoli delle truppe della 5ª armata americana, che avvenne alla fine del
settembre del 1943. Come abbiamo detto, da allora fu autorizzato il transito di un
solo treno settimanale per passeggeri, il mercoledì. Invece, i borsaneristi, specie
quelli la cui attività potrebbe essere paragonata a quella dei commercianti al dettaglio,
erano premuti dalla necessità di effettuare viaggi continui, e non potevano non
servirsi delle ferrovie, data la requisizione di tutti i mezzi di trasporto azionati a
benzina o anche a metano.
Se davvero la militarizzazione della linea Napoli-Potenza avesse inferto un colpo
mortale all'attività dei piccoli speculatori, non staremmo qui ora a stendere questa
cronaca di un avvenimento di dodici anni fa; perché il merci 8017 non si sarebbe
fermato nella galleria delle Armi, la cui pendenza, che non supera il 13 per mille,
esso sarebbe riuscito a superare, tenuto conto del suo peso e della trazione effettuata
da due locomotive. Invece, i borsaneristi non rinunziarono al loro lavoro; facendo
giusto affidamento su certe qualità tipicamente meridionali, essi fecero in modo da
adattare ai loro scopi la situazione, poiché non potevano adattarsi essi stessi alla
situazione che l'ordinanza del GMA era venuta a creare; e nacque così una specie di
«modus vivendi» sul quale, purtroppo, gli Alleati chiusero benevolmente gli occhi. In
sostanza, avvenne questo: i borsaneristi trovarono rapidamente un accordo con il
personale italiano di scorta ai treni merci che da Napoli si recavano ininterrottamente
a Potenza; i conduttori dei treni, un po' per buon cuore, e qualcuno anche per
speculare sulla situazione, consentivano che nei vagoni dei convogli, quando non
erano stipati di merci, prendessero posto clandestinamente dei viaggiatori; quanto al
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personale alleato di scorta al treno, aveva capito la situazione, e fingeva di non
rilevarne l'irregolarità.
ALMENO 320 QUINTALI DI VIAGGIATORI ABUSIVI
Questa specie di compromesso, comprensibile sul piano umano, funzionò a
perfezione fino all'alba del 3 marzo del 1944, fino al momento in cui, cioè, il merci
8017 si fermò nella galleria delle Armi. Nei carri scoperti, in quelli coperti, e perfino
sugli imperiali di questi ultimi, avevano preso posto circa seicento persone, che
viaggiavano certamente molto peggio dei quaranta militari che dovevano per
regolamento, una volta, stiparsi nello spazio di un vagone. Un facile calcolo fa
stimare il peso di quei seicento viaggiatori irregolari sui trecentoventi quintali
almeno.
Se si tiene conto del carbone adoperato, che veniva fornito dagli Alleati, e
proveniva dalla Jugoslavia, ed era, notoriamente, dotato di un insufficiente potere
calorifico, mentre abbondavano in esso le scorie che, bruciando nelle caldaie, si
trasformavano in gas di scarico, costituiti per lo più da monossido di carbonio, un
terribile veleno ad azione rapida;
se si tiene conto del fatto che, con questo carbone, le due locomotive avrebbero
potuto trainare, in salita, non più di cinquecento tonnellate;
se si ricorda che il peso del merci 8017 era, a vuoto, di 479 tonnellate, basterà
sommare a queste tonnellate le 32 del peso dei passeggeri per notare come, sia pure
di poco, il limite si sicurezza era stato superato.
Naturalmente, queste considerazioni non furono fatte a Napoli, la sera del 2 marzo,
prima che il treno partisse; se il capostazione che gli dette via libera si fosse preso la
briga, di fronte al brulicare, nei carri, di persone che egli non poté fare a meno di
vedere, di ragionare un po' sulla faccenda, il merci 8017 non sarebbe partito se non
dopo che ne fossero scesi coloro i quali vi erano abusivamente saliti. Ma quello dei
treni merci diretti in Lucania stracarichi di clandestini era ormai uno spettacolo
consueto, per i ferrovieri napoletani. Perciò, dopo aver superficialmente controllato il
«foglio di viaggio» del convoglio, sul quale era detto che il merci 8017 era destinato
a Catanzaro, dove avrebbe dovuto caricare legname che «serviva per esigenze
determinate dalla guerra e di competenza del Governo Militare Alleato» , quel
capostazione si assicurò che il personale di scorta al treno avesse preso posto sui
vagoni; poi agitò la mano verso i macchinisti, che, sporgendosi dal finestrino,
attendevano il suo segnale, emise i regolamentari tre trilli dal suo fischietto. Non
sapeva che, espirando con una certa violenza una minima quantità di aria dai suoi
polmoni, avrebbe avviati 521 persone verso il posto dove i loro polmoni sarebbero
stati rapidamente saturati dal monossido di carbonio, e ne sarebbero rimasti
paralizzati.
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Seconda puntata - 18 marzo 1956, pagine 52-55.Il più grande disastro
ferroviario del mondo
OGNI VIAGGIATORE SEDEVA CADAVERE AL SUO POSTO
Sotto la galleria delle Armi due locomotive emettevano fumo prodotto dalla
combustione di cattivo carbone jugoslavo. Il treno 8017 si era appena fermato per
insufficienze di calore. Un terribile errore: bisognava fare subito marcia indietro.
Macchinisti e fuochisti asfissati per primi. Cinquecentoventuno persone passarono
nel silenzio dalla vita alla morte
I passeggeri «abusivi» del «merci» 8017 erano quasi tutti addormentati quando il
convoglio si arrestò sotto la galleria. Le loro salme furono allineate sul marciapiede
della stazione, a un centinaio di metri dalla galleria.
L'identificazione delle vittime fu iniziato subito. Non fu un'impresa facile. Molte di
esse, per lo più piccoli trafficanti in borsa nera, erano prive di documenti.
Il treno fu rimorchiato all'aperto la mattina del 3 marzo 1944.
Angelo Caponegro è un manovale delle Ferrovie dello Stato; veste quasi sempre in
borghese; un berretto col fregio che rappresenta due ali d'oro poggiate su un cerchio
nel quale le lettere F e S sono ricamate l'una sull'altra indica la sua appartenenza alle
Ferrovie; la visiera copre di una strana ombra i suoi occhi piccoli e acuti, sotto i quali
un gran naso spicca sul volto onesto dell'uomo. Guarda lontano; si vede che, con la
mente, si sforza di tornare indietro negli anni, che tenta di mettere a fuoco certi
ricordi che vanno ormai, col trascorrere del tempo, diventando labili, imprecisi.
La notte fra il 2 e il 3 marzo 1944 era di servizio alla stazione di BalvanoRicigliano, insieme all'operaio di prima classe Vincenzo Biondi, il cui grado è
rappresentato da una striscetta verticale d'oro che si trova ai due lati del sottogola del
suo berretto. Quella notte, i due non avevano nessun motivo particolare per
interessarsi più del consueto al treno merci 8017, giunto da Napoli alle 0,12. Per i
ferrovieri, un treno non rappresenta, naturalmente, un fatto umano; esso è solo un
convoglio, contraddistinto da un numero convenzionale, dalla sua qualifica di treno
rapido o diretto o accelerato o merci, dal numero dei suoi vagoni, dall'orario di arrivo
e di partenza. Nessun treno attrae in modo particolare la loro attenzione, e a questa
regola non sfuggì il merci 8017.
Il fatto che fosse gremito di passeggeri abusivi faceva parte anch'esso di una
consuetudine che durava da più di un anno. Quando esso giunse alla stazione di
Balvano, il suo carico umano era profondamente addormentato, in gran maggioranza.
Adesso, può riuscirci difficile capire come si possa sprofondare nel sonno stando
ammucchiati nei vagoni di un merci, nell'interno dei quali non v'è che il pavimento
per adagiarvisi. Ma dodici anni fa la cosa era normale, o quasi,; ognuno di noi
ricorderà di essersi addormentato in un rifugio, quando un allarme aereo si protraeva
per lungo tempo: un fatto che oggi ci sembra impossibile.
Nel treno merci che giunse, quella tale notte, a Balvano, tutti dormivano, meno i
macchinisti delle due locomotive, i due fuochisti, e il frenatore del vagone di coda,
Michele Palo. In questo fatto, è un altro segno della strana fatalità che si accanì sul
lunghissimo convoglio. Se esso avesse dovuto percorrere di giorno i trentanove
chilometri che separano Balvano da Potenza, senza dubbio il disastro non avrebbe
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assunto proporzioni tali da renderlo assolutamente eccezionale nella storia di tutte le
ferrovie del mondo.
In tal caso, quasi tutti avrebbero avvertito l'acre odore del monossido di carbonio
che si sprigionava dai fumaioli delle due locomotive che trainavano i quarantasette
carri; e avrebbero potuto tentare di raggiungere lo sbocco della galleria, che non
distava più di duecento metri (quando il merci 8017 si fermò per sempre) dalla
locomotiva di testa.
Invece, i passeggeri del treno, che avevano abusivamente occupato i vagoni,
dormivano della grossa. Quando, con il tipico sferragliare dei freni, l'8017 si fermò,
dodici minuti dopo la mezzanotte, nella stazione di Balvano, il tenebroso silenzio
della campagna circostante, punteggiata da colline sulla cui vetta si poteva
distinguere, grigiastra nel lividore della notte, la neve dello scorso inverno che ancora
non si era sciolta, non fu rotto dunque dal caratteristico vocio che contraddistingue i
treni che viaggiano di giorno, nei quali i passeggeri chiedono che ora è, a che ora si
arriverà; e molti di essi approfittano della fermata per scendere a procurarsi
dell'acqua, o per sgranchire le gambe. Ruppero quel silenzio di morte (già una specie
di sintomo, di premonizione) solo le voci dei macchinisti, del capostazione, del
manovale e dell'operaio, che si avvertivano appena, sullo sfondo del collettivo,
pesante respiro della gente che dormiva nel treno; uno strano, grosso rumore,
anch'esso silenzioso paradossalmente.
Il ricordo di questo singolare rumore fa rabbrividire ancora oggi Angelo
Caponegro e Vincenzo Biondi; perché esso assunse, dopo la sciagura, il lugubre
significato di una introduzione alla morte, una specie di drammatica ouverture. A
questo non pensarono i due allora, né lo pensò il capostazione Vincenzo Maglio, che
sbrigò la pratica del merci 8017, e dette alle 0,50 il segnale di via libera verso
Potenza, dove il lunghissimo convoglio non sarebbe mai giunto.
A questo punto, prima che il treno si avvii, sarà bene vedere come esso è composto
con esattezza, chi lo aveva fatto comporre, e perché; tutte cose che, dato l'allora
vigente regime di occupazione militare da parte degli Alleati, non erano a conoscenza
nemmeno di tutti i ferrovieri italiani, e si appresero solo in seguito, nel corso del
procedimento giudiziario che venne provocato dai parenti delle 521 vittime.
Come gli altri treni circolanti sulla linea Battipaglia-Potenza, l'8017 veniva
effettuato su ordini delle autorità alleate che specificavano il numero dei carri che
dovevano comporlo. Le Ferrovie italiane, del materiale a loro disposizione,
sceglievano quello adatto a quel percorso e al tipo di trasporto che doveva essere
effettuato. L'8017 del giorno 2 marzo venne costituito con 47 carri e due locomotive
in testa, del tipo a quattro assi accoppiati. Dai calcoli effettuati prima di comporre il
treno, venne rilevato, come dicemmo nella scorsa puntata, che esso poteva «tirare»,
tenuto conto del carbone scadente, che veniva fornito dalle autorità alleate, 600
tonnellate e non più (e abbiamo anche visto che questo margine di sicurezza fu
superato, se pure di poco, dato il peso complessivo dei seicento viaggiatori abusivi).
Il carbone era di provenienza iugoslava. Esso non sviluppava un calore sufficiente per
il tipo di locomotive di cui disponevano le Ferrovie italiane; ed emanava dalla
combustione gas tossici che spesso stordivano i macchinisti.
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IL TRAFFICO SULLE LINEE REQUISITE DAGLI ALLEATI
Questo inconveniente fu fatto rilevare alcune volte agli Alleati dal capo del
deposito del personale viaggiante di Salerno, Francesco Mittiga, come egli stesso
dichiarò in una deposizione resa il 25 maggio 1948; ma, per esprimerci con le sue
parole, «senza nulla ottenere, perché gli Alleati si rifiutarono di prendere qualsiasi
provvedimento». Lo stesso Mittiga ci fornisce preziose indicazioni sul come si
svolgeva, nel 1944, il traffico sulle linee requisite dagli Alleati. Formalmente, la
direzione del movimento nelle stazioni era tenuta da funzionari italiani; in realtà, le
disposizioni erano impartite dagli Alleati, che stabilivano la composizione dei treni e
l'orario di partenza; per cui l'attività dei capistazione era solamente esecutiva, diretta
a rendere possibile l'adempimento di quanto veniva stabilito dagli Alleati, i quali si
servivano di un loro personale tecnico composto di capistazione, capitreno e
deviatori, che impartivano gli ordini. Il personale viaggiante dei treni era, però,
italiano.
Il merci 8017 del 2 marzo 1944 venne costituito in tal modo. Esso avrebbe dovuto
viaggiare vuoto: solo un ufficiale italiano e sette soldati, regolarmente autorizzati dal
Comando alleato, avrebbero dovuto prendervi posto.
Ma abbiamo visto invece che il convoglio era gremito di passeggeri abusivi, per lo
più piccoli borsaneristi, dei quali il personale italiano e gli stessi Alleati fingevano di
non accorgersi, essendosi compenetrati dei bisogni di tanta povera gente per la quale
era necessario, per i loro piccoli traffici, raggiungere quelle località dove potevano
rifornirsi di generi richiesti in città.
Formalmente vuoto, in realtà pieno zeppo di gente, il merci 8017, scortato dal
regolamentare «foglio veicoli» che gli Alleati redigevano in duplice copia, partì da
Napoli diretto a Potenza; e di qui, come già dicemmo, doveva proseguire per
Catanzaro a caricarvi del legname. Pesava più delle seicento tonnellate che le
locomotive potevano in teoria trainare. Giunse a Balvano poco dopo mezzanotte, e ne
ripartì dieci minuti prima dell'una, con il suo carico di passeggeri (tutti abusivi, meno
l'ufficiale e i sette soldati autorizzati) che dormivano.
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LE RUOTE GIRARONO A VUOTO SUI BINARI UMIDI
Il capostazione Vincenzo Maglio, l'operaio Vincenzo Biondi e il manovale Angelo
Caponegro lo videro avviarsi lentamente, mentre dai fumaioli delle locomotive si
levavano alti bioccoli di candido fumo, e imboccare la prima galleria che si trova sul
tratto da Balvano a Bella Muro, che dista non più di duecento metri dalla stazione di
Balvano. Il buio della galleria lo inghiottì; per un po', si vide brillare il fanalino di
coda, sito all'esterno della garitta dove si trovava il frenatore Michele Palo; poi, anche
quel lume sparì dietro la prima curva. Nella stazione di Balvano, il telegrafista dette
al suo collega di Bella Muro il segnale di «partito».
Subito dopo Balvano, il terreno incomincia a salire. Il merci 8017 superò
facilmente la prima, breve galleria; anche la seconda fu attraversata senza che,
evidentemente, i macchinisti si rendessero conto di qualche difficoltà. Il convoglio
procedeva lentamente, in un paesaggio orrido, fatto di rocce che assumono strane
forme per la nebbia. Dopo l'uscita dalla seconda galleria, i binari fanno una curva, su
un viadotto lungo un trecento metri, prima di inoltrarsi nella galleria delle Armi, che
si profila a sinistra, e il cui imbocco è contraddistinto da una S segnata sulla parete di
sinistra. I macchinisti forse notarono (nessuno poté raccogliere le loro disposizioni,
perché furono i primi a morire) che la velocità dell'8017 non corrispondeva alla
pressione delle caldaie; ma dovettero pensare di potercela fare, e proseguirono la
corsa. Forse le loro supposizioni non erano del tutto errate. Nonostante il limite
massimo di peso fosse stato superato, però non di molto, essi dovettero avere la netta
sensazione di poter superare anche la pendenza che presenta il terreno nella galleria
delle Armi, pendenza che raggiunge il 13 per mille.
Ma un altro imprevisto coefficiente si coalizzò con il peso, con il sonno dei
passeggeri e con la cattiva qualità del carbone, per trasformare in una lunga bara il
merci. Durante tutto il giorno 2, in Lucania aveva piovuto, una di quelle fastidiose
pioggerelle che scendono monotone, come costrette, da uno spesso banco di nubi
basse. Alle ventidue circa aveva smesso di piovere; ma l'aria era rimasta impregnata
di umidità, una umidità che era penetrata nelle gallerie fra Balvano e Bella Muro, e
aveva steso sui binari una specie di micidiale, viscido manto scivoloso.
Il dramma avvenne rapidamente. Le locomotive avevano percorso di slancio non
più di duecento metri all'interno della galleria delle Armi, quando i macchinisti si
avvidero che le ruote trovandosi a dover girare proprio nel posto dove la pendenza
raggiunge il suo massimo valore, non «mordevano» più i binari, e cominciavano a
girare a vuoto, con una velocità sempre maggiore, mentre il convoglio non avanzava
più di un metro.
I due macchinisti ed i due fuochisti del merci 8017 del 2 marzo furono i primi a
morire, lo abbiamo detto. Di fronte alla morte, un senso di pietà dovrebbe
sommergere ogni altra considerazione. Ma noi stiamo facendo una rievocazione di un
fatto, e la commozione non deve velarci gli occhi. È indubbio (bisogna dirlo, se pure
con rammarico) che il personale di macchina commise un grave errore. Risultò dalle
perizie condotto dopo il disastro, che le caldaie, quando i macchinisti ed i fuochisti si
abbatterono, esanimi, sulle leve di comando, erano al massimo della loro pressione.
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Dal fatto si può dedurre che essi, invece di invertire immediatamente la marcia, e
tentare di portare il treno all'aperto, manovra che avrebbe richiesto non più di tre o
quattro minuti, commisero invece la grave imprudenza di aumentare la pressione
delle caldaie, nella speranza di riuscire forse a scuotere il pesante convoglio dalla sua
mortale inerzia. In quei tremendi attimi, essi dovettero dimenticare o trascurare il
gravissimo pericolo costituito dal monossido di carbonio che si sprigionava dal
carbone combusto, e la tragedia si compì, sotto il segno di una fatalità tale dal lasciare
increduli, stupefatti.
Il monossido di carbonio è un veleno ad azione rapida. I macchinisti ne
aumentarono, certo senza volerlo, la produzione, alzando la pressione. L'ovattato
fumo che usciva dai fumaioli entrò nel loro abitacolo; il veleno li prese alla gola,
penetrò nei loro polmoni, li strozzò in qualche minuto. Poi la nube mortale cominciò
a stendersi, come una specie di mostruoso serpente, nella galleria delle Armi, e si
insinuò nei carri dove i passeggeri dormivano; qui entrò a far parte del meccanismo
della loro respirazione, e li avvelenò senza scampo.
«LÀ SONO TUTTI MORTI» RIUSCÌ A DIRE IL FRENATORE
La drammaticità della tragedia è adesso acuita, ai nostri occhi, da un altro
elemento: il silenzio. Un naufragio, uno scontro, un crollo, una battaglia sono
rumorosi. La gente grida, impazzisce, si lamenta. Nella galleria delle Armi questo
pathos che precede di solito un dramma fu del tutto assente. Nemmeno una voce
commentò l'accaduto.
Tutti passarono dal sonno alla morte, tutti quelli che morirono, perché non
morirono tutti. L'ultimo vagone, infatti, non fu sommerso anch'esso dalla nuvola di
fumo, per fortuna; non lo fu, perché rimase per metà all'aperto, come in bilico fra la
vita e la morte, in parte dentro e in parte fuori della galleria.
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Che cosa avvenne dei suoi passeggeri, che quando si svegliarono, più tardi, quasi
impazzirono per il terrore, non siamo riusciti a saperlo. Essi rientrarono nella vita di
ogni giorno, con quel pesante ricordo nel cuore; poiché non esisteva ovviamente una
lista di nomi che potesse metterci in condizioni di rintracciarli, non abbiamo potuto
raccoglierne le testimonianze. Abbiamo tentato di metterci in contatto con chi visse,
magari in uno stupefatto dormiveglia, quegli attimi in cui stavano per varcare la
soglia dell'ignoto; ma inutilmente; ci deve essere, in costoro, un sentimento che deve
portarli a fuggire quanto più è possibile dal ricordo di quei momenti di incubo.
L'unico degli occupanti l'ultimo vagone che non poteva estraniarsi alla tragedia,
per la sua funzione, fu il frenatore Michele Palo. Egli non aveva certo azionato i
freni, cosa che viene effettuata quando, con una richiesta convenzionale, espressa con
un fischio dai macchinisti, i frenatori vengono avvertiti della necessità di manovrare
la ruota che serve a bloccare la vettura in cui si trovano.
Michele Palo stava riscaldandosi, quando avvenne il disastro, con un fuocherello
fatto accendendo alcuni giornali strettamente strizzati, un artifizio messo in atto di
solito dai frenatori per far durare il fuoco più a lungo. Non pensava assolutamente a
niente, tranne che a combattere il freddo umido della notte con quel fuocherello sul
quale si era come accartocciato. Non pensò nemmeno a guardare l'orologio, quando si
avvide che il treno si era fermato, e perciò non possiamo conoscere l'ora esatta in cui
la tragedia ebbe inizio. Egli rimase tanto stupefatto dell'inconsueto accaduto (non si
era potuto rendere conto di quello che era avvenuto nelle due locomotive) che non
pensò ad altro se non a scendere per vedere che diamine era successo, perché fosse
stato necessario arrestare, senza chiedere la sua opera, il treno. Si avviò, quindi, verso
l'interno della galleria. Percorso che ebbe qualche metro, si sentì aggredire alla gola
dall'aspro odore del monossido di carbonio. Barcollò per un attimo, sopraffatto dalla
nausea e dalla tremenda rivelazione, si voltò verso l'imbocco del budello, e si mise a
correre.
Tornato all'aria aperta, le gambe gli si paralizzarono sotto. Rimase, così, fermo, per
qualche istante, mentre una massa di confusi pensieri gli sconvolgeva la mente. Il
tremendo silenzio di morte che gli era alle spalle gli parve dovesse raggiungere,
implacabile, anche lui. Il pensiero della morte evocò per contrasto subito, nella sua
mente, quello della vita: a Balvano era la vita, qui alla galleria delle Armi, la morte;
doveva raggiungere al più presto Balvano. Michele Palo riuscì a scuotersi dal torpore
che lo aveva come irrigidito. Emise un terribile grido, e si precipitò, seguendo i
binari, verso Balvano.
Nel 1944, Michele Palo era ancora giovane: dalla galleria delle Armi, non doveva
percorrere, per raggiungere Balvano, più di quattro chilometri e per di più in discesa.
In meno di un'ora di marcia, a buon passo, la cosa è possibile. Invece, di ore egli ne
impiegò due: pure, gli parve di correre, di volare. È chiaro che il povero frenatore
doveva essere tanto sconvolto, quasi privo di sensi, che credeva di correre, ed invece
si trascinava. Esausto, con gli abiti a brandelli (non capì mai come avesse potuto
lacerarseli), alle tre del 3 marzo 1944 Michele Palo vide finalmente, uscito che fu
dalla prima galleria, quella che dista un duecento metri da Balvano, le luci della
stazione.
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Come attraverso un'ombra, i suoi occhi videro che sul binario stava, sotto
pressione, una locomotiva; capì che a Balvano avevano saputo, se non proprio del
disastro, qualcosa. Percorse gli ultimi metri carponi, con una stanchezza nelle
membra quale mai aveva avvertito; quando giunse vicino a Vincenzo Biondi e ad
Angelo Caponegro, non ebbe la forza di pronunciare una frase compiuta. Tremava,
emetteva suoni sconnessi dalle labbra. «Che è successo, che è stato?» gli gridarono
l'operaio e il manovale. Prima di venir meno Michele Palo riuscì a proferire: «Là, là,
sono tutti morti, tutti morti». Poi, cadde sul marciapiede mentre l'eco delle sue parole
giungeva all'orecchio del capostazione Vincenzo Maglio e del vice capostazione
Giuseppe Colonia.
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Terza puntata - 25 marzo 1956, pagine 37-41
Il più grande disastro ferroviario del mondo
IN PUNTA DI PIEDI I FERROVIERI SI AVVICINARONO AL TRENO DEI
MORTI
* Nessuno si preoccupò del ritardo: in quei tempi accadeva spesso che per
percorrere sette chilometri fossero necessarie più di due ore
* Cosa succedeva nelle stazioni di partenza e di arrivo mentre 521 persone
morivano sotto la galleria delle Armi
* Il «merci» fu raggiunto alle quattro del mattino, tre ore dopo la sua partenza da
Balvano. Del gas omicida non rimaneva alcuna traccia
* Soltanto sull'ultimo vagone, fermo a metà fuori della galleria, qualche
viaggiatore respirava ancora. Il resto del treno era immerso nel silenzio
* Abbiamo potuto rintracciare due superstiti. Uno ha perso la ragione, l'altro, da
allora, ha i capelli bianchi.
Domenico Miele è uno dei superstiti. Deve la vita alla sciarpa di lana, che porta
sempre al collo, come un portafortuna. E' un giovane: nella notte della tragedia i suoi
capelli incanutirono.
Che cosa accadeva nelle stazioni di Balvano-Ricigliano e di Bella-Muro mentre il
merci 8017 era fermo sotto la galleria delle Armi, dove il monossido di carbonio
sprigionato dal carbone iugoslavo stava asfissiando quasi tutti i viaggiatori che
avevano preso irregolarmente posto nel convoglio?
Alle 0,50 del 3 marzo del 1944, subito dopo la sua partenza, il telegrafista della
stazione di Balvano trasmise a Bella-Muro il regolamentare avviso di «partito»
relativo al treno 8017. Esso avrebbe dovuto giungere a Bella-Muro al più tardi in una
mezz'ora: non vi giunse, abbiamo già visto perché. Nonostante questo fatto, BellaMuro non entrò in allarme; e nemmeno entrò in allarme la stazione di Balvano, che
non ebbe da Bella-Muro il segnale di «giunto».
Un giornale che, nel 1951, fece una breve cronaca del disastro scrisse che questo
fu, in un certo senso, l'aspetto più fosco ed inspiegabile della sciagura; e asserì che il
personale delle due stazioni non si preoccupò di chiedere in qualche modo notizia del
«convoglio fantasma». Un fatto gravissimo, secondo quel giornale. E davvero lo
sarebbe, se non ci fosse una qualche spiegazione della cosa; davvero il fatto
getterebbe una luce sinistra sui ferrovieri delle due stazioni, i quali avrebbero
preferito andarsene tranquillamente a riposare, senza pensare, dato il grave ritardo,
alla possibilità di un disastro.
Ma in realtà, come ricordammo nella prima puntata di questa nostra rievocazione,
dodici anni fa, nell'Italia meridionale, i treni partivano forse in orario, ma per la
strada perdevano di vista questo orario, e accumulavano ritardi assolutamente
incredibili.
Come risultò durante il procedimento giudiziario che seguì la tristissima vicenda, il
tratto Balvano-Bella-Muro, benché la distanza fra le due stazioni fosse solo di sette
chilometri, veniva compiuto talvolta, dai treni che lo percorrevano, anche in 120
minuti.
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Questo è un dato di fatto che può spiegare l'apparente disinteresse dei funzionari
delle due stazioni, un disinteresse che solo per un caso assunse, più tardi, l'aspetto di
una trascuratezza colpevole.
A Balvano, la notte fra il 2 e il 3 marzo 1944, il capostazione titolare Vincenzo
Maglio, dopo aver dato il segnale di partenza al merci 8017, se ne andò a casa a
dormire, nella massima tranquillità di spirito. Non v'era motivo perché fosse turbato;
non ebbe nessuna premonizione.
Si accertò che il capostazione Giuseppe Salonia sarebbe rimasto al suo posto, per
assicurare il regolare svolgimento del servizio; salutò tutti, e se ne andò a casa.
Il capostazione Salonia si sedette dietro la sua scrivania, e si mise ad attendere: da
Battipaglia doveva giungere, alle 2,40, un altro treno diretto a Potenza; egli doveva
aspettarne l'arrivo, e «istradarlo». L'8025 giunse stranamente in orario.
E fu allora che, dovendolo avviare, Giuseppe Salonia incominciò a pensare che
bisognava sapere qualcosa circa l'eccessivo ritardo del merci 8017; infatti, essendo la
linea Battipaglia-Potenza servita in quasi tutto il suo percorso da un solo binario, non
poteva far partire l'8025 se non quando avesse accertato che la linea era sgombra.
Quasi contemporaneamente, anche il capostazione di Bella-Muro pensò le stesse
cose: perché potesse entrare in stazione il treno 8025 occorreva che, prima di esso, il
merci 8017 continuasse la sua corsa.
Dopo aver atteso anche lui senza troppo preoccuparsi fino alle 2,50 (da dieci
minuti l'8025 era giunto, intanto, a Balvano), telefonò al collega Giuseppe Salonia.
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FINALMENTE SI DECIDE DI ISPEZIONARE LA LINEA
Attualmente i due funzionari non lo ricordano, perché i loro ricordi furono
sommersi dalla terribile realtà alla quale si trovarono di fronte in seguito: ma forse,
nel corso di quella telefonata, mentre gli occupanti dell'8017 erano già freddi
cadaveri, essi scherzarono sull'inefficienza del materiale rotabile allora in funzione,
attribuendo il ritardo a qualche guasto. In ogni caso, poiché del merci non si erano
avute notizie, si rendeva necessaria una ispezione della linea, per vedere se, dove e
perché l'8017 si era fermato; perciò Giuseppe Salonia disse al collega che avrebbe
provveduto lui ad un sopraluogo; e, per effettuarlo, dette ordine ad Angelo
Caponegro e a Vincenzo Biondi, rispettivamente manovale ed operaio di prima
classe, di staccare dal treno 8025, giunto alle 0,40, la locomotiva, sulla quale sarebbe
salito per una ricognizione.
Poiché ancora non sapevano niente del disastro, i ferrovieri di Balvano apparvero
più seccati che altro per il fatto che li costringeva ad un lavoro straordinario piuttosto
noioso. Brontolando, essi staccarono la locomotiva del treno 8025, e si dettero alla
ricerca di attrezzi e di lanterne. Sulla locomotiva salì il capostazione Salonia. Già la
macchina stava per avviarsi, e Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si erano un po'
scostati da essa, sul marciapiede della stazione, quando dall'ombra emerse, come una
specie di fantasma lacero, Michele Palo, il frenatore della vettura di coda dell'8017, il
quale partito dalla galleria delle Armi a piedi, verso l'una, aveva impiegato due ore
per giungere a Balvano. La sua apparizione fece capire che qualcosa di drammatico
era avvenuto; le sue parole: «Là, là, sono tutti morti!» lo confermarono.
Giuseppe Salonia scese dalla locomotiva. Con una freddezza della quale lui stesso
si stupì in seguito, prese in mano la situazione; ordinò ad un guardasala di svegliare il
capostazione titolare Maglio, e di recarsi subito dopo in paese (Balvano dista tre
chilometri dalla stazione) per avvertire i carabinieri, il pretore ed il sindaco ingegner
Alessandro di Stasio, che adesso vive a Potenza. Poi risalì sulla locomotiva, mentre
Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si prodigavano per soccorrere Michele Palo; e
si avviò verso il posto (che ancora non si sapeva quale fosse) dove avrebbe dovuto
trovare i morti di cui il frenatore aveva parlato.
L'8017 stava fermo lì, all'imbocco della galleria delle Armi, in un innaturale
silenzio. Dei suoi 47 vagoni, solo l'ultimo era fermo a metà fuori dalla galleria; di
essi, 41 erano vuoti, perché chiusi con un catenaccio applicato alle serrande
scorrevoli; gli altri sei erano quelli in cui si erano ammucchiati circa seicento
passeggeri in un certo senso clandestini, più un ufficiale e sette soldati autorizzati a
viaggiare sul merci.
Come scrivemmo in un'altra puntata, quasi tutti i viaggiatori erano piccoli
borsaneristi che si recavano in Lucania per rifornirsi di generi alimentari che poi
vendevano a Napoli. Ma c'era anche chi non aveva niente a che fare con l'ambiguo
mondo dei piccoli trafficanti, tipico di quel periodo. Molte persone le quali, per la
loro attività, dovevano forzatamente spostarsi fra Potenza e i centri della Campania si
vedevano costrette a servirsi anch'esse di qualsiasi mezzo pur di non trascurare i
propri interessi.
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Si trattava di commercianti, di studenti, di professori, di medici; tutta gente munita
magari di regolare biglietto, o anche di un abbonamento settimanale, come ad
esempio il professor Vincenzo Iura, dell'università di Bari.
Il professor Iura si trovava in un carro di cui divideva le scomodità con novanta
studenti della sua facoltà, costretti, per recarsi a Bari dal centro della Campania dove
risiedevano, a raggiungere la città presso la cui università erano iscritti per la via di
Potenza.
Il professor Vincenzo Iura, un noto chirurgo, era con loro perché non aveva voluto,
durante quei difficili anni, benché vivesse nella capitale della Puglia, abbandonare il
suo lavoro di consulente dell'ospedale San Carlo di Potenza e dell'ospedale Sant'Anna
di Eboli. Alle spalle di Vincenzo Iura era tutta una carriera in cui l'attività scientifica
si era sposata ad un profondo senso di umanità. Ad Eboli, dove ci siamo recati per
raccogliere qualche testimonianza, tutti lo ricordano ancora con commozione. Le
suore dell'ospedale, i dottori Imperato, Cassese e Paesano ricordano che il più delle
volte operava gratuitamente. Dopo quel 3 marzo del 1944 l'università di Bari, dov'era
ordinario di patologia chirurgica e di propedeutica clinica, promise ai suoi familiari
che egli sarebbe stato ricordato con una lapide di marmo, lapide che sia detto per
inciso non fu eseguita.
Quando il capostazione Giuseppe Salonia giunse, con la locomotiva dell'8025, sul
viadotto che precede di poche centinaia di metri l'imbocco della galleria delle Armi,
erano le quattro circa del 3 marzo 1944. Una luce livida, quella dell'alba grigiastra,
incominciava a rischiarare il paesaggio lunare, denso di rocce e di cespugli che
ancora l'ultima neve screziava di bianco. L'ultimo vagone del merci 8017 si
intravedeva a stento. In punta di piedi, religiosamente, Giuseppe Salonia, il
macchinista ed il fuochista della macchina che li aveva portati sul luogo della
sciagura si avvicinarono al treno.
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IL TRENO RITORNA A BALVANO CON I MORTI
A tre ore di distanza dal momento in cui si era compiuto il tragico destino dei
viaggiatori dell'8017, nessuna traccia rimaneva dell'accaduto. Il fumo saturo di veleno
che aveva ucciso 521 viaggiatori si era ormai diradato. Giuseppe Salonia ripeteva tra
sé, in una specie di monotona cantilena: «Ma è impossibile, ma è impossibile». Come
tre automi, lui, il macchinista ed il fuochista sbloccarono i freni del merci, lo
agganciarono in coda con la loro locomotiva, lo rimorchiarono alla stazione di
Balvano. Qui trovarono ad attenderli il titolare Maglio, il pretore, il sindaco ed i
carabinieri. Qualcuno salì sui carri gremiti di «abusivi»; nei primi cinque giacevano
morti compostamente, come se ancora dormissero, tutti i loro occupanti; nell'ultimo,
il silenzio non era così completo ed agghiacciante: i viaggiatori stipati in esso erano
rimasti fra la vita e la morte; qualcuno aveva ceduto; i più, invece, erano rimasti
semiasfissiati, per la benefica azione esercitata dall'aria pura che si respirava
all'ingresso della galleria delle Armi. I morti vennero scaricati sui marciapiedi della
stazione di Balvano; i vivi furono ammucchiati nella piccola sala d'aspetto e nelle
stanze degli uffici. Si tentò in ogni modo di rianimare questi ultimi, ma lo stato di
stupefatto torpore nel quale si trovavano non sparì che qualche ora più tardi, quando
grossi autocarri giunti da Potenza li trasportarono nell'ospedale civile di quella città.
Coloro che sopravvissero al disastro non riuscirono, negli anni seguenti, a ricostruirlo
nella loro memoria. Prima di cadere in quella specie di torpore quasi mortale, Luigi
Cozzolino, un piccolo trafficante di Resina, dovette accorgersi che un suo figlioletto
di otto anni, che viaggiava con lui, era morto, perché lo ritrovarono abbracciato al
corpo esanime del bambino. Forse, come tutti gli altri, Luigi Cozzolino dormiva. Si
svegliò quando si sentì aggredire alla gola da un sapore aspro; e vide che già suo
figlio era morto. In quell'attimo terribile, il suo cervello si svuotò di ogni pensiero
ragionevole, e divenne preda di una benigna follia. Lo rinvennero abbracciato al
bimbo, dimentico di tutto. Tornò a casa, a Resina, e qui lo abbiamo rintracciato e
fotografato. È rimasto, di lui, un uomo incapace di fare un discorso coerente; nei suoi
occhi è una pena inenarrabile, della quale per fortuna lui stesso non si rende conto.
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UNO CHE DEVE LA VITA A UNA SCIARPA DI LANA
Abbiamo scritto, nella scorsa puntata, che non eravamo riusciti a rintracciare
nessuno dei superstiti del disastro ferroviario più impressionante del mondo;
dobbiamo modificare questa affermazione. Infatti, abbiamo potuto vedere Luigi
Cozzolino; e dopo una lunga e difficile indagine siamo anche entrati in contatto con
Domenico Miele, di Roccarainola. Guardatene la fotografia, quella che lo riproduce
mentre, seduto al bordo del suo campiello con quattro suoi conoscenti, racconta
quello che avvenne. Vedrete l'immagine di un uomo anziano, dai capelli bianchi, con
una sciarpa alla gola e una sigaretta fra le dita della mano sinistra. È senz'altro,
all'apparenza, il più vecchio dei cinque individui ritratti. Invece, ha la stessa età del
giovane coi baffi che si trova alla sua destra. I capelli bianchi di Domenico Miele
sono un ricordo del merci 8017. Egli si recava sistematicamente, nel 1944, a Potenza,
dove comperava olio, che rivendeva nei dintorni di Napoli. Avrebbe dovuto morire,
perché prese posto nel quinto carro del merci 8017. Per un puro caso, era però ben
sveglio, quando il monossido di carbonio si sparse all'interno della galleria delle
Armi. A Balvano scese un momento dal vagone ed ebbe salva la vita. La sciarpa che
si è messa al collo prima di essere fotografato, gli fu anche d'aiuto. Appena il
monossido di carbonio lo aggredì, Domenico Miele si fasciò la bocca con la sciarpa.
Barcollando, col fiato mozzo, scese dal suo vagone, e si diresse verso l'uscita della
galleria delle Armi. Quando giunse all'ultimo carro, le forze gli vennero meno. Sentì
dei lamenti, e invece di compiere altri pochi metri, e mettersi definitivamente in salvo
allo scoperto, salì su quel carro, e cadde svenuto sui corpi abbandonati di chi
l'occupava. Quando si riebbe, dopo qualche ora, gli capitò di trovarsi, per ravviarsi
nervosamente i capelli, davanti ad uno specchio. Guardò esterrefatto la sua immagine
riflessa. I suoi capelli erano diventati tutti bianchi come la neve.
Anche lui venne deposto sui marciapiedi della stazione di Balvano con gli altri
occupanti dell'8017. Mentre alcuni autocarri si dirigevano velocemente verso quella
stazione, da Potenza, ferrovieri e carabinieri effettuavano il macabro lavoro di
separare i morti dai vivi, e di identificare tutti i colpiti. Nell'orgasmo con cui questa
operazione vene compiuta, non fu fatto nemmeno un esatto calcolo numerico dei
viaggiatori dell'8017. Possiamo però affermare, in contrasto con quanto sostiene
qualcuno, che i morti furono 521, dei quali 193 non identificati.
Era pieno mattino quando giunsero gli autocarri da Potenza. Dopo le constatazioni
di rito, il pretore dispose per il seppellimento dei morti. Il cimitero di Balvano è
piccolo; venne perciò scavata una grande fossa comune, e qui furono ammucchiati i
cadaveri, sui quali fu gettato uno strato di calce. Più tardi, per l'intervento di qualche
parente alcune salme furono sistemate in una tomba a parte. Gli scampati vennero
avviati all'ospedale di Potenza: ne furono dimessi dopo pochi giorni.
Trascorse qualche anno. A un certo momento, ci fu chi pensò di citar per i danni le
Ferrovie dello Stato. Un certo numero di vedove, di orfani, di genitori privati dei figli
si rivolsero ad alcuni avvocati napoletani; ed ebbe così inizio una lunga vertenza
giudiziaria, che non giunse alla sua conclusione.
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Nel corso di essa, le Ferrovie dello Stato sostennero che, dato l'allora vigente
regime di occupazione militare da parte del governo alleato, e dato il fatto che agli
occupanti dell'8017 non poteva essere riconosciuta la qualifica di viaggiatori regolari,
nessuna responsabilità poteva essere addebitata alla amministrazione.
Il governo alleato aveva condotto intanto un'inchiesta sull'accaduto, concludendola
con l'esclusione di ogni responsabilità da parte del personale delle Ferrovie. I giudici
italiani, però, non espressero recisamente lo stesso pensiero. Se era vero che i
viaggiatori dell'8017 erano tutti «abusivi», come la cosa poteva conciliarsi con
l'esibizione, da parte degli avvocati, di alcuni biglietti rilasciati dal personale di scorta
al treno? D'altra parte, si affermò nel corso della vertenza, non è vero che un
viaggiatore non possa assolutamente prendere posto su un merci. Se la cosa accade,
egli deve pagare il biglietto ed una penale, e scendere alla prima stazione. Però può
risalire sullo stesso merci, pagare ancora un biglietto ed una penale, scendere alla
stazione seguente; e poi ancora risalire e pagare biglietto e penale e così via fino alla
fine del viaggio. Non si può dire, però, che la cosa si sia verificata sul «treno della
morte» di Balvano. Così come non si poté provare che l'esercizio della linea NapoliPotenza era stato affidato alle Ferrovie italiane il 15 febbraio del 1944. Una circolare
in tal senso venne diramata effettivamente dal compartimento di Napoli. Ma forse
essa non era ancora entrata in fase di esecuzione al tempo della sciagura.
MOLTE OMBRE CHE NON SONO STATE DIRADATE
In sostanza, sul piano giudiziario il disastro ferroviario di Balvano rimase avvolto
da alcune ombre, che non si son potute diradare; perché, a un certo momento, nella
questione intervenne, con un senso di umanità raro nella burocrazia, il ministero del
Tesoro, che propose di risarcire le famiglie dei morti in base alla legge sui danni di
guerra. Il procedimento giudiziario venne così sospeso. Ma la burocrazia riscattò la
sua precedente benemerenza con il ritardo nelle liquidazioni. Esse, infatti, non sono
ancora state versate a coloro i quali debbono godere di questo beneficio, che è un
fatto materiale, non sufficiente in ogni caso a compensare quel terribile fatto che è la
morte.
Intanto, il ministero dei Trasporti ha ordinato, per la modernizzazione della linea
Battipaglia-Taranto, la costruzione di venticinque locomotive Diesel di tipo
americano. Quando esse entreranno in esercizio, disastri come quello che abbiamo
rievocato non ne potranno più accadere. È da sperare che la loro immissione sulla
linea non preceda la liquidazione dei danni alle famiglie delle vittime. Se così sarà, in
un certo senso potremo dire che la tragedia di Balvano sarà finalmente un fatto
definitivamente compiuto.
Giulio Frisoli
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Finirono di vivere tutti alla stessa ora e nello stesso buio
L'8017 fu rimorchiato fino a Balvano da una locomotiva di soccorso. I cadaveri furono
deposti sulla banchina della stazione e accanto ai binari.
Con gli autocarri arrivati da Potenza, le salme furono trasportate al cimitero di Balvano,
che dista tre chilometri dalla stazione, e subito sepolte.
I 521 morti dell'8017 furono sepolti in una fossa comune, che fu ricoperta di calce viva.
Soltanto più tardi, per desiderio dei parenti, alcune salme furono riesumate e sepolte più
decorosam
Articolo di Gordon Gaskill, pubblicato in "Selezione dal Reader's Digest",
Luglio 1962, pagine 11-16
La misteriosa catastrofe del treno 8017
Quasi nessuno sapeva allora che cosa stesse accadendo e ancor oggi nessuno sa
con esattezza che cosa sia avvenuto; eppure quel disastro ha fatto più vittime d'ogni altra
sciagura ferroviaria.
Quando il treno 8017 transitò per i binari di smistamento della stazione di Salerno,
nella fredda e piovosa sera del 2 marzo 1944, nulla poteva far pensare che fosse avviato a
una catastrofe. Infatti l'8017 non ebbe uno scontro, non deragliò, non s'incendiò né fu
altrimenti sinistrato. Eppure causò un numero di morti forse superiore a quello d'ogni
altro disastro ferroviario.
Sul treno 8017 c'era infatti un assassino: il carbone per la locomotiva. Era di
qualità scadente (c'era la guerra e il carbone scarseggiava) e la sua imperfetta
combustione dava talvolta origine a quantità anormali d'ossido di carbonio, gas tossico e
inodoro. Il treno non avrebbe dovuto trasportare passeggeri. Ma, come molti altri merci
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nella zona di Napoli lo faceva, perché a Napoli c'era poco da mangiare. L'occupazione
alleata, cinque mesi prima, aveva interrotto i traffici tra la città e la campagna ed era sorta
un'attivissima borsa nera. Uomini, donne e bambini compravano (spesso dalle truppe
alleate) merci rare come sigarette e cioccolata e le portavano nelle campagne per
scambiarle con uova, olio, carne e simili che poi rivendevano a Napoli con forte
guadagno.
Una delle zone più battute dai trafficanti della borsa nera era la ricca campagna
intorno a Potenza, a 110 chilometri da Salerno, e siccome quasi tutti gli automezzi civili
erano stati requisiti o erano immobilizzati per mancanza di carburante, l'unico modo
d'arrivarci era il treno: di solito un merci. Naturalmente non tutti i passeggeri abusivi
dell'8017 erano borsisti neri. Alcuni erano uomini o donne che andavano a cercare viveri
per la loro famiglia. Alcuni erano persone costrette a viaggiare e che non avevano trovato
altri mezzi.
L'8017 era un lungo convoglio di 47 vagoni, una ventina dei quali scoperti. Ma
soltanto 12 erano carichi; gli altri erano vuoti, aggiunti per riportare indietro merci e
materiale militare.
Al nodo di Battipaglia, la polizia militare americana fece scendere molti passeggeri
abusivi che protestarono... ma che in seguito avrebbero ringraziato la Provvidenza.
Alle 19.12 il treno arrivò a Eboli dove salirono circa altri l00 abusivi. Poi a
Persano ne montarono almeno altri 400, pigiandosi nei carri vuoti e riempiendo ogni più
piccolo spazio dei vagoni carichi di merci.
A quel punto l'8017 aveva a bordo tra 600 e 650 viaggiatori abusivi. E a
Romagnano - tra le montagne e a soli 43 chilometri dalla meta - fu agganciata in testa
una seconda locomotiva.
Alle 23.40 il treno partì faticosamente da Romagnano. Dopo soli sei chilometri e
mezzo si fermò in una sperduta stazioncina il cui nome doveva divenire tristemente
famoso negli annali delle ferrovie: Balvano. Il treno che precedeva sull'unico binario
aveva noie alla locomotiva e mentre l'8017 aspettava d'aver via libera il suo personale di
macchina provvide ad aumentare la pressione delle caldaie nelle due locomotive in vista
della prossima salita.
Cominciò a profilarsi a quel punto l'ombra del disastro. La stazione di Balvano (il
paese è lontano circa tre chilometri e mezzo) è situata in un breve tratto fra due gallerie.
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L'8017 era tanto lungo che la metà dei vagoni era rimasta dentro la galleria in discesa
dove stagnava ancora il fumo delle due locomotive. Non tirava neppure un alito di vento
che lo disperdesse.
Così, per tutti i 38 minuti della fermata, la metà dei passeggeri respirarono fumo e
gas. Ma i più dormivano, ignari del pericolo.
Infine alle 0.50, i due macchinisti allentarono i freni, spinsero le leve
dell'acceleratore e l'8017 s'infilò nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano batté
al telegrafo il segnale di partito al suo collega della stazione successiva, Bella-Muro.
L'8017 sarebbe dovuto arrivare a Bella-Muro, lontana meno d'otto chilometri, in circa 20
minuti dopo di che il capostazione avrebbe telegrafato a Balvano il segnale giunto.
Ma il giunto non arrivò dopo 20 minuti né dopo 60... né mai. Il territorio tra
Balvano e Bella-Muro è aspro e selvaggio, solcato dalla gola di un tortuoso torrente, il
Platano. Tra le due stazioni non ci sono strade; l'intero tratto è un seguito di gallerie e di
viadotti. Il Monte delle Armi è forato dal più lungo tunnel della linea, la Galleria delle
Armi, rettilinea, lunga poco più di un chilometro e mezzo, e in forte pendenza.
Era passata da poco l'una quando il treno entrò nella Galleria delle Armi.
Quel che avvenne di preciso nella galleria nessuno lo sa né lo saprà mai. Tutt'e due
i macchinisti morirono al loro posto di guida. Nell'orrore e nella confusione, i superstiti
ricordarono ben poco d'importante. I soli fatti accertati sono questi: quando le due
locomotive giunsero a metà galleria, le ruote motrici della macchina di testa
cominciarono a slittare. Il macchinista sparse sabbia sulle rotaie, ma senza risultato. Le
ruote non esercitavano più trazione: il treno si fermò. Poi arretrò di qualche metro
(quanto bastò perché gli ultimi tre vagoni uscissero all'aria aperta all'imbocco più basso
della galleria) e si fermò di nuovo, questa volta definitivamente.
Tutto il resto è congettura. I soli indizi esistenti lasciano perplessi. La locomotiva
di testa fu trovata non frenata, con la leva di comando sulla retromarcia. La seconda
locomotiva, invece, fu trovata frenata, con la leva di comando tutta spinta in avanti. A
quanto pare, quando il treno si fermò, i due macchinisti la pensavano in modo fatalmente
diverso sul da farsi.
Dai fumaioli delle locomotive, con il personale di macchina morto o moribondo, il
fumo continuò senza dubbio a venir fuori. Man mano che nell'aria della galleria
diminuiva l'ossigeno, il fumo conteneva una quantità sempre maggiore d'ossido di
carbonio. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiarono a ritroso nella
galleria, uccidendo silenziosamente centinaia di persone.
Molto addietro alle locomotive che si sforzavano invano di rimettersi in moto, i
pochi viaggiatori ancora svegli si resero conto della fermata.
Come i passeggeri di qualsiasi treno, i più pensarono che i ferrovieri sapessero quel
che facevano e attesero pazientemente. Ma un giovanotto, certo Francesco Imperato,
quando cominciò a tossire e a soffocare, propose al cugino d'avviarsi a piedi verso
l'uscita della galleria.
Il cugino obiettò: «Come facciamo a sapere qual è l'uscita più vicina? Aspettiamo a
vedere quel che avviene.»
Francesco decise d'andare da solo. S'alzò... e da quel momento non ricorda più
nulla fino a quando riprese i sensi qualche ora dopo alla stazione di Balvano.
Probabilmente era arrivato tanto vicino all'aria fresca da potersi salvare. Il cugino morì.
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Domenico Miele era in un vagone vicino alla coda del treno, ma ancora dentro alla
galleria. Quando il fumo divenne eccessivo, s'avvolse la sciarpa intorno alla bocca e al
naso, scese dal vagone e cominciò a camminare verso la coda. Era appena arrivato allo
sbocco del tunnel quando si sentì mancare. Temendo di rimanere a terra se il treno fosse
ripartito, salì semistordito sul vagone più vicino, un carro merci scoperto, il terzo dalla
coda del treno, metà dentro e metà fuori la galleria. Miele non s'accorse più di nulla
finché anche lui rinvenne la mattina dopo a Balvano e scoprì che i capelli da neri gli
erano diventati grigi.
In quello stesso carro scoperto, il terzo dalla coda, c'era Luigi Cozzolino.
Questi dormiva e così il suo figliuolo dodicenne. A un certo momento di quella
terribile notte Cozzolino si svegliò e s'avvide che il figlio era morto. Per un bel pezzo
rimase inebetito dall'orrore... incapace di pronunziar parola.
I viaggiatori degli ultimi due vagoni erano rimasti completamente fuori della
galleria. Sebbene indeboliti e semisvenuti per la fermata di 38 minuti entro la galleria di
Balvano, soltanto pochi morirono; gli altri dormirono un sonno profondo, quasi ipnotico.
Sull'undicesimo vagone dalla coda, ben addentro la micidiale galleria, viaggiava
Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel
sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Quando il fumo divenne
insopportabile, scese dal treno e si diresse verso l'uscita della galleria dove trovò il
frenatore Roberto Masullo steso a terra, stordito e colto da malore. De Venuto aveva
capito ormai quale sorte fosse toccata a quasi tutte le centinaia di persone rimaste nella
galleria. Masullo, che era un suo superiore, disse a De Venuto di correre subito a Balvano
per dar notizia dell'accaduto.
Arrivare fin lì fu un incubo. Era buio pesto e De Venuto non aveva lampadina:
l'unica strada era quella sui viadotti e attraverso le gallerie che puzzavano ancora di
fumo.
Trascinandosi carponi, semisvenuto, nauseato dal fumo e dall'orrore, procedé
metro per metro verso Balvano.
Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile, nulla lo é più del tempo che
occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che cosa facesse
ritardare tanto l'8017. Soltanto alle 2.40 - quasi due ore dopo che il treno era ripartito da
38
Balvano - i capistazione conclusero che ci dovesse essere qualcosa d'anormale. Ma poi si
dissero che avrebbero potuto fare ben poco in merito: ci sarebbe voluta una buona ora di
cammino per arrivare al treno e un'altra ora per tornare indietro.
Alle 5.10 De Venuto entrò barcollando nella stazione di Balvano, agitò un braccio
in direzione dei binari e disse con voce rotta: «Là, là, sono tutti morti, tutti morti!». Poi
svenne.
Sgomento, il capostazione di Balvano spedì dispacci a tutte le autorità possibili e
immaginabili: alla Croce Rossa, ai carabinieri, al municipio di Balvano, alla sede del
Governo Militare Alleato a Potenza. I primi carabinieri e funzionari che arrivarono dal paese
di Balvano fecero staccare una locomotiva da un altro merci e si diressero al treno della
sciagura. I fanali di testa della loro macchina illuminarono una macabra scena: corpi senza
vita stesi sulle rotaie. Li trassero da parte, agganciarono l'8017 e lo rimorchiarono a Balvano.
Qui, finalmente, videro quali fossero le proporzioni spaventose del disastro.
In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riusciva a
far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo.
I volti dei morti erano per lo più sereni. Un colonnello dell'esercito americano,
giunto sul posto poco dopo, raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di
sofferenza. Molti erano seduti con il busto eretto o nella posizione che si assume quando
si dorme normalmente». Parecchi avevano tracce di sangue rosso vivo intorno alle narici.
Questo colore rosso vivo del sangue è un segno sicuro dell'avvelenamento da ossido di
carbonio.
A poco a poco, il macabro carico di cadaveri fu tolto dai vagoni e deposto sul
marciapiede della stazione. Autocarri militari alleati venuti da Potenza aiutarono a
trasportare d'urgenza i superstiti agli ospedali, e più tardi compirono il più penoso
servizio di portare i cadaveri al cimitero di Balvano per la sepoltura in tre fosse comuni,
due per gli uomini e una per le donne.
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Delle centinaia di morti che vi furono sepolti, quasi 200 non furono mai
identificati.
Quante furono le vittime della sciagura di Balvano? La cifra più probabile è 425,
benché alcuni l'abbiano fatta salire a oltre 600. Tuttavia, nonostante il numero dei morti,
il tremendo disastro passò quasi inosservato a quell'epoca.
A Napoli c'era un solo giornale autorizzato dagli Alleati e i censori permisero di
pubblicare soltanto una vaga notizia in cui si diceva che un numero non specificato di
persone era morto per asfissia «in una località dell'Italia Meridionale». I giornali degli
Stati Uniti menzionarono brevemente il fatto il 23 marzo, quando una commissione
militare d'inchiesta americana presentò la sua relazione. Funzionari militari delle ferrovie
la definirono «la più insolita e spaventosa catastrofe nella storia delle ferrovie».
Quanti furono i superstiti? Probabilmente da 100 a 200: molti non dichiararono
d'essere scampati al disastro per timore delle pene previste per i viaggiatori abusivi.
Dopo la sciagura, le ferrovie alleggerirono di molto i treni che attraversavano la
Galleria delle Armi. Fu stabilito un servizio di vigilanza diurno e notturno allo sbocco in
discesa della galleria, con un collegamento telefonico per Balvano. Al passaggio d'ogni
treno, ogni altro traffico su quel tratto di linea era sospeso finché la guardia comunicava
per telefono che, guardando attraverso la galleria, vedeva la luce all'altra estremità: il che
significava che il fumo si era disperso a sufficienza per lasciar passare altri treni.
Nel 1959 questa precauzione fu abolita perché le ferrovie provvidero a mettere in
servizio su quella linea locomotive diesel-elettriche.
Il governo ha indennizzato le famiglie delle vittime. E tutti gli anni, il 2 novembre,
giorno dei Morti, ci sono famiglie napoletane che vanno a deporre fiori sulle fosse
comuni di Balvano. Una madre mi ha detto: “Non so di preciso dov'è sepolto mio figlio,
ma so che è vicino ai miei fiori”
Questo articolo ci riporta nel clima storico di quel 1944, quando l'Italia era divisa
in due.
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Articolo di Cenzino Mussa, pubblicato in "Famiglia Cristiana",
4 marzo 1979, pagine 40-46
Nel marzo del 1944 più di 500 persone che erano salite su un convoglio merci
perirono avvelenate dall'ossido di carbonio in una galleria tra Balvano e Bella-Muro in
Lucania. Le circostanze in cui avvenne questa sciagura non sono state mai chiarite
completamente. Le responsabilità del comando d'occupazione Alleato.Rievochiamo la
più spaventosa sciagura ferroviaria italiana
E la morte scese sul treno
di Cenzino Mussa
"L'agenzia Reuter comunica da Napoli che 500 italiani sono periti venerdì mattina
per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale. Altre 49 persone sono
degenti all'ospedale. Per mancanza di treni viaggiatori un gran numero di persone era
salito su un merci diretto a oriente, stipando i carri aperti che lo componevano.
Nell'attraversare una galleria, il treno che già procedeva assai lentamente, rallentava
ancora la marcia, sicché il denso fumo che ingombrava la galleria stessa in seguito al
passaggio di altri convogli provocava la soffocazione della maggior parte dei disgraziati
viaggiatori". (Dal Corriere della Sera, 6 marzo 1944).
Un titolo in colonna, ventidue righe di giornale per cinquecento morti.
Poi il silenzio.
È la più grave sciagura ferroviaria italiana, ma ancora oggi sfugge ad ogni statistica.
Nessuno sa con esattezza il numero delle vittime, nessuno potrebbe giurare sulle
responsabilità. Le montagne della Lucania e "ordini superiori" si accordarono per
seppellire nel silenzio una storia fatta di fame e di paura. A trentacinque anni di distanza
riaffiorano frammenti di testimonianze e indiscrezioni sulle inchieste che allora furono
condotte cautamente e poi archiviate.
Abbiamo sfogliato documenti "segreti" quasi consunti dal tempo, abbiano ascoltato
superstiti e soccorritori di quel treno maledetto.
1944. La guerra continua
È un giallo angoscioso che comincia una sera piovosa del '44, l'anno più nero del
secolo. Gli alleati sono fermi a Cassino e combattono sul fronte di Nettuno. Non si canta
più "Vincere" da quando in montagna "fischia il vento", ma si continua a morire di qua e
di là della Linea gotica. Scontri, bombardamenti, fame, crudeltà: sono gli spettri di questi
mesi.
Ha l'aria di essere uno spettro anche Mussolini. Abita a Villa Feltrinelli, a Gargnano. Il
primo marzo, nel sesto anniversario della morte di D'Annunzio, va a rendere omaggio alla
tomba del "compagno d'arme". I giornali del Nord gli dedicano un titolo a cinque colonne.
Bastano cinque righe per "un altro bombardamento su Roma". Il giorno dopo, Goebbels
lancia un proclama: "La vittoria tedesca rappresenta una certezza". Altre notizie sul
Corriere (30 centesimi, due pagine) del 2 marzo: pioggia di bombe su Londra, "infruttuosi
attacchi dei bolscevichi sul fronte orientale", catturati due ladri di biciclette, si autorizza ad
attingere l'acqua salsa del mare per usi alimentari. Sugli annunci pubblicitari si legge: bar
centralissimo, forti incassi, cedesi, un milione; sinistrato acquista armadio occasione;
privato vende scarpe seminuove. Le scarpe hanno suole vibram, a "carro armato"; molti
devono ricorrere a ritagli di copertone. Al posto della lana, è in commercio un tessuto
autarchico che punge come le ortiche; la biancheria è di rayon. Con le tessere annonarie è
quasi impossibile vivere. Si deve ricorrere alla "borsa nera". Così i fagioli da 5,24 lire al
chilo salgono a 20 lire; un litro d'olio costa cento lire contro le 14 del prezzo ufficiale.
I borsari neri fanno la spola tra la campagna e la città. Qualcuno ha l'autocarro a
carbonella. I tendoni nascondono a fatica sacchi di farina e damigiane di vino. Gli italiani
del Nord dormono male per le incursioni di "Pippo", un monomotore che sgancia bombe e
mitraglia a bassa quota. C'è chi preferisce il cinema ai rifugi antiaerei e va a vedere Luisa
Ferida e Gino Cervi in Tristi amori, oppure Alida Valli e Amedeo Nazzari in Apparizione.
L'insonnia è provocata anche dalla fame. A Napoli, il Vesuvio fuma. I1 15 febbraio è
distrutta l'abbazia di Montecassino. Agli inizi di marzo scatta l'operazione Strangle, che
intende spezzare i collegamenti tra il Nord e il Sud dell'Italia. Gli scali ferroviari di Roma,
Padova, Verona, Bologna, Vicenza, Milano e Bolzano sono fra gli obiettivi più colpiti. Le
ferrovie al Sud sono uno sfacelo. Dal primo ottobre dell'anno precedente, quelle del
compartimento di Napoli sono state assunte direttamente dal Governo militare alleato
(A.M.G.) che le terrà in gestione sino a luglio del '44. La direzione è affidata al 727º
battaglione ferroviario.
La guerra in Italia
*****
Il treno merci n. 8017, su ordine del Comando alleato, era diretto a Potenza per caricare
legname già preparato dall'American Corps of Engineers, necessario per la ricostruzione di
ponti nella zona di combattimento. È il tramonto, quando si muove dal piazzale Garibaldi.
Un convoglio lunghissimo: 47 carri, una ventina dei quali scoperti. Borsari neri, impiegati
e studenti lo prendono subito d'assalto. È proibito salire sui merci, ma i tempi sono quelli
che sappiamo: si chiude un occhio, anche due. Il mercato nero, visto con lo stomaco pieno,
è deprecabile; visto con il terrore della farne, lo è molto meno. E poi la maggior parte dei
viaggiatori non sono "borsari neri", ma poveretti che vanno a cercare cibo per le loro
famiglie.
43
Alcuni sono persone costrette a viaggiare e che non hanno trovato altri mezzi.
Napoli scompare in una schiuma di luci riflesse nel mare color lavagna. Stazione per
stazione l'8017 calamita e risucchia file pazienti di viaggiatori, ai quali nessuno si oppone,
neppure la scorta militare, composta da un ufficiale e sette soldati italiani. I fuochisti
buttano a palate il carbone sotto la caldaia, e la corsa affannosa riprende. Nocera, Salerno,
Battipaglia. Alle 19.12 il treno arriva a Eboli, dove salgono cento abusivi, tra gli altri il
professor Vincenzo Iuta, dell'Università di Bari, con una decina di studenti.
E via arrancando nella notte umida e fredda. Sicignano, Buccino, Romagnano al Monte,
sotto il suo pugno di case inchiodato alla roccia nella paurosa fenditura che s'apre
sull'ultima valle del Salernitano, tredici chilometri prima della "galleria delle armi" che
diventerà la "galleria della morte".
A Romagnano il treno ha almeno 650 viaggiatori clandestini. Qui viene agganciata in
testa una seconda locomotiva, del tipo 476. di alta montagna, uguale a quella di spinta.
Entrambe sono alimentate da carbone iugoslavo, fornito dagli stessi Alleati, di scarso
potere calorifico (carbone non maturo) con alta percentuale di scorie. È un tipo di carbone
che nella combustione sprigiona gas letali, come l'ossido di carbonio.
Alle 23.40 il treno lascia Romagnano.
Alle 0.12 si ferma sotto la galleria, cento metri prima d'una sperduta stazioncina di
montagna, Balvano. Un treno che precede il merci sull'unico binario lamenta un guasto
alla locomotiva, così l'8017 aspetta d'aver via libera per metà ancora nella galleria dove
stagna il fumo. Non tira un alito di vento, comincia a nevicare. Per i trentotto minuti di
attesa, i passeggeri respirano fumo e gas. I più dormono, ignari del pericolo, vinti dalla
stanchezza. Finalmente, alle 0.50, i due macchinisti allentano i freni, spingono le leve
dell'acceleratore e il convoglio, superata la stazione, si infila nella galleria in salita. Il
capostazione di Balvano, Vincenzo Maglio, batte al telegrafo il segnale di "partito" al suo
collega della stazione successiva, Bella-Muro.
Tra Balvano e Bella-Muro ci sono otto chilometri. I binari s'insinuano fra gole aspre,
solcate da un torrente tortuoso, il Platano. L'intero tratto è un susseguirsi di gallerie e
viadotti. Il merci supera la prima galleria, poi la seconda, quindi un tratto all'aperto, in una
forra, e infine ecco la "galleria delle armi", lunga 1692 metri, con una pendenza che
raggiunge il 13 per mille. Il treno percorre i primi duecento metri, poi le ruote non
mordono più le rotaie, girano a vuoto. Altro carbone, altra pressione nelle caldaie, ma sui
binari viscidi di neve, le ruote vorticano come girandole. L'8017 arretra di qualche metro
(quanto basta perché gli ultimi tre vagoni escano all'aria aperta all'imbocco della galleria) e
si ferma di nuovo, definitivamente.
Tutto il resto è congettura. Molti indizi lasciano perplessi. La locomotiva di testa viene
trovata con la leva di comando sulla retromarcia, la seconda con la leva di comando spinta
in avanti. Evidentemente quando il treno s'era fermato, i due macchinisti, che non
potevano comunicare fra di loro, la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi.
Facile immaginare la scena.
Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiano a ritroso nella galleria e
uccidono silenziosamente centinaia di persone. Un terrore senza bombe, senza grida, con
cinque, sei cori di rantoli soffocati. La maggior parte dei viaggiatori passa dal sonno alla
morte.Restano alcune testimonianze.
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In un carro c'è Luigi Cozzolino. Dorme accanto al figlio dodicenne. Ad un tratto si
sveglia e s'accorge che il bambino è morto. Rimane inebetito dall'orrore, incapace di aprir
bocca, poi si lascia cadere dal treno e si trascina all'aria aperta.
Ciro Pernice aveva 19 anni e faceva il contadino a Torre del Greco. Su quel treno
era salito a Salerno. Andava a Bella-Muro in cerca di farina, o di «qualsiasi altra cosa da
mettere sotto i denti». Racconta: «Eravamo cinque fratelli, la fame ci faceva sragionare,
avevamo mangiato tutto quello che c'era, persino i semi. Su quel treno m'ero addormentato
con una mantellina militare avvolta sulla testa. Mi sono svegliato all'ospedale di Potenza.
Mi dissero che la mantellina aveva fatto da filtro. Non ricordo altro. Da allora la capa non
funziona più».
Sull'undicesimo vagone, ben dentro la galleria, viaggiava Giuseppe De Venuto, un
operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi,
arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Scese dal treno, si diresse verso l'imbocco del
tunnel dove trovò il frenatore Roberto Masullo, stordito dal gas. Capì che doveva avvertire
subito il capostazione di Balvano. Semisvenuto, nauseato dal fumo, l'operaio cominciò ad
avanzare carponi lungo i binari. Un altro ferroviere lo aveva preceduto: Michele Palo.
Nella cabina di coda stava bruciando stoppie e giornali per scaldarsi, quando si sentì
soffocare. Si rese conto della tragedia, chiamò qualche nome e corse. Ma le forze non gli
bastarono, e soltanto dopo due ore poté scorgere le luci della stazione di Balvano. Stava
annaspando un'altra locomotiva in pressione. Avevano già saputo. Prima di svenire disse:
«Là sono tutti morti». Erano le tre passate. La locomotiva sotto pressione, staccata per
ordine di Giuseppe Salonia, il vicecapostazione, apparteneva ad un altro merci (8025) che
era giunto in orario, ma aspettava il permesso di proseguire per Bella-Muro.
Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile nulla lo è di più del tempo che
occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che fine avesse fatto il
merci n. 8017. Soltanto intorno alle 2.50 Salonia aveva ricevuto una telefonata dal collega
che chiedeva spiegazioni. Aveva risposto che sarebbe andato di persona a rendersi conto
dell'accaduto. Alle 5.10 il merci 8017, diventato un'immensa bara, era rimorchiato a
Balvano. In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riuscì a
far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo. I volti erano sereni. Un colonnello
dell'esercito americano raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di
sofferenza. Molti erano seduto con il busto eretto o nella posizione di chi dorme
tranquillo».
Balvano, 2480 abitanti, 32 chilometri da Potenza, 425 metri d'altitudine, è un paesino
povero e bello, fra querce e ulivi, incassato fra le montagne. Un paese di emigranti (più di
mille persone se ne sono andate dal '44) e di gente generosa. Quel mattino di marzo don
Pacelli, il vecchio parroco, suonò le campane e uomini e donne scesero di corsa verso la
stazione. Allinearono i cadaveri sulla pensilina, portarono i primi soccorsi a quelli che
erano ancora in vita. C'era il medico condotto, Orazio Pacella, che adesso ha ottant'anni ed
è malato, ma non può dimenticare quel giorno. Racconta: «Un silenzio irreale, la neve e
tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la respirazione bocca a
bocca.
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Avevo solo cento fiale di adrenalina, non potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da
una vettura all'altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l'iniezione al
cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata. Poi arrivarono le autorità da Potenza con
una dottoressa americana. Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi
restavano 49 fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare altre vite.
Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno. Dissero che
qualche vittima era stata spogliata delle poche cose che aveva. Non è vero, non c'erano
sciacalli fra di noi. C'era soltanto brava gente che dava una prova di solidarietà umana".
Le vittime furono dapprima trasportate nella ex casa del fascio, poi sepolte in tre fosse
comuni nel piccolo cimitero del paese. Quanti i morti? Su alcuni documenti si legge: 425.
Su altri, 521. Su un vecchio registro comunale c'è l'elenco dei corpi identificati: 429. La
cifra più probabile è quella scolpita su una lapide al cimitero di Balvano: 509, e cioè 408
uomini e 101 donne.
Fu ritenuto un evento bellico.
Dopo una tortuosa e lunga vicenda giudiziaria, i parenti delle vittime hanno ottenuto un
risarcimento (circa trecentomila lire) con una sentenza che ha inserito la vicenda del treno
n. 8017 tra gli "eventi bellici" e ha fatto valere la legge speciale (N. 10, del 9 gennaio
1951) di cui è competente il Tesoro e in base alla quale "viene concessa un'indennità per
danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle Forze
armate alleate".
È dunque agli Alleati che si deve attribuire l'intera responsabilità della tragedia? In una
pratica ingiallita dell'Avvocatura di Stato è riportata la deposizione di un funzionario in
carriera all'epoca della Amgot, dove si dice: "Tutti gli ordini relativi all'organizzazione, al
movimento e ai servizi giungevano direttamente dal MRS (Military Railways Service),
ossia dal generale Gray e dal col. Horek". Nella stessa pratica è riportata la deposizione
dell'allora sindaco di Balvano. Nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, il
sindaco aveva iniziato un'inchiesta per accertare le responsabilità del disastro: ne fu
distolto da un perentorio ordine delle autorità alleate. Ci furono altre indagini, l'ultima
condotta dal giudice del tribunale di Potenza. Ma nel '46 l'intera pratica veniva archiviata,
non "essendo stati riconosciuti gli estremi del reato".
Se una donna, Luisa Cozzolino vedova Palombo, non avesse iniziato un'azione per
risarcimento danni, citando le Ferrovie dello Stato, forse nessuno avrebbe più sentito
parlare dei 500 morti nella "galleria delle armi". Luisa Cozzolino fu la prima. Poi presso il
tribunale di Napoli, alla sua si aggiunsero le citazioni di trecento famiglie: per la perdita
del marito, del fratello, della sorella, della madre, del padre, del figlio, della figlia. Tutti
deceduti sul treno n. 8017.
L'assassino fu il carbone? In una relazione inviata dal ministro dei Trasporti a quello del
Tesoro, nel gennaio del 1952, si legge: "Il treno si fermò perché il macchinista fu colpito
dalle tossiche esalazioni dei prodotti gassosi della combustione del carbone,
particolarmente ricco di ossido di carbone. In proposito vale notare che, da parte del
Comando alleato, venne imposto l'uso di tale carbone, assolutamente inadatto per le
locomotive allora in esercizio". Anche gli Alleati condussero una inchiesta (affidata ai
capitani Osborn e Gilberston dell'armata francese), ma i risultati non furono mai resi noti.
Della tragedia si occupò il Times nel '51, e scrisse che "il Governo alleato si sforzò di
occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani".
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La storia del treno maledetto non finisce qui. Per molti anni vedove e orfani non hanno
avuto neppure una tomba sulla quale piangere. Adesso nel cimitero di Balvano c'è una
cappella di marmo fatta costruire, per tutte le vittime, da un uomo generoso. Si chiama
Salvatore Avventurato, ha 49 anni, gestisce un distributore di benzina a San Giorgio a
Cremano, abita a Torre del Greco insieme con la moglie e tre figli. Su quel treno,
Avventurato ha perso il padre Agostino, il fratello Vincenzo e uno zio, Antonio Luna.
Anche loro erano saliti sul merci 8017 per sfamare le famiglie. Salvatore Avventurato è
uno che la fame l'ha sofferta davvero. E dopo la guerra ha fatto mille mestieri, lavorando
giorno e notte. A sua madre aveva promesso la tomba per quei poveretti. L'ha costruita un
po' per volta, fra mille difficoltà. "Si posavano i fiori in terra, si camminava sui morti, era
straziante. Almeno riposino in pace...".
Cenzino Mussa
Articolo di Nicola Raimo, pubblicato in "Strade Ferrate",
Novembre 1980, pagine 33-37
Quella lunga notte del '44
Sono trascorsi circa quarant'anni dalla spaventosa catastrofe del treno 8017, che
ebbe il suo epilogo nella Galleria delle Armi, sulla Sicignano degli Alburni-Potenza.
Lungi da ogni morboso compiacimento nell'indugiare su un così doloroso episodio, la
Redazione di «Strade Ferrate» ha ritenuto opportuno contribuire a ristabilire la verità
storica su un avvenimento, che, complice anche la censura del periodo bellico, è rimasto
per lungo tempo avvolto nel mistero. Il treno 8017 non deragliò, non ebbe uno scontro,
non subì incendi: eppure sotto quella che ancor oggi i ferrovieri chiamano la «galleria
della morte» perì un numero di persone superiore a quello di ogni altra sciagura
ferroviaria mai avvenuta: oltre cinquecento. Un potenziale assassino c'era, in verità, ma
assolutamente insospettabile: viaggiava sul tender stesso delle locomotive, ed era lo
scadente carbone utilizzato in quegli anni. Il caso fece il resto, provocando una fatale
divergenza di vedute fra i macchinisti delle due locomotive nel momento cruciale di
quella notte del '44.
Il nostro collaboratore Nicola Raimo, avvalendosi anche della sua personale
conoscenza degli unici due ferrovieri sopravvissuti, ha ripercorso per noi con competenza
e cognizione di causa il succedersi dei fatti che determinarono l'immane tragedia.
Pubblichiamo il suo racconto, così come egli l'ha raccolto dalla viva voce dei
superstiti...Era
il
2
marzo
del
1944.
La guerra era da poco finita nel Sud della penisola, ed anche in Campania. Da Napoli,
quasi tutti i giorni si formava un treno merci il cui numero di identificazione era 8017:
era un treno dispari itinerante, con destinazione Potenza. Quel giorno, era formato da
quarantasette carri, in parte chiusi, in parte pianali, in parte alte sponde. Alcuni erano
carichi, ma la gran parte erano vuoti, tanto che ben presto vi si stiparono centinaia di
persone: tutti viaggiatori abusivi, che si recavano in quel di Potenza e provincia per
acquisti di derrate alimentari, per lo più da barattare con merci di provenienza americana
che a Napoli non mancavano, quali sigarette, caffè, indumenti.
47
L'8 Settembre.
L'8 settembre 1943 non era lontano, e nonostante gli aiuti americani, a Napoli e in
tutta la Campania non c'era praticamente di che sfamarsi, mentre in Lucania vi era
scarsezza di generi di conforto, vestiti, ecc. Mezzi pubblici e privati non ne esistevano
più o quasi, perché requisiti nel corso della guerra, e l'unico mezzo di trasporto rimaneva
il treno: merci o viaggiatori che fosse, qualunque convoglio era preso d'assalto. Il
governo alleato aveva fatto espresso divieto di servirsi dei treni merci, ma la necessità era
tale che molti rischiavano anche severi provvedimenti.
Il treno 8017 giunse a Salerno con in testa un E. 626: qui si provvide al cambio di
trazione, essendo la linea Battipaglia-Potenza-Taranto non elettrificata. Il Deposito
Locomotive di Salerno si incaricava allora del servizio fino a Potenza e sulla diramazione
Sicignano degli Alburni-Lagonegro.
Locomotiva 476.
La locomotiva titolare dell'8017 era quella sera del 2 marzo la 476.038, una delle
trentuno unità di stanza a Salerno a partire dagli anni venti.
L'8017 partì da Salerno già carico di viaggiatori abusivi: a Battipaglia la polizia
militare americana ne fece scendere alcuni (che avrebbero poi ringraziato la loro buona
stella), ma nelle stazioni seguenti (Eboli, Persano, ecc.) molti altri salirono sul convoglio.
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Frattanto era giunta a Battipaglia, poco prima dell'arrivo dell'8017, un'altra
locomotiva diretta a Potenza come O. L. («orario libero») per effettuare un altro merci di
ritorno a Napoli: era la 480.016.
Locomotiva 480.
Le locomotive del gruppo 480 avevano prestato servizio dapprima sulla Porrettana:
quando questa linea fu elettrificata in trifase, esse furono inviate ovunque servissero
macchine di potenza ragguardevole (Brennero, Sicilia, ecc.). A Salerno ce n'erano sei
unità, e precisamente la 001, 003, 006, 007, 008 e 016.
Il Dirigente Centrale di Battipaglia pensò allora, per non effettuare due treni sullo
stesso itinerario e ben sapendo che l'8017, data la pesante composizione, avrebbe
richiesto da Baragiano il rinforzo in coda, di disporre la 480 in doppia trazione in testa
all'8017.
Il convoglio ripartì dunque alla volta di Eboli con in testa la 480.016, su cui
viaggiavano il macchinista Espedito Senatore («un grande macchinista», per unanime
ricordo di chi lo conobbe) e il fuochista Luigi Ronga. Alla guida della 476.038 vi era
invece il macchinista Matteo Gigliano, coadiuvato dal fuochista Rosario Barbaro. Da
calcoli postumi si può presumere che il convoglio ospitasse oltre cinquecento viaggiatori
abusivi.
Era da poco passata la mezzanotte, quando il convoglio si fermò in una sperduta
stazioncina fra le montagne, il cui nome è destinato a rimanere negli annali ferroviari:
Balvano La stazione sorge in posizione estremamente isolata proprio fra due gallerie
(quella di Romagnano e quella delle Armi): il centro abitato di Balvano dista oltre tre
chilometri. Subito dopo Balvano, la linea corre a mezza costa lungo la valle del Platano,
e la Galleria delle Armi segue lo stesso tortuoso percorso: lungo i 1500 metri del tunnel
non vi è un solo rettifilo. Solo alla fine, essa presenta per una lunghezza di poche decine
di metri una serie di fornici che si affacciano sul Platano. Non essendovi pozzi di
areazione, la galleria, lunga e tortuosa, non aveva (e non ha ancor oggi, anche con la
trazione Diesel) una sufficiente ventilazione.
Alle 0.50 il convoglio ripartì da Balvano. Il capostazione telegrafò il segnale di
partito al collega della stazione successiva, Bella-Muro, che l'8017 avrebbe dovuto
raggiungere in circa 20 minuti. Ma da Bella-Muro il giunto non arrivò mai.
L'8017 imboccò la galleria a circa 15-20 km/h (secondo i ricordi del mio amico
Ronga), procedendo su una livelletta del 13 per mille, quando inspiegabilmente le ruote
delle due locomotive cominciarono a perdere aderenza, nonostante i due macchinisti
scaricassero abbondantemente sabbia sulle rotaie.
49
A questo punto, una parentesi è d'obbligo.
Prima dell'8 settembre 1943 il carbone utilizzato era di provenienza tedesca; poi,
per la ben nota situazione bellica, cominciò ad essere fornito dagli americani, che lo
facevano giungere a Salerno con la navi Liberty. Era un carbone di piccola pezzatura
contenente molto zolfo: ad avviso dell'amico Ronga la sciagura deve appunto imputarsi
alla pessima qualità del carbone.
Ma torniamo agli avvenimenti. I gas di combustione avevano saturato l'aria della
galleria a tal punto - ricorda Ronga - che la fiaccola ad olio vegetale posta sugli strumenti
si spense, e tutto piombò nel buio. Il treno era giunto a circa metà della galleria delle
Armi: le sale delle locomotive, complice anche la forte umidità di quella notte di marzo,
continuavano a slittare, mentre i colpi di scappamento, sempre più ravvicinati,
risuonavano sotto la volta della galleria come cannonate.
Ronga fu preso da un senso di nausea: sportosi dalla piattaforma nell'intento di
trovare una boccata d'aria ancora respirabile in quell'inferno di fumo e di gas, perdette di
colpo i sensi e precipitò dalla locomotiva nella sottostante cunetta di scolo dell'acqua, che
fiancheggiava il binario. Rimase lì, svenuto, perdendo sangue da ferite alla testa e alle
braccia.
Il macchinista Senatore si trovò improvvisamente solo: colpito dai gas venefici, si
accasciò sul posto di guida - dove poi fu trovato - lasciando il regolatore aperto e la leva
d'inversione tutta avanti: di fronte all'imprevista emergenza, aveva cercato di richiedere
alla macchina il massimo sforzo.
Appena un mese prima, un incidente mortale era occorso al macchinista Vincenzo
Abbate nella galleria tra Picerno e Tito, sempre sulla stessa linea. Trovandosi con la sua
476 in servizio di spinta a un treno merci già in doppia trazione, l'Abbate, nell'intento di
respirare aria pulita, aveva alzato la ribalta esistente tra macchina e tender e si era steso
bocconi: ma, colto da improvviso svenimento, era caduto riverso e aveva trovato orribile
morte col capo schiacciato tra macchina e tender; il tutto sotto lo sguardo atterrito del suo
fuochista, Giovanni Ariano, che nulla aveva potuto fare data la fulmineità dell'accaduto.
1943.
Forse perché memore di quell'incidente, il macchinista della 476, Gigliano
(anch'egli macchinista di grande esperienza, un «big» della trazione a vapore) cercò
invece disperatamente di retrocedere. Rovesciò la leva d'inversione «tutta indietro», e
questo fu il momento culminante della tragedia. Data la potenza della 476 e con l'aiuto
del peso stesso del treno, Gigliano sarebbe sicuramente riuscito a portare fuori della
galleria il treno, anche se la 480 era rimasta disposta per la marcia avanti e col regolatore
50
aperto: ma non ne ebbe il tempo, forse per pochi, decisivi secondi. Sopraffatto dai gas,
non riuscì ad aprire il regolatore e perì anche lui al posto di comando insieme al suo
fuochista.
Come ben ricordo per avervi più volte viaggiato, i comandi della 476 erano a
destra: il regolatore aveva la leva a sciabola e l'asta di comando scorreva in due grossi
anelli, la leva d'inversione era a vite senza fine, ma a manovella. È bene anche dire che la
valvola del regolatore non era la «Zara», ma aveva invece due aperture, la prima e la
seconda, con due piastre a slitta scorrenti l'una sull'altra in modo tale che aprendo la
prima, restava chiusa la seconda e viceversa. Questa valvola veniva continuamente
lubrificata da un oliatore funzionante a vapore, posto nel duomo, che era assai poco
capiente, tanto da dover essere rifornito molto frequentemente. Nonostante tale
lubrificazione, il comando - lo ricordo bene - era quanto mai duro sia per l'apertura che
per la chiusura: un particolare questo che, con il macchinista allo stremo delle forze, ebbe
forse la sua importanza in quella tragica notte.
Col personale di condotta ormai impotente, l'ossido di carbonio contenuto nei gas
di combustione saturò completamente la galleria, conducendo silenziosamente all'asfissia
i viaggiatori, per lo più addormentati. Dei ferrovieri, insieme a Ronga si salvò soltanto il
frenatore di coda Roberto Masullo. L'8017 aveva infatti frenatura mista: metà col freno
continuo Westinghouse e metà a mano. Masullo occupava appunto la garitta del carro di
coda, rimasta per fortunata coincidenza, insieme ad altri due carri, fuori della galleria.
Quando la sosta si prolungò al di là del normale, Masullo scese e risalì per qualche
decina di metri il tunnel e, resosi immediatamente conto della tragedia, fu l'unico a
mettersi in marcia verso Balvano per chiedere soccorsi. Ma la sua fu un'autentica odissea:
in piena oscurità, correndo a fatica sulla massicciata, egli dovette riattraversare le due più
brevi gallerie che precedano quella delle Armi, ancora sature di fumo e di gas. Quando
finalmente, verso le due di quella notte, giunse in stazione di Balvano, riuscì soltanto a
gridare «Laggiù sono tutti morti, tutti morti!» prima di cadere a terra svenuto.
Locomotiva a carbone 640
Da Balvano partirono immediatamente i soccorsi. «Quando cominciai a riprendere
i sensi - ricorda ancora Luigi Ronga - vidi una luce venirmi incontro: era il capostazione
di Balvano, Ugo Gentile (oggi Capo Stazione sovrintendente a Battipaglia), che, presomi
quasi in braccio, mi trascinò fino alla stazione, dove la moglie dell'allora capostazione
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titolare - non ne ricordo il nome - mi fece bere più di una bottiglia di latte, cosa di cui le
sarò sempre grato perché cominciai quasi subito a sentirmi meglio».
«La notizia della sciagura - continua Ronga - volò attraverso i fili del telegrafo e
del telefono e giunse anche a mio padre, anch'egli macchinista a Salerno. Disperato, egli
si precipitò a Balvano col treno soccorso condotto dal signor Cicalese, per cercarmi tra i
morti. Fortunatamente mi trovò vivo: avevo appena vent'anni e vivevo ancora con lui...».
L'8017 fu trainato a ritroso fino a Balvano. Fu spento il fuoco sulle locomotive, e
iniziò la pietosa opera di composizione dei morti, che furono allineati sulla banchina tra il
primo e il secondo binario. Erano 517. Gran parte delle vittime non fu mai identificata,
anche se è noto che molti di essi provenivano da grossi comuni napoletani: Torre del
Greco, Portici, Torre Annunziata. Molti erano anche i salernitani. Tutti furono sepolti in
fosse comuni presso il locale cimitero. Si ha notizia di alcuni superstiti, che però si
affrettarono ad allontanarsi dal luogo della sciagura per timore di denunce da parte della
polizia militare.
Quanto ho scritto mi è stato raccontato con precisione di dettagli dal superstite e
amico Luigi Ronga, in presenza dell'ancor lucidissimo padre, ormai da tempo in
pensione. Conferme mi sono giunte anche dall'altro carissimo amico ed ex macchinista
Eduardo Durso, che il giorno dell'incidente si trovava a Taranto con l'incarico di
acquistare delle derrate alimentari per la Cooperativa ferrovieri dl Salerno.
«Viaggiavo sulla locomotiva gruppo 735 del Deposito Locomotive di Taranto ricorda Durso - come ospite, diretto a Potenza. Da Taranto avevo telefonato a Salerno per
richiedere del denaro, in quanto a Ferrandina stavo contrattando una partita di olive nere.
Ricordo che a Salerno costavano 30 lire al chilo a »borsa nera», mentre a Ferrandina
potevo acquistarle per sole 8 lire. Da Salerno mi rispose il macchinista Rispoli, allora
presidente della Cooperativa, assicurandomi che mi avrebbe fatto pervenire a Potenza la
somma di 30.000 lire, affidandola al macchinista dell'8017. Giunto a Potenza, appresi
della sciagura e col primo treno disponibile mi recai a Balvano. Non mi soffermo sul
tragico spettacolo, già descritto da Ronga. Il povero Gigliano non aveva mancato
all'impegno: la somma che avrebbe dovuto consegnarmi fu infatti trovata tra le sua
biancheria di ricambio, in una delle casse armadio poste sul tender della 476...».
Il Comando alleato che aveva sede a Potenza aprì immediatamente un'inchiesta.
Furono eseguite delle prove sullo stesso percorso e con lo stesso carbone, con personale
fornito di maschere a facciale: anche in tale occasione si svilupparono rilevanti quantità
di ossido di carbonio. L'inchiesta fu quindi chiusa, attribuendo alla cattiva qualità del
carbone ogni responsabilità, anche se la pesante composizione del treno e la poco felice
ubicazione delle due locomotive, entrambe in testa al treno, contribuirono senza dubbio
alla sciagura.
In seguito all'incidente, la prestazione sulla linea delle 476 fu ridotta da 420
tonnellate a 370 tonnellate con tassativo divieto della doppia trazione e della spinta in
coda: si stabilì un servizio di vigilanza ai due imbocchi della galleria delle Armi, per la
riconosciuta inefficienza della ventilazione naturale, fissando altresì in sessanta minuti
l'intervallo minimo fra convogli con trazione a vapore. Dal 1959 queste precauzioni sono
state abolite con l'entrata in servizio di nuove locomotive Diesel.
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Articolo di Pietro Spirito,
pubblicato in "Linea Treno", Febbraio 1995,
pagina 29
Cronaca di un disastro annunciato
Mario Restaino, in un libro di grande interesse storico, Un treno, un'epoca:
storia dell'8017 (Melfi, 1994), si cimenta nella ricostruzione delle fasi della tragedia di
Balvano, inquadrandola nel periodo in cui si svolge, restituendo al lettore, attraverso
ricordi ed immagini, la precarietà di quegli anni difficili.
La tragedia matura nelle condizioni di viaggio di un Paese devastato dalla
occupazione e dalla guerra. Due settimane prima dei fatti, il sottosegretario di Stato alle
comunicazioni per le ferrovie, la motorizzazione ed i trasporti in concessione, Giovanni
Di Raimondo (nel dopoguerra diventerà direttore generale delle Ferrovie) segnalava che
il treno bisettimanale per viaggiatori civili Bari-Napoli "si è dimostrato assolutamente
insufficiente rispetto alle esigenze della numerosa popolazione delle regioni attraversate".
Sulla stessa tratta, il 10 gennaio 1944, si era verificato un incidente mortale,
costato due vite e sei feriti. Così racconta questo episodio, nel suo rapporto, il capitano
dei carabinieri Aldo Giannone: "Sportello aperto vettura treno viaggiatori 7144
Polignano-Bari per forte urto contro carro merce fermo, staccavansi ed alcuni viaggiatori,
che causa affollamento trovavansi sul predellino, cadevano". C'erano quindi i segnali di
una situazione precaria nei collegamenti ferroviari lungo la linea. Ma, in un clima
difficile come quello della guerra, era estremamente complesso attivare meccanismi di
prevenzione e di intervento.
Cosi si arrivò alla tragedia del treno 8017.
La notizia della tragedia rimbalza in Italia da Lisbona soltanto alcuni giorni dopo,
con un comunicato della Reuters ripreso dai giornali nazionali. Anche questo dato sta a
testimoniare la precarietà dei tempi e la difficoltà con la quale le informazioni
circolavano. Mario Restaino, nel suo sforzo di ricostruzione degli eventi, riporta anche
brani dall'elenco degli oggetti rinvenuti da persone sconosciute sul treno, dopo la
tragedia.
Bambino e soldato.
È uno spaccato della povertà di un'Italia divisa, dedita al commercio per la
sopravvivenza, largamente condizionata dal mercato nero che era diventato la forma
principale di transazione.
Negli oggetti sequestrati dai carabinieri dopo l'incidente si leggono in filigrana le
microstorie di quel tempo: 28 kg di salsa sfusa, 25 kg di salsa in lattine, 50 kg di frutta,
15 scatolette di salsa, 15 kg di tabacco in foglie, 22,7 kg di sigari toscani, 3 kg di sigari di
Roma, 19 kg di sigari toscani e mezzi sigari, 6,25 kg di fiammiferi di zolfo.
In una notte di marzo del 1944 l'incidente di Balvano spezzò quel commercio e
tante vite umane. Ne rimane oggi, anche grazie al pregevole lavoro di Restaino, la
memoria. Al libro mancano le relazioni tecniche delle Ferrovie dello Stato e i documenti
del governo alleato. L'autore ha cercato, senza riuscirvi, di consultarli. È una ricerca che
varrebbe la pena di continuare.
Locomotiva 370
Risposta a una lettera pubblicata in "iTreni oggi", Dicembre 1992, pagina 12
il più grave disastro
"Gradirei avere notizie su un incidente occorso in una galleria ferroviaria dell'Italia
del sud nel 1944, dove per le esalazioni della combustione di una locomotiva a vapore,
ferma in galleria, morirono diverse centinaia di passeggeri. Avete notizie di questo
incidente? È possibile conoscere il luogo, la linea e l'eventuale vaporiera?" (M. Lussana).
È il più tragico incidente ferroviario della storia. Avvenne intorno all'una del
mattino del 3 marzo 1944. La presenza di viaggiatori sul treno 8017, che era un merci,
era abusiva e fu una delle cause del disastro. Il treno, partito da Salerno verso Potenza,
viaggiava in doppia trazione (le locomotive pare che fossero due 476), composto da 47
carri e sovraccaricato dalla presenza abusiva di centinaia di persone, cosa peraltro
abituale in quell'oscuro periodo della seconda guerra mondiale; all'interno della lunga e
acclive galleria dell'Armi, poco oltre la stazione di Balvano-Ricigliano, incominciò a
slittare e non riuscì più a procedere. Sentendosi venir meno, i macchinisti purtroppo
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presero misure opposte: una delle due locomotive fu trovata con la leva d'inversione
disposta per la marcia avanti, l'altra a marcia indietro. L'incidente avvenne in piena notte
e l'allarme fu dato con ore di ritardo. Le fonti discordano circa il numero dei morti,
intossicati dai gas della combustione: furono sicuramente non meno di 425, compresi i
macchinisti, ma probabilmente più di cinquecento: si salvarono solo le persone che si
trovavano sui carri di coda, fermatisi presso l'imbocco della galleria. La galleria stessa da
quel momento fu presenziata e la memoria di quella sciagura fu probabilmente una delle
ragioni che indusse le FS a dieselizzare la linea Battipaglia-Potenza prima di ogni altra.
Mario Restaino
Un treno, un'epoca: storia dell'8017
Aprile 1944, "Arti Grafiche Vultur" Melfi.
L'affascinante saggio del giornalista Mario Restaino è già da anni esaurito in
libreria. I contenuti del libro sono stati esplorati da Pietro Spirito in un articolo del
1995 su "Linea Treno" (vedi pag. 10). La squisita cortesia del dottore Mario
Restaino mi ha consentito di riceverne una copia fotostatica del libro, dalla quale ho
tratto alcuni brani che riporto qui di seguito.
L'accurata ricerca dei documenti e la passione profusa in questa lavoro
meriterebbero, per il piacere dei lettori, la ripubblicazione del libro "Un treno,
un'epoca: storia dell'8017-
CHISSÀ QUANTE STORIE
La lettura degli atti redatti nei giorni successivi all'incidente e emozionante.
Cinquant'anni dopo, quelle carte ingiallite "parlano" ancora e raccontano storie che
non conosceremo mai del tutto. Ci vorrebbe un romanziere -e non uno che tenta una
ricerca storica - per prendere un particolare ed esaltarlo ad "affresco" di un epoca.
Una delle cose che mi hanno colpito di più si trova nell' "Elenco degli oggetti
rinvenuti su persone rimaste sconosciute". Ad un certo punto si dice: "Sesso
femminile, sconosciuta. Eta apparente anni 28 circa, capelli castani, abito bleu con
camicetta fiorata. Stato interessante.
Oggetti rinvenuti: un fazzoletto grande con bandiera e croce uncinata ed una
fotografia". Nient'altro, nemmeno una lira. Che ci faceva questa donna su quel treno?
E' impossibile credere che volesse scambiare una bandiera nazista con del cibo, una
volta giunta a Potenza. Ma allora? Era insieme a qualcuno? Ma perché, visto che era
incinta? Tutte domande alle quali non sono riuscito a rispondere.
Ma è meglio procedere con ordine, nella consultazione delle carte relative alle
vittime -identificate e non identificate - e agli oggetti trovati sul treno.
In un documento figura "uno sconosciuto soprannominato Peppe il
contrabbandiere". A matita, e stato scritto successivamente: "Identificato", senza altre
indicazioni.
Poi c'e "un ragazzo dall'apparente età di anni 15, con pantaloni neri,
probabilmente figlio di ferroviere. Rinvenuta la somma di L. 570".
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Sempre fra le persone non identificate, figura un "uomo apparente età anni 16,
con biglietto ferroviario recapito Scafati. Ha indosso fotografia non somigliante allo
stesso".
Piu avanti si trova una "donna vestita abito maschile color blu, anni 30 circa,
capelli castani", seguita da una "donna età 60 anni circa, vestito nero, capelli bianchi,
ha indosso un medaglione di ragazza che non rassomiglia ad essa. L. 143/10".
E' poi la volta di un "uomo età apparente anni 30, vestito cappotto militare.
Portafoglio contenente figurine religiose".
Viene trovato anche un "uomo sconosciuto vestito da marinaio apparente età
anni 24. Ha indosso L. 1 antica, due boccette di « nero folletto », un coltello", ma a
matita si avverte che e stato poi "identificato".
Palumbo Michele di Giulio fu identificato attraverso "una tessera partito
comunista di Napoli n° 03295. Oggetti rinvenuti lire 35,50"
Fra gli sconosciuti si trova: "Sesso femminile, sconosciuta. Età apparente anni
15 circa veste sottana e giacca blue con sciarpa strisciata rosso nero al collo, capelli
castani, statura normale. Oggetti rinvenuti una penna stilografica".
Segue, subito dopo: "Sesso maschile, sconosciuto. Eta apparente anni 40 circa,
mano destra paralizzata, sciarpa nera al collo. Oggetti rinvenuti N.N.".
Locomotiva 480
Piu avanti: "Sesso maschile, sconosciuto. Età apparente anni 25 circa. Veste
cappotto militare g. v. un secondo cappotto americano, sciarpa bianca di lana al collo
scarpe militari pantalone grigio scuro. Oggetti rinvenuti lire 600.00" .E' certo che uno
dei due cappotti, se non entrambi, sarebbe rimasto a Potenza. Cosa certissima per uno
sconosciuto elencato poco piu avanti, trovato coperto da due giacche e senza soldi.
In questa lista, vi sono anche due uomini in possesso di biglietti ferroviari, da
Battipaglia a Potenza e da Salemo a Potenza.
Apre un altro documento "Pepe Salvatore di Pasquale di anni 17, contadino, da
Muro Lucano oggetti rinvenuti, lire 5,50, un portafoglio di tela cerata, un permesso
per viaggiare, un pettine, 11 pacchetti di tinta nera"
Dopo di lui si trova Forte Antonietta che, oltre a 1.806,00 lire, ha "un
portafogli di tela cerata con una fotografia, ed un notes, due fedi una di oro e una di
argento".
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Non meglio di Scarano Luigi, che possedeva "lire 3.309,00 con portafogli di
pelle ed una fede di ottone". Fra gli sconosciuti -poco prima de1la donna incinta -si
legge ad un certo punto : "Sesso maschile, sconosciuto. Età apparente anni 35 circa,
…………
(Si tratta di un elenco di povere cose, di persone diverse, di miseria e di mistero.
Ma quanta commozione può nascere dalla lettura di un elenco burocratico, il sesso,
l'identità, l'età, un vestito, ecc.ecc.
Eppure quanta importanza assumono quei freddi dati per la ricostruzione di un modo
d'essere, di una realtà sociale provvisoria nella nostra storia.
"...11 pacchetti di tinta nera" l'occorrente per mimetizzare la provenienza militare
americana della lana.
"...fede di ottone" ricordo della campagna "l'oro alla patria" ecc. ).
L'ingresso della Galleria di Balvano.
FOSSE COMUNI
Nelle quattro fosse communi scavate nel cimitero di Balvano nei giorni
immediatamente successivi all'incidente furono sepolte 402 persone: 324 uomini e 78
donne.
Questo risulta ma non si riesce a stabilire con esattezza il numero delle vittime
della sciagura. Il sistema usato fu il seguente: ad ogni cadavere fu applicato un
cartellino numerato, che rimanda all'elenco delle vittime.
A seconda della fossa nella quale veniva adagiata la salma, il numero veniva
riportato su uno schema.
Il numero piu alto fra quelli inseriti negli schemi e 422, fossa numero 4, dove
furono seppelliti -si legge nella "legenda" -anche "numero 6 uomini sconosciuti
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rinvenuti in seguito a ricognizione effettuata alla fine della tumulazione nelle
immediate adiacenze del cimitero di cui tre senza cartellino".
Ecco il dettaglio fossa per fossa.
Fossa numero 1: lunghezza metri 16, larghezza 2,50. Sepolti 86 uomini
identificati di cui cinque senza numero essendosi smarrito il cartellino.
Fossa numero 2: lunghezza metri 21, larghezza 2,50. Sono state seppellite 159
persone di cui 111 uomini identificati e 6 donne di cui 2 identificate, il resto 42
uomini sconosciuti.
Fossa numero 3: lunghezza metri 21, larghezza 2,50. Seppelliti 79 uomini
sconosciuti -8 persone indicate con la lettera x nello schema perché senza numero
andato smarrito a causa di ripetuti trasporti.
Fossa numero 4: Iunghezza metri 18, Iarghezza 2,50, seppellite 72 donne di cui
16 identificate e 6 uomini sconosciuti dei quali abbiamo detto in precedenza.
Pare quasi che scopo principale fosse che quei morti invadenti scomparissero
quanto prima dalla vista delle autorità.
La cruda elencazione mette angoscia per la poca considerazione avuta
per le vittime.
La Lapide
INDIMENTICATI
Quando si va a Balvano, da una curva, la prima cosa che appare è il cimitero: è
posto a mezza collina, alla sinistra del paese. L'hanno allargato due volte: nel 1944 e
nel 1980. Troppi morti da seppellire in entrambe le occasioni. Fra le cappelle del
camposanto, quella costruita per le vittime dell'incidente ferroviario spicca
decisamente sulle altre. Bisogna vederla. Su una targa, a destra della porta, c'e scritto:
In memoria della sciagura ferroviaria
accaduta nella notte dal 3 al 4
marzo 1944 Sotto la galleria
delle armi ove furono presi da
gas carbonici e persero la vita 509
persone di cui 408 uomini e 101 donne
in virtu del Signor
SALVATORE AVVENTURATO
in memoria degli stessi
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al ricordo dei posteri
fece ereggere questo asilo di pace
ove ricompose i miseri resti
tra i quali giace il suo caro padre
e il fratello Vincenzo
Anno 1972
A Salvatore Avventurato va riservato un posto speciale in questa storia. A
Balvano, intanto, chi lo ha conosciuto parla semplicemnte di "don Salvatore".
Ne ricordano la generosità, l'attaccamento al paese, la tenacia con la quale
decise di costruire un "asilo di pace" per quelle povere vittime e l'ostinazione con la
quale portò a termine il progetto. Visto in un primo tempo con comprensibile sospetto
(altri, infatti, avevano cercato di speculare su quella tragedia e sul dolore dei parenti
delle vittime), piano piano don Salvatore si conquistò la fiducia dei cittadini di
Balvano e la loro amicizia. Ora una sua foto, che lo ritrae sorridente, l'espressione
sincera e aperta, sta sull'altare del1a cappel1a.
Don Salvatore non la considerò mai un'opera conclusa perché -mi hanno
raccontato Ciro e Agostino, due suoi figli -non gli piaceva che il prete, per dire
messa, dovesse indossare i paramenti sacri davanti ai fedeli. Perciò stava studiando
per realizzare una piccola sacrestia. La morte glielo ha impedito.
La cappella dedicata ai morti dell'8017 è meta di un continuo pellegrinaggio: i
fiori freschi non mancano mai. E ciò, cinquant'anni dopo la sciagura, è un fatto
straordinario. Vengono da ogni dove, specialmente a novernbre e a marzo: vecchi,
giovani, ragazzi, bambini, persino qualche neonato in braccio ai genitori. Un culto dei
morti che si tramanda di generazione in generazione, senza incertezze. Così si tiene
vivo un ricordo che, altrimenti, sarebbe gia stato cancellato.
Due articoli di Renzo Pocaterra.
La notte tra il 2 e il 3 marzo 1944, il treno 8017 partì da Balvano e,
tragicamente, non arrivò mai alla stazione successiva.
Uno dei più gravi e misteriosi disastri ferroviari della storia,
ma anche un drammatico fascio di luce gettato sulle condizioni di vita
di un paese sconvolto dalla guerra.
Balvano: anatomia di un mistero
di Renzo Pocaterra
Pubblicato in "Linea Treno", Febbraio 1995, pagina 26-29
La Battipaglia-Potenza ha un triste primato. Cinquanta anni fa, nella notte fra il 2 e il 3 marzo
1944, fra le stazioni di Balvano e Bella-Muro, ebbe luogo il più tragico incidente della storia
delle Ferrovie italiane e uno dei più gravi nel mondo. Con precisione non si è mai saputo cosa
sia realmente avvenuto né il numero delle vittime che certamente furono più di cinquecento.
La vicenda è stata ricordata in alcuni articoli di giornali e riviste e, quest'anno,
in un libro di Mario Restaino che merita una segnalazione soprattutto perché, forse
per la prima volta, mette in luce le vere cause della tragedia.
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Cerchiamo ora di rievocare quei fatti con un'attenzione particolare agli aspetti
ferroviari, rimandando i lettori interessati agli aspetti umani della tragedia, alla lettura
del libro.
Il 1944 fu il peggiore dei cinque terribili anni della seconda guerra mondiale.
Se al nord la popolazione era nella morsa della guerra e della fame, al sud si
combatteva solo la fame che però era tanta. Il valore dei beni era quotato alla borsa
nera secondo la logica della sopravvivenza. A Napoli venivano sbarcati gli
approvvigionamenti delle Forze Armate Alleate: un fiume di ricchezza che passava
sotto gli occhi di una popolazione che non aveva più nulla.
Quello che successe sconfina nella leggenda ed è già stato raccontato. Meno
noto è il traffico che potremmo definire indotto, fra la costa e l'interno dove alcuni
beni erano introvabili a causa delle difficoltà di comunicazione.
Le ferrovie, unico mezzo di trasporto, erano in mano al Servizio Ferroviario
Militare delle Forze Armate Alleate che se ne servivano principalmente per le
necessità belliche. Per i civili vi erano pochissimi treni e per salirvi era necessaria una
speciale autorizzazione.
Fra Bari e Napoli, ad esempio, erano stati concessi due treni la settimana con
un massimo di 600 persone per ogni treno. Tutti i treni venivano presi
sistematicamente d'assalto e ben poco potevano fare i militari di scorta ai convogli o
di guardia nelle stazioni. Ecco perché il treno 8017, merci Napoli-BattipagliaPotenza, partì da Balvano alle 0,50 del 3 marzo 1944, trainato da due locomotive e
composto da 12 vagoni carichi e 35 vuoti nei quali si era introdotto un numero
imprecisato di persone, probabilmente attorno alle 600.
Non arrivò mai a Bella-Muro. E qui si affaccia il primo mistero della vicenda.
60
L'esercizio della linea era a dirigenza locale. La distanza fra le due stazioni è di
8 chilometri. Soltanto alle 2,40, dopo quasi due ore, i dirigenti movimento delle due
stazioni si misero in contatto telegrafico perché mancava il "giunto", il prescritto
dispaccio da parte di Bella-Muro a Balvano che il treno 8017 era arrivato
regolarmente. Alla constatazione che il treno era ancora in linea non seguì nulla.
Tutte le rievocazioni concordano sull'assoluto disinteresse delle due stazioni ad
accertare i fatti. Nessuno diede l'allarme, nessuno andò a vedere.
Soltanto dopo le 6 venne inviata da Balvano una locomotiva di soccorso.
Il treno 8017 venne trovato sotto la galleria "delle Armi", lunga 1966 metri.
Soltanto i tre carri di coda erano fuori. Nelle locomotive vi era ancora fuoco, tanto
che la galleria era ancora piena di un fumo molto denso che ne impediva l'accesso. I
soccorritori poterono entrare solo perché muniti di maschere.
Il treno venne riportato a Balvano con il suo carico di morte. Secondo un
testimone una cinquantina di viaggiatori erano ancora vivi, per quanto svenuti, e la
cosa, dopo sette ore, ha dell'incredibile.
Le vittime identificate furono 429, si ritiene però che fossero più di 500.
Vennero sepolte in quattro fosse comuni e anche per questo non è stato possibile
accertarne il numero preciso.
L'inchiesta sul disastro non venne resa nota. Di ufficiale è stata ritrovata solo
una relazione, inviata dal Ministero dei Trasporti a quello del Tesoro, nel 1952, a
causa delle richieste di risarcimento (poi accolte) avanzate da alcuni familiari delle
vittime. Secondo questa relazione, che riprendiamo da un articolo di Cenzino Mussa
su Famiglia Cristiana (1979), "il treno si fermò perché il macchinista fu colpito dalle
tossiche esalazioni dei prodotti gassosi delle esalazioni del carbone, particolarmente
ricco di ossido di carbonio". Tentiamo ora di approfondire le caratteristiche tecniche
del convoglio. Composto da 47 carri e lungo circa 500 metri il treno era trainato da
due locomotive, ambedue poste in testa. Le locomotive erano del tipo cosiddetto "da
montagna": la 480.016 e la 476.038, ambedue dotate di cinque assi motori accoppiati.
La 480 era stata creata negli anni '20 per il servizio sulla linea del Brennero,
passata all'Italia dopo il 1918. Era considerata un'arrampicatrice veloce, forse la più
potente locomotiva del parco ferroviario italiano.
La 476 era una locomotiva di costruzione austriaca, passata all'Italia dopo il
1918 in conto riparazione danni di guerra, ottima per i tracciati di montagna anche se
meno potente della 480.
Il peso del treno è stato calcolato sulle 500/550 tonnellate, tenuto conto anche
delle persone trasportate.
La galleria "delle Armi" ha una pendenza massima del 13 per mille, tutto
sommato non eccezionale anche rispetto alla tratta rimanente. Non avendo a
disposizione una planimetria della linea andiamo per approssimazione. Nei 19
chilometri successivi, da Baragiano a Tito la pendenza media dovrebbe essere
superiore al 17 per mille con punte certamente oltre il 20.
61
Si può quindi, d'accordo con Mario Restaino, ritenere quanto meno strano, per
quanto pessima possa essere stata la qualità del carbone, che il treno si sia arrestato
per insufficiente potenza di trazione, viste anche le prestazioni delle locomotive. Da
rilevare che il treno, provenendo da Napoli aveva affrontato in semplice trazione la
salita che da Nocera Inferiore porta a Cava dei Tirreni: 5 chilometri con pendenza
media del 13 per mille.
A questo punto Mario Restaino trova un testimone che offre alcuni illuminanti
e inediti particolari. Si tratta di Mario Motta, in servizio a Balvano in qualità di
Deviatore il mattino del 3 marzo 1944.
Faceva parte del gruppo inviato con la locomotiva di soccorso, Motta ricorda
con precisione che 13 veicoli erano frenati e, per poter far retrocedere il treno, fu
necessario sfrenarli. Non precisa se si trattava di veicoli dotati di freno a mano o di
freno continuo, ma dobbiamo ritenere si trattasse di freni a mano perché il freno
continuo, se non viene mantenuto carico dal compressore della locomotiva, si
esaurisce entro breve tempo.
Motta ricorda anche di avere udito, molto evidente, durante il viaggio di
rientro, quel battito caratteristico che indica una sfaccettatura delle ruote dei carri.
Questo avviene quando le ruote sono state serrate a fondo dai ceppi dei freni
mentre il treno continua la sua corsa. Il pattinamento delle ruote sulle rotaie si mangia
letteralmente i cerchioni.
Ecco quindi la più importante, se non l'unica, causa della tragedia: i freni. E qui
ci soccorrono altri due ricordi di Mario Motta.
62
Egli ricorda che il macchinista del treno di soccorso andò a controllare la
posizione delle leve di comando delle due locomotive. Ambedue erano nella
posizione di retromarcia. Ricorda anche che alcuni superstiti hanno riferito che il
treno, dopo una prima fermata, aveva avuto un breve spostamento in avanti.
Poi era retrocesso "a scossoni" per fermarsi definitivamente dopo pochi metri.
Sembra anche che, in quei momenti, dalle locomotive fossero partiti alcuni fischi e
questo starebbe ad indicare un ordine ai frenatori circa la chiusura o l'apertura, dei
freni.
In base a questa testimonianza, comunque molto importante, le possibilità sono
due e dipendono dal sistema di frenatura di cui il treno era dotato. Molto
probabilmente si trattava di frenatura parzialmente continua. Ciò significa che in
composizione al treno vi erano carri dotati di freno continuo e freno a mano. Al
momento di formare il treno, sulla base del peso complessivo, della percentuale di
peso frenato con freno continuo e delle caratteristiche della linea veniva stabilita la
quantità di frenatori necessaria alla scorta. Nel tratto in questione, tutto in salita da
Battipaglia a Potenza, si doveva assicurare la sola frenatura necessaria in caso di
fermata in linea, o di spezzamento del treno, per evitare la retrocessione. Abbiamo
sottoposto la questione al parere di un esperto. Date le caratteristiche del treno e della
linea era possibile la presenza di una decina di frenatori.
Mario Restaino ritiene che vi sia stato, alla base della tragedia, un equivoco fra
macchinisti e frenatori e che questi ultimi abbiano chiuso i freni ritenendo che il treno
si fosse spezzato o avendo male interpretato gli ordini impartiti col fischio.
È una ipotesi attendibile. La chiusura dei freni veniva ordinata dai macchinisti
con "tre fischi brevi e vibrati" mentre per il completo allentamento veniva emesso "un
fischio lungo seguito da un altro breve". Più che un equivoco però la causa può essere
stata l'improvviso svenimento dei frenatori, dovuto al fumo, dopo aver chiuso i freni.
Sembra abbastanza chiaro che, quando fu fatto il tentativo di retrocedere, il
treno era frenato. La domanda che ci facciamo, ricordando che le ruote dei carri erano
fortemente sfaccettate, è se, per motivi non accertabili, i freni non fossero bloccati
ben prima della fatale fermata della galleria "delle Armi".
La potenza delle locomotive in doppia trazione può aver reso possibile la
marcia fino all'imbocco della galleria dove la pendenza era più accentuata. È stato
accertato inoltre che in galleria le locomotive a vapore hanno sempre un calo di
rendimento.
Dopo il tentativo di retrocessione, la fine.
Una tragedia tenuta nascosta a causa della guerra in corso. Dei ferrovieri di
scorta al treno si salvarono solo tre frenatori di coda e il fuochista della locomotiva di
testa perché caddero dal treno e trovarono a livello della massicciata un minimo di
aria respirabile.
63
Locomotiva 910
Balvano.
L'inchiesta continua
Articolo di Renzo Pocaterra, pubblicato in "Linea Treno",
Maggio 1995, pagine 30-31
Il libro "Un treno, un'epoca: storia dell'8017" di Mario Restaino sull'incidente
di Balvano è andato subito esaurito.
E anche l'articolo con cui "Linea treno" rievocava l'oscura tragedia avvenuta
nel marzo 1944 sulla linea Battipaglia-Potenza ha sollevato un grande interesse nei
lettori.
Torniamo quindi sull'argomento arricchendo di particolari e di
approfondimenti l'analisi di una delle più gravi e più misteriose tragedie ferroviarie
della storia.
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Ha suscitato l'interesse di numerosi lettori
la rievocazione del tragico incidente di Balvano,
pubblicata lo scorso febbraio da questa rivista.
L'oscura tragedia in cui trovarono la morte oltre
500 persone, per asfissia, nel marzo 1944 sulla
linea Battipaglia-Potenza è avvolta in un
mistero che difficilmente potrà essere del tutto
chiarito.
La nostra rievocazione si basava
essenzialmente
sul
libro
recentemente
pubblicato da Mario Restaino (Un treno,
un'epoca: storia dell'8017) frutto di un'attenta
inchiesta condotta su documenti e testimonianze
inedite e la consultazione dei pochi resoconti
pubblicati in epoche varie, da giornali e riviste.
L'inchiesta condotta dalle Ferrovie e dalle Forze
Armate Alleate non è mai stata ritrovata.
Speravamo nell'intervento di qualche
nostro lettore con ulteriori notizie. Un
contributo molto interessante ci è venuto da
Nicola Raimo, che ringraziamo, autore di un
articolo sulla vicenda, pubblicato nel novembre
1980 su Strade ferrate, una rivista edita a
Frosinone fino a dieci anni fa a cura di
appassionati di storia delle ferrovie.
Nicola Raimo ha raccolto l'importante testimonianza di Luigi Ronga, allora
fuochista sulla locomotiva di testa dell'8017, l'unico sopravvissuto del personale di
macchina perché, colpito da malore, svenne e cadde dalla macchina trovando a livello
del suolo un po' d'aria respirabile.
Secondo questa testimonianza vi sono alcuni elementi discordanti rispetto alla
versione di Restaino, da noi ripresa: il numero delle vittime, la posizione delle leve
per la marcia avanti o indietro delle due locomotive e il numero dei ferrovieri
sopravvissuti.
Sul numero delle vittime, Raimo sostiene che furono 521 e forse è la verità, ma
non è dimostrabile. C'era una guerra in corso e gli interventi di soccorso furono
affrettati e approssimativi.
Sulla questione della posizione delle leve di comando, la maggior parte delle
versioni pubblicate concorda con la tesi di Raimo, nell'affermare che la prima
locomotiva era disposta per la marcia avanti mentre nella seconda la valvola
d'inversione era disposta per la marcia indietro.
Secondo la testimonianza raccolta recentemente da Mario Restaino, ambedue
le locomotive invece erano disposte per la marcia indietro.
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Per la verità vi sono altre discordanze nei pochi racconti di chi ha avuto parte
nella vicenda, ma se consideriamo il tempo trascorso e la forte tensione di quei
momenti, la cosa non può destare meraviglia. Preferiamo soffermarci sui fatti, che
tutte le versioni sembrano accreditare:
- il treno si arrestò in galleria perché le ruote delle locomotive - ambedue a
cinque assi accoppiati - slittavano (inspiegabilmente, dice Ronga) sulle rotaie,
malgrado le sabbiere fossero normalmente in funzione e la pendenza (13 per mille)
non fosse proibitiva, fino a che il treno fu costretto ad arrestarsi;
- dopo l'arresto il treno fece un tentativo di retrocessione di pochi metri, per poi
arrestarsi definitivamente. Quasi certamente il treno era, in quel momento, frenato;
- la cattiva qualità del carbone, indubitabile, non influì quindi tanto sulla
capacità di trazione delle macchine, ma sui tempi a disposizione dei macchinisti per
affrontare l'emergenza. La galleria era quasi certamente ancora satura del fumo
lasciato dal treno precedente;
- il treno era dotato di frenatura parzialmente continua. Ciò significa che alcuni
carri erano dotati di freno continuo, il rimanente di frenatura a mano.
Oltre a questi pochi elementi sui quali tutte le versioni sembrano concordare,
vanno tenute presenti alcune disposizioni regolamentari:
- la retrocessione, nel tratto in questione, non avrebbe costituito infrazione al
regolamento. Come "estrema ratio" non era infrequente. Lo vedremo più avanti;
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- i frenatori erano tenuti, per regolamento, a chiudere i freni d'iniziativa solo in
caso di spezzamento del treno. Tale ipotesi è assai improbabile;
- il regolamento segnali prevedeva che l'ordine ai frenatori per la chiusura dei
treni veniva dato con "tre o più di tre, fischi brevi e vibrati", l'allentamento con "un
fischio lungo seguito da un altro breve".
È abbastanza inverosimile che tutti i frenatori abbiano potuto confondere questi
messaggi ai quali erano abituati.
Secondo la testimonianza di Mario Motta, il manovratore che provvide ad
allentare i freni, i carri trovati frenati erano ben tredici:
- oltre ai fischi di segnalazione rivolti ai frenatori esisteva anche un codice di
comunicazione, per mezzo del fischio, fra gli equipaggi delle locomotive in doppia
trazione.
Non è da escludere che, nella concitazione del momento, i frenatori abbiano
male interpretato i fischi di segnalazione emessi da una locomotiva per attirare
l'attenzione dell'altro equipaggio.
L'ultimo dubbio riguarda il numero dei ferrovieri sopravvissuti. Secondo
Restaino e Raimo, oltre al fuochista Luigi Ronga si salvò solo il frenatore di coda
Roberto Masullo, il primo a raggiungere la stazione di Balvano e a dare l'allarme.
Secondo la versione di Cenzino Mussa ("E la morte scese sul treno", Famiglia
cristiana 1979) si salvarono anche Giuseppe De Venuto "operaio delle ferrovie che
faceva da frenatore che viaggiava sull'undicesimo carro" e Michele Palo, frenatore
che, secondo Mussa, raggiunse per primo Balvano e diede l'allarme. Il racconto di
Cenzino Mussa riguardo ai tre frenatori è molto particolareggiato, sembra attendibile
e di prima mano, ma nulla dice in merito ai freni e nessuno, a quanto sembra, ha
raccolto la versione di questi importanti testimoni.
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Un'ultima notizia vogliamo proporre ai nostri lettori. Si tratta di una cartolina
scritta dieci anni dopo, nel 1954, ad un collega bolognese, da un macchinista di
Bologna trasferito al Deposito Locomotive di Catanzaro Marina.
A quel tempo i ferrovieri al sud scarseggiavano e le carenze venivano
compensate con trasferimenti obbligati dal nord. Il macchinista (si chiamava Ettore
Soverini) così scriveva dando sue notizie: "... come servizio non c'è male ma con
certe macchinacce che a noi ce le serbano, le 625 Caprotti non c'è neanche male, una
macchina leggera e si fa un buon servizio, ma le 476 a 5 assi accoppiati, una leva (del
regolatore, ndr) che vuole in due a girare, e si fanno dei trenacci per Crotone dove
passiamo una galleria lunga un 3 km in salita che trovi il 20 per mille, e con quei
rubiconi si fa la spinta alle volte: spesso capita di retrocedere, come è capitata a tanti,
se si comincia a slittare è già persa".
E fu persa davvero per il disgraziato equipaggio dell'8017.
Tentarono di retrocedere ma non ci riuscirono. Il treno era frenato, i perché
sono solo congetture.
E fu la morte per oltre 500 persone.
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Ricordi
Cinquecento italiani sono periti venerdì mattina per asfissia in una galleria
ferroviaria dell'Italia meridionale.
I morti sono 517. Tutto il personale ferroviario addetto al treno è deceduto,
all'infuori di un fuochista.
Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo, contrabbandieri.
Accadde là sotto Balvano
alle 0,50 del 3 marzo ’44
seicento passeggeri
il merci 8017,
abusivi,
per miseria e fame
spinti alla borsa nera
nell’ultimo viaggio
verso la morte.
Nel sonno arrivò
il muto letale monossido
con la nera fumeta di carbone
nella lugubre notte di Balvano,
la buia Galleria delle Armi,
a cinquecentoventuno
dare morte.
Cinquecentoventuno i corpi stesi
sulla banchina tra i binari
bianco sudario la neve
i militi nella conta
per un cartello,
un numero
ai morti
Né li destò a Balvano
nell’ultima tappa del treno,
lo stridulo sferragliare in frenata
nel silenzio tenebroso della campagna
tra colline fatte bianche dalla neve
ad infrangere il lividore notturno,
i seicento abusivi dormienti
nel pesante respiro
ignaro di
morte.
69
L’8017 riparte
ansimante in salita
tra gole aspre a scavalcare
il serpeggiante torrente Platano
la stretta valle, di viadotti e gallerie
ecco la prima, siam fuori, e la seconda,
ora usciamo in un passo all'aperto,
una forra profonda, ed infine
un lungo serpente nel nero
la "galleria delle armi"
tanto basta per dare a
cinquecentoventuno
e più, nel sonno
la morte.
Solo un giornale, il quotidiano napoletano Risorgimento, l'unico autorizzato
dalle autorità alleate a vedere la luce, accennò vagamente al fatto, il 7
marzo del 1944, in poche righe della sua cronaca regionale, senza
specificare né la località nella quale la tragedia era avvenuta né il
numero delle vittime.
A Torre del Greco la notizia arriva nella mattinata del giorno 3 di marzo.
Qualcosa hanno saputo alla Ferrovia ma non dicono o non sanno.
70
Corrono in tanti
affannanti alla stazione
da vasciammare e da capotorre
da santamarialabruna e dai cappuccini
di parenti e di amici a domandare
ieri sera partiti col merci
diretti ai paesi
del sud.
Forse uno è tornato
dei tanti torresi partiti.
L'avite visto a ffráteme Tatonno?
Iammo a ssèntere a Rresina,
nu cristiano è tturnato,
sul'isso s’è ssarvato.
71
Rusario
chi l’ha visto?
Steva cu Ggiacumino.
Pietose si rincorrono domande
e nomi e nomi si ripetono
ma già senza
speranza.
Me chiagno
a ffigliome Giuvannino
vintitrè l'anni ca teneva.
E ffrateme Giggino
l'avite visto?
Páteme Austino e zzizì Tatonno
stevano cu ffrateme Vicienzo
na brutta fine, nu criaturo,
sultanto riciassett’anni,
ancora nu uaglione
troppo priésto
pe mmurì.
72
L'agenzia Reuter comunica da Napoli che 500 italiani sono periti venerdì
mattina per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale.
Altre 49 persone sono degenti all'ospedale.
"Su quel treno m'ero addormentato con una mantellina militare avvolta sulla
testa. Mi sono svegliato all'ospedale di Potenza. Mi dissero che la
mantellina aveva fatto da filtro. Non ricordo altro."
Ancora un filo sottile
di pietosa speranza è rimasta.
Iammo a vveré û spitale.
Partimmo, pure a ppere,
ma io u vulesse veré
a mmaritome
Giggino
"
I’ vaco a Bbalvano.
Voglio ì a spiá â ggente
S'è salvata na certa Giulia?
Verite bbuono capità, fosse û spitale?
Tra cadaveri ammassati si cerca.
E poi: "Addi' donna Giulia.
Addio".
73
A zi' Teresina,
e ffigliama Carmilina,
teneva sulo riciannov'anni,
e ffrateme Ciccillo riciassette puvuriéllo
e ddon Mimì, zi' Armando, u nonno Errico,
e ffigliome Tatunniello, manco vint'anni
Tummaso, Carminiello, Gennarino,
tutti amici 'i vasciupontajatta,
pe nnu' murì ’i famme a ffá
sta vita 'i mmerda.
Che brutta fine
sta notte
spierti.
74
Torre piange
gli amici, i parenti,
stu lutto ce attocca mparanza
E cche brav'ommo ronn'Aniello.
E mmo cumme pozzo cchiù campá
senza a ffigliome Vicenziello,
sirici anni sulamente
troppo priésto
p’a nicissità
s'è ffatto
ommo.
Zi' Arturo
cinquant'anni
e Nnatalino riciassette.
Gerardo, cu nnammurato mio Tatonno
sti poveri giuvani scampati â uerra,
’a r’a morte sotto û sole all'Africa,
opure nfunno û mare affugati,
fuiuti ’a mano î teteschi,
pe mmuri' rurmenno,
e sparpetianno
’a r’u ggass
strafucati.
75
Aieri era u juorno
ca faceva cinquantaruianni
maritome Peppeniello
e a festa ce ha fatta
u ggass r’u treno
a Bbalvano.
Chill'era ancora na criatura
ancora n'anema 'i Ddio
quattuordici anni
Pinuccio mio puvuriello.
Nun c'è misericordia
e cch'aveva fatto?
Nu mme pozzo
rassigná.
76
77