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BIBLIOTECA DELLA CALABRIA

LA CALABRIA E IL TEATRO

BIBLIOTECA DELLA CALABRIA Maggio 2018 LA CALABRIA A TEATRO. «La Calabria è un mondo», esordì così CORIOLANO MARTIRANO, Il Teatro Calabrese, Edizioni Frama’s, Chiaravalle C. 1973. E precisò che “è un mondo con quattro mondi che ornano il suo stemma culturale: quello greco, il normanno, lo spagnolo ed il borbonico, in una infinita sinfonia di sfumature che diventano spesso sostanza e che caratterizzano l’ineluttabile evolversi di tutta una mentalità che è patrimonio spirituale di una gente intimamente protesa alla ricerca di un equilibrio”. Ed in effetti fu così che la Calabria si rappresentò fin dalle origini, quando fra Sibari e Locri, gli antenati si riunivano per ascoltare il problema del singolo, divenuto problema di tutti e dunque riflessione su come e cosa fare. Ne è testimonianza il teatro di Locri Epizefiri a simbolo dei grandi anfiteatri della Magna Grecia, in genere edificati vicino alle Acropoli. E poi il culto di Dioniso, cioè della purificazione dell’anima, il ditirambo nelle varie forme della poesia drammatica; la tragedia, la rappresentazione, via via che il tempo passava, di una esigenza di libertà espressiva, che spesso veniva affidata alla satira espressiva dei Fliaci (https://it.wikipedia.org/wiki/Farsa_fliacica). E poi le “farse” di Alesside da Turio e il teatro del figlio Stefano che traghettò il teatro calabrese verso la nuova commedia di Menandro, per giungere quindi al nostro famoso Ibico Reggino. Scrisse Aristofane che “chi canta l’amore delle donne, deve esser elegante come Ibico”. Dal punto di vista artistico, ci uccise l’invasione romana? Certo uccise “anche” il teatro della Magna Grecia, oltre a molto altro. Livio Andronico “mediò” molto fra gusto latino estroverso, e intimità del sentire che fu propria della Magna Grecia. Attraverso questa mediazione, Roma scoprì, fra baccanali e orge, la “coscienza” cioè la spiritualità orientale acquisita e interpretata e quindi adattata dalla gente mediterranea, la Magna Grecia. Nel Bruzio la spiritualità non cedette il passo ed è così che mise al mondo la predicazione di San Pancrazio e si abbandonò fra le braccia del Cristianesimo di Costantinopoli, facendo rifiorire giullari e cantori che in piazza cantavano le gesta di antichi eroi. Nella Calabria del 1200 nacque «Ciricotta», un personaggio diabolico e nel contempo farsesco. Le ragazze vestite con abiti multicolori, danzavano attorno a un Capitano, che rappresentava il potere, e al quale tentavano di sottrarre la borsa del denaro, senza riuscirvi, fino a quando una zingara entrata in scena all’improvviso, riescì con uno spiedo e un mantello a operare il furto e scappare. Il Capitano era qui il potere costituito, in contrasto con la piattaforma dello stesso potere, cioé il popolo, rappresentato dalle ragazze danzanti. E il popolo non riuscì a togliere al Capitano il potere. Ci riuscì la Zingara, cioè l’Astuzia e il Raggiro. Era l’azione del singolo e non più l’iniziativa popolare, a modificare gli assetti. Teatro ancora, durante il mercoledì delle Ceneri, quando una processione rumorosa e canzonatoria, accompagnava Carnevale, adagiato su una bara, e seguito dalla Vecchia, cioè la madre di Carnevale, dismessa e piangente, fino a un burrone o una fiumara. Il corteo era preceduto da due nerboruti attori col volto dipinto di nero e con addosso pelli di capra. Suonavano campanelli e corna mentre dietro il catafalco, seguivano una maschera vestita da prelato e maschere in forma di diavoletti. Nella Calabria post federiciana dunque, ai giullari si sostituirono i “Frazzarati”, capaci di satire pungenti contro i potenti e i prevaricatori. Nel Cinquecento emerse in Calabria il messaggio di Antonello Marafioti da Polistena, e la musica così, andò in scena alla moda spagnola ma tutta rivolta, in Calabria, a cantare le aspirazioni spirituali dei singoli, fatte proprie da spettatori immedesimati. Così le “odi” di Antonino Ruffo sul Natale di Cristo o di Marco Filippi sulla Maddalena. La «Pigghiata», cioè la narrazione degli episodi evangelici, dilagò su tutte le piazze calabresi, seguita dal «Prisebbiu chi ssi motica», il Presepe animato da vita anche comune, di tutti i giorni. Cristo diviene umano, nel senso di vicino al popolo, con Coriolano Martirano, attuatore dello spirito della Controriforma che in Calabria non trovò vittime perché la Calabria da sempre coltivava la propria spiritualità come libertà assoluta. E così il messaggio di Bernardino Telesio si librò nell’aria, a parziale contrasto verso il “Christus” di Martirano, che è magistrale opera teatrale di grande respiro e animo. Nel 1570 nacque a Monteleone (Vibo V.) Cesare Bisogni, che continuò la tradizione spirituale di Martirano con una tragedia in cinque atti: “Della schiodazione di nostro Signore Gesù Cristo”, stampata dal Parrino nel 1715 all’interno dell’edizione “Poemata latina, e vulgari idiomate composita, in duas partes divisa…” Nell’opera di Bisogni, Cristo è “trionfale” nel momento non della chiodazione, ma proprio della schiodazione, cioè della restituzione del Salvatore alla vita dei fedeli. Nel 1530 Antonio Telesio pubblicò “Imber aureus” che fu il recupero del mito degli dei, cioè l’amore per il teatro greco. Opera bella a vedere e sentire, con forma latina lineare e potente, capace di catturare le sensazioni dello spettatore, ma non lascia altri segni. La scossa si ebbe nel 1598 con la “Maria Stuarda” di Tommaso Campanella, cioè la capacità di “spiegare” a spettatori attenti, le ragioni, il perché degli eventi. Il teatro così, pose in scena opere che intesero interpretare gli avvenimenti e non meramente solo rappresentarli. .°.°.°.° . Nel corso del Settecento, i fatti positivi e negativi che attraversarono il popolo calabrese, si cristallizzarono in parte attorno a una figura creata dalla fantasia popolare: la maschera di Giangurgolo. Egli attaccò la Società calabrese “pervasa da un senso spietato dell’onore gonfiato fino alla più assurde cime della vanagloria, crapulona e buffa società, inquinata da elementi nobili fuggiti dalla Sicilia al solo immaginare che Giangurgolo Calabrese Amedeo di Savoia possa dare luogo a riforme”. Giangurgolo usò la satira e colpì, dall’alto della sua educazione millenaria, la “nobiltà di roba” che conduceva un tenore di vita ridicolo, sulla scia e l’esempio siciliano. Non certamente è vestì da Capitano, perché il popolo eebe presente la figura del Capitano Spagnolo pieno di strapotere, ubriaco e spaccone, uomo solo di taverna. Da qui Giangurgolo ovvero Giovanni Gurgolo, ovvero Giovanni il Ghiottone dal ventre capace solo di mangiare, che si ubriaca sempre a spese altrui. Dove era finita, nel Settecento, la bella Calabria del Cinquecento? Certo nel Settecento ci fu Nicola Manfroce da Palmi che con “Alzira” e “Ecuba”, due opere musicali magnifiche, che illuminarono il teatro calabrese. E anche Giuseppe Campagna da Pedace, che lanciò nel teatro calabrese l’idea della “coscienza nazionale” secondo le aspirazioni del popolo, e poi A. Lucifero e G. D’Alessandria che furono sulla stessa linea concettuale. Francesco Ruffa a 15 anni fece rappresentare a Tropea “Nivia” e così sappiamo che di sera si leggeva Voltaire e Alfieri attraverso Ruffa che cantò il contesto fra il calabrese selvaggio, feroce, sanguinario, pregno di odio, vendicativo, parricida, e il calabrese fedele, leale, amico generoso, fino alla morte sfidata, mai temuta. Il tutto in un mondo pervaso da fate, maghi e ombre di uccisi. E poi su tutto aleggia Voltaire e lo spirito liberale, la voglia di uscire dal ciclo, di rinascere. Ma i tempi nuovi restarono magri e introdussero nel teatro, la figura di “Pacchisicchi”. Pacchisicchi (cioè natiche magre) era lo studente calabrese che poteva mangiare solo fichi secchi e fantasia, essendo dedito solo a orge con acqua fresca e buona volontà. In realtà neanche la prostituta, o meglio la “venere commerciale”, lo volle: Unu abbasciu faci ticchi ticchi «cuj è dhocu?» «sugnu Pacchi-Sicchi» «chi purtasti?» «tri patacchiۚ «tri patacchi? Non mù ficchi! Si voi fari nicchi-nicchi Vai e pigghia quattru sacchi … E dopo? Uno sprazzo di meravigliosa luce ad opera dell’Abate Jerocades e il suo teatro politico pregno di significato contestativo. Poi il Teatro Calabrese moderno, pur presentando voci elette, di nulla più differisce dal teatro italiano in generale.