Verso L’insegnante autoreVoLe:
ragioni e ModaLità
Francesco diodato*
ABSTRACT: Il presente contributo vuol fare luce su alcune pratiche che permettano all’insegnante di far esprimere al meglio le potenzialità di ogni singolo studente.
Dopo la presentazione di alcune possibili cause che spingono certi studenti a comportarsi in modo poco edificante, seguono un’esposizione delle ragioni che dovrebbero spingere i docenti a preferire uno stile educativo autorevole a uno autoritario, permissivo e
perfino democratico, e una definizione di insegnante amorevole. Lo scritto raccoglie,
inoltre, considerazioni sulla tecnica del convincimento razionale, l’ambiente di apprendimento, la figura dello studente ricercatore e il sistema dei premi e dei castighi, da
sostituire auspicabilmente con il sistema delle conseguenze. Nel lavoro più volte sono
stati inseriti suggerimenti che provengono dalle neuroscienze. In particolare, si ragiona
sull’attenzione che il docente dovrebbe riservare all’amigdala degli allievi, dal momento che riveste un ruolo importante nelle emozioni: un’inadeguata considerazione potrebbe perfino indurre lo studente a rifiutarsi di imparare con un determinato insegnante. È
stato affrontato anche il discorso della peculiarità del cervello dell’adolescente, valido
anche, come nel caso dello scrivente, se si ha a che fare con studenti universitari perché
biologicamente il cervello, anche alla loro età, non è ancora maturo.
PAROLE CHIAVE: insegnante autorevole; neuroscienze; adolescenti; insegnante
amorevole; ambiente di apprendimento; studente ricercatore; premi e castighi.
RESUMO: O presente artigo pretende lançar luz sobre algumas práticas que permitem ao professor expressar melhor as potencialidades de cada aluno. Após a apresentação de algumas possíveis causas que levam certos alunos a comportar-se de forma
pouco edificante, o trabalho segue com uma exposição das razões que deveriam incentivar os professores a preferir um estilo educativo autorizante, a um estilo autoritário,
permissivo e mesmo democrático, e uma definição de professor amoroso. O artigo traz,
ainda, considerações sobre a técnica do convencimento racional, sobre o ambiente de
aprendizagem, sobre a figura do estudante-pesquisador e sobre o sistema de recompensas e punições, a ser substituído preferencialmente pelo sistema de consequências.
Foram inseridas no trabalho, várias vezes, sugestões que provêm das neurociências.
Em particular, reflete-se sobre a atenção que o professor deveria reservar à amídala dos
*Kyoto Sangyo University, Kyoto (Japão) —
[email protected]
DOI: http://dx.doi.org/10.11606/issn.2238-8281.v0i36p96-110
alunos, uma vez que desempenha um papel importante nas emoções: uma consideração
inadequada poderia induzir o aluno até a recusar-se a aprender com um determinado
professor. Abordou-se, ainda, o discurso da peculiaridade do cérebro do adolescente,
válido também, como no caso do escritor, quando se trata de estudantes universitários
porque, biologicamente, o cérebro, mesmo naquela idade, ainda não está maduro.
PALAVRAS-CHAVE: professor autorizante; neurociências; adolescentes;
professor amoroso; ambiente de aprendizagem; aluno-pesquisador; recompensas e punições.
ABSTRACT: This paper aims to shed light on some practices that can help
teachers enable every student to reach his or her full potential. After a review of
some possible reasons why some students behave in a non-edifying way, an exposition of the reasons why teachers should prefer an authoritative educational
style to an authoritarian, permissive, and even democratic one and a definition
of loving teacher follow. The paper also contains a consideration of the rational
persuasion technique, the learning environment, the figure of the research student, and the reward and punishment system, which should, ideally, be replaced
with a consequences system. In this paper, numerous suggestions from neuroscience have also been added. In particular, we discuss the care teachers should
reserve for the students’ amygdala, since it plays an important role in students’
emotions. Inadequate consideration of this aspect of students’ physiology could
lead students to refuse to learn with a particular teacher. The issue of the peculiarity of the adolescent brain is also addressed. This is even valid if, as in the
case of the writer, one is dealing with university students, because, biologically
speaking, their brains, even at their age, are not yet mature.
KEYWORDS: authoritative teacher; neuroscience; adolescents; loving
teacher; learning environment; research student; rewards and punishments.
1. Introduzione
I
n questo lavoro verranno esposte le ragioni per cui un docente non possa esimersi dal gestire la classe con rigore, instaurando nello stesso tempo un buon rapporto con gli
studenti. Del resto, come sottolineano Whitman e Kelleher (2016), è impensabile separare insegnamento, apprendimento ed emozioni. L’importanza di salvaguardare un buon rapporto è
giustificata, dal punto di vista neurobiologico, in particolare dalla presenza dell’amigdala, una
struttura sita in entrambi gli emisferi cerebrali che “gioca un ruolo importante nelle emozioni”1
e “regola le interazioni dell’individuo con l’ambiente” con l’intento di garantirgli la sopravvivenza (SOUSA, 2017, p. 19). La vicinanza dell’amigdala all’ippocampo, la struttura deputata
all’immagazzinamento delle informazioni nella memoria a lungo termine, fa sì che riusciamo
a ricordare per molto tempo informazioni importanti e cariche di emozioni (SOUSA, 2017).
L’assenza o un basso livello di stress consente al sistema limbico, un circuito nervoso di cui
fa parte anche l’amigdala, di attivare la corteccia prefrontale2, deputata a comportamenti cognitivi complessi: è questa, dunque, la condizione necessaria a imparare. Contrariamente, alti
livelli di stress, oltre a non permettere l’attivazione di questa corteccia, inducono l’organismo
a produrre il cortisolo, un ormone che impedisce il corretto funzionamento dell’ippocampo:
pertanto i ricordi non vengono consolidati nella memoria a lungo termine. In altre parole, se c’è
stress, non c’è apprendimento (WHITMAN; KELLEHER, 2016).
Dopo tali considerazioni, risulta evidente il peso che rivestirebbe per gli insegnanti la dimestichezza con i fattori che causano e con quelli che riducono lo stress degli apprendenti. Tra
i primi si annoverano la noia, la mancanza di attinenza tra il proprio vissuto e quanto studiato,
la frustrazione generata da fallimenti precedenti, la paura di sbagliare, l’ansia da esami e il
sentirsi soffocati dal carico di lavoro richiesto (WHITMAN; KELLEHER, 2016). Difficilmente
si sarà in grado di seguire proficuamente se non sono soddisfatti i bisogni fisiologici (per es.,
oltre a quelli più immediati, è importante anche un’adeguata temperatura dell’aula), di sicurezza (fisica e mentale), di appartenenza e di autostima (MASLOW, s.d. apud PRODROMOU;
CLANDFIELD, 2007). I fattori che riducono lo stress includono, invece, la possibilità di scelta,
la novità, l’umorismo, la musica, le interazioni positive con i propri pari, gli atteggiamenti gentili, il movimento, l’ottimismo, l’espressione di gratitudine, il superamento delle sfide
(WHITMAN; KELLEHER, 2016). Non stupisce, pertanto, che, secondo le ricerche, i discenti
considerino capaci i docenti che “sanno adottare uno stile amichevole, attento, rilassato e aperto
1 Tutte le traduzioni sono nostre.
2 La parte dei lobi frontali situata dietro la fronte.
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alla comunicazione” (D’ALONZO, 2012, p. 20).
Gli elementi appena elencati forniscono, inoltre, indicazioni sul tipo di attività da proporre
in classe: devono essere in grado di emozionare e, aggiunge d’Alonzo (2012), di attrarre, di stimolare e di gratificare. È compito dell’educatore, continua, fare in modo che la noia non prenda
il sopravvento, trasmettendo l’entusiasmo e il piacere di imparare: in questo modo gli allievi
accetteranno con più facilità la fatica e lo sforzo richiesti dalle attività. Una pianificazione
dell’intera lezione evita infine che si creino tempi morti (HUMPHRIS, 2004).
Il docente dovrà trovare il modo di eliminare, o almeno ridurre, i fattori di stress, facendo
attenzione a non commettere l’errore di annoverare tra questi anche le regole (WHITMAN;
KELLEHER, 2016). Limitare la libertà d’azione degli studenti, infatti, è un’azione necessaria
a creare l’ambiente adatto all’apprendimento.
2. I comportamenti problematici degli studenti
Un problema di disciplina “può essere definito come ogni azione, manifesta o velata, che
mini l’unità o la coesione della classe” (PRODROMOU; CLANDFIELD, 2007, p. 39): fra le
prime si annoverano il gridare, il chiedere frequentemente di uscire dall’aula, il rifiutarsi di
svolgere le attività, il rivolgere al docente commenti sfrontati. Tra le seconde, spesso trascurate
dagli insegnanti, la mancanza di attenzione, i ritardi, le assenze, o azioni come far scattare le
penne e far cadere oggetti, mettere tutto via prima della fine della lezione e chiedere di cambiare attività.
2.1. Alcune possibili cause
Non è sempre facile determinare le ragioni dietro una cattiva condotta perché possono essere innumerevoli. D’Alonzo (2012) le suddivide in quattro tipi: ragioni personali, familiari,
sociali e scolastiche: queste ultime, in particolare, sono l’oggetto di questo contributo. Tra gli
elementi da evitare a questo riguardo, accanto a un inadeguato rapporto tra insegnante e studente, si individua il rischio di insuccesso: qualora l’impegno non porti ai risultati attesi, potrebbero infatti nascere negli studenti atteggiamenti inappropriati: ad es. comportamenti aggressivi,
tentativi di infrangere le regole, demotivazione, sotterfugi, ecc. Anche la paura dei voti e l’uso
della didattica tradizionale potrebbero essere annoverati all’interno di queste condizioni: la
centralità dell’allievo emerge nelle ricerche più recenti, insieme al favorire un apprendimento
che avvenga a scuola e non a casa. Ulteriori fattori che deteriorano il legame educativo sono la
scarsa fiducia che il docente può mostrare verso le capacità dell’allievo e l’eccessiva tolleranza
nei suoi confronti, l’aggressività se il docente compie azioni disciplinari autoritarie. Sono, inoltre, da evitare contrasti tra allievi e docente, i quali hanno come risultato solo quello di inasprire
gli animi e di demotivare.
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Per Gordon (1991) i comportamenti inadeguati sono meccanismi di difesa in reazione
all’autorità dell’insegnante. Per es., se questi ordina di fare qualcosa, sentendo la propria libertà minacciata, gli studenti potrebbero provare risentimento, rabbia e ostilità. Di conseguenza,
opporranno resistenza o faranno esattamente l’opposto, probabilmente deridendo o provocando. L’odio, invece, può portare a mentire3, la vergogna, ad accusare gli altri e a sparlare. L’imbarazzo, a ingannare e a copiare. L’amarezza e il desiderio di rivalsa, a coalizzarsi. L’umiliazione e l’apatia, a fuggire. Altre forme di ribellione, stando a Dörnyei e Murphey (2003),
potrebbero essere azioni come il parlare francamente, la contestazione, i ritardi, le assenze e la
perdita della motivazione.
Anche secondo Cozolino (2013) gli studenti potrebbero assumere comportamenti difensivi per proteggersi dal dolore scaturito dalle critiche. Queste, minandone l’autostima, possono
trasformare i discenti in soggetti non ricettivi all’insegnamento. L’opinione che spesso la bassa
autostima, unita a sentimenti come la paura e l’insicurezza, sia all’origine della cattiva condotta
è accreditata anche da McCombs e Pope (1994 apud DÖRNYEI; MURPHEY, 2003). Per poter
restituire l’autostima sottratta, saranno necessari “protezione, compassione, dedizione e amore” (COZOLINO, 2013, p. 99).
Poiché i discenti giudicano i docenti in base all’apparenza, ma probabilmente anche in base
alla reputazione (MCMANUS, 1995), è dunque importante, seguendo Saitō (2016), fare una
buona prima impressione: se questa dovesse essere negativa, dopo sarà più difficile conquistare
la loro stima. Milani (2014) conferma l’importanza di costruire una buona reputazione: se,
per es., abbiamo la reputazione di essere permissivi, ridicoli, noiosi o ingiusti, faremo fatica a
ottenere attenzione e rispetto.
A volte è la mancanza di convinzione dell’insegnante a causare il comportamento inappropriato: gli studenti sentono il bisogno di esplorare i limiti di ciò che è permesso. In questo caso i
problemi di disciplina si manifestano prevalentemente all’inizio dell’anno scolastico (MCMANUS, 1995). Alcuni studenti, sostiene Brophy (2003), sono più ostinati di altri perché sono
abituati a prevalere con l’andare del tempo: l’insegnante dovrà essere paziente e determinato.
Lo studioso suggerisce inoltre di considerare gli studenti persone buone e responsabili, che si
comportano male senza averne l’intenzione.
Un atteggiamento indisponente nei confronti dell’insegnante è spesso un attacco al suo
ruolo, non alla sua persona. Essere stati costretti a studiare in un istituto piuttosto che in un
altro e sentirsi ingannati dagli adulti sono esempi di possibili cause (DOGLIO, 2009). Inoltre lo
stress, la stanchezza e la rabbia potrebbero essere stati trasmessi dall’insegnante stesso tramite
i neuroni specchio4 (COZOLINO, 2013).
Perfino convinzioni diverse circa l’insegnamento e l’apprendimento, e convinzioni dell’insegnante riguardo agli studenti e degli studenti riguardo all’insegnante possono dar vita a conflitti e influenzare i comportamenti in classe. Per es., se un insegnante considera uno studente
pigro, potrebbe esimersi dall’intraprendere qualsiasi azione volta a migliorare la situazione
perché sicuro del fatto che non produrrebbe risultati. Se gli studenti, d’altra parte, reputano
3 Yūki (2016) ritiene che siano quattro i motivi per cui le persone mentono: per difendere se stesse, per sembrare
migliori di ciò che sono, per ottenere vantaggi e per difendere qualcuno.
4 Si tratta di un tipo di neuroni che si attiva come se fossimo noi a compiere delle azioni, quando in realtà stiamo solo
osservando altre persone compierle; questo ci permetterebbe anche di provarne le stesse emozioni (SOUSA, 2017).
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l’insegnante poco competente o ritengono che questi non sia ben disposto nei loro confronti,
potrebbero decidere di non imparare (WILLIAM et al., 2015)5.
Talvolta il comportamento scorretto è dettato dalla necessità: per es., arrivano tardi perché
hanno altri impegni, parlano con i compagni perché hanno qualcosa da riferire, ecc. Altre volte
è dettato dalla noia, dal desiderio di attirare l’attenzione del docente o dei compagni o di evitare un’attività. Altre volte ancora, dall’avversione verso l’insegnante o verso il sistema e dalla
difficoltà di socializzare con i compagni (NATION, 2013).
Alcuni atteggiamenti possono essere giustificati dal fatto che il cervello matura intorno ai
20-25 anni. Nel cervello di un “adolescente”, infatti, sono in corso due grandi mutamenti. Uno
è il pruning6 dei lobi frontali, il quale consente una maggiore efficienza. L’altro è la mielinizzazione7, la quale permette di trasmettere le informazioni con maggiore velocità (WOLFE,
2010): nei lobi frontali, l’ultima parte del cervello a maturare, termina intorno ai 30 anni (GIEDD, 2007 apud WOLFE, 2010). I lobi frontali, in particolare la corteccia prefrontale, sono
responsabili di molte funzioni cognitive e comportamentali in cui generalmente gli adolescenti
non eccellono: l’autocontrollo, l’inibizione di impulsi, la moderazione della condotta sociale, la
pianificazione, ecc. È probabile, dunque, che le ragioni neurobiologiche appena esposte contribuiscano al manifestarsi dei comportamenti tipici degli adolescenti (WOLFE, 2010).
2.2. Stili educativi
I metodi di solito usati per gestire la classe sono quello autoritario e quello permissivo. Nel
primo caso, poiché il docente ricorre alle imposizioni, lo studente potrebbe nutrire astio verso
di lui (GORDON, 1991). Per la stessa ragione, probabilmente assumerà anche “le posture e gli
atteggiamenti tipici della sfida” (ZULL, 2002, p. 64). Infatti, se vengono minati valori considerati importanti, per es. l’orgoglio e la sensazione di controllo, l’amigdala potrebbe chiedere al
sistema subconscio di controllo dei movimenti di intervenire per proteggere lo studente dalla
minaccia. Decidere di non imparare con un determinato insegnante è un’altra possibile conseguenza di questo meccanismo di difesa (ZULL, 2002).
Lo studente, per di più, si sente poco stimolato a eseguire gli ordini: se lo fa, lo fa solo
in presenza dell’insegnante. L’autoritarismo è, dunque, un controllo esercitato dall’insegnante
che “[i]nibisce la crescita in responsabilità e autonomia, genera dipendenza e mancanza di iniziativa [...] e inibisce lo sviluppo di spirito di collaborazione e considerazione per le necessità
degli altri. Non si incoraggia uno studente alla collaborazione facendogli fare le cose per forza”
(GORDON, 1991, p. 168).
Nel secondo caso il docente sceglie di ignorare il comportamento problematico. Questo
metodo non provoca nessun risentimento nello studente, ma nell’insegnante potrebbe generare
sentimenti negativi nei riguardi dello studente e della professione. Il permissivismo, come se
non bastasse, crea discenti egoisti, poco propensi a collaborare e a rispettare gli altri: diventano
5 Per ulteriori ragguagli sulle convinzioni degli studenti di lingue e sulle modalità di intervento, si rimanda a DIODATO, F. Beliefs in Foreign Language Learning: Research on Japanese University Students Studying Italian. In Teaching
Italian Language and Culture Annual. 2017, 13-33, <http://tilca.qc.cuny.edu/wp-content/uploads/2017/Diodato%20
articel%20Final%202017_TILCA.pdf >.
6 La potatura delle connessioni neurali, chiamate “sinapsi”.
7 Consiste nella copertura degli assoni dei neuroni con la guaina mielinica, un rivestimento che ha la proprietà di
isolante elettrico.
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ingestibili e, pertanto, si rischia di avere classi caotiche. I primi a essere scontenti della situazione sono gli studenti stessi perché in questo clima non è possibile apprendere molto. Infine,
il docente permissivo, passando per debole e incapace, difficilmente riuscirà a conquistare la
stima degli allievi (GORDON, 1991).
Gli insegnanti spesso non seguono un unico metodo, ma li alternano, suscitando smarrimento negli studenti. Questa incoerenza costringe gli studenti a essere sempre cauti e a domandarsi
di continuo quali siano i limiti d’azione. Anche la mancanza di uniformità tra i docenti rischia
di confondere gli allievi: non è facile destreggiarsi tra un insegnante permissivo e uno autoritario (GORDON, 1991).
Gordon (1991), in alternativa ai due metodi sopra esposti, propone un metodo democratico,
secondo il quale docente e discenti cooperano alla ricerca di una soluzione che soddisfi ambo
le parti. Tuttavia, lo scrivente ritiene che la direzione da seguire sia quella della “dominanza”
(MARZANO, 2003 apud D’ALONZO, 2012), fatta di “sicurezza, autorevolezza, determinazione senza prevaricazione né eccesso di controllo”. Si tratta di “guidare le relazioni in classe
con mano ferma, attraverso le proposte didattiche” (D’ALONZO, 2012, p. 41).
Il docente, in questo modo, dimostra di essere consapevole del proprio ruolo perché diventa una guida e un punto di riferimento. Il tutto si realizza “non attraverso imposizioni ma
come conseguenza di un’alleanza educativa bas[a]ta sul rispetto di ciascuno e dei diversi ruoli”
(D’ALONZO, 2012, p. 97). In definitiva, le lezioni sono efficaci se il docente riesce a meritare
lo stato di leader del gruppo classe.
Per la maggior parte degli ultimi 100.000 anni gli esseri umani, per poter sopravvivere, sono
stati probabilmente organizzati in piccole tribù di 50-75 persone, in cui tutti collaboravano e
condividevano le loro conoscenze. Il rispetto e lo stato di leader venivano acquistati dagli individui che si comportavano con riguardo verso gli altri membri, i quali, poi, dovevano vigilare
sull’operato dei primi. Anche oggi le istituzioni in cui questi istinti tribali vengono incoraggiati,
come gli sport a squadre, sono quelle che riscuotono più successo perché dal punto di vista
neurobiologico siamo rimasti uguali. Pertanto, gli insegnanti in grado di sfruttare questi istinti,
possono ottenere risultati apprezzabili anche in classi difficili (COZOLINO, 2013).
Il problema, secondo Doglio (2009), non sta, dunque, nel fatto che il docente detenga il
potere, ma nel come questi lo gestisca. Poiché ha la facoltà di effettuare scelte metodologiche,
di ammonire e di valutare, l’insegnante si trova inevitabilmente in una posizione di superiorità
rispetto agli allievi. Questa distribuzione diseguale del potere non è ingiusta, ma necessaria allo
svolgimento delle lezioni. Ad es., se gli studenti ritengono l’insegnante incompetente, si rifiuteranno di imparare. Milani (2014) sembra concordare quando afferma che in questo “rapporto
asimmetrico” il discente “sta più in basso perché sta imparando, non perché è meno importante” (MILANI, 2014, p. 26).
Doglio (2009) mette in guardia dai due rischi che si corrono quando si esercita un potere
su qualcun altro: il primo è di “esagerare per difetto” e il secondo, di “esagerare per eccesso”.
Nel primo caso “ci sono insegnanti che non tengono sufficientemente conto dell’importanza
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del dislivello di potere tra loro e gli studenti e assumono un atteggiamento troppo amichevole”
(DOGLIO, 2009, p. 61). Per creare un buon rapporto con gli studenti, va bene darsi del tu e
scherzare, ma non bisogna per questo dimenticarsi di “mettere dei limiti alle possibilità di azione degli studenti” (DOGLIO, 2009, p. 62). Un insegnante, in altre parole, deve essere amichevole, ma non un amico; se un insegnante si comporta da amico, precisano Rosenblum-Lowden
e Lowden Kimmel (2008), gli studenti potrebbero confondersi e comportarsi in modo scortese.
Opinione, anche questa, condivisa da Milani (2014).
Nel secondo caso il docente abusa del potere per es. umiliando gli studenti, probabilmente
senza neanche rendersene conto: il rischio è di erigere una barriera (DOGLIO, 2009).
Anche una buona autostima è fondamentale per essere riconosciuti come leader: gli studenti vedono gli insegnanti come questi ultimi vedono se stessi. Se si vedono come insegnanti
confusi, noiosi o timorosi, è esattamente così che li vedranno gli allievi, i quali agiranno di
conseguenza (MILANI, 2014).
In conclusione, per svolgere bene il nostro lavoro, dobbiamo prima di tutto ottenere rispetto,
un atteggiamento di stima verso una persona che è, o viene ritenuta,
superiore o particolarmente degna, ed è anche un sentimento di riguardo e
di attenzione, che ci trattiene dall’offenderla, dal trattarla bruscamente o in
modo inadeguato. È evidente che se noi abbiamo una bassa stima di noi stessi
e di quello che vogliamo insegnare, se noi per primi non riconosciamo il
nostro ruolo di insegnanti, difficilmente riusciremo a conquistare il rispetto e
la stima degli alunni (MILANI, 2014, p. 24).
Rispettare noi stessi e gli studenti, in altre parole, è indispensabile per essere rispettati.
2.2.1. L’insegnante amorevole
Daffi (2011) osserva che “[s]i potrebbe erroneamente far coincidere la severità con la cattiveria, con la crudeltà e la durezza di cuore: in realtà essere severi e insieme giusti testimonia
un atteggiamento attento, amorevole e comprensivo” (DAFFI, 2011, p. 54). Osserva anche che
“[l]’adulto comprensivo non è un adulto che non interviene” e che “[c]orreggere non è indice
di poco amore, di scarsa pazienza, ma, al contrario, è attenzione all’educazione del bambino/
ragazzo che non può svilupparsi nel vuoto di una presunta libertà” (DAFFI, 2011, p. 81). Permettere ai discenti di fare ciò che desiderano non significa lasciarli liberi, ma abbandonarli e
non soddisfare il loro “bisogno di attenzione, sicurezza e protezione” (DAFFI, 2011, p. 82). Lo
studente non corretto potrebbe considerarsi indegno e mostrare la sua delusione manifestando
comportamenti sempre più negativi. L’assenza di intervento non è tolleranza, ma privazione
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dell’opportunità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni (DAFFI, 2011).
Spesso all’inizio il docente autorevole non viene apprezzato dai discenti non abituati alle
regole e dai genitori permissivi (MILANI, 2014): l’importante è non demordere.
In realtà, con gli insegnanti autorevoli gli studenti si sentiranno più protetti: gli insegnanti
permissivi che assecondano ogni richiesta, che instaurano un rapporto alla pari perché considerano le regole dannose, possono far nascere sentimenti negativi come la paura. L’educazione
non può essere democratica: le regole sono necessarie in tutte le relazioni educative positive
(MARIANI; SCHIRALLI, 2014).
2.2.2. L’abolizione del convincimento razionale
La gestione della classe, così come le proposte didattiche, deve essere il risultato di scelte
e azioni ben mirate, le quali però non necessitano dell’approvazione dei discenti: eventuali
delucidazioni probabilmente non sarebbero neanche comprese (DAFFI, 2011). Anche Mariani
e Schiralli (2014) sono di questo avviso, pur constatando che il convincimento razionale è una
pratica molto diffusa. Zull (2002) spiega che la conoscenza è costituita da reti neurali e che a
ogni modifica della conoscenza corrisponde una modifica di queste reti. Tutti, inclusi i neonati,
hanno delle preconoscenze, di cui alcune corrette e altre errate. Le connessioni neurali delle
preconoscenze sono durevoli e non scompaiono con delle spiegazioni: solo quelle inutili non
verranno più usate o addirittura spariranno; quelle invece consolidate dalle esperienze e dalla
cultura continueranno a essere attive (EDELMAN, 1992 apud ZULL, 2002). Dunque, i docenti,
invece di spiegare, dovrebbero dare agli studenti la possibilità di usare le informazioni di cui
dispongono: si impara “selezionando le connessioni neurali corrette tra quelle già esistenti”
(ZULL, 2002, p. 122). Con l’aumentare delle esperienze, su queste connessioni potranno essere
costruite nuove conoscenze (ZULL, 2002). Inoltre, l’uso reiterato di connessioni corrette, che
consiste nell’ignorare gli errori8 e concentrarsi sulle informazioni corrette, garantirebbe risultati
migliori rispetto alla correzione (YLVISAKER; FEENEY, 1998 apud ZULL, 2002).
Un’attenzione particolare andrebbe rivolta alla formulazione delle richieste. Collins (2016)
evidenzia che non devono contenere la negazione perché richiederebbe al cervello uno sforzo
maggiore. Inoltre, con una frase negativa, aumenterebbe la possibilità che l’azione che desideriamo scoraggiare venga compiuta (EARP et al., 2001 apud COLLINS, 2016). Pertanto la
frase “Mettete via gli smartphone” sembrerebbe più efficace di “Non lasciate gli smartphone
sul banco”9.
2.2.3. L’ambiente di apprendimento e lo studente ricercatore
La rinuncia al metodo autoritario richiede, a nostro avviso, anche l’abolizione di tutti quegli
elementi che lo ricordano: la cattedra con l’eventuale predella, la disposizione tradizionale dei
8 A volte le connessioni errate sono connessioni incomplete che hanno bisogno di maggiore esperienza per essere
completate.
9 L’esempio è nostro.
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banchi che prevede che tutti gli studenti siano rivolti verso l’insegnante, azioni come alzarsi in
piedi all’entrata e all’uscita dell’insegnante10, dargli del lei, ecc. La ragione è che ci sono due
tipi di memoria: una esplicita, che fa riferimento a ricordi che siamo in grado di verbalizzare, e
un’altra implicita, di cui non siamo consapevoli. In una situazione ansiogena, benché le informazioni potrebbero non essere immagazzinate dalla memoria esplicita, più efficiente quando
non è sotto stress, potrebbero essere immagazzinate dalla memoria implicita, più efficiente
quando è sotto stress. Quando si incontra nuovamente uno stimolo simile a quello presente
nel momento dell’esperienza di apprendimento ansiogena, la memoria implicita fa in modo
che il corpo reagisca allo stimolo. Senza un ricordo esplicito della stessa esperienza, però, non
saremmo in grado di capire la ragione del nostro stress (LEDOUX, 1998). In sintesi, i ricordi
di precedenti esperienze di apprendimento ansiogene, provocate da un metodo autoritario, potrebbero risvegliarsi inconsciamente in presenza di un ambiente simile a quello dell’esperienza
ansiogena, con ricadute negative sull’apprendimento.
Abbandonare il metodo autoritario significa, per lo scrivente, anche trattare gli studenti
come ricercatori e non come scolari addestrati. Lo studente ricercatore “esplicita ciò che vuole
sapere”, “ipotizza possibili soluzioni” e “confronta le proprie ipotesi con quelle dei colleghi”.
“Lo ‘scolaro addestrato’, invece, non chiede mai: risponde soltanto. E quando risponde lo fa
sotto interrogazione: rispondere significa essere esaminato”. Inoltre “vede nell’insegnante il
depositario della verità” e “vede i colleghi come rivali o non li considera affatto” (HUMPHRIS,
1997).
Alcune tecniche che i docenti in genere usano per realizzare questo addestramento sono:
“[v]alutare le risposte degli scolari in termini di giusto o sbagliato, e non come ipotesi intelligenti”; “[n]on dare mai l’ultima parola allo studente”; “[s]e uno studente chiede qualcosa, dare
più informazioni di quante siano state richieste”; “[n]on ammettere mai di non sapere tutto”;
“[n]on ammettere che lo studente possa iniziare un nuovo scambio all’interno di un percorso
didattico già avviato dall’insegnante” (HUMPHRIS, 1997).
2.2.4. Il sistema dei premi e dei castighi e il sistema delle conseguenze
Il sistema più spesso usato dagli insegnanti autoritari per ottenere il comportamento desiderato è quello dei premi e dei castighi, due tipi di motivazione estrinseca11. Lo strumento più
spesso usato, sia come premio sia come castigo, è la valutazione: se i voti non sono buoni, si
può essere esclusi da alcuni privilegi (borse di studio, vacanze studio all’estero, ecc.) o perfino
essere respinti. Anche i compiti a casa talvolta sono punitivi, accentuando l’avversione nei confronti dello studio: se si usano gli strumenti di apprendimento come punizione, però, si manda il
messaggio che l’apprendimento è un castigo. Si sortisce lo stesso effetto quando, come premio,
si concede di lasciare l’aula prima della fine della lezione.
10 In Giappone, generalmente fino alle scuole secondarie di secondo grado, gli studenti eseguono, con delle varianti,
le seguenti istruzioni, pronunciate a gran voce da un compagno: “In piedi! Attenti! Inchino!”
11 Sulla necessità di promuovere la motivazione intrinseca in alternativa a quella estrinseca e sulle modalità per incentivarla, v. DIODATO, F. Un’analisi dei fattori legati alla motivazione degli studenti d’italiano della Kyoto Sangyo
University (Giappone). Matices en Lenguas Extranjeras. 2018, 11, 173-202. Disponível em: <https://revistas.unal.edu.
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“[P]remi e castighi non sono per niente opposti; sono due facce della stessa medaglia”
(KOHN, 1993, p. 50): entrambi perseguono il fine di manipolare un comportamento. Non insegnano che cosa fare e che cosa non fare né il motivo: i premi insegnano a desiderare i premi
e i castighi insegnano a desiderare di evitare i castighi (KOHN, 1993).
I castighi, inoltre, allontanano i discenti da chi dovrebbe educarli e li trasformano in soggetti “più molesti, aggressivi e ostili” (KOHN, 1993, p. 168). I premi, però, sono da evitare
quanto i castighi perché analogamente esercitano un controllo: la differenza risiede nel fatto
che i primi sono allettanti. Inoltre, i premi sono tali quando si ottengono: in caso contrario,
diventano castighi. Deteriorano i rapporti perché incitano alla competizione e, dunque, all’individualismo, più che alla cooperazione, indispensabile per ottenere risultati qualitativamente
migliori. L’enfasi sull’agonismo potrebbe anche essere un deterrente per coloro che pensano di
non avere alcuna possibilità. I premi trascurano i motivi che spingono i discenti ad assumere
certi comportamenti. Per es., se uno studente è poco motivato a studiare, una ricompensa non
risolverà il problema alla base, sebbene dovesse sortire qualche effetto positivo nell’immediato. Come se non bastasse, i premi scoraggiano l’assunzione dei rischi: gli allievi faranno
solo ciò che gli altri si aspettano che facciano, per ottenere benefici. Si limiteranno a quello,
eviteranno di esplorare, di spingersi oltre: i premi abbassano il livello di interesse e la qualità
del lavoro svolto (KOHN, 1993).
Tra i premi sono da annoverare anche gli elogi. Kohn (1993) evidenzia alcuni problemi che
emergono da questa pratica. Il primo è che, se si elogia qualcuno per essere riuscito a completare un compito non molto complicato, questi potrebbe pensare di essere ottuso. Il secondo,
che, se si elogia qualcuno dicendogli che è bravo12, in futuro potrebbe sperimentare l’ansia da
prestazione, con conseguenze sul rendimento. Nello stesso modo, se commentiamo con “Ottima domanda!” una richiesta di chiarimento, nell’immediato il discente sarà probabilmente
compiaciuto dell’apprezzamento ricevuto; in seguito, però, potrebbe decide di non formulare
12 Il significato della parola “bravo” cambia a seconda delle convinzioni. Chi scrive concorda con Humphris, il quale
ritiene che le abilità siano più importanti delle conoscenze: “Che cosa significa dire che uno studente è bravo o meno
bravo nella lingua straniera che sta studiando? Tuttora esistono insegnanti che applicano un criterio del tipo ‘sa, o non
sa, costruire il periodo ipotetico’. Ancor peggio, questo ‘sa, o non sa costruire’ viene affermato in base ad un test in cui
allo studente è richiesto non di elaborare per intero un periodo ipotetico, ma di inserire in una frase incompleta le forme
corrette di verbi forniti all’infinito. Dire che uno studente è ad un buon punto del suo apprendimento in base a prove
così esili non è molto attendibile. Che dire, ad esempio, di uno studente che, pur avendo fallito nel test citato, riesce
ad ottenere conversazioni lunghe quando incontra persone di madrelingua? È più o meno bravo di un altro studente
che, pur essendo riuscito nel medesimo test, si trova davanti persone di madrelingua che sfuggono dopo pochi minuti
di conversazione? C’è chi dirà che questa differenza non ha a che fare con abilità linguistiche, bensì con il carattere
o con la personalità dello studente. Ora, se da un lato è innegabile che fattori come questi ultimi abbiano un peso
considerevole, è proprio vero, dall’altro, che le abilità linguistiche non esercitino alcuna incidenza? Il parlante nativo
che si sottrae alla conversazione lo fa perché non la trova un’esperienza piacevole. Spesso, ciò è dovuto al fatto che
si sforza troppo per seguire; magari è anche un po’ irritato. Osservando bene conversazioni del genere si può notare
che errori tipo la forma del verbo nel periodo ipotetico hanno sull’interlocutore un effetto negativo minore rispetto ad
altre caratteristiche del modo di parlare dello studente” (HUMPHRIS, 1984). Dello stesso avviso sembrano i ragazzi
della Scuola di Barbiana, guidati da don Lorenzo Milani, i quali, già nel 1967, a proposito del test scritto di francese
all’esame di terza media, scrivevano: “Passò con nove un ragazzo che in Francia non saprebbe chiedere nemmeno del
gabinetto. Sapeva solo chiedere gufi, ciottoli e ventagli sia al plurale che al singolare8 [la nota è presente nell’originale].
Avrà saputo in tutto duecento vocaboli e scelti con il metro di essere eccezioni, non d’essere frequenti. Il risultato è che
odiava anche il francese come si potrebbe odiare la matematica. gufi, ciottoli e ventagli = queste tre parole in francese
sono più difficili delle altre. I professori all’antica le fanno imparare a mente fin dai primi giorni di scuola” (SCUOLA
DI BARBIANA, 2007, pp. 21-22).
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domande, perdendo occasioni di arricchimento preziose: ora sa che c’è la possibilità che l’insegnante le giudichi negativamente. Lo stesso discorso vale per i compagni che hanno assistito
alla scena13. Il terzo, di nuovo, che gli studenti potrebbero evitare di cimentarsi in compiti più
impegnativi per essere sicuri di continuare a ottenere elogi. L’ultimo, che l’elogio, come gli
altri tipi di premi, può contribuire a ridurre la motivazione intrinseca: il fatto è preoccupante
se consideriamo che è questo il tipo di motivazione che induce a impegnarsi al massimo delle
proprie possibilità. Dweck (2008) afferma che, se si elogiano l’intelligenza e il talento, gli
studenti si avviliscono davanti al primo ostacolo e la motivazione cala di pari passo. Infatti, se,
quando portano a termine un compito brillantemente, li elogiamo per essere stati bravi, quando non ci riescono, penseranno, di conseguenza, di essere stupidi. Ciò che invece dovremmo
insegnare ai nostri studenti è “amare le sfide, essere incuriositi dagli errori” e “apprezzare lo
sforzo” (DWECK, 2008, p. 177): in questo modo continueranno a imparare. Per questo motivo,
bisogna elogiare lo sforzo e non la bravura14.
Per le ragioni esposte, al sistema dei premi e dei castighi si deve preferire quello delle conseguenze. Queste sono il risultato, positivo o negativo, delle azioni di un individuo. Le persone
sono spinte naturalmente a ottenere conseguenze positive, pertanto la volontà di agire per conquistarle nascerà dentro se stessi, non da una coercizione (FIORE MONTESSORI SCHOOL,
2012).
Esistono due tipi di conseguenze: naturali e logiche (FIORE MONTESSORI SCHOOL,
2012). Una conseguenza naturale è, per es., quella che si verifica quando uno studente dimentica il dizionario: sperimenterà una difficoltà maggiore nello svolgere l’attività. Dopo questo
inconveniente, lo studente avrà più chiara l’importanza di avere sempre con sé il dizionario e
probabilmente la volta successiva farà più attenzione15.
Ci sono, tuttavia, azioni prive di conseguenze naturali immediate, azioni con conseguenze
naturali pericolose e azioni completamente sprovviste di conseguenze naturali. In tal caso, sarà
necessario creare delle conseguenze ad hoc: le conseguenze logiche (FIORE MONTESSORI
SCHOOL, 2012). Una conseguenza logica è, per es., quella che si verifica quando uno studente
non svolge i compiti a casa: la volta successiva dovrà svolgere sia i vecchi sia i nuovi16.
La cosa importante, in sintesi, è dare agli allievi molte occasioni di sperimentare per permettere loro di ricordare più facilmente quanto appreso. In questo modo trasmetteremo loro
anche un maggior senso di responsabilità. È fondamentale, dunque, non proteggere i discenti
dalle conseguenze delle loro azioni, per evitare “un aumento del livello di irresponsabilità e una
drastica diminuzione del senso civico” (DAFFI, 2011, p. 93). Solo se si dà agli allievi la possibilità di affrontare le conseguenze delle loro scelte, si può sperare in una vera crescita. Uno
dei compiti del docente, in altre parole, è quello di favorire l’integrazione degli studenti nella
società: devono imparare che gli errori possono provocare danni relazionali (DAFFI, 2011).
13 L’esempio è nostro. Lo scrivente è inoltre dell’opinione che tutte le domande siano ottime e che, dunque, meritino
lo stesso rispetto: nascono tutte dal desiderio dello studente di ottenere un’informazione che in quel momento non
possiede.
14 Un ottimo esempio è quello di Catizone, a proposito della Produzione libera orale, attività in cui gli studenti stranieri parlano liberamente in italiano senza essere corretti, per “aumentare la scorrevolezza, la fluenza, la confidenza con
la lingua orale”. L’autore spiega, infatti, che l’insegnante può lodare “gli studenti dopo che hanno finito facendo notare
loro lo straordinario risultato raggiunto: aver comunicato in italiano per x minuti” (CATIZONE, 2004).
15 L’esempio è nostro.
16 L’esempio è nostro.
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Conclusioni
Questo lavoro si è avvalso, in parte, del contributo delle ricerche neuroscientifiche, in particolare per quanto concerne il ruolo dell’amigdala. Ciò permette di spiegare alcuni atteggiamenti e di definire delle modalità d’azione. Inoltre, sapere che alcuni comportamenti sono del
tutto naturali potrebbe aiutare a vedere i discenti con un occhio più benevolo e, di conseguenza,
a concentrarsi con maggior serenità sul lavoro.
In particolare, a proposito degli adolescenti, si è discusso delle origini neurobiologiche di
fattori come la mancanza di autocontrollo, di inibizione di impulsi, di moderazione della condotta sociale e di pianificazione. Uno dei risultati è che questo tipo di apprendenti in genere non
è in grado di proteggersi dalle distrazioni e pertanto è necessario l’intervento dell’insegnante.
Per es., si potrebbe chiedere di disattivare la suoneria dello smartphone e di riporlo: in questo
modo non saranno colti dalla tentazione di usarlo per scopi che esulino dall’attività didattica.
Se sono studenti di italiano come lingua straniera, si potrebbe ricordare di usare questo e non
altri idiomi ogni volta che la situazione lo richieda. Infine, si potrebbero formare coppie di
studenti compatibili, cioè di studenti che non esercitino un’influenza negativa l’uno sull’altro.
Le origini neurobiologiche, tuttavia, non devono essere addotte a pretesto per giustificare i
discenti e non intervenire. Al contrario, l’intervento è indispensabile per sostenerli nel delicato
passaggio verso l’età adulta. Come affermano Mariani e Schiralli (2014), gli insegnanti hanno
il potere di agire sulle sinapsi e di placare l’amigdala incoraggiando comportamenti migliori.
Inoltre,
le vie nervose utili alla migliore gestione delle pulsioni vengono costruite
con le regole e la loro introiezione. In assenza di regole, non si sviluppano
adeguatamente i neuroni deputati al controllo e alla valutazione delle
situazioni contingenti, rimanendo funzionalmente insufficienti per il resto
della vita (MARIANI; SCHIRALLI, 2014, p. 23).
A questo proposito, si ribadisce anche l’alto valore formativo del sistema delle conseguenze, il quale aiuta a responsabilizzarsi permettendo di imparare dalle esperienze.
Il docente deve avere la capacità di creare le condizioni ottimali: solo così le lezioni possono essere vere occasioni di arricchimento. A tal fine, è necessario che questi si ponga come una
guida autorevole, capace di guadagnarsi la stima dei suoi discenti ed esercitare su di loro un’influenza positiva. Non si diventa, però, autorevoli con la forza, ma con una fermezza fondata su
motivi didattici precisi; questi, però, non devono essere spiegati: se il docente è convinto e tratta gli studenti con riguardo, questi ne soddisfaranno le richieste, anche in caso di disaccordo.
Anche l’ambiente di apprendimento, per quanto possibile, deve essere curato; per es. sarebbe utile modificare la disposizione dei banchi sia per garantire una maggiore interazione in
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classe, sia per impedire il riaffiorare di ricordi legati a eventuali situazioni ansiogene vissute in
altri contesti didattici. Naturalmente ciò sottrae del tempo, ma i vantaggi superano gli svantaggi: si avranno studenti meno ansiosi e dunque più ricettivi e in grado di trarre maggior beneficio
dalle attività.
Per una maggiore efficacia dell’azione didattica, sarebbe auspicabile un alto grado di accordo rispetto al modo di educare tra i docenti di uno stesso istituto; a seconda dell’età dei
discenti, anche tra i docenti e i genitori. L’organizzazione di frequenti incontri formativi rivolti
a entrambe le categorie è indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo.
Al docente intenzionato a percorrere la strada prospettata in questo lavoro saranno necessari
un grande coraggio e una profonda convinzione nelle scelte didattiche: il cambiamento richiesto è radicale. Per cominciare, bisogna colmare la distanza tra docente e studenti, senza però
commettere l’errore di diventare permissivi o democratici e di trattare i discenti come dei pari.
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