MASSONERIA ANTICA
di Vinicio Serino
Estratto da: Siena
Editrice, Siena 2012
Segreta. Ricerche antropologiche intorno ad antiche culture , Betti
Sostiene Giacinto Amati
Secondo quanto riferisce nella sua ponderosa opera l‟erudito milanese Giacinto Amati fin dal 1292 si sarebbe
registrata, in Siena, la presenza di una “loggia discendente dalle etrusche,che maestre e fondatrici furono
delle romane, alle quali presiedevano gli stessi Edili.”1 Si tratta di una affermazione, formulata in un‟opera
del 1828 – e quindi in piena Restaurazione – che riconnetteva la perizia architettonica della città anche alla
azione di maestranze che, addirittura, avrebbero fondato le proprie competenze nella scienza costruttiva degli
etruschi – nella zona noti per le celebre – seppure mai rintracciata - tomba del re Porsenna e degli ingegneri
romani la cui perizia, come è noto, rappresentò uno dei fattori essenziali nella capacità di dominio e di
controllo del territorio esercitata dall‟Imperium.
Per altro Amati non si limita solo ad evocare la presenza di questa (antica) loggia di costruttori: precisa che si
tratta della discendente di quella società “che Hiram”, il mitico architetto al servizio del re Salomone,
“condusse alla fabbrica del Tempio”2 di Gerusalemme, il primo Tempio. Questa società – e quindi anche
quella operante in Siena, appunto modellata su quella di Hiram - “aveva i suoi gradi nel‟ammissione di quelli
che vi entravano”. Vi erano dunque “i garzoni, od inservienti, i quali passavano ad essere muratori, o scultori
ammaestrati nell‟arte di murare e tagliare le pietre, detti perciò anche maestri quando erano capaci di dirigere
un lavoro e di eseguirlo, chiamati da ciò nei documenti antichi magistri lapidices, magistri fabricae, i quali
dipendevano dagli architetti, o capi maestri, e questi poi, sotto la direzione del loro gran maestro, si
gloriavano di seguire nelle loro imitazioni,anche per quanto era nelle loro facoltà,il grande architetto
dell‟universo, padre de lumi, fonte d‟infinita sapienza.”3
Amati riferisce altresì che il capo di queste società “ne congregava i membri del corpo misterioso in una data
residenza, per ivi consultare e deliberar coi suoi fratelli d‟arte negli affari sociali, per ascrivere e accettare un
novizio, e farlo passare ai gradi superiori, a seconda del suo merito di sapere e probità, e per proporre e
isviluppare le idee sopra di un progetto che intendevasi di eseguire. Questo luogo della adunanze si chiamò
loggia, all‟esempio antico che dalle logge si soleva parlare al popolo.”4
Amati sostiene poi che, per esser ricevuto nella loggia, occorreva esser “istrutto nel catechismo sociale di
dirigere le opere a sola gloria di Dio ed al suo culto, di vivere fedele alla sua religione ed al suo principi in
1
Amati G., Ricerche storico-critiche scientifiche sulle origini, scoperte, invenzioni, e perfezionamenti fatti nelle lettere,
nelle arti e nelle scienze ,G. Pirrotta, Milano 1828, p. 24
2
Amati G., op. cit., p.21
3
Amati G., op. cit., p.22
4
Amati G., op. cit., p.22
1
qualunque forma di governo egli si trovasse, e di non agire che per il pubblico bene e con fraternevole carità
verso i (propri) compagni e con tutti i (propri) simili.”5
Queste società o compagnie, come egualmente le designa l‟Amati, erano autorizzate, da Papi, Vescovi ed
Imperatori “ad esercitare la loro nobile professione ovunque fosse loro affidata la costruzione di un edificio,
senza che il corpo dei maestri del luogo potesse loro apporre ostacolo o difficoltà di sorta alcuna”.6 Proprio a
ragione del privilegio loro conferito i componenti di queste società venivano designati come franc-macons,
ossia liberi muratori, perché godevano della massima libertà di azione, di iniziativa, di movimento.
Questo è quanto riferisce Amati. Per altro non sono state rinvenute, al momento, testimonianze – a
cominciare da quelle documentarie – capaci di corroborare tali affermazioni, di cui colpisce, in particolare,
una data: 1292, troppo precisa per essere una pura invenzione e che, per questo, dà molto da pensare. Da
dove proviene la (preziosa) informazione che, appunto, non si riferisce, genericamente, ad un periodo più o
meno vago, ma indica esattamente un anno?
Comacini o Lombardi?
Secondo la tradizione più accreditata il nucleo originale di queste maestranze di abili costruttori, veri e
propri artigiani itineranti, in qualche modo assimilabili ai più celebri clerici vagantes, sarebbe da identificare
nei c.d. Collegi dei Maestri Comacini. Non una corporazione di mestiere a carattere locale quanto, appunto,
un Confraternita cosmopolita, attiva in tutta l‟Europa ed il cui nucleo fondamentale sarebbe da ricercare
nelle valli del Comasco e lungo le sponde dei laghi che dividono l‟Italia dalla Svizzera. Forse il primo
accenno a questi magistri proviene da Plinio il giovane – nato proprio a Como - che, in una lettera
all‟imperatore Traiano, ha parole di elogio per un magister che ha realizzato, sulle sponde del lago,
un‟amena villa.
Comunque il primo, esplicito riferimento alla presenza di queste maestranze si deve all‟Editto di Rotari del
643 che, ai capitoli 144 e 145, tratta, appunto, del magister commacinus (con due emme, nel caso specifico)
e dei suoi consortes che, con lui, formano un‟impresa di muratori. Anche il successivo Editto di Liutprando,
del 713, tratta dei Comacini col suo memoratorium de mercedibus commacinorum, che costituisce un vero e
proprio tariffario riferito alle prestazioni di quelle maestranze con riferimento alle edificazione di case, forni,
camini, ponti, volte, colonne marmoree, pozzi, ivi compreso anche il celeberrimo opus spicatum, ossia il
legamento di mattoni a forma di spiga tipico dell‟antica arte muratoria romana.
Secondo molti studiosi, dunque, nelle valli del Comasco, rimaste relativamente isolate rispetto ai grandi
movimenti tipici delle c.d. invasioni barbariche, si sarebbero conservate importanti competenze proprie degli
antichi collegia romani. In particolare nel taglio della pietra – grazie anche alle cave di quei luoghi, ben note
fin dai tempi dell‟Impero – nella cottura dei mattoni e nell‟arte tessile, quest‟ultima ancora molto praticata
in loco. La denominazione Magistri Comacini, dunque, rimanderebbe alla zona del Comasco, appunto,
dall‟antica Comum.7
Questa tesi è però contrastata da altri studiosi che osservano invece come l‟aggettivo di Comum non fu, in
origine comacinus ma comensis, come appare anche nello scrittore (I-II sec. d.C.) Svetonio. Mentre “nel
basso impero e nell‟età barbarica si ha comacinus (sant‟Ambrogio, Paolo Diacono; insula comacina, forse da
neios comanicheia … del presidio bizantino)”. Il che autorizzerebbe a sostenere, appunto con riferimento al
5
Amati G., op. cit., p. 22
Amati G., op. cit., p. 22
7
Cfr. Hoede K., traduzione da Die meister von Como, R.L. Quatuor Coronati 808 , Bayreuth 1967; Merzario G.,I
maestri Comacini, Edit. Giacomo Agnelli, Milano 1893
6
2
latino del basso impero, che il termine non trova il proprio fondamento in un toponimo ma … in un attrezzo:
machiones erano infatti designati, all‟epoca, i maestri muratori, coloro che, nel proprio lavoro, si avvalevano
delle machinae, ossia delle impalcature, dei ponteggi, indispensabili per lo svolgimento della loro attività.
Dunque magistri cum machinis e, quindi, magistri commacini 8 9 …
Per altro, a complicare ulteriormente le cose, sta il fatto che, quanto meno a partire dall‟XI secolo,
maestranze provenienti dalla diocesi di Como cominciano a sciamare in molte parti d‟Italia e del Nord
Europa: il che autorizza in qualche modo a pensare ad una discendenza di coloro che lo storico dell‟arte
Mario Salmi definisce Lombardi – ossia i costruttori ed i marmorari provenienti dal lago di Como, dal lago
Maggiore e dal lago di Lugano – dai magistri comacini.
Secondo molti studiosi esistono una serie di indizi possono testimoniare la presenza di maestranze comacine.
Alcuni di questi indizi, come vedremo subito, sono rintracciabili anche a Siena e nel suo territorio.
Anzitutto l‟unità di misura, costituita dal piede di Liutprando, e che, dove impiegato, dimostrerebbe appunto
la presenza di maestranze lombarde e, probabilmente, comacine. Il piede di Liutprando era ben diverso,
anche in lunghezza … rispetto al piede franco.10 Il pes Liutprandi, secondo quanto riferisce K. Hoede,
misurerebbe cm. 43,6 e si differenzierebbe, appunto di molto, dal successivo piede carolingio pari a 34 cm.
11 Secondo la leggenda questa unità di misura sarebbe stata davvero calcata sulle (nobili) estremità del
celebre re longobardo che, in viaggio alla volta di Milano, sarebbe stato informato sulla frequenza di frodi
basate sulla unità di misura. Per mettervi fine, allora, Liutprando avrebbe posto il suo regale piede su di una
pietra, disponendo che, da allora in poi, la relativa impronta avrebbe costituito l‟unità di riferimento per ogni
transazione commerciale. E‟ evidente, per altro, che un piede di quella lunghezza sarebbe stato compatibile
con quello di un gigante mentre sappiamo, da una verifica effettuata sui probabili resti del re eseguita alla
fine dell‟800 sul suo sepolcro di Pavia, che la sua altezza, in vita, era intorno al metro e settantatre, e come
tale incompatibile con la tradizionale misura di cm 43,6. Senza contare poi che sulla determinazione della
misura del piede c‟è molta incertezza, in quanto, “nel corso dei secoli il valore del Piede di Liutprando variò
sensibilmente da luogo a luogo e da tempo a tempo, oscillando tra 392 e 544 mm.”12
Colonne ofitiche nella bassa Toscana
Appaiono invece effettivamente consone ai maestri comacini – o lombardi - come pure alle successive
maestranze lombarde, le colonne annodate, da taluni definite anche ofitiche e caratterizzate appunto da un
nodo che congiunge, l‟uno con l‟altro, i fusti di due o quattro colonne. La qualificazione di colonne ofitiche
dipende dalla interpretazione di significato del manufatto attraverso la evocazione del serpente, appunto dal
greco ophis, animale che si trova con grande frequenza sia nella mitologia mediterranee – basti pensare al
caduceo di Ermete – come pure in quella nordica, ed in particolare presso i Longobardi con il loro santo
protettore, Michele – che , tra l‟altro, possiede, molte delle prerogative simboliche di Ermete, in quanto
psicopompo – iconograficamente rappresentato appunto col drago. Il significato di questa presenza è,
verosimilmente, come suggerisce M. Eliade, da riconnettere alla natura ctonia del serpente, al suo vivere
sottoterra e, quindi, a contatto col mondo dei morti, dai quali apprende i segreti della natura. Senza contare
poi la sua straordinaria capacità di cambiare, annualmente, la pelle, ossia, simbolicamente, di rigenerarsi.
Come dire che se la colonna annodata ha, davvero, una valenza ofitica il suo significato potrebbe rimandare,
al tempo stesso, sia ai segreti della morte che a quelli della vita.
8
Macchi F., I maestri comacini. Otto secoli di storia dell’edilizia, Milano 1965;
Recht R., Il disegno d’architettura. Origine e funzioni, Milano 2001, p. 77
10
Hoede K., op. cit. p. 37
11
Hoede K., op. cit., p.37
12
Pomi B., Il piede di Liutprando. Antica unità di misura di origine longobarda, sta in Quaderni del club degli ingegneri
milanesi, n° 5, a.1998
9
3
Non sono pochi gli edifici religiosi (cattedrali, Collegiate, semplici parrocchie) che, in molti parti d‟Europa,
e soprattutto a Nord, possono vantare colonne annodate. Per lo più si tratta di opere collocabili tra il XII ed il
XIII e riferibili, per riprendere quanto sostenuto dal Salmi, a maestranze genericamente lombarde provenienti
da Como, come il maestro Biduino per la chiesa di S. Michele a Lucca; da Campione, come Anselmo
creatore della Porta Regia di Modena; da Arogno (oggi Canton Ticino), come Adamo ed i suoi figli per il
Duomo di Trento.
Colonne ofitiche, Facciata della Basilica di San Michele, Lucca
Nel territorio senese un esempio davvero notevole è offerto dalla collegiata di san Quirico d‟ Orcia, dedicata
a Quirico e Giulitta: il suo portale maggiore, ritenuto del XII secolo, è appunto caratterizzato da quattro
colonne annodate per parte, poggianti sui corpi di due leonesse.
4
Portale maggiore con le colonne ofitiche, Collegiata di San Quirico e Giulitta, San Quirico d’Orcia, Siena
Molto significativa è la rappresentazione, sull‟architrave, di due figure mostruose – draghi, serpenti? – che si
affrontano in una lotta che, per altro, oltre ad esprimere le valenze simboliche ofitiche, potrebbe essere anche
una sorta di (criptico) riferimento al serpente ouroboros, il feroce guardiano della antica mitologia
mediterranea che simboleggerebbe l‟eterno ritorno della esistenza, la rinascita dopo la morte. E che tanto
spesso ritorna nell‟ immaginario alchemico.
5
Architrave della Collegiata di San Quirico e Giulitta, San Quirico d’Orcia, Siena
Ed a proposito di questo edificio straordinario come non ricordare uno dei due portali posti sul lato destro
dell‟antica collegiata, genericamente definito “lombardo”, e caratterizzato da due colonne dalla forma di
cariatidi che poggiano su due leoni? L‟opera, che si ritiene realizzata intorno al 1288, è attribuita a Giovanni
Pisano dal momento che, sulla cuspide del portale, è riportata la scritta “Johes”, Giovanni, appunto.
6
Portale laterale, Collegiata di San Quirico e Giulitta, San Quirico d’Orcia, Siena
7
Considerata dunque la qualità dell‟opera, e dal momento che Giovanni Pisano era, in quel periodo,
impegnato a Siena, nel cantiere del Duomo, alcuni storici dell‟arte hanno attribuito proprio a lui il portale
sanquirichese. Senza per altro dimenticare che l‟antico titolo della pieve era quello di San Quirico e San
Giovanni Battista e che quindi la scritta Johes potrebbe alludere al santo protettore e non all‟architetto.
In ogni caso, al di là della indubbia qualificazione lombarda del portale, quello che interessa, dal punto di
vista delle fonti tecniche e culturali dell‟opera, se davvero va attribuita a Giovanni Pisano, è la (possibile)
ascendenza dello stesso Giovanni. Nella sua monumentale opera su “I maestri comacini” Giuseppe Merzario,
citando un lavoro di Gaetano Milanesi, grande studioso e storico dell‟arte senese ricorda che Nicola, il padre
di Giovanni non fu di Pisa, ma di Lucca, ove esisteva un contrada appellata Pulia o Apulia – collocata nel
suburbio meridionale della città - e dove tutt‟oggi esiste via per Corte Pulia: sì che il noto documento che
registra la chiamata a Siena di Nicola da parte di fra Melano, il cistercense all‟epoca operaio della Cattedrale
– requisivit magistrum Nicholam Petri de Apulia – va inteso in ben altro modo, rispetto a quanto non
avvenga di norma.13 E poi va anche considerato che a Lucca, agli inizi del „200, Pietro, padre di Nicola,
veniva educato alla scultura ed alla architettura da mastro Guidetto, che un erudito locale, Enrico Ridolfi, fa
discendere da Como e che ritiene figlio di un mastro Guido probabile artefice, nel 1188, della chiesa di S.
Maria Cortemartini, per di più ricordato da una iscrizione che termina con Guidus Maiser edificavit.”14
Dunque, attraverso Lucca, e l‟insediamento di maestri comacini – o lombardi – ivi attestato si giungerebbe a
Nicola ed al suo illustre figlio Giovanni: una ascendenza culturale, fortissima, destinata a caratterizzare, con
la potenza di un‟arte straordinaria, tempi e luoghi.
Va per altro segnalato, in un territorio non lontano da quello senese, ossia nel val d‟Arno aretino, un esempio
di colonne ofitiche, almeno all‟apparenza molto più antiche di quelle,”canoniche”, riferite al XII ed la XIII
secolo. Si tratta del pulpito della pieve romanica di Gropina, uno straordinario esempio di contaminazione
culturale “pagana” e cristiana che una scritta data all‟anno del Signore 825.
Un acuto studioso di pievi romaniche, Silvio Bernardini, ha ipotizzato, con riferimento al diverso stile della
raffigurazioni che compaiono sul pulpito, una sorta di assemblaggio che ha unito parti diverse, alcune molto
antiche – e risalenti appunto al IX secolo, tra le quali un‟arcaica sirena bifida – altri più recenti e riferibili,
appunto, alla struttura attuale della pieve che viene fissata al XII secolo. “Si direbbe, insomma, che l‟ambone
sia stato costruito con antiche parti di spoglio della chiesa primitiva (appartenenti a un fonte battesimale per
immersione? di altra origine?) con l‟aggiunta della fascia verticale e, come appoggio, delle due colonne
annodate come nell‟abside) al tempo della ricostruzione della pieve.”15
13
Merzario G., I maestri Comacini. Storia artistica di mille duecento anni (600-1800), voll. 2, Bologna 1989, pp.212-213
Merzario G., op. cit.pp.190.191
15
Bernardini S., Il serpente e la sirena. Il sacro e l’enigma nelle pievi toscane, S. Quirico d’Orcia 2000, p. 101
14
8
Ambone della pieve di San Pietro a Gropina (Ar)
9
Se la tesi di Bernardini è fondata, come ragionevolmente appare, esaminando attentamente le diverse
componenti dell‟ambone, allora resterebbe acclarato che il famoso segno delle colonne ofitiche sarebbe
comunque apparso in Toscana – in coerenza con quanto avvenuto in altre parti d‟Europa – tra il XII ed il
XIII secolo e che, quindi, gli artefici non potrebbero essere i Comacini di Rotari e di Liutprando quanto,
piuttosto, i loro successori Lombardi.
La sirena bifida, particolare dell’ambone della pieve di San Pietro a Gropina (Ar)
A Siena si venerano Quattro Santi Coronati
Comunque la presenza comacina-lombarda è attestata anche da un altro elemento che a Siena è ben presente,
quanto meno fin dall‟XI secolo: il culto dei Santi Quattro Coronati. Questi Santi, stando al Martiriologio
Romano, dal IV secolo sono commemorati come i patroni delle confraternite dei lapicidi medievali che, “in
molti casi, comprendevano anche architetti, scultori, muratori, carpentieri e tutte le maestranze che
lavoravano nelle grandi cattedrali.”16 Il luogo più antico del loro culto è la Basilica romana dei santi Quattro
Coronati, sul Celio, probabilmente in origine una ricca residenza privata, successivamente convertita in
luogo di culto cristiano, sicuramente prima del 499. La vicenda di questi quattro personaggi, trattandosi,
come molto spesso avviene per i santi del primo periodo dell‟Era Cristiana, risulta estremamente complessa,
nebulosa e, per certi aspetti, contraddittoria. Secondo una Passio del VI secolo Claudio, Castorio,
Simproniano e Nicostrato erano quattro soldati romani della Pannonia diventati abili scultori e marmorari e
convertiti al Cristianesimo, ai quali si era affiancato un aiutante, Simplicio che, a sua volta, si era convertito.
L‟imperatore Diocleziano, che aveva apprezzato l‟abilità dei quattro, volle loro affidare la realizzazione di
una statua al dio Esculapio: ma i quattro, di fronte alla richiesta, si dimostrarono riluttanti ed i loro compagni,
che li avevano visti fare spesso il segno della croce, li denunciarono come cristiani. Portati al cospetto
dell‟Imperatore dichiararono la loro fede in Cristo e, contestualmente, si rifiutarono di eseguire il simulacro
del dio della medicina. Furono allora rinchiusi vivi in casse di piombo e gettati nel fiume: era l‟8 di
16
Dionigi R., Santi Quattro Coronati. Bibliografia e iconografia, San Giuliano milanese 2003, p.25
10
Novembre, da allora in poi festa a loro consacrata. Quarantadue giorni dopo un certo Nicomede ne ripescò i
corpi che nascose in una fossa.
Per altro, la pia vicenda non si esaurisce qui: si complica, anzi. Dopo undici mesi da quell‟evento
Diocleziano ordinò di costruire, presso le terme di Traiano, un tempio sempre dedicato ad Esculapio al quale
tutti i militi romani avrebbero dovuto sacrificare. Quattro corniculari, ossia soldati addetti al presidio
giudiziario, si rifiutarono e furono allora flagellati fino alla morte. I loro corpi insepolti ebbero poi una pia
sistemazione grazie all‟intervento di S. Sebastiano e di papa Milziade che dettero loro sepoltura nel cimitero
dei Santi Marco e Marcelliano, in località “Comitatum ad duas lauros”. Poiché se ne ignorava il nome
furono appellati Quattro Coronati, ossia incoronati dalla palma del martirio. Nel VII secolo, quei quattro
martiri furono confusi con altri soldati romani vissuti nello stesso periodo e sepolti nel cimitero di Albano,
ossia Secondo, Vittorino, Carpoforo e Severiano.17 Successivamente il Martiriologio, per motivi ignoti a chi
scrive, cambiò il nome di Secondo con quello di Severo. In un documento della fine del XV secolo l‟Arte
della Pietra di Siena invoca la protezione “dell‟onnipotente e magno Iddio et della gloriosa sempre Vergine
Maria et de‟ beati santi quattro Incoronati, Severo, Severiano, Carpoforo, Vittorino, avocati dell‟arte
nostra.”18
Dunque, rientrano sub nomine quattuor Coronatorum i cinque scultori della Pannonia, ossia i quattro
originali Claudio, Castorio, Simproniano e Nicostrato, ai quali va aggiunto il loro aiutante Simplicio. Ed i
quattro corniculari, ossia, appunto, Secondo, poi diventato Severo, Vittorino, Carpoforo e Severiano.
La Chiesa senese, per parte sua, ha riconosciuto questa ricorrenza, come attesta l‟ Ordo Officiorum, quanto
meno fin dal XII secolo, proprio alla data dell‟8 di Novembre: il che autorizza a pensare a pratiche di culto
legate a questi quattro santi, molto antiche. E poiché, come abbiamo avuto modo di vedere, si tratta dei
protettori delle confraternite dei lapicidi – intese in senso allargato, come suggerisce Renzo Dionigi – è
verosimile che la presenza di queste confraternite in città, e segnatamente nella realizzazione della Cattedrale
– anzi, delle Cattedrali – risalga molto indietro nel tempo.
Per altro, come è noto, proprio il primo altare a sinistra, entrando in Santa Maria della Scala è dedicato ai
Quattro Coronati.
Si hanno notizie di quest‟altare fin dal 1368 quando l‟Arte dei maestri di pietra delibera di celebrare la
propria festa in Duomo e di far ivi erigere il proprio altare naturalmente dedicato ai Santi Quattro Coronati.
E‟ presente Giovanni di Cecco, che sarà poi capomastro dell‟Opera del Duomo. “Ibi pinxerunt” Paolo di
Fredi 1374; Martino di Bartolomeo 1401; Paolo di Giovanni Fei ,1410.
Riferisce, in proposito, Enzo Carli, insigne storico dell‟arte senese e pisana, che il dì 3 Settembre dell‟anno
del Signore 1410 il pittore Paolo di Giovanni Fei riceveva un pagamento per il suo polittico raffigurante la
“Madonna e i quattro santi Coronati”.19 In quegli stessi anni, ossia nel 1408, Nanni di Banco realizzava a
Firenze il suo Tabernacolo dei Maestri di pietra e di legname raffigurante, in alto, i Santi Quattro Coronati
mentre, nel bassorilievo sottostante erano riprodotti i quattro al lavoro. Più precisamente, nella parte sinistra
un muratore eleva un muro: davanti a lui, un marmoraio, col suo trapano, attende alla realizzazione di una
colonna; nella parte sinistra, invece un lapicida con compasso e squadra, realizza un capitello, mentre il suo
compagno scolpisce un putto con un picconcello o picchiarello. Spiccano, appesi al muro, gli strumenti più
tipici dell‟arte muratoria, sia operativa che speculativa, ossia l‟arcipendolo, il compasso, la squadra.
17
18
19
Cattabiani A., Santi d’Italia. Vite leggende iconografia feste patronati culto, Mondadori, Milano 1993, pp. 806-809
Milanesi G., Documenti per la storia dell’arte senese, Onorato Porri, Siena 1854, p.131
Carli E., Il Duomo di Siena, Firenze 1979, p. 85
11
Nanni di Banco, Tabernacolo dei Maestri di pietra e di legname, chiesa di Orsanmichele, Firenze
All‟interno del museo della chiesa di Orsanmichele sono conservate la statue dei quattro Coronati – in specie
si tratta di Casorio, Claudio, Sempronio e Nicostrato – che, in origine, erano collocate sulla facciata esterna.
12
I quattro santi Coronati, museo della chiesa di Orsanmichele, Firenze
Una cinquantina di anni dopo il papa senese Pio II, Enea Silvio Piccolomini, visitava, come attesta una
scritta ancora leggibile, la “butiga” dei marmorari che lavoravano nell‟Opera del Duomo: questa “butiga” era
appunto allogata sotto le arcate del Duomo Nuovo e fu lì, con ogni probabilità, che Jacopo della Quercia creò
la sua celeberrima Fonte Gaia. Era una chiara testimonianza della straordinaria rilevanza che il papa
umanista riservava alle ferventi attività di quelle maestranze
13
Per altro, l‟opera senese di Paolo di Giovanni Fei fu successivamente tolta per far posto a quella di
Bartolomeo Neroni detto il Riccio, genero del Sodoma: la allogazione avvenne il 17 agosto del 1534.
L‟opera rappresentava “la Madonna seduta col Bambino adorata da due angioli e fiancheggiata dai Santi
Quattro, ciascuno dei quali recanti in mano gli utensili del mestiere: due di loro stavano entro la nicchia nel
vano dell‟altare, mentre nel piccolo semicatino sovrastante la nicchia della Madonna era raffigurato il
martirio dei santi immersi in una caldaia bollente.”20
Bartolomeo Neroni detto il Riccio, I Santi Quattro Coronati, affresco già della Cattedrale di Siena
Nella seconda metà del „600 la Cattedrale di Siena testimonia ancora l‟importanza di questa confraternita
legata all‟Arte della pietra con l‟installazione, al posto dell‟opera del Riccio,del grande quadro, tuttora ivi
collocato, del pittore Francesco Trevisani, a lui commissionato dal cardinale Flavio Chigi.
Cantieri, fabbriche, logge e il Tempio di Salomone
Una domanda si pone, a questo punto. Stante questa pratica del culto dei Quattro Coronati, attestata
dall‟Ordo a partire almeno dal XII secolo, chi erano coloro che possono essere compresi in questa eletta
schiera che tanto ha contribuito a “fare” la storia dell‟arte senese? A quali modelli culturali si rifacevano? E
si trattava di modelli culturali unici e condivisi? Come erano organizzati e secondo quali modalità? Esisteva,
all‟interno della loro arte, una struttura che, per quanto attiene la posizione dei capi verso le maestranze di
più basso rango e, in generale, l‟organizzazione del lavoro, può ricordare o essere accostata a quanto riferito
da Amati sulla presenza di una Loggia di franc-macons a Siena fin dal 1292?
Difficile rispondere anche a ragione della scarsità delle fonti a nostra disposizione. Sulla organizzazione del
cantiere medievale possiamo comunque ricorrere ad alcune significative fonti. Anzitutto ad una serie di
20
Carli E., op. cit., p.136
14
manoscritti del XV secolo che descrivono, anche con dovizia di particolari, le attività lavorative che
impegnavano le maestranze. Significativo, da questo punto di vista, il celebre Livre d‟ ore del Maestro del
Duca di Bedford, nel quale sono, tra l‟altro, rappresentate, la costruzione dell‟arca di Noè e la elevazione
della torre di Babele.
In ambedue le immagini l‟ignoto artista miniatore, che lavorò per il Duca di Bedford Giovanni di Lancaster
in un periodo compreso intorno agli anni ‟30 del XV secolo, presenta, con modalità all‟apparenza ingenue
ma di grande effetto, il lavoro all‟interno di un cantiere medievale. Nella immagine dell‟arca Noè un maestro
carpentiere dirige le proprie maestranze impegnate nei compiti più diversi, dalla segatura delle travi, alla loro
piallatura, alla successiva collocazione con tanto di maglietto e di chiodi.
15
Master of the Duke of Bedford, Costruzione dell’Arca, dal Libro delle Ore del Duca di Bedford
Nella costruzione della torre di Babele, invece, sono manovali, scalpellini, muratori ritratti mentre, con la
massima dedizione, levano quella straordinaria costruzione, richiamata da un celebre passo del Genesi e
costruita “di mattoni, in vece di pietre e di bitume, in vece di calce.”21
21
Genesi, XI, 4
16
Master of the Duke of Bedford, Costruzione della Torre di Babele, dal Libro delle Ore del Duca di Bedford
Nessun riferimento alla sua forma suggerisce il racconto biblico: eppure quella mitica torre viene
costantemente raffigurata – ed il minatore del Livre d‟ore del duca di Bedford non costituisce, da questo
punto di vista, una eccezione - con una singolare forma a spirale che, in qualche modo, richiama le celebri
ziqqurat di area mesopotamica, appunto realizzate con l‟impiego di mattoni – per altro crudi e non cotti come
quelli del racconto biblico - di bitume e di fasci di canne legate.
17
Proprio negli anni in cui operava il maestro del duca di Bedford realizzava il suo capolavoro un altro
maestro, questa volta fiammingo, Jan van Eyck che, nella sua Santa Barbara, proponeva un‟altra importante
raffigurazione di cantiere medievale in fermento, impegnato nella costruzione della torre, come è noto
immagine iconograficamente legata al culto della santa, protettrice degli architetti. La rappresentazione di
Van Eyck, per altro, riveste una grande rilevanza dal punto di vista della vita del cantiere perché riproduce
una vera e propria loggia dei lavoranti, un modesto riparo, costituito da un semplice tetto di canne, aperto,
sorretto da pali di legno, destinato a ricovero degli attrezzi e, verosimilmente, a spazio dedicato alle riunioni
della confraternita.
Curioso. Anche a Siena,nella sala detta del Pellegrinaio, dell‟antico Spedale di Santa Maria della Scala,
esiste una straordinaria citazione di cantiere medievale. Si tratta della celebre “Limosina del vescovo”, opera
di Domenico di Bartolo, realizzata nel 1443, e dove, a dispetto del (fuorviante) titolo, viene riprodotto un
cantiere edile in piena attività, con in primo piano un operaio inginocchiato che regge un compasso
semiaperto ed il cui ventre è coperto da un grembiule bianco. L‟operazione è quella della cerchiatura di un
quadrato, comunemente nota come circolatura del quadrante dal momento che le due aste del compasso
aperto toccano esattamente i due lati opposti di una mattonella quadrata. Ora è noto che, dai tempi delle
prime speculazioni della civiltà greca, il quadrato rappresenta, simbolicamente, il cosmo, composto, non a
caso, dei quattro elementi primordiali, ossia terra, acqua, aria e fuoco. Ed è altrettanto nota l‟importanza che
Pitagora – riconosciuto e rispettato nel medioevo come padre della aritmetica - riservava al numero quattro
e, segnatamente, alla santa Tetraktys, illustrata dalla formula numerica 1+2+3+4=10 e sulla quale si prestava
solenne giuramento. E‟ (relativamente) facile osservare con R. Guenon come questa formula numerica dia
luogo ad una relazione che unisce il quaternario al denario, il quattro al dieci, il sistema, decimale, appunto,
che osserva una numerazione già nota ai più antichi popoli mediterranei e che trova una sorta di anatomica
conferma, come aveva già osservato lo stesso Aristotele, nelle dita delle mani e dei piedi di ogni individuo.
Domenico di Bartolo, La limosina del Vescovo, spedale di Santa Maria della Scala, Siena
18
Il cerchio, invece, rappresenta Dio, come afferma Timeo, seguace di Pitagora, secondo il quale il suo centro
è ovunque e la sua circonferenza in nessuna parte. Per traslato, quindi, il cerchio rimanda al cielo – la dimora
degli dei – che si distingue – ma non è detto si contrapponga – alla terra quadrata. E se il quaternario-terra
viene considerato dinamicamente, ossia “diviso in quattro parti uguali da una croce formata da due diametri
ortogonali”, ecco che appare l‟operazione che (forse) compie l‟operaio della Limosina, la circolatura del
quadrante. E‟ la croce – ovvero il compasso – che, “ruotando intorno al suo centro, genera la circonferenza
che, con il centro, rappresenta il denario”, ossia “il ciclo numerico completo”. E‟ appunto questa la
circolatura del quadrante, “rappresentazione geometrica di ciò che esprime aritmeticamente la formula
1+2+3+4+=10; inversamente, il problema ermetico della quadratura del cerchio, … non è altro se non ciò
che rappresenta la divisione quaternaria del cerchio, che si suppone dato, con due diametri ortogonali, e si
esprimerà numericamente con la stessa formula, scritta però in senso inverso: 10= 1+2+3+4, per mostrate
che l‟intero sviluppo della manifestazione è così ricondotto al quaternario fondamentale.”22
Domenico di Bartolo, La limosina del Vescovo, il “Vescovo”, l’operaio, l’architetto particolare, spedale di
Santa Maria della Scala, Siena
Sembra quasi che Domenico di Bartolo, con questa “citazione” della circolatura del quadrante abbia, in
qualche modo,inteso evocare Pitagora e la sua idea cosmologica di un circolo-cielo (sede del trascendente)
distinto ma non separato dal quadrato-terra (sede dell‟immanente) che, proprio grazie alla divina geometria
parrebbero trovarsi compiutamente nel tempio che fa da sfondo all‟operoso cantiere.
Accanto all‟operaio che impugna il compasso, un altro operaio accatasta una pila di mattoni che, grazie ad
una scala fatta di nove gradini, vengono portati a destinazione da un terzo operaio che si serve, all‟uopo, di
una grande cesta. I suoi compagni, ritti su di una impalcatura di legno, sono tutti compresi nel loro lavoro.
Forse il numero dei gradini, nove, appunto, potrebbe non essere casuale ma simbolico: il nove è il numero
22
Guenon R., La Tetracktys e il quadrato di quattro, sta in Simboli della Scienza sacra, Milano 1984, p. 100
19
della gestazione, il tempo della “germinazione” al termine del quale si manifesterà un essere umano. Il tempo
della vita.
Altre due osservazioni merita questa opera straordinaria. Una di ordine tecnico: si apprezza, qui, la presenza
di un ponteggio ad andamento verticale, del tutto indipendente dall‟edificio in corso di innalzamento. E
questo a differenza di quanto avveniva di norma, con il cantiere che “saliva” insieme alla levata dei muri sui
quali, in apposite fessure, ancora oggi visibili in molti edifici della città, venivano inserite travi di sostegno
che permettevano il trasporto del materiale e la sua posa. E poi un‟altra considerazione, di alta valenza
simbolica: proprio alle spalle dei due operai impegnati con la catasta di mattoni depositata avanti a loro, si
notano due personaggi. Ambedue ritratti mentre, con grande reverenza, si levano il cappello avanti ad un
corteo di signori a cavallo che affollano il cantiere. Tra questi “signori” quello in primo piano, che regge una
splendida cavalcatura imbizzarrita è, di norma, identificato col vescovo che, appunto, con tutto il proprio
seguito sarebbe giunto a riscuotere – o a pagare? – la famosa “Limosina”. Mentre il personaggio con la cuffia
che pone – o preleva - un sacchetto – di monete? – sulla – o dalla? – mano di un giovane dalla lunga veste
azzurrina dovrebbe essere il Rettore dell‟Ospedale. Ma, appunto, forse il personaggio più interessante
sembrerebbe essere proprio questo giovane dalla veste azzurrina a metà della quale si nota il segno di … un
compasso.
Come è noto il compasso è costantemente accostato, nella iconologia medievale, alla idea dell‟architetto
costruttore. Famosissima è, da questo punto di vista, l‟immagine di Dio-Cristo Gesù architetto del mondo
che, appunto, impugnando il compasso imprime il proprio (armonico) ordine al caos primordiale.
20
Cristo architetto del mondo, miniatura dalla Bible moralisée, XIII secolo
21
Emblematico è, in proposito, quanto sostiene Cesare Ripa secondo il quale il compasso rappresenta “per se
stesso quasi sempre misura, perché è il più comodo istrumento che sia in uso per misurare le cose, per non
avere in sé segni o termini fissi, e potersi adattare a tutti i segni e termini ai quali si stende con le punte …
Significa ancora il compasso infinità, e perché il suo moto in circolo non ha termine, e perché ad infiniti
termini si può adattare, e perché operando sta insieme in quiete ed in moto, è uno e non uno, congiunto e
disgiunto, acuto ed ottuso, acuto dove si disgiunge, ottuso dove si unisce.”23
Sulla sfondo dell‟affresco, poi, si levano le straordinarie fattezze di un Tempio che potrebbe anche essere
quello, fatidico, di Salomone, il sacro ricettacolo del Santo dei Santi di cui il Libro dei Re riporta dimensioni
e struttura.
Domenico di Bartolo, La limosina del Vescovo, sullo sfondo la grande cupola, Spedale di Santa Maria della
Scala, Siena
“Alla costruzione del tempio del Signore fu dato inizio l'anno quattrocentottanta dopo l'uscita degli Israeliti
dal paese d'Egitto, l'anno quarto del regno di Salomone su Israele, nel mese di Ziv, cioè nel secondo mese.
Il tempio costruito dal re Salomone per il Signore, era lungo sessanta cubiti, largo venti,alto trenta.
23
Ripa C., Iconologia, Milano 1993;
22
Davanti al tempio vi era un atrio lungo venti cubiti, in base alla larghezza del tempio, ed esteso per dieci
cubiti secondo la lunghezza del tempio.
Fece nel tempio finestre quadrangolari con grate.
Intorno al muro del tempio fu costruito un edificio a piani, lungo la navata e la cella. Il piano più basso era
largo cinque cubiti, quello di mezzo sei e il terzo sette, perché le mura esterne, intorno, erano state costruite a
riseghe, in modo che le travi non poggiassero sulle mura del tempio. Per la sua costruzione si usarono pietre
lavorate e intere; durante i lavori nel tempio non si udì rumore di martelli, di piccone o di altro arnese di
ferro.
La porta del piano più basso era sul lato destro del tempio; per mezzo di una scala a chiocciola si passava al
piano di mezzo e dal piano di mezzo a quello superiore. In tal modo Salomone costruì il tempio; dopo averlo
terminato, lo ricoprì con assi e travi di cedro.
Innalzò anche l'ala laterale intorno al tempio, alta cinque cubiti per piano; la unì al tempio con travi di cedro.
E il Signore parlò a Salomone e disse: "Riguardo al tempio che stai edificando, se camminerai secondo i
miei decreti, se eseguirai le mie disposizioni e osserverai tutti i miei comandi, uniformando ad essi la tua
condotta, io confermerò a tuo favore le parole dette da me a Davide tuo padre. Io abiterò in mezzo agli
Israeliti; non abbandonerò il mio popolo Israele". Terminata la costruzione del tempio Salomone rivestì
all'interno le pareti del tempio con tavole di cedro dal pavimento al soffitto; rivestì anche con legno di cedro
la parte interna del soffitto e con tavole di cipresso il pavimento. Separò uno spazio di venti cubiti, a partire
dal fondo del tempio, con un assito di tavole di cedro che dal pavimento giungeva al soffitto, e la cella che ne
risultò all'interno divenne il santuario, il Santo dei santi. La navata di fronte ad esso era di quaranta cubiti. Il
cedro all'interno del tempio era scolpito a rosoni e a boccioli di fiori; tutto era di cedro e non si vedeva una
pietra. Per l'arca dell'alleanza del Signore fu apprestata una cella nella parte più segreta del tempio.” 24
E‟noto che il Tempio di Salomone, il c.d. Primo Tempio, che verrà distrutto nel 586 a.C. dai Babilonesi, si
ispira fortemente al modello fenicio, come d‟altra parte fa realisticamente presumere il fatto che gran patron
della operazione fu Hiram, re di Tiro. E grazie all‟alleanza con lui, “in ogni tempo amico di David”, che
Salomone potrà realizzare quell‟opera straordinaria. Hiram, infatti, mise a disposizione di Salomone il
prezioso legname di cedro del libano, e quello di abete, “quanto ne volle”, come pure le grandi pietre
necessarie per le fondamenta del Tempio. Ma non si limitò solo a questo. Mandò a Salomone “un uomo
esperto, pieno di saggezza, Hiram-Abif, figlio di una donna della tribù di Dan e di un padre di Tiro.”
Sapeva “lavorare l'oro, l'argento, il bronzo, il ferro, le pietre, il legno, i filati di porpora, di violetto, di bisso e
di cremisi … eseguire ogni intaglio e concretare genialmente ogni progetto gli venga sottoposto.” Egli,
aggiungeva il re di Tiro, “lavorerà con i tuoi artigiani e con gli artigiani del mio signore Davide tuo padre.
Ora il mio Signore mandi ai suoi uomini il grano, l'orzo, l'olio e il vino promessi.” Aggiungeva,
concludendo:”Noi taglieremo nel Libano il legname, quanto te ne occorrerà, e te lo porteremo per mare su
zattere fino a Giaffa e tu lo farai salire a Gerusalemme”.25
Bene, considerato il testo biblico, torniamo ora all‟affresco di Domenico di Bartolo. Non vi è dubbio che
l‟edificio sullo sfondo, le cui “architetture”, è stato osservato, “sono un misto di elementi gotici e
rinascimentali”26, non riproduca certo le fattezze dell‟antica Beit HaMikdash, ovvero Casa della
santificazione, ma potrebbe trattarsi di una (personale) rielaborazione – appunto ricca di elementi gotici e
rinascimentali – di quello che, all‟epoca, a partire dalle Crociate, poteva essere considerato il Tempio di
24
I Re, 6: 1-16
Cronache, II, 2: 12-15
26
Bellucci G., Torriti P., Il Santa Maria della Scala in Siena. L’Ospedale dai Mille anni, Genova 1991, p.83
25
23
Salomone, ossia la Cupola della roccia di Gerusalemme. Una moschea costruita tra il 687 e il 691, ad opera
del Califfo ʿAbd al-Malik ibn Marwān, dalla caratteristica, e spettacolare, cupola d'oro.
La cupola della Roccia, Spianata del Tempio, Gerusalemme
Un luogo sacro ai musulmani i quali credono che dalla roccia al centro della moschea Maometto abbia
iniziato il suo famoso viaggio notturno verso le sommità celesti. Su quella stessa roccia poi, il padre Abramo
avrebbe acconsentito al sacrificio di suo figlio Isacco prima di venir fermato dalla mano di Dio. Si sa che alla
edificazione della Cupola della Roccia lavorarono maestranze bizantine che sembrano essersi ispirate al
martyrium, spazio per la conservazione e la venerazione delle sante reliquie dei martiri. Non è improbabile
che il modello di riferimento del martyrium fosse il Pantheon, costruito da Augusto; recuperato, dopo un
rovinoso incendio da Adriano; riciclato come chiesa cristiana nel VII secolo col nome di Sancta Maria ad
Martyres. Marguerite Yourcenaur fa dire al “suo” Adriano: “Volli che questo santuario di tutti gli dei
rappresentasse il globo terrestre e la sfera celeste, un globo entro il quale sono racchiusi i semi del fuoco
eterno, tutti contenuti nella sfera cava.”
24
Pantheon, sezione longitudinale
E‟allora plausibile pensare che quell‟edificio così singolare, realizzato nel Pellegrinaio da Domenico di
Bartolo, rappresenti una sorta di citazione immaginata del Tempio di Salomone suscitato attraverso la
Cupola della Roccia gerosolimitana e il Pantheon Romano. Se questa (mera) ipotesi fosse fondata, allora, si
potrebbe riconoscere nel giovane architetto con la veste cinerina Hiram Abif e nel signore in sella
dell‟imbizzarrito cavallo non un (anonimo) vescovo ma Salomone figlio di David … Nel qual caso, allora, il
sacchetto di verosimili monete posto tra la mano dell‟Architetto e quella del Rettore non sarebbe più una
(anonima) “limosina” quanto, piuttosto, il compenso corrisposto per l‟opera, anzi per l‟opus, il capolavoro.
Bologna, A.D. 1248: Statuti e Regolamenti dei maestri del muro e del legname
Abbiamo, sinteticamente, illustrato l‟impegnativo lavoro svolto dalle maestranze raccolte nell‟Arte della
Pietra. Verifichiamo ora le norme che regolamentavano questa attività, stabilendone l‟impostazione
organizzativa interna; disciplinando i rapporti tra i diversi livelli dei lavoranti; fissando quanto dovuto, sia in
termini finanziari che devozionali, alla santa Chiesa; impegnando alla lealtà nei confronti della autorità
pubbliche del luogo. E‟ allora preliminarmente necessario concordare su alcune denominazioni che
ricorreranno. Anzitutto fabbrica, che designa la struttura amministrativa del cantiere, costituita
principalmente dalle persone che dirigono i lavori; poi cantiere, ossia l‟insieme delle maestranze addette ai
lavori di costruzione dell‟edificio; infine loggia, ovvero “il luogo nel quale il cantiere trova riparo (capanne,
case, ricoveri o strutture di lavoro autonome rispetto a qualsiasi altra struttura di lavoro urbano).”27
27
Causarano M. A, LA CATTEDRALE E LA CITTÀ. IL CANTIERE DEL DUOMO E LO SVILUPPO URBANO A SIENA TRA XI E XIV SECOLO, IN LA
CATTEDRALE E LA CITTÀ, PORTALE DI ARCHEOLOGIA, MEDIEVALARCHEOLOGY.UNISI.IT;
25
La Carta di Bologna, ossia gli Statuta et ordinamenta societatis magistrorum muri et lignamiis risalente al
1248, disciplina minuziosamente le attività dei maestri di muro e di legname. E‟ redatto in latino, da un
notaio bolognese, in data 8 agosto 1248 su disposizione del Podestà Bonifacio De Cario: attualmente è
conservato presso l'Archivio di Stato di Bologna. Pubblicato già nel 1899 da A. Gaudenzi nel "Bollettino
dell'Istituto storico Italiano", in un saggio dal titolo, “Le Società delle Arti in Bologna. I loro statuti e le loro
matricole”, è stato, per quasi un secolo, sostanzialmente ignorato, e solo di recente riconosciuto come il
(probabile) più antico documento che tratta il tema dell‟Arte della Pietra e, quindi, della c.d. Massoneria
Operativa.
La carta di Bologna precede di circa un secolo e mezzo quello che era già ritenuto il più antico documento in
materia, ossia il c.d. Poema Regius del 1390, che riguardava le Costituzioni dei magistri anglosassoni, le
quali, a loro volta rimandavano ad una regolamentazione ancora più antica, quella del Re Altestano, risalente
alla fine del X secolo e mai rinvenuta. 28
La Carta si apre con una invocazione al nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito Santo. E continua:
“Questi sono gli Statuti e i Regolamenti della Società dei maestri del muro e del legno, istituita in onore di
nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Maria Vergine e di tutti i Santi e per l'onore e la prosperità della
Città di Bologna e della Società dei maestri predetti, fatto salvo l'onore del Podestà e del Capitano che la
governano ora e che ci saranno in futuro e fatti salvi tutti gli Statuti e i Regolamenti del Comune di Bologna,
istituiti e da istituirsi. E che tutti gli Statuti sotto riportati abbiano vigore da oggi in avanti anno del Signore
1248, sesto dell'indizione, l'8 di Agosto.”
Prosegue quindi con un solenne giuramento di fedeltà alle autorità cittadine. “Io, maestro del muro e del
legno, che sono o sarò sottoposto a quest'Arte dei maestri predetti per l'onore di nostro Signore Gesù Cristo e
della Beata Maria Vergine e di tutti i Santi e per l'onore del Podestà e del Capitano che governano ora e che
ci saranno in futuro e per l'onore e la prosperità della città di Bologna, giuro di sottomettermi e rispettare gli
ordini del Podestà e del Capitano di Bologna”.
Continua con l‟impegno alla obbedienza dei vertici della Societas, agli ordini provenienti dai due Massari,
corrispondenti ai nostri Rettori – uno per l‟arte della pietra, l‟altro per quella del legno - e dai Ministeriali
della Società - ossia i collaboratori diretti del Massaro, dal latino minister, servo, coadiutore - “per l'onore e
la prosperità della Società stessa”, nonché “di rispettare e conservare nella prosperità la detta società e i
membri di essa e di osservare e rispettarne gli Statuti e i Regolamenti … sia come sono ora che come
saranno in futuro, fatti salvi gli Statuti del Comune di Bologna …“
Il giurante si impegnava altresì ad accettare incarichi di governo nella Societas; a proteggere ed essere leale
verso la Societas stessa ed i propri membri; a obbligarsi ed a rendere obbligatorie “le sanzioni comprese
nello Statuto”. Si disponeva poi che il Massaro fosse “tenuto nel termine previsto dallo Statuto e sotto pena
di un'ammenda di venti soldi Bolognesi a mostrare e a consegnare al Massaro suo successore nell'Assemblea
della Società, tutte le ammende, i beni o le garanzie della Società … e tutti i documenti e gli atti relativi alla
Società“.
Inoltre si stabiliva che i Controllori dei Conti - inquisitores - fossero “tenuti ad investigare su ciò” – ossia
sul passaggio di consegne da un massaro all‟altro – “e ad infliggere un'eventuale ammenda tramite
l'Assemblea della Società, a meno che quello sia stato trattenuto per una decisione di tutto il Consiglio della
Società, o della sua maggioranza, o per causa giusta”.
28
Bonvicini E., Massoneria antica. Dalla «Carta di Bologna» del 1248 agli «Antichi Doveri» del 1723, Roma, Atanor,
1989, pp.15-18
26
Per quanto riguarda il luogo di riunione degli associati la carta stabilisce, all‟art .III, l‟obbligo di
partecipazione “per quante volte … sarà comandato o ordinato …” senza specificare la denominazione di
quel luogo che, tecnicamente, dovrebbe essere la loggia-ricovero degli uomini e degli attrezzi. Si affianca a
questa disposizione quella che vieta disturbi o grida quando “qualcuno parla o fa una proposta all‟assemblea
dei maestri” (art. XXVI).
Ci sono poi una serie di disposizioni molto precise per quanto riguarda i rapporti tra gli associati:
a) ”nessun maestro deve nuocere ad un altro maestro nel lavoro … accettando un lavoro a prezzo prefissato,
dopo che esso sia stato assicurato ad un altro e siglato col palmo della mano …” (art. VIII);
b) ogni maestro che ne assuma un altro al suo servizio è tenuto a pagarlo, “a meno che non sia il Ministeriale
o il Massaro della Società che metta questo maestro al lavoro per il Comune di Bologna”(art. XV);
c) ogni maestro è tenuto al cero per i defunti ed alla visita al socio defunto quando sarà stato convocato (artt.
XVI e XVII);
d) i Ministeriali sono tenuti a fare visita ai soci ammalati e a prestare loro assistenza. In caso di morte di un
socio indigente “la Società lo faccia seppellire onorevolmente a sue spese” (art. XVIII).
E poi, ancora, ci sono disposizioni di tutela degli apprendisti (discipuli), il cui “contratto” non può comunque
essere inferiore ai quattro anni, con diritto ad un paio di focacce a settimana, un paio di capponi a Natale, e
venti soldi bolognesi entro cinque anni (art. XXX). Senza contare che il magister è tenuto, entro due anni, a
far accogliere l‟apprendista nella Società, pena una contravvenzione di venti soldi (art. XXXIII).
Infine le modalità d‟ingresso, che prevedono l‟obbligo della “benedictio”, che comunque non può essere
chiesta più di una volta, pena una contravvenzione di sei soldi bolognesi(art. XXI). Si prescrive inoltre che la
benedictio non possa essere ricevuta per decisione dell‟interessato, pena anche qui una ammenda di tre
denari. La benedictio dunque va conferita per volontà della Societas (art. XXII). Ed è dunque intesa come
condizione irrinunciabile per l‟ammissione alla società sì che viene tradotta dagli studiosi col termine,
particolarmente evocativo e pregnante, di “iniziazione”.
“L‟iniziazione”, dice lo storico delle religione nonché cardinale di Santa Romana Chiesa Julien Ries,”opera
un passaggio da uno stato ad un altro stato … da un genere di vita ad un nuovo genere di vita. E‟ all‟origine
di una serie di mutamenti che introducono l‟iniziato in una comunità … in un mondo di valori, in vista di una
missione … Ogni iniziazione si compie con dei riti che sottintendono l‟esperienza esistenziale del sacro
vissuta dall‟ homo religiosus.”29
Infine non vi è riferimento, nella Carta di Bologna, alla festa dell‟8 novembre, come si è visto solennità dei
Quattro Coronati, come del resto non c‟è al Patrono cittadino. Il che fa presumere che queste celebrazioni,
per altro sicuramente tenute, fossero disciplinate da una sorta di regolamento inter corpora che doveva
riguardare le diverse corporazioni cittadine.30
Anno del Signore 1441: a Siena c’è un Breve, ed altre stipulationes …
Circa un secolo e mezzo fa, Gaetano Milanesi pubblicava, nei Documenti per la Storia dell‟Arte senese, il
“Breve dell‟arte de‟ Maestri di Pietra senesi” dell‟anno 1441. Lo stesso Milanesi spiegava, in nota al suo
29
30
Ries J., Voce Iniziazione, Dizionario delle Religioni, a cura di P. Poupard, Mondadori, Milano 2007, p.915
Bonvicini E., op. cit., pp.201-211
27
lavoro, che l‟ originale del Breve era andato perduto e che al suo tempo non esisteva “che una copia
scorrettissima fatta nel secolo XVIII, la quale si conserva nella Biblioteca pubblica di Siena.”31
Alcune delle diposizioni di questo Breve sono simili a quelle della Carta di Bologna, per altro più antica di
due secoli. Ossia il giuramento, sui santi vangeli, curato dai rettori e richiesto a ciascuno dei “sottoposti”,
“che secreto et palese di mantenere, et osservare, difendere, honorare et guardare l‟onore, lo stato et il
mantenimento dei nostri Magnifici Signori … “ (Cap. II): dunque un impegno (solenne) di fedeltà alle
istituzioni che si accompagna a quello del rispetto verso la Santa Chiesa e la sua Religione. Sì che colui che,
sottoposto all‟Arte della Pietra “villaneggiasse o bestemmiasse Iddio, o santa Maria o suoi Santi” sia privato
dell‟Arte … (Cap. I). Un impegno al quale se ne aggiunge un altro riferibile al contesto dell‟etica del lavoro
praticata da quegli uomini: infatti “ciascun sottoposto” è “ tenuto, quando lavorasse in alcuno lavorio a
rischio o a giornata, di fare esso lavorio a buona fede senza frodo …” (Cap. XXI)
Come a Bologna anche a Siena la vita associativa è molto intensa e, “perché nessun corpo senza membri si
può bene governare … i rettori che sono insieme … siano tenuti di fare ogni sei mesi il loro consiglio”,
coadiuvati da sei maestri per Terzo, rigorosamente rotanti ogni sei mesi: “et questi sei per Terzo insieme con
li rettori possino quello può tutta l‟arte fare” (Cap. IV).
Anche a Siena i sottoposti sono tenuti all‟obbedienza ai Rettori ed al Camerlengo, segno dell‟esercizio di
un‟autorità forte e, verosimilmente, rispettata, sì che “se avvenisse che alcuno sottoposto facesse danno o
vergogna all‟arte o vero agli officiali, o al conseglio … sia condennato in quello che parrà a la maggior parte
degli officiali.” E d‟altra parte i Rettori non sono affatto liberi da vincoli, dal momento che ai Rettori nuovi
è “lecito dare petitioni a‟ vecchi Rettori…” (Cap. XXXVII).
Uguale attenzione, come a Bologna è rivolta ai discepoli, cioè agli apprendisti: ben tutelati dal momento che
“chi s‟havesse posto o si ponesse alcuno discepolo, debba portare scritti e‟ patti a gli ufficiali, et debbano
apparire scritti per camarlengho nel libro dell‟arte”. Un patto scritto, consegnato all‟Arte e da questo
conservato è, senz‟altro, una forma di garanzia per il discepolo. Che, in ogni caso, non può abbandonare,
senza il suo consenso, il proprio maestro per passare, disinvoltamente, ad un altro. Se lo facesse, sarebbe
sottoposto ad una pena di cento soldi ed il nuovo maestro dovrebbe farlo tornare col vecchio (Cap. XII).
E‟ anche prevista la possibilità di ingresso di maestri forestieri per i quali “ i Rettori e il Camarlengho” sono
“tenuti di fare giurare quel tale maestro, et fargli pagare all‟arte lire quattro fra uno mese che haverà
lavorato…”(Cap.XIV).
Diversamente dalla Carta di Bologna che, come già detto probabilmente rimandava a disposizioni
regolamentari, il Breve stabilisce espressamente, e con grande evidenza, l‟obbligo di celebrare, il dì di Santo
Salvatore, la festa dei Quattro Coronati, con messa e predica, ed obbligo di offerte da parte dei sottoposti
che, comunque, non potevano portare, ciascuno, un cero meno di mezza libbra. Il sottoposto o maestro che
non ottemperasse a questo obbligo sarebbe stato esposto ad una sanzione di quindici soldi da “dare
all‟operario dell‟Opera sante Marie per fare la nostra cappella …” Ossia, appunto, quella dei santi Quattro
Coronati, il primo altare a sinistra entrando in Cattedrale. E‟ anche statuita la festa dell‟Arte – “ per li tempi
che saranno” – durante la quale “sia lecito a‟Rettori, et al Camarlengho di comandare ad ogni discepolo di
fare richieste, et ogni altra cosa che all‟Arte bisognasse …” (Cap. XXV).
Per quanto riguarda le disposizioni in tema di mutua assistenza rileva quella di “come si vada al morto”: in
questo caso è obbligatorio ai maestri presenti in città o nei borghi assistere alla sepoltura “quando alcuno
sottoposto passasse da questa vita, ovvero padre o madre o moglie o figliuoli o fratelli carnali”; e chi,
richiesto, non dovesse partecipare “paghi per ogni volta cinque soldi” (Cap. XXII).
31
Milanesi G., Breve dell’arte de’ maestri di pietra senesi dell’anno MCCCCXLI, Siena 1854, p.105
28
Infine un ulteriore documento che attesta la presenza, in città di maestranze, definite “lombarde” che si
accordano con i maestri dell‟Arte senese, il dì V Dicembre del 1473 per superare frizioni – di certo non
secondarie – tra magistri di ascendenza geografica diversa. Più precisamente l‟atto “si riferisce a una
dissensione fra maestri senesi e maestri lombardi, perché questi non volevano soddisfare a certi incarichi che
il Breve … imponeva tanto ai senesi che ai forestieri”.32 Il primo dei firmatari senesi è Antonio di Federico.
Per parte loro i contraenti di parte lombarda provengono tutti da località dell‟area del Comasco e del Ticino,
ossia Lamone, Lugano, Sala, probabilmente da identificare con Sala Comacina, a conferma di una lunga
presenza a Siena, una presenza destinata a durare ancora per qualche secolo come testimoniato dall‟impegno
di personaggi quali Ercole Ferrata, da Pellio in vall‟Intelvi, autore della statua di santa Caterina nella
cappella del Voto; o di Antonio Raggi da Vico Morcote, alla estremità sud del lago di Lugano che, negli
stessi anni e nello stesso luogo, avrebbe realizzato la statua di san Bernardino. 33 34
In questo Breve del Dicembre del 1473 si conviene allora:
a) “ che paghino soldi dieci per dritto, intendendosi per quelli maestri lombardi che sono o lavorano nella
città di Siena o appresso quindici miglia”, allo scopo di sanzionare, appunto, il privilegio territoriale
dell‟Arte senese;
b) “… che paghino soldi cinque l‟anno per la festa de‟ santi Quattro, per ciascun maestro” e “che si faccia un
camerlengo lombardo, il quale sia insieme al camerlengo cittadino, et possa riscuotere da ogni sottoposto
forestiero e cittadino”, con obbligo del camerlengo lombardo di sottostare agli stessi impegni del suo collega
senese;
c) ”… che i garzoni che stanno con i maestri, non siano obbligati a niente: et vogliamo che i manuali che
sono, paghino l‟anno soldi tre per ciascuno, come dice il nostro statuto”;
d) “ … che quando bisognasse fare la raccolta, s‟intenda i maestri lombardi a venire alla raccolta, nel
medesimo modo che sono i maestri cittadini …”
e) infine che il camerlengo lombardo è tenuto a “dare una ricolta ovvero sicurtà all‟arte della Pietra, prima
che lui entri in officio, sì che l‟arte sia ben sicura”: evidentemente i maestri senesi, forse scottati da
precedenti “incomprensioni”, volevano tutelarsi adeguatamente.35
Eppure, nel tempo, queste “incomprensioni” saranno destinate a ripetersi, come attesta una petizione del
1512 indirizzata agli “Spectatissimi viri Tres Secreti de Collegio Baliae civitatisi Senensis” dove si lamenta –
l‟ennesimo? – voltafaccia dei maestri lombardi che non conferiscono più alla cappella dei santi Quattro
Coronati, e che tutti denari eventualmente raccolti “li portano in Lombardia … in grave danno e vergogna
della nostra città”. Si supplica allora il ripristino dell‟antico Breve, con il conseguente impegno alla “ricolta”
esteso anche ai lombardi, oltre all‟unione con l‟Arte senese, secondo il Breve antico.36
Un maestro di Pietra di Siena ed un”ergastolano”del Duomo
Rientra a pieno titolo tra i maestri di pietra di ascendenza senese Antonio Federighi, ivi ricompreso nel
“Breve” della corporazione nel 1471. Si sa che fu capomastro dell‟Opera insieme a Pietro di Tommaso del
32
Merzario G., op. cit. vol. I° pag.218
Carli E., op. cit. p.53
34
Merzario G., op. cit., vol. I°, pp.492-494,
35
Milanesi G., op. cit., pp.126 e 127
36
Milanesi G., op. cit., p.130
33
29
Minella e che, come architetto, fu talmente “ legato ai modi e ai progetti di Rossellino” da suscitare un nesso
“quasi inestricabile”, e quindi alla base di infinite discussioni sulla attribuzione di importanti edifici senesi. 37
Il rapporto col Rossellino, e quindi con l‟architetto che, in Pienza, aveva saputo evocare l‟armonia
dell‟antico, si trova in continue citazioni senesi, come nel palazzo di Caterina Piccolomini o nella Loggia
della Mercanzia. E si accompagna mirabilmente ad un‟altra qualità del Federighi, quella di essere anche uno
straordinario lapicida, “formatosi secondo la tradizione gotica senese … senza vere ambizioni teoriche o
progettuali, ma capace di attuare, con il manipolo dei suoi scalpellini, anche i piani più innovativi che gli
erano proposti”. 38
Antonio Federighi, San Vittore, Loggia della Mercanzia, Siena
Tra l‟altro, in questo contesto, appare davvero curioso che l‟umanista Giannozzo Manetti, nella sua Vita di
Nicola II, paragoni il Rossellino niente di meno che al biblico architetto Hiram di Tiro …
37
Angelini A., Antonio Federighi e il mito di Ercole, sta in Pio II e le arti. La riscoperta dell’antico da Federighi a
Michelangelo, Milano 2005, p.105
38
Angelini A., op. cit., p.105
30
In questa specifica sede, tralasciando le suggestioni alchemiche che evocano le sue due celebri acquasantiere,
tra l‟altro ammirate dallo stesso Michelangelo39, è utile soffermarsi sulle fatiche che il Federighi – col suo
allievo Giovanni di Stefano – spese per la cappella del braccio di San Giovanni, commissionata dal Rettore
dell‟Opera, il cavaliere Gerosolomitano, Alberto Aringhieri. Che, sul limitare di questa cappella volle il
proprio sepolcro, semplicemente richiamato da una consunta pietra, posta esattamente sul calpestio, nella
quale viene ricordato il suo impegno per il Duomo in lunghi anni durante il quale, come “ergastolanus”,
aveva lavorato all‟interno di quel sacro recinto. Bene, osservando l‟ingresso di questo luogo, nel quale è
custodito il braccio che si levò ammonitore contro l‟adultera Erodiade, sono presenti alcuni elementi
rivelatori di un messaggio – verosimilmente ispirato dall‟Aringhieri – coerente con le singolari commissioni
che avevano caratterizzato gli oltre vent‟anni della sua reggenza del Duomo.
Queste commissioni erano tutte, per così dire, all‟insegna della cultura ermetica, che larga diffusione
cominciava ad avere a partire dagli anni ‟70 del „400 negli ambienti intellettuali del tempo a seguito della
avvenuta traduzione latina, opera di Marsilio Ficino, del celebre “Corpus Hermeticum”. Una singolare
raccolta di testi filosofici – situabile tra il 100 ed il 300 della nostra era - che rispecchiano “ le idee … del
pensiero filosofico popolare, sotto una forma molto eclettica, con quella mescolanza di Platonismo, di
Aristotelismo e di Stoicismo” decisamente diffuse all‟epoca. Una raccolta dove “… qua e là compaiono
tracce di giudaismo, e anche, probabilmente, di una letteratura religiosa la cui ultima fonte è l‟Iran: per
contro, nessun segno evidente né di Cristianesimo né di Neoplatonismo”. 40
Più precisamente, nel Corpus e, più in genere nella letteratura ermetica, ritroviamo, accanto a temi
squisitamente filosofici, altri palesemente astrologici, alchimistici, magici.41 Il Corpus appare infatti
speculare ad un modello – filosofico, religioso, culturale ? - di tipo gnostico molto diffuso nell‟area
mediterranea già da prima dell‟avvento di Cristo. Gnosis significa, in greco, conoscenza: ma in questo
specifico contesto ha una valenza molto superiore alla semplice acquisizione di nozioni o di saperi. E‟,
invece, intesa come “mezzo per raggiungere la salvezza o persino come forma della salvezza stessa”.
Gnostici sono allora “coloro che conoscono”: solo che la loro è una conoscenza affatto speciale, che
prescinde dalla ragione. Si tratta infatti di “conoscenza di Dio”, ossia “la conoscenza di qualche cosa di
inconoscibile naturalmente e perciò di per sé non una condizione naturale. Oggetto di tale conoscenza è tutto
quello che appartiene al regno divino dell‟essere, e precisamente l‟ordine e la storia dei mondi superiori e di
ciò che deve provenirne, ossia la salvezza dell‟uomo.”42
Da segnalare infine che, negli anni in cui Marsilio Ficino attendeva alla traduzione del Corpus, la cultura
della città di Firenze era animata dalla presenza della Accademia neoplatonica nella quale, oltre allo stesso
Ficino, si ritrovavano, spesso anche alla presenza del Magnifico Lorenzo, personaggi quale Nicola Cusano, il
Poliziano, Pico della Mirandola. Proprio Pico della Mirandola “avendo scoperto il Corpus di Trismegisto
tramite Ficino, … lo collegò con la Cabala” – ossia con la tradizione esoterica della mistica ebraica -“
attraverso il tema comune della Creazione per mezzo della Parola. Fu un matrimonio che ebbe pesanti
conseguenze sull‟evoluzione dell‟esoterismo occidentale” perché nacque in questo modo una tradizione
ermetico- cabilitisca con due caratteri, uno teosofico, ossia speculativo e neopitagorico e l‟altro magicoteurgico.”43
Ermete tre volte grandissimo, il cavaliere Alberto Aringhieri e una singolare cappella
39
Cfr. Luccarelli M., Un mutus liber nel Duomo di Siena, sta in Bullettino Senese di Storia Patria, XCI (1984)
Nock A. D.,Prefazione a Corpus Hermeticum, a cura di Ramelli I., Milano 2005 p.14
41
Yates F. A, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 59
42
Jonas H., Lo Gnosticismo ,S.E.I., Torino 1991 pp. 54-55;
43
Faivre A, I volti di Ermete. Dal dio greco al mago alchemico, Roma 2001, p.129
40
31
E‟ in questo fecondo e complesso clima culturale, dove si fondono elementi della antica filosofia greca,
componenti magiche, astrologiche, alchimistiche e tradizioni cabalistiche che, verosimilmente intorno
all‟anno del Signore 1488, Alberto Aringhieri, tutt‟altro che digiuno di queste forme di “conoscenza” fece
rappresentare, probabilmente da Giovanni di Stefano, e sempre nel marmo della Cattedrale di Siena, la
ieratica figura di Ermete Mercurio Trismegisto, il dio egizio Thoth, signore della magia e di ogni sapere, il
mitico autore del “Corpus”, raffigurato nell‟atto di trasmettere a due misteriosi personaggi “le leggi e le
lettere dell‟Egitto”, come riporta il libro aperto che viene consegnato ai predetti personaggi, secondo una
citazione tratta dal De natura deorum di Cicerone.
Giovanni di Stefano (?), Ermete Mercurio Trismegisto, pavimento della Cattedrale di Siena
Il centro della “speculazione” – e questo termine è senz‟altro riduttivo nel presente contesto – era appunto da
ricercare in Ermete, autentico primum movens di questa straordinaria forma di pensiero che si introduceva,
con grande entusiasmo, nei ceti più colti – e quindi anche nell‟ambito della dimensione artistica – dell‟area
occidentale del Mediterraneo, in qualche modo proponendo una visione del mondo, almeno in buona parte,
estrinsecantesi in “un pensiero ed in una speculazione gnostica interamente liberi da connessioni col
cristianesimo.”44 Anche se, si può aggiungere, non necessariamente antitetica.
Chi scrive ritiene che proprio la Cappella del braccio di S. Giovanni Battista sia un esempio – e di sicuro non
l‟unico – della presa che questo pensiero e questa speculazione produssero nella città di Siena per merito –
44
Jonas H., op, cit., p.164
32
verosimilmente non esclusivo – del cavaliere Gerosolomitano Alberto Aringhieri, attraverso il testamento di
pietra lasciato, dentro lo spazio più sacro della città, dai maestri architetti, lapicidi, scultori, pittori del tempo.
Sugli apparati di questa cappella, si è soffermato, per altro con un taglio da storico dell‟arte molto attento alle
fonti documentarie ed alla parte stilistica, Alessandro Angelini che, a proposito delle due colonne di
ingresso, riferisce: “le due basi … sono state considerate del 1486, anno a cui risalgono i primi interventi
architettonici nella cappella di San Giovanni”.
Aggiungendo quindi che “la scoperta della data di morte di Federighi” che fu autore di quella di sinistra,
“riferita anche da Sigismondo Tizio, che risale al 1483 …. ha imposto una revisione critica della delicata
questione”.45 Ossia : quando fu realizzato il lavoro per il portale d‟ingresso della cappella del braccio di San
Giovanni, ancora non compariva sul pavimento della Cattedrale la tarsia di Ermete Trismegisto – che
appunto daterebbe 1488 – ma, aggiungiamo, sicuramente doveva circolare in città, ovvero nei suoi ambienti
più colti – il Corpus, con quella ricchezza di suggestioni e di provocazioni culturali di cui abbiamo, in
precedenza, riferito.
E questa cultura sembra proprio trasparire dall‟intero portale d‟ingresso che, per molte sue peculiarità
mitologiche, da la sensazione di un luogo “speciale” rispetto ad altri della cattedrale. “Terribilis est locus
iste. Haec domus Dei est et porta coeli", un luogo che, appunto, dovrebbe incutere un timore reverenziale nel
visitatore. Forse hanno questa funzione le due teste di demoni, o di satiri?, dalle lunghe e ritorte corna di
ariete (?) che, come i due Bes della Porta Ermetica o Porta Magica - oggi collocata nei pressi di Piazza
Vittorio a Roma, voluta dal marchese alchimista Massimiliano Palombara e realizzata all‟incirca un secolo
dopo - sembra vigilino sull‟ingresso di quel luogo.
Antonio Federighi, Testa di demone, Cappella del Braccio di San Giovanni, Duomo di Siena
45
Angelini A., op. cit., p.149, nota 63
33
La separazione della cappella dal resto del Duomo sembra, in qualche modo, sanzionata dal bel cancello in
ferro battuto, che esibisce lo stemma della famiglia De Vecchi, oltre alla stella ad otto punte dei Chigi ed una
singolare sirena bifida, sopra la quale campeggia l‟acronimo dell‟Opera del Duomo.
Senz‟altro interessante è la citazione della sirena bifida – di cui abbiamo già riferito a proposito dell‟ambone
della pieve di Gropina, ma che ritroviamo anche nel senese, ad esempio nel centro del portale della Pieve di
Corsignano, o tra le colonne della antica abbazia benedettina di Torri – molto frequente negli edifici di
culto altomedievali, in particolare nelle pievi.
Sirena bifida, Chiostro della antica abbazia di Santa Mustiola, Torri (Si)
Quale è il significato di questa singolare immagine caratterizzata dalla divaricazione delle due code e, come
nel caso del cancello della Cappella di S. Giovanni, anche da un seno molto pronunciato? Premesso che le
celebri ammaliatrici di cui Odisseo osò ascoltare il canto – facendosi giudiziosamente legare all‟albero di
maestra della sua nave ed obbligando i compagni a tapparsi con la cera le orecchie – sono raffigurate nella
forma di uccelli e dalla testa umana, le sirene note alla tradizione sono sempre rappresentate col corpo di
donna che, finisce, appunto con una o, come nel nostro caso, due code di pesce. Forse per ricordare che,
avendo osato sfidare nel canto le Muse, furono loro tolte le ali e, appunto, trasformate in un ibrido, mezzo
umano e mezzo pesce. In quanto incantatrici dei naviganti – come appunto vengono rappresentate
nell‟Odissea - le Sirene simboleggiano la capacità di seduzione, la lusinga che ammalia – e porta a
perdizione – quanti sottostanno al loro canto di maliarde del mare. ”Chi ignaro approda e ascolta la
voce/delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l‟attorniano/ma le Sirene col canto
34
armonioso lo stregano,/sedute sul prato:pullula in giro la riva di scheletri/umani marcenti; sull‟ossa le carni si
disfano”.46 Così Circe ammonisce Odisseo.
Per altro le Sirene, con la loro esibizione del sesso e, nel caso del cancello della cappella di S. Giovanni,
anche del seno, hanno anche un altro significato: sembrerebbero rappresentare una sorta di riferimento alla
Grande Madre generante dei popoli mediterranei, la dispensatrice della vita.47 Questi richiami, alla seduzione
e alla generazione, parrebbero del tutto pertinenti al messaggio “ermetico” della Cappella. Come parrebbe –
il condizionale, ovviamente, in questioni del genere è assolutamente d‟obbligo - confermato dalle tante
suggestioni simboliche evocate dai plinti delle due colonne. Quella di destra è caratterizzata dalla presenza di
teste di ariete e da possenti grifi, oltre a tre scene di problematica interpretazione.
Antonio Federighi, Testa di ariete, plinto di destra, Cappella del braccio di San Giovanni, Duomo di Siena
La scena centrale riproduce un tritone che reca sul suo dorso, abbracciata a lui, una fanciulla nuda. Difficile,
ovviamente, l‟ interpretazione: possiamo comunque osservare che Tritone , dio marino, è figlio di Poseidone,
signore del mare, e della nereide Anfitrite. Sua sorella è Roda. E Roda, che discende dal greco rodos, ossia
rosa, è la divinità eponima di Rodi, non a caso appellata Isola delle rose. E Rodi è anche, all‟epoca, la sede
dei cavalieri Gerosolomitani di cui Alberto Aringhieri è autorevole esponente in terra di Siena.
A destra della scena di Tritone e della (possibile) Roda, ecco Eracle, che trasporta, avanti ad un‟ara ardente,
il corpo del leone Nemeo, la prima delle sue dodici fatiche. Forse l‟ara è un riferimento dotto al santuario di
Nemea, nell‟Argolide, dove, ogni due anni, si tenevano i celebri giochi in onore di Zeus Nemeo. Nell‟altra
scena, quella sulla sinistra, un cavaliere nudo, che imbraccia una lancia e con un lungo mantello, sovrasta un
uomo, anche lui nudo, dalla bocca spalancata nell‟atto di lanciare un grido di terrore. Interpretare questa
46
47
Omero, Odissea, libro XII, 41/46 nella versione di R. Calzecchi Onesti
Bernardini S., op. cit., pp.52-56
35
raffigurazione è cosa straordinariamente ardua anche se, considerati i riferimenti a cui alludono le altre due, è
più che plausibile che anche questa sia ricollegabile a vicende della mitologia greca, forse alla stessa Iliade,
ossia al poema che evocando il conflitto tra Greci e Troiani rimanda ad Enea, il fondatore della stirpe
romana.
Agli angoli di questo singolare cubo marmoreo “fanno la loro comparsa animali mostruosi da mitologia
etrusca, simili a grifoni … I due mostri dalle fattezze di felino, con le ali di rapace e le corna di capra,
presentano illusionisticamente una testa e due corpi disposti sulle due facce angolari”.48 In effetti si tratta
proprio di grifi, esseri fantastici presenti nella mitologia etrusca: famoso quello che rappresenta lo stemma
araldico di Perugia, e famoso anche quello della celebre tomba vulcense c.d. Francois, dove appare come un
animale composito, testa di aquila, ali possenti e corpo leonino. Di origine orientale – lo si ritrova nell‟arte
assira e in quella babilonese - secondo quanto riferisce Plinio vivrebbe nelle regioni iperboreee, dove
custodirebbe le miniere d‟oro. Per questo esprime, simbolicamente, l‟idea della custodia e della vigilanza. 49
In epoca medievale celebre è quello rappresentato nel pavimento della cattedrale di Bitonto. Ma quello di
Siena possiede una particolarità: la testa non è quella dell‟aquila ma di un felino che, a giudizio di chi scrive,
da la sensazione essere una pantera. Ossia l‟animale aggiogato al carro di Dioniso, il signore del vino e
dell‟ebbrezza, compagno delle Menadi furenti. Forse non è un caso se proprio il Grifone della tomba
Francois è effigiato accanto ad una feroce pantera … Forse che l‟ibrido creato da Antonio Federighi sia
servito ad evocare, accanto al significato di vigilanza ordinariamente proprio del grifone, anche quello della
crudeltà tipico, appunto, della temibile pantera?
Un‟ulteriore osservazione, questa volta relativa alle lunghe code dei grifoni. In quella centrale le code sono
attorcigliate in modo da formare un singolare otto, in tutto e per tutto simile a quello prodotto
dall‟attorcigliamento delle code delle due sfingi che sorreggono la tabella di Ermete Trismegisto nella
relativa tarsia realizzata – pare – dall‟allievo di Federighi, Giovanni di Stefano. Difficile stabilire il
significato di questo intreccio – ovvero stabilire se l‟intreccio stesso ha un qualche significato – anche se la
tentazione a ritenere che i magistri dell‟epoca – magari in ciò addestrati dall‟Aringhieri – abbiamo voluto
lasciarci qualche (criptico) messaggio è forte … Potrebbe, forse, trattarsi di una sorta di (criptica) citazione
del caduceo, il bastone coi due serpenti attorcigliati associato al dio Hermes, ossia all‟equivalente greco del
Trismegisto … Osserviamo altresì che anche gli altri quattro grifi riprodotti sul plinto creano, con le
rispettive code, interessanti intrecci. In quelli della parte destra, le code si attorcigliano ma i due lembi finali
si divaricano; in quelli di sinistra formano una sorta di (emblematica ? ) O.
Sul plinto della colonna di sinistra, opera di Giovanni di Stefano, figlio del celebre Sassetta (Stefano di
Giovanni), non sono presenti – come nell‟altro – scene tratte dal mondo della mitologia mediterranea, ma
solo festoni vegetali sormontati da frecce e da uno scudo a forma di mezzaluna. Ci sono però due tipologie di
animali che, in qualche modo, fanno da pendant al plinto di sinistra. Ossia teste, all‟apparenza di capra e,
sottostanti, altrettante sfingi che, in questo caso, incrociano le proprie code fino a formare una singolare X.
Chi scrive ha ragione di ritenere, proprio a ragione della “corrispondenza” con l‟altro plinto, che le teste
superiori non siano di capra ma di … capricorno. Ossia di un mitico animale assegnato alla decima casa
dello zodiaco, simbolo del solstizio d‟inverno: un essere con la testa di capra ed il corpo – non riprodotto in
specie da Giovanni di Stefano – di pesce.
48
49
Angelini A., op. cit. p.141
Cairo G., Dizionario ragionato dei simboli, Forni editore, Bologna 1967, p.153
36
Antonio Federighi, Testa di capricorno, plinto di sinistra, cappella del braccio di San Giovanni, Duomo di
Siena
Il fatto che le teste di animali che compaiono nei due plinti, l‟ariete in quello di destra e il (probabile)
capricorno in quello di sinistra, potrebbe rappresentare altrettante citazioni astrologiche, ivi disposte su
volontà di messer Aringhieri spinto dal desiderio, evidente nella tarsia di Ermete Trismegisto - Thoth, di
voler “ermeticamente” agire su alcuni spazi della Cattedrale dell‟Assunta. E, d‟altra parte, come ricorda, al
riguardo Franz Cumont “il dio Tot (Thoth), l‟Ermete Trimegisto dei Greci, divenne in Egitto il rivelatore
della sapienza degli oroscopi, come di tutte le altre specie di conoscenze …” Una citazione, allora, di dotta
astrologia, nella consapevolezza, come sostiene sempre Cumont, che “l‟astrologia non fu solo un metodo di
divinazione: essa implicava … una concezione religiosa del mondo, e fu inseparabilmente combinata con la
filosofia greca. In tal modo, i libri ermetici non comprendono solo trattati di dotta superstizione: è una
teologia completa che gli dei rivelano al fedele in una serie di quelle che si possono chiamare apocalissi”.50
D‟altra parte come non rammentare che uno dei sodali di Aringhieri fu Luzio Bellanti? Un medico che,
secondo un costume non raro all‟epoca, era anche astrologo e che svolse un ruolo importante sul (turbolento)
scenario politico del tempo. Fece attivamente parte della fazione dei c.d. Noveschi, tanto attivamente da
prendere le armi contro il governo senese in carica e, per questo, fu costretto all‟esilio dalla propria città. In
questo suo affacciarsi sullo scenario politico senese si trovò a militare a fianco di Pandolfo Petrucci, anche
lui “novesco”, e futuro – ed unico – Signore di Siena. Fino a quando, per una serie di contrasti di natura
politica, tra i due si venne consumando una irreparabile rottura che avrebbe provocato, nel settembre del
1496, il nuovo esilio del Bellanti, per altro prudentemente ormai già riparato in territorio fiorentino. Non
rientrò più a Siena e proprio a Firenze, verosimilmente prima della fine del 1499, fu ucciso, con ogni
50
F. Cumont, Astrologia e religione presso i greci e i romani, a cura di A. Panaino, Milano 1990, p.81
37
probabilità da sicari inviati dallo stesso Pandolfo Petrucci. D‟altra parte lo stesso Bellanti aveva accusato
apertamente il Signore di Siena di tramare per la sua morte.51
Bellanti, il cui nome, Luzio, è lo stesso del figlio di Aringhieri, è rimasto famoso per la disputa che lo oppose
a Giovanni Pico della Mirandola quando, nel 1496, postuma, di quest‟ultimo fu pubblicata la Disputationes
adversus astrologiam divinatricem. Un‟opera nella quale Pico, forse in ciò influenzato dal consilium di
Savonarola, prende chiaramente le distanze da un certo mondo al quale, per altro, con la pratica dei testi di
Ermete e dei grandi cabalisti, non era stato affatto estraneo. E‟ in questa opera, infatti, che stabilisce la nota
distinzione tra “astrologia speculativa che è vera scienza chè cerca di conoscere gli effecti per le vere cause
…” e “astrologia divinatrice, la quale tucta consiste nelle effetti che indifferentemente procedono dalle sue
cause, maxime nelle cose humane che procedono dal libero arbitrio, e in quelle che rare volte procedono
dalle cause sue, è tucta vana, e non si può chiamare né arte né scienza”.52
Proprio queste posizioni contrasta il Bellanti con il suo “De astrologica veritate, et in disputationes Iohannis
Pici adversus astrologos responsiones” dove sembra riferirsi a Savonarola quando se la prende coi “pessimi
nemici … che ci ingannano sotto la falsa apparenza di amici … lupi sotto le pelli di agnelli” che “ col
pretesto della religione … si prendono gioco degli ignoranti giacchè … professano tutte le scienze, rivelano
tutte le conoscenze” appunto per la credulità degli ignoranti.53 E,“per apparire religiosi al volgo cominciano
ad attaccare l‟astrologia e, se fosse possibile … a disperderla” infettandola “presso gli ignoranti con
argomenti puerili e ridicoli”.54 Mentre, continua Bellanti, questi personaggi ignorano che l‟astrologia è la
scienza capace, più di ogni altra, di scoprire gli inganni, e come, “contraria alle simulazioni e superstizioni
… si avvicini alla verità.” Giacchè essa “mostra il cielo ed i pianeti” in modo che si “possa prevedere
alcunchè con la massima veridicità” – ma a patto “che non vada l‟asino con la lira” – e dove si potranno
guardare “non stelle trasformate in animali, non un cielo pieno di favole, non un cielo fittizio in luogo del
cielo vero, cose che tuttavia talvolta hanno detto anche i più dotti ed antichi sapienti al modo di Platone e di
altri ammirevoli uomini.” Giacchè queste “coperture” servono a ricacciare “a buon diritto il volgo profano da
una cosa tanto sacra”, in quanto “ i segreti di Dio … è lecito conoscere solo all‟uomo spogliato della propria
umanità e iniziato a questi argomenti sacri, mistici, celesti.”
Bellanti dunque, in qualche modo, sublima l‟astrologia come scienza divina e, riprendendo l‟impostazione
della Docta religio di Marsilio Ficino, la riserva soltanto a coloro che, liberatisi dai condizionamenti umani,
si rivelano degni, sì da essere iniziati ai suoi (santi) misteri.55 E poi attacca – cosa che per noi appare davvero
incredibile – Pico, tacciato, senza mezzi termini, di ignoranza, di scarsa dimestichezza coi grandi del passato,
compresi Giovanni Duns Scoto e Tommaso d‟Aquino, di poca conoscenza delle lingue orientali!
Plausibile, allora, il riferimento ai due segni astrologici, dell‟Ariete e del Capricorno che, per la precisione,
simboleggiano rispettivamente l‟equinozio di primavera ed il solstizio d‟inverno. Ma che, al tempo stesso,
potrebbero avere anche un significato alchemico, come suggerisce, nel suo Dizionario mito-ermetico del
1758, dom Antonio Giuseppe Pernety, Religioso Benedettino della Congregazione di San Mauro, vissuto tra
il 1716 ed il 1801, cappellano di Federico il Grande, studioso di Matematica, Teologia, Mitologia e Filosofia
Ermetica. Per il quale, appunto, “l‟alchimia è la scienza e l‟arte di fare una polvere fermentativa, la quale
trasmuta in oro i metalli imperfetti e serve da rimedio universale a tutte le malattie dell‟uomo, degli animali e
delle piante”.56 In effetti, secondo quanto riferisce Pernety, per i Filosofi, ossia per gli alchimisti, Capricorno,
51
Dizionario biografico degli italiani, voce Bellanti Lucio, Roma 1965, pp. 597-599
E. Garin, op. cit., p. 96-97
53
Bellanti L., De astrologica veritate, et in disputationes Iohannis Pici adversus astrologos responsiones , Firenze 1498,
traduzione a cura di A. Aquino, pp. 2 e 3
54
Bellanti L., op. cit., p. 3
55
Bellanti L., op. cit., p. 3
56
Pernety A.G., Dizionario mito-ermetico, ECIG. Genova 1979, p.12
52
38
in quanto solstizio d‟inverno, tempo di dissoluzione, è il piombo, il più imperfetto dei metalli.57 Mentre
Ariete, o Montone, il tempo della primavera e della rinascita, rimanda alla “materia dei filosofi” che si
ricava, appunto, nel suo ventre, cioè sotto il suo segno …58
In qualche modo funzionale a questo linguaggio – se davvero si tratta di un linguaggio – le sfingi del plinto
di sinistra, rappresentate con il corpo di leone, le ali dell‟aquila, testa e mammelle femminili, con le rispettive
code che si uniscono in una sorta di singolare X. Come è noto la sfinge evoca immediatamente l‟Egitto e,
quindi, i misteri d‟Egitto come quelli che custodisce Ermete Mercurio Trismegisto- Toth nel suo Corpus.
Solo che la sfinge senese – simile, ma non identica, a quella del pulpito della Cattedrale di Prato – non
discende da quella egizia, che di norma è maschile, quanto da quella greca, della quale, appunto, Ausonio ci
dice: ”aveva tre forme: uccello, leone e fanciulla; uccello per le ali, leone per le zampe, fanciulla per il
viso”.59
Antonio del Rossellino e Mino da Fiesole, Sfinge, pulpito del Duomo di Prato
D‟altra parte è femmina la più celebre delle sfingi greche, quella che pone ad Edipo, dalla rupe della città di
Tebe, il famoso indovinello.”Qual è l'essere che cammina ora a due gambe, ora a tre, ora a quattro e che,
contrariamente alla legge generale, più gambe ha più mostra la propria debolezza?” Ogni cittadino tebano al
quale l‟enigma era posto e che non era in grado di sciogliere veniva immediatamente divorato dal terribile
mostro. Come è noto, Edipo seppe dare la risposta giusta, ossia l‟uomo: ed allora la Sfinge, disperata, si
57
Pernety A.G., op. cit., p.44
Pernety A. G. , op. cit., p.28
59
Ausonio, Idilli, VI
58
39
gettò dalla roccia dalla quale poneva il suo indovinello e morì, liberando così dalla sua crudele presenza la
città di Tebe. In una celebre kylix del IV secolo a.C. si vede Edipo seduto avanti alla Sfinge, raffigurata con
la testa di donna, il corpo di leone e le ali dell‟aquila – come la sua discendente senese - assisa sulla sommità
di una colonna. Altri esempi successivi, di fattura romana, enfatizzano il genere femminile attraverso la
presenza di pronunciate mammelle che, nel caso di quella romana sul Palatino, sono addirittura dieci !!!
Edipo e la Sfinge, kylix attica del pittore di Edipo
E‟ evidente il significato di questa presenza nel complesso iconologico della cappella di S. Giovanni: allude
ad una segreto inviolabile, alla custodia del quale, appunto, è preposto questo essere, figlio di Tifone, il
mostruoso figlio di Gaia, mezzo uomo e mezzo belva, più alto di tutte le montagne; e di Echidna, la Vipera,
mostro dal corpo di donna, che terminava con una coda di pesce. Un segreto inviolabile, al quale può
accedere solo chi, come Edipo, è in grado di risolvere l‟enigma proposto da messer Aringhieri e realizzato
dai suoi due magistri, Antonio Federighi e Giovanni di Stefano.
40
Fermiamoci a questi brevi tentativi di interpretazione. Superiamo il cancello di ferro che divide i due spazi,
l‟esterno e l‟interno della cappella. Qui – e tralasciando il pozzetto centrale opera del solito Federighi concentriamoci esclusivamente sull‟affresco posizionato sulla destra della Cappella che raffigura Alberto
Aringhieri. Come è noto si tratta di un‟opera del Pinturicchio che lavorò all‟interno della Cappella tra il 1504
ed il 1505 e che ivi realizzò anche il ritratto di un Cavaliere genuflesso in corazza e sei storie del Battista
delle quali ne restano solo tre, la Natività del Battista, il Battista nel deserto e la Predicazione del Battista.
Delle altre tre, il Battesimo di Cristo e la Decollazione del Battista furono ridipinte nel XVII secolo dal
Rustichino, mentre il Battista in carcere fu interamente rifatto nella seconda metà dell‟800 da Cesare
Maccari.60
E proprio sull‟affresco di Alberto Aringhieri, con cappa e mantello dell‟Ordine Gerosolomitano, si produce,
in prossimità della festa del Battista, calcolata secondo il vecchio Calendario giuliano – ossia quello ancora
in vigore ai tempi dell‟Aringhieri stesso – cioè il nostro 13 di giugno, un singolare fenomeno. In prossimità
di quella fatidica data, la porta dell‟Estate, per la precisione all‟incirca una settimana prima, si può assistere
ad un fenomeno di straordinaria suggestione, soprattutto se riferito a tutto il contesto di idee e di “piste”
ermetiche “seminate” da Alberto Aringhieri all‟interno della Cattedrale dell‟Assunta. Nel pomeriggio,
quando il sole comincia a degradare, un raggio di luce, filtrando verosimilmente da un apposito orifizio
praticato sulla finestra che illumina la cappella del Braccio di San Giovanni, prende a “dardeggiare”
l‟affresco del Pinturicchio fino ad assumere un forma circolare. Questa forma di luce piano piano si muove
all‟interno della figura che riproduce le fattezze dell‟enigmatico cavaliere di Rodi e, finalmente, ne colpisce
perfettamente la croce patente cucita sul petto. La croce, cioè, si presenta come perfettamente inscritta
all‟interno del cerchio di luce.
60
Carli E., op. cit., p.57
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La luce della Conoscenza illumina il cuore di messer Alberto Aringhieri, Operaio della Cattedrale di Siena
Se si tratta di un messaggio comprensibile solo a chi ha occhi per vedere, Dio - ossia il Nous – si manifesta
come luce che illumina il cuore dell‟uomo, ovviamente dell‟iniziato, aprendogli, non per sapere
gradualmente appreso attraverso l‟uso della ragione, ma appunto per illuminazione, la via della vera – ed
ineffabile – conoscenza: quella che solo la Gnosi è in grado di conferire. Si spalancano, in questo modo, le
porte dell‟invisibile.
Il fenomeno non consiste solo in questo. Il cerchio di luce si sposta verso l‟altro, prima scindendosi in due
forme luminose – forse perché si è creata una qualche modificazione nell‟orifizio dovuta alla aggressione del
tempo ? – per poi riformarsi come unico globo che si staglia, luminosissimo, sul cielo di Rodi. Si ha allora la
sensazione che un piccolo sole dai caldi raggi rischiari perfettamente il mare sottostante ed il porto dal quale
i valorosi cavalieri di San Giovanni vigilavano per difendere la cristianità dalle incursioni turche …
Quanto avviene in prossimità del solstizio, giuliano e giovanneo, potrebbe allora consistere in una erudita
“citazione” di un (eloquente) passo del Corpus Hermeticum, per la precisione dell‟Asclepio, con la sua idea
di una conoscenza, di valenza iniziatica, acquisita per illuminazione, attraverso il Nous . Ossia Gnosi … “Noi
ti rendiamo grazie, Altissimo, che superi infinitamente tutte le cose. Per tua grazia, infatti, abbiamo
conseguito questa luce così grande della tua conoscenza …” Tu che “ ti degni di offrire a tutti il tuo affetto
paterno, le tue cure, il tuo amore, e qualsiasi influsso ancora più dolce, donandoci l‟intelletto, la ragione, la
capacità di conoscere. L‟intelletto affinché possiamo conoscerti; la ragione affinché possiamo indagarti
seguendo le tue tracce; la conoscenza affinché, pervenendo a conoscerti, possiamo essere felici … Noi
abbiamo conosciuto te e la luce immensa che si può cogliere con l‟intelletto … ” 61 Forse questa luce era
quella che colpisce il cuore crociato di Aringhieri nel giorno del “suo” solstizio d‟estate? E forse è tutto
questo – l‟apparato iconologico della cappella e il fenomeno solare che ivi si manifesta – un indizio – almeno
61
Corpus Hermeticum, a cura di Ilaria Ramelli, Milano 2005, p.591
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un indizio - della presenza- nel caso specifico in Siena - di quelle che A. D. Nock chiama conventicole
ermetiche62, la cui esistenza, per altro, spesso supposta, non è mai stata, inequivocabilmente, provata?
62
Nock Darby A., op.cit., p.14
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