CIRCOLO VITTOR IESE di RICERCHE STORICHE
Vittorio Veneto
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-- ---- Quaderno N° 8
Contèrenz e 2003 - 2004
Massimo Gusso
Aspetti della schiavitù in Roma imperiale.
Un tragico racconto di Tacito
1. Premessa.
La schiavitù non fu, nell'antichità, soltanto lo stato legittimo, o legittimato, di
privazione definitiva della libertà (che equivarrebbe altrimenti a qualcosa di
simile alla nostra "detenzione a vita": anche se il termine "ergastolo" è parola
dell'antico vocabolario servile romano), ma piuttosto la riduzione di un essere
umano a un "bene", ad una "cosa" di proprietà, sotto il dominio assoluto di un
"padrone", il quale, quindi, ne poteva disporre in ogni modo, usandolo senza
regole, o meglio con le sue regole, sfruttandolo all'estremo limite, cedendolo a
terzi temporaneamente o definitivamente, vendendolo, imprigionandolo,
torturandolo, uccidendolo ...
Sembra un brutto sogno che ci viene da un'antichità troppo spesso edulcorata,
idealizzata e privata degli aspetti più duri e sgradevoli, ma è, in realtà, una
condizione che riguarda tutt'ora milioni di persone, migliaia delle quali anche
attorno a noi: la differenza è che, da tempo (se proprio vogliamo essere precisi
non da tantissimo tempo), la schiavitù non solo non è legittima in nessun paese,
ma è anzi considerata un reato penale. Quindi ora la schiavitù opera, come si
usa dire, in regime di "mercato nero", come avviene per il commercio della
droga, una modalità oscura attraverso cui si vendono e si comperano merci
proibite.
Le merci sono, in questo caso, per fare un esempio, le ragazze vendute come
prostitute sulle nostre strade dalla Nigeria o dai paesi dell'Europa orientale: i
cosiddetti clienti dovrebbero ricordare che essi stessi sono acquirenti di schiavi.
Poco importa se per mezz'ora o una notte, a seconda delle tariffe imposte dalla
clandestinità dell'affare: per quel periodo, breve o lungo, essi hanno infatti
acquistato il diritto di avere quella schiava da un padrone il quale, sfruttandola,
ricava la maggior parte del denaro che essa raccoglie e frutta. Per non parlare
del cosiddetto "turismo sessuale", in cui l'ipocrisia si veste da tour operator e,
per non importare prostitute, che nuocciono al bel vedere delle nostre città, si
esportano i clienti. E in Cambogia, uno dei più poveri paesi al mondo, dove
chissà perché, dati del 2002, in un anno arrivano dall'estero almeno
quattrocentomila turisti maschi, si può affittare per una settimana una bambina
di sei anni per cinquecento dollari. Ora che l'euro è così ben valutato, l'affare è
assicurato. Scherzo per evidenziare la tragedia, lo squallore e i paradossi che ci
sono dietro tali vicende.
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Insomma, la schiavitù esiste ancora, e sta dietro l'angolo, non solo delle nostre
case, ma anche della nostra ipocrisia, e riguarda diverse tipologie, come quei
cinesi ammassati e sfruttati a decine in stanzette trasformate in laboratori di
sartoria, che lavorano sedici ore al giorno senza permesso di soggiorno e in
condizioni igieniche e di promiscuità spaventose, veri e propri schiavi, ancor
più simili a quelli antichi, anche se più celati ai nostri occhi. Sempre schiavi
però!
E prima di andare nell'antichità a scoprire cose che forse preferiremmo
ignorare, ricordiamo che la schiavitù dei negri è stata perfettamente legale negli
Stati Uniti fino al 1865 e che quattro anni di durissima guerra civile furono
necessari per imporre un emendamento alla Costituzione e far si che questa
istituzione venisse cancellata.
Nel Brasile la schiavitù, ancora dei negri, fu abolita solo nel 1888. In Medio
Oriente la schiavitù legale scomparve, in alcuni casi, solo dopo la prima guerra
mondiale, se non più tardi.
Gli esempi documentati di queste schiavitù moderne aiutano, assai più di quanto
non si pensi, ad interpretare le vicende della schiavitù antica che, pur avendo
riguardato aliquote impressionanti della popolazione di quei tempi è poco
conosciuta per la parte che riguarda gli aspetti minuti della vita quotidiana e
della sorte degli schiavi.
Vorrei riservare un cenno al brulicante mondo degli schiavi tra il medioevo e
l'età vittoriana. Non c'è purtroppo il tempo per una storia del servaggio, una
evoluzione della schiavitù: basti solo dire che se usiamo schiavo per indicare il
non libero, in realtà i romani lo chiamavano servus e servo rimane fino ad oggi
il dipendente domestico. Ricordo che solo a Londra, nel 1891, le domestiche
erano 399.200, praticamente una donna su tre e i domestici maschi solo, si fa
per dire, 58.000. Ancora nel 1931 in tutta l'Inghilterra si contavano un milione e
trecentomila domestici.
Come sappiamo la storia è assai ingenerosa con i deboli e con i perdenti.
2. Schiavi antichi (e moderni).
La popolazione dell'Atene del quinto secolo a.e., l'Atene di Pericle per capirci,
era costituita dal 30% di schiavi. Anzi, le basi stesse della "democrazia"
ateniese (qualcosa di molto mitizzato, su cui varrebbe la pena di soffermarsi, e
comunque ben diverso da ciò che noi definiamo oggi democrazia) sono fondate
sull'eliminazione di buona parte del lavoro materiale, demandato agli schiavi (e,
non dimentichiamolo, alle donne!) che consentiva agli uomini liberi di dedicarsi
alle spettacolari sperimentazioni della politica che quella stagione produsse e
che ancora oggi ci coinvolgono.
Beh, non dimentichiamoci che anche un'altra straordinaria pagina della storia
della democrazia che fu (ed è) la costituzione americana, glissa tranquillamente
sulla presenza degli schiavi entro i confini dei territori che costituirono gli Stati
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Uniti e produce una bellissima dichiarazione dei diritti che dimenticava, per così
dire, sia gli schiavi negri, catturati e portati via dall'Africa dai velieri dei
negrieri, ma persino i nativi, i pellerossa, che pure in quelle terre vivevano da
prima dell'arrivo dei colonizzatori bianchi dall'Europa.
E pure la Rivoluzione francese esitò a lungo prima di disporre la liberazione
degli schiavi negri delle colonie francesi, nonostante gli altisonanti proclami di
liberté,fraternité, egalité.
Insomma la storia della democrazia, e della sua faticosa corsa alla integrale
ricerca della libertà dell'uomo, sembra essersi pericolosamente mescolata con
una sottostima di situazioni socio-demografiche determinatesi nel tempo, in
genere afferenti a genti "diverse", che potevano appunto essere dimenticate nel
suo percorso; potevano essere in qualche modo accantonate. Tali erano gli
schiavi degli Ateniesi, frutto di guerre di conquista, quasi sempre "barbari", cioè
stranieri incapaci di parlare il greco, i "balbettanti", come razzisticamente
venivano definiti (l'avverbio lo metto io adesso, si badi bene, e mi rendo conto
della forzatura storica, ma aiuta a capire); tali erano i negri portati nelle
Americhe, diversi anche sul piano razziale, oltre che su quello culturale, nei cui
confronti si stabilirà un pregiudizio fortissimo che, ad esempio negli Stati Uniti,
sul piano normativo, si comincerà a forzare solo in epoca kennedyana, circa un
secolo dopo il proclama di emancipazione di Lincoln.
Non diversa sarà la schiavitù romana anche se, con i suoi aspetti di massa, si
presenterà relativamente tardi rispetto allo sviluppo politico e militare di Roma
antica.
Diciamo che la schiavitù, era sempre esistita, ma si trattava di una schiavitù di
minoranza, residuale, che riguardava la vita interna alle comunità, quando a
causa dei problemi economici il pater familias poteva decidere di vendere anche
i propri figli, salvo ricomprarli successivamente (una terribile forma di garanzia
patrimoniale), o quando qualcuno cadeva in schiavitù per debiti in quanto aveva
messo se stesso come garanzia di assolvimento della prestazione e non aveva
potuto farvi fronte, o riguardava la vita tra le diverse realtà politiche dell'Italia
prima della sua conquista, quindi i prigionieri di guerra. In questo senso
ricordiamo che la schiavitù è qualcosa di immanente nel soldato antico: sapeva
che se fosse sopravvissuto alla battaglia e fosse stato preso prigioniero sarebbe
stato venduto come schiavo. Il diritto romano aveva persino un suo istituto (lo
ius postliminii) che regolamentava la riammissione nella collettività (nel
patrimonio e nella famiglia) di un cittadino romano che fosse stato ridotto in
schiavitù dal nemico e poi liberato.
La schiavitù romana si fece di massa quando Roma divenne padrona del
Mediterraneo soprattutto dopo la lotta con Cartagine, che durò circa un secolo.
Da quel momento il numero degli schiavi divenne impressionante, fino ad
arrivare, in epoca augustea (i numeri mediamente riguardano tutto l'impero), a
quel 25-30% che abbiamo visto per Atene e l'Attica del quinto secolo a.C.: ma
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qui stiamo parlando di un'area ben più grande, stiamo parlando dell'Impero
Romano, di numeri impressionanti, forse di sette milioni di individui!
In Italia si arrivava al 35% della popolazione (circa tre milioni di individui); a
Roma forse al 40% di tutti gli abitanti.
Centocinquantamila schiavi vennero condotti in Italia dopo la terza guerra
macedonica e solo Giulio Cesare aveva portato schiavi in Italia un milione di
Galli! Quando leggiamo il De Bello Gallico ricordiamoci anche di queste
tragedie: due milioni di morti e un milione di schiavi. Anche questo fu il lascito
dei Romani alla Gallia e Tacito ricorda come un capo britanno, a proposito della
pax romana,dicesse ubi solitudinemfaciunt, pacem appellant(Agricola,30).
Ricordiamo che nell'isola greca di Delo, uno dei più importanti centri di
smistamento di schiavi nell'antichità, si potevano negoziare fino a diecimila
schiavi al giorno.
3. Gli schiavi come merce.
Questo afflusso di merce umana, abbondante e a buon mercato, cambiò
radicalmente la struttura sociale della vecchia repubblica romana e tale
cambiamento fu l'impianto sociale dell'impero: la vecchia fedele classe di
contadini che aveva portato alla conquista del Mediterraneo grazie al suo
sacrificio (più di vent'anni di servizio militare; guerre ininterrotte; famiglie
distrutte; scarsa redditività dei piccoli fondi agricoli ecc.) venne rimpiazzata da
un esercito di mestiere già ali' epoca di Caio Mario. Ciò portò tuttavia
all'indebolimento della struttura democratica del potere in quanto i comandanti
militari disponevano delle forze armate e del loro controllo, a scapito
dell'indirizzo politico, ma soprattutto alla formazione di latifondi agricoli
condotti esclusivamente con mano d'opera servile, a spese dei piccoli
agricoltori che vennero inurbati e finirono parte delle plebi cittadine, spesso
mantenute a spese pubbliche, come accadeva soprattutto a Roma, con un forte
impoverimento dei valori civici diffusi e della conservazione degli stessi
nell'ambito di famiglie motivate di contadini-soldati.
Le radici della crisi del sistema di valori repubblicano sono tutte qui e l'esame
dei tentativi di riforma messi in atto dai Gracchi erano precisamente volti a
ridare terre agli ex contadini e a ricostruire una piccola borghesia (uso termini
volutamente moderni!) costituita da piccoli proprietari che desse forza ad un
partito democratico per orientare la politica verso indirizzi meno élitari. Sarebbe
troppo lungo esaminare le ragioni, i tempi e i modi di questa crisi e del
fallimento dei Gracchi (e i frutti di tale fallimento): diciamo solo che nel primo
secolo a.e. Roma prese la direzione che l'avrebbe portata a conferire il potere
ad uno solo, e che anche la schiavitù e le trasformazioni sociali ad essa connesse
ne furono coinvolte.
Si creò anche una diversità progressiva nel trattamento riservato agli schiavi.
Quelli urbani, utilizzati nei lavori domestici stavano generalmente meglio di
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quelli rurali adibiti al lavoro di squadra, in catene, e reclusi in ergastula,
sorvegliati e raramente in grado di emanciparsi. La condizione più bassa nella
già bassa scala di trattamento servile era quella degli schiavi adibiti al lavoro
delle miniere tra i quali la vita era terribile e la mortalità altissima.
Il numero degli schiavi oscillò attorno ad una soglia critica già a partire dalla
seconda metà del secondo secolo a.e.: che significa? Voglio dire che se tale
soglia non ci è nota, non conosciamo cioè il livello, nel rapporto liberi/schiavi,
toccato il quale diventava arduo - per i liberi - tenere sotto controllo gli schiavi,
ma ci sono ben note diverse gravi rivolte servili, il che indica che tale soglia era
stata spesso superata ...
Già nel 140 a.e. la Sicilia fu sconvolta da bande di schiavi fuggiaschi, poi dal
135 al 73 a.e. si ebbero tre grandi rivolte, i numeri delle quali parlano da soli:
nel 133 le forze messe in campo dagli schiavi ribelli in Sicilia aveva raggiunto
le duecentomila unità; grandi numeri anche nel 104; nel 73 basta il nome di
Spartaco e dei suoi centoventimila effettivi.
Tali episodi, sempre connessi a momenti di grande instabilità politica o militare,
fanno riflettere sul fatto che se si catturano grandi quantità di soldati nemici
nelle loro mani anche una semplice zappa può diventare un'arma e la loro antica
disciplina può parimenti essere portata contro i padroni qualora un capo sia in
grado di guidarla.
Secondo la terminologia varroniana, una "macchina" agricola, come un carro da
trasporto, era un instrumentummutum, era cioè uno strumento, che necessitava
di essere guidato, che non dava reazioni, di per sé; il bue che quel carro trainava
si poteva defmire un instrumentumsemivocale, in quanto si trattava di una
"macchina" a sua volta, semovente e persino in grado di segnalare delle
reazioni, di dare dei messaggi all'operatore. Uno schiavo era, invece, un
instrumentumvocale,cioè uno strumento, una macchina, parlante.
Ricordo che secondo l'impostazione della filosofia aristotelica un bue sarebbe
stato qualificabile come "lo schiavo del povero", in quanto lo schiavo in sé
garantiva al suo padrone le stesse virtù del bue (spingere, tirare, portare carichi)
con in più innumerevoli altre capacità: potare le viti, zappare i campi,
raccogliere i frutti, spaccare la legna, che nessun animale avrebbe saputo fare
con la precisione di una "macchina fornita di mani" e in grado di comunicare, di
parlare, persino - a starla ad ascoltare - di spiegarsi.
Lo scarso sviluppo delle tecnologie nell'antichità trova una delle sue
spiegazioni (non l'unica!) nella disponibilità, sul mercato, di questa merce
straordinaria, la macchina umana.
Ma per governare la macchina umana, che non lavora solo, ma capisce e ha
aspirazioni, e tende a cercare la libertà, occorre farle paura, metterla in
condizioni di soggezione, tenerla sotto minaccia.
4.11 racconto di Tacito (Ano. XIV, 40 ss.)
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Siamo a Roma nel 61 d.C., durante il regno di Nerone, in un periodo
imprecisato, ma probabilmente primavera-estate, quando si verificano due
delitti molto gravi, per la personalità delle vittime (insigna scelera, li definisce
Tacito), che turbarono, come diremmo oggi, l'opinione pubblica e fecero molto
scalpore, al punto da essere noti anche a noi, oggi, anche se solo dal racconto di
Tacito.
Tralasceremo il primo delitto, vittima un vecchio senatore molto ricco e senza
figli, ucciso da un lontano parente allo scopo di ottenere i suoi beni mediante
esibizione di un falso testamento, vicenda che non si concluse troppo male per i
colpevoli (che si rivelarono una vera e propria associazione a delinquere, ma
tutti diciamo così appartenevano alla Roma-bene e salvarono almeno la vita),
mentre ci occuperemo dell'altro delitto, protagonisti più sfortunati schiavi,
consapevoli e soprattutto inconsapevoli, che mise a rumore Roma divenendo lo
specchio di tutte le paure che la classe dirigente dell'impero aveva accumulato,
ma non metabolizzato, nei confronti degli schiavi durante i circa
duecentocinquanta anni in cui il regime schiavistico di massa era stato
impiantato, praticato e diffuso.
I fatti.
Lucio Pedanio Secondo, ex console, prefetto di Roma (praefectus Urbi),
originario della Spagna, al pari di Seneca, politico conservatore come quasi tutti
i suoi compatrioti, era assai in auge in quel momento alla corte imperiale ed era
un uomo ricchissimo. Viveva nel lusso in una grande casa romana, ma fu ucciso
di notte da un suo schiavo, di cui è significativamente taciuto il nome, a
caratterizzare la sua scarsa importanza (si sa solo che era una sua proprietà:
servus ipsius).
Tacito ebbe accesso agli archivi del Senato di Roma, ma non sa dire se il vero
movente dell'omicidio fosse stato diciamo così economico, l'aver il padrone
negata la libertà promessa allo schiavo, cui pretium pepigerat, per la quale cioè
aveva già patteggiato il prezzo, ovvero passionale, perché il padrone aveva
ridotto a proprio amante un altro schiavo in precedenza legato invece
sentimentalmente al suo assassino; sulla base del costume romano questo
schiavo-amante sarebbe stato un ragazzo, ma anche di lui non sappiamo
nient'altro.
In realtà a Tacito il movente di una "cosa da schiavi" non interessava
minimamente. E già questo dovrebbe farci venire i brividi.
Comunque, dati rango e personalità della vittima, e tenuto conto della carica
rivestita, il Senato si riunì, per decisione autonoma o per delibera imperiale,
come corte di giustizia e avocò a sé ogni decisione in merito.
Il Senato possedeva una normativa e forse anche una giurisprudenza in casi del
genere, giacché ci è noto il "senatoconsulto Silaniano", cioè la decisione
senatoriale approvata su proposta del senatore Silanio, risalente a cinquantun
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anni prima, ma forse rinnovellante quello che Tacito definisce un antico
costume (vetere ex more).
Questo senatoconsulto stabiliva, per farla breve, che, in caso di omicidio del
padrone, non solo i colpevoli, ma l'interafamilia, come si diceva, cioè tutti gli
schiavi che si fossero trovati sotto lo stesso tetto (sub eodem tecto) avrebbero
dovuto essere suppliziati (ad supplicium agi oporteret); tale condanna
prevedeva, come vedremo, prima la tortura quindi la crocifissione del reo. Un
provvedimento di soli quattro anni precedente aveva ribadito la norma
(Senatusconsultum Neronianum).
Il grande giurista Ulpiano, molti anni dopo, commenterà il provvedimento
sostenendo che esso si era rivelato necessario perché nessuna casa sarebbe stata
sicura se gli schiavi non fossero stati costretti con la minaccia della morte a
difendere il padrone sia da coloro che si fossero trovati nella sua casa, che dagli
estranei. La disposizione era assai severa, come si può capire, e si spingeva a
punire anche chi avesse aiutato, eventualmente, la fuga degli schiavi soggetti
alla pena, che ne avrebbe disposto secondo la legge de sicariis, quindi come
complice nel delitto padronale.
Chi invece avesse aiutato a catturare gli schiavi fuggiaschi dopo il delitto,
avrebbe ricevuto una ricompensa di cinque monete d'oro a carico dei beni del
defunto o, in caso di impossibilità, a carico dello stato. Questa norma era, come
si può capire, un'arma formidabile nelle mani dello stato romano.
L'uccisione di Pedanio, in ogni caso, si rivelò una questione assai grave anche
per una ragione politica: il prefetto di Roma era, da molti anni il funzionario
preposto alla repressione dei moti servili (vd. Tacito, Annali, VI, 11). Che fosse
stato ucciso da uno schiavo era quindi anche uno specifico insulto
all'istituzione.
Il problema che si prospettò al Senato in questa circostanza stava però
essenzialmente nel numero degli schiavi coinvolti, altrimenti ritengo che del
fatto non si sarebbe avuta la più piccola menzione: fatto sta che il prefetto
Pedanio Secondo possedeva moltissimi schiavi e, al momento della sua morte,
solo sotto il suo tetto (per usare le parole del senatoconsulto), ne vivevano ben
quattrocento!
Quattrocento: un numero enorme anche per quei tempi ...
Siccome il numero è dato arrotondato, avrebbe potuto essere anche maggiore, e
tra questi schiavi c'erano senz'altro, vecchi, donne, adolescenti e bambini in
tenera età.
Anche ammessa la premeditazione del delitto, tra loro senz'altro moltissimi
sarebbero stati innocenti, o comunque inconsapevoli. La gran parte.
Praticamente tutti.
Se pensiamo poi che il delitto, per entrambi i moventi suggeriti, ma anche e
soprattutto per le modalità illustrate da Tacito nella sua narrazione, è
probabilmente scaturito, senza premeditazione, da un alterco degenerato in
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colluttazione e quindi in omicidio, l'innocenza era un dato generale, riguardava
tutti, con la sola eccezione del colpevole. Dico questo perché non c'è dubbio, da
quel che scrive Tacito, che un preciso, ed unico, colpevole fosse stato da subito
individuato e fermato, probabilmente, se non sicuramente, da altri suoi colleghi
di schiavitù, accorsi forse alle grida della vittima. E perché non ritenere
addirittura che l'omicida fosse uomo di fiducia del prefetto, visto che questi
aveva promesso di concedergli la libertà, e che quindi avesse avuto modo di
avvicinarsi alla sua camera da letto in maniera da non destare sospetti? Ma la
normativa in merito all'omicidio del padrone non lasciava vie d'uscita.
Tacito non prende posizione: semplicemente sposa la norma in vigore, ma ci fa
sapere, con il fastidio del signore davanti al rumore della plebaglia, che il
popolo si mosse subito, che fece, diremmo noi, una manifestazione di protesta
(concursu plebis) di fronte alla prospettiva della carneficina di tutta quella
gente; insomma sfilò minacciosamente davanti al Senato per assicurare qualche
tutela a così tanti innocenti (tot innoxios protegebat).
Considerate che è davvero singolare che il popolino di Roma si scaldasse tanto
per degli schiavi: noi sappiamo bene come razzismi e conservatorismi
attecchiscano assai bene - in ogni epoca - negli strati modesti e miseri della
popolazione, facilmente trascinabili verso capri espiatori, spesso se collocati
socialmente ancora più in basso.
In questo caso, tuttavia, tanta gente comune aveva conosciuto queste centinaia
di schiavi che lavoravano nella casa di Pedanio, era stata in contatto con questi
cuochi, camerieri, cameriere, sarte, parrucchiere, lavandaie, sguatteri, lavoranti,
addetti ai bagni, giardinieri, manutentori, trasportatori, manovali e chissà che
altro. E anche schiavi e schiave dovevano aver intrecciato da anni, e per anni,
rapporti quotidiani di normale vita comune e di minuti affari con negozianti,
fornitori, mercanti, liberi lavoratori e, perché no, amicizie, fratellanze, amori
magari, o comunità di culti con tante altre persone libere o schiave di altri
padroni...
Insomma, la notizia che centinaia di innocenti sarebbero stati orribilmente
torturati uno ad uno e poi messi in croce, aveva portato quasi a una rivolta
popolare (usque ad seditionem).
Era stato seminato qualche dubbio anche tra i senatori, tra i quali c'era
evidentemente più d'uno che si opponeva esplicitamente a un eccesso di
severità (nimiam severitatem aspernantium) che se giustificabile, in qualche
modo, di fronte ad un numero esiguo di schiavi, nel senso di costringere
ciascuno a sorvegliare l'altro per evitare la pena, diventava abnorme, assurdo e
ingiustificabile di fronte a tali numeri.
Si aprì il dibattito e, nonostante la maggioranza fosse orientata a lasciare la
normativa invariata (pluribus nihil mutandum censentibus) e, probabilmente, a
ordinare la condanna degli schiavi dell'assassinato, si sarebbe potuta forse
trovare ancora una forma di compromesso, quando si alzò e prese la parola uno
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dei più grandi giuristi romani del tempo, il senatore Caio Cassio Longino
esponente, diremmo oggi, dell'ala dura e intransigente.
Il discorso di Cassio occupa il novantacinque per cento della notizia che Tacito
ci fornisce e, se è stato sintetizzato dallo storico, resta assai indicativo del
pensiero della élite dominante sulla questione della schiavitù.
Vediamolo: sostenne Cassio di non essersi mai opposto, in passato, a riforme
normative, quando gli era sembrato che le innovazioni non violassero le
previsioni degli antichi, ma ora sentiva di opporsi. Si capisce che qualcuno
aveva cercato di chiedere un'interpretazione autentica del senatoconsulto
Silaniano che prevedeva già ad esempio la grazia allo schiavo ammalato o allo
schiavo punito e in catene; forse - ipotizzo - qualcuno aveva chiesto di
estendere la grazia anche a chi comunque non avrebbe potuto impedire
fisicamente l'omicidio come vecchi, donne e bambini.
Ma Cassio si dice convinto che l'ex console fu ucciso a casa propria per una
congiura di schiavi (consulariviro domi suae interfectoper insidiasservi/es)
dato che nessuno impedì o svelò ciò che stava per accadere.
Decerniteherculeimpunitatem,continuò Cassio: votate allora, maledizione, per
concedere l'impunità, e chi sarà più tranquillo a casa propria?
Se Pedanio Secondo, che era, non dimentichiamolo, il prefetto di Roma, non
poté starsene tranquillo pur essendo attorniato da quattrocento schiavi, di quanti
schiavi dovremmo circondarci per andare a dormire sicuri la notte?
Insomma, che vantaggio ricaveremmo da una brigata di schiavi che non è in
grado di proteggerci neppure sotto il timore della generale pena di morte? (cui
familia opemferet, quaene in metuquidempericula nostraadvertit?)
E, per venire al caso di specifico, continuò Cassio, se diciamo, come qualcuno
non si vergogna di dire (an ut quidamfingerenon erubescunt,e qui non può che
riferirsi a qualcuno dei suoi colleghi senatori) che lo schiavo uccisore aveva
qualche ragione, allora, perché non proclamiamo direttamente che il padrone fu
ucciso a buon diritto (pronuntiemusultrodominumiure caesumvideri):emerge
nelle durissime parole di Cassio non tanto il paradosso di riconoscere ragioni
all'omicida, quanto piuttosto l'affermazione recisa di negare ogni diritto agli
schiavi. In quanto tali!
Cassio allora si chiese, più concretamente: credete voi che se lo schiavo avesse
deciso di uccidere il suo padrone, non gli sarebbe sfuggita neanche una volta
un'espressione di minaccia, un indizio qualunque delle sue intenzioni? (nihil
per temeritatemproloqueretur?)Concediamo pure che avesse voluto celar bene
i suoi propositi e che avesse nascosto il pugnale in mezzo a gente che li
ignorava (telum inter ignaros paravit), come avrebbe potuto arrivare
impunemente alla camera da letto, che era sorvegliata, portando seco un lume, e
compiere l'omicidio senza che nessuno se ne accorgesse? (omnibusnesciis?)
Multa sceleris indicia praeveniunt: molti sono, di solito i segni che
preannunciano un delitto. Qui scatta la proclamazione ideologica: già i nostri
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padri ebbero in sospetto la natura degli schiavi (suspecta maioribusnostris
fuerunt ingeniaservorum), anche di quelli nati negli stessi campi e nelle stesse
case, che fin dalla infanzia avevano appreso l'affetto verso i padroni. A maggior
ragione, noi, adesso, in era di globalizzazione, verrebbe da dire, dobbiamo
sospettare i nostri schiavi, visto che ne possediamo di diverse nazioni (vero
nationes in familiis habemus),che praticano costumi e riti religiosi diversi,
oppure nessun rito (quibus diversi ritus, extema sacra aut nulla sunt): allora
non ci resta altro, per tenere a freno questa massa amorfa, se non ricorrere alla
paura (colluviemistamnon nisi metu coercueris).
Interessante il sostantivo scelto per indicare l'insieme degli schiavi (colluviem),
che indica, in genere, le acque della fogna, e la lordura in esse contenuta e
trasportata.
L'insieme delle diversità, delle non-romanità, delle inciviltà degli schiavi,
rappresenta una contaminazione, da cui scaturiscono esseri impuri ed empi, da
cui difendersi con la paura, con l'esercizio del terrore.
Periranno, certo, degli innocenti (at quidaminsontesperibunt),disse Cassio, ma
non sarà certo la prima volta e, ricorrendo ad un esempio in campo militare,
continuò ricordando che anche in un esercito volto alla fuga un soldato ogni
dieci è percosso fino alla morte col bastone (decimusquisquefusti feritur). E
tale sorte può capitare anche ai più valorosi, ma ogni punizione esemplare ha in
sé qualcosa di ingiusto (habet aliquidex iniquoomnemagnumexemplum),che
trova la sua ragione nell'utilità generale.
Nessuno osò personalmente contraddire le parole di Cassio, pure qualcuno
intervenne in disaccordo per sollecitare un'attenzione per il numero, l'età ed il
sesso e per l'indubbia innocenza di moltissime di quelle povere persone
(dissonaevoces respondebantnumerumaut aetatemaut sexum ac plurimorum
indubiaminnocentiammiserantium).
Vorrei ricordare per inciso che un passo del senatusconsulto Silaniano (§ 7),
come ci è stato riportato nelle fonti, recitava: i servi che si trovino più vidni al
padrone e che, alle sue grida, non siano accorsi in suo aiuto, dovranno essere
puniti (servi, de proximo si, cum possente/erre, auditis clamoribusauxilium
dominonon tulerunt,puniuntur).Poteva essere una via d'uscita, per almeno una
buona parte dei malcapitati: come ritenere tutti e quattrocento gli schiavi nello
stesso tempo "vicini" al padrone e "non accorsi" in suo aiuto, se non pensando
ad una congiura?
Ma fu proprio a questo che si giunse.
Allora, in sole sei parole, Tacito, tacitianamente, condensa la conclusione della
seduta: praevaluit tamen pars, quae supplicium decernebat. I senatori si
contarono e prevalsero coloro che volevano che si eseguisse la condanna. Non
ci vengono dati i risultati del voto, come talora capita. Forse non fu a grande
maggioranza, ma una maggioranza, comunque, ci fu.
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La paura dettò la sentenza. La paura, si perdoni il gioco di parole, che se non si
fosse sparsa paura tra gli schiavi, l'ordine domestico e l'ordine per le strade non
si sarebbe conservato. Occorreva un esempio clamoroso e pubblico, anche se,
come aveva detto Cassio, habetaliquidex iniquoomnemagnumexemplum...
Ma egualmente non si riusciva a eseguire la sentenza.
Il popolo di Roma con sassi e torce assediava minacciosamente il Senato.
Dovette intervenire l'imperatore. E Nerone ordinò alla guardia pretoriana di far
rispettare la delibera senatoriale.
E furono i pretoriani a presidiare il percorso di coloro che dovevano essere
condotti al supplizio (omne iter, quo damnati ad poenam ducebantur,
militaribuspraesidiissaepsit).
La normativa era severissima e, in caso di uccisione di un padrone, anche i suoi
atti testamentari venivano sigillati per impedire che la liberazione testamentaria
di uno schiavo lo salvasse dal supplizio, e si estendeva persino, in qualche
modo, agli schiavi già liberati in precedenza. Era stato proposto infatti l'esilio
dall'Italia anche per tutti gli schiavi che erano stati liberati in precedenza da
Pedanio, e che erano suoi liberti, ma l'imperatore non lo consenti.
5. Il supplizio
Non sappiamo nulla di quel che successe ai quattrocento, se non che sfilarono
pubblicamente verso la zona prescelta per la loro esecuzione, e che questa,
presumibilmente fu pubblica, anzi che dovettero esservi condotti numerosi
schiavi, a monito.
Inoltre l'erezione di quattrocento croci abbisognava almeno di un chilometro in
linea d'aria, se praticata lungo una strada, o, diversamente di un'area dal
perimetro sufficientemente vasto.
Dovete sapere che alla fine degli anni sessanta è stata pubblicata una iscrizione
da Pozzuoli, di probabile epoca neroniana, che fa luce sulle modalità di
irrogazione del supplicium,della pena capitale, nei confronti degli schiavi.
Tali modalità lasciano trasparire una duplice via: il padrone poteva privatamente
disporre la esecuzione dello schiavo, rivolgendosi a qualcuna delle imprese
(guidate da un redemptor, un appaltatore di servizi) che fornivano tale
prestazione d'opera, con specifici tariffari controllati; se era invece un
magistrato a decidere, sulla base del diritto pubblico, la esecuzione della pena
capitale contro lo schiavo era forse più complessa e articolata, ed erano previsti
anche particolari rituali pubblici connessi ai cadaveri dei suppliziati.
Dal documento epigrafico di Pozzuoli apprendiamo che intervenivano dei
verberatores, cioè dei fustigatori, perché il supplizio iniziava con una
fustigazione del condannato, poi un carnifex, un carnefice, avrebbe provveduto
a legare il malcapitato sulla croce dove sarebbe rimasto appeso morendo per
paralisi polmonare progressiva, dopo lunga sofferenza, a meno che non gli si
spezzassero le gambe impedendogli di avere la spinta necessaria a respirare.
11
Nel caso dei quattrocento schiavi di Pedanio Secondo, tuttavia, la esecuzione
era stata disposta sulla base del diritto pubblico, non del diritto privato
padronale, in quanto era lo stato il Senato a prendersi l'onere di disporre
l'esecuzione: pertanto, sempre secondo l'epigrafe di Pozzuoli, gli ufficiali
incaricati si servirono di altri strumenti.
Presumo che i malcapitati siano stati preventivamente torturati con il fuoco,
perché si parla di pece, cera e torce, e successivamente inchiodati alle croci, e
non "solamente" legati, perché, in quel testo, si parla esplicitamente di clavose
non di vincula.
Inoltre, ubi plura cadaveraerunt, se vi fosse un certo numero di cadaveri di
suppliziati, uomini a ciò addetti, vestiti di tuniche rosse, avrebbero dovuto
trascinare quei corpi agitando un campanello (cum tintinnabuloextrahere
debebit).
E poi tornò il silenzio su questo universo di infelici...
6. Il concetto di "lavoro" in Roma antica
Lo spazio sociale del lavoro, quello spazio in cui una trasformazione dei
prodotti della natura in beni e merci, doveva avvenire per garantire la
sussistenza delle comunità, favorire la produzione e la sua continuità, oltre al
mantenimento di un buon livello della vita nelle città, è coperto da un velo, da
un atteggiamento censorio, oscillante tra il disprezzo e la rimozione collettiva,
comunque da una assoluta incapacità di formulare una qualunque etica del
lavoro. Al punto che negotium(=lavoro) è termine negativo e spregiativo di
fronte ad otium, concetto tuttavia troppo complesso per poter essere discusso
qui, ma che certamente non può tradursi con "ozio", ma con un modo di vivere
e pensare, con una filosofia aristocratica che da sola richiederebbe una
conferenza.
Cicerone scrive che il viveredellamercedeeguaglial'uomo liberoalloschiavo.
Il lavoratore libero romano si trovava in una posizione socialmente spregevole,
non invidiabile talora neppure dagli schiavi, tanto che i giuristi, parlando della
locatio, noi diremmo dell'offerta del proprio lavoro sotto paga di un essere
vivente, fanno un solo mazzo, racchiudendo nel concetto ogni attività (operae,
da cui verrà il nostro, più tardo, operarius)compiuta sotto remunerazione dallo
schiavo, dal liberto, dal mercennarius,e persino dall'animale.
Chi riceveva una mercede per la propria prestazione lavorativa era detto
mercennarius.Se uomo libero era il suo guadagno, se a locare l'opera era un
animale o uno schiavo, la mercede spettava al loro padrone, perché il servus,lo
schiavo, a differenza del libero, era un perpetuusmercennarius.
Comunque gli abusi nei confronti dei lavoratori liberi a mercede dovevano
essere infiniti ed essi, per il tempo della loro dipendenza non dovevano essere
trattati molto meglio degli schiavi. Anzi, se ci pensate, in assenza di un regime
di assicurazioni sociali, era più conveniente far realizzare un lavoro pericoloso a
12
lavoratori liberi a paga, che ai propri schiavi. Se un libero lavoratore fosse
morto o si fosse storpiato nel lavoro sarebbe bastato rimpiazzarlo, per uno
schiavo morto, invece, si sarebbe dovuto provvedere con un nuovo acquisto ...
Abbiamo notizia di contratti di locazione di attori, di registi teatrali, di
gladiatori, di prefiche (per i funerali), di guardie del corpo, di scrivani, di
uomini di fatica (ad circumagendasmolas,a girare la macina di un fornaio), di
sguatteri e cuochi.
Dice Cicerone, parlando dei sordidi quaestusmercennariorum(degli squallidi
mestieri dei lavoratori a paga) che est enim in illis (i mercennarii)ipsa merces
auctoramentumservitutis, cioè che quella paga costituisce la remunerazione
della loro schiavitù.
Il lavoro schiavistico, è stato scritto, era simmetrico alla libertà aristocratica del
pensiero, vi si celava dietro, e questa, a sua volta, Io era rispetto alla fuga da una
visione meccanica e quantitativa della natura. Da una simile spirale sarebbe
stato ben difficile uscire, senza un'autentica rottura epocale.
Ma neanche il Cristianesimo, alla fine, scardinò quest'idea di separatezza da chi
poteva "non lavorare" e chi "doveva solo lavorare". Fu necessaria più di una
Rivoluzione per cambiare un costume che ancora adesso, nel mondo, conta
troppe vittime.
7. Cenni bibliografici (in ordine di riferimento)
* Sul "turismo sessuale" e schiavitù mi limito a citare un articolo di cronaca di
Nicholas Kristof, corrispondente del New York Times, intitolato: Con 200
dollari ho comperatola libertà di una baby-prostituta,«La Repubblica» 22
gennaio 2004, pp. 1 e 18.
* Sulla schiavitù negli Stati Uniti e sulle contraddizioni della Costituzione
americana si potrebbero citare decine di testi: vd. ad esempio F. Jennings, La
creazionedell'America(2000), tr. it. Torino 2003, pp. 207-213; R. A. Dahl,
Quanto è democraticala Costituzioneamericana?(2001), tr. it. Roma-Bari
2003, pp. 86-89.
* La Costituzione rivoluzionaria francese non liberò subito gli schiavi,
preferendo ipocritamente iniziare dagli hommesde couleur,i mulatti, e solo nel
1794 aboll con scarso entusiasmo la schiavitù nelle colonie; vd. A. Forrest, La
RivoluzioneFrancese(1995), tr. it. Bologna 1999, pp. 106-107.
* Sulla fine della schiavitù in Brasile vd. C. Furtado, La formazioneeconomica
del Brasile (1959), tr. it. Torino 1970, pp. 181-187; M.J. Maestri Filho,
Intervista storica (Testimonianzadi Maria Chatinha [ca. 1873-1981), exschiavanel sud del Brasile,in «Quaderni di Storia», 23 (1986), pp. 153-172.
* Una rassegna di dipinti è stata recentemente dedicata al lavoro domestico in
Inghilterra dalla National Portrait Gallery di Londra (titolo Below Stairs. 400
13
Years of Servants's Portraits); cfr. N. Aspesi, Padroni & Servitori, «La
Repubblica», 8 gennaio 2004, p. 41 con molte informazioni di dettaglio.
* I passi di Tacito, compreso il testo latino, sono citati da Tacito, Annali,
Milano 1994, voi. II, pp. 658-663 (dal libro XIV, 40-45; trad. B. Ceva).
* Sul grande storico romano la bibliografia è sterminata: suggerisco la lettura di
R. Syme, Tacito(1963), tr. it. Brescia 1971 e di A. Michel, Tacitoe il destino
de/l'impero(1966), tr. it. Torino 1973.
* Per le problematiche connesse, in generale, ana schiavitù in Roma imperiale,
vd Shtaerman-M.K. Trofimova, La schiavitùnell'Italiaimperiale( 1971), tr. it.
Roma 1975 (la citazione di Ulpiano, da Dig. 29. 5, si trova a pag. 211); esse
sono altresi trattate in maniera assai brinante da A. Schiavone, La storia
spezzata.Romaanticae Occidentemoderno,Roma-Bari, 1998, spec. capp. IX e
X, con ampi rinvii ana condanna degli schiavi di Pedanio Secondo. Sul numero
e la condizione degli schiavi vd. anche G. Alf6ldy, Storia sociale dell'antica
Roma(1984), tr. it. Bologna 1987, spec. pp. 185 ss.
* Aristotele sugli schiavi in Politica 1, 2 (1225b): cfr. A. Schiavone, La storia
spezzata.cit., p. 144.
* La terminologia varroniana sugli schiavi (instrumentumvocale)sta nel trattato
De Re rusticaI, 17, 1; lo cito da Varrone, Opere(cur. A. Traglia), Torino 1974,
p. 634-635. La questione del mancato sviluppo tecnologico nen'antichità è ben
evidenziata in A. Schiavone, La storiaspezzata.cit., pp. 142-172.
* Nene Sententiaeattribuite al giurista Paolo (libro III, 5) si leggono diciotto
brevi paragrafi raccolti sotto il titolo: Ad Senatus ConsultumSilanianum(chi
avesse la curiosità li trova in S. Riccobono et al., Fontes luris Romani
Antejustiniani,Firenze 19682, II, pp. 361-362: da qui si è citato un passo). Per
ogni approfondimento su questo senatoconsulto, oltre a E.M. Shtaerman-M.K.
Trofimova, La schiavitùcit. pp. 211 ss., si rinvia ano specifico e documentato,
saggio di D. Dalla, Senatus Consultum Silanianum, Milano 1980. Sul
successivo Senatusconsultum
Neronianumdel 57 d.C. vd. Tacito, Annali, XIII,
32 e B.H. Warmington, Nerone(1969), tr. it. Roma-Bari 1973, pp. 52-53.
* Sul Senato romano come corte di giustizia, vd. in generale F. De Martini
Avonzo, La funzione giurisdizionaledel Senato romano,Milano 1957 (per la
competenza senatoriale anche contro gli schiavi, ibid.,p. 76).
* Sul senatore e grande giurista Caio Cassio Longino, discendente di Cassio,
uno degli uccisori di Giulio Cesare, vd. F. Schulz, Storiadella giurisprudenza
romana(1953), tr. it. Firenze 1968, pp. 187; 187; 214 ss.
* Sune modalità di svolgimento dei supplizi privati o pubblici destinati agli
schiavi vd. L. Bove, Due nuove iscrizionidi Pozzuolie di Cuma,«Rendiconti
Ace. Arch. Lett. e BB.AA. Napoli», 41 (1967), pp. 207 ss.; F. De Martino, I
"supplicia" de/l'iscrizione di Pozzuoli (1975), ora in Id., Diritto e Società
nell'anticaRoma,Roma 1979, pp. 496-500.
14
-·
* Sul concetto del "lavoro" presso gli antichi romani rinvio a R. Martini,
«Mercennarius». Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto
romano, Milano 1958 (la prima citazione di Cicerone è da pro dom. 33; la
seconda da de Off. 42, 150)
15
Lorenzo Cadeddu
I 207 anni del tricolore
Sul dizionario di Ferdinando Palazzi alla voce Bandiera si legge: "Drappo di
forma rettangolare, attaccato per uno dei lati più corti ad un'asta e che porta i
colori e per lo più lo stemma dello Stato, città, corporazione, ecc. a cui
appartiene".
Una definizione di questo genere se può soddisfare sotto il profilo lessicale
lascia i più insoddisfatti perché trascura l'aspetto più qualificante di qualsiasi
bandiera: quello simbolico.
Lo stesso dizionario Palazzi, per esemplificare il concetto di simbolo non trova
di meglio da dire che " ..la bandiera è simbolo della Patria".
Per quanto da poco più di due secoli soltanto, cioè dalle rivoluzioni francese ed
americana, gli uomini abbiano cessato di essere schiavi per divenire cittadini,
ciascun popolo vede nella bandiera il simbolo dell'unità e dell'indipendenza.
L'uso della bandiera come simbolo di potere personale o di una ristretta cerchia
di persone, tribù, clan, gens, casta, è antichissimo e molti scritti di autori classici
ci hanno lasciato testimonianze al riguardo.
Solo da qualche anno però, e grazie soprattutto alla tenacia del Presidente della
Repubblica, si è intrapreso uno studio sistematico e scientifico sull'origine e
sulla evoluzione della bandiera approfondendo l'argomento anche sotto
l'aspetto sociologico.
Proprio sotto quest'ultimo aspetto non può costituire sorpresa per nessuno
l'imprevista, convinta esibizione del tricolore come è recentemente accaduto in
occasione dei funerali dei nostri Caduti di Nassyria.
Probabilmente i milioni di cittadini che espongono il tricolore alle finestre non
ne conoscono la storia ma istintivamente sentono che la bandiera, in determinate
circostanze deve essere orgogliosamente mostrata perché è il più alto simbolo
dell'identità nazionale.
E' questo il valore aggiunto di un simbolismo proprio che è riuscito, anche se
faticosamente, ad aver giustizia del fatto che il tricolore pareva destinato a
sventolare durante una partita di calcio o nel caso la "Ferrati" avesse ottenuto
un nuovo successo.
Vediamo allora, brevemente, l'origine di questo simbolo, la bandiera in
generale, che risale a tempi antichissimi.
Sin dalle origini dell'uomo era fortemente sentita l'esigenza pratica di
manifestare o meglio di esibire in modo visibile il proprio potere.
L'uomo antico ritenne di farlo esibendo una propria insegna.
16
Ne spuntarono subito tantissime di colore e foggia più o meno elaborate e con
ciò si ottenne il duplice scopo di distinguersi ed innalzarsi rispetto alla massa e
nel contempo identificare le proprietà su cui si esercitava il diritto di "dominus".
Successivamente, con la nascita dei gruppi organizzati, altri uomini, vuoi per
vincoli di sangue, vuoi per riconosciuta sudditanza, si riunirono sotto le insegne
di un "dominus".
Da qui all'adozione di insegne in funzione militare il passo fu veramente breve.
Era facilmente intuibile, infatti, la necessità di disporre nella battaglia, che altro
non era che una volgare mischia, di un punto di riferimento sicuro e coincidente
con la posizione del "dominus" o di chi per lui conduceva il combattimento.
L'insegna, questo è facilmente intuibile, doveva essere ben visibile anche alle
lunghe distanze in modo da poter verificare per tempo se si era in presenza di
formazioni amiche o nemiche, nel qual caso vi sarebbe stato tutto il tempo
necessario per assumere un dispositivo più idoneo al combattimento.
Notizie sull'adozione di particolari insegne le troviamo persino su alcuni testi
sacri, anche antichissimi, in graffiti rinvenuti sulle pareti di alcune caverne, in
iscrizioni murali e persino tombali ed in affreschi.
Anche nella Bibbia ed in particolare in alcuni libri quali la "Genesi", il
"Deuteronomio", i "Numeri", troviamo accenni alle loro funzioni.
Ad esempio, sul libro dei ''Numeri" possiamo leggere che " ... i figli di Israele si
strinsero attorno al Tabernacolo, ciascuno sotto le insegne della propria tribù e
sotto i colori della propria casa ... ".
Dalla "Genesi" e dal "Deuteronomio" apprendiamo, invece, quali erano i colori
di quei vessilli e le figure che li caricavano: rosso con la mandragola per la tribù
di Ruben; verde con la città di Sachen per la tribù di Simeone; bianco, nero e
rosso con il pettorale sacerdotale per la tribù di Levi; azzurro con il leone
probabilmente rosso o violaceo per la tribù di Giuda; nero con l'asino per la
tribù di Issachar; bianco con una nave per la tribù di Zabuillan; color zaffiro con
un serpente per la tribù di Dan; grigio con una tenda per la tribù di Gad; rosa
con una cerva per la tribù di Neftali; color acquamarina con un olivo per la tribù
di Asher; nero con un simbolo egizio per la tribù di Efrain e, infine, un vessillo
multicolore con un lupo per la tribù di Beniamino.
Quasi sempre le insegne erano innalzate su un'asta e questa usanza è spiegabile
soprattutto con motivazioni pratiche.
Un'asta, infatti, può essere facilmente reperita, è maneggevole e, soprattutto,
può essere agitata per fare segnalazioni.
Ma non solo.
Secondo lo studioso americano Whitney Smith " .. .l'asta è simbolo di potere,
corrisponde alla mazza, alla spada e ad altre armi, come anche all'itifallo,
simbolo insieme della rigenerazione della razza e del predominio del maschio
sulla femmina ... ".
17
Per la sua forma, inoltre, l'asta esprime anelito verso il cielo degli uomini legati
alla terra.
Nell'esercito romano che regolarmente impiegò insegne, i "signa" erano le
raffigurazioni di animali o divinità mentre le "vexilla" erano realizzate in panno
colorato.
Secondo la tradizione la prima insegna data da Romolo ai suoi uomini fu una
manciata di paglia legata in cima ad una lancia.
Di qui sarebbe derivato il nome di "manipulus" dato a tutte le unità che
ricevevano questa manciata di paglia.
Secondo un'altra tradizione il simbolo sarebbe stato sin dalle origini una mano
aperta, che voleva indicare il gesto imperioso con cui i comandanti in genere
accompagnavano gli ordini ovvero intimavano al nemico di non avanzare.
L'elevato grado di organizzazione raggiunto dall'esercito romano trasformerà le
insegne in un qualcosa che si avvicina al concetto che noi abbiamo, oggi, della
bandiera, cioè darà all'insegna un aspetto sia formale che sacrale.
L'insegna delle legioni, infatti, era custodita dalla prima coorte che era la più
forte sia per il numero dei soldati che ne facevano parte, sia per il valore
espresso dai legionari in battaglia.
Questa insegna era costituita da un'aquila, simbolo di Giove, con le ali spiegate
e con un fulmine tra gli artigli.
L'asta dell'insegna era munita di un puntale per poter essere piantata a terra e
recava lungo il gambo i segni delle onorificenze di cui la legione era insignita e
alcune targhe sulle quali erano apposte la sigla S.P.Q.R., le iniziali o
l'immagine dell'imperatore che aveva istituito la legione e, infine, un quadrato
di panno di vario colore che distingueva le diverse legioni.
Questo panno si chiamava "vexillum" da cui l'odierna denominazione di
vessillo.
La cavalleria romana, inoltre, ebbe una propria insegna: un drappo quadrato, di
solito rosso con frange e attaccato ad una sbarra fissata orizzontalmente a guisa
di croce, in cima ad un'altra asta terminante a lancia.
In pratica, il classico stendardo di cavalleria, nato cioè dalla necessità di non
portare emblemi ingombranti e pesanti a cavallo.
Dal vessillo che li distingueva presero poi il nome di "vexillationes" i
distaccamenti di una legione, cioè le coorti.
Con la caduta dell'impero romano s'interruppe la tradizione dell'insegna quale
simbolo dello Stato.
Bisognerà attendere l'ascesa di Carlo Magno per ridare, alla cultura barbarica,
la tradizione romana e così le bandiere assursero a simbolo imperiale e feudale,
non ancora segno distintivo di una nazione ma pur sempre simbolo di poteri
organizzati.
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L'evoluzione fonnale che in Europa trasformò la vecchia insegna di legno e
metallo in bandiera di stoffa fu dovuta principalmente ai contatti con i popoli
orientali.
Sembra onnai definitivamente accertato che furono i cinesi i primi, utilizzando
le possibilità offerte dalla sericoltura ad introdurre due novità fondamentali:
l'attacco laterale del drappo all'asta e l'attribuzione del valore di simbolo ai
colori piuttosto che alla foggia dell'asta.
Dalla Cina le bandiere passarono nel vicino Oriente e gli arabi utilizzarono
bandiere policrome già ai tempi di Maometto.
I Franchi poi, le diffusero in Europa dopo averle apprese dagli arabi durante le
guerre del VII ed VIII secolo.
Il fiorire dei commerci dopo l'anno mille e, soprattutto, le crociate, diedero
grande impulso allo sviluppo delle bandiere in relazione alle crescenti necessità
militari e navali.
A questo proposito vale la pena ricordare come, alcuni storici, facciano risalire
la nascita e l'adozione di bandiere per le flotte.
Fu nel XII secolo che le navi presero ad innalzare sul pennone più alto bandiere
che indicavano il porto d'imbarco come risulta dai portolani dell'epoca.
Per esempio, in Italia, Genova innalzava l'insegna di San Giorgio, bianca con
una croce rossa, Amalfi una bandiera azzurra con una croce biforcuta bianca,
Venezia il vessillo rosso con il leone di San Marco e, infine, Pisa una bandiera
tutta rossa.
Gli eserciti europei che parteciparono alle crociate, per distinguersi adottarono
croci di diverso colore.
Nel 1188 Filippo Augusto di Francia, Enrico II d'Inghilterra e Filippo di
Fiandra decisero che le rispettive bandiere portassero la croce rossa in campo
bianco, la croce bianca in campo rosso e la croce verde in campo bianco.
Più tardi i Templari adottarono una croce rossa in campo bianco mentre le
truppe dell'imperatore Federico II dispiegarono un vessillo recante un'aquila
nera in campo giallo.
Concludendo, possiamo dire che fino al Settecento inoltrato la bandiera ebbe
due funzioni: rappresentare visivamente il potere legittimo e costituire un punto
di riferimento per le truppe in battaglia.
Per giungere alla prima bandiera nazionale bisognerà attendere il 1776 allorchè,
con la conclusione della rivoluzione americana si formò il primo nucleo dei
futuri Stati Uniti d'America e la bandiera che venne adottata in quella
circostanza fu la prima bandiera nazionale dell'era moderna.
Dopo qualche anno, in Europa, a seguito della rivoluzione in Francia, la bianca
bandiera borbonica venne sostituita con un tricolore patrocinato dal generale La
Fayette che propose i colori rosso e blu di Parigi uniti dal bianco dei Borboni.
Per entrare nel vivo del discorso è necessario partire proprio da questa data, dal
1792, anno della rivoluzione francese, allorchè ...
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.. .la Francia, dopo aver giustiziato Luigi XVI, si proponeva di esportare la
rivoluzione nel resto d'Europa.
Vittorio Amedeo III, sovrano del piccolo Regno di Sardegna e per di più
confinante con la ..turbolenta" Francia, sentendosi minacciato dalla scintilla
rivoluzionaria che ormai si era pericolosamente avvicinata alle regioni di Nizza
e Savoia, chiese ed ottenne un'alleanza con l'Austria.
L'imperatore d'Austria, è bene precisarlo, accettò di difendere i territori e le
popolazioni del Piemonte con il recondito intendimento, peraltro noto al Re di
Sardegna, di approfittare di qualsiasi circostanza per sottrargli i territori
confinanti con la regione ticinese.
L'alleanza, priva di reali e comuni interessi e soprattutto di interessi spirituali
non poteva, alla prova dei fatti, dare buoni risultati e ciò favorì un giovane
generale corso, astro nascente della nuova Francia rivoluzionaria: Napoleone
Bonaparte!
Il giovane generale affrontò l'esercito austro-sardo con particolare
determinazione.
Napoleone, siamo nel 1796, aggirate le Alpi, penetrò nei territori del Regno di
Sardegna attraverso il Colle di Cadibona piombando su Cairo Montenotte nei
pressi del quale si trovavano schierati gli eserciti dell'alleanza.
La manovra centrale, una delle più significative espressioni dell'arte militare
napoleonica, riuscì alla perfezione: i due eserciti vennero dapprima separati e
messi in condizione di non potersi dare reciproco sostegno e poi, isolatamente,
vennero battuti, a Cairo Montenotte gli austriaci e a Dego, Millesimo e
Mondovi i sardo-piemontesi.
A Vittorio Amedeo III non restò altro da fare che chiedere l'armistizio e per
Napoleone ebbe inizio una vera e propria marcia trionfale.
Il I O maggio, con una nuova e genialissima manovra tattica Napoleone battè,
ancora una volta, gli austriaci a Lodi costringendoli a ritirarsi all'interno della
fortezza di Mantova.
Padrone ormai di buona parte della Lombardia il generale corso s'impegnò con
tutte le forze a disposizione per sbloccare la situazione sul Mincio, occupare il
ducato di Modena, sottomettere gli stati estensi della Legazione di Ravenna e le
città di Faenza, Bergamo, Cremona e Brescia.
Ma Napoleone non si limitò a combattere le cosiddette "guerre guerreggiate",
parallelamente all'azione militare favorì la nascita dei primi governi locali
liberi.
Quasi tutti, però, ebbero breve vita giacchè contestualmente alla liberazione
della Lombardia tutte le comunità liberate chiesero ed ottennero di entrare a far
parte della neonata Repubblica Transpadana.
Analogamente, nelle Romagne, con la liberazione di Modena, Reggio, Ferrara e
Bologna venne costituita la Repubblica Cispadana.
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Il 17 vendemmajo dell'anno V della Repubblica francese e cioè I'8 ottobre
1796, così Napoleone scriveva ad un suo delegato in seno alla neo costituita
Repubblica Cispadana: " ... bisognerebbe a mio avviso riunire a Bologna o a
Modena un congresso di deputati degli stati di Ferrara, Bologna, Modena e
Reggio. Essi dovrebbero essere nominati dai vari governi in numero tale da
procurare all'assemblea un centinaio di interventi. Voi potreste fame la
distribuzione in proporzione degli abitanti, favorendo un po' Reggio.
Occorrerebbe includervi nobili, preti, cardinali, commercianti, uomini di ogni
classe, generalmente stimati e patrioti. Nel congresso si tratterebbe
dell'organizzazione di una Legione e si costituirebbe una specie di federazione
per la difesa comune. Poi si potrebbero inviare diversi deputati a Parigi per
domandare la libertà e l'indipendenza. Questo congresso non dovrebbe essere
convocato da noi, ma soltanto per mezzo di lettere private. Ciò produrrebbe un
grande effetto e sarebbe motivo di allarme e di diffidenza per le potenze
d'Europa. E' indispensabile non trascurare alcun mezzo per rispondere al
fanatismo di Roma, per procurarci degli amici e per assicurarci le spalle e i
fianchi! Io desidererei che tale congresso si tenesse il 23 del corrente mese ... ".
Tutto, ovviamente, andò come suggerito da Napoleone ...
Il 16 ottobre a Modena, 22 deputati di quella città, 36 delegati di Bologna, 30 di
Ferrara e 21 di Reggio Emilia si riunirono per deliberare e di ciò fu data notizia
a tutti i cittadini delle province interessate a mezzo di messaggio.
L'assemblea, dopo aver approvato la costituzione di una guardia civica forte di
cinque compagnie di cacciatori a cavallo e due divisioni cioè due batterie
d'artiglieria, stabilì di convocare una nuova assemblea per il successivo
novembre con all'ordine del giorno la costituzione di un nuovo stato.
In Lombardia intanto per volontà del governatorato del ducato di Milano si era
costituita una Legione detta appunto Lombarda e lo stesso Napoleone 1'11
ottobre, informando di ciò il "Direttorio", così scriveva: " .. .Lègion Lombarde.
Les couleurs nationalesqu 'ils ont adoptès sont le vert, le blanc et le rouge... ".
In quel periodo tanto nell'arte quanto nella retorica imperava il classicismo e
dunque anche nel campo militare si applicò questa moda e cosi il reggimento
divenne "legione", il battaglione "coorte" e le compagnie "centurie" perché
formate da cento elementi.
La coorte, secondo un progetto elaborato dall'Amministratore Generale della
Lombardia, avrebbe avuto un suo stendardo riproducente il "tricolorato"
nazionale lombardo distinto per numero ed ornato dagli emblemi della libertà.
Infatti, il 6 novembre 1796, nel corso di una solenne cerimonia svolta alle ore
17.00 sulla Piazza del Duomo, la prima delle sei "coorti" della Legione
lombarda ricevette la sua bandiera.
Comandava la Legione il milanese di famiglia spagnola Giuseppe De La Hoz
Ortis.
Nei giorni seguenti anche le altre cinque "coorti" ricevettero il loro tricolore.
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Queste bandiere non erano tutte di identica fattura ma si differenziavano in
piccoli particolari.
La bandiera che ricevette la prima delle sei "coorti" e che è quella più
rappresentativa, aveva il drappo in seta, alto 132 centimetri costituito da tre teli
larghi 50 centimetri di cui quello verde all'asta, quello bianco al centro e quello
rosso al battente.
Sul lato dritto del drappo, in alto al centro era cucito un nastro bifido
svolazzante di color giallo recante la scritta in argento "subordinazione alle
leggi militari". Nel centro del drappo era cucito un berretto frigio di colore rosso
rivolto verso il battente orlato in basso da una striscia bianca, rossa e verde.
Sotto il berretto la scritta in argento "Legione lombarda coorte n.1".
Più sotto la squadra con il pendolo, simbolo massonico, riprodotti nei loro
colori naturali. Una corona di foglie di quercia racchiudeva il tutto.
Sul lato rovescio del drappo il nastro svolazzante giallo recava in lettere
d'argento la scritta "Euguaglianza o morte" mentre sotto il consueto berretto
frigio, sempre rivolto al battente e sempre con la base tricolore, la squadra con il
pendolo fiancheggiata dai pugnali di Bruto e Cassio che hanno i manici
tricolori.
Anche sul rovescio il tutto era racchiuso tra fronde di quercia.
Tornando alle Romagne, il nuovo Congresso si riunì a Reggio dal 27 dicembre
1796 al 9 gennaio 1797.
Parteciparono all'assemblea 102 delegati: 36 di Bologna, 24 di Ferrara, 22 di
Modena e 20 di Reggio oltre alla deputazione lombarda che era guidata
dall'avvocato Sommariva e dal conte Gaetano Porro.
Durante la seduta del 30 dicembre il Congresso votò l'invio di un appello a
Napoleone, appello che fu affidato al generale Marmont e nel quale
l'Assemblea si rivolgeva al Bonaparte chiamandolo "padre" e "protettore dei
popoli".
La risposta di Napoleone non si fece attendere.
Il 1° gennaio 1797 cosi, tra l'altro rispose: " ... ho appreso col più vivo interesse
che le Repubbliche Cispadane s'erano riunite in una sola e che, prendendo come
emblema un turcasso, s'erano convinte che la loro forza sta nell'unione e
nell'indivisibilità. La miseranda Italia è da molto tempo cancellata dal novero
delle potenze europee. Se gli italiani di oggi sono degni di recuperare i loro
diritti e di darsi un governo libero si vedrà un giorno la loro patria figurare
gloriosamente fra gli stati del mondo; ma non dimenticate che le leggi a nulla
valgono senza la forza ... ".
Il 7 gennaio 1797, alle ore 11.00, si apriva a Reggio Emilia la XIV sessione dei
lavori, presenti 100 dei 102 delegati.
All'ordine del giorno erano segnate alcune proposte attuative della nuova
confederazione e tra queste la proposta di tale Giuseppe Compagnoni, delegato
di Lugo di Romagna.
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Sentite come è riportata la proposta del Compagnoni nel verbale della seduta:
" ... sempre Compagnoni (che evidentemente aveva già preso la parola) ... fa
pure mozione che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre
colori, verde, bianco e rosso e che questi si usino anche nella coccarda
cispadana la quale debba essere portata da tutti. Viene decretato ... ".
Questa dunque la nascita ufficiale del nostro tricolore.
Qualcuno potrebbe obiettare che in realtà il primo tricolore apparve a Milano
quel 6 novembre 1796 e venne dato alla prima "coorte" della Legione lombarda.
E' vero, tuttavia va rilevato che la bandiera venne data ad una unità militare in
assenza di una entità nazionale costituita cioè esisteva sì una Legione lombarda
ma non esisteva lo stato di cui sarebbe dovuta essere emanazione.
Nell'adozione del tricolore a Reggio Emilia, siamo invece in presenza di una
proclamata Repubblica Cispadana.
Il biennio 1796-1797 fu dunque importante per l'Italia, sia sotto il profilo
storico-politico sia per la nascita di quella coscienza nazionale che consentirà di
realizzare i primi passi per l'unità politica e geografica degli italiani.
Se Bonaparte pur traendone un vantaggio personale accelerò il risveglio delle
coscienze degli italiani è anche vero che gli italiani seppero ripagare Bonaparte
con altrettanta riconoscenza.
Erano italici i soldati che nel 1809 batterono gli austriaci sulla Raab ed a
Wagram e italici erano quei fratelli Lechi , Zucchi e Pino i cui nomi sono
ricordati sull'Arc de Triomphe.
Italici erano i soldati che aprirono un varco ai resti della Grande Armata a
Malojaroslavetz e italica era la scorta a cavallo dello stesso Napoleone che
durante il ripiegamento a Ocniana venne colta dalla morte per congelamento
mentre cavalcava a fianco del generale.
Toscani erano i fanti del 28° reggimento e piemontesi quelli del 111°
reggimento a Borodino mentre lombardi erano i soldati dell'84° reggimento che
salvarono la vita al viceré Eugenio.
Potremmo continuare ancora per molto.
Gli italici al seguito di Napoleone saranno gli stessi che nell'Armata sardopiemontese conclusero felicemente il nostro Risorgimento.
Il sacrificio di questi uomini fu cemento per lo sviluppo dell'idea nazionale e
presupposto indispensabile per giungere all'epopea del risorgimento.
E questa essenza la troviamo tutta in una lettera che il generale Teodoro Lechi
indirizzò nel 1848 al Re Carlo Alberto accompagnandola con gli stendardi che
Napoleone gli aveva affidato a Parigi, prima della battaglia di Austerlitz e che,
dopo aver sventolato su tutti i campi di battaglia, aveva gelosamente custodito.
Diceva la lettera: "Sire, questi simboli della fedeltà militare italiana affidò il
grande Napoleone Imperatore e Re, di propria mano, nel settembre 1805 alla
custodia dei Granatieri della Reale sua Guardia che avevo l'onore di comandare.
Nel riceverli dalle sue mani in quella solenne cerimonia feci giuramento e meco
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i miei valorosi di difenderli dal nemico e di non abbandonarli giammai.
Uscirono queste aquile trionfanti dalle battaglie di Ulma, Austerlitz, Raab,
Wagram, Moscowa, Malo-Jaroslavetz e da altri cento combattimenti. Ardua fu
l'impresa di salvare queste onorate insegne nella fatale ritirata di Mosca e, più
difficile, il sottrarli alla cupidigia austriaca. La storia contemporanea registrò il
magnanimo tratto dei miei Granatieri che abbruciarono le aste di queste aquile e
i panneggiamenti che le ornavano, se ne divisero le ceneri nelle zuppe e le
ingoiarono, mentre io sostituendo quelle simulate alle vere, serbai queste che
ora depongo incolumi ai piedi di Vostra Maestà quale monumento istorico di
gloria patria degno di un posto nel Suo real museo. Sire, io intendo
accompagnare l'umile mia offerta da un secondo giuramento di fedeltà alla
Sacra Vostra Persona, come ultimo atto della mia vita logora da tante campagne
e travagliata da svariate dolorose vicende ... ".
Qui si possono concludere le vicende connesse alla nascita del nostro tricolore e
a nessuno può essere sfuggito quale intimo travaglio abbia accompagnato questa
nascita.
Per gli amanti delle curiosità aggiungerò che cinque delle sei bandiere affidate
alle "coorti" della legione lombarda sono ancora oggi custodite nell'Hures
Museum di Vienna mentre la sesta si trova insieme ai vessilli napoleonici
presso il Musèe de l 'Armèe ali' Hotel des Invalides a Parigi.
Nel Museo del Risorgimento di Milano è invece custodita la bandiera della
compagnia "cacciatori a cavallo" della Legione.
Ma a Vittorio Veneto, quando comparve il primo tricolore?
Precisiamo subito che allora Vittorio Veneto non esisteva ancora o meglio
esistevano i comuni di Ceneda e di Serravalle.
Dobbiamo tornare un po' indietro nel tempo, al 1848, alla vigilia della prima
guerra d'indipendenza.
In quel periodo in Italia, intesa come stivale, successe di tutto e qualcosa
successe anche fuori d'Italia.
In Sicilia scoppiò la rivoluzione e a Palermo si chiese a gran voce la
Costituzione. Ferdinando II fece alcune concessioni ma non bastarono e i
borbonici furono costretti ad abbandonare Palermo asserragliandosi a Messina.
La rivoluzione si estese prima al Salento, a Napoli iniziarono agitazioni e
Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione.
I diversi stati italici erano tutti in fermento. Carlo Alberto, Sovrano del Regno
sardo-piemontese concesse lo Statuto e si formò il primo governo costituzionale
che varò subito una nuova legge elettorale e concesse l'amnistia. Anche in
Toscana iniziarono le agitazioni e Leopoldo II concesse la Costituzione. Anche
Pio IX, ultimo papa del potere temporale della chiesa concesse la Costituzione.
Milano, sotto l'Austria iniziò a manifestare. Fuori d'Italia a Vienna gli studenti
costrinsero l'imperatore a licenziare Metternich e ad abolire la censura. A
Venezia Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, arrestati dalla gendarmeria
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austriaca, vennero rimessi m libertà grazie alle manifestazioni popolari anti
austriache. A Milano scoppiò la rivolta che si manifestò nelle note cinque
giornate di Milano, gli austriaci abbandonarono la città e il generale Radetzky si
rinchiuse con i suoi uomini nelle fortezze del quadrilatero.
Questo è il quadro nel quale s'innestano le vicende che ci interessano più da
vicino.
Per tutto quanto detto è evidente che il tricolore assegnato alle formazioni
militari assume particolare valenza.
Pensate, quando gli stessi soldati prestano giuramento di fedeltà alla
Repubblica, il primo testimone di questo nobile atto è proprio la bandiera, muta
interprete della nostra storia, dei nostri Caduti, delle nostre famiglie e, per dirla
tutta, rappresentante di tutti i 56 o 60 milioni di italiani quali siamo.
Per tradizione la bandiera è affidata al sottotenente più anziano ovvero al
tenente più giovane che assume la qualifica di "alfiere".
In occasione della benedizione della bandiera, cosa che accade al momento
della consegna di questo simbolo ad una unità che ne è sprovvista, il
Comandante dell'Unità, nell'affidarla ali' Alfiere, dopo che l'intero reggimento
gli ha giurato fedeltà, pronuncia questa breve ma significativa frase: "Questo
simbolo dell'onor militare è a lei affidato nella certezza che ella lo custodirà
anche a rischio della sua stessa vita".
Per quanto la cosa possa apparire piuttosto strana, la parte più significativa di
una bandiera, che è costituita da un puntale, un'asta, un drappo, una fascia e un
cordone, è il puntale.
L'asta è in legno rivestito di velluto verde e in cima reca la freccia in ottone
dorato, è lunga 35 centimetri e sulla quale sono incisi: il nominativo del
reggimento, l'anno di concessione al reggimento della bandiera, tutti i
provvedimenti ordinativi che hanno interessato il reparto, i fatti d'arme a cui
prese parte, tutte le ricompense al valore concesse al reparto e tutte le
onorificenze stabilite con speciali decreti dal Ministro della Difesa.
Il drappo, cioè il tricolore vero e proprio, è in seta naturale e di forma quadrata
di 99 centimetri per lato.
La fascia o cravatta è anch'essa in seta naturale color azzurro turchino.
Non deve meravigliare che le bandiere dell'Italia repubblicana abbiano
conservato le cravatte color azzurro dei Savoia.
La volle nelle bandiere il Re Carlo Alberto ed ancor oggi la cravatta mantiene
quel colore non solo per indicare una continuità tra l'esercito risorgimentale e
l'odierno ma perché nell'araldica militare l'azzurro rappresenta "il valore" ..
Infine, il cordone
Ha scritto Emilio Zanette nel suo "A Vittorio Veneto nel 1848: " ..la giornata del
19 [marzo 1848 N.d.A.] è domenica e tale circostanza dà maggiore imponenza
alle manifestazioni, una tra le quali veramente eccezionale: compare il primo
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vessillo tricolore!. .. E' la cittadinanza che lo ha fatto approntare e il Vescovo
accogliendo il primo dei tanti inviti lo benedice pubblicamente ... ".
Il giorno successivo, accolta da una folla immensa, la bandiera venne esposta
prima nella cattedrale poi nel balcone del Municipio [l'attuale Museo della
Battaglia N .d.A.].
A questa se si può chiamare cerimonia parteciparono autorità e numerosi
cittadini della vicina cittadina di Serravalle e nel pomeriggio la cerimonia venne
ripetuta a Serravalle con partecipazione di autorità e popolo di Ceneda.
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Loredana Imperio
LA DONNA NEL MEDIOEVO
Lontano nei secoli intravediamo la figura della Dea, la Grande Madre con le sue
figlie e un sistema di governo, il matriarcato,ove domina la donna
Dai poemi omerici e dalle leggende greche apprendiamo dell'arrivo di popoli
guerrieri apportatori del culto maschile di Zeus che implica la perdita di potere,
nella società arcaica, delle regine Sacerdotesse. Nell'uccisione dei re e principi
di ritorno dalla guerra di Troia si nasconde, in realtà, la congiura delle regine
che speravano in tal modo di spezzare la schiavitù femminile instaurata dagli
Achei.
Peggiore era la condizione della donna nel mondo romano ove essa passava
dalla proprietà del padre a quella dello sposo.
È solo alle soglie dell'Alto medioevo, e per volere di una donna, che la
condizione femminile subisce importanti mutamenti.
È l'imperatrice di Bisanzio, Teodora, moglie e coadiutrice di Giustiniano negli
affari di stato, a far inserire nella grande ordinanza del 535 d. C. le norme della
Novella 118 che affianca il Corpusluris e tutela le donne. Con essa:
as'as'scompare il diritto di vita e di morte del capofamiglia su moglie e figli;
as'as'viene eliminato il concetto di tutela delle donne, mentre rimane quello dei
minori sotto il controllo dello Stato;
as'as'le femmine vengono equiparate ai fratelli nel diritto ereditario;
as'as'la moglie divorziata acquista il diritto di tenersi la dote e i doni nuziali,
nonché quello di allevare i figli presso di sé a spese del marito;
as'as'la donna può disporre liberamente delle proprietà indipendenti dalla dote e
che le appartengono per donazione, eredità e altro quali gioielli, abiti, beni
mobili e immobili;
as'as'la donna può comprare e vendere, dare e prendere a prestito.
Con le invasioni barbariche si espande anche nei paesi del Mediterraneo
l'influsso delle leggi germaniche e con l'impero carolingio si ha la
partecipazione della donna alla vita pubblica, a tutte le attività e a tutti i livelli
sociali.
Nel 576 Venanzio Fortunato di Ceneda, vescovo di Poitiers, rivolgeva questi
versi alla regina Radegonda:
Dove si nascondela mia luce lontanodai miei occhi erranti
Senza lasciarsiprendere dal mio sguardo?
Esaminoogni cosa: aria,fiumi, terra;
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Poichénon vedo te, tutto ciò mi sembrapoco.
Il cielopuò esseresereno,le nuvolelontane,
Per me, se manchitu, il giornoè senza sole.
Tra il giovane poeta e la regina, che aveva 50 anni e si era fatta monaca nel
monastero di Sainte-Croix, si era stabilita una vera intimitàd 'anime,una specie
di unione mistica, un fervore amoroso in piena purezza, primo abbozzo di
quello che sarà nella poesia cortese medievale l'ideale della donna.
Su richiesta della regina Venanzio Fortunato comporrà i due inni Pange lingua
gloriosae VexillaRegisprodeuntche fanno ancora parte della liturgia cattolica.
Assistiamo in questo periodo al passaggio dalla condizione di donna oggetto e
senza importanza del diritto romano, alla rivalutazione della figura femminile,
grazie alla chiesa, che sfocerà nel suo essere presente in tutti gli strati della
società medievale.
Nell'841 viene stilato, in Francia, il primo trattato di pedagogia per
l'educazione dei figli: l'autore è Dhuoda, una nobildonna parente di
Carlomagno. Essa scriveva in un latino colto, con frequenti riferimenti alla
Bibbia e si dimostrava profonda conoscitrice delle dotte opere di Sant' Agostino,
di Gregorio Magno, di Alcuino di York, di Rabano Mauro e del poeta
Prudenzio. Dhuoda non era solo colta, bensi anche una donna energica,
impegnata ad amministrare, dirigere e difendere il feudo, poiché il marito
viveva quasi sempre a corte. Il suo trattato dal titolo "Manuale per la
formazione di miofiglio", è un vademecum, un ricco concentrato di consigli,
esortazioni, prescrizioni imbevuti dell'amore di una madre lontana a cui è stato
sottratto, per volere del marito, il figlio. Quest'ultimo cresciuto a corte divenne
uno scavezzacollo, mentre il nipote Guglielmo il Pio fondò, nel 910, l'abbazia
di Cluny, faro di civiltà e di cultura per tutto l'Occidente.
Tra il 950 e il 1O15 troviamo due grandi figure femminili: Adelaide di
Borgogna e Matilde di Canossa.
La prima, regina d'Italia e consors regni condivise la corona con il marito
Lotario e rimasta vedova sposò Ottone I diventando imperatrice del sacro
Romano Impero. Fu lei a portare la corona di sovrano d'Italia al re gennanico,
secondo la consuetudine del diritto delle regine longobarde. Alla morte del
marito essa fu consigliera del figlio e, in seguito, tutrice del nipote Ottone III.
La seconda, MATI~
DI CANOSSA, conosciuta anche come la Grancontessa,
(1046-1115) nacque nel castello di Canossa da Bonifacio, marchese di Toscana,
e dalla contessa Beatrice di Lorena Ucciso in un agguato il padre, nel 1052, e
morti un anno dopo in maniera misteriosa i fratelli Federico e Beatrice, Matilde
rimase l'unica erede del più potente dei feudi italiani. La sua autorità si
estendeva su un immenso territorio comprendente i comitati di Brescia,
Bergamo, Mantova e, nell'Italia centrale, quelli di Arezzo, Siena e Cometo.
Aveva anche copiosi beni in Lorena.
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Rimasta sola con la madre, Matilde si dimostrò subito bravissima nello studio,
devota e, cosa alquanto rara, manifestò inclinazione e destrezza negli esercizi
della guerra, nel galoppo e nel maneggio delle armi.
È solo dopo la morte del padre che Matilde conoscerà Ildebrando di Soana,
futuro papa Gregorio VII, che per la sicurezza delle due donne proporrà a
Beatrice nuove nozze con Goffredo il Barbuto, duca di Lorena e il fidanzamento
di Matilde con Goffredo il Gobbo, figlio di prime nozze del Barbuto.
L'imperatore Enrico III, irritato dal matrimonio di Beatrice, fece prigioniere le
due donne e le condusse in Germania approfittando del fatto che Goffredo si
trovava nei suoi feudi lorenesi e non poteva combattere contro l'imperatore.
Matilde strinse amicizia con il cugino Enrico, figlio dell'Imperatore. Alla morte
di Enrico III, l'imperatrice Agnese le liberò ed esse ritornarono in Italia.
Qui Matilde cominciò ad affiancare la madre nell'azione di governo e
soprattutto nella sua opera di sostegno della Chiesa e del Papato. Nel 1063,
appena diciassettenne, la giovane contessa, fasciata da un usbergo argenteo,
guidò le sue schiere in soccorso di Roma e del papato. La morte improvvisa di
Goffredo il Barbuto costrinse Matilde a sposare suo figlio, sebbene ne provasse
repulsione poiché egli era gobbo, piccolo e slavato. Il matrimonio si trascinò
stancamente e dopo la nascita e la morte prematura di un figlio, la sposa decise
di troncare quel legame odioso riprendendo la strada di casa.
Vari furono i tentativi di Goffredo per riavere la bellissima moglie con sé, egli
andò perfino a Canossa per riprenderla, ma Matilde non ne volle sapere. Da
allora il Signore di Lorena divenne nemico del papa e di Matilde tanto da
combattere contro di loro a fianco dell'Imperatore.
Sin dalla salita al soglio pontificio era iniziato, tra il papa Gregorio VII e
l'imperatore Enrico IV, un braccio di ferro in merito alle investiture
ecclesiastiche. Il pontefice sosteneva che le nomine spettassero a lui, mentre
l'Imperatore pretendeva che fosse un suo diritto.
Matilde e la madre Beatrice si fecero mediatrici tra il papa e l'imperatore. È
nota l'opera di intercessione di Matilde in favore del cugino Enrico IV e di
come, in seguito, egli si sia dimostrato irriconoscente nei suoi riguardi.
Morta la madre, Matilde ereditò non solo il vasto territorio canossiano ma anche
il titolo di generale della Chiesa, funzione che essa esercitò realmente guidando
gli eserciti pontifici contro quelli imperiali. E quando i suoi feudatari, comprati
dall'oro e dagli onori di Enrico IV, la abbandonarono, la contessa tenne in
scacco e sconfisse le forze imperiali con bande di contadini e montanari a lei
fedeli che attuavano fulminee azioni di guerriglia contro il nemico.
Per aiutare il papa essa non esitò a fondere i suoi gioielli, i vasi sacri e gli ori
non solo delle chiese dei suoi castelli, bensi anche di quelle dei suoi territori,
dimostrando così una forza e una determinazione estrema.
La signora di Canossa non era solo un guerriero formidabile, ma allenata da
anni di lotta durissima, divenne una stratega imbattibile la cui tattica
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disorientava e metteva in difficoltà il cugino. Tra l'altro essa aveva creato un
servizio di spionaggio efficientissimo che la teneva informata, minuto per
minuto, di ogni minimo spostamento o azione del nemico.
La Grancontessa, come fu chiamata in segno di ossequio dalle persone del suo
tempo, fu anche abile amministratrice dei suoi possessi. La necessità di
controllare un vasto territorio, amministrare la giustizia, costruire chiese,
monasteri, castelli nonché rispettare le esigenze della guerra, fecero sì che essa
passasse gran parte della sua vita a cavallo, valicando gli Appennini in tutte le
stagioni.
Fu donna bellissima, a detta dei cronisti del tempo, dai lunghi capelli biondo
rossiccio e dai bianchissimi denti, come attestato anche dalla ricognizione della
salma effettuata, nel 1632, per ordine di Urbano VIII. Benché profondamente
religiosa essa amava i vestiti eleganti con bei ricami e volle essere sepolta
indossando un sontuoso abito rosso con strascico e un mantello verde bordato
d'argento, ricamato a piccoli fiori. Era amante della buona tavola e degli allegri
conviti. Enrico V, figlio dell'imperatore, che tanto le era stato avverso, la
nominò viceregina del regno d'Italia e la tenne in grande considerazione tanto
da chiamarla madre. Nella sua vita Matilde presenziò ai sinodi vescovili e ai
Concili papali.
Il 24 luglio del 1115, questa donna eccezionale cessava di esistere. Aveva 69
anni. La Chiesa le tributò onori tardivi facendo traslare il suo corpo in San
Pietro, unica donna, in una splendida tomba scolpita dal Bernini. Ma maggior
onore le tributò il monaco Donizone scrivendo di lei queste parole:
"Finché ella vive, il villano può tranquillamente por mano all'aratro, domare e
pascere i tori, chiedere i frutti alla terra; il viaggiatore può con sicurezza
mettersi in cammino e il navigatore non ha da temere i pirati del Po".
La pace di Matilde, descritta cosi bene in questa breve frase, finì con lei e
nessun uomo del suo tempo governò i suoi sudditi con l'amore e la dedizione da
lei dimostrati. Il prezzo di tanta grandiosità fu la solitudine, una vita senza
amore, e senza figli.
Dal 1000 al 1348, la presenza della donna nella società medievale è rilevante.
Le cronache ci illustrano le figure di regine, feudatarie e grandi personaggi ma i
documenti della vita quotidiana, come i contratti, i testamenti, il pagamento
delle tasse e l'amministrazione della giustizia ci mostrano l'universo femminile
in tutte le sue sfaccettature.
Chi non conosce la figura di Eleonora d'Aquitania, prima moglie del re di
Francia e poi, dopo il divorzio da questi, del re d'Inghilterra? Ma molti forse
ignorano che la regina Eleonora partorì 8 figli, fu protettrice di poeti e trovatori
e, quando il marito la tradì con la bella Rosamunda, lei guidò le armate della sua
terra, l'Aquitania, contro i possessi inglesi. Dopo la morte del marito fu lei a
stilare il primo codice di diritto marittimo per l'Europa del Nord e a compiere
un lunghissimo viaggio per raccogliere l'esorbitante riscatto chiesto
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dall'imperatore Enrico VI, figlio del Barbarossa, per liberare suo figlio Riccardo
Cuor di Leone dalla prigionia.
Bianca di Castiglia, regina di Francia e madre di San Luigi, fu reggente del
regno durante l'assenza del figlio partito per la Crociata e non esitò ad indossare
l'armatura e condurre l'esercito regio contro i baroni francesi che si erano
ribellati.
Le donne nobili, eredi del feudo, ricevevano l'investitura feudale come i
maschi. Molte di esse, regine, duchesse o detentrici di feudi erano donne colte e
tennero nei loro castelli corti intellettuali nelle quali furono mecenati di poeti e
trovatori.
In ambito letterario, e riferendosi al XII secolo, si cita quasi sempre Chrétien de
Troyes e i suoi Romanzi cortesi che illustrano le storie di re Artù e dei suoi
cavalieri e solo raramente sono ricordati i Lais, le Fables e l'Espurgatoire, tutte
opere di Maria di Francia. Maria, nata in Francia, è contemporanea di Chrétien,
ma mentre lui scriveva alla corte di Champagne, essa frequentava e operava
all'interno della cerchia letteraria presente alla corte di Enrico II re
d'Inghilterra, al quale i Lais sono dedicati.
Lai (laid in antico irlandese) è parola di origine celtica e in origine non
designava un racconto, bensì una melodia, una canzone. È probabile che i Lais
di Maria di Francia fossero, in origine, dei racconti con sottofondo musicale o
accompagnamento. Essi detengono, nel panorama della Francia medievale, tre
primati:
- prima opera firmata da una donna;
- prima opera breve e non romanzo;
- uno dei primi testi in volgare e non in latino.
Maria rielaborava, in modo diverso da Chrétien de Troyes, la materia di
Bretagna e attingeva a piene mani alla simbologia classica greca, romana e a
quella cristiana per sfociare, infine, nel mondo fiabesco-meraviglioso proprio
delle saghe celtiche. I racconti sono probabilmente databili tra il 1160 e il 1170
ed ebbero grande successo, secondo la testimonianza di uno scrittore coevo,
Denis Piramus (fine del XII secolo) che commentava così il successo di "dame
Maria": "I Lais piacciono di solito alle dame: li ascoltano con gioia e
volentieri, perché sono conformi ai loro desideri". Vista la predilezione delle
donne per quest'opera, come sostiene Piramus, se ne deduce che esse avessero
una grande cultura poiché i racconti di Maria di Francia sono tutto meno che
semplici e popolari.
In genere, nel medioevo, si andava a scuola tra i 7 e gli 8 anni, spesso nei
monasteri, gratis per i poveri ( esistevano donazioni per l'istruzione dei meno
abbienti), a pagamento per i ricchi. Certe scuole femminili avevano programmi
molto impegnativi.
Nell'Abbazia di Argenteuil, dove fu educata Eloisa (la donna amata da
Abelardo), si insegnava alle fanciulle le Sacre Scritture, le lettere, la medicina,
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la chirurgia, il greco e l'ebraico. Esistono i manoscritti che trattano di medicina
e regole di pulizia per le donne e due trattati di ginecologia. Spesso si attribuisce
al Medioevo la sporcizia imperante nel Cinquecento - Seicento, mentre noi
sappiamo che i bagni erano abituali sia a casa che nelle stanze termali
pubbliche. Nei contratti di nozze viene spesso elencata la tinozza di legno per
fare il bagno con un grosso panno imbottito da posare sul fondo per non
graffiarsi sul legno. A Parigi, nel 1292, vi erano ben 26 bagni pubblici, chiusi
solo la domenica e i giorni festivi, il bagno di vapore costava 2 denari, mentre 4
era il prezzo di quello in acqua tiepida. Dai trattati giunti sino a noi possiamo
leggere che si consigliava alle donne di lavarsi ogni mattina mani, braccia, viso
e tenere curate le unghie e i denti, lavarsi spesso i capelli ed essere ben
pettinate.
In genere le scuole più semplici fornivano nozioni di grammatica, aritmetica,
geometria, musica e teologia., cioè le basi per poi poter accedere alle università.
Solo agli inizi del XV secolo, con il prevalere nelle università
dell'insegnamento del diritto romano, si vietò alle donne l'accesso alle
università.
Dalla cronaca di Giovanni Villani apprendiamo che nel 1300 a Firenze
andavano a scuola I bambino su 2, sia maschi che femmine.
Moltissime donne erano miniaturiste e copiste sia tra le monache che le laiche.
Infatti nel 1200 troviamo una certa Agnese copista nel convento di San Pietro a
Padova, una Eufrasia badessa a Firenze e un'altra Eufrasia a Perugia, tante
Marie copiste in vari monasteri italiani. Per poter svolgere queste attività era
indispensabile essere dotate di una profonda cultura e grande senso artistico.
Le donne governano (Bianca di Castiglia, Matilde, Eleonora di Aquitania)
guidano eserciti, combattono nelle crociate. Nella Crociata di San Luigi del
1247 combattè la nobildonna Bonne de Neuilles e con grande stupore dei
Saraceni essi trovarono tra i prigionieri cristiani alcune donne combattenti.
Queste donne al potere oltre ad essere belle, sono colte e il frate Ugo di Fleury
nel dedicare ad Adele, contessa di Blois, la sua opera Historia ecclesiastica
scriveva:
" ... non solo il sesso femminile non è privo dell'intelligenza delle cose profonde
ma nelle donne generalmente c'è anche una grande ingegnosità mentale e
un 'eleganza delle maniere assolutamente notevole".
Anche in un Ordine monastico-militare, come quello dei Templari con specifico
ruolo combattente, furono presenti e documentate le donne.
Un documento inglese del 1190 attesta che Jeanne, moglie di Richard de
Chaldefelde pronunciò i voti di castità, povertà, obbedienza e di rispetto della
regola del Tempio nelle mani di Azo, arcidiacono di Wiltshire. Questi la inviò
alla casa del Tempio con una lettera nella quale dichiarava la sua idoneità ad
esservi accolta. Nel 1267 Agnes Chatela fu accolta come suora nella precettoria
di Bras in Provenza. Nel 1297, Gilotte moglie di Robert d'Attichy diventò suora
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del Tempio nella casa dell'Ordine di Arras. Il termine "suora templare" è
chiarissimo nel testo.
Nel 1305, una certa Agnese pronunciò i voti dinanzi a fra' Simone da Osimo,
precettore del Tempio di Santa Maria in capite Brolio di Venezia; la cerimonia
ebbe luogo nel monastero di San Michele di Leme, diocesi di Parenzo (Istria),
prima Camaldolese e da poco donato dal vescovo di Parenzo ai templari perché
lo risollevassero dalla decadenza morale e materiale in cui era caduto Un altro
caso ci risulta dalla lettura del rendiconto stilato nel 1307, nella casa del
Tempio di Payns, dagli inviati di Filippo il Bello, Jean de Hulles e Thomas de
Savières, che dichiararono residente in detta casa una suora del Tempio con la
sua domestica e che essa aveva diritto a bere del vino durante i past~ come i
cavalieri. Gli ufficiali del re pensarono bene di darle, invece, dell'acqua!
Lo stesso fra' Ponsard de Gizy, precettore di Payns, dichiarò nel suo
interrogatorio a Parigi che "i maestriche accettavanofrati e suore nel Tempio
facevano loropromettereobbedienza,povertàe castità"
Il silenzio dei documenti non ci consente di sapere quali fossero i compiti
affidati alle sorelle templari. Forse si trattava di incarichi amministrativi, dato
che nel ceto nobile e in quello mercantile spesso le donne erano più colte degli
uomini (sappiamo con certezza che erano ben pochi i cavalieri che sapevano
leggere e scrivere). Oppure la presenza femminile poteva essere utile nella cura
e nell'accompagnamento dei pellegrini, soprattutto delle donne e dei bambini.
La donna era maggiorenne e poteva contrarre matrimonio a 12 anni, mentre il
maschio a 14. Gli sposi erano i celebranti, il sacerdote era un semplice
testimone e il benedicente della loro decisione di unirsi.
La cerimonia si svolgeva con le frasi pronunciate (di solito prima di entrare in
chiesa) da entrambi: "Tiprendo comemarito (moglie)" e con lo scambio degli
anelli. Poi si accedeva alla chiesa per assistere alla messa a completamento della
cerimonia ufficiale. Non occorreva il consenso del padre e solo nel 1600 la
donna assumerà il cognome del marito. Nel medioevo essa poteva prendere il
cognome che voleva: quello del padre, della madre, del marito, un soprannome,
o da una terra di sua proprietà In genere esse assumevano il cognome più
prestigioso.
La donna, una volta sposata:
restava proprietaria dei propri beni personali e della dote;
i beni non potevano essere in alcun modo toccati se non dalla titolare;
alla morte del marito se nobile la moglie ereditava un terzo del patrimonio,
se plebeo le spettava la metà;
non aveva bisogno di alcuna autorizzazione per agire a nome del marito in
caso di sua assenza o impedimento;
godeva di capacità giuridica nei tribunali, solo nel '500 diventa incapace e
nel '600 una pupattola, sottotutela anche sino a 30 anni, e col Codice
napoleonico è sotto tutela sino alla morte;
33
se il matrimonio finiva con la separazione o divorzio, che già esisteva,
recuperava tutti i suoi beni.
Il matrimonio era proibito con i consanguinei sino al 7° grado di parentela.
L'annullamento del matrimonio era previsto nei seguenti casi:
eccessiva giovinezza della sposa;
impotenza provata del marito;
poligamia;
mentre poteva avvenire il ripudio per i seguenti motivi:
- rapporti sessuali avuti, da parte della donna, prima del matrimonio;
consanguineità.
La violenza carnale non alterava i rapporti tra coniugi e i figli nati a seguito di
tale violenza, erano trattati come gli altri.
A Firenze l'adulterio della donna era punito con una multa che, se non pagata,
portava alla prigionia.
Sempre nella Firenze medievale, l'abbandono del tetto coniugale non era
punito e in Dante si legge che i mariti abbandonati facevano annunciare dal
banditore pubblico il loro desiderio che la sposa ribelle ritornasse a casa. Nel
caso di un marito che avesse dilapidato le sostanze della moglie, questa poteva
rivolgersi al giudice civile che imponeva un'ipoteca sui beni del marito affinché
la sposa potesse rientrare in possesso dei suoi beni.
Non era legalmente consentito ma, la larghezza di vedute dell'epoca, tollerava
anche il concubinaggio e alcuni comuni lo prevedevano nei loro statuti (a Lucca
nel 1308 si parla di concubinelecite).
I notai stendevano un contratto in cui erano definiti i diritti e doveri delle due
parti: Genova, a tale proposito, ostentava una larghezza di vedute che la rese
celebre.
Si trattava di una specie di matrimonio libero o di prova che non solo prevedeva
la possibilità di avere figli ma anche di poter ripetere l'esperienza in un arco di
tempo di 6 anni. Talvolta dopo essersi sposati in questo modo i due si
lasciavano in piena amicizia, insomma ciò che è appena moderno oggi, lo era di
fatto nel medioevo. Vi era anche una tutela delle prostitute che permetteva loro
di non essere cacciate di casa se non disturbavano gli inquilini, e cli1)oter
accedere ai bagni pubblici il lunedì.
Per quanto attiene alla sciocchezza dello jus primae noctis si trattava, in effetti,
di una indennità pecuniaria pagata dal padrone della serva (o del servo) della
gleba che lasciava il feudo per sposarsi in un altro. Lo jus era il diritto del
signore ad autorizzare il matrimonio dei propri servi e tutto si traduceva in una
cerimonia dai connotati simbolici, per esempio il feudatario posava la mano o il
ginocchio sul letto coniugale e poi lasciava la camera agli sposi. Non si può
certo escludere che qualche nobile abbia abusato delle sue serve, pratica
corrente nei secoli, ma non certo codificata nel medioevo e nella prima notte
delle nozze.
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La donna in quel periodo era:
- mercante;
- armatore di navi, in società con uomini non legati a lei da vincoli di
parentela, come risulta anche dai documenti della Crociata del 1247;
- pagava le tasse sul proprio reddito e non assieme al marito (registro dei
costruttori, calcinaie );
- borghese in possesso di diritti feudali (es. pedaggio del porto);
- libera di gestire fattorie, negozi, banchi di vendita ai mercati;
- libera di fare donazioni, vendere beni, effettuare transazioni senza
l'autorizzazione del marito;
- in condizione di entrare in un tribunale come querelante o testimone (donne
di tutti i ceti sociali),
e aveva una ampia possibilità di scelta nel decidere a quale attività dedicarsi.
Nel medioevo incontriamo donne:
- pettinatrici sia per uomo che per donna;
- poetesse, menestrelli e troviere che recitano e cantano di castello in castello;
- cerusico (salassi, fratture, cucitura di ferite, medicazioni in genere)
- medico (Luigi IX e la regina che parteciparono alla crociata avevano come
medico personale una donna la miresse Hersent);
- panettiere, mugnaia, merciaia, ostessa, sarta, bottonaia e ricamatrice, libraia,
rilegatrice, birraia e rigattiere.
L'arte dell'arazzo era vietata alle donne perché considerata nociva alla salute,
soprattutto se incinte.
Anche nella lavorazione dei metalli troviamo la presenza femminile: ci sono
elmiere, coltellinaie, maniscalchi, calderaie, fabbri ferrai, usberghiere e orafe.
Nei mestieri attinenti all'abbigliamento la tessitura e buona parte della
confezione sono praticate dagli uomini. Sono femminili i lavori di pregio come:
filatrice di seta, lavorante di tessuti di seta, tessitrice di copricapi di seta, coloro
che confezionavano reti d'oro e scarselle saracene, le filatrici d'oro e le
pavoniere che si occupavano delle penne di pavone per copricapo.
C'erano donne sagge che per ogni mestiere controllavano il lavoro e la qualità
della m~rce e avevano poteri giudiziari.
Erano presenti anche nei mestieri più esclusivi per gli uomini quali :
messaggere, banchiere e, non è una novità, come spie e agenti segreti.
Figura importante era la badessa.
Veniva chiamata Domina (Signora). Nei Racconti di Canterbury la troviamo
ritratta da Chaucher come LA !BADESSA IDICHAUCER. L'inglese Geoffrey
Chaucer (1340 - 1400) fu poeta, uomo di corte e diplomatico. Egli descrisse,
nei suoi "Racconti di Canterbury", una trentina di pellegrini, di ogni ceto,
durante il loro viaggio per raggiungere e pregare sulla tomba di San Tommaso
Becket a Canterbury.
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Nel prologo il poeta tratteggia la figura di madama Eglentyne, badessa di un
monastero della diocesi di Lincoln e ce ne dà un ritratto quanto mai completo e
veritiero.
La monaca presentataci da Chaucer è lontanissima dalle recluse e frustrate suore
di manzoniana memoria
"MadamaEglentynè', scrive il poeta, è "una superioradal sorrisopieno di
semplicitàe di verecondia,che canta con grazia il servizio Divino e parla
benissimo e con garbo il francese". Inoltre "a tavola essa era assai ben
educata,non c'era caso che le cadesseun bocconedi bocca,si portava il cibo
alla bocca così bene che mai una goccia di salsa le cadeva sul petto e ogni
volta che beveva un sorso, si asciugavacosì bene il labbro che sul bicchiere
non restavala più piccola macchiadi unto".
Leggendo queste frasi sembra quasi di imbattersi nei passi di un Galateo in voga
nei nostri anni '60, che richiamava un modo di comportarsi ben lontano certo
dalla rozzezza attribuita a donne e uomini medievali.
La nostra badessa aveva un modo di fare aggraziato ed elegante, era
aristocratica e degna di riguardo. Il suo animo era caritatevole e pietoso.
Chaucer ce ne descrive anche l'aspetto fisico: occhi grigi, naso diritto, bocca
molto piccola, morbida e rossa e una fronte spaziosa e molto bella. Vestiva con
grande eleganza, il soggolo drappeggiato con stile e un bel mantello sopra
l'abito. Attorno al braccio portava due rosari di piccoli coralli, alternati con
verdi perline, dai quali pendeva una spilla d'oro molto brillante.
Tutto in lei, dal modo di comportarsi al modo di vestire è lontanissimo dalle
descrizioni delle monache che ritroveremo nei documenti del Cinquecento e
soprattutto dopo il Concilio di Trento. La superiora descrittaci dal poeta inglese
è certamente una donna più libera e più importante di quanto non lo siano le
monache moderne. Essa dirigeva non solo il convento ma anche tutti i possessi
e le chiese da esso dipendenti; aveva sudditi sui quali esercitava diritto di vita e
di morte e, per amministrare e controllare le proprietà del convento, si spostava
a cavallo accompagnata da una suora e da un prete. Trattava con i mercanti,
soprattutto con quelli che venivano a comprare la lana dei numerosi greggi del
convento. Uno dei doveri di madama Eglentyne era quello di ricevere i visitatori
che, in genere, erano parecchi.
Al convento andava in visita la buona società della contea che si fermava a
pranzo e talvolta anche pernottava. Alcune dame, in genere quelle che avevano i
mariti in guerra, in ambascerie o in pellegrinaggio, potevano perfino alloggiare
in convento come ospiti paganti e vivere in loco per alcuni mesi e persino per
un anno intero.
Dal ritrovamento dei registri delle visite ai monasteri compiute dal vescovo di
Lincoln, nelle quali si trovano anche i rendiconti delle spese che madama
Eglentyne faceva nel suo convento, troviamo pagamenti per liquori di
Capodanno e dell'Epifania, per le feste di maggio, per il pane e la birra
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consumati intorno ai falò nelle notti di festa, per gli arpisti e i suonatori di
Natale, per un regalo al finto vescovo che guidava la processione e la gazzarra
burlesca del giorno di San Nicola e per le spese in cibarie e dolciumi per il
giorno dei Santi Innocenti, quando la scolara più giovane aveva il permesso di
vestirsi da badessa e fame le veci per tutta la giornata. E i numerosi conti dei
vestiti eleganti di madama Eglentyne riempiono parecchie pagine dei resoconti
del vescovo, altroché nere tuniche e grigi sai !!! Da tutto ciò vediamo bene che
la badessa medievale non era una reclusa, essa andava in pellegrinaggio, si
recava a parlare con il re, con i nobili del tempo e con gli ecclesiastici per fatti
inerenti al suo convento, ma la vediamo anche uscire a cavallo per puro
divertimento o per andare a trovare la sua famiglia e gli amici.
La superiora di ·Chaucer era una donna alquanto mondana con i suoi abiti
eleganti, le pellicce, i gioielli e i suoi cagnolini e quando si recava a Londra
aveva anche un seguito di cavalieri e servitori. A questo punto viene spontanea
una domanda: chi era più libera la medievale madama Eglentyne o una
superiora degli odierni Conventi?
Grande importanza, nei monasteri misti, aveva la badessa che doveva essere
necessariamente vedova e ad essa dovevano obbedienza sia i monaci che le
monache. Nel 1140 a Fontevraud c'erano circa 5000 anime tra frati e suore, con
due edifici conventuali riuniti in un'unica chiesa.
Il Medioevo era anche l'epoca delle grandi mistiche delle quali fu fulgido
esempio III..IDIE.6ARDA
IDIBIN6EN.
Ildegarda (1098 - 1179) nacque a Bermersheim dai nobili Ildeberto e Matilde.
Ebbe visioni fin dall'infanzia e per tale motivo i genitori, ritenendola diversa
dalle altre bambine, preferirono affidarla al convento di Disibodenberg. La
badessa di questo monastero, Jutta di Spanheim, la educò.
Ildegarda tenne segrete le sue visioni sino al 1136, quando ormai quarantenne,
segui l'ordine di una voce misteriosa che le impose di mettere per iscritto quello
che vedeva nel silenzio della sua mente.
Nacquero cosi i suoi libri profetici:
~~il Liber Scivias;
1
セャ@
Liber Vitae meritorum;
~~il Liber divinorum operum ossia Il Libro delle opere divine la sua opera più
importante.
Ildegarda era donna di profonda e vasta cultura. Il carattere forte la sorreggeva
nella volontà, impedendole di cedere alle debolezze del corpo, nonostante le
emicranie fortissime, i dolori alle ossa e gli inevitabili acciacchi degli anni.
Essa viaggiava, predicava nelle grandi cattedrali europee di Colonia, Treviri,
Metz, Wiirzburg e Bamberga. Come ci viene tramandato dai cronisti dell'epoca,
essa·non teneva sermoni all'interno dei conventi, ma portava la parola di Dio al
clero e al popolo. Ildegarda fu in contatto con una delle più grandi personalità
del suo tempo, l'abate cistercense Bernardo di Chiaravalle che, pubblicamente e
37
in un Concilio, parlando di lei dichiarò che "non bisognava condannare al
silenzio una luce così sfolgorante". Essa ebbe una continua corrispondenza con
i papi dell'epoca e Eugenio III durante un sinodo lesse, agli ecclesiastici
presenti, uno dei suoi testi.
I suoi contatti non si limitavano al campo religioso, ma si estendevano anche al
mondo laico, ai re e imperatori del tempo come Enrico II d'Inghilterra, Corrado
III di Svevia e più di tutti Federico Barbarossa che estese una sorta di protezione
imperiale sulla santa. Ildegarda curava i malati con le erbe e ci ha lasciato
appunti medici derivanti dal suo lavoro coi pellegrini e con quanti si
rivolgevano a lei per aiuto.
Nel 1150 fondò il convento di Bingen e, 15 anni dopo, quello di Eibigen sulla
riva opposta del Reno. Si narra che molte delle guarigioni miracolose
attribuitele, comprese la cura dei ciechi con l'acqua del Reno, ebbero luogo
mentre attraversava in barca il fiume fra i due conventi.
Troviamo Ildegarda anche in un altro ruolo insolito, quello di esorcista, da lei
interpretato a più riprese nella vita. Ai sermoni, alle opere relative alle sue
visioni e profezie bisogna aggiungere i suoi lavori musicali, oggi ben conosciuti
grazie a dischi e messe in scena teatrali. Conosciamo i suoi canti liturgici e il
suo dramma musicato "Il dramma delle virtù".
Essa attribuisce grande importanza al canto liturgico e così si esprime: "Coloro
che senza motivi legittimi stanno in silenzio nelle chiese abituate al canto in
onore di Dio non meriteranno di sentire, in cielo, la mirabile sinfonia degli
angeli che lodano il Signore!'' Espresse soprattutto nel Libro delle opere divine
concetti di uguaglianza, pur nei diversi ruoli dell'uomo e della donna
affermando: "Nella creazione il maschio indica la divinità; la donna l'umanità
di Cristo". Mori pacificamente, il 17 settembre 1179 alla notevole età, per
quell'epoca, di 81 anni e avendo predetto in anticipo, alle sue monache, il
giorno della sua morte.
La causa di canonizzazione di Ildegarda non si era ancora conclusa nel 1243,
nonostante i numerosi miracoli testimoniati quando essa era in vita, o quelli
avvenuti successivamente sulla sua tomba o sulle sue reliquie.
Nel secolo XIV, il nome e la festa di Santa Ildegarda compaiono nei Martirologi
ufficiali. Il suo culto fiorisce ancora oggi e sull'altare della sua chiesa a
Eibingen viene venerato un prezioso reliquiario con la scritta "Santa Ildegarda
prega per noi".
La donna nel medioevo godeva, quindi, di una notevole importanza in tutti i
campi, tranne che nelle cariche cittadine dove l'influenza dell'università e del
diritto romano tendeva sempre più a toglierle diritti e libertà.
Sempre Chaucer, il poeta dei racconti di Canterbury diceva:
"se le donne non fossero buone e i loro consigli buoni ed utili, il nostro Signore
Iddio del cielo non le avrebbe mai create, né le avrebbe chiamate aiuto
dell'uomo ma piuttosto confusione dell'uomo"
38
Lo stesso concetto esprime Pietro Lombardo quando dice che la donna non è
stata tratta dalla testa di Adamo perché non doveva essergli padrona, non dai
piedi perché non doveva essergli schiava bensì dal fianco, proprio perché
destinata ad essergli compagna.
La parità della donna e dell'uomo era quasi una realtà in tutti i campi nel
medioevo, molto di più che nel nostro secolo.
Caterina da Siena, figlia di un semplice borghese, indurrà il papa ad
abbandonare Avignone e a tornare a Roma e Giovanna d'Arco, una contadina,
indosserà l'armatura e conquisterà in 8 giorni Orleans assediata da 7 mesi,
sconfiggendo gli Inglesi e incoronando il re di Francia. A disonore della classe
universitaria francese, dobbiamo dire che tra i giudici che condannarono al rogo
la pulzella d'Orleans vi erano 6 suoi membri.
Caterina, onorata come Santa e dottore della Chiesa e Giovanna d'Arco, santa,
martire ed eroina dello stato francese saranno, gli ultimi fulgidi esempi del ruolo
della donna nel medioevo. Ma già con esse ci troviamo in pieno decadimento
culturale, con una santa Caterina da Siena che non sa né leggere né scrivere e lo
stesso vale per Giovanna d'Arco. La prima imparerà a leggere e scrivere da
grande e la seconda saprà solo apporre la propria firma in calce ai documenti
scritti da altri.
Dopo la Grande Peste del 1348, che fece 30 milioni di morti, cominciò il
declino del ruolo femminile a causa delle leggi cittadine e del prevalere delle
università imbevute di diritto romano. Nel 1400 l'Università di Bologna abrogò
la famosa Novella 118 del Codice di Giustiniano.
Cristina de Pizan, donna coltissima e scrittrice del '400, si scaglierà contro
l'Università di Parigi e il monopolio dei maschi sugli studi. Essa scriveva
scandalizzando gli accademici e pubblicando numerosi libri che denunciavano
la condizione femminile sempre meno libera. Per tutta la sua vita Cristina de
Pizan indicò nella cultura l'unica strada per l'emancipazione femminile.
Nel Cinquecento il prestigio culturale e morale dei monasteri era decaduto, la
grande e colta abbazia di Fontevraud divenne rifugio per le amanti ripudiate dai
re e dai nobili. Il concilio di Trento (1545 - 1563) imporrà ai monasteri la
clausura e una disciplina rigidissima trasformando le monache in sepolte vive.
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BIBLIOGRAFIA DI APPROFONDIMENTO
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Antonetti P.: La vita quotidiana a Firenze ai tempi di Dante - BUR 1983
Baumer F.: La grande madre - Ecig 1995
Bogliolo G.: Giovanna d'Arco - BUR 1995
Cappellano A.: De Amore - ed. SE 1996
Cesaretti P.: Teodora - Mondadori 2001
Chaucher G.: I racconti di Canterbury- Mondadori 1991
Dhuoda : Educare nel Medioevo - Jaca Book 1997
Ferri E.: La Grancontessa - Mondadori 2002
Flagan S.: Ildegarda di Bingen -Le Lettere 1991
Golinelli P.: Adelaide - Jaca Book 2000
Golinelli P.: Matilde e i Canossa - Camunia 1991
Maria di Francia : Lais - Luni 1999
Ori P. D. - Perich G. : Matilde di Canossa - Rusconi 1980
Pemoud R.: Bianca di Castiglia - Ecig 1994
Pemoud R.: Eleonora d'Aquitania - Jaca Book 1989
Pemoud R.: Eloisa e Abelardo -Jaca Book 1991
Pemoud R.: La donna al tempo delle Cattedrali - Rizzo li 1982
Pemoud R.: La femme au temps des Croisades - Ed. Stock 1990
20 Pizan C. de : La città delle dame - Luni 1997
40
Massimo Gusso
Il Prodigio del Fulmine nell'Antichità
Prima di entrare nel merito della conferenza, e di dire
cosa fosse o rappresentasse il fulmine per gli antichi, vediamo di descrivere
come appare, oggi (a noi) il fenomeno atmosferico denominatofulmine 1•
§ 1. Il Fulmine (dal punto di vista scientifico)
1.1 Come è nella consapevolezza di ciascuno si tratta di uno dei più vistosi,
appariscenti, spettacolari (oltre che frequenti) fenomeni naturali: si calcola che
sul pianeta Terra si verifichino circa 16 milioni di temporali all'anno, ovvero 44
mila al giorno, con una caduta di circa 100 fulmini al secondo. Si tratta di un
fantasmagorico gioco elettrico-atmosferico che si sviluppa alle nostre latitudini,
ma soprattutto nelle zone cosiddette tropicali. Ricordo comunque che un
significativo mutamento climatico è in corso, sotto gli occhi di tutti,
probabilmente a causa dell'inquinamento atmosferico prodotto dall'uso di
combustibili fossili, e che un aumento consistente di fenomeni atmosferici legati
alle precipitazioni (e quindi anche dei fulmini) si sta effettivamente
riscontrando, tanto da far dire che ormai anche la nostra zona temperata si
starebbe velocemente "tropicalizzando".
Per dare qualche dato, basterà ricordare che il 14 luglio del 2002, nella sola
Italia, sono caduti 83.094 fulmini; nella notte tra il 3 e il 4 agosto 2002, solo
nell'Italia del Nord, 23.978 fulmini e il giorno seguente, sempre nel Nord,
10.345: si tratta di picchi inconsueti, ma non è detto che sia così 2• Pensiamo che
la Svizzera, più a nord e con un territorio più piccolo e concentrato del nostro, è
accreditata comunque di 300 mila fulmini in un anno.
I fulmini consistono in rapide e potenti scariche elettriche che si manifestano,
generalmente durante un temporale:
in una nube
a) in cielo
{
tra due nubi
b) tra cielo e terra
ascendente)
tra una nube e il suolo (sia in senso discendente che
È evidente che i fulmini pericolosi per l'uomo e per le attività umane sono
quelli della seconda specie; essi compaiono con una frequenza di circa 1 su 9,
rispetto al totale dei fulmini; in Fisica si dice che tra due conduttori dotati di
41
cariche di segno opposto, non si verifica passaggio di corrente elettrica qualora i
corpi stessi siano separati da un materiale isolante. Ma ogni isolante possiede un
limite: se l'intensità del campo elettrico è molto forte il materiale isolante
(l'aria, ad esempio) può essere "ionizzato", cioè, per dirla meno
scientificamente, "perforato", da un violento passaggio di corrente tra i due
conduttori che si trovano cosi improvvisamente messi in contatto 3•
Il fulmine rappresenta il più vistoso equivalente atmosferico di questo
fenomeno.
Non è ancora stato scoperto tutto sulla natura del fulmine, ma sappiamo, specie
grazie ai dati rilevati dai palloni sonda, che le grosse nubi temporales_che(i
cumulonembi)risultano cariche positivamente nella loro porzione più alta, e
negativamentein quella più bassa.
cariche positive
altezza in Km
14-
-64
12-
--55
10-
8-
--45
+++
--33
6-
--18
4
- -7
2-
-+5
Diverse teorie hanno cercato di spiegare questa distribuzione (sopra/sotto) delle
cariche all'interno delle nuvole: forse la condensazione del vapore acqueo, che
produce piccoli cristalli di ghiaccio, crea le condizioni per innumerevoli
collisioni di tali particelle ghiacciate con le goccioline d'acqua che invece
mantengono il loro stato liquido. Le particelle più piccole tendono allora ad
assumere cariche positive; quelle più grandi, negative. A causa delle correnti
ascensionali e discensionali, tipiche dei cumulonembi, e della forza di gravità, le
cariche si separano all'interno delle nubi creando una differenza di potenziale.
Quando tra le due parti della nube la differenza di potenziale tocca il mezzo
milione di Volt, si verificano le condizioni per una scarica elettrica.
Noi qui ci occuperemo, per semplicità, soltanto dei fulmini che si manifestano
durante i temporali classici, e che sono detti "discendenti" (nube/terra), e in
particolare di quelli con carica elettrica negativa4.
42
1.2 Fasi del fulmine 5 :
1) la prima fase di un fulmine, quella senz'altro meno nota, è la formazione di
una scarica iniziale (detta scarica pilota o leader) che non è visibile ali' occhio
umano; la sua velocità è fantastica: 100 chilometri al secondo. La scarica pilota
si muove a zig-zag, cercando la via che offre minore resistenza e "costruisce" in
poco più di un centesimo di secondo un canale ionizzato nell'aria, che può
essere lungo anche svariati chilometri;
2) mentre la scarica pilota scende dalla nube alla terra, da terra parte una
seconda scarica, detta di richiamo (da 10.000 Ampére), costituita da cariche
positive presenti sulla superficie terrestre, normalmente dal punto più alto
disponibile;
3) quando le due scariche si incontrano (e ciò avviene a breve altezza dal suolo,
circa 30-50 metri), si instaura una scia di congiunzione (una forte corrente
elettrica) all'interno del canale ionizzato, che è normalmente largo poco più di
una matita;
4) a questo punto una potente scarica negativa di ritorno (return stroke) porta
una corrente dalla nube a terra, scendendo ad una velocità di circa un terzo di
quella della luce; il suo percorso può durare tra qualche decina e qualche
centinaia di microsecondi. Il canale conduttore può infine ramificarsi in
parecchie branche, lungo le quali si possono avere diverse scariche di ritorno, il
che dà al fulmine il tipico aspetto ramificato. Una volta creato il canale
ionizzato altri fulmini possono utilizzarlo; la nube, per ricaricarsi, impiega
qualcosa come un ventesimo di secondo, ed è subito pronta a scagliare una
nuova saetta.
1.3 Il lampo e il tuono
Il lampo (vale a dire la luce de/fulmine) è costituito dal riscaldamento dell'aria
(fino a 33.000 °C).
Il fragore del tuono (impropriamente, il rumore del fulmine), che spesso
spaventa più del lampo e del fulmine in sé, è prodotto dal medesimo
surriscaldamento dei diversi chilometri d'aria che viene bruscamente espansa in
un'onda d'urto attorno al canale ove passa il fulmine. Si tratta di un suono
caratteristico udibile fino a 20-25 chilometri di distanza: prima si avverte una
sorta di crepitio (al raggiungimento della velocità supersonica), seguito dal
tipico fragore, e poi da un brontolio che segnala come la velocità diminuisca.
È utile sapere che grazie al tuono si può agevolmente calcolare la vicinanza del
fulmine rispetto al luogo dove sta l'osservatore. La luce che vediamo viaggia a
300.000 metri al secondo, il suono, invece, a circa 330 metri al secondo.
Vediamo sempre la scarica prima di sentire il tuono. Basta contare da quando si
vede la luce a quando si ode il tuono, e dividere i secondi per tre. Il risultato ci
43
darà, con buona approssimazione, la distanza in chilometri tra il luogo dove è
caduto il fulmine e il luogo dove si effettua l'osservazione.
§ 2. Il Fulmine degli antichi (in particolare nella cultura etrusco-romana)
2.1 Solo durante il XVII secolo l'uomo ha potuto liberarsi dei singolari
significati che in precedenza si attribuivano al fulmine, ma solo nel corso del
secolo XVIII sono stati realizzati i primi esperimenti scientifici per cercare di
comprendere il fenomeno.
Celebre tra tutti l'esperimento di Benjamin Franklin, condotto a Filadelfia nel
1752, che contribui ad identificare la natura elettrica del fulmine.
Il XIX e il XX secolo sono stati caratterizzati da studi sempre più approfonditi
che hanno anche portato alla realizzazione di macchine le quali, potendo
"produrre fulmini" in laboratorio, ne hanno consentito lo studio sempre più
approfondito.
E prima?
È facile intuire come l'uomo sia stato sempre affascinato dai fulmini, fin dalla
preistoria, così come ne sono stati (e ne sono) turbati gli animali.
Nei tempi più remoti il fulmine era considerato il massimo simbolo della
potenza e, per altro verso, della collera divina.
Era ben noto il pericolo mortale che correvano uomini animali e cose, quando
erano colpiti dal fulmine: era tuttavia anche noto che spesso l'uomo colpito dal
fulmine sopravviveva, cosi come l'albero colpito non bruciava né inaridiva. Ciò
faceva sembrare anche assai capriccioso questo brutale "tocco degli dei" e ne
rendeva affascinante l'indagine e lo studio.
2.2 Un popolo, quello degli Etruschi, fu più degli altri tanto curioso di indagare
l'uso che la divinità faceva dei fulmini, da farne l'oggetto di speciali libri sacri.
Gli Etruschi diedero vita ad una complicata ed oscura scienza, che prevedeva un
altrettanto complicato ed oscuro rituale. Seneca (Nat. Quaest. II 32 ss.) e Plinio
il Vecchio (Nat. Hist. II, 135 ss.) ci hanno conservato una parte di estratti dai
libri fulgurales etruschi, e ci hanno consentito di conoscere qualche traccia di
quella che doveva essere la loro minuziosa casistica. Tuttavia quel che ci resta è
stato filtrato dallo spirito pratico dei Romani, che probabilmente semplificarono
la metafisica fulgurale etrusca, disperdendone l'essenza più arcana.
Comunque l' ars fulminum, la "scienza dei fulmini", almeno come la
conosciamo nella pratica dell'ambiente romano, aveva essenzialmente tre scopi:
1) exploratio, esame accurato del fulmine; 2) interpretatio, spiegazione e
definizione del fulmine; 3) expiatiolprocuratio, scelta ed esecuzione dei più
44
adeguati rituali di espiazione ad propitiandos deos («per render di nuovo
propizi gli dei»).
Tuttavia il principio basilare della dottrina resta quello secondo il quale gli dei,
ma soltanto alcuni di loro, posseggono le Manubiae, ovvero le potestà di
scagliare i fulmini (Servio, ad Aen. I, 42.): si tratterebbe, in particolare, di nove
dei (Plinio Nat. Hist. 11,138).
I fulmini erano comunque classificati in diverse tipologie, e non solo in base
alla divinità che li aveva scagliati. La dottrina fulgurale etrusca, come si è detto,
fu ereditata dai Romani che la fecero propria, almeno per quel che riguardava la
interpretazione del fulmine quale signum, o prodigium, ovvero quale messaggio
divino agli uomini, che a questi era dato interpretare, a patto di fare le giuste
osservazioni.
2.3 I Romani, Plinio, ad esempio, non enumerarono tutta la serie degli dei
abilitati a scagliare fulmini; ne citavano alcuni e poi aggiungevano et alii, «e gli
altri», che sapevano evidentemente essere ben conosciuti dai loro lettori.
Questa è comunque la lista che possiamo ricavare (nella sequenza compare per
primo il nome etrusco):
1) Tinia (Tin = luppiter = Giove)
2) Uni(= luno, Giunone)
3) Menerva (Mnrva, Menrua, Meneruva, Merva, Merua, Mera= Minerva)
4) Sethlans = Vulcano
5) Mari = (Mars, Maris = Marte)
6) Satres = (Satrs = Saturno)
7) Cilen (Nocturnus = Summanus)6
8) Vetisl (= Vediovis o Veiovis)7
9) ??? = Hercules 8 ??
Molto incerta è soprattutto la sequenza finale degli dei cui sembra competessero
le Manubttie, almeno per gli ultimi due, e anche per un altro, Semo Sancus
-Ueus Fidius 9 che potrebbe essere associato ad essi.
I fulmini (i tipi di fulmine?) sono però undici o dodici 10 per i nove Dei, in
quanto l'etrusco Tinia (il romano Iuppiter = Giove) possedeva, a differenza
degli altri che ne avevano una sola a testa, tre diverse e specifiche Manubiae
(Plin. Nat. Hist. II, 138; SenecaNat. Quaest. 11,41).
Queste di Giove possono distinguersi, per il loro significato, e per il fatto di
essere relative a fulmini scagliati da Giove da solo o con il consiglio,
l'assistenza, la complicità, ovvero - ma non è chiaro - l'intervento di altre
divinità:
- Prima Manubia
fulmine scagliato dal solo Giove
- Seconda Manubia fulmine scagliato da Giove + i dodici Dei Consentes
- Terza Manubia
fulmine scagliato da Giove + gli Dei cosiddetti Involuti,
cioè velati.
45
Comunque sia, ci troviamo di fronte ad una esasperata "personalizzazione" del
fulmine, che cosi aveva garantito sempre, a monte, un suo mittente specifico, sia
che l'interprete riuscisse, sia che non riuscisse, ad individuarlo.
Un problema del tutto particolare si pone nel rendere in italiano alcuni aspetti
della terminologia connessa ai fulmini; ad esempio, templum fulmine ictum si
deve necessariamente tradurre con «il tempio fu colpito da un fulmine»:
tuttavia, tecnicamente, si sarebbe dovuto dire: «colpito dal fulmine», cosi come
un'altra locuzione pleraque de caelo icta, resa con «molte altre cose furono
colpite da fulmini», invece che intenderla al singolare («dal fulmine»). Per gli
antichi, posto che fu/men ... quid significet ... nulla ratio docet (Cic. div. II 20),
dovette esistere una particolare modalità psicologica nel percepire il fenomeno,
nel senso che, indipendentemente dalla singolarità o dalla pluralità degli effetti
da esso prodotti, era comunque sempre avvertito come ·singolo fulmine', cioè
come ·singola attività' di un dio. Ogni volta che Iuppiter, ad es., avesse stabilito
difulgurare, egli avrebbe avuto a sua disposizione i tre specifici fulmini, di cui
si è detto, da lanciare in una precisa sequenza, e con diversi risultati, stanti le
loro diverse Manubiae, cioè i diversi ·generi" cui i fulmini stessi appartenevano;
dato che attribuivano a più divinità la possibilità di lanciare fulmini di diversa
qualità), gli antichi, più che del ·numero dei fulmini" (che invece tanto colpisce
noi moderni), si preoccupavano soprattutto dell'interpretazione da dare ad ogni
singolo ·evento-fulmine", e soprattutto di scoprire quale divinità l'avesse lanciato, osservando con attenzione i suoi effetti, il suo colore, l'ora del giorno in cui
si era manifestato ecc.
2.4 Gli antichi avevano paura di tuoni e fulmini (peraltro tale paura è frequente
anche al giorno d'oggi, nonostante la diffusione delle-~gnoscenze scientifiche) e
cercavano pertanto di difendersene onorando le divinità ad ~l preposte, in
modo del tutto particolare Giove.
Sappiamo, da Svetonio (Augustus 90), che persino l'imperatore Augusto era
terrorizzato da tuoni e fulmini, e spiegava tale terrore legandolo ad un episodio
capitatogli in Spagna tra il 27 e il 25 a.e. quando, durante una marcia notturna,
un fulmine aveva colpito, uccidendolo, uno schiavo che, reggendo una fiaccola,
precedeva di pochi passi la sua lettiga. Augusto fece poco tempo dopo costruire
a Roma, sul Campidoglio, un grande tempio dedicato a Iuppiter Tonans (Giove
Tonante) 11•
Il sacrificio/ossequio preventivo (consistente anche nella erezione di un tempio)
avrebbe dovuto allontanare il rischio, cosi come l'espiazione avrebbe dovuto
por rimedio al segnale negativo (disappunto, contrarietà, rammarico, ira)
evidenziato dalla divinità attraverso il fulmine.
La religione romana aveva una base di contrattualismo formale: con gli dei si
stringevano essenzialmente patti. Si chiedeva aiuto e si davano in cambio
templi, sacrifici, preghiere. Se il rapporto si manteneva corretto tutto filava
46
liscio, ma quando gli uomm1 mcorrevano in una violazione sacrale, anche
inconsapevole, potevano essere pesantemente puniti, o minacciosamente
avvertiti o redarguiti.
Da questo punto di vista il fulmine è il prodigio più chiaramente individuabile.
Ma che dire quando un fulmine colpiva templi e statue dello stesso Giove? La
raffinatezza dell'analisi degli esegeti del fenomeno aveva pronta la risposta:
Giove aveva lanciato unfulmen postulatorium (un fulmine di richiesta), perché
il dio voleva una statua più bella, più grande, che il tempio fosse restaurato, che
si capisse che la sua pazienza aveva dei limiti, e cosi via.
Ma il fulmine che colpiva i templi o i luoghi più importanti di una città poteva
significare anche minaccia di tirannide o presagire una disfatta.
Un fulmine poteva essere interpretato come presago dell'avvenire per
dissuadere dall'azione, o viceversa per spingere all'azione; poteva essere
interpretato come una minaccia, come un avvertimento, come un'esortazione.
Tutto questo indipendentemente dai danni che il fulmine stesso avesse prodotto
(carbonizzazione, perforazione ecc.), quanto piuttosto attraverso l'esame della
regione del cielo da cui era scaturito, dal suo colore, dalla sua forma, dal fatto
che si fosse di giorno, di notte (ma solo il dio Summanus avrebbe avuto la
Manubia di lanciare fulmini di notte), o al crepuscolo 12• E poi se il fulmine
aveva colpito un'abitazione privata o un luogo pubblico, se non aveva
manifestato una specifica attitudine, ma piuttosto, ed è senz'altro il fulmine
dalla caratteristica più singolare, se aveva dato di sé all'interprete l'idea di
essere prorogativum, di essere cioè un fulmine che intendeva "rinviare" la
propria minaccia o promessa. Ma,tBle proroga non significava che la minaccia
di un male futuro o la promessa di un bene altrettanto futuro non si sarebbero
manifestati non.appena la proroga avesse avuto termine (non è chiaro come).
Si capisce da ciò che il significato (e l'interpretazione) del prodigio del fulmine
dipendeva spesso da ragioni connesse con l'intenzione di colui che riceveva il
prodigio, determinata anche dai suoi atti passati, presenti e futuri, dai suoi
timori, dalle sue speranze, dalle condizioni materiali, dei suoi interessi ecc.
Possiamo immaginarci quale congerie di regole empiriche informasse una
"scienza" come quella dei fulmini che doveva chiarire l'oscuro volere degli dei
e spiegare agli uomini il loro ignoto avvenire.
2.5 Prendiamo in esame alcuni prodigi legati al fulmine, che i Romani lessero
con particolare apprensione.
Mi servirò di una piccola e misteriosa opera compilatoria dell'antichità, il
cosiddetto Liber Prodigiorum di Giulio Ossequente, che contiene una raccolta
sistematica di eventi prodigiosi, tra i quali un buon numero di fulmini 13•
Cito dapprima due eventi databili rispettivamente agli anni 163 e 124 a.C.:
47
Liber Prodigiorum 14
Libro dei Prodigi 14
... In agro Stellati fulgure vervecum de ... Nel campo Stellato, a causa di una
grege pars exanimata. ...
folgore, una parte di un gregge di castrati
morì....
Liber Prodigiorum 31
Libro dei Prodigi 31
... Crotone grex ovium cum cane et tribus ... Un intero gregge di pecore, un cane e tre
pastoribus exanimatus .....
pastori furono uccisi da un fulmine a
Crotone ....
Si vede, in questi casi, come l'evento fulmine non trovi nel compilatore una
spiegazione. Nel primo caso sono uccisi una parte degli ovini di un gregge, nel
secondo addirittura un intero gregge di pecore con i suoi pastori 14.I fulmini sono
inclusi in una sequenza di altri - e variegati - prodigi e solo davanti al
complesso di tali eventi si riconosce la necessità di ricorrere ad una generale
purificazione. L'ira degli dei c'è, esposta attraverso multiformi messaggi, ma
non si sa bene da cosa provocata: nel secondo caso, tuttavia, si precisa, alla fine
del paragrafo, che si verificarono disordini gravi a Roma a causa delle proposte
di legge presentate da Caio Gracco, e si vuol alludere quindi pesantemente ad
un messaggio che gli dei, anche attraverso il fulmine, avevano inviato per
diffidare i romani dallo stravolgere le loro istituzioni. Saremmo qui davanti, ad
un fulmine politicamente "conservatore", ovvero, se vogliamo, adoperato dagli
interpreti "in senso conservatore", contro l'attività "democratica" del celebre
tribuno.
Ma disponiamo di altri casi in cui il fulmine la fa da padrone, occupa tutta la
scena e riceve una esauriente spiegazione. Si tratta ad esempio dell'evento
prodigioso databile all'anno 114 a.C.:
48
Liber Prodigiorum 37
P. Elvius eques Romanus a ludis Romanis
cum in Apuliam reverteretur, in agro Stellati
filia eius virgo equo insidens fulmine icta
exanimataque; vestimento deducto in
inguinibus, exerta lingua, per inferiores locos ut ignis ad os emicuerit. responsum
infamiam virginibus et equestri ordini
portendi, quia equi omamenta dispersa
erant. tres uno tempore virgines Vesta/esnobilissimae cum aliquot equitibus Romanis
incesti poenas subierunt. aedes Veneri Verticordiae/acta.
Libro dei Prodigi 37
Mentre P. Elvio, cavaliere romano, stava
rientrando in Apulia dopo la celebrazione
dei Giochi Romani, giunto nell'agro
Stellato, sua figlia vergine che cavalcava
[vicino a lui] venne colpita e uccisa da un
fulmine; la veste era stata strappata
all'altezza del basso ventre e la lingua appariva completamente di fuori: il fuoco
[del fulmine] era [infatti] scaturito dalla
bocca dopo esserle penetrato dall'inguine.
Il responso consistette nell'annunzio del
disonore che sarebbe caduto sulle vergini
e sull'ordine equestre, anche perché i
finimenti del cavallo erano stati sparpagliati. Tre nobilissime vergini Vestali
subirono la condanna a morte nello stesso
periodo, a causa dei loro scandalosi rapporti sessuali con altrettanti cavalieri romani. Fu costruito [allora] un tempio
dedicato a Venere Verticordia.
E di una seconda serie di eventi prodigiosi databili all'anno 63 a.e., legati ai
prodromi della cosiddetta congiura di Catilina:
Liber Prodigiorum 61
fulmine pleraque decussa. sereno
Vargunteius Pompeiis de caelo
exanimatus. trabis ardens ab occasu
ad caelum extenta. te"ae motu
Spoletum totum concussum, et
quaedam co~erunt. inter alia relatu<m>, biennio ante in Capito/io
lupam Remi et Romuli fulmine ictam,
signumque Iovis cum columna disiectum, aruspicum responso in foro
repositum. tabulae legum aeneae **
[caelo tactae?J litteris liquefa,ctis.ab
his prodigiis Catilinae nefaria
conspiratio coepta.
Libro dei Prodigi 61
Molti edifici furono colpiti da fulmini. A ciel
sereno Vargunteio fu ucciso da un fulmine a
Pompei. Una trave ardente si allungò in cielo da
occidente. Per tutta la sua estensione, la città di
Spoleto fu colpita da un terremoto e diversi edifici
crollarono. Tra altre cose fu riferito che due anni
prima, sul Campidoglio, la (statua della) lupa di
Remo e Romolo era stata colpita da un fulmine e
che la statua di Giove era stata abbattuta con la
colonna che la sosteneva, e che fu poi ripristinata
secondo il responso degli aruspici. Le tavole di
bronzo delle leggi (colpite da un fulmine?) furono
danneggiate con la liquefazione (di una parte) del
testo. Da questi prodigi fu accompagnato l'avvio
dell'empia cospirazione guidata da Catilina.
Cicerone, in particolare (div. I, 3) ricorda che quando la statua di Giove era stata
colpita da un fulmine gli aruspici comandarono di innalzarne un'altra più
49
grande, e di collocarla su una base più elevata; inoltre, contrariamente a quanto
era stato fatto in precedenza, la statua doveva essere rivolta verso Oriente.
Gli aruspici sostennero infatti che se la statua avesse guardato nella direzione da
cui si levava il sole, quindi verso il Foro e la Curia, le macchinazioni che
venivano tramate contro lo Stato sarebbero state messe in una luce tanto
evidente che il Senato e il popolo romano avrebbero potuto scoprirle
tempestivamente 15•
2.6 Quando un fulmine cadeva, lasciava traccia: un albero abbattuto, una
colonna frantumata, un cornicione caduto, un uomo o un animale (o addirittura
un intero gregge) colpiti a morte, ovvero miracolosamente scampati alla
folgorazione 16 •
C'è una lunga tradizione greca su una sorta di "santificazione" di colui che era
stato colpito dal fulmine, una tradizione eminentemente positiva, che
concerneva alcuni personaggi del mito, si pensi a Semele, ad Eracle (=Ercole),
ad Eretteo, ad Asclepio (=Esculapio). Ciò non impedisce, altre volte, che si
consideri la morte per folgorazione come punizione di un grave misfatto (come
nel caso di Capaneo) 17•
Il luogo colpito dal fulmine doveva inevitabilmente essere sottratto all'uso
profano e reso religiosus.
Cosi, di pertinenza esclusiva della divinità, quel luogo non doveva né essere
guardato, né essere calpestato. In esso era conditum il fulmine.
Conderefulmen (cioè nascondere, celare o seppellire il fulmine) è il tecnicismo
usato: si seppellivano con il fulmine le sue tracce, gli indizi materiali del suo
passaggio, gli oggetti fulminati. Salmodiando a bassissima voce lugubri
preghiere questi resti venivano sepolti, eventualmente assieme al cadavere
dell'uomo colpito, sul luogo stesso del prodigio, in quanto l'uomo ucciso dal
fulmine non poteva essere cremato, ma solo sepolto.
Il luogo colpito dal fulmine era detto tecnicamente fulguritum, ma anche
bidental, in quanto pecore di due anni, con due denti (bidentes), vi venivano
sopra sacrificate a titolo espiatorio.
Abbiamo qualche resto archeologico di queste "sepolture dei fulmini" (ed
eventualmente delle loro vittime); una, a Roma, reca proprio la scritta FVLGVR
CONDITVM (= fulmine sepolto: CIL VI, 215) 18•
§ 3. Il pensiero "scientifico" degli antichi intorno al Fulmine
3.1 Abbiamo detto che il luogo colpito dal fulmine era detto fulguritum: e la
geologia moderna conosce la folgorite, una concrezione tubolare quarzosa
originata dal passaggio del fulmine attraverso sabbie silicee: si tratta di una
sorta di bizzarra scultura che si può estrarre quasi fosse una radice pietrificata,
laddove il fulmine ha colpito il primo strato del suolo. Fa un po' paura
50
quest'oggetto lungo e bitorzoluto e senz'altro sembra il lavoro di un alchimista
che non sa controllare le sue forze; e sembra che all'interno ci sia sempre il
fulmine, celato nelle volute e nelle diramazioni.
Sappiamo che la scienza moderna ama utilizzare termini antichi per definire
fenomeni moderni, ma se leggiamo un celebre trattato di Seneca, le Natura/es
Quaestiones, abbiamo la percezione di una modernità anche nell'antico pensiero
romano.
Teniamo tuttavia conto che gli antichi non ebbero coscienza di quel fenomeno
generale ora da noi conosciuto come "elettricità" e che, pertanto, non furono in
grado di catalogare il fulmine tra i fenomeni elettrici, limitandosi a registrarlo,
quando ebbero un approccio "laico" al problema, tra i fenomeni atmosferici.
Per Seneca, ad esempio, lampo e fulmine sono due cose diverse, e nello stesso
tempo sono la stessa cosa: «il lampo è infatti un fulmine che non giunge fino a
terra e inversamente si potrebbe dire che un fulmine è un lampo che arriva fino
a terra» (Nat. Quaest. Il, 21, 3).
Da un certo punto di vista è vero che parecchie delle manifestazioni del
fenomeno sono esclusivamente di natura visiva perché restano nell'aria (fulmini
nube-nube), mentre quando il fulmine cade al suolo si percepiscono tanto la sua
parte visiva (il lampo), quanto la sua scarica energetica (il fulmine vero e
proprio), che Lucrezio, poeticamente così descriveva: «succede che voli giù in
terra quel rapido riflesso dorato di liquido fuoco» (de rer. nat. VI, 204-205).
Interessante anche la considerazione secondo la quale tutto si genera per il gioco
delle nubi e delle correnti d'aria: «ma forse anche le nubi sospinte contro altre
nubi per lo spirare del vento e il suo lieve incalzare ecciteranno un fuoco che
sarà in grado di sfavillare ... è l'aria, tramutabile in fuoco, a subire attrito ad
opera di enormi forze (che sono le sue stesse) allorché si trasforma in vento»
(Nat. Quaest. II, 23, 119).
Seneca ci teneva a differenziarsi dagli Etruschi dei quali aveva pure studiato le
opere: «la differenza che corre fra noi e gli Etruschi, i quali possiedono in
sommo grado la scienza di investigare le folgori, è questa: noi riteniamo che i
fulmini si sprigionino perché le nubi si scontrano; loro invece pensano che le
nubi si scontrano perché i fulmini si sprigionino» (Nat. Quaest. Il, 32, 2). E
Seneca propendeva decisamente per la "naturalità" del fenomeno-fulmine
piuttosto che ritenerlo un messaggio divino: «il destino non può essere
modificato dal fulmine. Perché no? Perché il fulmine stesso è parte del destino»
(Nat. Quaest. II, 34, 4); «i fulmini non sono inviati da Giove, ma ... tutto questo
è disposto in modo che anche ciò che non proviene da lui non accada tuttavia
senza una regola da lui stabilita. Insomma anche se Giove non fabbrica i fulmini
sul momento, ha fatto in modo che fossero prodotti; non interviene su ciascuna
cosa: ha dato a tutte forza e ragione» (Nat. Quaest. II, 4620).
In defmitiva Seneca va apprezzato per un pensiero di fondo: conoscere la natura
e l'origine del fulmine significa anche liberarsi della paura che abbiamo dentro
51
di noi di questo fenomeno (Nat. Quaest. II, 59); conoscere, sapere, studiare
significa avere meno paura, significa - in fondo - stare nel mondo della natura,
nel nostro mondo, senza temerlo21•
3.2 Sappiamo dalla scienza che il fulmine si manifesta anche con modalità assai
diverse dalla classica saetta, in particolare come "fulmine globulare" (ball
lightning)e sotto forma dei c.d. "Fuochi di Sant'Elmo".
Il pensiero scientifico e lo spirito di osservazione dei Romani conobbero bene
tali manifestazioni, ma non seppero sempre associarle al fulmine.
Cito, ad esempio, per quel che concerne il fulmine globulare, lo spettacolare
fenomeno descritto da Giulio Ossequente (per il 91 a.C.):
Liber Prodigiorum 54
Libro dei Prodigi 54
Nell'area circostante Spoleto un
...in Spoletinocolore aureoglobus ignis
ad terram devolutus,maiorquefactus e globo incandescente color dell'oro si
terra ad orientem ferri visus ma- schiantò sulla terra e, ingigantitosi
gnitudinesolemobtexit.Cumisin aree ... (per l'impatto), sembrò sollevarsi da
terra verso oriente (in una nube) cosi
grande da oscurare il sole ...
Gregorio di Tours, quasi sei secoli dopo quell'evento, nella sua Historia
Francorum(VI 25), scriveva: caelonubi/o,cumpluvia globusmagnusignis de
caelo dilapsus, in spatio multo cucurrit in aere, qui tantam lucem dedit, ut
tamquam media die omnia cernerentur.Quo iterum in nube suscepto, nox
successit;è il 31 gennaio del 583 d.C., nella città di Tours, e si riconoscono
impressionanti analogie, anche terminologiche, con il fatto narrato da
Ossequente.
Cito invece ancora Seneca per quei "veli incandescenti" di varia forma, che si
creano attorno alle punte di oggetti metallici sporgenti (alberi di nave, guglie
ecc.), e che prendono il nome da Sant'Elmo, patrono dei marinai22•
Qui Seneca intui qualcosa di simile al fulmine e lo annotò scrupolosamente:
52
Nat. Quaest . I, 1, 14
in Romanorum castris adrede visa
sunt pila, ignibus scilicet in i/la
delapsis, qui saep e mulminum modo
f erire et animalia solent, et arbusto;
sed si minore vi utuntur, dejluunt
tantum et insidunt, non f eriunt nec
vulnerant.
Ricerche sulla Natura I, 1, 14
Negli accampamenti romani alcuni
giavellotti parvero incendiarsi 23, certo
per essere stati investiti da fuochi caduti
dal cielo, i quali spesso come i fulmini
sogliono colpire sia animali che piante ;
ma se sono dotati di minor forza, si
limitano a scendere dall' alto e a
fermarsi da qualche parte , senza colpire
e ferire alcuno .
§ 4. Il Fulmine immaginato dagli antichi come "arma segreta"
Plinio (Nat. Hist. II, 140) racconta che la più arcaica tradizione etrusca voleva
che i taumaturghi di quel popolo sapessero evocare , far scaturire e dirigere i
fulmini . Lo stesso mitico re Porsenna avrebbe distrutto un mostro grazie ad un
fulmine .
Nei bassorilievi della Colonna Traiana si vede Giove scagliare fulmini in aiuto
dell 'avanzata delle truppe romane che invadevano la Dacia .
Si tratta però di un vistoso mezzo di propaganda.
Ma esistevano uomini capaci di muovere i fulmini?
Possediamo anche un' iscrizione del I secolo a.e . (da CIL XI, 6363 e da
Testimonia Linguae Etruscae, n. 697), una bilingue latino-etrusca da Pesaro ,
che è stata variamente interpretat a24, come se il FVLGVRIATOR (= etrusco
fr ontac?) che in essa si celebra potesse essere stato un sacerdote, un aruspice
capace di "attirare le saette" , piuttosto che solo capace di interpretarle 25.
testo latino:
[L. Ca]fatius· L ·F
·Ste· Haruspe[x]
Fulguriator
"' testo etrusco (l' o riginale
è scritto da destra ve rso sinistrar
cafates ·lr· lrnets' vis ·tr
utnvt· frontac 26
traduzione italiana
del testo latino:
L(ucius) Cafatius
f(iglio di) L(ucius)
(iscritto alla tribù)
Ste(llatina) aruspice e
interprete (o evocatore) di folgori
53
Conosciamo inoltre nei particolari un curioso episodio, proprio alle soglie della
fine del mondo antico, che ci fa capire come la "scienza" etrusca dei fulmini
fosse giunta ad un livello di risultati, o di presunzione, davvero stupefacente, o
che comunque godesse di fama di sicura eccellenza.
Si tratta di questo: nel 409-410 Roma è assediata dai Visigoti di Alarico e la
scarsità di risorse militari non consente di rompere l'assedio. Si presentano al
Prefetto della città, Pompeiano, dei saggi etruschi che affermano di essere in
grado, con opportune cerimonie, di provocare dei fulmini dirigendoli
opportunamente contro i barbari assedianti. Essi dicono altresì che poco tempo
prima avevano provveduto, con tale sistema ad allontanare Alarico dalla città
umbra di Nami, contro cui il re dei Visigoti aveva intrapreso un assedio, che era
stato poi costretto ad abbandonare.
Il Prefetto della città è fortemente attirato dall'offerta, ma si risolve a chiedere il
parere del papa Innocenzo I. Ricordo che l'Impero romano, in quegli anni, era
ormai un Impero cristiano, anche se sacche di resistenza pagane erano assai
diffuse, non solo tra le popolazioni rurali, ma anche nell'aristocrazia e negli
ambienti senatori tradizionalisti. Il papa, informato, ben consapevole dello stato
della popolazione sotto assedio, diede il suo consenso purché, un po'
ipocritamente, le cerimonie richieste dai saggi etruschi si svolgessero
segretamente. Ma costoro, indignati, affermarono che le cerimonie avrebbero
potuto estrinsecare la loro funzione sacrale, e ricevere i benefici effetti, solo se
pubbliche. Alla fine non se ne fece nulla, e Alarico saccheggiò Roma.
Non sappiamo quanto di vero ci sia in questa vicenda, narrata da uno storico
pagano di nome Zosimo 27, ma, al di là della sua funzione propagandistica e,
forse, anticristiana, è comunque importante perché perpetua, ancora in tarda età,
la consolidata fama degli etruschi come studiosi e manipolatori del fulmine.
54
§ 5. Bibliografia sintetica di riferimento
5.1 Analisi dell'antica percezione dei fenomeni legati al fulmine:
Beccaria G. L., I nomi del mondo.Santi, demoni,folletti e leparole perdute, Torino
2000 (sulle tradizioni popolari)
Bicknell P.J., Globus ignis, in Mond Grec. Pensée, Litterature, histoire,
Documents; Hommages à Claire Préaux, Bruxelles 1975, pp. 285-290 (si
occupa in particolare dei fulmini globulari)
Bloch Raymond, Les Prodiges dans l'antiquité classique, Paris 1963, tr. it.
Prodigi e divinazione nel mondo antico, Newton Compton, Roma 1977
Briquel D., Chrétiens et Haruspices. La Religion étrusque, dernier rempart
du paganisme romain, Paris 1997 (la conservazione di elementi dell'antica
religione etrusca fino alla fine del paganesimo romano)
Cesano L., s.v. Fu/men, Dizionario Epigrafico, III, 1922, pp. 323-334
(rassegna completa con rinvii a tutta la produzione epigrafica relativa ai
fulmini)
Dumézil G., La Religione romana arcaica con un 'appendice su la
Religione degli Etruschi, 1974, tr. it. Milano 1977, specialmente pp. 541551
Landucci Gattinoni F., luppiter Tonans, in «CISA» 15, 1989 (Fenomeni
naturali e avvenimenti storici nell'antichità), pp. 139-153, sulla paura dei
fulmini dell'imperatore Augusto e sulla problematica dell'epiteto "Tonans·
destinato a Giove
Luterbacher F., Der Prodigienglaube und Prodigienstil der Romer, 1902,
rist. Darmstadt 1967, spec. pp. 45-48 per lo speciale linguaggio usato per
definire i fulmini e i loro effetti nell'ambito del sermo prodigialis
Pease, Arthur Stanley (ed.), M Tullii Ciceronis De Divinatione Libri Duo,
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1973
Radke G., Die Gotter Altitaliens, Miinster 1965 (specialmente alle voci
destinate delle diverse divinità folgoratrici)
Rohde E., Psyche. Seelencult und Unterblichkeitsglaube der Griechen,
Freiburg in Brisgau, 1890-1894, tr. it. Psiche. Culto delle anime e fede
nell'immortalità presso i Greci, Bari, 1970, I, pp. 323-325
Thulin C.O., Die Etrusldsche Disziplin, Teil I-III (in particolare la prima
parte, Die Blitzlehre, 1906), Goteborg 1906-1909, rist. Darmstadt 1968
Weinstock St., Libri Fulgurales, «Papers of the British School at Rome»,
17-19 (1949-51), pp. 122-153
5.2 Alcuni testi antichi (senza la minima pretesa di completezza) da tenere
comunque presenti:
Ammiano Marcellino XXIII, 5 (un bidental non può essere toccato, né
guardato)
55
Cicerone, De divinatione, Il, 43 ss.; Il, 109 (sugli haruspices fulguratores,
gli interpreti dei fulmini)
Dionigi di Alicamasso, Antichità Romane II, 4-6; IX, 6-13; XVI, 1
Giulio Ossequente, Liber Prodigiorum, passim (oltre sessanta riferimenti a
fulmini)
Lucano, Phars. I, 606 (cerimonia misteriosa del conderefulmen)
Lucrezio, De rerum natura, VI, 96-159 (il tuono); 160-218 (il lampo); 219422 (il fulmine)
Lydo Giovanni, De Ostentis, 43-52 (sui fulmini)
Orazio, Ars Poet. 471 (violare un bidental era sacrilegio)
Persio Il, 27 (sacertà del bidental); XV, 134-135 (l'alloro tiene lontani i
fulmini)
Plinio il Vecchio, Nat. Hist. II, 135 ss. (sintesi dell'etrusca disciplina)
Seneca, Nat. Quaest. II 32 ss. (ampia sintesi dell'etrusca disciplina e
considerazioni sul significato dei fulmini)
Servio, ad Aen. I, 42 (le Manubiae)
Svetonio, Augustus 90 (la paura dei fulmini dell'imperatore Augusto)
Zosimo, Hist. V, 41, 1-3 (la storia dei fulmini per cacciare Alarico)
5.3 Splendide fotografie di fulmini si trovano in
- Newcott W.R., Lightning. Nature's High-Voltage Spectacle, «National
Geographic», voi. 184, n. 1, 1993, pp. 80-103
56
NOTE
Rinvio a due siti INTERNET che possono offrire svariate infonnazioni su fulmini e
dintorni: www.kramohile.om. (in inglese) e www.meteo99.it/fi.ilmini.htm (in
italiano), oltre all'articolo Colpo di fulmine apparso sul periodico «Quark»,n. 19,
settembre 2002, pp. 61-69.
2 Cito dati dal quotidiano «La Repubblica» del 6 agosto 2002 (articolo: Il maltempo
non dà tregua - nuove grandinate in arrivo), pag. 10; i dati riportati nell'articolo si
riferiscono alle osservazioni del SIRF (Sistema Italiano di rilevamento fulmini, sito
INTERNET http:iisirf.cesi.it, che contiene anche una rassegna stampa italiana sui
fulmini).
3 L'aria è composta per circa il 78% da azoto e da un 21% da ossigeno; si considera
un isolante nel senso che le molecole che la fonnano si trovano nonnalmente allo
stato neutro, e che quindi, perché ci sia passaggio di corrente elettrica, l'aria
dev'essere previamente ionizzata, cioè devono essere strappati elettroni a delle
molecole, che diventano così ioni positivi, elettroni, che poi sono catturati da altre
molecole, fonnando gli ioni negativi. È la stessa enonne energia elettrica che si crea
all'interno della nube che ionizza le particelle dell'aria e produce il fulmine.
4 È noto che fulmini possono scaturire in condizioni atmosferiche diverse, come le
tempeste di sabbia, le bufere di neve o le nuvole di polvere vulcanica. Si verificano
anche casi in cui avviene produzione di fulmini con cielo coperto, ma in assenza di
precipitazioni, o addirittura con cielo sereno.
5 Cfr. anche la sintesi di P. Angela, Viaggio nella Scienza, Milano 2002, pp. 327-328.
6 La dottrina romana attribuiva esclusivamente a questa divinità i fulmini notturni;
cfr. Pease, A. S. (ed.), M Tullii Ciceronis De Divinatione Libri Duo, Darmstadt
1973, pp. 98-99, a proposito di Cicerone, div. I, 16.
7 Mentre l'identità tra Vetisl etrusco e Vediovis o Veiovis romano farebbe attribuire a
questo una Manubia infera, anche in considerazione di un Giove sbarbato munito di
fulmine frequente nella iconografia etrusca. Probabilmente Veiovis è un'ipostasi di
Giove.
8 Molto incerto: cfr. e.o. Thulin Die Etruskische Disziplin, Teil I, Goteborg 1906,
rist. Darmstadt 1968, pp. 35 ss.; 47; G. Dumézil, La Religione romana arcaica con
un 'appendice su la Religione degli Etruschi, 1974, tr. it. Milano 1977, p. 546, n. 34.
9
Si tratta della divinità della fede e dei giuramenti, adorata solo a Roma e dintorni.
Non è sicura l'attribuzione ad essa di una specifica Manubia, se non, forse, come
ipostasi di Giove.
IO Undici in Plin. n.h. II 138 (Tuscorum litterae novem deos emittere fulmina
existumant, eaque esse undecim generum).
11 Per i particolari e la discussione tra gli studiosi cfr. F. Landucci Gattinoni, Iuppiter
Tonans, in «CISA» 15, 1989 (Fenomeni naturali e avvenimenti storici
nell'antichità), pp. 139-153.
12 Il c.d. "fulmine a ciel sereno" impensieriva in modo particolare gli antichi: ne
abbiamo un cenno fin da Omero (Odissea XX, 113-114). Per una completa
disamina delle fonti su questo fenomeno cfr. Pease, A. S. (ed.), M Tullii Ciceronis
De Divinatione, cit. p. 109, n. 1.
57
13 Oltre sessanta, così suddivisibili per materia, o meglio per "obiettivo": 2
segnalazioni di caduta (generica o di malaugurio); I O registrazioni di fulmini
scagliati contro templi; 6 registrazioni di fulmini scagliati contro statue di dei (od
oggetti sacri); 2 registrazioni di fulmini scagliati contro edifici; 3 registrazioni di
fulmini scagliati contro navi o attrezzature navali e portuali; 8 registrazioni di
fulmini scagliati contro aree urbane/rurali; 15 registrazioni di fulmini scagliati
contro cose (generiche); 11 registrazioni di fulmini scagliati contro persone; 6
registrazioni di fulmini scagliati contro animali.
14 Si tratta di un evento non inconsueto: cito ancora dal quotidiano «La Repubblica»
del 9 agosto 2002, p. 20 (Val d'Aosta, sterminato da un fulmine un gregge di
quarantapecore al pascolo).
15 Cfr. R. Bloch, Les Prodiges dans l'antiquité classique,Paris 1963, tr. it. Prodigi e
divinazionenel mondo antico, Roma 1977, pp. 51-52.
16 Alcune piante (come l'alloro), o alcuni animali (i vituli marini, cioè le foche, e
l'aquila), si diceva che proteggessero dal fulmine, cosi come si sostiene ancor'oggi,
in alcune tradizioni popolari, che faccia il rododendro (cfr. G.L. Beccaria, I nomi
del mondo.Santi, demoni,folletti e le parole perdute, Torino 2000, p. 261 ).
17 Per la tradizione greca, e per i personaggi mitici citati, cfr. E. Rohde, Psyche.
Seelencult und Unterblichkeitsglaubeder Griechen, Freiburg in Brisgau, I 8901894, tr. it. Psiche. Culto delle anime e fede nell'immortalitàpresso i Greci, Bari,
1970, I, pp. 323-325.
18 efr. e.o., Thulin Die EtruskischeDisziplin,Teil I, cit., pp. 92-107.
19 Si veda anche il pensiero di Lucrezio, de rer. nat. VI, 96 ss., che appare assai più
fondatamente scientifico, ma resta meno noto anche per la sua scrittura poetica, di
lettura più complessa. Quando dice che del freddo e del calore ha bisogno la nube
per fabbricare i fulmini, si comprende come Lucrezio sia andato vicinissimo alla
comprensione del fenomeno (vd. spec. de rer. nat. VI, 365).
20 Cfr. Lucrezio, de rer. nat. VI, 380 ss.
21 Le citazioni senecane in italiano derivano dalla recente edizione delle Natura/es
Quaestiones,presso i tipi della Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2002, a cura di
P.Parroni.
22 Invece altri due santi, nella tradizione popolare, sono invocati perché proteggano
dai fulmini, precisamente Santa Barbara e San Simone (cfr. G.L. Beccaria, I nomi
del mondo.Santi, demoni,folletti e le parole perdute, cit., p. 182).
23 efr. anche Livio XXI, 1, 15 (e R. Bloch, Prodigi e divinazionenel mondo antico,
cit., p. 102).
24 Cfr. ad es. e.o., Thulin Die EtruskischeDisziplin,Teil I, cit., pp. 55-56.
25 Cfr. R. Bloch, Prodigi e divinazionenel mondo antico, cit., pp. 123-124, n. 32. I
due termini latini Haruspexe Fulguriator,appaiono tradotti nel testo etrusco da tre
sostantivi, che forse corrisponderebbero alla tripartizione che fa Cicerone, dei saggi
etruschi in Haruspices,Fulguratorese Interpretesostentorum.
26 Frontac potrebbe essere un termine etimologicamente affine alla radice greca
bront- connessa al tuono.
27 Hist. V, 41, 1-3; cfr. e.o., Thulin Die EtruskischeDisziplin, Teil I, cit., pp. 127128; D. Briquel, Chrétienset Haruspices.La Religionétrusque,dernier rempartdu
paganisme romain, Paris 1997, pp. 179-186.
58
Appendice: Dizionarietto Fulgurale
A
Adtestata (fulmina): fulmini che confermano avvenimenti precedenti
Arbores fulguritae: alberi colpiti dal fulmine; da sradicare perché ritenuti
funesti
Ars fulminum: la "scienza" dell'interpretazione dei fulmini
Auxiliaria (fulmina): fulmini, che, invocati, vengono per il bene di chi li ha
chiamati
B
Bidental: giovane pecora di due anni (cui erano spuntati i denti), che si offriva
in sacrificio a Giove, per espiare il fulmine; passa poi a significare toutcourt il luogo ove era sepolta l'eventuale vittima di un fulmine, o i resti di
qualcosa colpito da un fulmine (vd. Condere fulmen), su cui si era
sacrificato l'animale; appositi sacerdotes bidentales, forse collaboratori
degli haruspices, si occupavano del rito
Brontoskopia: analisi del tuono per trarne auspici; celebre nell'antichità il
"Calendario Brontoscopico" di Nigidio Figulo, che ci è stato tramandato
dell'erudito bizantino Giovanni Lydo, nel suo De Ostentis
Bruta (fulmina): fulmini che non significano nulla
e
Condere fulmen:letteralmente "seppellire il fulmine" nel bidental (vd.)
Consiliaria (fulmina): fulmini riguardanti l'avvenire
D
Deprecanea (fulmina): fulmini la cui minaccia veniva stornata dalle preghiere
E
Elicere fulmina: attirare i fulmini sulla terra (vd. Exorare)
Etrusca disciplina: il complesso della "scienza" etrusca della interpretazione di
fenomeni e prodigi
Expiatio: modalità di espiazione (vd. Procuratio)
Exorare fulmina: attirare i fulmini sulla terra (vd. Elicere)
Exploratio: possibilità di discernere la divinità che aveva lanciato il fulmine,
per trame il corretto presagio
F
Fallacia (fulmina): fulmini che, sotto apparenza di bene, apportano danni e
disgrazie
Frontac: parola etrusca forse affine afulgur(i)ator (vd.), interprete o evocatore
dei fulmini
Fulgetrum: è il lampo (espressione rara, vd. Fulgor)
Fulgor: è il lampo
59
Fulgurator: nomen agentis (quasi sempre di Giove), cioè colui che scaglia
lampi
Fulgur(i)ator: l'interprete del lampo, l'Haruspex (vd.), ma anche, forse, colui
che sa attirare la folgore (da Fulgurire?)
Fulgurire: lampeggiare, ma anche colpire con il fulmine
Fulguritum: cosi è detto il luogo colpito dal fulmine
Fulmen: da Ful(g)men, è il fulmine vero e proprio
Fulminatio: il fulminare; lo scagliare il fulmine
Fulminator: nomen agentis (quasi sempre di Giove), cioè colui che scaglia
fulmini
G
Giove: vd. Iuppiter
H
Haruspex, plurale Haruspices: sacerdoti addetti all'analisi di determinati
eventi (in particolare attraverso l'esame delle viscere delle vittime
sacrificate ecc.) al fine di trarne auspici
Hospitalia (fulmina): fulmini che invitano Giove
I
Ignis Iovis: il fulmine di Giove
Interpres - Interpretatio: interprete degli ostenta e attività interpretativa di
fulmini, lampi, tuoni
Iuppiter: la principale divinità romana (lo Zeus greco); il più importante dei
lanciatori di fulmini; la sua collera poteva interrompere l'attività politica
(come dice Cicerone, div. II 18, 42: love tonante,fulgurante comitia
populi haberenefas,cioè: "quando Giove lancia tuoni e fulmini nel cielo
i comizi del popolo, se si tenessero, avrebbero esito nefasto")
K
Keraunoskopia: termine greco per indicare la "scienza" che interpreta i fulmini
L
Laurus: l'alloro, pianta che preservava dal fulmine
Libri fulgurales: i testi etruschi ove era raccolta la scienza dei fulmini
Loca religiosa: quando un luogo era colpito dal fulmine (vd. Fulguritum) era
sottratto all'uso profano e rientrava nella categoria dei luoghi religiosi
M
Manubia: parola di etimologia sconosciuta, forse trascritta dall'etrusco; indica
la capacità di una divinità di scagliare uno specifico fulmine. Manubiae
albae, cioè bianche (quelle di Giove); manubiae nigrae, cioè nere (quelle
di Saturno); manubiae rubrae, cioè rosse (quelle attribuite a Marte)
Monitoria (fulmina): fulmini che indicano ciò da cui uno deve guardarsi
N
Nets'vis: parola etrusca forse affine a Haruspex(vd.), interprete dei prodigi
Nocturna (fulmina): vd. Summani fulmina
60
o
Obruta (fulmina): fulmini che colpiscono per la seconda volta oggetti già
toccati e che non vennero espiati con la Procuratio (vd.)
Ostentatoria (fulmina): fulmini che incutono terrore
p
Peremptalia (fulmina): fulmini che annullano i segni di prodigi precedenti
Postulatoria (fulmina): fulmini che esigono sacrifici tralasciati o la ripetizione
di quelli fatti non secondo il rito
Praesaga (fulmina): fulmini fatidici, per lo più a ciel sereno
Procuratio: rituale di espiazione
Prodigium: avvenimento singolare, caratterizzato da un "fenomeno" che
rappresenta il messaggio della divinità (es. un fulmine); se correttamente
interpretato ed espiato (vd. Procurati o), consente di rimediare al
disequilibrio segnalato dalla stessa divinità riportando in equilibrio la
sfera dei rapporti dei/uomini
Prorogativa (fulmina): fulmini la cui minaccia di male, o la cui promessa di
bene potevano essere prorogate, aggiornate, ma non annullate
Provorsa (fulmina): sono cosi chiamati i fulmini del tramonto
Puteal: denominazione alternativa del Bidental (vd.)
Q
Quantum? domanda che doveva porsi l'interprete: che durata ha manifestato il
fulmine?
Quando? domanda che doveva porsi l'interprete: in che circostanza si è
manifestato il fulmine?
R
Regale fulmen: fulmine caduto in uno dei luoghi dove si esercita la sovranità
(foro, comizio ecc.); il suo significato è minaccia di tirannide alla città
Regioni del cielo: vd. Zone del cielo
s
Sacerdotes bidentales: vd. Bidental
Summani fulmina: i fulmini scagliati dal dio Summanus (vale a dire i fulmini
notturni)
Stufertarius: sacerdote che si occupava delle cerimonie connesse all'espiazione
degli alberi colpiti dai fulmini (vd. Arbores fulguritae)
T
Terebrare (fulmen quod terebrat): verbo che descrive il fulmine che provoca
fori negli oggetti, senza romperli
Tonans: nomen agentis (quasi sempre di Giove), cioè colui che scatena i tuoni.
Tonitrus o Tonitrum: il tuono
Trutnut o Trutnvt: parola etrusca forse affine ad Interpres (vd.), interprete
degli ostenta
Tusci: gli Etruschi, specialisti nelle discipline fulgurali
61
u
Unde venit? domanda che doveva porsi l'interprete; il "valore" di un fulmine
era determinato dalle Zone del cielo (vd.) da cui proveniva e da quello in
cui esso aveva fine
Urere (fulmen quod urit): verbo che allude al fulmine che brucia o
semplicemente annerisce gli oggetti
V
Vana (fulmina): sono cosi chiamati i fulmini incomprensibili
Vituli marini: la pelle dei vituli marini (le foche) avrebbe dovuto preservare dal
fulmine; si facevano cinture e parti di abiti per chi intendeva servirsene
come protezione
z
Zeus: vedi Iuppiter
Zone (o Regioni) del cielo:secondo la teoria del templum celeste, il cielo
sarebbe stato diviso in quattro regioni, tre di competenza di Iuppiter (Giove) e
una di Summanus; esiste anche una divisione del cielo in sedici regioni, dodici
governate dagli dei Consentes e quattro da Giove e Summanus; di queste
regioni, otto sono situate a Est di un'immaginaria linea Nord-Sud, otto a Ovest;
le prime sono chiamate sinistra.e, le seconde dextrae; l'orientamento è stabilito
da chi abbia dinanzi a sé il Sud; le regioni sinistra.e sono favorevoli, le dextrae
sfavorevoli
62
Lorenzo Cadeddu
LO SPIONAGGIO NELLA 1a GUERRA MONDIALE
Quando si parla di spionaggio nella 1· guerra mondiale il nostro pensiero, o per
lo meno quello dei più romantici, non può non andare a Margaretha Geertruida
Zelle, bella danzatrice olandese nota ai più con il nome di Mata-Hari.
Sebbene impegnata in una guerra sanguinosissima, che sembrava non dover
finire mai e che coinvolgeva buona parte del vecchio continente, l'Europa, nelle
retrovie, annegava i dispiaceri per un conflitto che rischiava di travolgere
vincitori e vinti, tra fiumi di champagne avidamente sorseggiato al lume di
candela in compagnia di allegre donnine.
E così, Margaretha Zelle, ovvero Mata-Hari, in un fumoso locale scarsamente
illuminato, frequentato da esponenti della vita sociale parigina, dispensava
favori a politici e militari dello Stato Maggiore francese in cambio di notizie
che passava poi ad agenti dello spionaggio tedesco.
Non tutti, però, si mostrarono sensibili alle grazie della bella signora e cosi, il
15 ottobre del 1917 Mata-Hari finì la sua breve carriera di spia contro un albero
del "bois de Vincennes", alla periferia di Parigi.
La sentenza di morte venne eseguita da un plotone di 12 zuavi alle prime luci
dell'alba e "Luce del Mattino", traduzione dal giavanese del suo nome d'arte:
Mata-Hari, cessò d'esistere.
Strano destino quello di Margaretha Geertruida Zelle conosciuta al Ministero
della Guerra tedesco con la sigla di agente H-21.
Si concludeva cosi, in quel primo sprazzo di Novecento, quel certo tipo di
"spionaggio d'alcova" che ci verrà riproposto negli anni '60, in piena guerra
fredda, soprattutto da Londra con il noto caso del ministro Profumo.
Questa sera, però, non parleremo né di Mata-Hari né del caso Profumo ma
analizzeremo, nelle sue linee essenziali, il servizio di spionaggio svolto da
agenti italiani "sul campo" cioè nelle zone occupate dagli austro-tedeschi a
cavallo degli anni 1917-18.
E' bene precisare, prima di inoltrarci nella narrazione, che non risulta si sia
ricorso allo spionaggio prima degli avvenimenti di Caporetto se si esclude,
ovviamente, il normale servizio di "intelligence" svolto presso tutte le
ambasciate dagli Addetti Militari.
Furono proprio le tragiche vicende di Caporetto a convincere il Comando
Supremo italiano circa la necessità di ricorrere ad agenti da inviare dietro le
linee nemiche.
63
Il ripiegamento al Piave per l'intero sviluppo fronte di pianura infatti, impediva
ad entrambi gli eserciti di acquisire dai quotidiani contatti con l'avversario, quei
piccoli indizi che, unitamente all'interrogatorio dei prigionieri, potevano fornire
elementi e indirizzare gli Stati Maggiori verso ipotesi operative.
Si rendeva necessario quindi, escogitare nuovi sistemi per ottenere informazioni
certe prima che l'arrivo della primavera spingesse l'avversario ad intraprendere
quelle grandi operazioni offensive in grado di risolvere, definitivamente ed a
suo vantaggio, il conflitto.
Esperimenti di osservazione aerea non avevano dato soddisfacenti risultati.
Da qui l'idea del colonnello Ercole Smaniotto, Capo Ufficio Informazioni
Truppe Operanti della 3· Armata, di inviare fiduciari nelle terre invase.
Principale ostacolo da superare era quello del passaggio al di là delle linee
nemiche giacchè l'intera linea del fronte risultava densamente presidiata ed
attentamente sorvegliata dalla gendarmeria austriaca.
Altri problemi da risolvere erano quelli del sistema di trasmissione delle notizie
acquisite, delle segnalazioni, degli agenti da selezionare e del modo di farli
giungere nei centri più importanti per la vita dell'esercito austriaco.
Vennero incontro alle necessità dell'Ufficio Informazioni notizie relative al
servizio di vigilanza esercitato dalla gendarmeria austriaca che furono fomite da
nostri ufficiali evasi dai campi di prigionia.
Dopo attenta valutazione e verificate le notizie ricevute si ritenne di poter
adottare due soli sistemi di comunicazione:
a mezzo di piccioni viaggiatori;
a mezzo lenzuola stese in predeterminate aree e secondo un predefinito cifrario.
Il tratto di fronte di cui era necessario conoscere la situazione nemica era quello
settentrionale situato a nord della linea ferroviaria di Ponte di Piave che
coincideva con il tratto di fronte lungo il quale si sarebbe presumibilmente
sviluppata una possibile manovra offensiva italiana.
Per questo motivo era necessario conoscere tutto di quella zona per evitare
qualsiasi possibile sorpresa.
Si pensò quindi di iniziare il servizio di osservazione da quel settore e, inoltre,
si stabili di installare un centro informativo a Vittorio ed uno a Pordenone.
Quello di Vittorio, importante centro vitale austriaco per la presenza di
numerosi Alti Comandi, avrebbe consentito di venire a conoscenza della
situazione periferica del nemico a cavallo del Ponte della Priula nonché di
controllare i movimenti da e per la Stretta di Serravalle, asse lungo il quale si
snodava la grande via di arroccamento tra lo scacchiere montano e quello di
pianura veneto-friulana.
Il centro pordenonese, invece, avrebbe consentito di tenere d'occhio il
dispiegamento delle forze nemiche tra Tagliamento e Livenza e i movimenti
lungo gli assi ferroviario e stradale Udine-Casarsa-Conegliano.
64
Il criterio adottato per la selezione del numeroso personale che si era offerto
volontario era quello di affidare la missione a nativi del luogo nel quale
avrebbero dovuto operare e, soprattutto, che il prescelto riunisse doti di
coraggio, fermezza, riservatezza e che avesse contatti ed amicizie sulle quali
poter fare affidamento.
Dopo una selezione, tra i tanti possibili che si erano segnalati, vennero prescelti:
dal Comando della 3· Armata:
- il tenente di cavalleria Camillo De Carlo, osservatore al 1° Gruppo
Aeroplani, che volle come secondo il bersagliere di Fregona Giovanni
Bottecchia;
- il tenente Nicolò De Carli, dell'8° reggimento bersaglieri che volle come
secondo il proprio fratello Giuseppe, caporale nello stesso reggimento;
dal Comando dell'8• Armata:
- tenente Alessandro Tandura del XX Reparto d'Assalto "Fiamme nere",
destinato ad operare a Vittorio;
- tenente Pier Arrigo Barnaba del battaglione alpino "Val Fella" che ebbe
come secondo il tenente Ferruccio Nicoloso, entrambi di Buia di Udine
che avrebbero operato a nord del capoluogo friulano.
Se questi erano gli agenti a cui furono affidati i compiti più delicati la rete
completa risultava cosi composta:
- capitani Locatelli ed Allatere: avrebbero operato nella zona di Udine;
- capitano Tarcisio Martina e tenente Lorenzo Lorenzetti che avrebbero
operato nella zona di Spilimbergo;
- tenenti Vuga e Bornacin, destinati alla zona di Casarsa;
- capitano Maurizio Dispensa e tenente Edoardo Meazzi avrebbero operato
nella zona di Portogruaro;
- capitano medico Giorgio Romiati e tenente Edoardo Meazzi (2· missione)
avrebbero operato nella zona di Caorle;
- tenente Antonio Pavan del 73° reggimento fanteria e militarizzato Giovanni
Mattioli entrambi di Sacile avrebbero operato in quel centro.
La rete informativa era rafforzata da altre "pattuglie", disseminate in altri centri
ritenuti comunque importanti, alle quali erano stati affidati anche compiti di
sabotaggio e di incitamento alla guerriglia da mettersi in atto in concomitanza
con una manovra offensiva dell'esercito nazionale:
- tenente Virgilio Neri e sergente Giuseppe Mora nella zona di Villaverla;
- tenente Guido Manacorda nel canale dei Lovi per tentare di liberare il
sergente Mora ammalatosi missione durante;
- tenenti Arbeno d' Attimis e Max di Martignacco nella zona Salt-BelvedereUdine con compiti specifici di guerriglia;
- sottotenente Francesco Fedele, sergente maggiore Massimo Cerchia e
soldato Augusto Bertozzi lungo il corso della Livenza;
65
- tenente Francesco Carturan e caporale Augusto Bertozzi (2· missione) lungo
l'asse ferroviario S.Stino di Livenza-Portogruaro con compiti di guerriglia;
- tenente Paolo Maso e sottotenente Pietro Tubaro nella zona di Portobuffolè
con compiti di guerriglia;
- capitano Oreste Carletto e tenente Giovanni Carli nella zona di Motta di
Livenza con compiti di guerriglia;
- sottotenenti Bruno Pellarini e Rodolfo Sharfk nella zona di S.Stino di
Livenza con compiti di guerriglia e disgregazione forze nemiche;
- tenente colonnello Giuseppe Piccin, capitani Ercole Miani e Adolfo Parlotti;
- tenente Tomaso Feltrami, sergente maggiore Giacomo De Piante e caporale
Augusto Bertozzi (3· missione) nella zona di Cervignano con compiti di
guerriglia.
Questa, dunque, la rete completa e complessa che si riuscì ad organizzare.
Sempre relativamente al personale possiamo dire che complessivamente
vennero eseguite ben 19 missioni per complessivi 41 agenti, alcuni dei quali
eseguirono 2 ed anche 3 missioni. Sei degli agenti in missione vennero colti da
malattia mentre cinque furono catturati dagli austriaci ma nessuno venne
giustiziato.
La prima missione partì dalle linee italiane il 30 maggio 1918 mentre l'ultima
soltanto pochi giorni prima della conclusione del conflitto e, comunque, in
piena battaglia di Vittorio Veneto: il 27 ottobre.
Gli agenti, soprattutto quelli inviati in missione per primi, avevano compiti
esclusivamente informativi mentre alcuni tra quelli inviati in missione nel mese
di ottobre avevano oltre a compiti informativi, anche quello di operare con il
sistema proprio della guerriglia e di provocare la sollevazione popolare da
svolgersi nei centri più sensibili di vita e di comando dell'avversario ed in
stretta correlazione con un'azione militare dell'esercito nazionale ..
In un caso venne tentata anche la disgregazione delle forze nemiche ad opera di
un ufficiale cecoslovacco che, trasferito via mare sulla riva destra della Livenza,
comunicava con reparti austro-ungarici costituiti prevalentemente da suoi
connazionali.
Circa la scelta dei sistemi per portare a destinazione i fiduciari, erano stati
previsti tre diversi sistemi:
- aeroplani che sarebbero atterrati nelle campagne di Pavia di Udine e nella
brughiera a nord di Pordenone;
- idrovolanti ammarati nel Canale Nicesolo a nord di Caorle;
- M.A.S. della Regia Marina per lo sbarco degli agenti operanti lungo la costa.
Il recupero degli agenti a missione conclusa sarebbe avvenuto a mezzo velivoli
nelle stesse aree di sbarco o in una zona alla foce del Tagliamento, in giorni ed
orari prefissati.
Tra i sistemi per raggiungere le residenze non era stato previsto l'impiego di
paracaduti in quanto, come relazionò il colonnello Smaniotto al Comando
66
Supremo " ... tale sistema non è accolto con favore dai generosi che si sono
votati al sacrificio pel bene del Paese, in secondo luogo perché non torna facile
al momento dell'atterraggio distruggere il paracadute e, d'altra parte,
l'abbandono senza distruggerlo equivarrebbe a dare in mano al nemico la prova
della presenza di nostri fiduciari nei territori invasi e porterebbe ad un
inasprimento delle misure di vigilanza ... ".
La zona individuata per mettere in atto il piano di disturbo era un'area piuttosto
ampia compresa tra Tagliamento e Livenza.
Nella fascia del Tagliamento vennero individuate queste località: Spilimbergo,
Valvasone, San Vito al Tagliamento, Morsano al Tagliamento e Latisana;
mentre per la fascia della Livenza erano stati individuati i centri di Sacile,
Brugnera, Portobuffolè, Meduna di Livenza, San Stino di Livenza e Sant'Elena.
Tra le due fasce erano stati predisposti quattro punti di raccordo dell'intero
sistema a San Foca, Pordenone, Tizzo e Portogruaro.
Il collegamento tra gli agenti e l'organizzazione centrale doveva essere
mantenuto mediante l'invio di piccioni, la stesura di lenzuola, con il lancio di
palloncini e con messaggi entro bottiglie.
Data comunque l'aleatorietà di questi sistemi si pensò anche all'impianto di
stazioni radio ed alla costituzione di due posti di corrispondenza.
Le stazioni radio, nel numero di due, dovevano essere installate una sulle
pendici meridionali di M. Cavallo, sopra Aviano, mentre l'altra si sarebbe
dovuta impiantare nella zona lagunare di Villaviera.
I due posti di corrispondenza, invece, dovevano essere impiantati entrambi sulla
costa e, precisamente nei pressi di Santa Margherita di Caorle ed alla Foce del
Tagliamento.
Come si vede il piano era veramente ambizioso.
Non tutto andrà come previsto, non tutto si riuscirà a realizzare anche perché, è
bene precisarlo, la conclusione del conflitto era prevista per il 1919 e dunque
molte delle attività "in itinere", proiettate su quella data, non furono portate a
termine per la sopravvenuta firma dell'armistizio.
Questo, dunque, il quadro generale dell'attività informativa che si andava
predisponendo.
Ha scritto in una pregevole opera, "Diario di un fante", l'on. Luigi Gasparotto,
futuro Ministro della Guerra: " ..il colonnello Smaniotto ed il tenente
Manacorda ... stanno organizzando un piano audace: lanciare al di là del Piave in
aeroplano giovani ufficiali, vestiti da contadini, che sorveglino il nemico e
preparino le popolazioni all'azione ... assumerà un nome che è una bandiera:
""Giovane Italia'"'. Coloro che si offrono arrischiano la forca. Ma la storia di un
popolo ha bisogno anche di questo. Non v'è grandezza senza dolore ... ".
Smaniotto conosce un ufficiale in servizio alla 1• squadriglia aeroplani che,
veneziano di nascita, ha trascorso la sua giovinezza a Vittorio.
67
Smaniotto sa che questo giovane ama l'avventura. Lo contatta, gli fa la proposta
che viene subito accettata.
Si tratta del tenente di cavalleria Giacomo Camillo De Carlo.
Avrà con sé un altro vittoriose, di Fregona: Giovanni Bottecchia dell'8°
reggimento bersaglieri e cugino __
del più noto campione di ciclismo Ottavio
Bottecchia.
Il 30 maggio 1918 De Carlo e Bottecchia raggiungono Marcon, nell'entroterra
veneziano dove il capitano Umberto Gelmetti li attende per trasferirli, a bordo
di un velivolo tipo "Voisin", oltre la linea del Piave.
Ha scritto nel suo diario il Ministro Gasparotto: " ... siamo alla prima prova della
Giovane Italia. Stanotte un Voisin pilotato dal capitano Gelmetti è partito dal
campo di Marcon. Aveva a bordo il tenente De Carlo di Vittorio, il bersagliere
Bottecchia dell'8° reggimento e una gabbia di piccioni. L'aeroplano ha passato
il Piave, ha puntato su Conegliano e Sacile ed è sceso ad Aviano ... ".
L'aereo di Gelmetti, infatti, avrebbe dovuto prendere terra nella pianura a nord
di Pordenone denominata "Le Forcate", tra Rovereto in Piano e Fontanafredda,
ma mentre si accinge all'atterraggio il velivolo viene centrato da un faro.
Gelmetti riprende subito quota e non trova di meglio che atterrare nell'aeroporto
austriaco di Aviano mentre due "Aviatik" sono in decollo e con il rumore dei
loro motori coprono quello del Voisin italiano.
Una volta a terra i due si dirigono verso le ciminiere di Sarone, superano la
Livenza a Polcenigo, raggiungono Caneva dove, nel roccolo dei Chiaradia, si
sbarazzano delle uniformi per indossare panni da contadini.
Cosi vestiti, attraverso le zone boschive della pedemontana, i due raggiungono
la casa della sorella di Bottecchia a Fregona da dove avrebbero svolto il loro
compito di osservazione.
Nello svolgimento del loro compito De Carlo e Bottecchia vengono agevolati da
Labano Brunoro che svolge a Vittorio le funzioni di Segretario Comunale e che
fornisce loro una "ausweiskarte" dalla quale risultano braccianti agricoli.
Forte di questo documento De Carlo si fa più audace e l'audacia lo porta ad
entrare in città.
Semplificando per problemi di spazio diciamo subito che da Labano Brunoro
De Carlo viene a conoscenza dell'intero piano che gli austro-ungheresi hanno
approntato per una imminente azione sul Piave.
Si tratta di quella azione che la storiografia battezzerà come "battaglia del
Solstizio" e che prenderà avvio il 15 giugno 1918.
Si trattava, a grandi linee, di un complesso forte di 50 divisioni che avrebbero
attaccato la linea del P..ii,tv.~ioriuh~
manovra a tenaglia cioè con i due bracci che
avrebbero puntato~oil.Grappa
e verso il Montello.
Davanti a tanto ben di Dio di notizie è naturale che De Carlo si chieda se non si
tratti di contro informazione e, mettendo alle strette Brunoro, viene a sapere che
68
le informazioni gli provengono dal Comandante del Posto Tappa di Vittorio, il
capitano Bruca, ufficiale istriano di Abbazia, di forti sentimenti italiani.
Il piano austriaco non andrà a buon fine anche perché, pochi minuti prima che
l'artiglieria austriaca aprisse il cosiddetto fuoco di preparazione contro Comandi
e schieramenti, l'artiglieria italiana eseguiva un fuoco di contropreparazione che
disorientava l'avversario e neutralizzava
molti degli schieramenti
dell'artiglieria nemica.
Ricevute le notizie De Carlo compila un messaggio in due copie che, per
sicurezza, affida a due piccioni.
La missione di De Carlo può considerarsi conclusa.
L'Ufficiale affida all'ultimo piccione questo messaggio: "il lupo è stanco di
camminare" che, nel codice concordato, vuol dire "Gelmetti fra tre notti, alle
03.00 ci venga a riprendere alla prateria delle Forcate".
In attesa di raggiungere il pordenonese mentre si aggirano per i boschi di
Fregona De Carlo e Bottecchia vengono intercettati da una pattuglia di
gendarmi.
De Carlo riesce a fuggire mentre Bottecchia è catturato.
Il fallimento dell'offensiva austriaca convince il servizio informazioni austriaco
che la cosa poteva essere solo frutto di notizie passate al nemico.
Si dubita subito del capitano Baxa che, precauzionalmente, viene trasferito
subito a Gemona.
Fortunatamente gli subentra un tenente, Cesare Pagnini, avvocato triestino,
anche lui di forti sentimenti italiani.
Grazie all'intervento di Pagnini Bottecchia viene fatto fuggire poco prima che
una corte militare si riunisca per giudicarlo e per condannarlo certamente a
morte.
Il piccione inviato da de Carlo non giungerà mai alle colombaie di Padova e
Gelmetti non sarà alle "Forcate" ad attendere De Carlo che cosi rientra a
Fregona.
Da qui, tenendo per mano il figlio più grande di tale Maria De Luca, madre di
sei figli che lo aveva nascosto in casa sua, raggiunge a piedi Caorle portando sul
braccio, quale unico lasciapassare, un bracciale nero con la scritta "Leherer''
cioè, maestro.
Per strada si aggiunge a loro un prigioniero italiano evaso: il sergente Italo
Maggi di Como, di professione barcaiolo.
A Caorle il sindaco, Eugenio Tessarin, fornisce loro una barca con la quale,
nottetempo, raggiungono Cortellazzo, territorio del Regno d'Italia.
Contemporaneamente all'azione di De Carlo era stata programmata la missione
di due fratelli: Nicolò e Giuseppe De Carli di Azzano Decimo, piccolo centro a
sud di Pordenone.
L'arrivo in zona sarebbe dovuto avvenire in modo analogo a quanto attuato per
De Carlo e Bottecchia.
69
Il capitano Gelmetti, dal canto suo, si offrì di trasportare i due fratelli e la data
era stata fissata al 5 giugno ma dopo l'esperienza fatta con De Carlo Gelmetti
giudicò impossibile un viaggio in condizioni di luna al tramonto.
Improvvisamente un'idea: Giuseppe e Nicolò De Carlo avrebbero preso
terra .. .in acqua e cioè a bordo di un idrovolante che avrebbe ammarato nelle
acque del canale Nicesolo, nella laguna di Caorle.
Era il 29 luglio 1918.
Vestiti da pescatori i due fratelli raggiunsero la strada San Stino di LivenzaPortogruaro movendo in direzione di Blessaglia.
Privi di documenti i due agenti avrebbero dovuto spostarsi di notte ma così
facendo non avrebbero potuto "osservare", cosa che, dopo tutto, era lo scopo
della loro missione. Decisero quindi di muoversi di giorno ma distanziati tra
loro in modo che, in caso di cattura di uno, l'altro avrebbe potuto proseguire la
missione.
Il 18 agosto un nostro "Caproni" che aveva il compito di rifornire di gabbiette
contenenti piccioni i due agenti, sorvolò il cielo di Azzano Decimo attardandosi
e continuando a volteggiare su quel tratto di cielo.
Questo insospettì la gendarmeria che, convinta che il velivolo avesse a che fare
con informatori, operò arresti in massa tra la popolazione con l'accusa di
"intelligenza con il nemico" e nutrendo speranza che qualcuno parlasse.
Dagli interrogatori non emerse alcunché di preciso ma qualcosa comunque
doveva essere trapelata se qualche giorno dopo squadre di gendarmi presero a
dare la caccia a possibili informatori italiani.
Gli stessi De Carli, un giorno, vennero informati che due individui,
spacciandosi per piloti italiani abbattuti, chiedevano di essere messi in contatto
proprio con loro due, dimostrando cosi di essere ben a conoscenza di fatti e
circostanze.
Naturalmente i due fratelli non abboccarono e anzi mandarono a dire di essere
già rientrati dietro le linee amiche.
Tutto ciò lascia però presumere come anche il servizio informazioni austriaco
avesse occhi ed orecchie oltre Piave.
Il 13 ottobre Nicolò De Carli, che assieme alla mamma si recava presso un
conoscente per avere da lui notizie, venne preso da una pattuglia e rinchiuso
nelle locali prigioni.
La madre, interrogata, negò di conoscerlo e tutto ciò riporta alla mente la
vicenda già vissuta a Capodistria dall'irredento Nazario Sauro.
Un ufficiale informò Nicolò De Carli che alle 02.00 del giorno successivo
sarebbe stato tradotto a Portogruaro dove, dopo un sommario giudizio, lo
avrebbero giustiziato.
Nicolò De Carli non attese le 02.00.
Con una spallata, amplificata dalla forza della disperazione, abbattè la porta
della cella dandosi velocemente alla fuga tra il fischiare delle pallottole.
70
Si nascose per alcune ore all'interno di un pozzo nero fino a quando ritenne di
poter uscire senza correre particolari rischi.
Ricordandosi poi che quel giorno, era il 18 ottobre, un velivolo avrebbe dovuto
eseguire un nuovo lancio di gabbie con piccioni e dovendo mettere in atto
segnalazioni per agevolare il lavoro del pilota, ritenendo che il fratello fosse
precauzionalmente riparato altrove, si recò presso la residenza di Azzano dove,
invece, trovò il fratello Giuseppe che aveva già predisposto tutte le
segnalazioni.
I due fratelli vennero raggiunti dalle nostre truppe marcianti verso est dopo la
vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto.
Si saprà, a fine conflitto, che i due De Carli individuarono e segnalarono
l'esistenza di batterie pesanti posizionate attorno ad Oderzo, opere di
fortificazione campale tra Tagliamento e Livenza, un grande deposito munizioni
ad Annone Veneto e l'afflusso al Piave di due nuove divisioni provenienti dalla
regione del Tonale.
Uno tra gli informatori che maggiormente contribuirono all'acquisizione di
notizie in grado di far vincere all'Italia il conflitto fu un altro vittoriese: il
tenente Alessandro Tandura.
Lo scoppio del conflitto trova Tandura caporale nel 2° reggimento di fanteria di
stanza a Sacile.
Entrato in linea con il suo reggimento viene gravemente ferito sul Podgora tanto
da essere giudicato permanentemente "non idoneo" alle unità mobilitate.
Ottiene, però, di essere assegnato alla 333• compagnia mitragliatrici Fiat e,
presso il 220° reggimento di fanteria (brigata "Sele") frequenta il corso allievi
ufficiali e, con la qualifica di aspirante, è assegnato al 158° reggimento della
brigata "Liguria".
Promosso sottotenente è destinato al 163° reggimento della brigata "Lucca"
presso il quale contrae una grave malattia per la quale ottiene, dopo il ricovero
all'ospedale militare di Verona, una licenza di convalescenza di sei mesi alla
quale rinuncia per arruolarsi nel XX Reparto d'Assalto.
Dopo la rotta di Caporetto Tandura è convocato al Comando dell'8• Armata a
Resana dove il Capo dell'Ufficio Informazioni, senza tanti preamboli, gli
propone di farsi paracadutare nei pressi di Vittorio per svolgervi attività
informativa.
Tandura non ha un attimo di esitazione.
Viene concordato un cifrario e viene individuata la zona più idonea al lancio: i
prati di Sarmede.
Il decollo avviene il 9 agosto 1918, a bordo di un velivolo tipo Savoia-Pomilio
da bombardamento appositamente modificato, dall'aerocampo di Villaverla, nel
vicentino.
Ai comandi del velivolo c'era il capitano britannico sir Benn Wedwood,
parlamentare alla camera dei Comuni.
71
Il tennine della missione ed il rientro dietro le linee era stato fissato per il 30
settembre con il recupero di Tandura a nord di Pordenone, alla confluenza del
Meduna-Cellina.
Lo stesso 9 agosto 11 velivoli della squadriglia "Serenissima", capeggiata dal
solito D'Annunzio, avevano volato su Vienna lanciando volantini multicolori.
Le avverse condizioni meteorologiche ingannarono il pilota che, convinto di
essere giunto sulla verticale di Sannede, lancia Tandura su San Martino di Colle
Umberto.
Non senza difficoltà Tandura raggiunge la residenza che era stata fissata su Col
del Pel, alle falde del Col Visentin.
Tramite una sconosciuta signora, Tandura riesce a far avvertire la sorella che lui
si trova sulla montagna e, a lei ed alla fidanzata Emma Petterle, rivela il motivo
per cui si trova li.
Più volte, durante la sua pennanenza nel Vittoriese, Tandura ha modo di
incontrare gruppi di militari, prevalentemente alpini e bersaglieri appartenenti
alla 4• Armata del Cadore che rimasero tagliati fuori, durante il ripiegamento al
Grappa, dalla veloce progressione nemica.
Non avevano abbandonato le anni nè si erano arresi agli austro-ungheresi.
Li comandava un capitano dell' 11° reggimento bersaglieri anche lui tagliato
fuori: Luigi Ardoino.
Tandura ha occasione di incontrarsi con Ardoino al quale si rivela e da lui
ottiene informazioni che può trasmettere al Comando dell'8• Armata
Durante la sua permanenza Alessandro Tandura, in un tentativo di scendere a
Serravalle per andare a trovare gli anziani genitori, viene preso da una pattuglia
di gendanni e condotto nelle carceri presso il locale "castrum" e dalle quali
rocambolescamente riesce a fuggire.
Un secondo tentativo di rivedere i genitori riesce pienamente.
Dopo aver ascoltato quanto i genitori avevano da raccontargli su quello scorcio
di anno trascorso sotto occupazione austriaca, Tandura chiede di poter
incontrare don Apollonio Piazza, cappellano militare dell' 11° reggimento
bersaglieri, anche lui rimasto tagliato fuori durante il ripiegamento ed ora,
grazie al vescovo di Vittorio, Mons. Beccegato, alla guida della curazia di Santa
Giustina.
A don Apollonio Tandura chiede se può farlo incontrare con il tenente Pagnini
che, come già detto, era il Comandante del Posto Tappa di Vittorio.
L'incontro avviene la stessa notte, verso la mezzanotte, a casa dei genitori di
Tandura.
Pagnini si rammarica di essere conosciuto come ufficiale austriaco ma Tandura
lo tranquillizza dicendogli che all'Annata si sa quanto fa in favore della causa
italiana.
72
L'ufficiale "austriaco" ha con sé tutto l'occorrente per consegnargli un
"ausweiskarte" che viene compilata con i veri dati di Tandura per evitare che
possa tradirsi in caso fosse stato fermato ed interrogato.
Nel documento Tandura sarà, come De Carlo, un bracciante agricolo.
Intanto Emma Petterle, alla quale gli austriaci avevano requisito una stanza
della sua abitazione, fornisce al fidanzato un'informazione certamente tra le più
importanti: il maggiore del genio austriaco che alloggia nella stanza che gli era
stata requisita dimenticò, una mattina, una carta topografica aperta sulla
scrivania.
La donna, recandosi nella camera per fare le normali pulizie vide la carta e non
gli ci volle molto per comprendere che vi era segnato il tracciato per la
costruzione di una teleferica che, partendo dalla stazione ferroviaria di
Sant'Andrea (in costruzione), giungeva sino a Polpet nel bellunese.
Ciò avrebbe consentito agli austriaci di far giungere armi, munizioni e
quant'altro al Monte Grappa attraverso la Valbelluna evitando così più lunghi
giri attraverso l'Austria
Ma il meglio è sempre Pagnini che lo fornisce e, in particolare, informa Tandura
che sul fronte dell'8• Armata sono schierate ben sei divisioni ed altre tre sono in
afflusso dal Friuli e saranno schierate sulla seconda linea.
Intanto, lungo l'asse stradale Vittorio-Conegliano vengono predisposte cataste
di munizioni ed altre vengono posizionate lungo le direttrici di arroccamento.
Le difese degli aeroporti di San Giacomo di Veglia, La Comina, Gemona, F eltre
e Belluno vengono integrate con altri sistemi d'Arma mentre a Spilimbergo è in
allestimento un capace deposito carburanti.
Queste notizie confermano a Tandura che il dispositivo austriaco è in
movimento e dunque qualcosa sta per accadere.
Non può trattarsi di una manovra offensiva austriaca perché non è stato
osservato materiale da ponte indubbiamente indispensabile per superare il corso
del Piave.
In secondo luogo lo schieramento delle unità in profondità lasciava intendere
che gli austriaci stessero predisponendosi per sostenere una battaglia difensiva.
Tandura compila un messaggio e lo affida ad un piccione: chiede che gli venga
paracadutata la sua uniforme perché è sicuro che gli italiani entreranno a
Vittorio e lui vuole accoglierli in uniforme.
Non si farà in tempo a fargli pervenire l'uniforme.
Un giorno un Caproni, proveniente dal Col Visentin, esplode tre raffiche di
mitragliatrice contro il cielo.
E' il segnale che la missione di Tandura è conclusa e che dovrà farsi trovare a
"Casa del Dandolo", alla confluenza del Meduna-Cellina, dove un velivolo
l'avrebbe recuperato.
73
Non raggiungerà mai il "Dandolo" perché a Sarone viene preso da una pattuglia
di gendarmi che, trovandolo privo di lasciapassare per quella zona, lo rinchiude
a Sacile in una cella ricavata nella sua vecchia Caserma.
Imbarcato con altri prigionieri in una carrozza ferroviaria diretta in Serbia,
all'altezza di Fontanafredda Tandura riesce a fuggire dal treno attraverso un
finestrino mancante del vetro.
Tornerà a Vittorio e qui attenderà la fine del conflitto.
Tornato a Resana al Comando dell'8• Armata nessuno vuol credere che sia vivo
perché, nei primi giorni di ottobre era giunto un messaggio in cui si diceva che
Tandura era stato fucilato ....
Il messaggio era stato inviato da un'altra coppia di agenti: Pier Arrigo Barnaba
e Ferruccio Nicoloso, entrambi di Buia di Udine.
I due operavano a nord di Udine e li seppero da alcuni contadini che nei primi
giorni di ottobre alcuni gendarmi avevano catturato e fucilato un ufficiale
italiano piccolo, bruno, con la camicia nera e dall'inconfondibile accento
veneto.
Barnaba e Nicoloso sapevano che in quei giorni Tandura, al quale la descrizione
si adattava perfettamente, doveva trovarsi nei pressi di Spilimbergo per essere
recuperato e dunque ritennero che quell'ufficiale fosse lui e cosi trasmisero la
ferale notizia al Comando dell'8• Armata.
Circa l'operato di Barnaba e Nicol oso si sa molto poco, anzi non si sa proprio
nulla giacchè il carattere dei due ufficiali era quello classico delle genti friulane:
schivo e riservato.
Mai i due hanno rivelato particolari della loro missione, neanche a conflitto
concluso.
Per di più Nicoloso durante il fascismo venne coinvolto nell'attentato a
Mussolini messo in atto da tale Zaniboni e, nella considerazione dei meriti che
aveva acquisito per il suo comportamento durante il conflitto, venne "graziato"
dall'accusa purchè abbandonasse il territorio nazionale, cosa che egli fece
prontamente.
Caduto il fascismo s'imbarcò per rientrare in Patria ma un infarto lo stroncò
durante la traversata e le sue spoglie riposano in mare, come si usava una volta
presso tutte le marinerie.
Per tornare alla missione di Barnaba e Nicoloso v'è da osservare che solo nel
1958, a quarant'anni da quelle vicende, cedendo alle bonarie insistenze del
direttore del quotidiano friulano "Messaggero Veneto", Barnaba si decise a
scrivere qualcosa sulla vicenda di cui fu protagonista.
Il pudore però fece si che limitasse il racconto ai soli preparativi dell'azione.
Barnaba ci spiega anche perché la sua azione, quella di Nicoloso e quella di
Tandura iniziarono con un lancio con il paracadute anziché con l'atterraggio di
un velivolo su suolo nemico o a mezzo di motoscafo o tramite un idrovolante.
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Il fatto è che nell'ambito dell'8• Annata non esistevano velivoli tipo "Voisin",
idonei al trasporto di due agenti come avvenne per le coppie De CarloBottecchia, Giuseppe e Nicolò De Carli o della coppia Pavan-Mattioli di Sacile
di cui però oggi non parleremo e che, comunque, atterrarono nei prati alla
periferia di Sacile.
Peraltro l'Italia, in quel periodo, non aveva ancora paracaduti e quelli impiegati
dai nostri infonnatori erano di progettazione e fattura britannica.
Come per Tandura anche per Barnaba e Nicoloso venne impiegato un velivolo
tipo Savoia-Pomilio da bombardamento appositamente modificato.
Poiché il velivolo poteva portare un solo passeggero per volta Barnaba e
Nicoloso goliardicamente si giocarono chi avesse dovuto effettuare il viaggio
per primo.
La sorte favori, se cosi si può dire, Ferruccio Nicoloso che decollò dal campo di
volo di Tessera il 23 ottobre 1918.
Già poche ore dopo si venne a conoscenza, per mezzo di un messaggio affidato
ad un piccione, che Nicoloso aveva si preso terra senza incidenti ma in una zona
diversa da quella prevista.
Nella caduta erano andate distrutte tutte le gabbiette tranne una e, infine,
Nicoloso comunica di essere stato costretto a distruggere tutto quanto aveva con
sé in particolare le carte topografiche ed il cifrario e a bruciare il paracadute.
Circa la missione in generale, si sa che era denominata "A.R.A.G. nord" dove
A.R.A.G. era l'acronimo di "Anneausbildungruppe" cioè "gruppo centri di
raccolta" che erano i gruppi di addestramento dei giovani coscritti e degli
anziani recuperati da ospedali e convalescenziari e con i quali venivano fonnati
i battaglioni di marcia destinati ad alimentare i reparti di 1• linea.
Come si può facilmente intuire dal quadro generale sin qui fatto, il piano messo
in atto dal nostro Comando Supremo era veramente completo in quanto aveva
previsto come gli agenti dovessero operare alle diverse distanze dal fronte:
De Carlo, Bottecchia e Tandura nelle immediate retrovie;
I fratelli De Carli alle medie distanze;
Barnaba e Nicoloso alle maggiori distanze.
E venne, anche per Barnaba, la notte del 24 ottobre.
Sul Grappa, all'alba dello stesso giorno, avrebbe avuto m1z10 la manovra
offensiva italiana che sarà conosciuta con il nome di "battaglia di Vittorio
Veneto".
Diversamente da Nicoloso, Barnaba decollò dall'aeroporto di Marcon, sempre
nell'entroterra veneziano.
Data la pericolosità della missione venne consentito a Nino, fratello maggiore di
Pier Arrigo Barnaba e capitano in un reggimento alpino, di raggiungerlo a
Marcon per un saluto, quasi fosse una sorta di estrema unzione.
Il Comandante del campo, maggiore Carnevali, volle imbarcarsi egli stesso
come osservatore sul velivolo pilotato dal sergente maggiore Giussani.
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Prima del decollo venne studiata la rotta più sicura che avrebbe potuto evitare
l'inconveniente occorso a Nicoloso. Una volta superato il Piave il velivolo
avrebbe puntato verso il Tagliamento nel tratto compreso tra Casarsa e
Codroipo.
Di qui, con una virata a sinistra avrebbe seguito il corso del Tagliamento sino al
monte di Ragogna dove si viene a formare la cosiddetta stretta di Pinzano.
Barnaba, che sarebbe partito indossando la sua uniforme alpina e avrebbe
portato con sé uno zaino contenente due bombe a mano, cartucce da pistola, il
cifrario, alcune carte topografiche, una torcia elettrica, alcuni pacchetti di
medicazione, scatolette di carne, gallette e qualche effetto personale ed un
vestito da contadino.
Al cinturone aveva una pistola, un pugnale ed una borraccia di cognac mentre
dal cinturone al mento aveva tutta una serie di gabbiette contenenti piccioni.
Vediamo ora come doveva avvenire il trasferimento dell'informatore che, più
che lanciarsi, veniva fatto cadere dall'aereo nel vuoto.
Oggi che siamo abituati a vedere astronauti che si muovono nello spazio la cosa
potrà anche far sorridere ma, allora il solo pensiero che si ci potesse lanciare nel
vuoto era un qualcosa che andava oltre il buon senso ed il raziocinio.
L'alloggiamento per il paracadutista era stato ricavato in fondo alla carlinga
stessa realizzando una tavoletta che fungeva da sedile e che era fissato al fondo
della carlinga per mezzo di due robuste cerniere.
Il fondo della carlinga era aperto e quindi il paracadutista poteva stare seduto
con le gambe penzolanti fuori del velivolo.
La tavoletta-sedile era poi fissata al telaio per mezzo di due spinotti collegati ad
una funicella che, camminando lungo tutto il velivolo, arrivava nelle mani
dell'osservatore.
Una volta che il velivolo giungeva sulla verticale della zona di lancio,
l'osservatore tirava la funicella, i due spinotti si sganciavano e la tavolettasedile, roteando sulle cerniere, si sarebbe aperta lasciando cadere nel vuoto il
paracadutista.
Così, dunque, Tandura, Barnaba e Nicoloso effettuarono i primi lanci.
Tornando alla fase conclusiva del lancio, Barnaba racconta che immediatamente
e nonostante l'ancora scarsa luminosità della notte, riconosce i luoghi noti e cari
poi, improvvisamente, i motori vengono portati al minor numero di giri ed il
velivolo comincia a planare portandosi a 6-700 metri.
Quando meno se lo aspetta, Barnaba precipita nel vuoto con la testa in giù
finchè non si sente richiamare in su dalla calotta del paracadute che, aprendosi,
rallenta di molto la velocità di caduta.
Questo, però, non serve a mettere Barnaba nel giusto assetto e così, in quella
scomoda posizione, prende terra in un campo di mais.
76
Il povero Barnaba resta intontito, con lo sguardo fruga il cielo alla ricerca del
velivolo che per lui rappresenta l'ultima appendice che lo lega, in qualche
modo, alla Patria.
Nel primo biancore dell'alba vede il Savoia-Pomilio che ormai è solo un piccolo
punto sul Tagliamento.
Il dolore provocatogli dalla caduta ed il freddo per aver viaggiato con le gambe
fuori del velivolo hanno il sopravvento su di lui che cede alla tentazione di
lasciare nel più breve tempo quel luogo sul quale, da un momento all'altro,
poteva piombare la gendarmeria.
Barnaba cerca affannosamente la borraccia per bere un sorso di cognac ma
scopre che nella caduta si è rotta ed il liquido si è disperso sul terreno.
Non gli resta che succhiare il panno della borraccia e quelle poche gocce gli
danno subito tono.
Si libera del paracadute e raccoglie tutto il materiale.
Nella caduta è andata persa una sola gabbietta che verrà ritrovata il giorno
successivo dalla gendarmeria e questo farà si che la polizia si metta sulle sue
tracce.
Sente vicino lo sbuffare di una locomotiva nella vicina stazione di Majano.
A cento metri da lui corre la grande rotabile Osoppo-San Daniele-Codroipo.
Barnaba si calca sul capo il cappello alpino, si carica sulle spalle lo zaino e, a
scanso di equivoci, impugna la pistola.
Le prime luci dell'alba conferiscono alla campagna che lo circonda un aspetto
spettrale. Comincia per Barnaba la grande avventura ...
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Il povero Barnaba resta intontito, con lo sguardo fruga il cielo alla ricerca del
velivolo che per lui rappresenta l'ultima appendice che lo lega, in qualche
modo, alla Patria.
Nel primo biancore dell'alba vede il Savoia-Pomilio che ormai è solo un piccolo
punto sul Tagliamento.
Il dolore provocatogli dalla caduta ed il freddo per aver viaggiato con le gambe
fuori del velivolo hanno il sopravvento su di lui che cede alla tentazione di
lasciare nel più breve tempo quel luogo sul quale, da un momento all'altro,
poteva piombare la gendarmeria.
Barnaba cerca affannosamente la borraccia per bere un sorso di cognac ma
scopre che nella caduta si è rotta ed il liquido si è disperso sul terreno.
Non gli resta che succhiare il panno della borraccia e quelle poche gocce gli
danno subito tono.
Si libera del paracadute e raccoglie tutto il materiale.
Nella caduta è andata persa una sola gabbietta che verrà ritrovata il giorno
successivo dalla gendarmeria e questo farà si che la polizia si metta sulle sue
tracce.
Sente vicino lo sbuffare di una locomotiva nella vicina stazione di Majano.
A cento metri da lui corre la grande rotabile Osoppo-San Daniele-Codroipo.
Barnaba si calca sul capo il cappello alpino, si carica sulle spalle lo zaino e, a
scanso di equivoci, impugna la pistola
Le prime luci dell'alba conferiscono alla campagna che lo circonda un aspetto
spettrale. Comincia per Barnaba la grande avventura ...
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Aldo Toffoli
Le monache di Santa Giustina, Giovanni Antonio
Flaminio e il vescovo Giovanni Grimani
La maggioranza degli storici attribuisce la fondazione del Monastero di Santa
Giustina a Sofia di Colfosco. Sta di fatto che nel documento di donazione fatta
ai Monaci Cistercensi di Follina il 18 giugno 1170<1l (tra l'altro, uno dei
primissimi documenti in cui si cita il nome di Serravalle) si parla di una Santa
Giustina "de Runchis", e tutti gli storici suddetti concordano nel dire che si
tratta proprio della Santa Giustina a nord di Serravalle.
Il 6 aprile 1228 la Chiesa (costruita, a parere di alcuni storici, ad opera di
Gabriele III da Camino negli anni immediatamente precedenti: il documento di
cui trattasi e quello successivo del 29 aprile 1228<2l dicono infatti la chiesa
"nuper edificata") viene ceduta dall'abate Anselmo di Follina al vescovo
Alberto di Ceneda (alla presenza, tra i testimoni, dello stesso Gabriele da
Camino). Il vescovo Alberto poi, ad istanza di Gabriele, cede la Chiesa a
Pietrobono, nunzio e procuratore di fra Giordano Forzatè, Priore del Monastero
di San Benedetto di Padova.
Il 30 aprile 1228 Gabriele concede alla Chiesa di Santa Giustina una dozzina di
pezze di terra, venti mansi delle curie di Serravalle, Valmareno e Soligo,
venticinque zoie di terra, nonché tutta una serie di diritti e privilegi (tra cui
quello di pescare e gambarare nelle acque del Canal), dietro pagamento
dell'affitto annuale di due denari per la luminaria dell'altare della Santa<3l_ Si
tratta all'evidenza di una cifra simbolica, che aveva solo la funzione di garantire
a Gabriele il mantenimento dei diritti feudali o allodiali sui citati immobili
nonché, eventualmente, di avvantaggiarsi degli ampliamenti che in seguito
l'ente affittuario avesse fatto al patrimonio avuto in uso. Fatto nemmeno tanto
eccezionale, a quei tempi. Un ampliamento, ad esempio, è registrato in un
documento del 1237, in cui si attesta che Ugo, priore di S. Giustina, acquista
cinque pezze di terra in Maren<4l_
Nel 1279 ha luogo, nella storia della Chiesa e dell'annesso Monastero, una
svolta radicale.
Soprana da Camino, figlia di Biaquino di Guecello, capostipite dei Caminesi di
Sopra e fratello di Gabriele III, e sorella del "buon Gherardo" di dantesca
memoria, rimasta vedova di Ugone di Towres (probabilmente Tures o Taufers)
senza figli, decide nel 1261 di tornarsene a casa, cioè a Serravalle. Qui per
breve tempo risiede nel Castello, dimora di suo padre Biaquino. Poi ad un certo
punto sente nascere la vocazione religiosa (forse sulla scia di quanto accaduto a
sua zia Aica (o Gaia), sorella di suo padre, che rimasta vedova, aveva deciso di
78
abitare in Padova presso il Monastero di San Benedetto vecchio e decide di
abitare in una casetta posta sull'isola del Meschio proprio di fronte al Monastero
di Santa Giustina. Non sappiamo quando questa decisione di Soprana avvenne,
né quanto tempo essa se ne stette, tutta sola, nella casetta del Meschio.
Quel che è certo è che nel 1279 le cose, riguardo alla chiesa e al monastero di
Santa Giustina, cambiano del tutto.
Un documento del 20 gennaio di quell'anno< 5l attesta che Adam, Priore del
Monastero di Santa Giustina, dona a Soprana il Monastero stesso, con le varie
pertinenze esistenti intra muros Seravalli. Tutte le rimanenti proprietà, diritti e
giurisdizioni (vari mulini, circa venti mansi, ecc.) restano ali' Adam e a un suo
"scolaro" vita natural durante; alla fine della quale tutto passerà a Soprana. Si
noti che alla stesura dell'atto è presente, tra gli altri, Gherardo, fratello di
Soprana, di fatto il capo del ramo dei Caminesi di Sopra.
Il senso di tale atto si chiarisce alla luce di quello posteriore, che lo integra e
corregge, del 4 giugno dello stesso anno<6l, con cui donna Anna, badessa del
Monastero di San Benedetto vecchio in Padova, alla presenza di tutte le sue
Monache (trentotto) nonché dei rappresentanti del vescovo di Padova e di altri,
tra cui Manfredo, qm. Pietro Gallo di Serravalle, dà il suo consenso a che il
Monastero di Santa Giustina, con tutti suoi beni, pertinenze e giurisdizioni,
passi in proprietà di Soprana (presente all'atto attraverso il suo procuratore,
giudice Gabriele dal Negro, padovano) in permuta con una proprietà del valore
di seicento lire, da procurarsi entro un triennio nel distretto di Padova, a favore
dei frati benedettini del Monastero nuovo di Padova, "in onore di Dio, della
vergine Maria e di Santa Giustina, ad reparationem loci et Ecclesie infrascripti,
qui quidem desolatus erat, et quia dieta nobilis habens bonum et sanctum
propositum intendit tam pro se quam pro aliis presentibus et futuris locum et
claustrum constituere dominarum sive sororum in perpetuum
permansurarum "<1l.
Soprana diventa quindi badessa di un convento dell'Ordine di San Benedetto di
Padova, a partire dal 1279. L'ultimo documento che la ricorda è del 1291<8l, e
non si conosce la data della sua morte. Sappiamo che ad un certo punto la
comunità passa alla Regola dei Canonici Lateranensi di S. Agostino. Secondo il
Laurenti, questo avviene con Soprana, quindi presumibilmente prima del 1300.
Le ragioni di questo cambio non si conoscono, ma è probabile che siano di
natura politica: l'Ordine dei Benedettini padovani era infatti troppo legato alle
ragioni del Comune di Padova per non creare problemi ai Caminesi, che ormai
avevano eletto Santa Giustina come Chiesa di famiglia
(una specie di
Cappella). Prova di ciò, sia la presenza dei suoi esponenti in tutti i momenti
principali della storia del Monastero, sia la stessa politica di ampliamento delle
possessioni del Monastero, attuata con convinzione da Soprana, in genere
rivolta ai territori a sud est del Monastero, cioè in direzione di quel Friuli che è
sempre stato oggetto dei disegni politici di espansione dei Caminesi, di Sopra e
79
di Sotto. E a questo proposito è significativo che, agli atti di acquisto di un
manso di notevole estensione in quel di Anzano (26 agosto e 2 settembre
1290t), faccia seguito il 12 settembre un atto formale in cui Gherardo laudavit
ratificavit homologavit et approbavit la vendita .....da parte di un certo
Noxadinus di Olarigo a suor Agnese per conto del Monastero<10>. Come dire
che l'autorità sovraordinata a tali atti era di Gherardo.
Alla stesura dell'atto del 2 settembre 1290 è registrata la presenza di sette suore
più Soprana. Il Laurenti dice che Soprana si ritirò nel convento "con molte
vergini", ma l'espressione è certo esagerata. Il fatto però che esso convento
funzioni ancora nel 1810 (quando viene soppresso per decreto napoleonico),
dimostra la sua indubbia vitalità.
Ma della vita del convento, nel XIV e XV secolo, non abbiamo quasi più
notizie. Anche perché, com'è noto, le carte pubbliche serravallesi furono quasi
tutte distrutte dalla "rabbia contadinesca" (Laurenti) dell'invasione "amica"
nell'ambito delle vicende di guerra tra Venezia e la Lega di Cambrai (1509).
Resta la curiosità di conoscere le vicende del patrimonio del Monastero, che
negli anni, dai conferimenti iniziali di Gabriele di Gabriele, alle successive
acquisizioni soprattutto ad opera di Soprana, si era andato ingrandendo
notevolmente. Carte non ne rimangono, ma gli atti successivi alla morte di
Rizzardo VI e alla fine conseguente dei Caminesi di Sopra (1335) non parlano
di questioni patrimoniali, e Venezia, che si tiene Serravalle per quattro secoli e
mezzo praticamente senza soluzione di continuità, non è molto interessata ad
esse. Per cui è facile congetturare che il tutto sia rimasto senza obiezioni al
Monastero, e che quindi i calcoli di Gabriele che, ricordiamo, aveva solo "dato
in affitto", sia pur simbolico, tutto l'insieme dei beni oggetto del suo
conferimento, contando, come si è detto, sull'iniziativa dei frati per vederselo
senza fatica ingrandito nel tempo, si dimostrarono errati, essendo andate le cose
esattamente alla rovescia rispetto alle sue previsioni.
Altra facile congettura è che nel Tre-Quatrocento il patrimonio del Monastero si
sia ulteriormente ingrandito anche per i successivi apporti dovuti alle doti delle
giovani serravallesi che entravano in convento. Che non dovettero essere poche,
per quel che si sa. Per cui il patrimonio immobiliare del Monastero, alla fine
del '400, era uno dei più cospicui, se non il più grande in assoluto, dell'intera
Serravalle. Che quel patrimonio considerava un poco come suo, perché in esso
vedeva in qualche modo rappresentata la volontà dei suoi avi, nonché la storia
delle sue stesse famiglie.
La vita del Monastero, quindi, non poteva non essere oggetto dell'attenzione e
della cura di tutti: là dentro c'erano le figliole di molti serravallesi, e si può
pensare che le notizie dall'interno uscissero copiose, superando le barriere
canoniche della censura. Non possiamo sapere però se e come di ciò sia stato
trattato in sede pubblica, nelle riunioni dei Consigli Maggiore o Minore (le
carte, come detto, erano state distrutte).
80
Degli anni fino al 1509 ci restano solo pochi fogli, lacerati e in larga misura
illeggibili.
Ma da essi qualcosa emerge, a proposito del Monastero di Santa Giustina, ed è
una specie di notizia-bomba.
Nella seduta pubblica del Consiglio Maggiore del 20 giugno del 1502<11>,
presenti tra gli altri Francesco De Marchi, Tommaso Cenedese (fratello, questi,
di quella Veturia che sposerà Giovanni Antonio Flaminio e sarà madre di
Marcantonio), Guidotto Racco la (che di Giovanni Antonio era e sarà sempre
amico carissimo), Florio Filomena prende la parola per denunciare
pubblicamente che la badessa del convento, donna Giovanna, è solita consentire
che si introducano nel Monastero uomini forestieri contra omnem honestatem
13>_ Quei forestieri, si può pensare, non
<12>,tra l'altro virginibus volentibus<
entravano per studiare il catechismo, e questo lo fa capire Florio Filomena, e chi
lo ascoltava non stentava certo a credere. Ma oltre a ciò questa presenza si
traduceva anche in un danno economico e portava a dissipare i beni del
Monastero, i cui proventi, secondo la volontà dei padri dei serravallesi, che il
patrimonio avevano costituito, dovevano andare a sollievo dei poveri.
Bisognava intervenire e, se del caso, cacciare le monache indegne.
Il Consiglio decide di fare un'indagine, di cui incarica il consigliere Pietro
Carretta, affinché raccolga le prove di quanto denunciato, perché senza di esse
non sarebbe stato possibile provvedimento alcuno.
Il Carretta fa la sua parte, e poi la presenta a mons. Angelo Leonino, vescovo di
Tivoli, mandato dalla Santa Sede (si pensa anche per intervento del vescovo di
Ceneda Francesco Brevio) perché provveda. La decisione del vescovo Leonino
è pressoché immediata (evidentemente le prove dei fatti erano palesi): il 10
luglio emana un decreto in cui proibisce severamente che nel Monastero entrino
uomini, ed ammonisce le Monache a comportarsi bene.
Come dire, con tutto il rispetto, "acqua fresca!".
Qualche risultato, comunque, ci deve essere stato, perché per qualche anno la
cosa viene messa a tacere.
Ma 1'8 aprile 1515 la questione torna alla ribalta, in modo ancora più
clamoroso.
Lascio la parola allo storico serravallese Laurenti che, come si sa, segue
pressoché alla lettera il testo dei Libri delle Parti.
Dice il Laurenti, traducendo sostanzialmente il testo della "Parte" di quella
seduta:
"Venne dunque esposto nel Consiglio, come pochi giorni prima essendosi
portato il M° Podestà, ed alcuni Cittadini al Convento di S. Francesco, dove
allora si trovava il loro Provinciale, il Podestà aveva tenuto discorso sulla
cattiva vita e condotta di quelli Religiosi, come pure della mala
amministrazione del/i Beni del Convento, dicendogli, che tutta la Popolazione
mormorava contro di quelli, onde lo pregava ad usare ogni diligenza per ridurli
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a vivere onestamente, e con buon esempio, conforme veniva prescritto dalla
loro professione, e che desse opera, che li Beni del Convento non fossero
malamente impiegati, nel saziare li vizi de discoli, ma in quelli usi, che
venivano prescritti dalle loro regole. Dicendogli, che il suo Barigello più fiate
ne avea trovati di quelli di notte tempo con Armi. Ma siccome il Provinciale
era partito senza lasciare alcun provedimento, perciò doveasi esaminare di
trovar mezzi di ridurre quei Frati a vivere onestamente, e secondo il loro
instituto, e che le rendite del Convento fossero impiegate in usi onesti, e non
scandalosi, e di loro capriccio. Francesco Marchi avendo ciò sentito s'alzò e
disse: - Che era cosa lodevole, che li Beni della Chiesa non fossero malamente
dilapidati, e che li Ministri dovessero vivere da Religiosi. Ma poiché non s'era
fatta menzione delle Monache di S. Giustina riputava pure, che era necessario,
ed ancor più pressante discorrere sopra il contegno di quelle, e sulla cattiva
amministrazione de loro Beni, e cattivi usi, in cui per lo più impiegavano le loro
entrate.
Signori - disse - vi è noto come hanno esse pingue patrimonio, ma quelle non
nel bene del Monastero, ma nelli loro comodi particolari, ed in cattivi, e
disonesti usi da esse viene consumato' 14>_
Non hanno alcun pensiero del buon regime del Convento e meno ancora del
Governo delle loro entrate, e mantenimento delle Possessioni, da cui
potrebbero ricavare il doppio, onde ne risulta da tale trascuratezza, e disonore
al Convento e danno al benessere della loro Comunità. Intente soltanto allo
sfogo delle loro lubriche passioni, né del loro onore, né di quello del
Monastero. Però SS.ri se non troveremo modo di porvi rimedio, la Mano del
Signore che già ha incominciato a farsi sentire sopra di Noi, che ne dobbiamo
avere la vigilanza, sempre più ci farà sentire gli effetti della sua collera. Esso
non può più sentire, che li vasi del suo Tempio, che devono essere custoditi nelli
luoghi più secreti, vadano pubblicamente attorno, e si disperdano per le Piazze
di Babilonia. Quale di Noi è che non ne abbia vedute alcune di queste con
petulante sfacciataggine, e sfrontatezza, e senza alcuna continenza religiosa,
passeggiare in faccia di tutti quelli Borghi, e luoghi suburbani accompagnate
da loro drudi ?<15>_ Cosicché più alcuno di Noi non si arrischia di porre le sue
Figlie presso di quelle, essendo pericoloso il navigare tra Scilla, e Carridi. Le
persone che sono dedicate al servizio del Tabernacolo del Signore devono
mostrarsi di buon esempio, altrimenti il sale quando ha perduto la sua qualità
non è più buono, che da gettar via, e venir calpestato da passegieri. A Noi
dunque tocca rimediarvi, e fare provvedimento, che queste, che devono tenere
nelle mani le lucerne ardenti, non menino, e vivano in turpe, e detestabile vita
con disonore della chiesa di Dio, e scandalo dei fedeli ... A pieni voti fu lodato
un tale discorso, e poi si prese Parte, che fossero elletti quattro delli migliori
con amplissima facoltà di presentarsi a qualunque Giudice secolare, o
ecclesiastico, e se fosse necessario eziandio alla Corte Romana nper suplicare
82
Sua Santità, o dove paresse meglio per ottenere, che le suddette Monache
vivessero onestamente, e secondo i loro costituti". Li Deputati eletti furono:
Guidotto Racco/a, Pietro Carretta, Francesco Marchi e Giorgio Sarmede" <16>.
Ma le proteste dei serravallesi non pervengono a chi di dovere o, se pervengono,
non vengono ascoltate.
Lo ammette amaramente il Laurenti, commentando quanto sopra:
"Ma fa di mestiere supporre, che questl 17) poco operassero, o che venissero
attraversad 18> nel/i Provvedimenti. Perché del 1520 si trova una lettera di Gio.
Antonio Flaminio diretta al Cardinal Domenico Grimani vescovo di Ceneda, in
cui fa un lacrimevol quadro della dissolutezza di quelle Monache"<19>.
E' questo il periodo in cui la Diocesi di Ceneda (di cui, ovviamente, fa parte
anche Serravalle) è retta dai Vescovi Grimani<20>.
Vescovo nel 1515 è Marino, che comunque non risiede pressoché mai, in questo
periodo del suo episcopato, ( 1508 - 1517) a Ceneda.
Nel 1517 lo zio di Marino, il cardinale Domenico Grimani, dopo aver ceduto al
nipote il Patriarcato di Aquileia, diventa vescovo di Ceneda, di cui comunque
era stato Amministratore Apostolico (quando Marino fu creato vescovo aveva
vent'anni). Regge direttamente la Diocesi dal 1517 al 1520 (alternando la sua
residenza tra Ceneda e Roma). Gli subentra nel 1520 l'altro nipote Giovanni,
fratello di Marino. Avendo questi, al momento della sua elezione a Vescovo,
diciotto anni, gli fa da Amministratore lo zio. Praticamente quindi, per un
quindicennio, i poteri episcopali su Ceneda li detiene il Cardinal Domenico
(muore nel 1523). E un ruolo molto importante lo ha anche fra Giovanni De
Nardo, francescano, che è Governatore generale della Diocesi con Marino e poi
vicario nello spirituale e nel temporale con Giovanni.
E' significativo, e si spiega, quindi, che Giovanni Antonio Flaminio, nella sua
lettera del 20 luglio 1520 si indirizzi al Cardinal Domenico.
Padre di Marcantonio, Giovanni Antonio (1464 - 1536) è ben più "serravallese"
del figlio, che pure è il vanto di qui per esserci nato, a Serravalle. Giovanni
Antonio è più legato al luogo. Vi ha risieduto, in tre periodi diversi della sua
vita, per complessivi diciotto anni, di cui quindici dedicati all'insegnamento. E'
stato membro del Consiglio Maggiore e del Consiglio Minore, nonché del
locale Collegio dei Notai. Ha avuto in Serravalle numerosi amici, con cui
quotidianamente trattava delle questioni della comunità. Nel 1502 era a
Serravalle, e certamente senti l'eco della clamorosa protesta di Florio Filomena
nei confronti delle Monache di Santa Giustina. Tornando a Serravalle nel 1517,
avrà sentito parlare della questione è un'ipotesi, ma ci sembra fondata) dai suoi
amici Francesco De Marchi e Guidotto Raccola (questi era anche cancelliere del
Comune), nonché da suo cognato Tommaso Cenedese e dai tanti altri che
conosceva. Nel 1520 decide di tornare nelle sue terre, a ciò indotto da varie
circostanze, ma prima di andarsene vuole cavarsi, come si dice, un peso dallo
stomaco.
83
Già da tempo è in corrispondenza col Cardinale, che varie volte anche va a
trovare nella sua sede del Castello di San Martino, quando questi vi torna da
Roma. Complessivamente sono ventisei, le lettere al Grimani presenti nel suo
epistolario, lettere in cui parla quasi sempre solo di Serravalle. In esse Giovanni
Antonio è sempre in atteggiamento di grande rispetto e venerazione nei
confronti dell'illustre destinatario. Ma è anche sincero. E' un uomo onesto, e
tutti lo sanno: può quindi permettersi di usare il linguaggio della verità, anche se
si tratta di verità cruda e dolorosa.
Sulla questione delle Monache di Santa Giustina, egli pensa, i vescovi di
Ceneda non hanno fatto quel che dovevano fare: lo stesso cardinal Grimani ha
troppo indugiato, e ormai non c'è più tempo da perdere.
Leggiamo la lettera per intero.
AL CARD. DOMENICO GRJMANI
/Serrava/lei, 26 luglio 1520
G.A.F. saluta Domenico Grimani Cardinale di San Marco.
Non c'è niente, da molto tempo in qua, che mi abbia provocato tanto
dispiacere, e che ancora mi crucci tanto, quanto il fatto che io debba
partirmene prima del tuo ritorno in questi luoghi, e con la previsione di non
tornarvi prima di un paio d'anm-<21),
se qualcosa non interverrà a mutare le mie
decisioni. Speravo infatti di poterti vedere prima, e di godere della tua
presenza, della quale per me non ci fu mai niente di più desiderabile e gradito.
Ma poiché ciò non mi è consentito, e le grandi occupazioni nel sistemare le mie
cose di Serravalle non permettono che sia io a venire lì (a Roma) da te, ho
voluto, queste cose, scrivertele, e lo faccio un po' tardi, perché mi si davano
ogni giorno speranze che tu saresti tornato da noi; ma sento ora che la cosa è
differita al mese di settembre, mentre io devo trasferirmi a Bologna prima del
tredici agosto.
Ma ritenni di non omettere di scriverti quello che pure più volentieri e molto
più dettagliatamente avrei potuto spiegarti di persona.
Di che genere sia, e di che importanza si debba ritenere la materia di cui ti
scrivo, lo capirai leggendo in questa mia lettera quello che io ritenevo di non
poter tacere senza grave colpa.
Non c'è niente, o Padre Eccellentissimo, che noi dobbiamo a Dio più del culto e
della devozione; che se vediamo il suo onore essere disprezzato e offeso e non
lo difendiamo, ove ci sia possibile, dobbiamo essere considerati degni di
condanna non meno di quelli stessi che lo ~endono. E quanta sia stata sempre
la cura della Chiesa per le sacre vergini 22>,che leggi siano state fissate per
loro, con quanto tremende minacce siano ammoniti e a quali terribili pene
siano condannati quanti quelle leggi violano, non ti è ignoto. Tuttavia si
trovano dovunque spregiatori del diritto umano e divino, e ciò non per altra
84
ragione, a parer mio, che perché rarissimi sono quelli di loro che vengono
puniti. Così vien meno il timore delle sacre leggi, e con facilità vengono
trasgredite, dove i colpevoli non vengono puniti con condanne adeguate; così
infatti va a finire che esse diventano inutili, e sembrano emanate invano, anzi,
più per indurre all'infamia che per distogliere, col timore, da essa. Hai
ascoltato più volte lamentele, e ti è noto il desiderio dei nostri cittadini, che i
ministri e le ministre di Dio avessero un costume di vita più corretto, e non
dessero sempre da far parlare di loro a onesti e disonesti, offendendo gli animi
dei buoni. Cifu una qualche speranza di una vita migliore dei sacerdoti,finché
tu fosti vicino; ma quando videro che te ne stavi un po' troppo lontano, tornò
un po' alla volta la precedente dissolutezza, soprattutto quando videro
allontanati dal loro ministero, per le ragioni a te note, quelli ai quali tu avevi
dato la responsabilità di guida, i quali, con grandissima diligenza, facevano
tutto per bene, con grande tuo compiacimento, e evitavano molti danni;
cosicché questa tua chiesa sembra ora aver avuto in sorte non tanto dei ministri
di Dio, quanto degli occupatori di caserme e di lupanari<23l_ Perdonami, ti
prego, Padre Eccellentissimo, se il dolore mi costringe a dire cose che forse
offendono le tue orecchie. Vedo infatti quanto grande sia ora il dispregio del
culto divino e delle cerimonie, e quanto grande sia la mutazione intervenuta del
sacro ministero, e di conseguenza quanto quotidianamente cresca l'offesa e
l'indignazione di tutto questo popolo, che veder trionfare !"avidità e l'empietà
di alcuni che, mescolando tutte le cose divine e umane, mentre servono solo alla
propria libidine, non ritengono di dover fare i conti né con Dio né con gli
uomini.
Non credere che io esageri: le cose che ti scrivo sono verissime, che più vero
non è- come si dice - il Vangelo.
Tu sai che ho grande amore e rispetto per te, e non dico mai il falso. E non c'è
niente che mi induca a scriverti queste cose, se non l'onore di Dio e di Tua
Eminenza, che mi sono imposto di servire con devozione. So che i più sono
soliti blandire i grandi uomini, e dire solo quelle cose che pensano chefacciano
loro piacere, e riempiono le loro orecchie di adulazioni; perché ritengono che
in questo modo si possa guadagnare il loro favore; e così accade che, mentre
essi ascoltano molte cose false e le ritengono vere, perché pensano di essere
amati, non ingannati, cadono in molti errori, e senza pensarci, e anche senza
volerlo, dichiarano molte cose e molte cose decidono, che ritengono essere
giuste. Di qui succede che per lo più i disonesti prevalgono sugli onesti e
vengono considerati di più. La qual cosa comporta come conseguenza grandi
guai e incredibile rovina per gli uomini. E' stato comunque sempre mio
costume dire senza timori la verità; dirla sempre, ma soprattutto quando parlo
con i detentori delle somme responsabilità. Che cosa c'è infatti di più
sgradevole di quando qualcuno è sorpreso da uno di loro a mentire ?
85
Ma non voglio dilungarmi troppo su ciò; sia perché la Tua Eminenza non ha
bisogno di suggeritore, o di uno che ti spinga a fare le cose giuste, soprattutto
quelle che riguardano la tua responsabilità e la tua amministrazione; sia
perché mi accorgo che debbo tornare al tema da cui mi sono allontanato, la
qual cosa deve interessare altrettanto anche te. Aggiungerò solo una cosa: che
quello che riguarda le cose umane qui va male per noi, ma quello che riguarda
le cose divine va molto peggio, (e sempre peggio andrà) se per tuo ordine non
subentreranno migliori ministri del culto divino e della cura delle anime.
Vengo a parlare delle sacre vergini, posto che sia ancora concesso chiamarle
vergini., tra le quali parecchie vivono non più pudicamente e conducono una
vita non più onesta di quelle che prostituiscono il loro corpo e vivono nei
postriboli: e quanto la loro impudenza, la turpitudine, l'arroganza siano di
disonore alla Religione, non posso scrivere.
Questo però posso dire: che le loro infamie sono assai note a tutti, e a tal punto
esse offendono e fanno indignare, che mi stupisco che unafolla di cittadini non
si scagli d'un tratto contro il monastero e lo distrugga dalle fondamenta, o lo
metta a fuoco; se questo non accade, è perché la misericordia per qualche
brava e buona religiosa (ce ne sono, fra loro) trattiene l'ira e l'indignazione
della gente; e la vita di costoro, in mezzo a tante infamie, è diventata un
supplizio. Infatti, per tacere di altre cose che non si possono riferire, se esse
vogliono mangiare o bere, è necessario che lo chiedano alle corrotte, e sotto la
loro tirannide sopportare quotidianamente molte vessazioni indegne, senza mai
trovare un momento di quiete. Lì i litigi, le contumelie, le frequenti delazioni,
sono il cibo quotidiano, e le risse costituiscono le preghiere del mattutino e del
vespero, e le lodi a Dio; l'acqua infatti non può sopportare ilfuoco, e le tenebre
il sole; né tra l'angelo della vita e quello della morte ci può essere concordia.
In quel monastero tutto viene gestito e governato agli ordini e al cenno di
quelle sfrontate. Esse amministrano i redditi del monastero secondo il
consiglio e l'arbitrio dei loro amanti, o, per meglio dire, lenoni; puoi pensare
quanto equamente e santamente tali redditi siano distribuiti. Di qui molti
sospettano che molte gran disfunzioni del passato siano il principio e la causa
anche di quelle presenti; ma molti anche affermano che, mentre tutti
conoscono queste indicibili infamie, e ne parlino con sdegno per le piazze e per
le strade, non c'è stato mai nessuno (tanta è la viltà degli uomini) in tanto
tempo, che a ciò si sia opposto, o che a tutt'oggi si opponga, o chieda
l'intervento e la censura di Tua Eminenza.
Ho osato io tentare la cosa, e metterti al corrente di questa situazione, e tu mi
conosci come uomo dabbene e sei solito ascoltarmi volentieri.
E non credere che io, in procinto di andarmene di qui tra pochi giorni, sia stato
spinto a scriverti queste cose da altro motivo che da quello di adempiere al
dovere di buon cittadino e di non cattivo cristiano; dovere del quale un giorno
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o l'altro dovrei rendere conto a Dio, se avessi taciuto, e non avessi invitato te,
che lo puoi, a difendere in questa situazione l'onore e il culto di Dio.
Certo che normalmente sarebbe più lodevole, e anche utile, tacere, e tenere a
freno la lingua; ma, al contrario, certe volte non sarebbe meno riprovevole
stare in silenzio, e tacere quando sia opportuno parlare. E di nuovo affermo
che le cose che scrivo sono a tal punto vere, che se tu volessi diligentemente
indagare su di esse, e togliere a quanti lo volessero ogni facoltà di sottrarsi alla
tua indagine, non dubito che verresti a conoscenza di molte più cose, e molto
peggiori, di quelle che ti ho detto. Spinto da ciò, sono sicuro che provvederai a
correggere la situazione devastata, come ti detteranno la tua ragione e la tua
prudenza, e lo Spirito Santo ti sorreggerà, sempre memore (certo lo sei) che
ognuno deve rendere conto a Dio del governo del suo podere, e rovinoso,
sarebbe, per chi porta l'onere delle funzione episcopale, su cui non può vigilare
assiduamente e con diligenza il Pontefice, stare nel suo osservatorio con gli
25>.
occhi pieni di unguento, e chiusl-24>. Sta bene. 25 luglio 1520<
Una bellissima lettera: schietta, accorata, forte<26>.
Ma gli effetti di essa sono lenti.
Il Cardinale si fa vivo con un suo decreto solo l'anno dopo. Purtroppo, del
documento ci è rimasto solo un lacerto (un quarto) e ne ricaviamo appena poche
parole scarsamente significative.
Probabile effetto della lettera di Giovanni Antonio è l'intervento in Consiglio
Maggiore di Serravalle, nella seduta del 22 agosto 1521<21>,di una delegazione
vescovile (vescovo eletto è ora il diciannovenne Giovanni) capeggiata
dall'autorevolissimo fra Giovanni De Nardo, Vicario Vescovile, accompagnato
dal cancelliere Giacomo Moschetta, dall'arcidiacono Valerio Graziani e dai
canonici Guido e Francesco Sarcinelli.
Il frutto della visita e della discussione in Consiglio dovette essere per i buoni
serravallesi solo parzialmente soddisfacente.
Lasciamo la parola, ancora una volta, a Carlo Laurenti.
" ... (Il) Vicario espose, qua/mente Sua S.ria Rev.ma il Cardinale desiderava, e
come era de jure tenuto a regolare la sua Giurisdizione, ed attendere, che le
Peccare della sua Greggia non si profondassero nel! 'eterna dannazione. Onde
fra le altre cose, che avea osservato essere bisogno di correzione, conosceva,
che meritavano di essere corrette le Monache di S. Giustina, acciò si
riducessero a vivere a norma del loro instituto, essendo a ciò stato obbligato,
così dalla Pubblica Fama, come ancora stato pregato da molti di loro. Così
acciò la Comunità comprendesse il buon animo, e l'ottima sua intenzione,
aveagli ordinato, e concesso, che facesse instanza, che dal loro Consiglio
fossero e/letti due Procuratori persone di buona fama, condizione, e costumi, li
quali dovessero assumersi la riscossione dell'entrate di quel Monastero,
dovendo corrispondere il vit(t)to, e vestito a quelle Monache, che viveranno
87
onestamente;ed il rimanente,che da loro venisseimpiegatonelleFabbriche,e
chiesa del Monastero,ovvero in quello che sembrerebbemeglio ad essi per
utile dellostesso;che quellidovesserodurareun anno, efinito il loro impiego,
che divenissero all'ellezione di altri due colla stessa autorità
d'amministrazione,i queli dovesseroper altro renderconto alla Comunità,ed
al E.mo Cardinale... ,,<is)_
Come si vede, l'indicazione
riguarda
soprattutto
la questione
dell'amministrazione, mentre quella della condotta scandalosa delle Monache
viene solo sfiorata.
In qualche modo, comunque, i serravallesi si accontentano, e mandano a
ringraziare il Cardinale.
Il 18 settembre 1522 si riuniscono i Deputati "alle Monache" del Consiglio,
avendo saputo che il cardinal Grimani stava per venire a Venezia. Chiedono al
Della Porta, deputato del Consiglio che stava per andare a Venezia, che si
presenti al Cardinale e gli dica: " ... che con grande dispiacere di tutti
appariva,che l'esecuzionede suoi ordini circa il governo, ingresso in quel
Monastero,come delle altre cose contenute nel suo Decreto non venivano
eseguite,e ciòper mancanzade superiori,cheper disprezzodi Sua Sig.a Em.a
non si prendevanocura di eseguire,quantoaveva ordinatoper un 'operacosì
buona,santa, e lodevole. Onde che esso con la sua saggezzapotevaformare
giudizio da qualfonte ciò derivasse.Impercioèchécome poteva chiarirsida
evidentissimidocumenti,non temevanoné Dio, né Sua Sig.a Em.a che volevano
vivere viziosamentecome addietrocon rovina delle Anime loro, disonorede
29>_
superiori,e pessimoesempiodelpoppo/o tutto"<
Il 6 giugno 1524 il vescovo eletto Giovanni indirizza un severo ammonimento
alla badessa del Monastero, ma senza conseguenze visibili.
Il 23 marzo e il 6 aprile 1525<30>, altre discussioni in Consiglio, dopo
un'ispezione fatta al Monastero dai Delegati del Consiglio insieme col Vicario
Vescovile. A quanto pare, sembra che le cose stiano come prima, e che le
Monache non cambino comportamento.
Il Consiglio dà cenni di scoraggiamento e non perviene, questa volta, a nessuna
determinazione.
Intanto, com'è ovvio, la questione era diventata di pubblico dominio e, a
Serravalle, occupava i discorsi di tutti.
Ne abbiamo alcuni segni, sia pure indiretti.
Come l'affermazione contenuta nella deposizione che, nel 1539, rese il
serravallese Ludovico Mantovano nel processo per eresia da lui subito a
Verona. Dice il Mantovano che nell'estate precedente (quindi nel 1538) era
stato ''più voltepresentea rasonamentidi moltigioveni", i quali dicevano male
"deprelati, e preti efrati e religiosi31>.Sembra ovvio che, in dette compagnie,
si parlasse anche, e forse soprattutto, delle Monache di Santa Giustina.
88
Aggiunge il Mantovano che quei giovani "erano pieni di openione lutherane
imparate da un certo giovene saravallese ... Alessandro Cittolin ,,<32).
Il quale Cittolin o, meglio, Citolini, nella sua "Lettera in difesa della Lingua
Volgare", scritta proprio in quel tempo, accenna alla "abominevo/ vita de preti,
le infinite e incredibili sceleragini de frati, la disonestà e sporca castità
d'alcune Monache, le aperte corrotte/e de giudici, e de Magistrati ... ,,<33>_ E
anche qui è certo presente il riflesso della esperienza diretta avuta dallo stesso
Citolini in quel di Serravalle. Tanto che non sembra azzardata l'ipotesi che
l'orientarsi progressivo del Citolini verso la Riforma sia stato in qualche modo
favorito, se non provocato, proprio da quel che aveva visto nel suo paese.
Anche considerando che l'eterodossia citoliniana riguarda più la materia della
vita della Chiesa che non le questioni dottrinali.
Torniamo al Monastero di Santa Giustina.
Col passare degli anni la situazione non accenna a cambiare, tanto più che la
Diocesi di Ceneda, dopo la morte del Cardinal Domenico, passa una sua crisi,
diciamo cosi, di vertice.
Il vescovo Giovanni, infatti, non assume mai definitivamente il potere: i vari
documenti lo ricordano sempre o come vescovo eletto o come governatore
generale (qualcuno afferma addirittura che egli non sia mai stato consacrato
vescovo).. Da questo fatto nacquero, nei primi anni '40, anche vivaci contese
con il fratello Marino, contese finite nel 1545, quando Giovanni rinuncia alla
Diocesi cenedese per lasciare - non si sa quanto spontaneamente - il campo al
fratello, già Patriarca di Aquileia e cardinale. Marino poi muore nel 1547, e
Giovanni gli succede nel Patriarcato. La Diocesi di Ceneda è quindi per circa
un quarantennio sotto il potere dei Grimani, che probabilmente avevano anche,
in questi scambi di Diocesi e di Patriarcato, finalità di ordine politico.
Per quel che concerne le Monache, va detto che i tre Prelati non combinano
granché. Domenico fa qualcosa, soprattutto dopo la lettera del Flaminio, ma
probabilmente la morte gli impedì di prendere decisioni concrete e definitive.
Marino se ne disinteressa completamente.
Giovanni cerca qualche rimedio,
ma i risultati della sua azione sono pressoché nulli. E amareggia il fatto che
l'attenzione principale sua e dei suoi collaboratori sia verso le questioni
dell'amministrazione del Monastero, mentre quelle della condotta scandalosa
delle Monache sono toccate solo di striscio, e con grande cautela.
L'impressione è che dentro il Monastero si annidasse un nucleo di soggetti
straordinariamente pervicaci ed anche abili nel difendere la loro - chiamiamola
così - libertà di comportarsi a piacere.
Il malumore comunque continuava a montare, a Serravalle, e anche il buon
vescovo eletto dovette ad un certo punto fare qualcosa, anche se con grave
ritardo.
Ed ecco il Decreto 30 agosto 1543, in cui con grande precisione e giustificata
severità si prendono finalmente, nei confronti della situazione, decisioni precise.
89
Confesso che fino qualche mese fa pensavo che la grave questione fosse stata
messa nel dimenticatoio, ma la scoperta dell'originale del Decreto mi ha fatto
ricredere. Il vescovo Giovanni, persona di buona volontà, ha cercato di fare,
riguardo alla situazione del Monastero di Santa Giustina, del suo meglio.
Questo il testo del Decreto:
IOHANNES GRIMANUS
Dei et Apostolice sedis gratia electus Episcopus Cenetensis et Comes:
Venerabili Domino Joanni Antonio de Egregiis Cannonico Be/lunensi in
Spiritualibus et Temporalibus Vicario nostro Cenetensi salutem et in commissis
Diligentiam: Cupiens alias meus Reverendissimus in Christo Pater et Dominus
Dominus Dominicus Grimanus miseratione Divina Episcopus Portuensis
Sacrosancte Romane Ecclesie Cardinalis S.ti Marci Sancte Sedis Aquileiensis
Patriarcha ac Episcopatus et Diocesis Cenetensis tunc in Spiritualinus et
Temporalibus Perpetuus Gubernator et Administrator ex sibi officio iniuncto
providere ne oves suae curae commissae perirent sed potius a periculo
perditionis conservare habita jìdedigna relatione de mala administratione
quam Abbatissa et Monia/es Monasterii Sancte Justine in burgo Superiori
oppidi Serravallis Introjtuum et Reddituum dicti Monasterii cum scandalo
populi gerebant nonnullas superinde suas patentes litteras sub data in aree S.
Martini Episcopatus Cenetentis Anno Millesimo Quingentesimo Vigesimo
Primo die vigesimo quinto Augusti ipsius Rev.mi Cardinalis Sigillo oblungo
Impendenti munitas emanavit quibus ordinem et modum servandum in
exactionibus intrujtuum et reddituum dicti Monasterii ac expendendorum per
nonnullos cives ad hoc eligendos per spectabilem Consilium diete terre
Serravallis procuratorers perjìciendo fabrice huiusmodi eius vicarium
Cenetensem qui pro tempore erat una cum duobus Cannonicis eiusdem ecclesie
Statuit decrevit et observari mandavit ut latius in ipsis literis continetur statuens
in eius animo eas postpositis inhonestatibus laudabilioris vitae tramitem
ingressuras. Nihilominus cum nuper a fidedignis accepimus et praesertim ab
oratore spectabilis Comunitatis illius foci ad nos specialiter destinato ipsas
moniales animarum suarum prodigas ac Dei timore postposito et religionis
honore neglecto nimis licentiose vivere et admittere personas a iure prohibitas
in dictum Monasterium aliaque complura committere quae sanctimonialibus
non conveniunt. Et si huiusmodi inconvenientibus non occurratur maxima
scandala exinde de proximo cum desolatione dictarum Abbatisse et Monialium
possent oriri: Nos vero volentes vestigia bo<nae> me<moriae> prelibati
Rev.mi Cardinalis praedecessoris, nec dum patrui nostri sed Patris cum amore
sequi et scandalis quantum cum Deo possumus obviare ipsasque Abbatissam et
90
Monia/es ut religiose sub Dei timore famulentur reformare: Harum serie et
tenore auctoritate nostra ordinaria qua in hac parte fungimur confzsi de
bonitate Doctrina integritate et sufficientia vestris vos in reformatorem
Abbatisse Monialium Conventus et Monasterii predicti deputamus.
Approbantes tamen prius et confirmantes Decreta Statuta et Constitutiones tam
in dictis literis quam alias quomodocumque per bo<nae> me<moriae>
prefatum R.mum D. Cardinalem cum contentis in eis editas etiam quae in
aliqua earum parte non habuerunt e.xecutionemquibus per praesentes nostras
in aliquo derogatum non censeatur ac committimus et mandamus ut vos
persona/iter trasferentes ad monasterium antedictum et moniales vosque
diligenter de earum vita moribus et gobernatione informetis. Et si per
informationemper vos habendam istas inhoneste vite et morum repereritis ipsas
reformando prius et ante omnia eligatis aliquam monialem probe et laudabilis
et religiose vitae cuiusvis Monasterii vobis visum erit in Abbatissam dicti
Monasterii modernam deponendo eidem committendo Regimen et
administrationem et gubernationem dictarum Monasterii et Monialium quae
sub clausura et jugo debite observantie vitam ducant dividi faciendo
sufficientibus parietibus lapideis Monasterium antedictum separando illas quae
voluerint manere sub obedientia et gubernatione talis Abbatisse observantis per
vos deputande: ab illis que voluerint seorsum ab observantia habitare: Proviso
eisdem quae recusaverint tali Abbatisse obedientiam prestare de eorum
convenienti victu et vestitu. Reliquum vero in usum et utilitatem Abbatisse et
Monialium quae sub eius obedientia permanere voluerint et fabricarum ac
aliorum onerum et expensarum occurrentium deputando. Cum decreto quod in
futurum non admittatur aliqua in Monialem que non voluerit se debite
observantie submittere. Quodque non admittantur, nec acceptentur alique
moniales per illas observantiam ducentes sine nostra licentia. Et quod cives et
oriunde e.xdicto loco sufficientes laudabilis vite et fame preferantur forensibus.
Si vero diete Monia/es hoc facere renegarent et earum licentiosam vitam sequi
voluerint ipsas et inobedientes quaslibet poenis et censuris ecclesiasticis ac
etiam corporalibus cogatis et compellatis usque ad completam e.xecutionem
reformationis per voc faciende et exequende. Implorato et ad hoc si opus fuerit
brachio seculari. Aliasque vos in immissis habentes ut primum apud
omnipotentem deum et laudem in mundo reportare valeatis presentibus
perpetuis futuris temporibus duraturis. Super quibus omnibus et singulis
premissis vobis vices nostras delegamus: In quorum omnium et singulorum
(immissorum) Fidem et Testimonium patentes nostras fieri iussimus nostrique
sigilli maioris appensione munivimus.
Datum Venetiis in Edibus nostris de conjìnio S. Marie Formose sub anno
nativitatis Domini millesimo quingentesimo quadrigesimo tertio die vere Jovis
trigesimo mense Augusti Indictione prima. Pontificatus S.ti in Christo Fratris et
Domini nostri Domini Pauli Divina Providentia PP. III Anno Nono<34J_
91
E' un documento impressionante. Dopo molti anni di incertezze e di esitazioni,
il Vescovo Giovanni decide di agire e, senza tanti giri di parole, denuncia la
gravità della situazione e prende provvedimenti straordinari. Il più stupefacente,
anzi clamoroso di essi, è quello di dividere in due il Monastero, confinando in
una parte di esso le Monache indegne e impenintenti, con la loro deposta
Badessa, e assegnando l'altra parte - si pensa la più ampia ed esposta - le
buone con la nuova Badessa, alla quale è affidato il governo del Monastero.
Non è ben chiara, nel suo insieme, la sorte che tocca alle prime, anche se gli
accenni al vitto e al vestiario di cui debbono essere fomite, nonché all'ipotizzato
intervento del braccio secolare, fanno pensare a qualcosa di molto simile ad una
prigione. Nel decreto non è previsto, comunque, l'abbandono del Monastero da
parte delle Monache discole, né volontario né coatto. La preferenza da dare,
nell'ammissione al Monastero di giovani aspiranti allo stato monacale, alle
locali rispetto alle forestiere, tien conto con ogni evidenza dei desideri dei
Serravallesi, più volte manifestati al Vescovo.
Nel complesso, una serie di provvedimenti radicali, alcuni dei quali severissimi.
Forse troppo, se è vero che la loro applicazione subisce battute di arresto.
L'anno successivo due delegati del Consiglio serravallese, Domenico
Giustiniani e Gregorio Sanfiori, si presentano al Vescovo per sollecitare
l'esecuzione di quanto decretato.
Il 19 novembre 1544 relazionano al Consiglio in merito<35>_ Viene seduta stante
formata una delegazione di quattro Consiglieri - Domenico Giustiniani,
Silvestro Sanfiori, Giovanni Piazzoni (il poeta) e Benedetto Da Ponte - perché
collaborino col Vicario vescovile per l'attuazione del Decreto.
Ma evidentemente nemmeno questa volta le cose funzionano, perché il 4
dicembre dello stesso anno<36> viene deciso di chiedere al vescovo che ai quattro
Consiglieri, col Vicario, sia data autorità e libertà di provvedere in merito.
Poi, nel maggio 1545, il Vescovo Giovanni rinuncia e subentra Marino, che
evidentemente delle cose del Monastero non si dà pensiero.
Su questa materia cala poi il silenzio. Il che probabilmente significa che, un
poco alla volta, le cose si sono messe a posto. Per merito, si pensa, del governo
del nuovo Vescovo Michele Della Torre, ma forse anche e soprattutto per gli
effetti del Concilio di Trento che, a partire dal 1563, imposta su basi ben più
rigorose la disciplina della Chiesa, dei suoi ministri e dei religiosi.
Cosi, piano piano, anche i serravallesi tornano a "fidarsi" del Monastero, nel
quale - ma la cosa riguarda pressoché esclusivamente le famiglie patrizie ricominciano a collocare le loro figliole, diciamo cosi, soprannumerarie (tanto
per considerare un dato significativo: la dote per una giovane che entrava in
convento era circa un decimo di quella di una che contraeva matrimonio).
Schiettezza vuole che si dica, a questo punto, che proprio un calcolo del genere
ha fatto si che, delle sette figlie di Guido Casoni, il poeta serravallese vissuto tra
92
il 1561 e il 1642, sei si siano fatte suore entrando proprio nel Monastero di
Santa Giustina (e aggiungiamo pure che, dei quattro figli maschi di Guido, due
si fecero sacerdoti).
E' certo questa la ragione per cui il poeta decise di avere la sua tomba nella
chiesa di Santa Giustina. Avrà pensato, il buon Guido, dopo aver visto
allontanarsi da casa le sue sei figlie, di tenersele vicine almeno da morto.
93
Note
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29
Giambattista Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, Venezia, 1786 (di
qui in avanti: Verci), I, doc. XIV.
Verci, I, docc. LV e LVI.
Ibidem, doc. LVII
Anna Maria Bizzarro, Chiostro e nobiltà nella Marca Trevigiana: il Monastero di
Santa Giustina di Serravalle e i Caminesi; in Il Dominio dei Caminesi tra Piave e
Livenza, Vittorio Veneto, 1988,pag. 84.
Verci, /JL doc. CCXXX/Il.
Ibidem, doc. CCXXXVII.
"A riparazione del luogo e della chiesa di cui si è detto, che era del tutto desolata,
e perché la detta nobildonna con buono e santo proposito intende per sè e per le
altre presenti e future da vita ad un edificio e ad un convento do donne, ossia
suore, che vi si rinchiudano in perpetuo".
Bizzarro, op. cit., pag. 87, n. 53.
Verci, III, doc. CCCXX; IV, doc. CCCXXI.
Verci, IV, doc. CCCXXII.
Biblioteca Civica di Vittorio Veneto, Libro delle Parti di Serravalle. Di qui in
avanti: Libro delle Parti.
"contro ogni pudore".
"volendolo le (stesse) suore".
"cum omnibus notum sit de pessima ipsarum monacharum vita et bonorum
monasterii mala administratione" (Libro delle Parti, 20 giugno 1502).
"Nam videmus quod ... per vicos et suburbana petulanti audacia discurrunt trita
fronte et sine ullo pudore sine ulla continentia ac religione in oculis omnium
versantur ... " Ibidem.
Ibidem.
I Deputati di cui sopra.
Ostacolati.
Carlo Laurenti, Memorie che possono essere di qualche uso per la Storia di
Serravalle, ms.presso la Biblioteca Civica di Vittorio Veneto, sub a. 1515. Di qui
in avanti: Laurenti.
Dall508 all547.
Il Flaminio intendeva tornare ancora a Serravalle, ma poi le cose andarono
diversamente.
Le Monache.
La denuncia del Flaminio è feroce, ma rappresenta anche l'unico documento che
possediamo sulla materia. Curioso, e indice di una situazione di costume diffusa
nel '500, l'accostamento/equivalenza tra caserme e lupanari.
L'allusione al comportamento del cardinale è molto trasparente e severa.
Giovanni Antonio Flaminio, Epistolae familiares, Bologna, 1744, I, ep. XXIV, pp.
42-45. Tre del relatore.
E' l'ultima lettera "serravallese" del Flaminio.
V. Libro delle Parti.
Laurenti, sub a. 1521.
Laurenti, sub. 18 settembre 1522.
94
30 V. Libro delle Parti.
31 Adriano Prosperi, Un processo per eresia a Verona verso la metà del Cinquecento,
in Quaderni Storici, n. 15, 1970, pag. 785.
32 Ibidem.
33 Alessandro Citolini, Lettera in difesa della lingua volgare, Venezia, 1551, pag.
18v.
34 Biblioteca Civica di Vittorio Veneto, Fondo Pergamene, 233.
GIOVANNI
GRIMANI per grazia di Dio e della Sede Apostolica eletto Vescovo di Ceneda e
Conte: al Reverendo Signore Giovanni Antonio de Egregiis Canonico di Belluno e
nostro Vicario di Ceneda negli affari spirituali e temporali, il nostro saluto e la
richiesta di attenzione sui compiti (che a lui in questa sede vengono) affidati. Il
mio Reverendissimo Padre e Signore in Cristo, il Signore Domenico Grimani, per
grazia di Dio vescovo di Porto, Cardinale di San Marco di Santa Romana Chiesa,
Patriarca della Santa Sede di Aquileia, Governatore perpetuo e Amministratore
dell'Episcopato e della Diocesi di Ceneda negli affari sia spirituali che temporali,
desiderando - in altro momento nel passato - per l'incarico a lui affidato,
provvedere a che le pecorelle affidate alle sue cure non periscano, ma piuttosto
salvarle dal pericolo della perdizione, ricevuta una relazione degna di fede sulla
cattiva amministrazione che la Badessa e le Monache del Monastero di Santa
Giustina nel borgo superiore del Castello di Serravalle praticavano, emanò su tale
argomento un decreto, datato dal Castello di San Martino, residenza del Vescovo
di Ceneda, il venticinque agosto millecinquecentoventuno, munito del sigillo lungo
dello stesso Rev.mo Cardinale, con il quale stabilì, decretò e ordinò che fosse
osservato quanto in esso era ampiamente contenuto, cioè l'ordine e il modo da
rispettare nell'esazione delle entrate e dei redditi di detto Monastero, nonché nelle
uscite, da parte di una commissione di cittadini che a tale scopo sarebbero stati
eletti procuratori dello spettabile Consiglio della citata terra di Serravalle,
integrando tale commissione col suo Vicario pro-tempore in Ceneda insieme con
due canonici della stessa chiesa, intendendo che (in questo modo) esse,
abbandonato ogni disonesto comportamento, avrebbero preso il cammino di una
vita più lodevole. Ciò nondimeno, avendo avuta notizia or non è molto da parte di
persone degne di fede, e in particolare dell'oratore della spettabile Autorità di detto
luogo a noi inviato in via straordinaria, che le stesse Monache, dissipatrici delle
loro anime, abbandonato il Timore di Dio e trascurato l'onore della religione,
vivono in modo gravemente licenzioso e introducono in detto Monastero persone
proibite dalle regole, e commettono molte altre cose che non sono ammissibili per
delle religiose.. E se non ci si opporrà a tali disordini, di qui a ben presto
potrebbero nascere gravissimi scandali, con grande rovina per dette Monache e
Badessa. Noi in verità, volendo comunque seguire le orme del predetto Rev.mo
Cardinale di buona memoria, Padre nostro più ancora che zio, e opporci agli
scandali per quanto possiamo con l'aiuto di Dio, e correggere la Badessa e le
Monache affinché prestino servizio nel rispetto della religione e con il Timore di
Dio, considerata la sequenza ininterrotta dei loro comportamenti, con l'autorità
ordinaria su questo territorio di cui siamo investiti, fiduciosi nella bontà, dottrina,
onestà e capacità vostre, vi affidiamo l'incarico di Riformatore della Badessa, della
Comunità delle Monache e del predetto Monastero. Approvando tuttavia prima di
95
tutto e confermando i Decreti, gli Statuti e le Costituzioni contenute tanto nel citato
Decreto quanto in qualsiasi documento emanato dal predetto Rev.mo Sig.
Cardinale di buona memoria, nonché le norme di detto Decreto che non ebbero in
qualche parte esecuzione, eccetto quelle che con questo nostro Decreto si ritenga di
parzialmente annullare;
e disponiamo e ordiniamo che voi vi portiate
personalmente al predetto Monastero e convento, e vi informiate diligentemente
della vita, dei costumi e dell'amministrazione di quelle Monache. E se per
l'informazione che voi dovrete assumere troverete che esse sono di vita e costumi
disonesti, provvedendo alla loro riforma, prima di ogni altra cosa scegliete una
Monaca di vita onesta, lodevole e religiosa, di qualunque Monastero vi sembrerà
opportuno, e fatela Badessa di detto Monastero, deponendo l'attuale, affidando a
lei la direzione, l'amministrazione e il governo di detto Monastero e delle
Monache che conducono una vita di clausura e sotto il giogo della dovuta
osservanza, facendo dividere con adeguate pareti di pietra detto Monastero,
separando quelle che accetteranno di stare ali' obbedienza e sotto il governo di
questa nuova Badessa osservante che voi dovrete incaricare, da quelle che
vorranno tenersi fuori dall'osservanza. Sia provveduto per quelle che rifiuteranno
di prestare obbedienza alla nuova Badessa conveniente vitto e vestiario. Per il
resto siano affidati all'uso e ali 'utilità della (nuova) Badessa e delle Monache che
vorranno rimanere alla sua obbedienza, i fabbricati con relativi oneri e spese. Sia
poi stabilito che in futuro non sia ammessa allo stato monacale nessuna che non
voglia sottomettersi alla dovuta osservanza. Non siano poi ammesse e non siano
accettate altre monache (che dichiarino di essere) rispettose dell'osservanza senza
nostra licenza. E che le cittadine e le oriunde di detta terra (Serravalle), di chiara
vocazione e di vita e fama lodevoli, siano preferite alle forestiere. Se poi le
Monache di cui sopra rifiuteranno di fare ciò e vorranno continuare nella loro vita
licenziosa, quelle e le disobbedienti sottoponetele alle pene e censure
ecclesiastiche e anche corporali, e rimproveratele aspramente, fino alla completa
esecuzione della riforma che voi dovrete decidere ed attuare. E chiamate ad
eseguire ciò, ove sia necessario, anche il braccio secolare. Per il resto voi avete le
nostre disposizioni, perché prima di tutto presso Dio onnipotente e poi nel mondo
possiate meritare lode con provvedimenti che dureranno nel tempo presente e
futuro. Sull'insieme e sulle singole cose qui premesse noi vi deleghiamo a fare le
nostre veci. E in fede e a testimonio di questi nostri mandati, nell'insieme e
singolarmente considerati, noi abbiamo ordinato di stendere il nostro Decreto e
l'abbiamo convalidato con l'apposizione del nostro sigillo maggiore.
i. Dato a Venezia, nella nostra Residenza nel territorio di
Santa Maria Formosa nell'anno della Natività del Signore
1543, giovedl 30 agosto, Indizione prima. Nell'Anno Nono
del Pontificato del Santo in Cristo Fratello e nostro Signore
Paolo per Divina Provvidenza Papa III.
(Traduzione del relatore).
35 Cfr. Registro delle Parti.
36 Ibidem.
96
Lorenzo Cadeddu
DUE CAPRONI
"Colle prime luci la pioggia cessa. Il cielo sgombro di nubi annuncia una
splendida giornata .... Verso le otto uno sciame di apparecchi nostri, da
bombardamento e da caccia, popola il cielo di Vittorio ... Le prime bombe
centrano i bersagli. Certune, evidentemente destinate a colpire la Villa
Pasqualis, sede del Comando d'Armata, scoppiano in Piazza Garibaldi; altre nei
pressi di Villa Costantini...Le batterie antiaeree sparano senza sosta:
evidentemente, nella furia rabbiosa, non tentano nemmeno di puntare, perché le
nuvolette appaiono qua e là a casaccio. Non un aeroplano è colpito ... Gli
apparecchi nemici del campo di San Giacomo non osano farsi vedere: nessun
palpito di motore. All'improvviso, invece, spuntano dal cielo di Belluno le
prime sagome austriache.
Un aviatik precipita presso Sant'Andrea disegnando una spirale di fiamme; un
altro va fracassandosi contro le rocce di Sant' Antonio, verso Revine.
Ora un Caproni maestoso, a quota bassissima, sembra scivolare sulle case. Le
sue mitragliatrici mandano lampi, anche nel sole.
Cinque velivoli nemici lo assaltano, lo circondano, piroettano, s'impennano,
puntano decisi. Il Caproni si difende con manovra sicura: due ali nemiche sono
stroncate. Ma adesso che succede? Il rombo del motore ha un silenzio: ancora
un respiro ... forse plana ... forse ...
Non parla più: come un bolide precipita verso San Pietro, trascinandosi una
vampa gialla. Mio Dio, mio Dio!
Corriamo verso quella località nella speranza di portare un aiuto a quei
disgraziati. Troviamo quattro cadaveri bruciacchiati. Uno indossa la divisa
americana, gli altri tre la nostra ... ".
Il lungo scritto riproposto alla lettura è tratto dal racconto autobiografico di
Alessandro Tandura "Tre mesi di spionaggio oltre Piave" <1>
L'azione aerea a cui fa riferimento Tandura è, certamente, quella subita da
Vittorio (ancora non aveva aggiunto il predicato "Veneto") il 27 ottobre 1918,
vigilia della definitiva liberazione.
Sulla stessa vicenda ha riferito anche Isidoro Tomasin ne "L'anno di Vittorio
Veneto" il quale, tuttavia, mentre si sofferma, esaustivamente, sul
bombardamento della sede del Comando d'Armata austriaco di Via Pasqualis
ignora, completamente, l'abbattimento del nostro Caproni.
Tandura, però, non riferisce il nome dell'aviatore americano che,
probabilmente, non conosce, sappiamo, però, che si tratta del Tenente Coleman
97
De Witt Fenafly, nato a New York il 29 ottobre 1892 e morto, in combattimento
aereo, il 27 ottobre 1918. Vediamo, allora, con l'aiuto di un testo edito dal
Gruppo Medaglie d'Oro al Valor Militare, chi era Coleman De Witt. Già,
perché l'ufficiale statunitense fu uno dei quattro decorati di M.O.V.M. stranieri
(la quinta è la città francese di Verdun) e la decorazione gli venne conferita per
effetto del d.l. 7 gennaio 1919.
Il 27 ottobre 1917, esattamente un anno prima della morte, De Witt raggiunse il
campo di aviazione di Foggia proveniente dalla Francia e qui prima conseguì il
brevetto di pilotaggio poi fu nominato istruttore e, infine, divenne capo pilota.
Nell'aprile dell'anno successivo, unitamente ad altri dieci piloti statunitensi,
venne promosso Tenente e trasferito nel veronese dove prese parte, al comando
di un Caproni da bombardamento, a numerose azioni di bombardamento lungo
il fronte italiano.
Il 27 ottobre 1918, durante la battaglia di Vittorio Veneto, al rientro da una
missione di bombardamento su depositi munizioni nemici, il Caproni di De Witt
venne attaccato da cinque velivoli da caccia austriaci.
De Witt non si sottrasse al combattimento e anzi, accettò la pur impari lotta e,
dopo aver abbattuto due velivoli nemici, colpito da una raffica di mitragliatrice
nei serbatoi di carburante, il velivolo precipitò in fiamme. Nessuno
dell'equipaggio ebbe a salvarsi.
La motivazione della Medaglia d'Oro che gli venne concessa localizza la
vicenda nel " ... cielo di Vittorio Veneto ... ".
Come il lettore può vedere, il racconto di Tandura e quanto pubblicato dal
Gruppo Medaglie d'Oro al Valor Militare combaciano anzi, sono proprio
sovrapponibili anche se, su quest'ultimo testo, non viene citata la località presso
la quale il velivolo cadde e che, secondo Tandura, era situato " ... nei pressi di
San Pietro ... ".
L'azione dei nostri velivoli da bombardamento, d'altro canto, doveva
svilupparsi lungo le rotabili Ponte nelle Alpi - Vittorio, Vittorio - Follina e
Tovena - Trichiana e dunque risulta verosimile che un velivolo colpito possa
essere caduto nella zona di San Pietro di Feletto e Rua di Feletto.
In località Rua di Feletto, a sud di San Pietro di Feletto, su una delle pareti
esterne del campanile della parrocchiale, dedicata a Maria Assunta in cielo, è
situata una targa in marmo sulla quale è riconoscibile un velivolo su un'ala del
quale è scritto "Moriamo sulle vette/per gli orizzonti dei mari".
Al di sopra dell'abbozzato velivolo, sta una piccola croce e la scritta "Cielo di
Conegliano 27-10-1918" e, più sopra ancora, incolonnati, i quattro nomi dei
componenti l'equipaggio con le rispettive località di nascita: Tenente Mario
Tarli Ascoli Piceno, sergente Giannetto Vassura Cotignola, mitragliere Dandolo
Zamboni Desenzano e mitragliere Domenico Fantucci di Nera.
In merito è stato sentito il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in
Guerra che ha confermato tutti i riferimenti riportati sulla lapide precisando, nel
98
contempo, che velivolo ed equipaggio appartenevano alla 4· squadriglia
aeroplani e che a tutti i componenti l'equipaggio venne conferita la Medaglia
d'Argento al Valor Militare, alla memoria.
Come il lettore avrà certamente notato, tra i componenti dell'equipaggio non
figura alcun militare statunitense.
Come il lettore potrà facilmente immaginare la cosa cominciava a tingersi di
giallo.
Tuttavia, non essendo verosimile che Tandura abbia raccontato cose non vere;
che cose non vere siano contenute nella motivazione della Medaglia d'Oro al
Valor Militare concessa al Tenente De Witt e parimenti, non possono essere
considerate poco attendibili le notizie contenute nella targa di marmo murata sul
campanile di Rua di Feletto decisi di proseguire nelle ricerche.
Unica ipotesi verosimilmente plausibile, dunque, è che durante l'azione di
bombardamento del 27 ottobre 1918 siano stati due i velivoli italiani "Caproni"
abbattuti e, ancorché la cosa potesse apparire strana, tutti e due i velivoli
sarebbero precipitati nella zona compresa tra San Pietro di Feletto e Rua di
Feletto.
Questo giustificherebbe anche l'iscrizione "cielo di Conegliano" essendo le due
località comprese nel mandamento amministrativo di Conegliano.
In merito è stata svolta una indagine presso l'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell'Aeronautica che, con grande disponibilità, ha messo a
disposizione tutto quanto era a loro conoscenza sulla vicenda.
Ricordo, che ali' epoca dei fatti l'Arma Aeronautica non era ancora nata e
l'aviazione era una specialità del genio e più precisamente si chiamava "genio
aeronautico".
Dico subito che l'ipotesi che si trattasse di due "Caproni" è vera.
Veniamo al dettaglio partendo dal "Caproni" precipitato a Rua di Feletto. Si
tratta del "Caproni" 450 hp matr. Ca. 11503 appartenente alla 4· squadriglia
aeroplani e decollato dall'aviosuperficie di Ca' degli Oppi (Ve) per un'azione di
bombardamento su alcuni depositi munizioni nei pressi di Vittorio, non ancora
"Veneto".
Il velivolo venne attaccato da caccia austriaci prima ancora che avesse potuto
portare a termine il compito affidatogli che, tuttavia, riuscì ad effettuare
nonostante le avarie.
I danni subiti però sono tali da costringere il pilota a volare ad una quota di soli
200 metri per cui il velivolo diviene facile bersaglio di uno dei tanti "aviatik"
che lo colpisce ad un'ala facendolo precipitare nei pressi della chiesa di Rua di
Feletto.
La morte dei componenti dell'equipaggio fu immediata.
Zamboni era un veterano della guerra essendo stato volontario alle Argonne, in
Francia, con i legionari garibaldini di Peppino Garibaldi.
99
Vassura, invece, in pace era impiegato postale a Pontelagoscuro e come tale
avrebbe dovuto essere assegnato ad un reparto del genio telegrafisti.
L'informativa dei Reali Carabinieri che lo definiva "rosso repubblicano" lo fece
arruolare con l'incarico di "conduttore di automezzi".
Al manifestarsi dell'offensiva che porterà il nome di "battaglia di Vittorio
Veneto" Vassura, che si trova in licenza rientra immediatamente al reparto di
volo presso il quale presta servizio chiedendo, ed ottenendo, di poter partecipare
come mitragliere all'azione di bombardamento in cui poi trovò la morte.
Sul capo portava una calza da donna quale portafortuna ...
Il secondo velivolo, quello che ingaggiò battaglia nel cielo di Vittorio Veneto,
era uno dei sei "Caproni" da bombardamento da 600 hp. Matr. Ca. 11669 ed era
decollato dall'aviosuperficie di Trombette (Vr) alle ore 10.40 del 27 ottobre
1918.
Componevano l'equipaggio i piloti statunitensi De Witt Coleman e James Bahl,
il tenente osservatore Vincenzo Cutello ed il mitragliere Cantarutti Tarcisio.
Il velivolo cadde sul Monte Cor nei pressi di Revine.
Dunque è verosimile ritenere che le condizioni in cui Tandura vide i membri
dell'equipaggio fossero tali da consentirgli di vedere, almeno in parte, le fogge
ed i colori delle uniformi se parla di un solo americano.
Ancorché l'abbattimento del velivolo fosse avvenuto il giorno 27 ottobre, le
salme vennero sepolte nel locale cimitero di Revine il giorno 30, come risulta
dal registro delle tumulazioni custodito nella locale parrocchia.
Le registrazioni delle quattro tumulazioni non sono uguali per tutti ma sono
diverse a seconda che si tratti dei due americani o dei due italiani.
Dicono infatti le registrazioni alla data del 30 ottobre:
James Bah/ di James nato 1895 morto 28 corrente sulla cima di monte Cor
è venuto sepolto oggi detto con l'assistenza di P. Innocente Bortoluzzi Econ.
Spir. (Economo Spirituale N.d.A.);
Dewitt Coleman fu Dewitt nato 1895 morto 28 corrente sulla cima di monte
Cor è venuto sepolto oggi detto con l'assistenza di P. Innocente Bortoluzzi
Econ. Spir.;
Cantarutti Tarcisio Serg. Mitr. d'aeroplano, caduto dal cielo di Vittorio Veneto
redenta il 27 corr. Venne oggi detto sepolto in questo cimitero con
l'assistenza di... Cutello Vincenzo Ten. Osservatore d'aeroplano caduto dal
cielo di Vittorio Veneto redenta il 27 corr. Venne oggi detto sepolto..... .
Queste registrazioni meritano qualche riflessione.
Le tumulazioni: non meravigli che siano state effettuate il giorno 30 anche se
sappiamo che il velivolo venne abbattuto il giorno 27. E' verosimile ritenere che
una volta iniziata la battaglia di Vittorio Veneto a Revine (e dintorni) sia stato
tutto un andirivieni di gendarmi e di truppe austriache dirette verso il San Boldo
e questo movimento di truppe abbia reso pressoché impossibile recuperare i
cadaveri.
100
Le date di morte: non sarà sfuggito a nessuno che i due statunitensi sarebbero
morti il giorno 28 di ottobre mentre i due italiani il giorno precedente. Non è
possibile dare una risposta certa anche se non è da escludere che i due piloti
possano essere rimasti gravemente feriti tanto da morire il giorno successivo per
mancanza di cure adeguate.
Cause della morte: per i due piloti statunitensi non viene precisata mentre per i
due italiani si precisa che sono "caduti dal cielo". Non viene precisata, però, la
località della morte che invece figura nelle registrazioni dei due americani e che
corrisponde al punto in cui il velivolo cadde.
Non può meravigliare più di tanto che il Sacerdote, localizzando il tratto di
cielo, abbia aggiunto al nome Vittorio il predicato "Veneto" che come noto
verrà ufficialmente aggiunto soltanto cinque anni dopo.
Evidentemente nel linguaggio parlato, ancorché non ufficiale, la dizione
Vittorio Veneto era già in uso.
Particolare interessante è il momento in cui avvennero le tumulazioni e cioè
dopo che Vittorio Veneto era stata liberata e questo giustificherebbe la teoria
secondo cui non fu possibile recuperare i poveri resti prima che i reparti
austriaci si fossero allontanati dalla zona.
Particolare veramente curioso, e che in qualche modo legherebbe in un unico
destino i due velivoli di cui vi abbiamo appena parlato, il fatto che entrambi i
velivoli sarebbero stati abbattuti da una stessa pattuglia di cacciatori austriaci
dei quali facevano parte, tra gli altri, gli Oberleutnant Roman Schmid ed
Emmeric von Horvàth <2>.
(1) A. Tandura: Tre mesi di spionaggio oltre Piave, Kellermann, Vittorio Veneto, 1993, pag.
134-135
(2) R. Gentili - P. Variale: / Reparti dell'aviazione italiana nella Grande Gue"a, USSMA,
Roma, 2000, pag. 98-108
101
Oscar De Zorzi
L'Annunciazione di Andrea Previtali, nella chiesa di S.
Maria Annunciata di Meschio, a Vittorio Veneto
Uno dei dipinti più noti ed importanti presenti in Vittorio Veneto è certamente
la celeberrima pala dell'Annunciazione, che si trova a ridosso dell'altare
maggiore della chiesa di S. Maria Annunciata del Meschio1, opera di Andrea
Previtali.
Il Previtali nacque probabilmente a Brembate Sopra (Bg) tra la fine degli anni
settanta e gli inizi degli anni ottanta del Quattrocento, figlio di un certo Martino
di professione commerciante di corde e di aghi2, originario di Berbenno in Valle
Imagna, e morì di peste, a Bergamo, il 7 novembre 15283 •
Ci si interroga come mai il giovine bergamasco sia approdato a Venezia ad
imparare il mestiere di pittore, professione che lo porterà in pochi anni ad avere
un ruolo specifico nel panorama artistico della sua terra d'origine per i primi sei
lustri del Cinquecento.
La spiegazione va cercata nel fatto che, nelle valli bergamasche, la cultura
figurativa veneziana era nota ed apprezzata già dagli anni quaranta del
Quattrocento e aveva subìto, poi, una accelerazione nei successivi decenni, con
maggiore intensità dal 1480, attraverso una notevole importazione di dipinti
realizzati da grandi maestri dimoranti nella capitale.
Le generazioni di Giambono, Jacopo Bellini e Antonio Vivarini prima e di
Bartolomeo Vivarini, Cima da Conegliano, Vittore Carpaccio e di stretti seguaci
di Giovanni Bellini, quali Lattanzio da Rimini e Cristoforo Caselli dopo,
profusero molte opere chiesastiche, loro commissionate da persone emigrate da
quelle povere Valli a Venezia, ove avevano fatto fortuna. Gli stretti legami
familiari con i parenti rimasti nei villaggi dove erano nati troveranno naturale
espressione di affetto e di nostalgici ricordi nel dotare le chiese dei luoghi
d'origine di pale d'altare e di arredi liturgici.
Le suggestioni, riportate alla vista di quei dipinti da alcuni giovani delle valli
bergamasche inclini all'arte pittorica, spinsero le loro famiglie a far in modo che
si trasferissero a Venezia, a formarsi nelle botteghe dei grandi maestri.
Cito tra i coetanei di Andrea Previtali più noti: Jacopo Negretti, meglio
conosciuto come Palma il Vecchio (Serina, Bergamo 1480 ca., t Venezia 1528);
Giovanni Cariani, vero nome Giovanni Busi (Fuipiano al Grembo, allora
frazione di S. Giovanni Bianco 1480-85, t Venezia 1547), Bernardino Licinio
(Poscante, borgo della Val Brembana 1485 ca., t Venezia 1550 ca.).
102
Per contro va sottolineato che, benché Bergamo e il suo territorio fossero stati
incorporati nel dominio veneziano di Terraferma sin dal 1428, la cultura
figurativa dominante nel centro orobico e nei luoghi prossimi di pianura per
tutto il Quattrocento e la prima decade del Cinquecento, era quella milanese.
Solo dal 1513, quando Lorenzo Lotto si aggiudicherà, per concorso, la pala
d'altare per la cappella maggiore della chiesa domenicana dei Santi Stefano e
Domenico, a Bergamo, raffigurante la Madonnacon il Bambinoe Santi (olio su
tavola, cm 520x250) firmata e datata 1516, ora nella chiesa cittadina di S.
Bartolomeo4, in concomitanza all'incirca col rientro a Bergamo degli artisti
indigeni formatisi a Venezia, Andrea Previtali e Giovanni Cariani, inizierà un
decennio di feconde realizzazioni pittoriche stilisticamente veneziane,
sapientemente miscelate con gusti e toni locali, che daranno vita "a una sintesi
creativa altamente originale" 5•
Quando Andrea Previtali giunse a Venezia?
Probabilmente agli inizi degli anni novanta del Quattrocento, considerato che la
sua prima opera conosciuta, firmata e datata 1502, (a meno che non siano andati
perduti altri suoi dipinti) è la Madonnacol Bambinoe donatore(olio su tavola,
cm 63x54), al Museo Civico di Padova. Infatti, partendo dal presupposto che
egli sia nato intorno al 1480 e sia stato mandato a bottega, a Venezia, all'età di
dieci-dodici anni (una legge emanata al tempo del doge Andrea Dandolo - el.
nel 1343 - stabiliva che ogni cittadino della Serenissima repubblica era tenuto a
pagare in proprio le tasse a partire dal quattordicesimo anno di età), è plausibile
pensare che abbia terminato l'allunnato dopo un periodo di sei-otto anni,
mettendosi, appunto, in proprio agli inizi del Cinquecento, quando, come si è
visto, firma la tavola di Padova.
Forse, e si è ancora nel campo delle ipotesi, Andrea Previtali si stabili,
inizialmente, presso qualche pittore nativo della sua terra, forse quel Francesco
di Simone da Santacroce (Santacroce? 1440 ca., t Venezia 1508),
probabilmente nativo dell'omonimo paese dirimpettaio di S. Pellegrino Terme
in Val Brembana, già attivo a Venezia nel 1492, dove il 31 luglio vi aveva preso
moglie.
E' possibile che sia stato proprio lui ad introdurre il giovane nella bottega del
grande Giovanni Bellini (Venezia 1430 ca, t ivi 1516), caposcuola della pittura
veneziana, maestro di Lorenzo Lotto, Giorgione, Tiziano, Sebastiano del
Piombo, Palma il Vecchio, Vincenzo Catena, Marco Basaiti, Francesco Bissolo,
Rocco Marconi, Pietro degli Ingannati, Niccolò Rondinelli, Lattanzio da
Rimini, Cristoforo Caselli e decine di altri artisti.
Profonda devozione, infinita gratitudine ed esplicito riconoscimento della
supremazia artistica di Giovanni Bellini fino agli inizi del Cinquecento,
troveranno poi testimonianza, come in altri allievi, da parte di Andrea Previtali
103
in molti suoi dipinti, nei quali si firmerà dichiarandosi discepolo del grande
maestro veneziano.
Ma tale dimostrazione di stima, pur veritiera nella sostanza, nasconde a mio
avviso, oltre alla manifestazione di una sudditanza consapevole ed accettata, un
altro sottile significato, quello cioè di una sorta di attestazione, di "patente
qualificante" per sancire la valenza della sua produzione pittorica eseguita nel
primo decennio del Cinquecento, nel cosiddetto periodo veneziano.
Andrea Previtali fu, infatti, un grande divulgatore dei modi e degli stili raggiunti
da Giovanni Bellini, ma attinse anche dalle lezioni di altri maestri suoi
contemporanei, a lui noti. Le suggestioni e le "citazioni" riferite a Cima da
Conegliano, Giorgione, Vittore Carpaccio, Alvise Vivarini, Lorenzo Lotto, ed
altri ancora, compariranno continuamente nei suoi dipinti, mescolate
sapientemente a un delicato equilibrio cromatico e a un'attenzione meticolosa
per la regia luminosa e per i particolari.
L'Annunciazionedi Meschio, olio su tavola (cm 261x165), firmata dall'autore:
"ANDREAS.BERGOMENSIS.IOANIS./BELLINI.DISCIPULUS.PINXIT",
come oggi la vediamo, è inserita in una grande cornice marmorea, realizzata con
la radicale ricostruzione dell'altare maggiore avvenuta non dopo il 1627 (fig.1).
Infatti, alla base della stessa, si trovano: a sinistra dell'osservatore l'insegna del
vescovo di Ceneda Marco Giustiniani (el. 1625, trasl. 1631), a destra lo stemma
della scuola di S. Maria dei Battuti (confraternita alla quale la chiesa
apparteneva in seguito alla donazione avuta dal Capitolo della cattedrale di
Ceneda il 30 novembre 1313), e in mezzo la data "MDCXXVII - Idib. Aug.".
In quell'occasione, come si è potuto accertare durante il recentissimo restauro 6,
il dipinto, steso su legno di pioppo, fu adattato alla nuova cornice marmorea,
con l'aggiunta di una tavola sottile in alto e di altre tre in basso, entrambe in
larice7 (fig.2).
Se da un lato l'aggiunta pittorica superiore interrompe inopportunamente "la
logica del soffitto dipinto a cassettoni"8, quella inferiore, oltre le lastre
rettangolari del pavimento, rafforza la profondità della scena mediante i tre
gradini, in primo piano, felicemente ideati da un anonimo artista secentesco per
meglio calamitare lo sguardo dello spettatore, costretto, suo malgrado, a
volgere l'occhio dal basso verso l'alto ad osservare il sacro evento pur nella
consapevolezza della sua deferenza, costituita dalla natura umana di fedele.
Sono emersi, inoltre, tagli ai lati dell'opera, in particolare lungo l'attuale
centinatura, riduzioni effettuate per adattare il dipinto alla cornice marmorea.
In alto, lungo il settore curvilineo è stata stesa una zona pittorica in scuro, forse
ad imitazione dell'ombra proiettata dalla luce sulla cornice in pietra, e ulteriori
ridipinture coeve che proseguono l'impianto architettonico preesistente del
soffitto.
104
Pare, insomma, che Andrea Previtali abbia progettato e realizzato la sua
Annunciazione in forma all'incirca quadra, ispirandosi alle opere del suo grande
maestro Giovanni Bellini, molte delle quali hanno appunto lo stesso modulo
geometrico, la più monumentale delle quali è L'incoronazione di Maria tra i
Santi Paolo, Pietro, Girolamo e Francesco (cm 262x240), eseguita intorno al
1475 per l'altare maggiore della chiesa di S. Francesco a Pesaro e attualmente
custodita nel Museo Civico di quella città.
Nella pala di Meschio risulta splendida la prospettiva, col soffitto ligneo a
cassettoni decorati sopra la stanza 9 che si apre sullo sfondo attraverso una
bifora aperta, con i sesti a vetri piombati a cerchi, oltre la quale l'occhio spazia
su un panorama collinare esemplato dalla silografia San Giovanni davanti al
trono di Dio e ai ventiquattro Vegliardi, contenuta nell'Apocalypsis cumfiguris,
opera di Albrecht Diirer (Norimberga 21.5.1471, t ivi 6.4.1528), pubblicata nel
1498 (figg.3). Il paesaggio sembra uscire da un racconto di favole nordiche, con
abitazioni e castelli di un "mondo tutto fiammingo", in cui lo scandire del
tempo appare nella sua interezza. La natura è qui rappresentata con i colori caldi
del calendario autunnale, quando la vegetazione, dal verde, imbrunisce in
tonalità diverse, debitrice nell'insieme delle morbide cromie tanto care al
Giorgione. L'ambiente è permeato di messaggi simbolici, nella torre del
maniero, riferita al "significato mariano della Turris eburnea, uno degli attributi
della Vergine" 10 e nella volpe che azzanna un gallo cedrone, a rappresentare
l'astuzia che prevalica il bene (fig.4).
La scena del boscaiolo intento a sgrossare un tronco d'albero nella radura (fig.5)
è ispirata da analoga rappresentazione di taglialegna al lavoro in un bosco
ombroso, dipinta dal suo maestro Giovanni Bellini nella Uccisione di S. Pietro
Martire (olio su tavola, cm 100x165), custodita alla National Gallery di Londra
e datata intorno al 1505. Le vesti e, soprattutto, il copricapo rimandano alle
Storie di Damone e Tirsi (fig.6), quattro tavolette (olio su tavola, 45,30x20),
sempre alla National Gallery, dipinte dal Previtali intorno al 1505, nelle quali
l'abbigliamento dei due protagonisti della tragica storia, nonché il retrostante
panorama, in particolare i frondosi alberi e l'orizzonte, montano e brumoso,
ricalcano il paesaggio dell'Annunciazione di Meschio.
Il lungo tavolo (o panca?) che attraversa l'interno è coperto da un tappeto
orientale su cui sono depositati, ordinatamente, due oggetti domestici: una
scatola tonda da lavoro, in vimini, con la parte centrale rialzata ed un libro.
Sulla sinistra, alle spalle della Madonna, inserita in una struttura lignea a mo' di
nicchia, vi è l'alcova dipinta in prospettiva scorciata e parziale, con un
cortinaggio rosso, semiaperto, dal quale si intravede il cuscino bianco ricamato,
in forma cilindrica e il copriletto in tessuto verde con decorazioni giallo oro.
L'elegante leggio, ove il pennello dell'artista si è soffermato a tratteggiare
mirabilmente le venature lignee del ripiano, è sorretto da una colonna elaborata,
105
poggiata su di un piedistallo (contenente la firma dell'artista), sul quale è
inginocchiata frontalmente Maria.
A differenza di tutte le Madonne col Bambino dipinte da Andrea Previtali, in
cui Maria è ritratta con gli occhi socchiusi, a capo chino in deferente omaggio al
figlio Gesù pur nella consapevolezza della sua natura di madre,
nell'Annunciazione di Meschio la Vergine è rappresentata con gli occhi aperti,
in docile abbandono ed accettazione della divina volontà.
Anche in questo dipinto, l'artista fa emergere la sublime dolcezza della
Madonna, che si manifesta nella posa aggraziata del corpo e nello sguardo, allo
stesso tempo sorpreso e vagamente assente, forse perso in un pensiero
premonitore del tragico destino del Figlio che concepirà. Ella non è impaurita e
appoggia il palmo della mano sul seno palpitante (fig.7) all'improvvisa
appanz1one dell'Angelo
annunziante
(fig.8),
dipinto di profilo,
coll'acconciatura tipica della fine del Quattrocento, la cosiddetta "lenza
lombarda" 11 (cioè i capelli molto lunghi, fino alle spalle e allacciati sulla fronte
con un sottile nastro) e con le ali ancora spiegate 12, quasi che il Previtali abbia
voluto fissare l'attimo precipuo dell'apparizione nel suo equilibrio dinamico.
Il Messaggero di Dio ha il capo chino, deferente verso la donna che diverrà la
Madre del Salvatore, con la mano sinistra posta sul petto in segno di saluto e la
destra recante il giglio, simbolo di purezza e di verginità.
••1oanisBellini discipulus", come si firma il Previtali, utilizza qui un espediente
che riproporrà poi in altri soggetti dipinti in diverse opere bergamasche: le
braccia dell'Angelo annunziante sono perfettamente finite come per essere
lasciate nude e, quindi, coperte da un trasparente velo bianco, quasi a voler
confermare nella tavola di Meschio, assieme all'indefinibile espressione del
volto dell'arcangelo Gabriele, l'asessualità dei messaggeri di Dio.
La delicata postura dell'angelo emerge dal corpetto damascato e dalla candida
veste in tutte le sue variazioni cromatiche, derivanti dalla regia luminosa della
pala.
La sacra rappresentazione risulta efficacemente dipinta con un indovinato gioco
chiaro-scurale, derivante dalle due fonti luminose che l'artista, nell'impianto
scenico, fa irrompere dall'interno, da destra, idealmente da un'apertura oltre il
"limes" pittorico e dall'esterno della bifora: due fiotti di luce diagonali che si
incrociano a rendere emozionante per sensibilità e suggestione l'evento,
palpitante di sommissione e di religiosità.
Andrea Previtali, nell'Annunciazione di Meschio si è ispirato, in particolare, a
due grandi artisti contemporanei.
La posizione della Vergine e dell'arcangelo Gabriele, e soprattutto la presenza
della grande bifora, richiamano l'Annunciazione (fig.9) di Cima da Conegliano
(tela per trasporto da tavola, cm 143xl 13) nell'Ermitage di San Pietroburgo,
firmata e datata 1495, ma, a mio avviso, l'arredo d'interno e, in particolare, la
106
figura della Madre del Salvatore, dipinta con il lungo ricasco laterale della veste
e del manto e con l'espressione del volto vagamente assente, hanno rimandi
ancora più espliciti ali 'Annunciazione(fig.10) di Vittore Carpaccio (olio su tela,
cm I27x139) nella Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro, a Venezia, datata 150413•
Ritengo, comunque, che debiti ideativi per la pala di Meschio debbano
ricercarsi anche nella Annunciazione (fig.11) (olio su tavola, cm I86xl62),
originariamente collocata nella chiesa di S. Alessandro a Spino al Brembo,
borgata prossima a Santacroce e ora ali' Accademia Carrara, a Bergamo,
eseguita nel 1504 dal suo possibile primo maestro, quel Francesco di Simone da
Santacroce, originario delle valli orobiche. In quest'opera, pur nella
semplificazione compositiva, sono evidenti i riferimenti all'analogo soggetto
dipinto da Giovanni Bellini nel corso degli anni novanta del '400 (cfr. nota n. 9)
e, particolarmente, alla succitata Annunciazione di Cima da Conegliano, dalla
quale l'artista ricalca fedelmente sia l'ampia bifora aperta, qui, sulla vista
lagunare di S. Francesco delle Vigne, sia il talamo ligneo alle spalle della
Vergine.
I più recenti studi su Andrea Previtali datano l'Annunciazione di Meschio
intorno al 150i14, anche se tale periodo non è accolto universalmente 15•
Allo stato attuale delle ricerche d'archivio, l'unico "terminus post quem" certo è
il 1498, anno di pubblicazione dell'incisione dilreriana, ripresa dal Nostro nella
pala di Meschio, per cui la datazione dell'opera, in attesa della auspicabile
scoperta di documenti che attestino l'anno della sua realizzazione, può essere
stabilita solamente con comparazioni relative ad altre opere dell'artista, in base
ad assonanze figurative e tipologiche.
E' da sottolineare, peraltro, che Albrecht Dilrer fu, dal settembre del 1505 al
principio del 1507, a Venezia per la seconda volta (vi era già stato nel suo primo
viaggio in Italia, compiuto fra l'autunno o la tarda estate del 1494 e il marzo o
l'aprile dell'anno dopo), ove dipinse il Cristofra i dottori, ora nella Collezione
Thyssen di Lugano, e la Festa del Rosario per la chiesa di S. Bartolomeo, della
nazione tedesca. Ivi fu ricercato e conobbe nobili, umanisti, eruditi e pittori, tra
cui, forse, Giovanni Bellini, Giorgione e Cima da Conegliano, per cui è
possibile che stampe e disegni del Maestro di Norimberga siano state sotto gli
occhi degli "artisti veneziani", tra i quali, appunto, Andrea Previtali.
Il volto della Madre del Salvatore ha molte affinità con quello della Vergine e
della Santa nella Madonna col Bambino e i Santi GiovanniBattista e Caterina
d'Alessandria (fig.12) ( olio su tavola, cm 70x85) nella chiesa di San Giobbe a
Venezia, datata intorno al 1504 e della Madonna col Bambino (fig.13) (olio su
tavola, cm 57x61) nell'Institute ofFine Arts di Detroit (USA), anch'essa dipinta
intorno al 1504. In entrambe le opere, in particolare nella seconda, e anche, in
maniera più sfumata, nella già citata Madonna col Bambino e donatore (fig.14)
107
nel Museo Civico di Padova, firmata e datata 1502, il paesaggio alle spalle di
Maria evoca le incisioni o xilografie di Diirer, tanto care al Previtali, rielaborate
e assemblate secondo il gusto e l'inventiva del Nostro; in dettaglio, il manto
erboso pendente sul dirupo di roccia nella pala di Meschio è pressoché identico
ai dipinti di Venezia, Detroit e Padova sopra citati.
In tutte queste opere, e, benché in modo più rigido, nella Madonna col Bambino
in trono tra i Santi Sebastiano e Vincenzo Ferrer (fig.15) (olio su tavola, cm
73x57) all'Accademia Carrara di Bergamo, firmata e datata 150616, che
ripropone anche una assonanza figurativa nel volto della Vergine con
l'Annunziata di Meschio, le stoffe degli abiti della Madre del Salvatore hanno
"una consistenza quasi carnosa, e le pieghe delle vesti sono costruite per larghi
piani vagamente cartacei" 17, maggiormente evidenti nel dipinto di Vittorio
Veneto.
L'insieme delle opere del Previtali qui esaminate a raffronto con la pala di
Meschio, realizzante tra il 1502 e il 1506, nonché il più esplicito debito di
citazione con l'Annunciazione del Carpaccio del 1504, datano, a mio avviso,
l'esecuzione dell'Annunciazione di Vittorio Veneto al 1505-1506.
Un dato intrigante per la datazione della pala di Meschio è costituito dalla
Madonna col Bambino e due angeli (fig.16) (olio su tavola trasportata su tela,
cm 67,3x92,7) alla National Gallery di Londra, realizzata dal Previtali intorno al
1515 18• E' evidente nel dipinto la stretta connessione tra il volto e la posa della
mano destra dell'Annunziata con quelli dell'angelo, a destra del Bambino, e allo
stesso tempo dell'acconciatura
dell'angelo con l'arcangelo Gabriele
annunciante. Se la datazione del 1515 ca. proposta è corretta, essa lascia aperta
la strada ad una serie di interrogativi riguardanti il percorso artistico e filologico
del Nostro.
Ma, probabilmente, si tratta solamente di un retaggio del "modus operandi" del
Previtali appartenente al primo decennio del '500, poiché anche nel Polittico di
Sant'Antonio abate (fig.17) (olio su tavola, cm 360x270: S. Francesco e S.
Rocco cm 30 di diametro ciascuno; San Pietro e S. Paolo cm 100x50 ciascuno;
S. Antonio abate cm 226x88; la Pietà cm 81x87; S. Quirino e S. Lorenzo cm
131x57 ciascuno), originariamente collocato nella chiesa parrocchiale di
Berbenno e ora all'Accademia Carrara di Bergamo, databile tra il 1512 e il
1515, si riscontrano analogie figurative con l'Annunciazione di Meschio.
In questa tavola l'artista dipinge sul primo scalino della cattedra, ove sta seduto
il Santo benedicente, con volto austero, con mitria e pastorale sul quale sono
appese due campanelle allacciate (emblemi, assieme ai suini, del Santo), un
angioletto seduto, intento ad offrire a un maialino due ghiande, prese da altre
raccolte e tenute sulla candida vestina rialzata a mo' di cesta. Il volto del
piccolo messaggero divino ha molta famigliarità con l'Annunciata di Meschio e,
cosi pure, il viso di S. Giovanni (fig.18) nella Pietà che sormonta nella cimasa il
108
S. Antonio abate, il quale, pur ritratto nella disperazione per la morte del
Salvatore, rivela caratteri stilistici prossimi alla Vergine di Vittorio Veneto.
Ma il viso del putto alato qui comparato, è stato più volte utilizzato dal Previtali
nelle sue Madonne col Bambino per dipingere il volto dell'Infante, sia prima sia
dopo l'esecuzione del Polittico già in Berbenno. A cominciare - e l'elenco non è
esaustivo - dalla già citata Madonna col Bambino e donatore del 1502, allo
stesso soggetto del 1506, ora nella Collezione Lord Haddington a Mellerstain
(G.B.), alla Madonna col Bambino e San Giovannino del 1510, nel Verwaltung
fiir Kulturgut di Monaco di Baviera, alla Madonna dell'olivo del 1512-13 nella
National Gallery di Londra, alla Madonna col Bambino che legge (fig.19) del
1514, nell'Accademia Carrara di Bergamo e, per finire nella splendida
Madonna col Bambino che allatta (fig.20) (olio su tavola, cm 48x40) del 1520
ca., sempre nell'Accademia Carrara di Bergamo.
Si tratta, insomma, di uno stereotipo figurativo ideato da Andrea Previtali
probabilmente a Venezia e che perdurerà anche dopo il suo definitivo ritorno a
Bergamo, avvenuto nel 1512 e che, idealmente, si concluderà nella sua
probabile ultima opera, la Pentecoste (fig.21), (olio su tela, cm 206x145)
eseguita tra il 1527 e il 1528, ora all'Accademia Carrara di Bergamo, in cui il
gruppo di figure dipinte, rappresentato dalla Madonna, dagli apostoli e dai
discepoli raccolti nel cenacolo, accoglienti le fiammelle sprigionate dallo Spirito
Santo, ha analogie ripetitive con il modello del volto puttesco.
E' noto, peraltro, come l'incontro avvenuto a Bergamo nel 1513 tra Andrea
Previtali e Lorenzo Lotto (Venezia 1480 ca., t Loreto 1557 ca.), altro notevole
esponente della pittura veneziana, influenzerà sostanzialmente il linguaggio
pittorico del Nostro in tutte le opere eseguite nella città orobica, sfociando poi in
reciproca stima nel 1523, allorché Andrea Previtali sarà impegnato nei lavori
per il coro della basilica di S. Maria Maggiore e il Lotto nella realizzazione dei
disegni delle tarsie per il coro stesso 19 •
Tale vicendevole frequentazione costituì per Andrea Previtali la possibilità di
ispirazione e di applicazione formale del pensiero pittorico lottesco, che si
manifestò attraverso l'osservazione delle sue opere compiute e con la lettura dei
suoi disegni e cartoni preparatori. Questa evoluzione si riscontra, ad esempio,
nell'unica altra Annunciazione (fig.22) dipinta da Andrea Previtali ( 1520 ca,
olio su tavola cm 161x165,6) che si trova attualmente al Brooks Memoria! Art
Gallery (Kress Coll.), a Memphis (USA), in cui le suggestioni del Nostro per
Lorenzo Lotto sono evidenti confrontando sia le eteree e leggiadre figure dei
due angeli incoronanti la Vergine nella già citata Madonna con il Bambino e
santi, firmata e datata 1516, con l'arcangelo Gabriele del dipinto di Memphis,
sia l'Angelo annunziante e l'Annunciata, raffigurati nei due scomparti a fianco
della cimasa, nel Polittico della chiesa dei SS. Vincenzo e Alessandro a
Ponteranica (Bg), eseguito intorno al 1525, con gli stessi protagonisti della
tavola del Previtali.
109
Ci si pone l'interrogativo riguardo a come mai un pittore di origine bergamasca,
che si formò a bottega nella città di Venezia, abbia ottenuto la commissione per
la pala di Meschio, in una cittadina, quale era appunto Ceneda, lontana dai
grandi circuiti politici, artistici e culturali in cui meglio si espletavano e si
esprimevano le committenze chiesiastiche.
Ritengo che la spiegazione vada ricercata nel fatto che a Ceneda viveva dal
tardo Quattrocento un ramo della famiglia Previtali con il suo capostipite
Antonio di mastro Alberto de Prividalibusda Bergamo; il figlio, sacerdote,
Stefano abitava pure in città, documentato il 10 dicembre 151020 e, forse, in via
ipotetica e suggestiva, si deve proprio a questo prelato il contratto per
l'esecuzione della pala tra Andrea Previtali e le autorità ecclesiastiche (o della
Scuola di S. Maria dei Battuti) della chiesa di S. Maria del Meschio.
Quanto, poi, al luogo di esecuzione del dipinto, è assolutamente da sfatare la
convinzione che l'opera sia stata realizzata in Ceneda, come è stato
recentemente scritto21•
E' probabile che la pala di Meschio abbia avuto esecuzione in uno dei due centri
in cui risiedette e lavorò Andrea Previtali, Venezia e Bergamo.
In generale, le dimensioni ed il peso di un dipinto non costituivano un
sostanziale problema per il trasporto ed è risaputo che opere, anche maggiori di
questa, venivano fatte recapitare dagli artisti, in siti committenti più lontani e
disagevoli rispetto a Ceneda, cittadina tutto sommato facilmente raggiungibile
per via fluviale e stradale.
Recentemente è stato messo in discussione se Andrea Previtali abbia trascorso
ininterrottamente tutta la prima parte della sua vita artistica a Venezia, almeno
dal 1502, anno di esecuzione della prima opera datata e firmata, la citata
Madonna col Bambino e donatore, e fino al 1511, passando poi il resto
dell'esistenza terrena, dal 1512 fino alla morte, a Bergamo22•
E' giuoco forza pensare che non sussistessero particolari difficoltà, per un
nativo di quelle Valli, a spostarsi all'interno dei confini della Terraferma
Veneta, aiutato logisticamente anche da parenti stabilitisi già nella città lagunare
o in altri centri della Serenissima in cerca di fortuna e, allo stesso modo, si può
ipotizzare che Andrea Previtali si sia mosso avanti e indietro tra Venezia e
Bergamo a più riprese, senza soggiornare stabilmente nei due centri, considerato
che è solo dal 1512 che si hanno prove documentarie di una sua permanente
stanzialità nella città orobica.
Sappiamo che il Nostro, nel presunto periodo veneziano conclusosi nel 1511, si
dedicò prevalentemente a realizzare dipinti di devozione privata ed esegui in
aggiunta all'Annunciazionedi Meschio una sola pala d'altare, la già citata
Madonnacol Bambinoin trono tra i Santi Sebastianoe VincenzoFe"er del
1506, opera che la recente critica è orientata a stabilire sia stata eseguita a
Bergamo. Altresi, nel Veneto, oltre alla pala di Vittorio Veneto, esiste un unico
110
dipinto pubblico, la Madonna in trono con i Santi Gerolamo, Giorgio,
Prosdocimo, e altro santo cappuccino (olio su tela, cm 130x 100), nella chiesa
parrocchiale di Villanova di Camposanpiero (Pd), datata intorno al 1513 ca.,
mentre, dal 1512, anno probabile del rientro definitivo dell'artista a Bergamo, la
sua produzione pittorica per le chiese bergamasche non conosce sosta.
L'argomento, insomma, è tuttora aperto a diverse ipotesi.
NOTE
I.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Per l'origine della chiesa si veda in particolare G. TOMASI, La Diocesi di Ceneda.
Chiese e uomini dalle origini al 1586, 1-11,Vittorio Veneto 1998, I, pp. 158-160.
Il pittore firmerà le sue opere "Andreas Privitalus", o "Andreas Bergomensis" per
distinguersi da altre famiglie di Previtali dimoranti in laguna e, in tre piccoli dipinti,
due di devozione privata e un ritratto, "Andreas Cordelle agi" in riferimento al
mestiere del padre.
M. LUCCO, Andrea Previtali, in Aa. Vv., "Bergamo. L'altra Venezia", GinevraMilano 2001, pp. 103-145; M. ZANCHI, Andrea Previtali. Il coloritore prospettico
di maniera belliniana, Clusone (Bg) 2001, pp. 7, 73-77. La data di morte, 7
novembre 1528, ormai pressoché universalmente accettata dagli studiosi è ricavata
da F.M. TASSI, Vite de' Pittori, Scultori e Architetti di Bergamo, I, Bergamo 1793,
che la trasse da un antico manoscritto custodito allora presso il marchese Rota a
Bergamo, cfr. Aa. Vv., Bergamo. L'altra Venezia, "ad vocem" Andrea Previtali,
cit. p. 107.
Il contratto per l'esecuzione della grande pala è del 15.5. 1513. Da quell'anno e fino
al dicembre del 1525 - oltre un decennio - Lorenzo Lotto compirà un proficuo
periodo di attività nella città orobica, con produzioni di natura chiesastica e
ritrattistica, sia ufficiale, sia privata devozionale.
P. HUMFREY, L'importazione di dipinti veneziani a Bergamo e nelle sue valli, da
Bartolomeo Vivarini a Palma il Vecchio, in Aa. Vv, "Bergamo. L'altra Venezia",
cit. p. 43.
Il restauro, compiuto da Renza Garla (2000-2001), è stato finanziato dal Rotary
Club Conegliano-Vittorio Veneto 2060° Distretto, durante la presidenza del dott.
Giampaolo Zagonel.
Il legno di larice, utilizzato per eseguire tali aggiunte, è ben conosciuto nelle zone
montane e pedemontane, tra queste ultime Ceneda, ma è un'essenza atipica, a
differenza del pioppo usato normalmente, per stendere il manto pittorico.
L'adeguamento della pala era stato già rilevato da G.B. CAVALCASELLE nel
1871 (cfr. J.A. CROWE, G.B. CAVALCASELLE, An History of Painting in North
Italy, 1-11, London 1871, p. 275), ma le sue osservazioni caddero nell'oblio.
M. LUCCO, Andrea Previtali, cit., p. 110.
Il soffitto a cassettoni decorati ed il pavimento formato da lastre rettangolari sono
di ispirazione belliniana, come si evince dall'Annunciazione (fig.23), dipinta nel
corso degli anni novanta del '400, custodita a Venezia, nelle Gallerie
111
dell'Accademia. Essa è divisa in due tele che costituivano in origine le portelle
esterne dell'organo della chiesa di Santa Maria dei Miracoli; quelle interne
rappresentavano un San Pietro entro una nicchia, anch'esso ora nelle Gallerie
dell'Accademia, ed un San Paolo,perduto. La paternità dell'opera è controversia: la
critica, dopo il recente restauro, l'assegna al pennello di Giovanni Bellini, anche se
alcuni ritengono sia opera di bottega con l'intervento del Maestro.
1O. M. ZANCHI, AndreaPrevitali... , cit., p. 28.
11. Secondo G. MIES (2000) il Previtali, nel dipingere la fluente chioma dell'Angelo
annunziante, si ispirò al celebre cartoncino di Leonardo da Vinci raffigurante il
Ritratto di Isabella d'Este (carboncino e pastello su carta, cm 63x46, Museo del
Louvre - Parigi) (fig.24), ritratta di profilo, a mezzo busto, con i lunghi capelli sino
alle spalle, allacciati sulla fronte con un sottile nastro. Tale moda, si diffusa
nell'ultimo decennio del Quattrocento, venne via via abbandonata e scomparve
completamente a cavaliere tra la prima e il seconda decade del Cinquecento.
Leonardo da Vinci aveva eseguito quel disegno in occasione della visita fatta a
Mantova sul finire del 1499 o ali 'inizio del 1500, per poi utilizzarlo nella stesura di
un ritratto che Isabella d'Este gli aveva commissionato, opera alla quale attendeva
nei primi mesi del 1500 a Venezia, ove soggiornò per un breve periodo, impegnato
in consulenze militari per la Repubblica di S. Marco. Purtroppo, come tante altre
"cose" di Leonardo, il dipinto non sarà mai portata a compimento. Nella città
lagunare è assai probabile che il cartoncino, portato seco dall'artista fiorentino
assieme ad altri studi, disegni e opere in via di realizzazione, sia stato visto da
alcuni grandi artisti che operavano nella Dominante; sappiamo per certo che
Leonardo incontrò personalmente Giorgione tra il febbraio e l'aprile del 1500,
segnando in modo indelebile la carriera del pittore nativo di Castelfranco Veneto e
nulla vieta che le "cose" dell'artista fiorentino siano state oggetto di curiosità e di
studio da parte di altri pittori operanti in Venezia, tra i quali appunto Andrea
Previtali.
12. E' visibile ad occhio nudo un ampio pentimento sull'ala destra dell'arcangelo
Gabriele, originariamente delineata più in alto e di cui rimane traccia sull'imposta
lignea aperta.
13. Questa tela era originariamente ubicata nella Scuola degli Albanesi, a Venezia. La
recente critica è controversa sulla paternità dell'opera, intravedendo nel dipinto la
mano di aiuti.
14. M. LUCCO, AndreaPrevitali,cit., p. 112.
15. Per M. Zanchi l'esecuzione della pala si colloca intorno al 1510, prima del
definitivo rientro a Bergamo di Andrea Previtali, avvenuto nel 1512; cfr. M.
ZANCHI, AndreaPrevitali... , cit., p. 75
16. Il cartone preparatorio è stato riutilizzato dal Previtali per la Madonnacol Bambino
(olio su tavola, cm 68,5x53,2), ora al Museo delle Belle Arti di Budapest
(Ungheria), dipinto che, pertanto, si colloca nella sua stesura intorno al 1506.
17. M. LUCCO, Andrea Previtali, cit., p. 112.
18. M. ZANCHI, AndreaPrevitali... , cit., p. 70.
19. F. CAROLI, Lorenzo Lotto e la nascita della psicologia moderna,Milano 1980,
pp. 65-66, 296-98. C. PIROVANO, Lotto, Martellago (Ve) 2001, pp. 109-11. M.
ZANCHI, Andrea Previtali...• cit., pp. 76-77.
112
20. G. TOMASI, La Diocesi di Ceneda... , cit., II, p. 349.
21. M. ZANCHI, AndreaPrevitali... , cit., p. 75.
22. M. LUCCO, Andrea Previtali, cit., p. 111.
113
(fig.1) Andrea Previtali, Annuncia zione,
Vittorio Veneto (Tv), chiesa di S. Maria Annunciata
114
(fig.2) Andrea Previtali, Annuncia zione,
dimensioni originarie della tavola
115
(figg.3)Andrea Previtali, Annunciazione, particolare
Albrecht Durer, San Giovannidavanti al trono di Dio e ai ventiquattro
Vegliardi,particolare
116
(fig.4)
Andrea Previtali,
Annunciazione,
particolare
(fig.5)
Andrea Previtali,
Annunciazione,
particolare
117
(fig.6)
Andrea Previtali, Storie di Damonee Tirsi, Londra, National Gallery
118
(fig.7)
' Andrea Previtali,
Annunci azione, particolare
(fig.8)
Andrea Previtali,
Annuncia zione, particolare
119
(fig.9)
Cima da Conegliano, Annuncia zione,
San Pietroburgo,
Museo Ermitage
120
(fig.10)
Vittore Carpaccio,
Annunciazione,
Venezia, Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro
121
(fig.11)
Francesco di Simone da Santacroce, Annuncia zione, Bergamo,
Accademia Carrara
122
(fig.12)Andrea Previtali, Madonna col Bambinoe i Santi Giovanni
Battista e Caterinad'Alessandria,Venezia, chiesa di S. Giobbe
(fig.13)
Andrea Previtali,
Madonna col
Bambino,Detroit,
Institute of Fine Arts
123
(fig .14)
Andrea Previtali, Madonna col Bambinoe donatore,
Padova, Mu seo Civico
124
(fig.15)
Andrea Previtali,
Madonna col Bambino tra i Santi. Sebastiano e Vincenzo Ferrer,
Bergamo, Accademia Carrara
125
(fig.16)
Andrea Previtali, Madonna col Bambinoe due angeli, Londra,
National Gallery
126
(fig.17)
Andrea Previtali,
Politticodi
Sant'Antonio abate,
Bergamo,
Accademia
Carrara
127
.,, . ··,
(fig.18)
Andrea Previtali,
Pietà, cimasa del Politticodi Sant'Antonio abate
128
.
(fig.19)
Andrea Previtali, Madonna col Bambinoche legge,Bergamo,
Accademia Carrara
129
(fig .20)
Andrea Previtali, Madonna col Bambinoche allatta,
Bergamo, Accademia Carrara
130
(fig. 21)
Andrea Previtali, La Pentecoste,
Bergamo, Accademia Carrara
131
(fig.22)
Andrea Previtali, Annunciazion e, Memphis, Brooks Memoria! Art
Gallery
132
(fig.23)
Giovanni Bellini,
Annunciazione,
Venezia, Gallerie dell'Accademia
133
(fig.24)
Leonardo da Vinci,
Ritratto di Isabellad'Este,
Parigi, Museo del Louvre
134
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Firenze 2003
135
Autorizzazioni
alla fotoriproduzione
delle opere:
Accademia Carrara di Belle Arti, Bergamo, n. 218/04 del 19.4.2004;
Comune di Padova-Settore Musei e Biblioteche, Padova, n. 81334 del
25.3.2004;
Diocesi di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, n. 44 del 27.5.2004;
Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano, Venezia, n.
2864 del 29.3.2004 e n. 2991 del 1.4.2004;
Parrocchia di S. Giobbe, Venezia, 16.6.2004.
L'Autore si dichiara disponibile ad assolvere gli impegni nei confronti dei
proprietari dei diritti delle immagini qui riprodotte, che non è riuscito a
raggiungere nel corso della preparazione del presente studio.
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