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Un modello cognitivo delle emozioni estetiche
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Kant on formative power
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Le parole dell'arte. Ovvero quando l'opera, da sola, non basta
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Iconic turn. Una lettera
Gottfried Boehm
Pictorial turn. Una risposta
William J.T. Mitchell
Iconic turn. Alcune chiavi di svolta
Emanuele Alloa
Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere
Luca Vargiu
Euristica del senso. Iconic turn e semiotica dell'immagine
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"Una sorta di intelligenza iconica". Immagine e conoscenza intuitiva
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Pre-scritto alla logica di una scienza delle immagini
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160 Luca Vargiu
LUCA VARGIU
(Università degli Studi di Cagliari)
BOEHM, MITCHELL
E UNA STORIA ANCORA DA SCRIVERE
Non sembra aver perso di validità uno dei punti su cui Boehm e
Mitchell concordavano nel loro carteggio, risalente ormai a più di
sei anni fa: ritenere ancora prematura l’elaborazione di una storia
compiuta della scienza dell’immagine. Tuttavia, nel momento stesso in cui esprimevano questa convinzione, entrambi gli studiosi
non intendevano sottrarsi dal delineare una «storia in medias res»
o quantomeno dal «registrare i […] rispettivi percorsi all’interno
di questo labirinto», come si esprime Mitchell. Alcuni anni prima,
in una situazione per certi versi analoga, era stata Maria Andaloro
a dichiarare che, pur non essendo sua intenzione fare un bilancio
storiografico, non voleva neanche «rinunziare a testimoniare
come si [fosse] incanalato il corso generale della riflessione»1. La
studiosa si riferiva ai mutamenti intervenuti all’interno della
storiografia sull’icona a partire dagli anni Ottanta del secolo
scorso, ma possiamo comunque parlare di un’analogia, dal
momento che è possibile riscontrare una svolta iconica anche
nell’ambito delle ricerche sul Tardo Antico e sul Medioevo, sempre
grosso modo dagli stessi anni. Non è anzi azzardato sostenere che
il dibattito sull’immagine nato e sviluppatosi in seno alla
medievistica rappresenti una cartina di tornasole del carattere
prematuro di una storia della Bildwissenschaft, se è vero che
proprio i rapporti intercorrenti tra questo dibattito e gli studi in
altri campi, a cominciare da quello più vicino, la storiografia
artistica, ancora non sono stati sufficientemente indagati. Eppure,
basterebbero i nomi di Hans Belting, medievista di formazione e
autore, su questi temi, di un contributo fondamentale quale Bild
und Kult, o di Michael Camille, autore di The gothic idol e ricordato
da Mitchell come membro del «Laocöon Group» di cui egli stesso
M. Andaloro, Le icone a Roma in età preiconoclasta, in E. Patlagean et al., Roma fra
Oriente e Occidente, XLIX Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo
(Spoleto 2001), 2 voll., Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2002, vol. 2, pp.
719-753, qui p. 732.
1
161 Lebenswelt, 2 (2012)
faceva parte, per suggerire percorsi e ipotesi ricostruttive che
tengano nel giusto conto gli studi sull’immagine medievale. Ancora, è significativo il fatto che quella che è forse la prima attestazione in Italia dell’espressione ‘iconic turn’, dovuta a Gerhard
Wolf, provenga dallo stesso contesto in cui Maria Andaloro aveva
fatto la dichiarazione sopra riportata: la Settimana di Studio del
2001 del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto2.
Certo, va detto subito che il dibattito sviluppatosi in seno alla
medievistica trova le sue motivazioni più forti e più stringenti in
un punto di vista interno a questa sfera disciplinare, al di là dei parallelismi, delle tangenze e degli scambi con gli altri campi del sapere. Sono motivazioni che, in sintesi, risiedono nella necessità di
sfuggire all’anacronismo derivante dall’applicare al Medioevo un
concetto come quello moderno di arte, o meglio dall’applicare al
Medioevo il concetto di arte nella sua accezione moderna, per
giungere in tal modo a privilegiare un’indagine che separi l’analisi
storica dal giudizio estetico3. Fatte salve queste considerazioni,
però, dal punto di vista di un interesse generalizzato per
l’immagine e della raccolta dei materiali per una storia della
Bildwissenschaft ancora da scrivere, è anche possibile sostenere
che il Medioevo si presenta come «un laboratorio ideale», come ha
rivendicato ancora Wolf nello stesso intervento, in un’ottica che
appare già retrospettiva:
A partire dal rifiuto delle immagini da parte dei primi cristiani per giungere all’accettazione, gli inizi di un culto delle immagini, la collocazione
di immagini come palladii cittadini, attraverso la crisi dell’iconoclastia, il
seguente trionfo delle immagini, i miracoli di cui furono protagoniste, le
usanze e i riti paraliturgici a Bisanzio, a Roma e in tutto il mondo cristiano, fino alla crisi della Riforma, il Medioevo sembrava rivelarsi un’era
dell’immagine precedente un’era dell’arte.4
Qui è appena il caso di far notare che il richiamo a «un’era dell’immagine precedente un’era dell’arte» allude alle tesi esposte da
Belting in Bild und Kult e cristallizzate nel sottotitolo di
G. Wolf, Alexifarmaka. Aspetti del culto e della teoria delle immagini a Roma tra Bisanzio e
Terra Santa nell’alto Medioevo, in E. Patlagean et al., op. cit., vol. 2, pp. 755-790, qui p. 755.
3 Per una prima visione d’insieme, rimando al mio La ‘svolta iconica’ della medievistica,
«Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari» 24 (2006), pp. 423440 (versione elettronica in: http://lettere.unica.it/Annali/volumi completi/pdf. Volume
XXIV completo.pdf).
4 G. Wolf, op. cit., pp. 755-756.
2
162 Luca Vargiu
quest’opera5, relative alla separazione tra un’età dell’arte, che ha
inizio a partire dal Rinascimento e dalla Riforma protestante, e
un’era dell’immagine, che la precede e copre tutto il Medioevo:
una separazione, questa, che, negli studi medievistici e
modernistici – ma anche estetologici6 – ha assunto quasi un
carattere di slogan, rappresentando una delle formule alle quali è
legato il nome di Belting e con il quale lo studioso tedesco è subito
identificato.
Oltre a mostrarsi in questioni riguardanti l’inclusione o meno di dibattiti, discorsi e approcci, il carattere prematuro di una
storia della scienza dell’immagine si rende evidente in altri problemi, che, dalle difficoltà terminologiche, finiscono per
coinvolgerne lo stesso statuto. Si comprendono così i dubbi
avanzati da Mitchell nel carteggio, relativi al modo di intendere
un’espressione come ‘image science’ in una lingua come l’inglese
nella quale, in genere, il termine ‘science’ è riservato alle discipline
«‘esatte’, ‘dure’ e ‘sperimentali’». Ciò aiuta senz’altro a spiegare la
scelta di diversi studiosi in favore di altre espressioni, come
‘image studies’; occorre tuttavia capire, anzitutto, se le due
espressioni sono coincidenti e sovrapponibili, se inoltre sono
coincidenti con altre, quali ‘visual studies’ e, infine, quale rapporto
intrattengano con l’espressione tedesca ‘Bildwissenschaft’.
Tale sovrapponibilità, per esempio, sembrava essere esclusa
in occasione di un incontro con Belting che doveva tenersi all’Università Statale di Milano nel febbraio del 2006, poi annullato: qui,
nella locandina, lo studioso era presentato icasticamente come la
«risposta ‘tedesca’ alla visual culture» di area anglosassone, quasi
a far intendere una differenza di approccio nelle ricerche portate
avanti nelle due aree. Se però in quel caso poteva trattarsi di una
semplice formula icastica, maggior peso rivestono invece altre osservazioni, come per esempio quelle condotte dallo studioso polacco Mariusz Bryl, nel ricostruire lo sviluppo delle discipline storico-artistiche in ambito tedesco e angloamericano tra gli anni Settanta e Novanta del secolo passato. In proposito, Bryl registrava
tra le due aree una discrepanza nei metodi e nelle teorie, tale da
costituire per lui un elemento essenziale in ogni ricognizione degli
Disattendendone gli intenti, titolo e sottotitolo del libro di Belting sono stati resi in
italiano come Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo
(1990), tr. it. di B. Maj, Roma, Carocci, 2001.
6 Cfr. per es. il veloce richiamo contenuto in P. D’Angelo, Estetica, Roma-Bari, Laterza,
2011, p. 90.
5
163 Lebenswelt, 2 (2012)
aspetti teorici della storiografia artistica contemporanea. Basandosi sulla propria esperienza e sul panorama descritto parallelamente in campo storico-letterario da Robert C. Holub in Crossing
borders, Bryl evidenziava la mancanza di un dialogo vero e
proprio tra gli storici dell’arte tedeschi e statunitensi, malgrado le
affinità riscontrabili da entrambe le parti. Queste avrebbero però
dato vita a una «sincronia di alternative» più che a uno scambio
reciproco, eccezion fatta per pochi tentativi di «attraversare i
confini» – per riprendere l’espressione di Holub7. È una
ricostruzione, questa, che nelle sue linee generali convince, anche
laddove diversi elementi contribuiscono a suggerire
un’articolazione più ricca del quadro. Ciò è mostrato, fra l’altro,
dal dibattito sul tema della ‘fine’ dell’arte e della storia dell’arte e
dal confronto sviluppatosi in merito, a partire dalla fine degli anni
Ottanta, tra Arthur C. Danto e ancora Belting: un confronto che, se
da un lato ha prodotto un movimento duplice di border-crossing,
dall’altro lato è anche però testimonianza della diversa impostazione del problema nelle due aree, e quindi della «sincronia di alternative» che pure in questo caso emerge8.
In sintonia con questa lettura, all’immagine di Danto, che
sintetizza il proprio confronto con Belting parlando di due «delfini
appaiati, che si sono divertiti a giocare nelle stesse acque concettuali per più di un decennio»9, possono essere affiancate sia l’immagine di Boehm, che raffigura se stesso e Mitchell come «due esploratori che avevano attraversato lo stesso, ignoto continente
dei fenomeni iconici e della visualità», sia quella, che richiama gli
Holzwege heideggeriani, impiegata da Mitchell per suggerire i caratteri del rapporto sussistente tra pictorial e iconic turn: non nei
termini di una rivendicazione di priorità, ma come «sentieri paralleli che si inoltrano nella foresta». Immagini simili, dunque, in tutti
questi casi: sincronie, appaiamenti, attraversamenti comuni, parallelismi.
Nondimeno, forse, nel caso del rapporto tra iconic e pictorial
Cfr. M. Bryl, Między wspólnotą inspiracji a odrębnością tradycji. Niemiecko- i
anglojęzyczna historia sztuki u progu trzech ostatnich dekad, «Rocznik Historii Sztuki» 24
(1999), pp. 217-260, in part. pp. 217-220 e 258-260; e R.C. Holub, Crossing borders.
Reception theory, poststructuralism, deconstruction, Madison, University of Wisconsin
Press, 1992, pp. VIII-IX e passim.
8 In proposito, rimando al mio «Like paired dolphins». Sincronia di alternative tra Danto e
Belting, «Rivista di Estetica» 47 (2007), pp. 335-355.
9 A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia (1997), tr.
it. di N. Poo, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 236 (tr. modificata).
7
164 Luca Vargiu
turn gli scambi e gli attraversamenti dei confini sono stati e continuano a essere più numerosi, frequenti e duraturi di quanto non
sia accaduto per il contesto storico-artistico indagato da Bryl, nonché più saldi e sicuri di come si sono dati nel confronto Danto-Belting. Anzi, l’interesse per l’immagine, per il modo in cui si è configurato in questi ultimi decenni, appare assumere una portata più
vasta rispetto alle denominazioni di iconic e pictorial turn. D’altro
canto, è anche vero che in Germania l’etichetta di iconic turn ha finito per comprendere al suo interno l’intero dibattito sull’immagine, in maniera ben più ampia, quindi, dell’accezione che intendeva
darne Boehm nel saggio in cui introduceva il termine e che ribadiva nel carteggio – cioè, in estrema sintesi, una sorta di controcanto
complementare al linguistic turn, volto a indagare «com’è che le
immagini generano senso» e qual è il loro proprio, specifico logos10. Di tale comprensione più ampia, divenuta addirittura – come riscontra lo stesso Boehm – una vera e propria moda culturale,
sono esempi numerose pubblicazioni, l’organizzazione di
convegni e seminari e l’apertura di siti web e forum online
dedicati espressamente al tema, a cominciare dal sito Iconic turn
dell’Hubert Burda Stiftung11.
La situazione italiana e quella francese mostrano, però, un esito diverso dalla Germania e una relativa indipendenza dalle formule coniate da Boehm e da Mitchell. Nel nostro paese, infatti, la
prima attestazione dell’espressione ‘iconic turn’ dovrebbe essere
quella di Wolf del 2001 sopra menzionata, mentre la prima occorrenza in cui tale espressione viene impiegata in italiano, tradotta
alla lettera con ‘svolta iconica’, dovrebbe risalire al 2003, al saggio
introduttivo alla riedizione del Duccio di Cesare Brandi, scritto da
Cfr. G. Boehm, Il ritorno delle immagini (1994), tr. it. di N. Mocchi, in A. Pinotti - A.
Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello
Cortina, 2009, pp. 39-71. Per il linguistic turn il riferimento va, come è noto, a R. Rorty
(ed.), The linguistic turn. Recent essays in philosophical method, Chicago-London,
University of Chicago Press, 1967, 1992² (antologia tradotta, limitatamente ai contributi di
Rorty, in La svolta linguistica, tr. it. di S. Velotti, Milano, Garzanti, 1994). Da osservare che
nell’introduzione Rorty assumeva già una posizione critica nei confronti della svolta
linguistica. Cfr. R. Rorty, Difficoltà metafilosofiche della filosofia linguistica, in La svolta
linguistica cit., pp. 23-110; e in proposito D. Marconi - G. Vattimo, Nota introduttiva a R.
Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1992², pp. VII-XXXII, che
vedono in Rorty addirittura la tesi di un «fallimento della ‘svolta linguistica’» (p. XXXI, nota
2).
11 Raggiungibile all’indirizzo http://www.iconicturn.de. Vita più breve ha avuto l’iconic
turn network, che fungeva anche da tavolo libero di discussione sull’argomento (era
raggiungibile all’indirizzo http://www.iconic-network.com e ora può essere recuperato
tramite la wayback machine dell’internet archive, all’indirizzo http://www.archive.org).
10
165 Lebenswelt, 2 (2012)
Victor Stoichita12. È significativo che in entrambi i casi si tratti di
studiosi non italiani, seppure assai legati all’Italia: Wolf è tuttora
direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze, mentre Stoichita si è formato a Roma proprio sotto la guida di Brandi. Significativo perché, se si sono dovuti attendere gli anni Duemila e due studiosi stranieri per registrare la comparsa del ‘nome’, la ‘cosa’
aveva fatto la sua comparsa già da qualche anno e si era anche già
tentato di tracciarne le coordinate. Il riferimento andava, in primo
luogo, al 1987, l’anno del dodicesimo centenario del secondo
concilio di Nicea, e all’interesse rinnovato che da qui era scaturito,
a livello internazionale e secondo una prospettiva culturale di
largo respiro, per i temi dell’immagine, dell’iconoclastia e
dell’iconofilia13. In una prima disamina retrospettiva a dieci anni
dal centenario, in occasione della traduzione italiana degli atti del
concilio sotto il titolo già di per sé indicativo di Vedere l’invisibile,
era stato Luigi Russo, curatore del volume, a porre l’attenzione
sulla riscoperta e sulla centralità di Nicea nell’orizzonte culturale
contemporaneo. Egli parlava, in quell’occasione, di una
rivoluzione connessa al tema dell’immagine, «una vera e propria
rivoluzione scientifica» che, «nell’onda della fondamentale opera
di Freedberg Il potere delle immagini», andava percorrendo gli anni di fine millennio14. Con il richiamo duplice a Nicea e a David
Freedberg, tali osservazioni testimoniano come anche il mondo
della cultura italiana sia stato precoce nel recepire l’interesse che
da più parti veniva manifestandosi verso l’immagine, nonché
capace di leggerlo in tutta indipendenza: non nei termini di una
svolta, appunto, ma in quelli di una rivoluzione. È appena il caso di
aggiungere che il volume in questione è stato riconosciuto come
quello a cui si deve l’avviamento del dibattito sul problema
dell’immagine in Italia15.
In area francese, l’accoglimento del tema prende la stessa di-
Cfr. V.I. Stoichita, ‘Astanza’ di Duccio, presenza di Brandi, testo introduttivo a C. Brandi,
Duccio, Siena, Protagon, 2003, pp. 5-9, qui p. 9.
13 Cfr. F. Bœspflug - N. Lossky (éds.), Nicée II 787-1987. Douze siècles d’images religieuses,
Actes du Colloque international Nicée II (Paris 1986), Paris, Cerf, 1987. A quest’opera si
deve l’inaugurazione del rinnovato interesse verso il concilio Niceno II, a partire dalla
convinzione che «la ricezione del decreto di Nicea II [sia] da reinventare» (Avant-propos,
ibid., pp. 7-17, qui p. 12).
14 L. Russo, Presentazione a L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto
dell’immagine, Palermo, Aesthetica, 1997, pp. 7-12, qui pp. 9-10.
15 Così E. Franzini, Introduzione all’edizione italiana di R. Debray, Vita e morte
dell’immagine, Milano, Il Castoro, 1998, pp. 7-12, qui p. 12, nota 2. Di Franzini cfr. anche la
Recensione a L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile cit., «Domus» 803 (1998), p. 120.
12
166 Luca Vargiu
rezione, per lo meno nelle sue linee generali. Se già, nello stesso
anno in cui usciva Vedere l’invisibile, Jean-Jacques Wunenburger
concludeva la sua Philosophie des images scrivendo che «l’immagine sembra avviarsi a diventare l’oggetto privilegiato della ricerca
filosofica», negli anni Duemila una scheda contenuta all’interno
del dizionario filosofico della Larousse estende l’ambito del discorso, fino a chiedersi se in proposito non sia in gioco «una nuova
rivoluzione copernicana»16.
Se dunque in Germania e negli Stati Uniti hanno prevalso denominazioni che fanno leva sulla svolta, in Italia e in Francia si è
preferito parlare di rivoluzione e di rivoluzione copernicana. Ma
in tal modo si giunge, o si torna, a quella che Boehm nel carteggio
chiama – ovviamente con riferimento a Kant – «il turn di tutti i
turns»: la rivoluzione copernicana, appunto. Così facendo, nelle
sue considerazioni sul senso da attribuire alla svolta – paradigma,
secondo la lezione di Kuhn, o «mossa retorica che ricorda la moda
dell’autunno passato» – lo studioso tedesco sembra equiparare tale formula a quella della rivoluzione. È vero che il richiamo alla rivoluzione copernicana compare in Boehm in relazione al problema del fondamento, tanto del linguistic, quanto dell’iconic turn,
e non in merito alla questione delle denominazioni e della loro ricezione. Tuttavia, fatta salva questa precisazione, la possibile messa sullo stesso piano delle formule della svolta e della rivoluzione
permette di estendere alla seconda le riflessioni che Boehm e
Mitchell svolgono a proposito della prima.
Alle interpretazioni che leggono l’interesse contemporaneo
per l’immagine in termini di svolta o di moda, Mitchell aggiunge
quella, da lui già avanzata in lavori precedenti, di tropo o di figura
retorica17. Per lo studioso americano, non sussistono differenze
radicali tra il mutamento di paradigma e lo spostamento di un tropo, dal momento che, come afferma nel carteggio richiamandosi a
Foucault, lo stesso paradigma altro non è che un tropo, «ovvero
una ‘figura della conoscenza’ all’interno di una disciplina». Da queste considerazioni emerge che il pictorial turn può essere inteso,
senza che vi si possano riscontrare differenze significative, o come
Citazioni tratte, rispettivamente, da J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini (1997), tr.
it. di S. Arecco, Torino, Einaudi, 1999, p. 400, e da F. Soulages - J. Morizot, L’image est-elle
l’enjeu d’une nouvelle révolution copernicienne?, in M. Blay (éd.), Grand dictionnaire de la
philosophie, Paris, Larousse, 2003, pp. 523-525.
17 Cfr. W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere. Una critica della cultura visuale (2002), tr. it. di A.L.
Carbore e F. Mazzara, in Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Palermo, Duepunti, 2008,
pp. 51-79, qui 60 e 65.
16
167 Lebenswelt, 2 (2012)
mutamento di paradigma o come un movimento che soggiace alla
retorica della svolta, quella stessa retorica che, a partire dal linguistic turn rortyano e con un ritmo sempre più crescente a mano a
mano che ci si avvicina ai nostri giorni, ha prodotto una serie di
svolte che impressiona già soltanto per il numero18.
Forse si potrebbe avanzare la proposta di provare a soffermarsi sulla moltiplicazione delle svolte in una prospettiva di storia
delle idee o dei concetti, o magari di metaforologia à la Hans Blumenberg. È lo stesso Boehm a spingere verso questa direzione, nel
momento in cui, riferendosi alla rivoluzione copernicana come
«turn di tutti i turns», riconosce il suo debito proprio nei confronti
di Blumenberg e, in particolare, nei confronti del suo studio sulla
«formula del mondo copernicana»19. Ma, al di là di questo, che può
essere un suggerimento per un’indagine a venire, è interessante
notare come queste considerazioni conducano poi Mitchell a interrogarsi sui contenuti e sul valore da attribuire a tale svolta,
tropo, paradigma o moda – o stile – che sia.
Per tracciare la cornice all’interno della quale le osservazioni
di Mitchell si inseriscono, ci si dovrebbe intanto chiedere se la
quantità di svolte a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non sia
tale da suscitare il sospetto di un abuso della parola: un sospetto
da avanzare di contro a chi, come il teorico del teatro Christopher
Balme, con un atteggiamento a metà strada tra il fatalismo e la legittimazione dell’esistente, ha sostenuto che il propagarsi delle
svolte nella cultura scientifica contemporanea sia qualcosa che
debba essere accettato di necessità20. Se poi, da tali questioni più
generali, ci rivolgiamo direttamente all’iconic o al pictorial turn,
dobbiamo riscontrare diversi pareri in merito, secondo i quali la
‘svolta’ o è finora soltanto auspicata oppure, più ottimisticamente,
è già compiuta o sul punto di compiersi. Quando Boehm aveva coniato l’espressione nel 1994, l’iconic turn gli appariva come qual-
Dopo, si è parlato – e l’elenco non ha alcuna pretesa di completezza – di una svolta
ermeneutica, di un pragmatic turn o una pragmatische Wende, di una svolta testuale, di un
aesthetic turn, di una kulturalistische Wende e di un cultural turn, di un ontological turn, di
una svolta cognitiva, di uno spatial turn, di una svolta semiotica, di un narrativist turn, di
un pragmatic nonché di un performative turn. Parzialmente diverso il caso del visual turn,
il cui padre dovrebbe essere Martin Jay (That visual turn. The advent of visual culture,
«Journal of visual culture» 1 (2002), pp. 87-92) e che Mitchell impiega come sinonimo di
pictorial turn.
19 Cfr. H. Blumenberg, Die kopernikanische Wende, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1965.
20 Cfr. C. Balme, Stages of vision: Bild, Körper und Medium im Theater, in H. Belting - D.
Kamper - M. Schulz (Hrsgg.), Quel Corps? Eine Frage der Repräsentation, München, Fink,
2002, pp. 349-364, qui p. 349.
18
168 Luca Vargiu
cosa da introdurre, postulare e difendere: significativo è il fatto
che sentisse il bisogno di schizzarne le linee fondamentali e di
tratteggiarne la preistoria21. In contributi più recenti, invece, come
per esempio quelli di Horst Bredekamp, l’iconic turn è visto come
un’acquisizione che la storia dell’arte avrebbe già fatto, a dispetto
delle resistenze molteplici che pure continuano a sussistere in merito e che possiamo rintracciare in altri partecipanti al dibattito,
come, fra gli altri, Andreas Köstler, il quale, in polemica proprio
con Bredekamp, si dice scettico su tale compimento22.
È in questo contesto che si inserisce Mitchell, per mettere in
guardia da quella che egli stesso ha battezzato «fallacia del ‘pictorial turn’», potenzialmente comune sia ai suoi detrattori sia ai suoi
sostenitori, consistente nel ritenere unico e peculiare dei nostri
giorni l’interesse diffuso verso l’immagine e il visuale. Se nel carteggio lo studioso americano si sofferma sugli aspetti del ‘panico
iconico’, sulle «espressioni di timore» e sui «gesti iconoclasti», in
altri lavori, come per esempio in Showing seeing, egli si muove più
ad ampio raggio, per prendere in considerazione, oltre al timore e
all’iconoclastia, anche le manifestazioni di entusiasmo. In ogni caso, comunque, egli avverte con insistenza che con l’espressione
‘pictorial turn’ non intendeva indicare una svolta unica, propria
del mondo occidentale contemporaneo, bensì approntare «uno
strumento diagnostico capace di analizzare i particolari momenti
in cui un nuovo medium, un’invenzione tecnica, oppure una
pratica culturale si manifesta con fenomeni di panico o euforia (di
solito entrambi) rispetto al visuale»23.
Nel carteggio Mitchell è esplicito, più che altrove, nel
ribadire che il pictorial turn coinvolge sia le discipline
Cfr. G. Boehm, Il ritorno delle immagini cit., in part. pp. 42-46; e il differente
atteggiamento, dieci anni dopo, in Id., Jenseits der Sprache? Anmerkungen zur Logik der
Bilder, in C. Maar - H. Burda (Hrsgg.), Iconic Turn. Die neue Macht der Bilder, Köln, DuMont,
2005, pp. 28-43, in part. pp. 28-30; e nell’intervista Das Bild in der Kunstwissenschaft, in
K. Sachs-Hombach, Wege zur Bildwissenschaft. Interviews, Köln, Halem, 2004, pp. 11-21,
in part. p. 20.
22 Cfr. H. Bredekamp, Drehmomente – Merkmale und Ansprüche des iconic turn, in C. Maar H. Burda (Hrsgg.), Iconic turn cit., pp. 15-26; già Id., Metaphern des Endes im Zeitalter des
Bildes, in H. Klotz (Hrsg.), Kunst der Gegenwart. Museum für neue Kunst, Katalog, Museum
für Neue Kunst, Karlsruhe, ZKM, e München - New York, Prestel, 1997, pp. 32-37, in part.
pp. 35-36; e le dichiarazioni di A. Köstler in C. Danelzik-Brüggemann - G. Kerscher (Hrsg.),
Kunstgeschichte im neuen Jahrtausend. Ein Gespräch mit Christian Freigang (Göttingen),
Klaus Herding (Frankfurt/M.), Andreas Köstler (Bochum), Birgit Richard (Frankfurt/M.),
Viktoria Schmidt-Linsehoff (Trier), Kerstin Thomas (Frankfurt/M.), Willi Winkler
(Hamburg), «Kritische Berichte» 28 (2000), pp. 5-30, in part. p. 13.
23 W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., p. 66.
21
169 Lebenswelt, 2 (2012)
accademiche – le scienze umane, ma, aggiungiamo, non solo – sia
quella che chiama «sfera della cultura pubblica», e nel connettere
questo doppio riferimento alla convinzione secondo la quale
anche in passato si sono verificate diverse svolte iconiche, in
dipendenza di «un qualche intreccio tra la cultura intellettuale e la
sfera pubblica», in conseguenza di una nuova tecnica di
produzione o riproduzione delle immagini o di un atteggiamento
particolare relativo alle immagini stesse24. Risulta pertanto più
chiaro il suo intento di fare un uso critico e storico del pictorial
turn, che lo accomuna a diversi altri studiosi e anzi costituisce uno
degli aspetti di fondo della svolta iconica contemporanea o,
meglio, ancora nei termini mitchelliani, della «forma molto
specifica» assunta da tale svolta nei nostri tempi25.
All’interno dell’iconic turn, infatti, sappiamo che convivono,
gli uni intrecciati agli altri, assunti lato sensu politici e assunti teorici. Due citazioni tratte dal volume Iconic turn del 2005, la prima
di Bredekamp e la seconda di Willibald Sauerländer, aiutano a fornire i termini della questione:
In ogni immagine dei mass-media, delle scienze naturali e delle arti figurative agisce una gravitazione iconica [ikonische Gravitation], che
fornisce le chiavi per evitare di essere sottomessi al ‘flusso’ strabordante,
continuamente scongiurato, delle immagini, alla loro ‘velocità’
sopraffacente e al loro ‘potere’ inafferrabile. L’iconic turn è stato
proclamato con l’esigenza non solo di accompagnare gli attuali campi del
visuale, ma anche di analizzarli nel senso di una ‘logica delle immagini’
da elaborare pazientemente.26
Abbiamo bisogno di un iconoclasmo critico […] della percezione visiva,
fondato non solo sulla storia dell’arte e sull’estetica, ma ancor più sulla
sfera civile e pubblica. […] Una discussione sui nuovi media non può limitarsi ad analisi ancorché così brillanti dei procedimenti e delle innovazioni, perché la circolazione in gran numero delle immagini nella società dei
media è divenuto un problema che riguarda la sfera pubblica. […] Perciò
non si può parlare del pictorial o dell’iconic turn solo in modo descrittivo,
ma bisogna parlarne anche dal punto di vista etico e civile. I teorici francesi parlano di una ‘écologie des images’, una ecologia delle immagini.27
Nel medesimo senso, seppure a partire da premesse teoriche diverse, va considerata
l’individuazione di un iconic turn nell’antico Egitto a opera di Jan Assmann. Cfr. J.
Assmann, Die Frühzeit des Bildes – Der altägyptische iconic turn, in C. Maar - H. Burda
(Hrsgg.), Iconic turn cit., pp. 304-322.
25 W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., p. 66.
26 H. Bredekamp, op. cit., p. 23.
27 W. Sauerländer, Iconic turn? Eine Bitte um Ikonoklasmus, in C. Maar - H. Burda (Hrsg.),
Iconic turn cit., pp. 407-426, pp. 422 e 425.
24
170 Luca Vargiu
Se sul piano degli assunti ‘politici’ si tratta di interrogarsi sul ruolo
che le immagini, di qualsiasi tipo e provenienza, rivestono nel
mondo attuale, per far fronte ai rischi, veri o presunti, che tale
ruolo comporta – di qui l’esigenza di un discorso etico e civile, di
una «ecologia delle immagini» e di un «iconoclasmo critico» – sul
piano degli assunti teorici generali una comprensione
generalizzata dell’immagine implica la rivendicazione di uno
spazio di autonomia per l’ambito dell’immagine e della visibilità,
da cui viene fatta conseguire, fra l’altro, la sua differenza se non la
sua irriducibilità rispetto all’ambito linguistico-verbale – di qui il
parlare di «gravitazione iconica» e di «logica delle immagini».
L’intreccio di assunti ‘politici’ e teorici, se non annulla, rende
forse meno netta la divergenza reciproca riscontrata da Boehm e
Mitchell nel carteggio, in merito alla portata della rispettiva svolta,
e che il primo sintetizza definendo il proprio come un turn di critica dell’immagine, di contro alla critica dell’ideologia del secondo.
Se infatti uno degli intenti di Mitchell consiste nel mostrare «la reciproca costituzione di iconologia e ideologia», finiscono per articolarsi diversamente le riserve di Boehm, incline a considerare la
critica dell’ideologia come maggiormente rivolta all’esterno, al
contesto e comunque a fattori eterodiretti, e intenzionato a far
emergere lo stesso contesto dall’analisi della logica delle immagini, e dunque da un «ordine immanente all’immagine stessa» –
assimilabile alla «gravitazione iconica» di cui parla Bredekamp.
Dal punto di vista di Mitchell, così, o prendendo le mosse da esso,
appare che il piano dell’immanenza in cui si muove l’indagine di
Boehm, cioè quello in cui si dà l’«interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività»28 – per riprendere le parole di Mitchell citate dallo studioso tedesco – non
si presenta mai neutro, ma è già sempre connotato ideologicamente. Per entrambi, possiamo dunque dire, la critica dell’immagine è
essa stessa critica dell’ideologia, nella misura in cui la critica dell’ideologia risulta costitutiva e immanente alla stessa logica delle
immagini, e non si configura come un elemento che subentra
dall’esterno e successivamente.
Che la svolta iconica si presenti come mutamento di paradigma o figura retorica o moda e che la critica da essa portata avanti
si precisi come critica delle immagini o critica dell’ideologia, oppuW.J.T. Mitchell, Pictorial turn (1992), tr. it. di V. Cammarata e F. Mazzara, in Pictorial turn
cit., pp. 19-49, qui p. 23.
28
171 Lebenswelt, 2 (2012)
re, appunto, come entrambe, resta però più a margine, nel carteggio, la questione degli esiti a cui tale svolta dà luogo sul piano delle
discipline interessate. Al di là della difficoltà connesse all’impiego
di un’espressione come ‘image science’ e alla coincidenza o meno
di image science o studies, visual studies e Bildwissenschaft, si tratta
infatti di capire se quel discorso di cui l’iconic o pictorial turn è o
sarebbe una figura retorica crei nuove scienze, che si consolidano
secondo un loro statuto, resti un discorso trasversale a più ambiti
ma senza formare discipline ex novo, oppure prenda entrambe le
strade. È vero che i visual studies si pongono dichiaratamente come «un’area di ricerca interdisciplinare»29, e questo ne costituisce
la definizione minima. Tuttavia, occorrerebbe continuare a interrogarsi sulle difficoltà e perplessità riscontrate da Mitchell agli inizi degli anni Duemila, in merito alla definizione, allo statuto, al
campo e agli oggetti di studio, all’istituzionalizzazione accademica
e al ruolo complementare o supplementare rispetto ai saperi che
per tradizione si occupano del visuale, come la storia dell’arte e
l’estetica30.
In questa prospettiva, pertanto, a sei anni di distanza dallo
scambio epistolare, appare opportuno continuare a interrogarsi
sul senso dei dubbi espressi da Boehm in apertura del carteggio,
secondo i quali, se è ancora prematuro scrivere una storia della
Bildwissenschaft, ciò dipende dal fatto che tale scienza ancora non
sa «né che cosa sia né che cosa possa essere». Non è detto che oggi
questi dubbi possano essere condivisi in toto, così come, del resto,
potevano non esserlo neanche sei anni fa; essi continuano tuttavia
a rivestire una validità metodica, come monito e insieme istanza
di controllo per un’indagine su un discorso che, per certi versi, rischia di essere ancora legato a una moda o, chissà, già passato di
moda e, in ogni caso, per riprendere il termine di Boehm, «fantomatico».
Proposal: 01/12/2012, Review: 08/12/2012, Publication: 21/12/2012
C. Demaria, s.v. Cultura visuale, in Dizionario degli studi culturali, coordinato da M.
Cometa, online all’indirizzo
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/cultura_visuale.html.
30 Cfr. W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., passim.
29
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Focus - ed by P. Conte and M. Di Monte
Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere
C RU SCOTTO
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Luca Vargiu
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Abstract
N OT I FI CH E
Following the correspondence between Boehm and Mitchell, the paper discusses some focal points related to the so-called
iconic, or pictorial turn: the difficulty in writing a history of the Bildwissenschaft, the role of the medieval studies, affinities
and differences between the European and the American approach to image (and between Boehm’s and Mitchell’s
approach), the Italian and French reception, the meaning to attribute to the word ‘turn’, and the relationship among the
iconic or pictorial turn, the visual studies and more traditional disciplines such as aesthetics and art history.
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LI NG UA
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Full Text
C ON TENU TI D ELLA
R IVI STA
160-171
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Identificatori
DOI: 10.13130/2240-9599/2665
NBN: urn:nbn:it:unimi-9334
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23/02/2014 18:07