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TRIONFO E AGONIA: DIONISO E ORFEO

in "L'immagine invisibile. La Tomba del Tuffatore nel cinquantesimo della scoperta" a cura di G. Zuchtriegel, Artem, Napoli, 2018, pp. 93-101

TRIONFO E AGONIA: DIONISO E ORFEO LUIGI GALLO Modello interpretativo assoluto, contrapposto al relativismo contemporaneo, la cultura classica permea il pensiero moderno; la sua eredità è testimoniata dalla costante vitalità di elementi simbolici, modelli artistici e rimandi mitologici. Aby Warburg, iniziatore degli studi iconologici alla fine del XIX secolo, ha magistralmente spiegato come nel Rinascimento si produce “un felice innesto del ramo sempreverde dell’antichità pagana sull’albero inaridito della pittura borghese fiandreggiante” (La rinascita del paganesimo antico, a cura di Gertrud Bing, Firenze 1966, p. 187). Se il Rinascimento e l’età Barocca hanno conosciuto l’esegesi morale, filosofica e allegorica del mito, l’epoca dei Lumi, grazie all’incontro con le religioni extra europee favorito dal colonialismo, fonda la mitologia comparata. L’erudizione antiquaria, rafforzata dallo spirito classificatorio settecentesco, si trasforma in una vera e propria scienza del sapere che indaga l’origine degli archetipi mitici. Gli studi ottocenteschi, culminati nell’opera pionieristica di Friedrich Nietzsche e di Warburg, hanno evidenziato quanto la cultura moderna sia debitrice di tensioni millenarie, demoni e dèi antagonisti fra loro, con provenienze e potenza disparate; la loro memoria ancestrale emerge in gesti apotropaici, danze tribali, canti luttuosi, simboli astrologici e invocazioni a potenze ctonie, analizzate dalla moderna antropologia. Il Novecento ha lavorato sulla sopravvivenza dell’antico non solo a livello storico critico, ma anche legato alle ricerche inedite sull’inconscio che caratterizzano la prima metà del “Secolo breve”, secondo la felice definizione di Eric Hobsbawm. La tensione fra epoche diverse in cui s’immergono comuni radici culturali si è imposta come elemento d’ispiraTITOLO 93 zione, ridefinendo i criteri, le pratiche e i raggiungimenti formali di artisti e correnti pittoriche. Le opere moderne che accompagnano il visitatore nel percorso di questa mostra, vogliono offrire un contrappunto al racconto dell’archeologia: si narra, attraverso l’immagine dipinta, la storia dei diversi volti di un dio misterioso e inafferrabile, Dioniso, e del suo aedo, Orfeo. Entrambi sono figure liminari, legate al regno dei morti, che rappresentano le polarità opposte di luce e ombre. Tale lettura escatologica è messa in relazione con l’atletica figura del tuffatore di Paestum, immobilizzato fra vita e morte nell’eterno presente della pittura. Senza voler costituire un’interpretazione dell’antica lastra tombale, scoperta il 3 giungo del 1968, le tele dipinte fra XVII e XX secolo qui presentate, scelte per la loro valenza icastica e iconografica, evocano un possibile tracciato in cui si fondono valori estetici e rimandi emotivi. Si tratta di leggere i dipinti, molto diversi fra loro, come protagonisti di una storia dell’arte che si svolge in un tempo ondulato, in cui le opere partecipano a un processo di continua risignificazione. Il Trionfo di Dioniso\Bacco Dioniso, e il suo corrispettivo romano Bacco, è un dio antichissimo. Il suo nome appare già su tavolette iscritte 94 TITOLO della tarda Età del Bronzo, e il suo culto è attestato almeno fino al VII sec. d.C.; la cultura dell’Occidente moderno, soprattutto dal Rinascimento, non ha mai smesso di confrontarsi con la complessità di questo dio. Dioniso\ Bacco incarna l’aspetto istintivo, sensuale, caotico e irrazionale dell’esistenza. Nei suoi scritti, Friedrich Nietzsche fa notare come la vita stessa sia caos e irrazionalità, per questo, secondo il filosofo, Dioniso\Bacco ne è la perfetta metafora. Il dio sovraintende all’essenza misteriosa del vivere, all’energia primordiale che è la fonte di ogni cosa animata e delle passioni, che fluttuano nel corpo e nello spirito degli uomini. I tratti di Dioniso\ Bacco incarnano la vita: è il dio della vegetazione, del rigoglio, della fertilità. Ma non solo, Dioniso\Bacco è il dio dell’uva e del vino, e quindi è il nume tutelare dell’ebrezza e della perdita della ragione. Egli toglie le inibizioni, riconduce gli uomini al loro stato primordiale e selvaggio, li fa ballare, gridare, cadere nell’esaltazione parossistica. Questi, tuttavia, sono solo alcuni degli aspetti di una personalità divina che sfugge ad ogni definizione, e che, essenzialmente, manifesta la sua potenza annullando ogni tipo di divisione e di confine, incluso quello, estremo, fra la vita e la morte. L’immagine di Dioniso\Bacco nelle sue diverse forme e interpretazioni è una presenza costante nelle opere d’arte moderna. Nei dipinti si celebra il risvolto bucolico e agreste della natura: il ciclo delle stagioni, la prosperità della terra, il rito del convivio, la gioia della festa. Vi troviamo grappoli, calici che s’intrecciano, cascate di tralci e di pampini retti da putti, menadi e satiri travolti da danze estatiche. Su tutti regna Bacco, ebbro, in trionfo, con Arianna, giovane e bello, oppure vecchio e disfatto dal bere e dagli eccessi. Il mondo di Bacco è evocato nella prima sezione della mostra da due repliche di Guido Reni e Diego Velázquez, fra i maggiori pittori del XVII secolo. Nel dipinto Bacco e Arianna (fig. XX)è raffigurato il dio, accompagnato dal suo festoso corteo di menadi, satiri e putti, mentre incontra Arianna, abbandonata sull’isola di Nasso da Teseo, vittorioso sul Minotauro grazie all’aiuto della stessa principessa cretese. L’opera riproduce la parte centrale di un celebre dipinto realizzato da Reni su committenza della regina francese Enrichetta Maria, moglie di Carlo I d’Inghilterra, per il soffitto della propria camera da letto nella Queen’s House di Greenwich. L’importante commissione, seguita direttamente dal cardinale Maffeo Barberini, nipote di Urbano VIII, nell’ambito di una politica di riconciliazione fra chiese romana e anglicana, non arrivò mai in Gran Bretagna perché la nudità dei personaggi venne giudicata sconveniente. Il dipinto entrò in possesso della regina Borbone durante il suo esilio in Francia a seguito della rivoluzione inglese e passò nella raccolta di Michel Particelli d’Hémery, Surintendant des Finances del Regno di Francia dove fu tagliato in diversi pezzi; un frammento originale con la figura di Arianna è in deposito presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. La replica in mostra è stata realizzata nel 1640 da Antonio Giarola, detto il Veronese, con interventi dello stesso Reni, su richiesta del Cardinale Giulio Sacchetti. Passato nel 1748 alla Camera Apostolica, il dipinto ha fatto parte del nucleo originario della Pinacoteca Capitolina, prima del suo trasferimento nel marzo 1845 all’Accademia di San Luca. Concepito con figure speculari, giustapposte seguendo un ritmo incisivo e danzante, il dipinto ricorda un bassorilievo antico e raggiunge il suo apice drammaturgico nello stupore di Arianna davanti al giovane dio. La bellezza dei protagonisti, colti nell’istante del loro reciproco innamoramento, rappresentato dai gesti teatrali delle mani, richiama la complementarietà dell’amore sacro e dell’amore profano: un augurio per una felice unione matrimoniale. Nel dipinto di Diego Velázquez, il Trionfo di Bacco (I bevitori) (fig. XX), realizzato per Filippo IV di Spagna TITOLO 95 fra il 1628 e il 1629, si celebra il dio per aver donato il vino agli uomini. Si tratta di una simbologia molto diversa dalla tela precedente; il Bacco di Velázquez è l’antitesi di quello di Reni: muscolare e trionfante protettore dell’amore il primo, baffuto e pingue benefattore di un’umanità marginale il secondo. Nel dipinto dello spagnolo, Bacco seduto su una botte incorona di pampini un soldato mentre gli altri uomini bevono vino guardando verso lo spettatore, quasi a volerlo invitare al convivio. Le figure maschili, caratterizzate da un crudo naturalismo di ascendenza caravaggesca, vestono abiti moderni come se la scena si svolgesse sotto la pergola di un’osteria. Il dipinto presentato in mostra è una copia estremamente fedele dell’originale conservato a Madrid, identico per dimensioni, mentre differisce la tecnica a tempera su carta incollata su tela. Presente nelle collezioni Borboniche sin dalla metà del XIX secolo, prima alla reggia di Portici, dove è inventariato nel 1834, poi a Capodimonte, il quadro realizzato con ogni probabilità in Spagna a diretto confronto con l’originale, deve essere datato alla fine del XVIII secolo quando l’arte di Velázquez conosce una rivalutazione critica. La danza di Dioniso Nelle immagini delle Baccanti possedute da Dioniso trova espressione una 96 TITOLO forma di follia ritualizzata. Durante il rito, che si svolgeva lontano dai luoghi familiari, le donne impugnavano il tirso, una canna con una pigna disposta sulla cima, e si abbandonavano a danze sfrenate cibandosi di carne cruda. Grazie alla musica dai ritmi ossessivi e alla danza, il rito giungeva allo stato di trance, cui seguiva il ritorno all’ordine tradizionale. La follia temporanea delle baccanti dava sfogo agli impulsi irrazionali: resistere a Dioniso significava reprimere gli elementi primigeni della natura. La rappresentazione dei riti dionisiaci permea la cultura figurativa greco-romana, conoscendo enorme successo tanto nella pittura parietale quanto nella scultura. La danza orgiastica delle menadi con il capo rivolto all’indietro e il seno scoperto, secondo una tipologia diffusa nel mondo ellenistico, viene puntualmente ripresa dai pittori moderni per la bellezza plastica dei corpi femminili che affascina gli artisti, sino a Picasso e ben oltre. Lo testimonia la tela di Giovanni Muzzioli, Al Tempio di Bacco (fig. XX), del 1881, in cui il tema della danza viene riproposto in chiave velatamente erotica con una baccante discinta, coperta della pelle di leopardo attributo del dio, mentre si abbandona alla danza durante un rito officiato in secondo piano. Ai suoi piedi, seduto sotto un grande vaso, un uomo sembra dormire profondamente, sopraffatto dai fumi alcolici. È soprattutto nella seconda metà del Settecento, quando le scoperte dei siti archeologici vesuviani agiscono come un acceleratore del nuovo orientamento del gusto, che le arti si riempiono di ariose danzatrici classicheggianti. Fra i prodigiosi rinvenimenti archeologici, infatti, ebbero particolare successo le immagini di sileni, centauri e menadi, scoperte nella così detta Villa di Cicerone nel gennaio 1749 e definite da Winckelmann: “Fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie”. Divulgate dalle raffinate incisioni (fig. XX) per i volumi delle Antichità di Ercolano esposte, edite fra il 1757 e il 1792, le danzatrici di Pompei divengono le protagoniste dei decori delle principali regge e dimore altolocate europee, entrando a far parte non solo del vocabolario ornamentale, ma anche della moda, liberando il corpo femminile dal pesante giogo del corsetto. Antonio Canova, che visita Pompei nel 1780, interpreta in una serie di tempere a colori e di monocromi alcuni soggetti pompeiani. Per rappresentare la danza, Canova propone una serie di variazioni sul tema che illustrano il culto della bellezza adolescente e il tentativo di dare forma alla grazia, soggetto centrale dell’estetica neoclassica. Nell’opera in mostra (fig. XX) lo scultore s’ispira ai modelli pompeiani per studiare l’effetto del moto e dell’ebbrezza prodotta dalla musica sui corpi minuti e sinuosi delle ballerine, avvolte dai panneggi che si gonfiano e ne sposano le forme. Impostata come un fregio su un formato orizzontale, la preziosa composizione a monocromo eseguita nel 1795, riprende una tempera conservata a Possagno, illustrando il ragionamento di Canova sul tema della danza, trasposto in marmo in sculture e bassorilievi. La scoperta il 15 novembre 1833 a Ruvo di Puglia della così detta Tomba delle Danzatrici (fig. XX) , offerta a re di Napoli nel 1838, partecipò a una nuova riflessione sulla valenza ctonia ed escatologica della danza antica, ben diversa dall’approccio estetizzante settecentesco. Straordinaria testimonianza della cultura filosofico-religiosa delle aristocrazie apule a cavallo fra la fine del V e gli inizi del IV a.C., la tomba rappresenta un choros di donne, con vesti multicolori, incarnato roseo, labbra cremisi e grandi orecchini a cerchio, strette a formare una catena secondo una precisa coreografia. Esposta al Museo Nazionale di Napoli, l’affresco destò un vivo interesse. Qui lo videro, fra gli altri, Francesco Saverio Netti e Giuseppe Sciuti rimanendo profondamente impressionati tanto da riprodurlo in diverse composizioni eseguite negli anni 1870. Nel dipinto Coro greco del 1875-1877 (fig. XX) , Netti mette TITOLO 97 in scena il corteo femminile intorno alla peristasi di un edificio cultuale di ordine dorico arcaico, molto vicino ai modelli pestani. La dotta ricostruzione archeologica, tuttavia, trasforma il significato funerario dell’opera antica che diviene il modello di un’ipotetica processione sacra, rappresentata anche nella tela Antico pittore davanti alla sua opera (fig. XX), diversissima dalla danza rituale illustrata sulla lastra tombale. Un identico processo di alterazione del significato escatologico delle danzatrici di Ruvo è operato nel Tempio di Venere di Giuseppe Sciuti (fig. XX), dove il corteo diviene un elemento del decoro della cella dedicata ad Afrodite. Lo svolgimento della danza rituale legata alla cerimonia funebre, è evocato nell’eccezionale dipinto del principe Aslan d’Abro Pagratide Funerale di un console presso Capo Miseno del 1877 (fig. XX). Erede della dinastia che aveva regnato sull’Armenia e sulla Georgia, originario di Siro nelle Cicladi, l’artista aveva scelto Napoli come sua patria d’elezione, divenendo allievo di Domenico Morelli ed esercitando la sua attività come pittore di paesaggi, composizioni storiche e ritratti. Nella sua opera l’autore realizza una trascrizione, al contempo fedele e immaginifica, del funerale di un personaggio di rango elevato in epoca romana. Partendo dal racconto del funus indictivum fat98 TITOLO ta da Polibio nella Pragmatelia (VI. 53), il pittore rappresenta un corteo aperto da musici cui seguono mimi, danzatori e donne vestite di nero che esprimono il dolore del lutto con grida e pianti. Alle loro spalle avanza il feretro con la famiglia, i littori e i portatori di cartelli che inneggiavano al valore del defunto. Ballerini e prefiche ricordano il valore liminare della danza: il movimento del corpo fra vita e morte. La scena è inserita in un’ampia veduta presa dal vero in cui si riconoscono Capo Miseno e il Monte Procida. Esposto all’Esposizione Nazionale di Napoli nel 1877, il dipinto ricevette grande attenzione della critica contemporanea che ne lodò l’accurata ricostruzione storica e la sensibile resa paesaggistica. L’aedo di Dioniso: Orfeo Nel suo primo libro La nascita della tragedia, Nietzsche teorizza il contrasto fra due registri artistici opposti: l’apollineo, legato al sogno, e il dionisiaco all’ebbrezza. Queste categorie della tragedia, corrispondenti alla maschera armonica di Apollo e a quella grottesca di Dioniso, sono inseparabili, come racconta il mito di Orfeo. La vicenda più nota, in cui scende nell’Ade a cercare la sua amata scomparsa, è tarda. Il mito originario racconta come Orfeo, dopo la morte di Euridice, decida di non amare più nessuna donna e durante un rito dionisiaco le baccanti per vendicarsi lo uccidono e lo smembrano. La testa gettata nel fiume Ebro, continua a cantare e giunge in un’isola vicino Lesbo, fino al tempio di Apollo. Opponendosi all’eccesso dionisiaco, Orfeo viene sterminato, ma il suo canto, ormai libero dell’essenza fisica trasfigura l’uomo in una dimensione spirituale. La vicenda di Orfeo, certamente una delle più oscure e simboliche dell’intera mitologia, affascina gli artisti che ne offrono letture diverse. Già dal Medioevo la figura dell’aedo antico è sovrapposta a quella di Cristo, divenendo nei secoli l’icona dell’artista e del misterioso rapporto con l’ispirazione. Allievo prediletto di Gustave Moreau, vicino al milieu esoterico dei pittori Rosacroce e sensibile al movimento Preraffaellita, MarcelBéronneau è stato uno squisito interprete del Simbolismo fin-desiècle francese. Come il suo maestro, egli dipinge temi mitologici e storie bibliche immerse in atmosfere surreali e sognanti, dove fluttuano figure dalla sensualità esacerbata. Nel suo Orfeo del 1897 (fig. XX), Béronneau offre una lettura ermetica e spirituale dell’eroe, colto in un paesaggio livido e desolato durante il canto al signore degli inferi, con gli occhi chiusi come fosse in trance. Il misticismo dell’immagine è rafforzato dal contrasto fra la pallida figura musco- lare dell’aedo, simile ad una scultura antica, e le anime dolenti dei defunti che affiorano nei grovigli di spine. Il mito di Orfeo e le sue implicazioni misteriche ritornano nell’opera di alcuni fra i più celebri artisti italiani del XX secolo. Mario Sironi, nel suo Il Pastore del 1938 (fig. XX), unisce il ricordo dell’aedo nella figura di un satiro malinconico, seduto sul ciglio di una strada all’estrema periferia di una città: moderno cantore dello squallore urbano, il giovane fauno sembra testimoniare la persistenza del mito nel mondo martoriato dalla Seconda Guerra mondiale. Nello stesso anno Corrado Cagli ripropone il contrasto fra apollineo e dionisiaco caro all’estetica novecentesca, offrendone una lettura poetica e nostalgica. All’universo dionisiaco, la cui conoscenza si era approfondita con la scoperta nel 1910 delle megalografie della Villa dei Misteri di Pompei, Corrado Cagli torna a più riprese. Il dipinto Il neofita (fig. XX), del 1933, come i disegni eseguiti nello stesso anno durante il viaggio a Paestum, popolati da figure plananti drappeggiate con chitoni classici, rimandano ai riti misterici della religiosità antica. I personaggi carichi di eros, immersi in un’aura sospesa e inquietante, rimandano a un universo primordiale per evocare un enigma immanente e allusivo, fondato su proporzioni e cromatismi esoterici. Nel tardo, straordinario Orfeo trovaTITOLO 99 tore stanco del 1970 (fig. XX), Giorgio de Chirico formula a sua volta un’allegoria dell’arte: Orfeo, come un alter ego del pittore, raccoglie e conserva gli elementi iconografici del suo “repertorio”, in una poetica autocitazione. Il grande manichino dal viso privo di tratti somatici, seduto in una metafisica piazza assolata, descrive la solitudine del pittore come presa di coscienza di un nuovo, possibile, destino profetico per l’arte. Un salto nel vuoto Quando nel 1968 il tuffatore di Paestum torna alla luce, la sua agile figura intenta in un salto nel vuoto fra due universi è interpretata come un’evocazione della transizione fra vita e morte. Protagonista solitario di un mondo liminare governato da Dioniso, divinità cui fanno riferimento anche le immagini del convivio virile che decorano i fianchi interni del sarcofago, il giovane diviene rapidamente un’immagine iconica anche per il richiamo immediato agli atleti che si librano nell’aria dei moderni sport olimpionici. Fotografi e cineasti, d’altro canto, avevano codificato l’immagine dei tuffatori in diverse occasioni. Si pensi alla serie d’istantanee eseguite nel 1934 da Alexander Rodchenko, che con stupefacente energia creativa elabora una lettura analitica del movimento aereo, preso da diverse angolazioni. Per l’artista russo, fondatore del mo100 TITOLO vimento costruttivista, il tuffo diviene una metafora del dinamismo dell’Unione Sovietica comunista. Leni Riefenstahl nel suo film Olympia, girato a fini propagandistici durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936 e diffuso nelle sale due anni dopo, dedica una lunga parte al volo dei tuffatori. Isolando il movimento o montandolo al contrario, come se emergessero dall’acqua, la regista aumenta il valore estetico e la forza epica del movimento sportivo, creando delle immagini dal fortissimo potere ipnotico. Nonostante il legame di Riefenstahl con il nazionalsocialismo, nel 1955 Olympia fu definito da un gruppo di registi di Hollywood come uno tra i 10 migliori film della storia del cinema. Ricordiamo inoltre lo scatto Il Tuffatore, opera del 1951 di Nino Migliori (fig. XX) parte della serie intitolata Gente del Delta, in cui il fotografo bolognese, influenzato dalla straight photography americana si avvicina alle tematiche del neorealismo. La figura del giovane intento nel tuffo, nega ogni forma di manipolazione dell’immagine estranea alla specificità linguistica del mezzo fotografico, fissando il corpo del giovane uomo nell’atto stesso del volo fra terra e acqua. Accolto da antecedenti moderni e contemporanei, il tuffatore di Paestum eterna il mito della giovinezza. Il suo segreto, tuttavia, resta senza risposte: nella sospensione dell’agile figura, immobilizzata dalla luce che la definisce mentre compie il salto fra due universi, anche l’osservatore assuefatto alle provocazioni visive del mondo virtuale, troverà il mistero della creazione artistica. Il fragile silenzio del capolavoro. TITOLO 101