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Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere

2012, «Lebenswelt. Aesthetics and Philosophy of Experience», 2, 2012

https://doi.org/10.13130/2240-9599/2665

Following the correspondence between Boehm and Mitchell, the paper discusses some focal points related to the so-called iconic, or pictorial turn: the difficulty in writing a history of the Bildwissenschaft, the role of the medieval studies, affinities and differences between the European and the American approach to image (and between Boehm’s and Mitchell’s approach), the Italian and French reception, the meaning to attribute to the word ‘turn’, and the relationship among the iconic or pictorial turn, the visual studies and more traditional disciplines such as aesthetics and art history.

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Alcune chiavi di svolta Emanuele Alloa Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere Luca Vargiu Euristica del senso. Iconic turn e semiotica dell'immagine Angela Mengoni "Una sorta di intelligenza iconica". Immagine e conoscenza intuitiva Pietro Conte Pre-scritto alla logica di una scienza delle immagini Michele Di Monte Tutti i campi 118-129 Cerca 130-143 Esplora 144-159 160-171 172-190 per fascicolo per autore per titolo altre riviste D I MENSI ON E DEI C AR ATT ER I 191-201 202-218 I N FOR MAZI ON I per i lettori per gli autori per i bibliotecari Recensioni B. Riado, Le je-ne-sais-quoi Marco Tedeschini D. Seron, Ce que voir veut dire Marco Tedeschini B. Kivy, Sounding off Stefano Oliva En deça de la sublimation. L'ego alter Alessia Tomaino C ON TENU TI D ELLA R IVI STA 219-221 222-226 227-229 230-234 Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience. by http://riviste.unimi.it/index.php/Lebenswelt/index is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia License. Based on a work at riviste.unimi.it. ISSN 2240-9599 1 di 1 23/02/2014 18:06 160 Luca Vargiu LUCA VARGIU (Università degli Studi di Cagliari) BOEHM, MITCHELL E UNA STORIA ANCORA DA SCRIVERE Non sembra aver perso di validità uno dei punti su cui Boehm e Mitchell concordavano nel loro carteggio, risalente ormai a più di sei anni fa: ritenere ancora prematura l’elaborazione di una storia compiuta della scienza dell’immagine. Tuttavia, nel momento stesso in cui esprimevano questa convinzione, entrambi gli studiosi non intendevano sottrarsi dal delineare una «storia in medias res» o quantomeno dal «registrare i […] rispettivi percorsi all’interno di questo labirinto», come si esprime Mitchell. Alcuni anni prima, in una situazione per certi versi analoga, era stata Maria Andaloro a dichiarare che, pur non essendo sua intenzione fare un bilancio storiografico, non voleva neanche «rinunziare a testimoniare come si [fosse] incanalato il corso generale della riflessione»1. La studiosa si riferiva ai mutamenti intervenuti all’interno della storiografia sull’icona a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma possiamo comunque parlare di un’analogia, dal momento che è possibile riscontrare una svolta iconica anche nell’ambito delle ricerche sul Tardo Antico e sul Medioevo, sempre grosso modo dagli stessi anni. Non è anzi azzardato sostenere che il dibattito sull’immagine nato e sviluppatosi in seno alla medievistica rappresenti una cartina di tornasole del carattere prematuro di una storia della Bildwissenschaft, se è vero che proprio i rapporti intercorrenti tra questo dibattito e gli studi in altri campi, a cominciare da quello più vicino, la storiografia artistica, ancora non sono stati sufficientemente indagati. Eppure, basterebbero i nomi di Hans Belting, medievista di formazione e autore, su questi temi, di un contributo fondamentale quale Bild und Kult, o di Michael Camille, autore di The gothic idol e ricordato da Mitchell come membro del «Laocöon Group» di cui egli stesso M. Andaloro, Le icone a Roma in età preiconoclasta, in E. Patlagean et al., Roma fra Oriente e Occidente, XLIX Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 2001), 2 voll., Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2002, vol. 2, pp. 719-753, qui p. 732. 1 161 Lebenswelt, 2 (2012) faceva parte, per suggerire percorsi e ipotesi ricostruttive che tengano nel giusto conto gli studi sull’immagine medievale. Ancora, è significativo il fatto che quella che è forse la prima attestazione in Italia dell’espressione ‘iconic turn’, dovuta a Gerhard Wolf, provenga dallo stesso contesto in cui Maria Andaloro aveva fatto la dichiarazione sopra riportata: la Settimana di Studio del 2001 del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto2. Certo, va detto subito che il dibattito sviluppatosi in seno alla medievistica trova le sue motivazioni più forti e più stringenti in un punto di vista interno a questa sfera disciplinare, al di là dei parallelismi, delle tangenze e degli scambi con gli altri campi del sapere. Sono motivazioni che, in sintesi, risiedono nella necessità di sfuggire all’anacronismo derivante dall’applicare al Medioevo un concetto come quello moderno di arte, o meglio dall’applicare al Medioevo il concetto di arte nella sua accezione moderna, per giungere in tal modo a privilegiare un’indagine che separi l’analisi storica dal giudizio estetico3. Fatte salve queste considerazioni, però, dal punto di vista di un interesse generalizzato per l’immagine e della raccolta dei materiali per una storia della Bildwissenschaft ancora da scrivere, è anche possibile sostenere che il Medioevo si presenta come «un laboratorio ideale», come ha rivendicato ancora Wolf nello stesso intervento, in un’ottica che appare già retrospettiva: A partire dal rifiuto delle immagini da parte dei primi cristiani per giungere all’accettazione, gli inizi di un culto delle immagini, la collocazione di immagini come palladii cittadini, attraverso la crisi dell’iconoclastia, il seguente trionfo delle immagini, i miracoli di cui furono protagoniste, le usanze e i riti paraliturgici a Bisanzio, a Roma e in tutto il mondo cristiano, fino alla crisi della Riforma, il Medioevo sembrava rivelarsi un’era dell’immagine precedente un’era dell’arte.4 Qui è appena il caso di far notare che il richiamo a «un’era dell’immagine precedente un’era dell’arte» allude alle tesi esposte da Belting in Bild und Kult e cristallizzate nel sottotitolo di G. Wolf, Alexifarmaka. Aspetti del culto e della teoria delle immagini a Roma tra Bisanzio e Terra Santa nell’alto Medioevo, in E. Patlagean et al., op. cit., vol. 2, pp. 755-790, qui p. 755. 3 Per una prima visione d’insieme, rimando al mio La ‘svolta iconica’ della medievistica, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari» 24 (2006), pp. 423440 (versione elettronica in: http://lettere.unica.it/Annali/volumi completi/pdf. Volume XXIV completo.pdf). 4 G. Wolf, op. cit., pp. 755-756. 2 162 Luca Vargiu quest’opera5, relative alla separazione tra un’età dell’arte, che ha inizio a partire dal Rinascimento e dalla Riforma protestante, e un’era dell’immagine, che la precede e copre tutto il Medioevo: una separazione, questa, che, negli studi medievistici e modernistici – ma anche estetologici6 – ha assunto quasi un carattere di slogan, rappresentando una delle formule alle quali è legato il nome di Belting e con il quale lo studioso tedesco è subito identificato. Oltre a mostrarsi in questioni riguardanti l’inclusione o meno di dibattiti, discorsi e approcci, il carattere prematuro di una storia della scienza dell’immagine si rende evidente in altri problemi, che, dalle difficoltà terminologiche, finiscono per coinvolgerne lo stesso statuto. Si comprendono così i dubbi avanzati da Mitchell nel carteggio, relativi al modo di intendere un’espressione come ‘image science’ in una lingua come l’inglese nella quale, in genere, il termine ‘science’ è riservato alle discipline «‘esatte’, ‘dure’ e ‘sperimentali’». Ciò aiuta senz’altro a spiegare la scelta di diversi studiosi in favore di altre espressioni, come ‘image studies’; occorre tuttavia capire, anzitutto, se le due espressioni sono coincidenti e sovrapponibili, se inoltre sono coincidenti con altre, quali ‘visual studies’ e, infine, quale rapporto intrattengano con l’espressione tedesca ‘Bildwissenschaft’. Tale sovrapponibilità, per esempio, sembrava essere esclusa in occasione di un incontro con Belting che doveva tenersi all’Università Statale di Milano nel febbraio del 2006, poi annullato: qui, nella locandina, lo studioso era presentato icasticamente come la «risposta ‘tedesca’ alla visual culture» di area anglosassone, quasi a far intendere una differenza di approccio nelle ricerche portate avanti nelle due aree. Se però in quel caso poteva trattarsi di una semplice formula icastica, maggior peso rivestono invece altre osservazioni, come per esempio quelle condotte dallo studioso polacco Mariusz Bryl, nel ricostruire lo sviluppo delle discipline storico-artistiche in ambito tedesco e angloamericano tra gli anni Settanta e Novanta del secolo passato. In proposito, Bryl registrava tra le due aree una discrepanza nei metodi e nelle teorie, tale da costituire per lui un elemento essenziale in ogni ricognizione degli Disattendendone gli intenti, titolo e sottotitolo del libro di Belting sono stati resi in italiano come Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo (1990), tr. it. di B. Maj, Roma, Carocci, 2001. 6 Cfr. per es. il veloce richiamo contenuto in P. D’Angelo, Estetica, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 90. 5 163 Lebenswelt, 2 (2012) aspetti teorici della storiografia artistica contemporanea. Basandosi sulla propria esperienza e sul panorama descritto parallelamente in campo storico-letterario da Robert C. Holub in Crossing borders, Bryl evidenziava la mancanza di un dialogo vero e proprio tra gli storici dell’arte tedeschi e statunitensi, malgrado le affinità riscontrabili da entrambe le parti. Queste avrebbero però dato vita a una «sincronia di alternative» più che a uno scambio reciproco, eccezion fatta per pochi tentativi di «attraversare i confini» – per riprendere l’espressione di Holub7. È una ricostruzione, questa, che nelle sue linee generali convince, anche laddove diversi elementi contribuiscono a suggerire un’articolazione più ricca del quadro. Ciò è mostrato, fra l’altro, dal dibattito sul tema della ‘fine’ dell’arte e della storia dell’arte e dal confronto sviluppatosi in merito, a partire dalla fine degli anni Ottanta, tra Arthur C. Danto e ancora Belting: un confronto che, se da un lato ha prodotto un movimento duplice di border-crossing, dall’altro lato è anche però testimonianza della diversa impostazione del problema nelle due aree, e quindi della «sincronia di alternative» che pure in questo caso emerge8. In sintonia con questa lettura, all’immagine di Danto, che sintetizza il proprio confronto con Belting parlando di due «delfini appaiati, che si sono divertiti a giocare nelle stesse acque concettuali per più di un decennio»9, possono essere affiancate sia l’immagine di Boehm, che raffigura se stesso e Mitchell come «due esploratori che avevano attraversato lo stesso, ignoto continente dei fenomeni iconici e della visualità», sia quella, che richiama gli Holzwege heideggeriani, impiegata da Mitchell per suggerire i caratteri del rapporto sussistente tra pictorial e iconic turn: non nei termini di una rivendicazione di priorità, ma come «sentieri paralleli che si inoltrano nella foresta». Immagini simili, dunque, in tutti questi casi: sincronie, appaiamenti, attraversamenti comuni, parallelismi. Nondimeno, forse, nel caso del rapporto tra iconic e pictorial Cfr. M. Bryl, Między wspólnotą inspiracji a odrębnością tradycji. Niemiecko- i anglojęzyczna historia sztuki u progu trzech ostatnich dekad, «Rocznik Historii Sztuki» 24 (1999), pp. 217-260, in part. pp. 217-220 e 258-260; e R.C. Holub, Crossing borders. Reception theory, poststructuralism, deconstruction, Madison, University of Wisconsin Press, 1992, pp. VIII-IX e passim. 8 In proposito, rimando al mio «Like paired dolphins». Sincronia di alternative tra Danto e Belting, «Rivista di Estetica» 47 (2007), pp. 335-355. 9 A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia (1997), tr. it. di N. Poo, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 236 (tr. modificata). 7 164 Luca Vargiu turn gli scambi e gli attraversamenti dei confini sono stati e continuano a essere più numerosi, frequenti e duraturi di quanto non sia accaduto per il contesto storico-artistico indagato da Bryl, nonché più saldi e sicuri di come si sono dati nel confronto Danto-Belting. Anzi, l’interesse per l’immagine, per il modo in cui si è configurato in questi ultimi decenni, appare assumere una portata più vasta rispetto alle denominazioni di iconic e pictorial turn. D’altro canto, è anche vero che in Germania l’etichetta di iconic turn ha finito per comprendere al suo interno l’intero dibattito sull’immagine, in maniera ben più ampia, quindi, dell’accezione che intendeva darne Boehm nel saggio in cui introduceva il termine e che ribadiva nel carteggio – cioè, in estrema sintesi, una sorta di controcanto complementare al linguistic turn, volto a indagare «com’è che le immagini generano senso» e qual è il loro proprio, specifico logos10. Di tale comprensione più ampia, divenuta addirittura – come riscontra lo stesso Boehm – una vera e propria moda culturale, sono esempi numerose pubblicazioni, l’organizzazione di convegni e seminari e l’apertura di siti web e forum online dedicati espressamente al tema, a cominciare dal sito Iconic turn dell’Hubert Burda Stiftung11. La situazione italiana e quella francese mostrano, però, un esito diverso dalla Germania e una relativa indipendenza dalle formule coniate da Boehm e da Mitchell. Nel nostro paese, infatti, la prima attestazione dell’espressione ‘iconic turn’ dovrebbe essere quella di Wolf del 2001 sopra menzionata, mentre la prima occorrenza in cui tale espressione viene impiegata in italiano, tradotta alla lettera con ‘svolta iconica’, dovrebbe risalire al 2003, al saggio introduttivo alla riedizione del Duccio di Cesare Brandi, scritto da Cfr. G. Boehm, Il ritorno delle immagini (1994), tr. it. di N. Mocchi, in A. Pinotti - A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina, 2009, pp. 39-71. Per il linguistic turn il riferimento va, come è noto, a R. Rorty (ed.), The linguistic turn. Recent essays in philosophical method, Chicago-London, University of Chicago Press, 1967, 1992² (antologia tradotta, limitatamente ai contributi di Rorty, in La svolta linguistica, tr. it. di S. Velotti, Milano, Garzanti, 1994). Da osservare che nell’introduzione Rorty assumeva già una posizione critica nei confronti della svolta linguistica. Cfr. R. Rorty, Difficoltà metafilosofiche della filosofia linguistica, in La svolta linguistica cit., pp. 23-110; e in proposito D. Marconi - G. Vattimo, Nota introduttiva a R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1992², pp. VII-XXXII, che vedono in Rorty addirittura la tesi di un «fallimento della ‘svolta linguistica’» (p. XXXI, nota 2). 11 Raggiungibile all’indirizzo http://www.iconicturn.de. Vita più breve ha avuto l’iconic turn network, che fungeva anche da tavolo libero di discussione sull’argomento (era raggiungibile all’indirizzo http://www.iconic-network.com e ora può essere recuperato tramite la wayback machine dell’internet archive, all’indirizzo http://www.archive.org). 10 165 Lebenswelt, 2 (2012) Victor Stoichita12. È significativo che in entrambi i casi si tratti di studiosi non italiani, seppure assai legati all’Italia: Wolf è tuttora direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze, mentre Stoichita si è formato a Roma proprio sotto la guida di Brandi. Significativo perché, se si sono dovuti attendere gli anni Duemila e due studiosi stranieri per registrare la comparsa del ‘nome’, la ‘cosa’ aveva fatto la sua comparsa già da qualche anno e si era anche già tentato di tracciarne le coordinate. Il riferimento andava, in primo luogo, al 1987, l’anno del dodicesimo centenario del secondo concilio di Nicea, e all’interesse rinnovato che da qui era scaturito, a livello internazionale e secondo una prospettiva culturale di largo respiro, per i temi dell’immagine, dell’iconoclastia e dell’iconofilia13. In una prima disamina retrospettiva a dieci anni dal centenario, in occasione della traduzione italiana degli atti del concilio sotto il titolo già di per sé indicativo di Vedere l’invisibile, era stato Luigi Russo, curatore del volume, a porre l’attenzione sulla riscoperta e sulla centralità di Nicea nell’orizzonte culturale contemporaneo. Egli parlava, in quell’occasione, di una rivoluzione connessa al tema dell’immagine, «una vera e propria rivoluzione scientifica» che, «nell’onda della fondamentale opera di Freedberg Il potere delle immagini», andava percorrendo gli anni di fine millennio14. Con il richiamo duplice a Nicea e a David Freedberg, tali osservazioni testimoniano come anche il mondo della cultura italiana sia stato precoce nel recepire l’interesse che da più parti veniva manifestandosi verso l’immagine, nonché capace di leggerlo in tutta indipendenza: non nei termini di una svolta, appunto, ma in quelli di una rivoluzione. È appena il caso di aggiungere che il volume in questione è stato riconosciuto come quello a cui si deve l’avviamento del dibattito sul problema dell’immagine in Italia15. In area francese, l’accoglimento del tema prende la stessa di- Cfr. V.I. Stoichita, ‘Astanza’ di Duccio, presenza di Brandi, testo introduttivo a C. Brandi, Duccio, Siena, Protagon, 2003, pp. 5-9, qui p. 9. 13 Cfr. F. Bœspflug - N. Lossky (éds.), Nicée II 787-1987. Douze siècles d’images religieuses, Actes du Colloque international Nicée II (Paris 1986), Paris, Cerf, 1987. A quest’opera si deve l’inaugurazione del rinnovato interesse verso il concilio Niceno II, a partire dalla convinzione che «la ricezione del decreto di Nicea II [sia] da reinventare» (Avant-propos, ibid., pp. 7-17, qui p. 12). 14 L. Russo, Presentazione a L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Palermo, Aesthetica, 1997, pp. 7-12, qui pp. 9-10. 15 Così E. Franzini, Introduzione all’edizione italiana di R. Debray, Vita e morte dell’immagine, Milano, Il Castoro, 1998, pp. 7-12, qui p. 12, nota 2. Di Franzini cfr. anche la Recensione a L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile cit., «Domus» 803 (1998), p. 120. 12 166 Luca Vargiu rezione, per lo meno nelle sue linee generali. Se già, nello stesso anno in cui usciva Vedere l’invisibile, Jean-Jacques Wunenburger concludeva la sua Philosophie des images scrivendo che «l’immagine sembra avviarsi a diventare l’oggetto privilegiato della ricerca filosofica», negli anni Duemila una scheda contenuta all’interno del dizionario filosofico della Larousse estende l’ambito del discorso, fino a chiedersi se in proposito non sia in gioco «una nuova rivoluzione copernicana»16. Se dunque in Germania e negli Stati Uniti hanno prevalso denominazioni che fanno leva sulla svolta, in Italia e in Francia si è preferito parlare di rivoluzione e di rivoluzione copernicana. Ma in tal modo si giunge, o si torna, a quella che Boehm nel carteggio chiama – ovviamente con riferimento a Kant – «il turn di tutti i turns»: la rivoluzione copernicana, appunto. Così facendo, nelle sue considerazioni sul senso da attribuire alla svolta – paradigma, secondo la lezione di Kuhn, o «mossa retorica che ricorda la moda dell’autunno passato» – lo studioso tedesco sembra equiparare tale formula a quella della rivoluzione. È vero che il richiamo alla rivoluzione copernicana compare in Boehm in relazione al problema del fondamento, tanto del linguistic, quanto dell’iconic turn, e non in merito alla questione delle denominazioni e della loro ricezione. Tuttavia, fatta salva questa precisazione, la possibile messa sullo stesso piano delle formule della svolta e della rivoluzione permette di estendere alla seconda le riflessioni che Boehm e Mitchell svolgono a proposito della prima. Alle interpretazioni che leggono l’interesse contemporaneo per l’immagine in termini di svolta o di moda, Mitchell aggiunge quella, da lui già avanzata in lavori precedenti, di tropo o di figura retorica17. Per lo studioso americano, non sussistono differenze radicali tra il mutamento di paradigma e lo spostamento di un tropo, dal momento che, come afferma nel carteggio richiamandosi a Foucault, lo stesso paradigma altro non è che un tropo, «ovvero una ‘figura della conoscenza’ all’interno di una disciplina». Da queste considerazioni emerge che il pictorial turn può essere inteso, senza che vi si possano riscontrare differenze significative, o come Citazioni tratte, rispettivamente, da J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini (1997), tr. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi, 1999, p. 400, e da F. Soulages - J. Morizot, L’image est-elle l’enjeu d’une nouvelle révolution copernicienne?, in M. Blay (éd.), Grand dictionnaire de la philosophie, Paris, Larousse, 2003, pp. 523-525. 17 Cfr. W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere. Una critica della cultura visuale (2002), tr. it. di A.L. Carbore e F. Mazzara, in Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Palermo, Duepunti, 2008, pp. 51-79, qui 60 e 65. 16 167 Lebenswelt, 2 (2012) mutamento di paradigma o come un movimento che soggiace alla retorica della svolta, quella stessa retorica che, a partire dal linguistic turn rortyano e con un ritmo sempre più crescente a mano a mano che ci si avvicina ai nostri giorni, ha prodotto una serie di svolte che impressiona già soltanto per il numero18. Forse si potrebbe avanzare la proposta di provare a soffermarsi sulla moltiplicazione delle svolte in una prospettiva di storia delle idee o dei concetti, o magari di metaforologia à la Hans Blumenberg. È lo stesso Boehm a spingere verso questa direzione, nel momento in cui, riferendosi alla rivoluzione copernicana come «turn di tutti i turns», riconosce il suo debito proprio nei confronti di Blumenberg e, in particolare, nei confronti del suo studio sulla «formula del mondo copernicana»19. Ma, al di là di questo, che può essere un suggerimento per un’indagine a venire, è interessante notare come queste considerazioni conducano poi Mitchell a interrogarsi sui contenuti e sul valore da attribuire a tale svolta, tropo, paradigma o moda – o stile – che sia. Per tracciare la cornice all’interno della quale le osservazioni di Mitchell si inseriscono, ci si dovrebbe intanto chiedere se la quantità di svolte a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non sia tale da suscitare il sospetto di un abuso della parola: un sospetto da avanzare di contro a chi, come il teorico del teatro Christopher Balme, con un atteggiamento a metà strada tra il fatalismo e la legittimazione dell’esistente, ha sostenuto che il propagarsi delle svolte nella cultura scientifica contemporanea sia qualcosa che debba essere accettato di necessità20. Se poi, da tali questioni più generali, ci rivolgiamo direttamente all’iconic o al pictorial turn, dobbiamo riscontrare diversi pareri in merito, secondo i quali la ‘svolta’ o è finora soltanto auspicata oppure, più ottimisticamente, è già compiuta o sul punto di compiersi. Quando Boehm aveva coniato l’espressione nel 1994, l’iconic turn gli appariva come qual- Dopo, si è parlato – e l’elenco non ha alcuna pretesa di completezza – di una svolta ermeneutica, di un pragmatic turn o una pragmatische Wende, di una svolta testuale, di un aesthetic turn, di una kulturalistische Wende e di un cultural turn, di un ontological turn, di una svolta cognitiva, di uno spatial turn, di una svolta semiotica, di un narrativist turn, di un pragmatic nonché di un performative turn. Parzialmente diverso il caso del visual turn, il cui padre dovrebbe essere Martin Jay (That visual turn. The advent of visual culture, «Journal of visual culture» 1 (2002), pp. 87-92) e che Mitchell impiega come sinonimo di pictorial turn. 19 Cfr. H. Blumenberg, Die kopernikanische Wende, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1965. 20 Cfr. C. Balme, Stages of vision: Bild, Körper und Medium im Theater, in H. Belting - D. Kamper - M. Schulz (Hrsgg.), Quel Corps? Eine Frage der Repräsentation, München, Fink, 2002, pp. 349-364, qui p. 349. 18 168 Luca Vargiu cosa da introdurre, postulare e difendere: significativo è il fatto che sentisse il bisogno di schizzarne le linee fondamentali e di tratteggiarne la preistoria21. In contributi più recenti, invece, come per esempio quelli di Horst Bredekamp, l’iconic turn è visto come un’acquisizione che la storia dell’arte avrebbe già fatto, a dispetto delle resistenze molteplici che pure continuano a sussistere in merito e che possiamo rintracciare in altri partecipanti al dibattito, come, fra gli altri, Andreas Köstler, il quale, in polemica proprio con Bredekamp, si dice scettico su tale compimento22. È in questo contesto che si inserisce Mitchell, per mettere in guardia da quella che egli stesso ha battezzato «fallacia del ‘pictorial turn’», potenzialmente comune sia ai suoi detrattori sia ai suoi sostenitori, consistente nel ritenere unico e peculiare dei nostri giorni l’interesse diffuso verso l’immagine e il visuale. Se nel carteggio lo studioso americano si sofferma sugli aspetti del ‘panico iconico’, sulle «espressioni di timore» e sui «gesti iconoclasti», in altri lavori, come per esempio in Showing seeing, egli si muove più ad ampio raggio, per prendere in considerazione, oltre al timore e all’iconoclastia, anche le manifestazioni di entusiasmo. In ogni caso, comunque, egli avverte con insistenza che con l’espressione ‘pictorial turn’ non intendeva indicare una svolta unica, propria del mondo occidentale contemporaneo, bensì approntare «uno strumento diagnostico capace di analizzare i particolari momenti in cui un nuovo medium, un’invenzione tecnica, oppure una pratica culturale si manifesta con fenomeni di panico o euforia (di solito entrambi) rispetto al visuale»23. Nel carteggio Mitchell è esplicito, più che altrove, nel ribadire che il pictorial turn coinvolge sia le discipline Cfr. G. Boehm, Il ritorno delle immagini cit., in part. pp. 42-46; e il differente atteggiamento, dieci anni dopo, in Id., Jenseits der Sprache? Anmerkungen zur Logik der Bilder, in C. Maar - H. Burda (Hrsgg.), Iconic Turn. Die neue Macht der Bilder, Köln, DuMont, 2005, pp. 28-43, in part. pp. 28-30; e nell’intervista Das Bild in der Kunstwissenschaft, in K. Sachs-Hombach, Wege zur Bildwissenschaft. Interviews, Köln, Halem, 2004, pp. 11-21, in part. p. 20. 22 Cfr. H. Bredekamp, Drehmomente – Merkmale und Ansprüche des iconic turn, in C. Maar H. Burda (Hrsgg.), Iconic turn cit., pp. 15-26; già Id., Metaphern des Endes im Zeitalter des Bildes, in H. Klotz (Hrsg.), Kunst der Gegenwart. Museum für neue Kunst, Katalog, Museum für Neue Kunst, Karlsruhe, ZKM, e München - New York, Prestel, 1997, pp. 32-37, in part. pp. 35-36; e le dichiarazioni di A. Köstler in C. Danelzik-Brüggemann - G. Kerscher (Hrsg.), Kunstgeschichte im neuen Jahrtausend. Ein Gespräch mit Christian Freigang (Göttingen), Klaus Herding (Frankfurt/M.), Andreas Köstler (Bochum), Birgit Richard (Frankfurt/M.), Viktoria Schmidt-Linsehoff (Trier), Kerstin Thomas (Frankfurt/M.), Willi Winkler (Hamburg), «Kritische Berichte» 28 (2000), pp. 5-30, in part. p. 13. 23 W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., p. 66. 21 169 Lebenswelt, 2 (2012) accademiche – le scienze umane, ma, aggiungiamo, non solo – sia quella che chiama «sfera della cultura pubblica», e nel connettere questo doppio riferimento alla convinzione secondo la quale anche in passato si sono verificate diverse svolte iconiche, in dipendenza di «un qualche intreccio tra la cultura intellettuale e la sfera pubblica», in conseguenza di una nuova tecnica di produzione o riproduzione delle immagini o di un atteggiamento particolare relativo alle immagini stesse24. Risulta pertanto più chiaro il suo intento di fare un uso critico e storico del pictorial turn, che lo accomuna a diversi altri studiosi e anzi costituisce uno degli aspetti di fondo della svolta iconica contemporanea o, meglio, ancora nei termini mitchelliani, della «forma molto specifica» assunta da tale svolta nei nostri tempi25. All’interno dell’iconic turn, infatti, sappiamo che convivono, gli uni intrecciati agli altri, assunti lato sensu politici e assunti teorici. Due citazioni tratte dal volume Iconic turn del 2005, la prima di Bredekamp e la seconda di Willibald Sauerländer, aiutano a fornire i termini della questione: In ogni immagine dei mass-media, delle scienze naturali e delle arti figurative agisce una gravitazione iconica [ikonische Gravitation], che fornisce le chiavi per evitare di essere sottomessi al ‘flusso’ strabordante, continuamente scongiurato, delle immagini, alla loro ‘velocità’ sopraffacente e al loro ‘potere’ inafferrabile. L’iconic turn è stato proclamato con l’esigenza non solo di accompagnare gli attuali campi del visuale, ma anche di analizzarli nel senso di una ‘logica delle immagini’ da elaborare pazientemente.26 Abbiamo bisogno di un iconoclasmo critico […] della percezione visiva, fondato non solo sulla storia dell’arte e sull’estetica, ma ancor più sulla sfera civile e pubblica. […] Una discussione sui nuovi media non può limitarsi ad analisi ancorché così brillanti dei procedimenti e delle innovazioni, perché la circolazione in gran numero delle immagini nella società dei media è divenuto un problema che riguarda la sfera pubblica. […] Perciò non si può parlare del pictorial o dell’iconic turn solo in modo descrittivo, ma bisogna parlarne anche dal punto di vista etico e civile. I teorici francesi parlano di una ‘écologie des images’, una ecologia delle immagini.27 Nel medesimo senso, seppure a partire da premesse teoriche diverse, va considerata l’individuazione di un iconic turn nell’antico Egitto a opera di Jan Assmann. Cfr. J. Assmann, Die Frühzeit des Bildes – Der altägyptische iconic turn, in C. Maar - H. Burda (Hrsgg.), Iconic turn cit., pp. 304-322. 25 W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., p. 66. 26 H. Bredekamp, op. cit., p. 23. 27 W. Sauerländer, Iconic turn? Eine Bitte um Ikonoklasmus, in C. Maar - H. Burda (Hrsg.), Iconic turn cit., pp. 407-426, pp. 422 e 425. 24 170 Luca Vargiu Se sul piano degli assunti ‘politici’ si tratta di interrogarsi sul ruolo che le immagini, di qualsiasi tipo e provenienza, rivestono nel mondo attuale, per far fronte ai rischi, veri o presunti, che tale ruolo comporta – di qui l’esigenza di un discorso etico e civile, di una «ecologia delle immagini» e di un «iconoclasmo critico» – sul piano degli assunti teorici generali una comprensione generalizzata dell’immagine implica la rivendicazione di uno spazio di autonomia per l’ambito dell’immagine e della visibilità, da cui viene fatta conseguire, fra l’altro, la sua differenza se non la sua irriducibilità rispetto all’ambito linguistico-verbale – di qui il parlare di «gravitazione iconica» e di «logica delle immagini». L’intreccio di assunti ‘politici’ e teorici, se non annulla, rende forse meno netta la divergenza reciproca riscontrata da Boehm e Mitchell nel carteggio, in merito alla portata della rispettiva svolta, e che il primo sintetizza definendo il proprio come un turn di critica dell’immagine, di contro alla critica dell’ideologia del secondo. Se infatti uno degli intenti di Mitchell consiste nel mostrare «la reciproca costituzione di iconologia e ideologia», finiscono per articolarsi diversamente le riserve di Boehm, incline a considerare la critica dell’ideologia come maggiormente rivolta all’esterno, al contesto e comunque a fattori eterodiretti, e intenzionato a far emergere lo stesso contesto dall’analisi della logica delle immagini, e dunque da un «ordine immanente all’immagine stessa» – assimilabile alla «gravitazione iconica» di cui parla Bredekamp. Dal punto di vista di Mitchell, così, o prendendo le mosse da esso, appare che il piano dell’immanenza in cui si muove l’indagine di Boehm, cioè quello in cui si dà l’«interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività»28 – per riprendere le parole di Mitchell citate dallo studioso tedesco – non si presenta mai neutro, ma è già sempre connotato ideologicamente. Per entrambi, possiamo dunque dire, la critica dell’immagine è essa stessa critica dell’ideologia, nella misura in cui la critica dell’ideologia risulta costitutiva e immanente alla stessa logica delle immagini, e non si configura come un elemento che subentra dall’esterno e successivamente. Che la svolta iconica si presenti come mutamento di paradigma o figura retorica o moda e che la critica da essa portata avanti si precisi come critica delle immagini o critica dell’ideologia, oppuW.J.T. Mitchell, Pictorial turn (1992), tr. it. di V. Cammarata e F. Mazzara, in Pictorial turn cit., pp. 19-49, qui p. 23. 28 171 Lebenswelt, 2 (2012) re, appunto, come entrambe, resta però più a margine, nel carteggio, la questione degli esiti a cui tale svolta dà luogo sul piano delle discipline interessate. Al di là della difficoltà connesse all’impiego di un’espressione come ‘image science’ e alla coincidenza o meno di image science o studies, visual studies e Bildwissenschaft, si tratta infatti di capire se quel discorso di cui l’iconic o pictorial turn è o sarebbe una figura retorica crei nuove scienze, che si consolidano secondo un loro statuto, resti un discorso trasversale a più ambiti ma senza formare discipline ex novo, oppure prenda entrambe le strade. È vero che i visual studies si pongono dichiaratamente come «un’area di ricerca interdisciplinare»29, e questo ne costituisce la definizione minima. Tuttavia, occorrerebbe continuare a interrogarsi sulle difficoltà e perplessità riscontrate da Mitchell agli inizi degli anni Duemila, in merito alla definizione, allo statuto, al campo e agli oggetti di studio, all’istituzionalizzazione accademica e al ruolo complementare o supplementare rispetto ai saperi che per tradizione si occupano del visuale, come la storia dell’arte e l’estetica30. In questa prospettiva, pertanto, a sei anni di distanza dallo scambio epistolare, appare opportuno continuare a interrogarsi sul senso dei dubbi espressi da Boehm in apertura del carteggio, secondo i quali, se è ancora prematuro scrivere una storia della Bildwissenschaft, ciò dipende dal fatto che tale scienza ancora non sa «né che cosa sia né che cosa possa essere». Non è detto che oggi questi dubbi possano essere condivisi in toto, così come, del resto, potevano non esserlo neanche sei anni fa; essi continuano tuttavia a rivestire una validità metodica, come monito e insieme istanza di controllo per un’indagine su un discorso che, per certi versi, rischia di essere ancora legato a una moda o, chissà, già passato di moda e, in ogni caso, per riprendere il termine di Boehm, «fantomatico». Proposal: 01/12/2012, Review: 08/12/2012, Publication: 21/12/2012 C. Demaria, s.v. Cultura visuale, in Dizionario degli studi culturali, coordinato da M. Cometa, online all’indirizzo http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/cultura_visuale.html. 30 Cfr. W.J.T. Mitchell, Mostrare il vedere cit., passim. 29 Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere | Var... HOME INFO LOGIN REGISTRAZIONE CERCA CORRENTE http://riviste.unimi.it/index.php/Lebenswelt/article/v... ARCHIVIO CALL FOR PAPER Realizzato con software OJS, curato e mantenuto da CINECA. Home > N° 2 (2012) > Vargiu Guida in linea Focus - ed by P. Conte and M. Di Monte Boehm, Mitchell e una storia ancora da scrivere C RU SCOTTO Nome utente Password Luca Vargiu Ricordami Entra Abstract N OT I FI CH E Following the correspondence between Boehm and Mitchell, the paper discusses some focal points related to the so-called iconic, or pictorial turn: the difficulty in writing a history of the Bildwissenschaft, the role of the medieval studies, affinities and differences between the European and the American approach to image (and between Boehm’s and Mitchell’s approach), the Italian and French reception, the meaning to attribute to the word ‘turn’, and the relationship among the iconic or pictorial turn, the visual studies and more traditional disciplines such as aesthetics and art history. Vedi Iscriviti LI NG UA Italiano Full Text C ON TENU TI D ELLA R IVI STA 160-171 Cerca Identificatori DOI: 10.13130/2240-9599/2665 NBN: urn:nbn:it:unimi-9334 Riferimenti bibliografici ANDALORO, Maria, Le icone a Roma in età preiconoclasta, in PATLAGEAN, Évelyne, et al., Roma fra Oriente e Occidente, XLIX Settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 2001), 2 tomi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2002, tomo II, pp. 719-753. ASSMANN, Jan, Die Frühzeit des Bildes - Der altägyptische iconic turn, in MAAR, Christa - BURDA, Hubert (Hrsg.), Iconic Turn. Die neue Macht der Bilder, Köln, DuMont, 2005, pp. 304-322. BALME, Christopher, Stages of Vision: Bild, Körper und Medium im Theater, in BELTING, Hans - KAMPER, Dietmar - SCHULZ, Martin (Hrsg.), Quel Corps? Eine Frage der Repräsentation, München, Fink, 2002, pp. 349-364. BELTING, Hans, Il culto delle immagini. 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Aesthetics and philosophy of experience. by http://riviste.unimi.it/index.php/Lebenswelt/index is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia License. Based on a work at riviste.unimi.it. ISSN 2240-9599 2 di 2 23/02/2014 18:07