IL SACRO MACELLO
DI VALTELLINA
così come raccontato da
CESARE CANTÙ
e da
ENRICO BESTA
MONOGRAFIE DI GCM
© 2018 MONOGRAFIE DI GCM
Monografia numero 56
Prima edizione: aprile 2018
In copertina: Teatre-Museu Dalí, Figueres
Fotografia di Giancarlo Mauri
Pubblicazioni di Giancarlo Mauri
1976 Escursioni nelle Grigne
Tamari Editori in Bologna
1980 Escursioni nelle Grigne. II ediz. Ampliata
Tamari Editori in Bologna
1983 Il Sistema Operativo Unix
Dataconsyst, Segrate
1985 Il Sistema Operativo Unix e la Sicurezza
Bancaria - Dataconsyst, Segrate
1988 Le Grigne. I sentieri e l’Alta Via
Tamari Editori, Padova
Monografie di GCM
2003 La vita è un pellegrinaggio
2004 I ‘cammini’ di Santiago
2004 Scritti di montagna
2004 Val Codera
2004 Yoginī - (riedizioni 2007, 2008, 2013)
2005 Kinner Kailasa parikrama
2005 Arrampicare ai Corni
2006 India_2006 (riedizione 2013)
2007 India viva (tre ristampe)
2007 La guerra Italo-Austriaca 1915-1918
2008 Monte Priaforà e Monte Novegno
2012 La Valsássina di Leonardo (tre edizioni)
2012 S’io fossi stato fermo alla spelunca
Niccolò Stenone Niels Steensen (tre edizioni)
2013 Jicà. Arhuaco della Sierra Nevada de
Santa Marta, Colombia (due edizioni)
2013 Scritti sull’India
2013 India_2000
2014 LeccoProvincia. Tutti gli scritti del 2013
2014 Gio. Ambrogio Mazenta (editor)
2014 Baldassarre Oltrocchi (editor)
2014 Memorie storiche de la vita di Lionardo,
di Carlo Amoretti (editor)
2014 Capitulatione fatta con l’Egr. Gioseppe Meda
per ridurre il fiume d’Adda (editor)
2014 Discorso del Sig. Guido Mazenta intorno il
far navigabile il fiume d’Adda (editor)
2015 Lazzaro Spallanzani, Viaggio sulle Alpi
Lombarde e sui Grigioni (1772) (editor)
2015 La vigna di Leonardo (editor)
2015 Discorso del Signor Stenone sull’Anatomia
del Cervello (editor)
2015 Nicola Stenone. Prodromo di una
dissertazione sui corpi solidi, a cura di G.
Montalenti (editor)
2015 Ophiolatreia, by Hargrave Jennings (editor)
2016 Le Martyrium de Poitiers par Mgr. X. Barbier
de Montault (editor)
2016 Documenti inediti risguardanti Leonardo da
Vinci, di Gaetano Milanesi (editor)
2016 Il libro di Antonio Billi e le sue copie, di
Cornelio de Fabriczy, (editor)
2016 Il Codice dell’Anonimo Gaddiano (XVII, 17), di
Cornelio de Fabriczy, (editor)
2016 Francesco de Marchi e le navi di Nemi (editor)
2016 Breve Descrizione della Valle Sassina, di Paolo
Emilio Parlaschino (editor)
2016 Del Cenacolo di Leonardo da Vinci (editor)
2016 Descrizione della Valsassina, di Paride
Cattaneo Della Torre, 1571 (editor)
2016 Historia di Milano, ff. 273-339, di Paride
Cattaneo Della Torre, 1596 (editor)
2016 Scritti naturalistici, di Mario Cermenati
2016 Le non-recensioni di GCM, numero uno
2016 Le non-recensioni di GCM, numero due
2016 Notizie storiche intorno all’invenzione del
Termometro, di Raffaello Caverni (editor)
2016 La vita nel Castello di Milano al tempo degli
Sforza, di Luca Beltrami (editor)
2016 Di la morte di madama di Cellan (editor)
2016 Del culto dei Magi e di san Pietro Martire nella
Basilica milanese di Sant’Eustorgio (editor)
2016 La jeune peinture française, par André Salmon
2016 Picasso visto da Max Jacob (editor)
2016 Picasso, di Fernanda Wittgens (editor)
2016 Picasso, par Christian Zervos (editor)
2017 San Pietro al Monte sopra Civate (editor)
2017 Manoscritti vinciani, di Enrico Carusi (editor)
2017 Picasso in Provenza. Antibes, Vallauris,
Mougins
2017 Santa Maria di Sabbioncello (editor)
2018 Il Monte Pasubio
2018 La conca grande di Paderno (editor)
2018 Il sacro macello di Valtellina (editor)
IL SACRO MACELLO
DI VALTELLINA
così come raccontato da
CESARE CANTÙ
e da
ENRICO BESTA
GCM
Ho narrato questi fatti primamente nel libro VII della Storia della Città e
Diocesi di Como. Dappoi se ne fece un libretto a parte col titolo di
Rivoluzione della Valtellina. Ora lo riproduco con maggiore ampiezza,
innestandovi altri fatti concernenti la riforma religiosa nella patria nostra.
Oltre gli storici generali, e di tutta Italia, e della Svizzera, mi valsero:
SAVERIO QUADRIO Dissertazioni sulla Valtellina T. II. LAVIZZARI Mem.
Ist. della Valtellina, il quale ebbe sott’occhio i pubblici consigli, le istruzioni
e relazioni de’ deputati, e molte memorie di chi fu parte: BALLARINO Felici
progressi dei Cattolici in Valtellina: ALBERTI Antichità di Bormio, che ebbe
grand’introduzione in quegli affari: ROSCIO DELLA PORTA Storia della
riforma retica. SPRECHER Historia motuum ecc. MERLO Cronica ms:
GIUSEPPE RICCI, narrationes rerum italicarum dal 1613 al 1653; BRUSONI
Storia d’Italia dal 1625 al 1676; Le Memorie recondite ed il Mercurio politico
di VITTORIO SIRI; Storia delle guerre d’Italia dal 1613 al 1630 di LUCA
ASSARINO: quella di PIETRO CAPRIATA: le Memorie Storiche di G. F.
FOSSATI; La Storia Veneta di G. B. NANI; L’Hydraulica di GIO. BATTA DE
BURGO. Il poeta ALESSANDRO TASSONI scrisse due libri della guerra di
Valtellina, che non credo mai stampati. Ho preso luce di molte particolarità
da gran copia di mss., somministratimi da privati, dall’archivio vescovile
di Como, e dalla biblioteca Ambrosiana. T. G. SCHELHORN, bibliotecario
di Memmingen nelle Amœnitates Historiæ Ecclesiasticæ et literariæ (Lipsia
1737-46; vol. 3 in 8.) pubblicò assai documenti sopra i Riformatori Italiani;
e molte sue asserzioni furono ribattute dal cardinale Quirini. Di DANIELE
GERDÉS autore della Storia generale della Riforma, si pubblicò postumo nel
1763 Specimen Italiæ reformatæ, nel sentimento stesso dello SCHELHORN.
Dopo stampata l’operetta mia uscirono la Storia di Valtellina dell’Avv.
ROMEGIALLI, che discorse con ampiezza questi avvenimenti; e la Storia
della Riforma in Italia, suoi progressi e sua estensione, opera dello Scozzese
TH. MAC CREE, caloroso protestante, il quale perciò esagera di numero e
di importanza i fatti e contorce, quand’anche non falsa, le opinioni e i fatti.
Quelli ch’egli ammette e che noi raccogliemmo basterebbero a mostrare
quanto a torto egli abbia asserito che «gli scrittori cattolici s’accordarono
presto a dissimular un soggetto penoso quanto delicato, o a mostrar que’
movimenti come deboli e passeggeri, e di pochi sedotti da amor di novità.»
Altrettanto torto avea avuto il Voltaire quando, colla sfrontatezza che in
lui era sistema ed artifizio, asserì il contrario, cioè, che «pochi Italiani
assentirono alle dottrine di Lutero, e che questo popolo ingegnoso, occupato
d’intrighi e di piaceri non ebbe parte ai tumulti di quel tempo» (Essai sur les
mœurs. c. 128.)
Se a ben altre importanze toglie efficacia l’odierno mancare di attenzione
negli intelletti e di rispetto ne’ cuori, come lusingarci che questo libretto non
passi inosservato?
CAPO I
Dottrine di Lutero, Calvino, Zuinglio diffuse negli Svizzeri e ne’ Grigioni Descrizione della Valtellina – I nuovi insegnamenti penetrano in Italia e
specialmente nella Diocesi di Como - Novatori rifuggiti in Valtellina –Lodovico
Castelvetro - Pier Paolo Vergerio.
Intendo raccontare i turbamenti della Valtellina nel secolo XVII,
abbaruffata religiosa che, come spesso, copriva una quistione di
nazionalità, mista di eccessi dei popoli e di viluppi d’una politica
ambidestra, fecondi di atroci successi, e dove andarono in un fascio le
umane cose e le divine. Né forse è privo d’opportunità questo episodio
in tempi di sette caldeggianti d’operoso contrasto fra le opinioni e la
forza, di lotta fra la sublime ambizione di non sottomettersi che alla
ragione pura, e il folle orgoglio di arrogare tutti i diritti di questa alla
ragione individuale.
Pontificando Leone X, il sassone frate Martin Lutero aveva levata audace - la voce contro le indulgenze, le quali, se prima erano un
compenso alle gravose pene ecclesiastiche per i peccati, vennero poi a
sovrabbondanza profuse, insinuandosi perfino contro gli oracoli della
Chiesa, che assolvessero vivi e morti dalla pena e dalla colpa, e
facendosi traffico delle bolle che le concedevano. Da questo, Lutero si
aperse il varco a fare alla curia romana altri rimproveri, più uditi
perché veri: poi passando dagli abusi nuovi alli vecchi, e dalla fabbrica
alli fondamenti(1) impugnò l’autorità papale, il celibato dei preti, infine
il sacerdozio stesso. Se, a detta di San Paolo, il giusto vive per la fede,
la fede è il tutto, nulla le opere: il monaco orante e penitente è inferiore
al laico credente, la fede Iddio la dà a chi egli vuole, talché l’uomo non
è libero di operar la propria salute, né la Chiesa ha nulla a prescrivergli:
al solo Cristo devono tutti chinarsi, né il papa ha efficienza maggiore
che l’infimo fedele.
Non che con ciò si venisse a stabilire la parità di tutte le opinioni e
ad abbracciare chiunque ammette il Vangelo. Si volle piantare un’altra
autorità al posto della distrutta e imporre nuovi dogmi sulla grazia, sul
battesimo, sulla cena, sui santi. Ne sorsero dunque prontamente
molteplici discrepanze, e Calvino predicava in Svizzera e in Francia
dottrine diverse; e diverse ne faceva pullulare ciascun caposetta. Non
(1)
SARPI, St. del Concilio di Trento, I.
è da questo luogo il ragionarne, e basterà dire che fin là si era creduto
tutto quel complesso di dogmi, di discipline, di pratiche, che
costituisce il cattolicismo. Allora si volle tutto richiamar in esame. Fin
là si era venerata la sacra scrittura qual era interpretata dalla chiesa,
depositaria della tradizione apostolica ed unica dispensiera della
verità; allora si volle libero a ciascuno d’interpretare la scrittura a suo
senno privato. Invano i capi riformatori, fallendo al proprio assunto,
vollero limitare le credenze con simboli, ai quali mancava ogni
autorità. Né, ammesse le negazioni di Lutero e di Calvino, s’aveva titolo
per escludere quelle degli Anabattisti, dei Sociniani, degli Entusiasti,
che ripudiavano la Trinità, e la divinità di Cristo, e ogni rivelamento
fuor dell’ispirazione personale.
La Chiesa non aveva mai dissimulato, e tanto meno giustificato, i
disordini e gli abusi pullulati nel suo seno; né mai tenne quei sublimi
suoi comizii, che chiamansi concilii, che non facesse savii decreti di
riforma. E forse un uomo di alta e sincera volontà avrebbe anche allora
potuto condurre a mediazione pacifica, a risoluzione cristiana la
chiassosa discrepanza delle credenze e degli atti, adoprandovi l’amore,
non l’ira, l’abbraccio, non la repulsione, per saldare l’unità, anzichè
sconnetterla irreparabilmente. Ma, come in altri simili casi, la potenza
minacciata s’addormentò sull’orlo del precipizio: papa Leone, dedito
al deliziarsi ed alle lettere, e poco temendo dai Tedeschi che reputava
grossolani e sprovvisti di maschia volontà, non ebbe tal dissensione in
più concetto delle tante scolastiche, le quali nascevano e morivano
senza lasciar traccia, fra gli ozii ringhiosi e superbi dei conventi e delle
università. Scossosi poi, come persona che è destata per forza, diede in
estremi, che precipitarono la ruina. Adriano, successogli, conobbe gli
abusi della curia romana e del clero, e pensava efficacemente al
rimedio. Ma la morte gli ruppe il disegno, e i letterati ne menarono
trionfo. Quando i successori videro a quanta importanza riuscisse il
movimento, già si era là dove inutili uscir dovevano ammonizioni,
consigli, scomuniche. Stabilita già in più parti la nuova credenza, e
sostenuta coll’ardore della novità, coll’autorità d’uomini che avevano
studiato a fondo, coll’interesse di quei che avevano usurpato i beni
delle chiese e dei conventi, coll’appoggio dei principi, che, tolto
l’ostacolo di Roma, potevano ormai fare ogni lor voglia, come capi
nello spirituale, al pari che nel temporale, fin colla prepotenza delle
armi. Tutto furono allora i Cattolici in impedire che la Riforma
trapelasse nei paesi ancora mondi, massimamente nell’Italia, dove le
crescevano pericolo l’acutezza e curiosità degli intelletti arditi e vaghi
del nuovo, l’abitudine letteraria di cuculiare preti e frati, il conoscersi
da presso le esorbitanze romane e l’aver i governi avvezzato i popoli a
non tener come sacro tutto quanto fosse papale, né far gran caso delle
benedizioni e degli interdetti. Libri, scuole, missionarii, legati furono
disposti, come barriera, contro la Svizzera e la Rezia, donde il contagio
viepiù si faceva vicino.
Imperocché, contemporaneamente a Lutero e senza sapere di lui, il
curato Ulrico Zuinglio, in occasione che vi vendeva le indulgenze fra’
Bernardino Sansone da Milano, aveva cominciato a predicare a Zurigo
che una vita pura ed un’anima religiosa più sono accettabili al cospetto
dell’Eterno, che non macerazioni e pellegrinaggi. Poi, che il pane ed il
vino erano soltanto simboli del SS. Corpo e Sangue. Indi via via, sulla
messa, sul purgatorio, sulla confessione, sul venerare i santi, sul
celibato dei preti, una folla di novità che pretendeva antichissime.
Sono i Grigioni discendenti da quei Reti che, devoti a libera morte,
difesero l’indipendenza loro contro le armi di Roma, stando a scirocco
della Svizzera, nelle valli dove sorgono il Reno e l’Inn, e dove molti
Romani rifuggirono al cader dell’antichità, siccome l’attesta la lingua
che ancor vi si parla, detta ladina e romancia.
Fra le turbinose vicende che mutarono faccia all’Europa, subirono
anch’essi le leggi della prepotente feudalità e il dominio dei vescovi di
Coira e d’una folla di signorotti che, possedendo appena poche
pertiche di paese, si arrogavano però la sovranità indipendente,
guerreggiavano coi vicini, opprimevano i sudditi, svaligiavano i
viandanti.
Ai costoro soprusi opposero i popoli la concordia dei voleri. Insorti,
furono però moderati dall’essersi posti alla loro testa il vescovo di
Coira, gli abati di San Gallo e di Dissentis, sotto la cui direzione si
formò la lega Caddea.(2)
Gli altri preti ne presero coraggio a domandare ai loro signori
giustizia e sicurezza. I quali signori, accoltisi intorno ad un acero che
si venera presso Truns, fra Hanz e l’abadia di Dissentis, e sospesi i loro
grigi gabbani al ferrato bastone infisso nelle rupi, giurarono d’essere
buoni e leali federati, e così formossi la lega grigia(3) che diede agli
altri il nome di Grigioni. Quando poi fu morto l’ultimo dei conti di
Tockeburgo, i suoi vassalli strinsero la lega delle dieci dritture o
giurisdizioni(4). Coll’oro, col coraggio, colla spada, assicuratisi dalle
minacce dell’imperatore Massimiliano, che voleva rimetterli a
(2)
Ca-de-Dio, Gott-haus-bund.
Graubund.
(4) Zelin-gerichten-bund.
(3)
soggezione, le tre leghe si congiunsero fra loro a Vazerel, stipulando di
dividere i pericoli per difendere il franco stato e giudicare i comuni
interessi in una dieta che, a vicenda, si terrebbe a Coira, a Hanz e a
Davos. Ciascuna lega restava divisa in comuni, ognuno dei quali
regolava i propri affari interni e mandava deputati alla dieta, talché il
governo fu quivi più democratico che in qualsiasi altro luogo e
possedeva quel voto universale, che oggi vuol considerarsi come la
miglior espressione della libertà. Ogni valle, anzi, ogni terra, ogni
parrocchia(5), si conservò stato indipendente, con governo proprio,
diritti, privilegi. Talvolta ciascuno forma un comune, tal altra se ne
riuniscono diversi, e nell’assemblea loro ha voto chiunque compia i 18
anni per elegger tutte le autorità, dal podestà o Ammann o
ministeriale, che giudica nel civile e nel criminale, e dal curato fino al
cursore e al campanaro(6).
Varii Comuni uniti costituiscono una giudicatura (hoch Gericht)
sotto un landamano o podestà. Tutte insieme poi le 25 giudicature, i
49 grossi comuni e gl’innumerevoli piccoli, ogni anno, al san Giovanni,
tenevano i comizi generali (Bundstag) alternandoli fra Davos, Hanz e
Coira, dove i Grigi avevano 28 suffragi, 24 i Caddei, 15 le Dritture. In
casi straordinarj radunavano (Beytag) i soli capi e primarj ufficiali, per
lo più in Coira, i quali pure non potevano dar voto che secondo le
istruzioni ricevute dalle loro comunità, presso le quali rimaneva
sempre il poter sovrano. Ciò rendeva lungo e spendioso il trattare coi
Grigioni, bisognando girar di comune in comune ad ungere le girelle
perché corressero. Ne derivò sfacciata corruttibilità, intrigo universale
e una sfacciata oligarchia, la quale concentrò nelle due famiglie dei
Planta e dei Galis tutti gli uffizi di lucro o di onore.
Giovanni Comander, arciprete della cattedrale in Coira, Enrico
Spreiter, Giovanni Blasius, Andrea Fabritz e Filippo Salutz, avevano
propagato fra i Grigioni le dottrine di Zuinglio e di Calvino, e ben
presto la riforma si stabilì nelle Dieci Dritture; nella Lega Caddea
prosperò attorno a Coira, ma scarsamente nell’Engadina e pochissimo
nella Lega Grigia.
Invano gli Svizzeri fedeli tentarono rimettervi il cattolicismo;
invano della Riforma disgustarono gli Anabattisti ed altri trascendenti,
dai quali Lutero e Zuinglio erano esecrati non meno che il papa: nella
dieta d’Hanz fu stabilito che a tutti fosse libero professare la religione
(5) Secondo i vari linguaggi del paese, cioè tedesco, romancio o ladino, si intitolano
Comuni, Vicinati, Nachbarschaften, Schnitze, Gleve, Directuren, Squadre,
Contrade.
(6) Questa costituzione durò fino al 1847.
cattolica o l’evangelica; i ministri non insegnassero se non ciò ch’è
contenuto nel Vecchio e Nuovo Testamento. Questo restò fino ad oggi
lo statuto religioso dei Grigioni. Ogni parrocchia ebbe il diritto di
scegliersi i pastori; sciolti gli obblighi ereditati di far celebrare messe e
anniversarj; non si ricevessero più frati nei monasteri, non si
mandasse danaro a Roma per annate o dispensa o che altro motivo. La
Chiesa vi fu costituita al modo svizzero, senza vescovi, e con concistori
e conferenze; poi s’introdusse il sinodo nazionale, che s’accoglieva ogni
mese di giugno.
Il fiume Adda, scendendo dal monte Braulio ai confini del Tirolo
tedesco sino a perdersi nel lago di Como, traccia il corso della
Valtellina, la quale toccava a levante esso Tirolo, a mezzodì i dominii
bergamaschi e bresciani della Repubblica veneta, a settentrione le
terre dei Grigioni, dai quali paesi tutti è separata per montagne più o
meno alte, alcune altissime fra le prime d’Europa; e basti nominare lo
Spluga e lo Stelvio, attraverso ai quali si va ai Grigioni ed ai Tirolesi,
una volta per scabri sentieri alpestri, oggi per vie stupende. Ad
occidente la Valtellina finisce in un vasto delta, impaludato dal fiume
e dagli scoli montani, e che tocca il territorio milanese e il lago di
Como. Di terre importanti è seminata, di cui sono principali, sul fondo
stesso della valle, Morbegno, Sondrio, capo della valle, Ponte, Tirano,
congiunte allora appena da scoscesi viottoli, ora da piana strada. La
valle si sviluppa in una serie di bacini, chiusi da strozzature di monti
ravvicinantisi. E principalmente alla Serra questi la chiudono quasi
affatto, lasciando solo un piccolo e difficile accesso ad un altro ampio
anfiteatro, che forma il contado di Bormio. Sboccano in questo le valli
Viola e di Pedenosso, che a maestro mette all’Engadina e ai Grigioni;
la val Furva a levante, che verge alla Camonica e al Bresciano; e a
tramontana la valle di Fraele, per cui entrando nella retica valle di
Santa Maria, si va in Val Venosta e a Bolzano nel Tirolo. All’opposta
estremità della Valtellina, verso il lago di Como, si prolunga a
settentrione un altro contado, di cui era capo Chiavenna, terra di grossi
traffici, perché chiave d’un trivio che, verso mezzodì, scende al lago di
Como, a settentrione sale, per la valle San Giacomo e pel letto del Liri,
al monte Spluga, donde si varca alla valle del Reno e a Coira, città
capitale dei Grigioni. A greco poi s’interna la valle della Mera, che
comunica colla val Pregallia, e questa coll’Engadina, dove sorge l’Inn,
che, innavigabile, procede fin nel Tirolo.
Altri varchi ha la Valtellina. E principali quel della Casa di San
Marco verso i Bergamaschi; e Zappelli di Aprica verso i Bresciani; a
Tirano la valle di Poschiavo, italiana di lingua e grigione di governo; a
Sondrio la val Malenco, che termina nella montagna del Muretto, per
le cui ghiacciaje si cala fra Grigioni.
Il cielo, la lingua, le produzioni della Valtellina e dei contadi son
quelle della Lombardia ed alla Lombardia erano state sempre unite,
obbedendo nell’ecclesiastico ai vescovi di Como, nel civile, ai duchi di
Milano. Ma quando questi s’infiacchirono col separare la causa loro da
quella dei popoli, la lasciarono invadere da stranieri. I Grigioni, non
appena assicurata la libertà, ambirono conquiste e, con quei pretesti
che non difettano mai agli ambiziosi, piombarono assai volte sulla
Valtellina; nel 1512 la occuparono tutta, e benché nella pace di Jante la
ricevessero come cara e fedele confederata al vescovo di Coira e alle
Tre Leghe, salvo i privilegi e le consuetudini sue antiche, l’ebbero ben
presto ridotta a serva. Solito abuso di chi ha la forza.
A reggerla mandavano a Sondrio, ogni quattro anni, un capitano
della valle, e negli altri due terzieri un podestà biennale. Restavano
governati a parte i contadi di Bormio e Chiavenna. Questi magistrati
oltre l’essere esosi, perché forestieri, non erano limitati da stabili leggi:
compravano a danaro il posto e se ne rifacevano regolando la giustizia,
secondo l’avarizia e l’ambizione. Peggio andò quando entrarono di
mezzo anche le dissensioni religiose.
Le dottrine nuove propagate nei Grigioni, per la vicinanza, per il
commercio, per i magistrati, non tardarono a introdursi anche nella
Valtellina, piacendo ai Grigioni dominatori che questa si allontanasse
ognora più dalla Spagna, allora dominatrice del Milanese e capitana
della parte cattolica. Adunque a Poschiavo da Rodolfino Landolfo fu
piantata la prima stamperia che i Grigioni avessero; e per quanto il
papa e il re di Spagna ne reclamassero, seguitava a diffondere i libri dei
Riformati per l’Italia; la valle fu aperta a quegli Italiani, che, per
sospetto di eresia, erano dalla patria sterminati.
Perocché, appena i nuovi insegnamenti valicarono le Alpi, furono
qui accolti, studiati e applauditi nell’ombra e nel mistero. Che se qui
non suscitarono tanto incendio come in Alemagna, nasceva da ciò che
il popolo, già avvezzo a sentir declamare da novellieri, da poeti, da
predicatori contro la corte di Roma, come si tollerava pienamente, non
trovava in quelle diatribe l’allettamento della novità. Deditissimo poi
agli spettacoli religiosi, non sapeva abbracciare un culto senza bellezza,
senza vita, senza amore, surrogato a quella bella liturgia romana, ove i
canti, or lieti e trionfali, or teneri e melanconici, gravi sempre e
maestosi, e le cerimonie, venerabili per antichità e per significazione
profonda, riposano sul dogma della presenza reale, e si manifestano
con una ricca e magnifica arte, composta di idee, le più sublimi unite
ai simboli più graziosi. Dei sentimenti più puri, manifestati colle forme
più splendide e variate. Un culto che all’Italia diede una seconda gloria,
quella delle arti, e il primato sul mondo, quando la politica la
cancellava col sangue dal catalogo delle nazioni. Se aggiungi l’essere
più vicino il rimedio, anzi nel cuore, troverai le ragioni onde Iddio vestì
la grazia che concesse alla nostra patria di rimaner nell’arca ov’è la
sicura salute.
Molti però aderivano ai nuovi teologanti, condotti o dal febbrile
aspirare a perigliose novità e da smania di farsi nome, o da paura di
sembrare attardati nel comune movimento, o da imitazione. Non pochi
allettati dallo specioso nome di riforma, che sì spesso significa
rivoluzione e che vieppiù lusingava quando la Chiesa congregata non
aveva ancora tolti in esame i fondamenti delle controverse dottrine.
Chi del diffondersi dei nuovi dogmi in Italia più volesse sapere, ricorra
allo Schelornio, al Gerdesio, ad altri, con questo però di crederli a
riserva, giacché per leggerissime ragioni pongono della loro taluni, che
non cessarono d’essere fedeli cattolici. I novellieri, come Masuccio
Bandello, il Poggio, il Sacchetti, il Lasca, ridondavano di burle sul
clero. I poeti, dall’iroso Dante fino al bizzarro Ariosto, avevano
bersagliato i papi. Uomini di gran senno e gran virtù palesavano la
necessità di togliere ai Riformati il maggiore pretesto col levare dalla
Chiesa gli abusi. E tutti costoro, e il Bembo, il Trissino, il Flaminio,
altri ed altri, furono dai protestanti contati come eretici, benché
sapessero abbastanza che per riformare non è mestieri distruggere, e
che le riforme opportune e durevoli devono venire dall’amore, non
dalla collera, dall’autorità che dirige, non dalla violenza che
tumultua(7).
Non posso tacere un curioso documento della tolleranza romana, ch’è nei
preziosi Diarj manoscritti di Marin Sanuto. Nel Vol. XXXVIII pp. 159-160 porta una
lettera che il cel. Gaspare Contarin, ambasciadore a Madrid e che fu poi cardinale,
scriveva ai suoi fratelli raccontando come tre patroni di galee veneziane fossero stati
colti dall’inquisizione per aver venduto una bibbia ebrea e caldea coll’esposizione di
Rabin Salamon. Esso Contarin si presentò subito al S. Uffizio, «parlai lungamente,
dichiarandoli il costume di Italia e di tutta la chiesa cattolica essere di admeter ogni
auctor infedele, quantunque contradicesse alla fede quanto li paresse, come Averois
e molti altri, perché si faria ingiuria quando non si volesse che li adversarj nostri
fossero auditi et lecti».
Addusse anche altre ragioni per le quali furono rilasciati, solo con lieve penitenza.
E il Contarin conchiude: «Questa inquisizione in questi regni (di Spagna) è una cosa
terribilissima, né il re medesimo ha potestà sopra lei, et per li cristiani nuovi una cosa
che a noi pare minima a costoro pare grande. È stato etiam dito che hanno venduto
libri de Luterio, ma io nol credo».
(7)
Noi limitandoci a riferire ciò che riguarda il paese di cui trattiamo,
o a cui siamo recati da questo racconto, diremo come fra le masnade
alemanne, che calpestarono l’insanguinato terreno di questa povera
patria nelle guerre, in cui il fatale Carlo V spegneva l’indipendenza
italiana, molti erano già, non pure aderenti, ma fervorosi in quelle
novità; toglievano a gabbo le superstizioni del popolo che trucidavano,
e tutt’insieme il culto, i preti, le dottrine. Fra questi Giorgio
Freundsperg tirolese, che fu uno dei maggiori capitani, e inventò i
Lanzichenecchi, fanteria stabile disposta in reggimenti, armata di
picche e secondata dai reitri a cavallo. Entusiasta luterano, costui
portava sempre allato un laccio d’oro, col quale vantava di voler
strozzare in Clemente VII l’ultimo dei papi. Passò egli pel lago di Como
al tempo delle fazioni ivi esercitate contro Giangiacomo Medici
castellano di Musso(8), e si fermò anche a Sorico, deponendovi la testa
colossale di Pompeo, rapita nel sacco famoso di Roma, e che poi recò
a Parigi.
Uno dei primi ad infervorarsi della riforma fu Francesco Minicio,
detto così secondo l’uso d’allora da Menaggio sua patria(9), lodato da
Erasmo di Rotterdam e dall’Alciato, e cui il Frobenio in una lettera a
Lutero fa onore del titolo di eruditissimo e sacro alle muse. Egli da
Basilea, dove molte opere di italiani eretici si stamparono, recò di qua
dall’Alpi i libri di Lutero, ed essendo stampatore in Pavia ebbe modo
di propagarne rapidamente le invettive, forse in buona fede lusingato
dalle parole antiche onde si coprivano errori nuovi. Quei libri diedero
una scossa agli ingegni, ed era per tutto un cianciar di teologia, come
oggi si ragiona di politica ben o male, e presumendo ognuno di saperne
quel che n’è, e riprovando chiunque non pensa come lui. Egidio della
Porta, agostiniano comasco dopo esser frate da quarant’anni, nei quali
aveva predicato con fama di singolare eloquenza, scriveva a Zuinglio
come le verità del Cristianesimo fomentassero in esso non il fervore,
bensì l’ambizione: «e sicché Iddio mi mostrò (così egli) la mia nullità,
e che siamo polvere e nulla più. Allora io gli chiesi: O Signore, cosa
vuoi ch’io faccia? e l’anima mia si sentì dentro gridare: Va e trova
Ulrico Zuinglio, ed egli t’insegnerà quel che tu deva». E finisce
(8)
XI.
V. MISSAGLIA, vita del Medeghino, p. 52 e G. BATTA GIOVIO, lett. lariane,
(9) Nel poema dell’Arsilli sui poeti del suo tempo è nominato come uomo che a
cercar libri aveva girato tutta Europa. Il Bossi nelle incondite giunte alla vita di Leone
X del Roscoe, v 10, p. 94, non sapendo chi costui si fosse, propose di cambiarlo in
Fausto Sabeo di Brescia. La famiglia Calvi fu chiara in Menaggio, e n’è il sepolcro
nella chiesa maggiore.
assicurando lo Svizzero che molti altri suoi paesani s’erano con lui
rivolti al lume dei nuovi insegnamenti. Zuinglio gli fece risposta che
rimanesse e traducesse in italiano il nuovo Testamento, che poi
farebbe stampare a Zurigo. E di qui cominciò ricambio di lettere, in
una delle quali il comasco prega l’altro a dissipare al più tosto certi
dubbj dei religionarj suoi: «scrivete una lettera, ma con prudenza, che
sono pieni di orgoglio e d’amor proprio. Con qualche testo delle sacre
carte, fate loro veduto siccome è voler di Dio che la parola sua venga
predicata con semplicità e senza fronzoli e che peccano in lui coloro
che, come responsi del cielo, spacciano le proprie opinioni»(10).
Nei partiti non si guarda ai mezzi, e dalle più strane vie si confida la
riuscita; e il nostro frate esultò quando vide le bande di Carlo V calar
in Italia col Freundsberg e col Borbone; e quei miserabili che da un
capo all’altro devastarono miserrimamente l’Italia, erano da lui sperati
salvatori, e a Zuinglio scriveva: «Dio ci vuol salvare; scrivete al
contestabile che liberi questi popoli; alle teste rase tolga il denaro, e lo
faccia distribuir al popolo che muore di fame. Poi ciascuno predichi
senza paura la parola del Signore. La forza dell’anticristo è prossima al
fine».
Corre una popolare tradizione che Martin Lutero predicasse in
molti paesi del lago di Como, e che a Menaggio alcuni lo facessero per
ispregio cader di pulpito. Del che, indispettito, voltò loro le spalle,
pronunziando certi versetti d’improperio che corrono fin oggi per le
bocche di quei terrazzani. Di ciò io non trovai monumento: pure la
tradizione deve avere qualche fondamento(11). Ben è fuor di dubbio che
Calvino, verso il 1535, visse sconosciuto alla corte di Ferrara presso la
duchessa Renata di Francia, scolara sua di religione, e non pochi
guadagnò. Ma poiché vennero scoperti, chi fu preso, chi scampò, chi
venne messo a carceri e tormenti(12).
Per le persecuzioni, com è il solito, nessuno si convertì, alcuni
dissimulavano le loro opinioni, i più fuggivano là dove potessero trovar
pace, negli Svizzeri, fra i Grigioni. E per continuare in luoghi ove il
cielo, i costumi, la favella gli avvertisse d’essere ancora in Italia, si
ricoveravano nei baliati svizzeri italiani, che oggi sono il Canton Ticino,
in Valtellina e massimamente a Chiavenna.
Ap. HOTTINGER, Eccl. saec. XVI, T. II, p. 611.
in Valtellina e nei Grigioni un protestante si nomina un Luter; forse
dunque il predicatore di colà non fu che uno dei seguaci di frà Martino.
(12) Olimpia Maratti, una di que’ profughi, scriveva da Idelberga Ferrariae
crudeliter in christianos animadverli intellexi, nec infimis parci, alios vinciri, alios
pelli, alios fuga cibi consulere.
(10)
(11) Anche oggi
Il primo che d’Italia ci capitasse fu Bartolommeo Maturo, priore dei
Domenicani di Cremona, che predicò le novità in Valtellina nel 1528.
Poi nella Val Pregalia, infine fu pastore a Vicosoprano e nella valle di
Tomiliasca. Ai piedi dell’Albula s’erano messi Francesco e Alessandro
Bellinchetti fratelli bergamaschi e, abbracciata la riforma, vi
lavoravano una miniera di ferro. Avendo voluto riveder la patria,
furono arrestati dall’inquisizione; la dieta retica li reclamò come
proprii cittadini, e non fu ascoltata se non quando minacciò confiscar
i beni dei Domenicani in Morbegno.
Le due Engadine e la Pregalia devono ai rifuggiti italiani la loro
riforma, talché divenne prevalente il numero dei protestanti(13), e più
facile il propagarsi nella confinante Valtellina.
Giulio da Milano, prete secolare, predicò nell’Engadina inferiore e
fondò a Poschiavo una chiesa, di cui per trent’anni fu pastore (1571). E
lì attorno le chiese di Brusio, Ponteilla, Prada, Meschin, Piuro: ed ebbe
successore Cesare Gaffuri francescano di Piacenza.
Un Parravicini valtellinese fondò una chiesa privata a Caspano nel
1546: ma essendosi trovato un crocifisso fatto a pezzi, il popolo in
furore arrestò lui, che al tormento si confessò reo di tal sacrilegio: ma
a Coira protestò aver confessato solo per lo spasimo, e se ne accertò
autore uno studente.
A Chiavenna che, dopo che si era data ai Grigioni era cresciuta del
doppio, fece lunga dimora Girolamo Zanchi, canonico regolare di
Alzano bergamasco, che stampò a Ginevra sei volumi d’opere
teologiche e del cui sillogizzare tanto conto si facea che Giovanni
Sturmio ebbe a vantare, se solo fosse mandato a disputare contro tutti
i teologi adunati a Trento, avrebbe fatta sicura la causa dei
protestanti(14). Là pure visse e morì nei 1563 Agostino Mainardi
agostiniano, che scrisse l’Anatomia della messa e la soddisfazione di
Cristo: e che unito ad un prete, Giulio da Milano, ed a Camillo Siciliano
(13) Castagneto fu riformato da Girolamo Zerlino siciliano al qual poi successero
Agostino veneziano un G. B. vicentino; Girolamo Terriano di Cremona fu il primo
pastore di Bondo, ove il seguirono altri italiani. Da Pietro Parisotti di Bergamo fu
riformato Bevers; Siglio da Giovanni Francesco, e da Antonio Cortese di Brescia; a
Pontresina fu ministro Bart. Silvio di Cremona; a Casaccia Leonardo Eremita ed altri.
Evandro riformò Vettan e gli successe Francesco Calabrese. Vedi sempre De Porta.
(14) La vita sua fu descritta da G. B. Gallizioli, Bergamo 1785. Era tenuto per
novatore anche Vittore Soranzo, vescovo di Bergamo. Alla biblioteca nazionale di
Parigi, 8097, 3 son mss. varie lettere che Celso Martinengo bergamasco apostata, da
Ginevra scriveva ad Angelo Castiglioni, carmelitano di Genova, dopo il 1558. e le
risposte di questo, più acri che persuasive.
stabilito a Caspano, e a Francesco Negri capanese, autore d’una
Tragedia del libero arbitrio, a Chiavenna educava figliuoli.
Il Mainardi fu accolto dal ricco Ercole Salis a Chiavenna e posto
capo della chiesa quivi allora formatasi, e nella quale gli successe poi
lo Zanchi suddetto. Perocché, ad interpellazione di esso Salis, la dieta
di Davos del 1554 aveva dichiarato coloro che abbracciassero la
riforma in Valtellina potrebbero tener in casa precettori e catechisti; e
i rifuggiti stanziare sulle terre della repubblica, dopo sottoscritto alla
confessione evangelica.
Francesco Stancari mantovano insegnò in Valtellina l’ebraico,
prima d’andare a professarlo in Polonia.
A Teglio fu ministro Paolo Gaddi cremonese, che aveva fatto
tirocinio a Ginevra, poi assistito alcun tempo il pastore di Poschiavo.
Frate Angelo di Cremona domenicano, che lassù predicava la
quaresima nel 1556, si avventò contro gli insegnamenti e i riti
riformati, talché l’uditorio malmenò la costoro cappella e il Gaddi ed
altri; e il governatore della pace ordinò che esso ministro si collocasse
altrove.
Il sospetto di contagio religioso indusse il vescovo di Como sin nel
1523 a spedire in Valtellina un fra’ Modesto inquisitore; ma ne fu
respinto, e si stanziò che nessun inquisitore entrasse più su quel
territorio. Il clero e i cattolici zelanti non cessarono di opporsi
singolarmente a cotesto accogliere i profughi d’Italia; frati e
particolarmente cappuccini assai venner da Milano e da Como a
predicare la verità. Nel 1551 si domandò l’attuazione di una legge
antica, per cui nessun profugo o predicatore evangelico potesse
rimanere più di tre giorni in Valtellina. Antonio Planta governatore,
benché riformato, temette il furor del popolo e consentì la domanda,
ma la dieta rinnovò il suo primo editto.
Poi nel 1557 rese un decreto che fu messo fra le leggi fondamentali
per cui si permetteva di predicare il Vangelo in tutta la Valtellina e nei
contadi. Dove vi fosser più chiese, una si attribuisse ai riformati; dove
una sola, servisse ai due culti; i ministri protestanti fossero abili a tutti
gl’impieghi; nessun ecclesiastico straniero potesse dimorarvi se non
dopo esame ed autorizzazione del sinodo pei protestanti, e del vescovo
di Coira pei cattolici. I riformati non fossero tenuti a osservar le feste
dei cattolici.
II pastore della ricca chiesa di Chiavenna ebbe un terzo delle rendite
della cattolica; gli altri almen 40 scudi, prelevati sui benefizi degli
assenti o della parrocchia. Altre chiese v’erano a Tirano, Regoledo,
Mello, Morbegno, Dubino. Più tardi se ne posero anche nel contado di
Bormio, e pare che almeno venti ne esistessero in Valtellina, tutte
servite da rifuggiti italiani. Insomma la valle poteva dirsi un
compendio di tutt’Italia: tanti erano quelli che da ogni paese vi si
ricoverarono, allettati dalla vicinanza, dalla fida compagna dei
profughi e dalla speranza di prossimi cambiamenti.
E potevano essi consolarsene al vedere ed all’esagerare a se stessi,
secondo si suole, come in ogni parte germogliasse quel ch’essi
chiamavano seme della parola di Dio. Notissimo è come da antico
stessero ricoverati nelle valli subalpine di Luzerna e Agrogna a pié del
Monviso alcuni dissidenti, forse avanzo dei Valdesi, dei quali portano
il nome. Tollerati e tranquilli sinché i nuovi riformati svizzeri li
sollecitarono a metter fuori le professioni di loro fede, e in tal modo
provocare la persecuzione. A quelle chiese aveva servito di molta
dottrina Scipione Lentulo napoletano, e quando Emanuele Filiberto
duca di Savoja cominciò acerba persecuzione contro i Valdesi, egli
molto soffrì, indi ricoverò a Sondrio, poi a Chiavenna, coltivandovi le
nuove credenze in compagnia di Simone Fiorillo, pur napoletano.
Molto radicarono le nuove opinioni in Vicenza, ed un’accademia di
quaranta si era radunata per prendere partito del come credere e
adorare. Inquisizione ecclesiastica non tollerava Venezia, ma i suoi
inquisitori di Stato colsero cotesti novatori, e fecero strozzare Giulio
Trevisani e Francesco di Rovigo: gli altri scamparono a rotta. Fra i
quali Alessandro Trissino con altri riparò a Chiavenna, donde scriveva
al concittadino suo Lionardo Tiene, perché con tutta la città
abbracciasse una volta a viso aperto la riforma (15).
I Socini di Siena avevano intanto spinta più logicamente la libera
interpretazione del Vangelo; e, invece di arrestarsi a confini arbitrarj,
negarono la Trinità e in conseguenza la redenzione. Fu loro discepolo
Giampaolo Alciato da Milano, che predicò a Ginevra(16) ed in Polonia
con l’altro sociniano piemontese Giorgio Biandrata; e Calvino, che
visto il trascendere della riforma pensava frenarla coll’autorità che
aveva scassinata, avventò contro lui parole certo non tolte dal Vangelo:
V. TIRABOSCHI, l. 2 n. 43.
A Ginevra era una chiesa riformata italiana, ove fu ministro Nicola Balbani,
scrittore della vita di Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, dalla quale si hanno
importanti notizie sulla riforma nel regno di Napoli. Quivi, e singolarmente a
Caserta, predicò le dottrine di Zuinglio e di Melantone l’agostiniano Lorenzo
Romano di Sicilia. Nelle Calabrie furono in un dì solo scannati ottantotto per eretici.
Il manigoldo, ammazzato uno, si poneva il coltello in bocca, mentre avvolgeva un
velo al capo dell’altro che doveva scannare. Contano da seicento uccisi in quel tempo.
Si faccia la debita deduzione ai martirii raccontati da chi si gloria martire.
15
(16)
«uom non solo di stolido e pazzo ingegno, ma di affatto farnetico sino
alla rabbia». E Teodoro Beza, altro caporione, lo intitolò «uomo
delirante e vertiginoso» onde, mal sicuro a Ginevra, ricovrò verso il
1560 a Chiavenna.
Nella visita fatta alla Valtellina nel 1594, il Ninguarda vescovo di
Como trovava ricovrati a Sondrio parecchi sbanditi dalla patria,
singolarmente artefici di Cardona e del Bresciano; Natalino da Padova,
Calandrino da Lucca, Luigi Valesano prevosto di San Mojolo; a Boalzo
il domenicano Forziato Castelluzio calabrese; a Poschiavo, frate
Agostino agostiniano d’Italia (forse è il suddetto Mainardi), che già
aveva tratto dalla sua un quarto degli abitanti; a Morbegno avevano
messo famiglia Giulio Sadoleto di Modena, Bernardo Passajotto
vicentino, Pier Giorgio d’Alessandria sartore, Giovan Battista ed
Aurelio Mosconi del Polesine, Francesco Rapa di Musso, Paolo
Benedusio e Giovanni Antonio Corte di Gravedona e vi predicava
Girardo Benedettino di Fossano piemontese.
Caspano, il semenzajo della nobiltà valtellinese, abbondava più che
altri di evangelici, come essi si intitolavano o di eretici come
gl’intitolavano i nostri, ai quali predicava Angelo cappuccino
piemontese; Lorenzo Gajo di Soncino minor osservante predicava a
Mello, e un cappuccino a Traona. In altri libri scontrai Ottaviano Mej
lucchese(17), uomo di grande erudizione in greco ed ebraico, e di virtù
lodatissima, che per lungo tempo fu ministro in Chiavenna e morì nel
1619; Antonio dei Federici di Sonico in Valcamonica stava a casa in
Teglio. Ortensia Martinenga contessa di Barco(18) viveva a Sondrio.
Isabella Manrica di Bresegna napoletana, ricchissima e colta e in
relazione con Annibal Caro, stette a Chiavenna in povertà e ritiro, alla
Molti lucchesi furono tenuti eretici, dopo che Pietro Martire Vermigli fu priore
degli Agostiniani: e così altri assai toscani dei quali i più nominati sono: Matteo
Palmieri, I’andolfo Ricasoh canonico, Jacopo Fantoni, e il famoso Gamesecchi, il
quale a Viterbo si era trovato col vescovo di Bergamo Soranzo, con Apollonia
Merenda, Luigi Priuli, Pier Paolo Vergerio, Lattanzio Ragnoni di Siena, Baldassarre
Alfieri, coi fiorentini Antonio Brucioli e Francesco Pucci Mino Censo sanese, e vari
Lucchesi, tutti tinti d’una pece. Il Camesecchi finì bruciato.
(18) Non poche illustri donne furono sospettate di nuove opinioni: e a dir le più
illustri, oltre la duchessa Renata di Urbino, Giulia Gonzaga contessa di Fondi e
Vittoria Colonna, entrambe celebrate da Paolo Giovio. V TUANO, C. 39 sul principio,
e BAYLE, Dict. Si aggiungano Lavinia della Rovere Orsina, Teodora Sauli, Faustina
Mainardi fiorentina, Apollonia Merenda napoletana. Olimpia Morata ferrarese è la
più illustre. Le sue opere furono raccolte e pubblicate a Basilea il 1599 e più volte
ristampate. Si ha HOLTEN, De O. Moratta vita, Francfurt, 1731; KNETSCHTE, O. F.
Moratta, Zillau 1808; O. Moratta, her times, life, ecc. Londra 1834.
(17)
quale dedicarono Celio Curione la vita della Morata, e frate Ochino
l’opera della presenza di Cristo nel Sacramento. Marcantonio Alba di
Casale Monferrato era predicante in Malenco. Plinio Parravicino
comasco a Vicosoprano. Antonio Tempino di Gardona in Teglio.
Vincenzo Parravicino comasco, ministro nei Grigioni, voltò dal
francese in italiano il trattato di Mestrezat sulla comunione di Gesù
Cristo nel sacramento della cena. Aggiungiamo frà Francesco Carolini,
Paolo Barretta ed Antonio Crotti da Schio vicentino; altri ce ne
verranno nominati nel processo di questo racconto.
Non so se qui porre il famoso Lodovico Castelvetro, che il Fontanini
incolpò, il Muratori difese dall’apostasia. Certo è che Modena, sua
patria, andava molto presa alle nuove dottrine; un’intera accademia ne
venne accusata, e fin due di provata virtù, Egidio Foscherari vescovo
ed il celebre cardinal Morone, n’ebbero a soffrire persecuzione. Il
Castelvetro, a parte dell’accademia, fu pure a parte dei guai. Entrò poi
con Annibal Caro in una di quelle baruffe delle quali di tanto in tanto i
letterati italiani rinnovano lo stomachevole spettacolo. E allora, come
adesso, non si agitavano solo coi reciproci strapazzi e col prezzolare la
penna di quei petulanti per cui è un bisogno l’odiare e il farsi odiare, e
che non avendo bontà che fregi la memoria loro aspirano alla fama di
Erostrato, insozzando altrui col proprio fango, ma correvano le coltella
e i titoli infami e (se ne consolino i nostri) l’infame spionaggio: e il
Caro, o i partigiani di lui, scesero alla codardia di rapportare il
Castelvetro al Sant’Uffizio. Il Sant’Uffizio non era un ministero, con cui
fare a credenza. Onde il Castelvetro per timore degli esorbitanti rigori
dell’inquisizione, colpa o no che ne avesse, riparò a Basilea, a Lione, a
Ginevra; poi con Giovanni Maria suo fratello si condusse a
Chiavenna(19). Quivi si avvenne a Francesco Portocretese, amico suo
d’antica data, già lettore di greco in Modena e in fama dei più dotto
uomo d’allora, il quale già era con lui stato involto nell’affare
dell’accademia, poi vissuto con Renata d’Urbino, e scoperto aderente
a Calvino aveva dovuto dar un addio all’Italia. Il Castelvetro, per
compiacere a molti giovani studiosi, teneva in Chiavenna ogni giorno
una lezione sopra Omero ed una sopra la Rettorica ad Erennio,
discretamente sofistico, gonfio di sé e sprezzator degli altri e sapendo
(19) A gravare i sospetti sul conto della fede di Castelvetro, avvenne nel 1823 che,
ricostruendosi presso alla Staggia nel basso modenese una casa appartenuta alla sua
famiglia, si trovarono murati da 50 in 60 volumi di prima edizione di libri di Calvino,
Lutero ed altri riformatori, con moltissime carte. Queste sciaguratamente andarono
disperse; i libri furono acquistati dalla biblioteca estense. Vedi VALDRIGHI, Alcune
lettere d’illustri italiani, ecc. Modena, 1827.
non credere tutto bello, tutto vero ciò ch’è antico: fors’anco vi leggeva
ai giovani quei commenti sul Petrarca che abbiamo a stampa. Secondo
il merito lo stimò e lo protesse Rodolfo dei Salis di Solio, il quale a lui
morto pose una lapide(20), che diceva come, fuggito dalla patria per
iniquità d’uomini malvagi, dopo decenne esilio, finalmente su libero
suolo, morto libero, libero riposava. Venne tacciato il Castelvetro
d’avere tradotto un libro di Melantone, con quel suo carattere di stile
che non può essere contraffatto: nelle opere postume, comunque
temperate dagli editori, trovò la curia romana di che condannarle
all’indice, ma benché scomunicato, non consta ch’egli abjurasse la
fede. Il che, se stato fosse, non l’avrebbero taciuto i nemici per
vendetta, i religionarj per trionfo.
Chiarissimo tra i rifuggiti in Valtellina è Pier Paolo Vergerio, che
spedito nunzio del papa in Germania quando più il luteranesimo
acquistava, caldamente operò a bene della vera fede. Le sue lettere
spirano religione, vivo zelo per gl’interessi di Roma e speranza di
richiamare sul cammin dritto Lutero, col quale anche s’abboccò. Ma
tornato, quando attendeva la porpora in premio di sue fatiche, l’invidia
il bersagliò di maniera che, allontanato da Roma, fu messo vescovo
prima a Mondrussa in Croazia, poi a Capodistria sua patria. Ivi egli
pose studio a correggere gli abusi della sua Chiesa, allontanare il
convento delle monache da uno attiguo di frati, cessare le leggende di
san Cristoforo e del drago di san Giorgio, levare certe strane effigi,
negar ai santi la protezione speciale su certe malattie, togliere le
tavolette dei miracoli. Per questo gli furono addosso i frati zoccolanti
ed altri operosi nemici quali il celebre Muzio, povero arnese che la
corte romana pagava allora come suo campione, e monsignor della
Casa, l’autore del Galateo, che lo dipinsero come luterano marcio nel
cuore. Tali accuse acquistavano allora sì facile credenza, come una
volta le stregherie e nei tempi a noi vicini quelle di giansenista e l’altre
(20) D. O. M.
MEMORIAE
LUDOVICI CASITELVITREI MUTINENSIS VIRI SCIENTIAE
JUDICII MORUM AC VITAE INCOMPARABILIS QUI DUM
PATRIAM OB IMPROBORUM HOMINUM SAEVITIAM FUGIT POST
DECENNALEM PEREGRINATIONEM TANDEM HIC IN LIBERO
SOLO LIBER MORIENS LIBERE QUIESCIT ANNO AETATIS SUAE
LXVI SALUTIS VERO NOSTRAE MDLXXI FEB. XX
Anton Federico Salis nel 1791 fece risarcire quel monumento, ponendovi anche
un busto di Lodovico nel giardin suo, che poi divenne degli Stampa. Falla adunque il
Pallavicino nella Storia del Concilio di Trento, lib. XV, c. 10, scrivendo come visse e
morì tra gli eretici in Basilea: errore copiato dal Bayle nel Diction.
generiche, a cui la vaghezza toglie di esser colpite di risposta. Il
Vergerio si condusse al concilio di Trento, a radunar il quale
efficacissima opera aveva prestata, ma ne venne rigettato: ricovrò a
Padova e sentendosi o temendosi ricercato fuggì in Valtellina, e fu
sentenziato d’eresia. Chi sente la rara virtù di resistere con tranquilla
mente agli iterati colpi della fortuna, ossia della malvagità degli
uomini, slanci la pietra contro di lui, perché il dispetto, il bisogno, la
disperazione lo trasformarono in un furioso novatore. Girò la
Germania portando seco, invece di tesori mondani, molti scritti dei
novatori, dicendo «con certa sua eloquenza popolare ed audacemente
maledica» cose di fuoco contro monsignor della Casa, principalmente
per quei sozzi capitoli della Formica e del Forno, contro Paolo III,
contro il Concilio, contro le fede: «e sono certo - dice Bayle - che pochi
libri si facevano allora, i quali fossero letti con più avidità da costui».
A persuasione di lui, gli Svizzeri non intervennero al Concilio. I
Grigioni, che vi avevano mandato il vescovo Tomaso Pianta, lo
richiamarono. A Pontaresina, ai piedi del monte Bernina, predicò il
Vergerio sulla giustificazione e sui meriti della morte di Cristo e
ridusse gli abitanti alla riforma, come pure a Casaccia sotto la
montagna Maloggia. E la chiesa di Poschiavo consacrò al nuovo
culto(21), a cui tanti proseliti acquistava la sua apostasia. Quando nel
1553 visitò la Valtellina, una deputazione supplicò il governatore di
impedirlo, altrimenti non rispondevano degli scandali che potessero
nascere; e il Vergerio si tenne per avvisato, e si ritirò. Ma nel 1563 il
nunzio papale Visconti scriveva da Trento a san Carlo, essersi per
lettere del monsignor di Como inteso che il Vergerio si trovava in
Valtellina, predicando ogni male del Concilio. Poi, mentre aveva
perduta l’alta sua posizione nel clero cattolico, non acquistò la
confidenza dei protestanti, perché libero pensatore, e non aderendo a
Lutero più che a Zuinglio, diveniva sospetto a tutti. Il far episcopale
che conservava ingelosì i ministri retici, talché si ricoverò a Tubinga,
dove morì al 1565 ed alcuni ne dispersero le ceneri.
Così i Riformati già erano a lite fra loro. E anche in Valtellina i
rifuggiti, come avviene quando il senno individuale sottentra al
comune, mancava un punto d’accordo. Abbandonandosi all’orgoglio
(21) L’iscrizione ivi posta sopra la cantoria legge così: Chiesa cristiana vangelica
riformata dagli errori e superstizioni umane in questo borgo primo 1520, e da
Pietro Paolo Vergerio stato vescovo di Justinopoli e nunzio mandato da papa Leone
X nell’impero germano, ecc. Quella chiesa era già cattolica; venne poi rinnovata dal
1647 al 1649, e ristorata ancora nel 1769: vi si leggono sulle pareti alcuni detti del
Vangelo.
della libera interpretazione mettevano fuori sottigliezze ed errori ogni
giorno nuovi e, intolleranti quanto coloro da cui si erano staccati,
ognuno accusava l’altro perché facesse uso di quella libera ragione
sulla quale egli stesso si appoggiava. In esecrare il papa e riprovar la
chiesa cattolica e abbattere il clero erano unanimi, ché facile è
accordarsi nell’odio e nella negazione. Ma quando si venisse ai dogmi,
nasceva quella confusione che è inevitabile ove ognuno ha diritto
d’essere interprete della parola di Dio. Repudiato poi il simbolo
cattolico, che pure traeva autorità dall’ispirazione superna, qual
ragione doveva legarli al simbolo luterano o al calvinista, opere
d’uomini, variate nelle successive edizioni? Quindi molti
trascorrevano con Socino a negare la trinità, o cogli Anabattisti a non
accettare che la personale aspirazione.
Francesco Calabrese e Girolamo da Mantova predicavano
apertamente contro il battesimo dei bambini in Engadina, onde furono
espulsi dall’inquisizione protestante, che non era meno intollerante
della romana. Camillo Renato spacciò uguali dottrine a Caspano, poi a
Chiavenna; e vi costituì una chiesa separata ove s’insegnava che
l’anima finisce col corpo, che soli i giusti risorgeranno ma con corpo
diverso, che niuna legge naturale impone cosa fare od ommettere, che
il decalogo è inutile a coloro che credono, lor legge essendo lo spirito,
che il battesimo e la cena son semplici segni di avvenimenti passati, e
non portano alcuna grazia particolare o promessa. Il Mainardo tentò
correggerlo, e stese una confessione di fede che ne riprovava gli errori,
ma esso gli rispose violentemente, incoraggiato dal Negri e dallo
Stancari. Benché il sinodo grigione del 1547 lo condannasse al silenzio,
continuò e infine il concistoro di Chiavenna lo dichiarò scomunicato.
Adopravano cioè le armi dell’autorità, quelli che l’autorità
impugnavano. Camillo è dato dai contemporanei come maestro di
Lelio Socino, il quale in fatto molto il frequentò a Chiavenna. I suoi
seguaci procurarono che per gl’Italiani riformati si stabilisse un sinodo
di qua dei monti, senza dover condursi a quelli fra i Grigioni, paese
lontano, di lingua diversa, e dove si tolleravano alcuni riti cattolici, di
qui ripudiati. Ma si conobbe ch’era arte per prevalere dove minor fosse
il numero, e che pericolerebbero le chiese cisalpine col disunirsi dalle
retiche.
Anche Michelangelo Florio ministro a Solio, e Gerolamo Torriano a
Piuro variarono intorno all’espiazione. Luigi Fieri bolognese a
Chiavenna impugnò la divinità di Cristo, onde fu scomunicato nel
sinodo del 1561. E poiché gli Antitrinitarii erano perseguitati in
Isvizzera, molti vennero in Valtellina, fra cui Camillo Socino, Marcello
Squarcialupo medico di Piombino, Niccolò Camulio, ricco negoziante,
che col Torriano suddetto e con Bartolommeo Silvio ministro di
Traona predicavano nel loro senso, finché il sinodo del 1571 li sbandì.
Il qual sinodo approvò il diritto dei magistrati di riprovare l’eresia.
Anche l’Alciati e il Biandrata nel 1579 furono esclusi per sempre.
Adunque si comincia col titolo di riforma, e presto si giunge alla
rivoluzione. I rivoluzionari impugnano tutto il passato e vogliono
stabilir un avvenire, ma tosto sorgono altri, per cui quei primi motori
son gente attardata, son retrivi, son tiranni e alla loro volta sono
sopravanzati da altri, che non trattano più di riformare ma di abolire,
non negano solo il papa, ma Cristo. I primi novatori invocano allora
l’autorità dei libri santi, impongono simboli nuovi, dopo aboliti i
vecchi. Chi non crede chiamano eretico, e se non basta scomunicarlo il
fan passibile di pene temporali. E tutto ciò nel giro di pochi anni.
Non occorre aggiungere che i titoli di anabattista e d’ariano erano
regalati a questo o a quello dei riformati per puro pretesto d’ingiuria e
scredito, come erano ripicchiati quei di papista e di frate, pascolo
troppo consueto dei partiti: chi nutriva rancore con un altro lo tacciava
d’eretico e traditore e spione, e il volgo ignorante e dotto credeva, come
fa sempre, alle ingiurie generiche. Oltre che ai rifuggiti d’ogni fazione
suole mescolarsi una ciurma miserabile e intrigante, che tutte le
fazioni disonora e ruina.
CAPO II
Protestanti nei baliaggi Svizzeri - Sono cacciati - Premure dei
Cattolici - Concilio di Trento –
I Borromei - Impresa del Tettone - Calendario gregoriano.
Questi predicavano adunque ai popoli della Valtellina (sotto tal
nome abbraccio anche gli annessi contadi di Bormio e Chiavenna) le
nuove dottrine. Sul principio, come suole, aborrite da un popolo cui
volevano togliere i suoi santi e le sue reliquie, indi per curiosità
ascoltate, poi discusse. E giacché i nuovi teologanti, oltre aver
l’avvantaggio di chi attacca, s’erano di proposito addentrati nelle
dottrine loro, mentre i più di quei preti erano rozzi delle cose
dell’anima ed avvezzi a credere senza tanto esame, molti vennero a
seguirli, quali perché vedevano veramente come i protestanti, quali per
l’allettamento proprio d’ogni novità, quali perché recatesi a noja le
austere discipline, amavano meglio vivere come ne tornava in piacere
alla lor carne. Alcuni allora per cieca sommessione, per riverenza
servile, per adulazione. Imperocché i signori grigioni, dei quali la parte
maggiore si era scossa dall’ubbidienza alla sede romana, non solo
diedero alla Valtellina libero esercizio del culto evangelico, ma
favorivano chiunque con loro credesse. Era tutt’uno l’abbracciar la
riforma ed essere dichiarato uomo delle Tre leghe, aver privilegi,
cariche, esenzioni. Né poche famiglie apostatarono: i Lazzaroni, i
Besta, i Paravicino Cappelli, i Marlianici, i Malacrida, l’arciprete di
Mazzo, i Guarinoni, i Sebregondi, i Piatti ed altri di primo conto, dietro
cui, come suole, traeva il popolo imitatore. Se vogliamo aver fede al
Magnocavallo(22), di 100.000 abitanti ben 4.000 avevano volte le
spalle all’ovile romano.
Né in minor frangente stava la fede nei paesi italiani sottoposti agli
Svizzeri. Quanto presto vi entrassero le dottrine d’oltremonti ce ne fa
chiari una lettera, che fin dal 15 dicembre del 1526 Baldassare Fontana
carmelitano di Locarno dirigeva alle chiese evangeliche della Svizzera
«fedeli di Gesù Cristo» perché pensassero al Lazzaro del Vangelo che
bramava nutrirsi delle briciole cadute dalla mensa del Signore. E
quindi volessero, alle lagrime ed alle supplicazioni sue compiacendo,
inviare «le opere del divino Zuinglio, dell’illustre Lutero,
dell’ingegnoso Melantone e dell’accurato Ecolampadio» o far ogni loro
(22)
Diario manoscritto delle cose comensi.
potere perché «la nostra Lombardia, schiava di Babilonia, acquistasse
quella libertà che il Vangelo impartisce». Questo frate era ancora a
Locarno nel 1531, donde un’altra lettera scriveva di somigliante tenore.
Molti riformati vi erano, o fuggiti dall’Italia, o venuti a posta
d’oltremonte come maestri, o giovani che, pel commercio o per
l’educazione mandati in Germania, tornavano insegnati delle nuove
cose. A Bellinzona abitò sovente Ortensio Landi milanese che disertato
dagli Agostiniani, stranamente morse preti e frati in un libro, de
Persecutione Barbarorum, indi fece tragitto ad ogni sorta di dottrine
riprovate che lo fecero porre dal Concilio di Trento fra i condannati in
primo grado. Bizzarro ingegno, gran conoscitore degli autori antichi
eppure emancipato dalla cieca venerazione per essi. E come dice
Giannangelo Odoni, volea Cicerone e Cristo, ma quello nei libri non
aveva. Se questo avesse nel cuore, Iddio lo sa.
Non par vero che in quelle podesterie dimorassero Lelio e Fausto
Socino a predicarvi le loro credenze avverse alla Trinità. Ma il governo
uccise od esiliò molti loro settarii. Un Beccaria che si era eretto a
Locarno principal autore degli Evangelici fu dal balio cacciato in
prigione, ma una banda dei suoi ne lo trasse, e lo menò in trionfo. Egli
giudicò meglio ricoverarsi a Chiavenna, e rimase a capo di quei
novatori Taddeo de Dunis medico; e già troppi non andavano più alla
chiesa, non ricevevano i sacramenti, e per il battesimo facevano venire
un ministro da Chiavenna. Ma poiché i Cantoni signori di quelle
podesterie s’attenevano i più alla fede cattolica, ai nemici dei Riformati
e ad Emilio Orelli acerbissimo persecutore di quelli non riuscì difficile
il persuaderli a nettarne quelle terre.
Già per consenso dei sette Cantoni cattolici(23) il balio di Locarno
aveva ingiunto ai Riformati che, pena il bando, andassero alla messa.
Ne fecero richiamo i Cantoni evangelici, ma indarno, atteso che
vedevano come tali novità fossero per rompere l’unità elvetica. Infine
nel 1555 il balio congregò tutti i capi delle famiglie riformate, ch’erano
ben 150, ed intimò loro da parte dei signori svizzeri che colle famiglie
e coi beni dovessero, senza por tempo in mezzo, abbandonare la patria.
Ascoltavano essi nel silenzio il comando, allorché entra fra l’adunanza
il Riverda, nunzio pontifizio, esclamando troppo mite la sentenza,
doversi toglier loro e i beni come roba di eretici, e i figli che si
crescerebbero così alla vera credenza. Ma con ciò il nunzio non ottenne
che di mostrare il suo maltalento, giacché il balio non poteva
trascendere il suo mandato.
(23)
Erano Lucerna, Uri, Svitto, Unterwald, Zug, Solura, Friburgo.
Quelli che si disposero ad obbedire fecero la sommessione. Gli altri
il 3 di marzo, seguiti dalle mogli e dai figliuoli, fatto fardello delle robe
loro, da una parte colla rassegnazione d’uomini attaccati più alla
credenza che alle cose del mondo, ma dall’altra col crepacuore di chi
lascia i parenti, gli amici, le abitudini della vita, una patria sempre
cara, più cara a chi ne è spinto lontano da una forza prepotente, fra gli
stridori della stagione valicarono le nevi del Gottardo in traccia di paesi
ove non fosse colpa l’adorare a modo loro. Guidati da un Pestalozzi, da
Giovan Luigi Orelli e dal dottore Martino Muralto, entrarono nei
Cantoni protestanti e fermatisi i più a Zurigo, vennero con carità
accolti e soccorsi. Non cercavano essi che sicurezza e pace: poteva
mancare di che vivere a gente volonterosa della fatica, sperta nelle arti?
Alle quali drizzatisi, fecero alzare a gran fiore l’arte della seta,
stabilirono filature e tintorie, per cui Zurigo venne in grandezza, a
scapito delle podesterie italiane. Ancora serba l’antico nome il
sobborgo dei Lombardi, ove quelli si posero: le famiglie vi
acquistarono ricchezza e nome(24).
Ivi ottennero di formare una chiesa, diretta in prima dal Beccaria, il
qual poi tornò fra i Grigioni a Mesocco, diffondendovi le sue dottrine,
finché sturbatone da Carlo Borromeo nel 1561, si ritirò a Chiavenna. A
Zurigo gli successe nel 1555 Bernardino Ochino, famoso cappuccino da
Siena che aveva errato per Germania e per Inghilterra, applaudito e
perseguitato. Ivi stesso ebbe cattedra di teologia e d’ebraico Pietro
Martire Vermiglio, che già aveva combattuto per la Riforma in
Inghilterra e in Francia, in modo che le opere sue eran messe a livello
con quelle di Calvino. A quella chiesa italiana appartenne Lelio Socino,
che ottenne la stima di Melantone, Bullinger, Calvino, Beza,
dissimulando sotto proteste e confessioni la sua avversione alla
Trinità; e pare che egli la insinuasse all’Ochino, le cui ultime opere
sentono di questo errore, per il quale ebbe guai a Zurigo e ne fu
bandito, di 76 anni, con i figli, nel fitto inverno. Respinto da Basilea e
da Mülhausen, si nascose in Moravia ove della peste perduti due
figliuoli e una figlia, morì nel 1564.
Anche a Basilea molti italiani s’erano ricoverati. Paolo Alessandrino
de Colli, padre d’Ippolito, celebre giureconsulto, Guglielmo Grattarola
(24) I Pestalozzi, gli Orelli, i Muralti, che sì bene meritarono della Svizzera in questi
ultimi tempi, traggono origine da Locarno. Bisogna dire che questo paese non si fosse
del tutto ripurgato, poiché intorno al 1580 il papa trovò mestieri di commettere
quella pieve alla speciale cura di monsignore Speziano, vescovo di Novara, che la
tenne un dieci anni.
di Bergamo, Alfonso Corrado mantovano, che aveva predicato fra i
Grigioni, Silvestro Teglio che tradusse in latino il Principe e Francesco
Betti cavalier romano, Mino Celsi, Celio Curione, dalle cui molte opere
raccogliamo varie particolarità intorno ai riformati italiani.
Altri ebber ricovero a Strasburgo, fra cui Paolo Lazise di Verona,
profondo nelle tre lingue dotte e che vi fu professor di greco, Girolamo
Massari di Vicenza che vi insegnò medicina e descrisse un processo
dell’Inquisizione romana, e sebben non avessero Chiesa, si univano in
assemblea particolare, diretta da Girolamo Zanchi che colà professò
teologia. Lo Zanchi stesso era stato chiesto ministro a Lione dove molti
Italiani stavano, e dove stamparono libri loro; ma egli preferì passare
a Chiavenna. Rifiutò pure gl’inviti della chiesa italiana d’Anversa nel
1580, alla quale andò il conte Ulisse Martinengo, dopo rimasto alcun
tempo in Valtellina. Altre chiese avevano i nostri a Ginevra e Londra.
Alla causa dei cattolici, più che il venir dei nemici, noceva
l’addormentarsi delle sentinelle d’Israele. Anziché levarsi al sacerdozio
i più probi e sapienti, ogni genìa vi trovava asilo, ogni ignorante, molti
malvissuti vi si ricoveravano per avere agio, sicurezza ed ozio. L’essere
il clero immune dal Foro secolare lo rendeva baldanzoso col venderli
simulatamente agli ecclesiastici, o col legarli a nome di benefizio, si
sottraevano i fondi alle gravezze. Se in una famiglia vi fosse un prete, a
qualunque richiamo compariva lui. Se in un delitto fosse implicato un
prete, si invocavano i privilegi del Foro. I preti intanto andavano
attorno carichi d’armi, volevano cacciare nei tempi proibiti (era dalle
calende di marzo a quelle di luglio). Con astuzie si causavano dalle
taglie(25). Peggiori cose ebbi ad imparare dagli atti delle visite degli
ordinarii di Como e di Milano. Oltre che i più fra i sacerdoti appajono
ignoranti a segno, da saper a mala pena segnare il proprio nome,
intendevano a turpi guadagni, tenevano senza pudore in casa le
complici ed i frutti dei loro peccati(26). E taccio le violenze, le ire, le
troppe più cose ch’io so, e che facevano correre in proverbio non
Vedi un appello dai Valtellinesi sporto al vescovo di Como, manoscritto in
questa curia.
(26) Delle monache di Moncarasso destinate all’educazione, sol una sapeva
scrivere alcuna cosa. Che anzi le constituzioni severamente proibivano alle monache
di tenere in camera penna, carta e calamajo; e in caso di provato bisogno, dovevano
ricorrere alla badessa. L’arciprete di Dongo querela presso al vescovo Ninguarda il
curato di Musso, che vantava volergli cavare il cuore, ed altri preti, che gli avevano
spianato incontro il fucile. Il curato di Barbengo faceva mercato di vacche e cavalli,
fabbricava casse e tini, teneva bastardi, eccetera. Visit. episc. Ning. 1593, 94.
(25)
esservi modo più facile di dannarsi che l’andar prete(27). Non erano così
rari quelli che, per i bisogni delle plebi, avevano facoltà di celebrare
due messe la festa: ma molti se la usurpavano per guadagno. Ebbi a
mano una relazione dell’arciprete di Tresivio al vescovo, dove si lagna
che i preti di Valtellina portano barbe a foggia di Turchi, «usano collari
alle camicie rotondi e crespi alla bresciana, le sottane con collari pure
rotondi cascanti sul collo, maniche scavezze e folte di bottoni, e veste
quale portano gli sbardellati Bresciani». Ben i vescovi comaschi
gridavano, senza cessare, perché si osservassero le feste, i sacerdoti
smettessero gli abiti sfarzosi, le armi offensive, non bazzicassero
l’osteria, non ricettassero malviventi, non donne di mal affare. Il
vescovo Volpi interdice di vendere alla festa confortini né odori, il fare
spettacoli di saltimbanchi, ed il sedere in chiesa: i preti non portino
calze sparate e larghe, non camicie colle crespe e le lattughe, non il
cappello in città o nei borghi, se pur non fosse per ripararsi
dall’intemperie. Si astengano dai guanti, non barbe troppo lunghe, non
armi, eccetto un coltello in viaggio. Il vescovo Archinti si lagna che
troppe parrocchie rimangano sprovvedute di parrochi perché date in
commenda a cardinali, i quali in Roma ne godevano, senza cura, le
entrate. E che i preti della Valtellina rechino scandalo agli eretici,
singolarmente per l’ignoranza, l’andare armati, la lussuria e l’imperizia
dell’ecclesiastica disciplina in quella esecranda libertà di vivere, e di
dire quanto meglio piace a ciascuno. Era poi piuttosto unico che raro
quel parroco che talvolta spiegasse il Vangelo o la dottrina ai suoi: e la
predicazione era abbandonata ai frati, singolarmente ai mendicanti,
indipendenti dal vescovo, e spesso più desiderosi dell’applauso che del
frutto, o del frutto della bisaccia che di quel delle anime. Recando
Così il Giussano nella vita di San Carlo. Questo santo nelle Trevalli lepontine
scriveva aver trovato XIV sacerdotes publica scortorum consuetudine infames:
presbiteros ibidem suis ipsorum filiis stipatos ad aram procedere solitos, atque hoc
sibi jus profanos earum regionum praetores sumpsisse, ut scorti domi tenendi
facultatem sacerdotibus pro arbitrio impertirentur. L. 2 c. 1. Poco dopo nota che
mercatura et sordidi quaestus minima sacerdotum flagitia erant, ecclesiae
stipendia in pellicum alimenta vertebantur, et patris nomen quod ex publicae
salutis cura mereri debuerant, plerique ex libidine voluptatum acceperant. Leggesi
ivi pure L. 2 c. 7 che il santo soppresse molti monasteri, monialium non dicam
collegia, sed amantium contubernia. Erano tali quei di Bellagio e di Mompiatto.
Carlo II scrisse al vescovo della sua città di Como perché provvedesse d’impedire «le
conversazioni de’ secolari con religiose, avanzandosi anche a cose illecite con titolo
di devozione». Lett. 13 gennaio 1682 nell’archivio municipale di Como. La
rilassatezza monastica è con strano vigore rivelata nel Gemitus Columbae del
cardinal Bellarmino.
(27)
adunque non rimedio ma danno quelli che dovevano opporsi, non sarà
meraviglia se la Riforma più sempre acquistava.
I Cattolici però s’ingegnavano assai per tutela dell’antica credenza.
Ai vescovi di Como non molto restava a fare, giacché i Grigioni,
sospettosi sempre di qualche trama, ne avevano angustiata l’autorità,
vietando il ricorrere ai superiori ecclesiastici, escludendo ogni
sacerdote estero, nel qual titolo comprendevano anche gli Ordinarii.
Se non che fatto vescovo Feliciano Ninguarda nativo di Morbegno,
mancò ogni ragione di tenergli la porta della valle, onde la visitò ad
agio suo. Nei sinodi poi e nelle lettere circolari non cessavano essi
vescovi di esortare i Valtellinesi a durare fermi nella fede, aprir bene
gli occhi su chi viene d’oltremonte, massimamente soldati a quartiere
od a guarnigione. Ne esplorino i fatti e se alcun che ne scoprano, diano
indizio all’Ordinario se non vogliono cadere in un peccato riservato.
Anche ogni maestro era obbligato a prestare giuramento di fede in
mano del vescovo.
E poiché ogni potere minacciato diviene violento, neppur le vie del
rigore furono intentate e la Chiesa sgomentata chiamò in ajuto il
braccio secolare, agli orrori della superstizione e dell’impostura
opponendo gli orrori dei roghi. Basti, per non esser lunghi, citare
Francesco Gamba di Como, che essendosi condotto a Ginevra a
celebrar la cena cogli Evangelici, mentre tornava in patria fu còlto e
(ciò fu il 21 luglio 1554) strangolato, poi gettato al fuoco. Neppure in
morte aveva voluto ricredersi, ed affinché favellando non recasse
scandalo al popolo accorso al suo supplizio gli venne forata la lingua.
Anche Galeazzo Trezzi, gentiluomo lodigiano convertito dal Mainardi
e dal Curione, fu nel 1551 condannato dall’Inquisizione al fuoco. Il duca
d’Alba, la cui memoria risveglia quella dei supplizii e delle stragi dei
Paesi Bassi, venuto governatore del Milanese raddoppiò i rigori e nel
1558 furono bruciati un religioso e un altro, e così negli anni seguenti.
Le declamazioni dei dissidenti e l’antipatia rimastale come a nemica
del progresso indicano che a capo della opposizione stava Casa
d’Austria, adoperando ingegno, forza, brighe, danaro; quel danaro
austriaco che si trova denunziato in antiche e moderne diatribe. Si era
ella vivissimamente industriata per introdurre la spaventosa
inquisizione spagnuola invece della mansueta romana nel Milanese,
che «ridotto in miseria per l’eccessive gravezze, si sarebbe disciolto
affatto con quella che superava tutte». Ma due volte che si tentò sotto
Filippo II ed il III stabilirla in Milano, si levò a ribellione il popolo per
la formidabile severità di cotal tribunale onde fu consiglio di
prudenza lasciarla nel primiero stato.
Un gran tempo però e Cattolici e Riformati appellavano all’autorità
d’un concilio generale, che discutesse ampiamente e liberamente sui
dogmi della fede. Solo era in contesa il luogo, volendolo i Protestanti
in una città libera, per condursi alla quale non avessero d’uopo di
salvocondotti, ai quali aveva tolto fede il concilio di Costanza col porre
alle fiamme Giovanni Hus(28).
Ma Paolo III l’aveva decretato in Trento e avendo i dissidenti
ricusato intervenirvi e impugnatane l’autorità, dopo infinite lungagne,
fu aperto, poi chiuso, poi trasferito con replicata vicenda, sinché a Pio
IV riuscì di mandarlo a fine. Non è qui luogo di dire quanto quel
venerabile consesso abbia giovato alla religione riguardo al dogma, e
col separare del tutto quelle opinioni a conciliare le quali si presumeva
convocato. Certo è che quanto alla disciplina aperse un’epoca nuova.
Rese al clero cattolico il vigore perduto; richiamò i costumi, sagrificati
da prima ai piaceri e agli interessi; procurò nell’opinione dei popoli
rialzare gli ecclesiastici al grado dond’erano scaduti e fece che la corte
romana, animata da zelo e dal vero sentimento della religione, non
porgesse più che santi esempi.
Secondo la mente di quel Concilio, monsignor Bonomi vescovo di
Vercelli fu delegato a visitare la diocesi comasca. Entrò in Valtellina,
mandando voce di recarsi a titolo di salute ai bagni di Bormio. Ma
poiché si diede ad esercitarvi l’uffizio suo, i Grigioni mandarono
intimandogli che, se veramente intendeva venire a cercare sanità, fosse
il ben arrivato. Non patirebbero però mai sottofini, e dove non giovasse
l’avviso sarebbero presti ad imprigionarlo, trattandolo non altrimenti
che il suo papa trattava i loro ministri. Queste minacce, cui facevano
viso di voler dare corpo, atterrirono il Bonomi, che con poco frutto se
n’andò. Ma negli ordini da lui dettati alla diocesi di Como impose che
i parroci (oltre il giovedì santo colla bolla in Coena Domini) leggessero
due volte l’anno, nei giorni di maggior frequenza, un editto che
obbligava a denunziare all’Inquisizione entro quindici giorni ogni
eretico, o chi mostrasse fuorviare dalla credenza comune, o tenesse
libri proscritti. Ogni settimana il vescovo si affiatasse coll’inquisitore e
con certi teologi e canonisti per giudicare degli eretici e dei sospetti.
Pio V papa tentò gran maneggi fra i Grigioni per favorire i Cattolici
e impedire le apostasie crescenti in Valtellina, ma senz’altro ritrarne
(28) Corre voce si volesse una volta trasportare a Gravedona il Concilio. Forse si
appoggia a certi seggioloni a bracciuoli ch’ivi sono nella gran sala segnati coi nomi
dei cardinali d’allora. Ma non contando il silenzio degli storici e dei panegiristi di
quel palazzo (p. e. il Minozzi), basti dire che Trento stessa pareva picciola alle gran
corti di quei prelati.
che la morte di Giovanni Planta signore di Retzuns, uomo pien d’ogni
lode e caloroso protettore della causa romana. Contro questo papa un
odio particolare avevano concepito i Grigioni fin da quando, essendo
col nome di frà Michele Ghislieri inquisitore della diocesi di Como, si
era con forza adoperato contro i novatori. Una volta, avuto spia che a
Poschiavo si erano impressi libri pieni delle nuove massime destinati
all’Italia e che alcune balle n’erano state spedite ad un negoziante di
Como, frà Michele le sequestrò. Il mercante ebbe ricorso al capitolo del
duomo, che in sede vacante presedeva al Foro ecclesiastico, ma invano
s’interposero i canonici per la restituzione, benché spalleggiati dal
governatore Gonzaga. Del che piccati, sparsero per la città contro
l’inquisitore male voci, cresciute a tanto che, preso dalla plebaglia a
villanie ed a peggio, ebbe pel il migliore partito il ritirarsi. E si recò a
Roma, ove la congregazione dei cardinali decise in suo favore e citò
innanzi a sé il vicario e quattro canonici come eretici, che ebbero a far
e dire a scamparsela(29). Egli medesimo essendo a Morbegno, aveva
istituito processo contro Tomaso Planta vescovo di Coira per sospette
opinioni, senza né citarlo, né nominare i testimoni: procedura solita
all’inquisizione, ma contraria agli ordinamenti dei Grigioni. I quali,
dando facile ascolto ai richiami del vescovo, fecero dal podestà di
Morbegno vietare a frà Michele di procedere più oltre contro chi che
fosse in Valtellina, se non previa licenza dei signori Reti. Dovette egli,
allora tanto, piegare il capo; ma spinto poi dal suo zelo rinnovò i
processi, onde a poco si tenne che il popolo non gli mettesse le mani
alla vita. Divenuto poi pontefice, e saputo che Francesco Cellario già
frate poi ministro protestante in Morbegno, non là solo, ma fino a
Mantova(30) diffondeva le sue dottrine, lo fece cogliere di sorpresa, e
tradurre al sant’uffizio di Roma, che lo cacciò dal mondo. Non era egli
dunque il soggetto meglio opportuno ad acquetare i Grigioni, che
studiavano anzi rendergli secondo avevano ricevuto.
Chi meglio d’ogni altro operò fu Carlo Borromeo, cardinale
arcivescovo di Milano. Capace di riuscire a qualunque, arduo per la
Forse si ricordò di ciò, allorquando, fatto papa, fulminò di tremendo anatema
chi si permettesse alcuna ingiuria contro gli inquisitori.
(30) Serpeggiava molto in Mantova la dottrina novella: e pare vi aderissero Camillo
Olivo, segretario di quel cardinale e amico del Sarpi, ed Antonio Ceruto canonico,
scolaro del Vergerio, come dai processi dell’Inquisizione di Roma. Nel 1568, aperte
a forza le carceri dell’Inquisizione, i Mantovani scannarono due domenicani. Carlo
Borromeo, mandato dal papa a por freno al male, vi riuscì: e dei moltissimi frati che
favorivano i predicanti, i più fuggirono, altri furono messi in istato di non più
nuocere.
(29)
forza della volontà, una grande ricchezza, i vantaggi d’una condizione
privilegiata, la gioventù, le aderenze, l’autorità della virtù e l’intima
persuasione della causa che sosteneva, stabilì, finché l’anima gli
bastasse, opporsi al lacrimabile incendio quand’era più vivo. Spinto
per sua principal cura a fine il sinodo di Trento, tutto fu in rinnovellare
la propria Chiesa: viaggiò, e veduto che l’ignoranza del clero era cagion
prima dei progressi della Riforma, e che i più erano privi d’ogni sorta
di lettere nelle terre soggette a signoria svizzera, stabilì in Milano il
collegio elvetico, ove dovessero allevarsi per Dio operai apostolici e
difensori della fede(31). Mandò missionari, e singolarmente oblati da lui
istituiti, e Gesuiti, nati poc’anzi per opera d’Ignazio da Lojola; e tanto
fece che i sette Cantoni cattolici giurarono la così detta Lega d’oro o
Borromea e concessero che un nunzio papale rimanesse di piè fermo
nella Svizzera. Non è mestieri vi dica a quanto dispetto dei Cantoni
riformati, che si vedevano piantato nel cuore un nemico attento ed
operoso. Ma del Borromeo il principal desiderio, dice il Bescapé, «era
volto alla Valtellina, sì per la vicinanza che essa ha con noi sì per gli
ingegni svegliati di quei popoli, non pure all’erudizione adatti, ma alla
probità altresì proclivi, che soleva esso Carlo non mediocremente
lodare». Procurò dunque stabilirvi i Gesuiti che, sostenuti da Antonio
Quadrio medico di Ferdinando d’Austria, si posero a Ponte, guidati dal
padre Bobadilla, tanto celebre nella storia della celebre compagnia. I
Grigioni li sbandirono come forestieri, ond’essi vennero a collocarsi a
Como.
Può esser un esempio della lautezza con cui provvedeva alle conversioni quel
santo, il qual poi digiunava mezzo l’anno in pane e acqua. A quel collegio fu assegnata
la prepositura di Rivolta presso Monza; Gregorio XIII vi aggiunse 2400 zecchini
annui, alcuni benefizi, e case e commende ch’erano appartenute all’ordine degli
Umiliati, allora abolito. Dovevano starvi 20 svizzeri e 20 Grigioni; poi il cardinale
Altaemps cugino di san Carlo vi unì la sua commenda di Mirasole acciocché vi
avessero posto 24 chierici della diocesi di Costanza. Riceveano anche la laurea, ma
doveano giurare d’andar a servizio dei propri paesi. Federico Borromeo fece
fabbricare per essi uno dei più magnifici palazzi di Milano a disegno di Fabio
Mangone. Giuseppe II, che riformava a bastonate, cacciò via quei chierici per
mettervi degli impiegati, nei quali esso riponeva il progresso. La rivoluzione poi abolì
quei posti gratuiti; di che la confederazione svizzera si querelò sempre invano, finché
nel 1841 furono istituiti per gli Elvetici 24 posti gratuiti nel seminario arcivescovile,
per ciascuno dei quali il governo pagava mille lire.
(31)
Trovandosi poi il cardinale, nel 1580, in Valcamonica per secondare
le istanze del vescovo Volpi, passò pei Zapelli d’Aprica(32) in Valtellina,
sotto apparenza di un pellegrinaggio alla Madonna di Tirano, tempio
sontuoso per edifizio e celebre per devozione, ove, malgrado del
divieto, il giorno di sant’Agostino fu ricevuto con solennità di rito, non
meno che d’affetto, anche dai Protestanti. Sigismondo Foliani,
bormiese, gli recitò un’orazione in cui (come solevano tutti allora e
molti adesso) non dice che parole(33). Egli poi, il cardinale, edificò la
concorsa folla coll’esempio, collo speciale studio di carità e di
prudenza, e con un discorso animato da quella fede che vince ogni
errore e dall’eloquenza di chi parla dalla pienezza del cuore. Aveva egli
saputo ottenere che i Cantoni cattolici mandassero una delegazione a
proteggere gli affari degli ortodossi valtellinesi alla Dieta dei Grigioni,
ma non ne avanzò gran fatto. Volle anche visitare le terre poste attorno
al Lario ed al Ceresio, come bisognevoli assai di ajuto; e a Como, avuto
colloquio col vescovo sul bene della Chiesa, passò per Menaggio a
Porlezza e nella Cavargna, valle selvatica che s’interna da quella di
Menaggio ed i cui abitatori rompevano ad ogni delitto, sì di violenza,
sì d’astuzia(34).
Dalle lettere del Borromeo caviamo una pietosa storiella. In Val Trompia
s’avvenne in una giovinetta, il cui padre era tra i riformati nella Valtellina: e l’avo
presso cui vivea continuamente instava perché al padre la se ne andasse. Ella però,
temendo il pericolo dell’anima, si rifiutava, finch’egli la cacciò di casa, sicché doveva
tollerare a stento la vita presso una povera donna, contenta d’essere mendica, purché
sicura in sua fede. Morto poi l’avo, venne in Valtellina un fratello di lei per trarla a
viva forza a convivere col padre: e già strappata alla patria ed alla pietosa amica,
l’aveva trascinata sin presso di Gardona, quand’ella destra si sottrasse, ed
immacchiatasi nel bosco, per luoghi inaccessi tornò in patria, ove languì povera,
sinché venuto il Borromeo ne sollevò la generosa povertà.
(33) E alle stampe coi cinque libri delle epistole sue e dodici orazioni latine.
Venezia, Guerraei 1587. Di questa visita vedi i curiosi particolari nel Giussano, Vita
di san Carlo L. VI c. 6. Carlo stesso scriveva al cardinale Speciano: «In questa
occasione calato in Valtellina, volli visitare la celebre chiesa della Madonna, per
infiammare quanto potessi gli ortodossi di quella valle: poiché giaciono
dall’intollerabile giogo degli eretici quasi oppressi, e gran pericolo reca di contagione
il quotidiano convivere coi nemici della nostra fede. Ivi predicai per dare qualche
consolazione a quel popolo, che ardentemente bramava udire la mia voce, e
volentieri lo feci con facoltà del vescovo di Como».
(34) Il vescovo di Piacenza scriveva a san Carlo sotto il 22 marzo 1583 «V’ha alcuni
della tua diocesi, singolarmente di Carlazzo, Corrido e Cavargna, che si presentano a
spedali ed altre pie case addomandando danaro, e compiendo per tutta Insubria ogni
genere di iniquità. Quel che è peggio, sotto il velo della religione, esercitano arti
pessime, spargono superstizioni, falsità contrarie alla cattolica fede, divulgando false
indulgenze, agnus dei profani, anelli raccomandati da falsi riti: per tacere altre
(32)
Così conciliando paci e rammendando i costumi, passò nelle tre valli
di rito ambrosiano, poi a Gnoasca, a Giornico(35), a Lugano e di nuovo,
pel Ceresio, a Menaggio ed alla Valsassina.
Fattosi poi, nel 1582, a Roma, n’ebbe il titolo di visitatore pei paesi
svizzeri e grigioni anche sottoposti all’Ordinario di Como. Non fu
autorità a cui non avesse ricorso per ajuto in questa legazione: ai re di
Spagna e d’Inghilterra, a Rodolfo imperatore, ai Cantoni cattolici al
vescovo di Coira, al duca di Savoia, anche ai Veneziani. Scrivendo egli
al Castelli vescovo di Rimini, legato pontifizio in Francia, perché
intercedesse presso Enrico re sicurezza e libertà a lui ed ai preti. «Fa
però, gli diceva, che i Grigioni non sentano che io vada a loro legato del
papa: questo solo nome ogni cosa perderebbe. Si dica un privato mio
viaggio, col qual titolo, senza scemare il frutto, consolerò quei popoli.
Ben i cattolici mi desiderano, e gli eretici stessi mi mostrano qualche
deferenza ed amore: onde nutro speranza non mi si pongano
impedimenti: solo ho paura che i profughi dall’Italia non mi guastino
tutto. Sono essi sentina di vizii, né solo eretici, ma molti apostati, e del
resto facinorosi e perduti che appena udranno trattarsi di sostenere la
religione cattolica e vedranno maturare le prime felici sementi,
temendo d’essere sterminati, daranno in furore, metteranno fuoco nei
capi per ritardarmi o togliermi ogni buon effetto... Quindi
principalmente sarebbe a curare che dall’intollerabile giogo degli
eretici venissero sollevati i cattolici di qua dalle Alpi. Poiché, quando
sortiscono le magistrature gli eretici, se anche non facciano aperta
violenza ai cattolici, pure si mostrano intenti a svellere la religione.
Poiché e danno pessimi esempi come scellerati ministri del diavolo, e
non lasciano la libertà di cercare o ritenere probi e religiosi sacerdoti,
che avviino sul calle della salute. Sendo vietato agli esteri, tuttoché
ottimi, di andar colà, mentre hanno podestà di rimanervi empii e
fallacie colle quali assicurando il perdono dei peccati, la liberazione dal purgatorio,
guarigione da certi mali, accalappiano gl’ignoranti, che delusi dalle vane promesse
di tanti beni, si lasciano smungere la borsa, mentre quegli ipocriti si fanno pingui col
danaro altrui e coi propri peccati». Anche il Giussano nella vita di san Carlo, I. VII,
c. 16, c’informa che, con una raffinatezza appena credibile in gente nata e cresciuta
fra le selve, penetravano sin nelle reggie, con pompa di arredo o fingendo una
legazione, o falsi titoli o privilegi.
(35) Il passaggio del San Gottardo era allora uno dei più formidabili, pure fin dal
1374 l’abate di Dissentis vi aveva posto un piccolo ospizio. Nel suo viaggio san Carlo
determinò porvi una fabbrica solida; ma morì prima d’eseguirla, e Federico
Borromeo vi collocò nel 1602 un prete con casa. L’ospizio fu poi eretto nel 1683
dall’arcivescovo Visconti, con due frati cappuccini per assistere i viandanti. Si sa
come soccombette nella guerra contro il Sunderbund.
perduti uomini. Laonde, poiché il re può tanto presso i Reti,
gioverebbe che, senza far mostra d’essere da me officiato, vi
s’adoprasse. E tu potresti mettere in mente ad Enrico uno scrupolo che
pungesse e lui ed i Grigioni: mostrare cioè il male che ne potrebbe
uscire, se tanti, oppressi dalle calamità e stancati, come può avvenire,
dal giogo, macchinassero alcuna cosa e si ribellassero».
Con Francesco Panigarola francescano(36) e col gesuita Achille
Gagliardo, riassunta la visita, fu di nuovo a Lugano, poi a Tesserete,
consolato dalla pietà di quei popoli, ove, di cinquecento confessati,
neppur uno si trovò in colpa mortale(37): per Bellinzona si condusse a
Rovereto, nella Mesolcina, valle italiana sommessa ai Grigioni, ove
scoprì moltissime streghe. Istituitone processo, di queste ben 130
abiurarono: quelle che non vollero confessarsi in colpa, furono
condannate, e prima quattro, poi altrettante, poi tre, indi più altre,
vennero arse, e fin il prevosto di quel paese, Domenico Quattrino, che
da undici testimonii era stato visto nella tregenda coi demonii menar
danze oscene in paramenti da messa, e recando il santo crisma. Un tal
padre Carlo, sotto gli 8 dicembre 1583, descriveva al suo superiore il
supplizio di alcune fra queste. «In un vasto campo, costrutto un rogo,
ciascuna delle malefiche fu, sopra una tavola, dal carnefice distesa e
legata, poi messa boccone sulla catasta, ai lati della quale fu appiccato
fuoco: e tanto ferveva l’incendio, che in poco d’ora apparvero le
membra consunte, le ossa incenerite. Dopo che il manigoldo le ebbe
avvinte alla tavola, ciascuna riconfessò i suoi peccati, ed io le assolsi.
Lo Stoppano poi (quel desso che menzionammo pochi versi sopra) e
due altri sacerdoti le confortavano in morte, e le affidavano del divino
perdono... Io non basto a spiegare con qual intimo cordoglio, e quanto
di pronto animo abbiano incontrato il castigo. Avanti condotte al
supplizio, confessate e comunicate, protestavano ricevere tutto dalla
mano di Quel lassù, in pena dei loro traviamenti; e con sicuri indizii di
contrizione offrivano il corpo e l’anima al Signore del tutto. Brulicava
la pianura di una turba infinita, stivata, intenerita a lacrime, gridante
(36) Divenne vescovo di Crispoli, poi di Asti. Sono a stampa varie sue scritture
polemiche, fra le quali le Lezioni calviniche, recitate d’ordine del duca di Savoja in
Torino il 1582 per opporsi ai novatori che tuttodì cresceanvi. Ivi loda il congiungere
la predicazione colla teologia; questa gl’insegnò a fare più sicure le prediche, quella
a fare più chiare le lezioni. Una sua apologia per negare la voce sparsasi, ch’egli si
fosse fatto predicatore evangelico a Ginevra è manoscritta nella libreria Soranzo a
Venezia.
(37) Compertum est nullum ferme ex quingentis et amplius, qui labes apud nos
suas deposuerunt, lethalis culpae reum fuisse auditum. Lettera del padre Vagliardo
da cui togliamo la descrizione di questo viaggio.
a gran voce: Gesù; e le stesse miserabili poste sul rogo, fra il crepitar
delle fiamme, udivansi replicare quel santissimo nome e, pegno di
salute, avevano al collo il santo rosario... Questo io volli che la tua
riverenza sapesse, perché potesse ringraziare Iddio, e lodarlo per li
preziosi manipoli da questa messe raccolti».
Fin qui egli: sarebbero gettate le parole ch’io aggiungessi, per
mostrar come i deliri del secolo prendessero anche anime illuminate e
pie.
In quella valle, san Carlo trovò abbondare scolari del Vergerio e di
Pietro Martire Vermiglio ed esservi (scriveva al cardinale Sabello) il
nome di cattolici, non i costumi, né la credenza. V’avevano tenuto casa
i novatori Frontano e Canossa. Poc’anzi v’era morto Lodovico Besozio,
scolaro del Frontano(38) migliore del maestro: era frequentissimo il
contatto colla val di Reno, tutta già calvinista. Singolarmente vi si
segnalavano, per odio ai Cattolici, Francesco Luino, che da trent’anni
era colà, un figlio del Frontano e due o tre altri le cui mogli sono veri
mostri d’inferno. Stava a capo delle cose sacre un frate, disertore
dell’ordine e della religione che seco traeva una femminaccia e quattro
suoi figliuoli: poco di meglio erano gli altri preti. Borromeo
coll’amorevolezza, coll’inquisizione, col pregare, coll’insegnare, col
largheggiare, si conciliò gli animi: e Dio ne prosperava le fatiche in pro
delle anime, con fatti d’ammirabile riuscimento. Si mise poi per la val
Calanca, ove conobbe cinquanta famiglie cadute in eresia e ventidue
maliarde. Era sua mente drizzarsi a Coira indi, nel ritorno, visitare
Chiavenna e la Valtellina. Ma, saputo che la sua comparsa non sarebbe
sentita bene, dovette voltare a Bellinzona, dove trovò folta ignoranza
delle cose di Dio, ed un vivere non punto meglio del credere:
matrimoni incestuosi, usure smodate, conculcati i diritti del clero,
sacerdoti simoniaci e viventi in pubblica disonestà. Ho letto varie delle
omelìe ivi da lui recitate, onde può trarsi argomento e dello stato di
quel paese, e dello zelo che il santo vi adoprò, dimorandovi sino al 15
dicembre, ove eresse anche una prebenda per mantenere un maestro,
lasciò un catechismo compilato apposta dal gesuita Adorno, ridusse a
compimento il collegio d’Ascona. Aveva pure intenzione di aprire un
seminario a Locarno, che a grande bisogno sarebbe tornato per
regolare quel paese nel credere e riformarlo nel vivere.
Mandò anche Bernardino Mora al Beytag dei Grigioni per
impetrare licenza di visitar la Valtellina ed il Chiavennasco, ma gli
Samuele figlio di Frontano, ed una Brocca con tutta la sua famiglia, si resero
poi cattolici nel 1584, come abbiamo dai manoscritti del Borromeo.
(38)
facevano impaccio i predicanti, che andavano spargendo sospetti sul
suo conto. Lui, infine, esser nipote di quel Giangiacomo Medeghino il
cui nome, dopo le acerbe guerre loro recate sul lago e in Valtellina, era
tra i Reti rimasto terribile come la campana a martello. Vedessero
quanto aveva operato in Val Mesolcina, dove non prima pose piede,
che collocatosi in luogo forte stabilì un inquisitore e fece ogni suo
talento: assai tornerebbe sospetta ai loro alleati Francesi la venuta del
cardinale tutto ligio alla Spagna. E questi sussurri trovarono fede,
onde, non che escluderlo, i predicanti commossero quei della val
Pregalia a dare addosso ai missionari da lui mandati e metterli a
processo(39). Fin tra le cure che gli ponevano assedio negli ultimi suoi
giorni, il Borromeo s’occupava d’ottenere, se non pace, almeno tregua
ai Cattolici: e teneva corrispondenza con re Filippo d’affari sì intimi
che non si affidavano alle carte, ma si comunicavano a voce col
Terranova, allora governatore del Milanese.
Quando il fuoco è dentro, bisogna venga fuori il fumo: e il Borromeo
veniva rapportato ai Grigioni di aver intesa cogli Spagnuoli per tornare
ad essi la Valtellina. E per verità i duchi di Milano non ebbero mai
deposta tale speranza, né per rata l’occupazione di quella importante
valle e la cessione fattane per viva forza. Si sanno le opere, ed aperte e
di sottomano, ai tempi di Giangiacomo Medeghino. Carlo V poi,
aggiunta la ducea milanese agli immensi domini suoi, più ne prese
gola, ben avvisando quanto rileverebbe l’avere libera comunicazione
per quella parte fra gli Stati suoi di Germania e quelli d’Italia. Ne aveva
anzi passato ordini a don Ferrante Gonzaga governatore, che ruminò
quell’idea anche sotto Filippo II, menando per ciò segreto intrigo col
vescovo Vergerio, sebbene gli tornasse indarno il suo intendimento.
Nei giorni poi del Borromeo, un tal Rinaldo Tettone, mercante
milanese al quale era avvenuto sì male della mercanzia che diede fondo
ad ogni suo avere, si era messo a capo di Farabutti, bravacci pari suoi,
che rubando e furfantando vivevano. Da piccoli tentativi incoraggiato
a maggiori, fermò d’entrare in Valtellina, e porla a preda. Infatuato del
qual desiderio, acciarpò truffatori e bagaglioni e quanti fossero da tal
servigio: e chi vorrà credere che di tutto ciò non scoppiasse veruno
indizio ai magistrati di Lombardia? Chi conosca l’ambidestra politica
spagnuola, più presto inclinerà a pensare che il governatore
Terranova, senza dargli apertamente favore, l’aiutasse però sott’acqua,
(39) Erano Adorno, Grattarola, Boverio. Il Grattarola in una lettera descrive il
processo, fattogli in un’osteria, presenti quindici giudici insigniti della collana d’oro,
i quali alfine dovendogli imporre una multa, s’accontentarono che pagasse la cena a
tutti.
od almeno stesse a vedere a che il Tettone riuscisse: andava a male?
Niuno potrebbe imputargliene colpa: accadeva a disegno? Getterebbe
la maschera. Ed avendo, come si suol dire, tratto di buca il granchio
colla mano altrui, coglierebbe il destro di ricuperare la valle al suo
padrone.
Fatto è che il Tettone, raccozzata una canaglia valente in parole e
ch’egli chiamava esercito, parte ne inviò per la banda di Lecco. Cogli
altri volse a Como, ove chiese d’entrare nella città, alloggio e foraggi,
vantandosi capitano generale per risciacquare la Valtellina dai
miscredenti. Ma non sottigliò la sua malizia tanto che arrivasse a
trovar fede a quell’apparenza. Ed il Paravicino, governatore di Como,
non gradendo tali rodomontate stette saldo sul niego: anzi,
accingendosi il Tettone a mettere le finte parole in veri fatti, il
governatore armò i cittadini e con furia li liberò addosso a coloro, che
dopo sprovveduta e breve scaramuccia, quali andarono sbandati, quali
furono presi e mandati all’ultimo supplizio.
Ita al vento l’impresa, il governatore, come chi getta il sasso e
nasconde il braccio, se ne fece nuovo affatto, ed il Tettone, che forse
diventava un marchese e meglio, fu cacciato in bando. Dove facendo
del savio e dell’importante, andava spacciando avere in tal impresa a
sostegno il cardinale Borromeo, amico, diceva egli, e parente suo;
favorirlo nella valle grandi personaggi, e li nominava un per uno.
Questi vanti erano portati colle usate frangie ai Grigioni, i quali,
fattone un capo grosso che mai il maggiore, molta gente inquisirono,
senza però scoprire alcuno in colpa: e il cardinale tennero in memoria
d’uomo fazioso e brigante.
Era questi morto l’anno avanti; e noi siamo alieni dal supporre al
sant’uomo facinorosi consigli. Scrivendogli lo Speciano temere che i
Valtellinesi non rompessero in aperta ribellione, e si gettassero in
braccio a re Filippo, il Borromeo gli rispose che stava mallevadore della
regia volontà. E quand’anche i Reti cisalpini si ponessero a dominio
del re cattolico, si incaricava di ritornarli ai Grigioni. Questo però già
ne lascia intendere ch’egli avesse qualche sentore delle macchinazioni.
Ed abbia suo luogo la verità, tutti i contemporanei e il Ripamonti ed il
Ballarino fanno testimonianza che la Spagna ed il Borromeo
assecondassero l’impresa(40). Tutti poi i fautori del cattolicismo
avevano gran protezione nella casa d’Austria: quando i Grigioni
(40) «Papa Gregorio XIII, mosso da compassione e zelo, coll’interposizione del
cardinale san Carlo nell’anno 1584 persuase a Carlo di Terranova di sorprendere la
Valtellina, e per verità seguiva se in quel mentre non moriva il detto cardinale».
Relazione manoscritta nell’archivio vescovile.
uccisero il Planta, Corrado, figlio di questo, si ricoverò al Borromeo,
che sel tenne ben due anni con altri di sua parte, al giusto fine di
formare un buon cattolico; ma la cosa non poteva non dare ombra ai
Reti. Altre lettere poi di san Carlo, che si leggono manoscritte
nell’Ambrosiana, tolgono ogni dubbio che a Milano non si
conoscessero tali movimenti. Fin dal 1583 i Valtellinesi avevano
richiesto il Terranova di 400 uomini, che, uniti ai terrazzani,
basterebbero, sono le proprie parole di Borromeo, per levarsi in un
tratto da quella obbedienza, e serrare i passi ai Grigioni, che
volessero passare di qua dai monti. Il re aveva risposto si desse loro
quell’aiuto, ma i ministri erano soprasseduti fin allora per vedere
l’esito del negozio della lega; svanito il quale, tenterebbero questo: ed
ho speranza in Dio, continua il santo, che in pochi anni si farà tanto
frutto in quella valle e nei paesi tutti di qua dai monti, che si smorberà
quella eretica peste.(41) E nei trattati che il santo menò a favore dei
Cattolici coll’ambasciatore di Francia presso gli Svizzeri, e coi Cantoni
cattolici, si mostra persuaso che pericolasse qualche non lieve disastro:
sicché voleva tenersi nei contorni della Svizzera per accorrere pronto
ad ogni moto di guerra. Dichiara però di ingerirsi il meno che può «né
tenere per ajutare que’ popoli altra via che la spirituale».
Non meno attento a salvar la Lombardia dalla contagione fu il
cardinale Federigo Borromeo: il quale perfino, allorquando dovevano
alcuni soldati svizzeri e grigioni attraversare la valle San Martino ed
altre terre bergamasche di diocesi milanese e di giurisdizione veneta,
pronunziò scomunicato chiunque conversasse, o, ch’è tampoco,
albergasse quegli eretici; esagerata provisione, alla quale la
serenissima repubblica veneta impedì fosse dato corso. Senza più altro
aggiungere, basti il già detto a scusare i Grigioni se dal paese davano
divieto ai preti e frati forestieri, specialmente ai Cappuccini, come
orditori di cose nuove. Quanto alle indulgenze ed ai giubilei, si
bandissero pure, ma o tacessero quelle parole pro extirpatione
haereseon, o i preti dichiarassero che sotto il nome di eretici non
s’intendevano i Riformati: altrimenti era iniquo che i sudditi
pregassero contro i loro padroni.
Tanto erano da ciò esacerbati gli animi, che qualunque cosa venisse
dai Riformati era sospetta ai Cattolici: qualunque cosa procedesse dal
vescovo o da Roma, si rifiutava dagli Evangelici, per buona che fosse,
d’ogni vin dolce facendo un aceto arrabbiato. E mi faccia testimonio la
riforma del calendario. Il concilio Niceno nel 325 aveva adottato, pel
(41)
Questa lettera il Quadrio l’ebbe dall’Oltrocchi: è del 24 maggio 1584.
calcolo della Pasqua, il calendario di Giulio Cesare, che suppone l’anno
di giorni 365 ed ore 6 appunto, e che 19 anni solari equivalgano a 235
lunazioni; ondechè aveva ordinato che l’equinozio di primavera
cadesse al 21 di marzo. Ma non essendo precisa quella determinazione,
l’equinozio si era portato agli 11 di marzo, e le lune nuove anticipavano
di quattro giorni. Di ciò menavano rumore uomini di gran vaglia,
Ticone, Scaligero, Chambers, Calvisio, altri, sicché in fine Gregorio
XIII, principalmente coll’opera di Luigi Lelio calabrese, riformò il
calendario: furono sottratti e messi in nulla i dieci giorni che dovevano
correre dai 4 perfino ai 15 ottobre del 1582, ordinato che solo ogni
quattrocento anni si facesse bisestile l’ultimo anno del secolo, e la bolla
del marzo 1583 ingiunse che i conti dei giorni andassero a tal
maniera(42).
Or credereste? Ai tanti altri motivi di dissidio, un nuovo ne aggiunse
questo calendario gregoriano, ed i Riformati nati a rifiutarlo, anche
trovandolo buono, solo perché veniva da Roma, ed i Cattolici a volerlo,
senza forse conoscerlo, sol perché quelli lo ricusavano, tanto è cieca ed
assurda la nimicizia che agita le parti. Mi par di vedere alcuno
sogghignare alla leggiera cagione di tante discordie, alle dimostrazioni
impotenti e assurde; ma deh non voglia ridere d’altri il secolo nostro,
che non ha ancor rasciutto il sangue versato per altri sogni, per altre
follie. Ogni età ha le sue.
(42) Solo verso il 1700 i Protestanti adottarono il calendario Gregoriano; gli Inglesi
nel 1752; i Russi non ancora, onde sono dodici giorni indietro da noi nel contare i
giorni.
CAPO III
Corruzione dei Grigioni - Forte di Fuentes costrutto - Mal governo
della Valtellina - Ingiurie alla religione repulsate dai Cattolici Nicolò Rusca è tratto al tribunale e morto - Ruina di Piuro.
Come sperar bene alla Valtellina quando i suoi dominatori erano
all’ultimo della corruzione? La religione li divideva, li divideva la
politica: cedevano a seduzioni, a lusinghe. I prìncipi vi tenevano
ambasciatori quando apertamente quando velati, che con donativi,
pensioni, croci d’onore facevano che uno favorisse a Francia, uno a
Spagna, uno a Venezia: tutti dimenticassero la patria. Due fazioni
singolarmente ponevano a scompiglio la Rezia: una venduta a Spagna
ed ai Cattolici, l’altra a Francia, ed agli Evangelici. Capi di quella
Rodolfo Pianta, di questa Ercole Salis, le due famiglie primarie dello
Stato.
Il grosso dei Grigioni però essendosi sottratto al dominio austriaco,
ed avendo abbracciato il calvinismo, aveva in uggia l’Austria e la
Spagna, e dei Francesi l’amicizia guardava come primo fondamento di
libertà e potenza. Prevalendo i Salis, venne rinnovata con Enrico IV
una lega di offesa e difesa, nella quale non si faceva eccezione veruna
a favore del Milanese. Con questo ducato avevano i Grigioni accordato
una convenzione di buona vicinanza, per cui il commercio andrebbe
senza verun impedimento, non concederebbero essi il passo ad
esercito che venisse contro il Milanese: in compenso dovesse il transito
delle merci volgersi pel paese delle leghe(43).
All’udire dunque della nuova convenzione coi Francesi, gran
lamento alzò il conte di Fuentes, il più memorabile fra i governatori
spagnuoli di Milano, che nel cuor della pace tenne sempre un
numerosissimo esercito, pauroso ai vicini, sgradito anche al suo
padrone, al quale voleva mostrarsi necessario col fingere pericoli o farli
anche nascere, e intanto esercitava tutte le prepotenze d’un governo
militare.
Con umore siffatto doveva esser poco disposto a inghiottire il torto,
e mandò minacciando ai Grigioni di trattarli come nemici. Questi, non
che mostrar paura, si collegarono anzi con Venezia, come quella che
non perseguitava i riformatori, siccome le altre potenze, ma ostava al
(43)
Vedi Capitolationi et conventioni co’ signori Grisoni l’anno 1603.
papa, e comportava una mezzana libertà di coscienza(44). Ne
dispiacque non meno alla Francia che alla Spagna, quella perché
Enrico ambiva maneggiar egli solo i Reti e che i Veneziani dovessero
ricorrere a lui qualvolta bisognassero di gente armata, questa perché
si trovava allontanata dalla speranza di legarsi i Grigioni, e di
sottoporre tutta Italia, potendo aver ostacolo nei Veneziani. A nulla
approdando colle parole, il governatore sdegnato pose mano a
fabbricare un fortalizio, detto dal suo nome(45) sul colle di Montecchio
al primo entrare della Valtellina ove, dominando gli sbocchi di
Chiavenna, il lago e la valle, teneva questa in soggezione e poteva,
quando riavesse talento, impedire alla Rezia i viveri ed il commercio.
Stante però che il duca Francesco II Sforza aveva stipulato coi Grigioni
non si porrebbe veruna fortificazione in quel giro, questi levarono
querele, e procurarono anche impegnare in esse i loro alleatì: ma
nessuno si mosse, del che furono, se non con verità almeno con
accortezza, accagionati i dobloni spagnuoli. E il Fuentes continuò, finì,
intercise il commercio col Milanese e ponendo genti e navi alle
Trepievi (così chiamano i paesi posti all’estremo del lago di Como),
confermò la voce che Spagna volesse ricuperare la Valtellina.
Queste pratiche, anzichè ravvivare, davano l’ultimo tuffo alla
Valtellina. Vi si crebbero le guarnigioni a carico del paese. Ogni ombra
pigliava corpo: i signori grigioni, ingordi d’aversi intorno timidi
soggetti anziché buoni amici, potevano quanto ardivano, ed ardivano
quanto volevano, sostenuti com’erano dai novatori. I quali, come
interviene allorché il debole vuole ad ogni costo ajutarsi sopra il
contrario, mirando unicamente all’utile proprio, vedevano bene che i
loro religionarj crescessero in autorità. Quindi coloro che erano venuti
Vedi Bündniss entzwischen des durchleuchtigen Republic von Venedig, und
den lobl. Drey Bünden der ersten alten Raethia, gedrükt zu Chur bey J. Pfeffer 1706.
Da questo impariamo che il più comune passo fra i due paesi era per la montagna di
san Marco. L’alleanza si mantenne sino al 1764.
(45) Fu cominciato il forte di Fuentes nell’ottobre 1603, dirigendo i lavori
l’architetto militare Broccardo Borrone di Piacenza, sul disegno dell’ingegnere
capitano Giuseppe Vacallo: si finì nel 1607. Giuseppe II abolì quel forte ed il tenente
colonnello Schreder, che n’era stato l’ultimo castellano, lo comprò, e ne coltivò i
dintorni a gelsi. Venuti poi i Francesi nel 1796, il generale Rambaud con 500 soldati
salpando da Como sulla più bella flotta e pomposa che mai vi si vedesse, andò a
demolirlo a forza di mine, resistendone però, tant’era solido, una gran parte; e senza
avere che qualche uomo ammalato dalle febbri ivi dominanti. Ma il Pagès nella
Storia della rivoluzione raccontò questa come una delle segnalate imprese della gran
nazione. Or non rimane che un mozzicone di torre, pittoresco come sogliono essere
le ruine.
(44)
come alleati, disponevano come donni e padroni, principalmente da
che ebbero a sé arrogata la nomina degli ufficiali. Allora mandare a
magistrato uomini di più che bassa mano, soperchiatori perché
persuasi di meritare il pubblico disprezzo, non guardare nelle cariche
a merito, ma a chi più ne dava, schiudere d’ogni preminenza i buoni,
conculcare i diritti e lo statuto, corrotte le sindacature, nelle cause civili
trovati lacciuoli a dovizia per costringere le parti a dividere l’avere con
giudici ingordi, franco il peccare, il benfare spesse volte ruina. Si
addormentavano sugli interessi della patria i tristi, quelli io dico, cui
piaceva fare il lor talento, e da poveri venuti ricchi, da abjetti tremendi,
usurpare i beni delle chiese, per ispalle d’amici e per danaro scontare
delitti, leccare i superiori per mordere i soggetti. I buoni che osavano
alzar la voce, erano perseguitati sotto quella maschera d’oltraggio e di
sangue che si chiama ragione di stato.
Le cose della religione poi erano tornate a peggio che mai per
l’addietro non fossero. Ogni giorno nuovi editti, che pretendendo
parole di libertà religiosa vietavano le indulgenze, tacciavano di
superstizioso il culto del paese, cassavano le dispense, berteggiavano i
decreti papali. Negli statuti di Valtellina, stampati il 1549, furono
intrusi alcuni a favore dei Riformati. Nel 1585 trovandosi unite a
Chiavenna le insegne dei Grigioni, conchiusero di nuovo intera libertà
di religione; lo che, ed allora ed altre volte poi, significò persecuzione
della cattolica. Eccedeva dunque il governo, eccedevano i magistrati
cacciando i Gesuiti e cassando le donazioni lor fatte, processando i
miracoli di san Luigi, proibendo la pubblicazione dei giubilei ed
eccitando quistioni di giurisdizione, solito appiglio, eccedevano i
predicanti contro i monumenti dell’avito culto, opera empia agli occhi
dei Cattolici, impolitica agli occhi di tutti. Più eccedeva la ciurma e
l’astinenza delle carni in quaresima(46), rubando ostensori e spargendo
le particole, sfregiando tabernacoli, facendo smacchi ai sacerdoti nelle
processioni del Sacramento, ed in quei devoti riti della settimana
(46) Non usandosi allora chiedere l’indulto, per tutta la quaresima si doveva
mangiare di olio. Quindi non si macellava che qualche vitello per i malati o per chi
n’avesse licenza: il fare altrimenti oltre il peccato, costava una multa a favore dei
luoghi pii. La tassa degli animali macellati in quaresima a Como rendeva a pro della
fabbrica del Duomo, e non sarà inutile l’avvisare come quell’entrata nel 1534 si sia
appaltata a L. 120; nel 1599 a L. 38; dal 1630 al 1698 circa L. 120; di là sino al 1730
L. 380 e più; poi L. 700, e fin L. 1105, nel 1768, in cui venne abolita da Giuseppe Il
(dall’archivio della fabbrica del Duomo di Como). Verso il 1580 Giangiacomo
Pusterla di Sondrio impetrò da Gregorio XIII per tutta la Valtellina perpetua
dispensa per i latticinj in quaresima. A Como trovo il primo indulto dei cibi d’olio
domandato dal Comune nel 1731.
santa, che uom non può vedere senza sentirsi fin nell’intimo
dell’animo commosso ad una patetica devozione.
Né si creda che noi caviamo queste fosche dipinture dai soli
Valtellinesi. Pascal ambasciatore francese, in una sua relazione,
chiamava il governo grigio «esecrabile tirannia, che sovra il capo e le
fortune dei buoni incrudelisce». Il Bottero verso il 1590 scrive: «In
Valtellina i Cattolici sono fuor di modo straziati dai Grigioni, che
puniscono con varj pretesti i preti e quei che si convertono, forzano i
curati a celebrare matrimonj in gradi vietati, non consentono
l’introdurre buoni sacerdoti forestieri, obbligano tutti alla messa ed
alla predica degli eretici, onde i Cattolici sono costretti, per penuria di
buoni ecclesiastici, servirsi d’apostati e d’uomini di mal affare e
scandalosi, e divengono a poco a poco eretici».
Si moltiplicavano dunque le gozzaje: per una parte e per l’altra
tirandosi al peggio che si facesse, ogni sospetto si pagava colla vita.
Così fu (per tacer altri) del conte Scipione Gámbara bresciano, che per
aver ucciso un suo cugino, casi ordinarj in quel beato tempo antico, era
fuggito a franchigia in Tirano, ed ivi, secondo che l’uso e il suo delitto
portavano, si teneva attorno una masnada di buli, come si chiamavano
i bravi. Entrò gelosia nei Grigioni ch’egli volesse dar mano a stabilire
l’inquisizione, e liberare la valle dai Protestanti: onde, còltolo, e coi
metodi consueti in tali procedure, convintolo di trama col cardinal
Sfondrato e coll’inquisitore Montesanto, egli, come nobile, fu
decapitato a Teglio, il suo complice Lazzaroni di Tirano squartato vivo,
e le spese del processo caricate alla valle. Peggio avvenne quando
Ulisse dei Paravicini Capello di Traona, che reo di molto sangue
campava sul bergamasco la vita, osò una notte ricomparire con venti
sicarj in patria, e trucidare i magistrati. L’atroce fatto seppe di
ribellione ai Grigioni, e quindi il sospetto, quindi lo sdegno pose in
maggior urto gli animi, ed i cattolici, o per colpa o per pretesto,
venivano, or l’uno or l’altro spicciolati, modo sicuro d’indebolire le
fazioni. Così la certezza dell’odio pubblico faceva prendere tali
provisioni, che lo rendevano implacabile. Qualche buon ordinamento
veniva talora(47), ma di corto cadeva nell’oblio e non rimaneva che il
peggio.
Sotto la protezione dei signori, che dicevano: «Credi quel che ti
piace, ma fa quel ch’io ti comando» ogni tratto qualche nuovo
(47) Vedi il patto stipulato nel 1587, rinnovato nel 1604, fra i Cantoni svizzeri e
Filippo Il per assicurare la religione cattolica nelle terre già comasche, ap. LUNIG,
Cod. dipl. ital. 1 p. I, sect. 2.
Cattolico disertava, anche preti e curati. Essendo ordinato che ove
fossero più di tre famiglie riformate convenisse accomodarle di
baserga(48) e di ministro a spese comuni, i Cattolici si vedevano
costretti a mantenere i predicanti coi benefizj ecclesiastici. E non
compatendo la religione loro che i preti predicassero dalla bigoncia,
ond’era sceso dianzi il ministro calvinista, conveniva si provvedessero
di nuove chiese. Intanto, predicanti a gara gli uni degli altri venivano
fin da lontanissimo per far proseliti: prima pochi per giuoco, poi molti
per curiosità, indi più per diversi affetti s’affollavano a udire il nuovo
vangelo, i cui più soliti ornamenti erano rampogne ed ingiurie.
Credendo ciascuna parte essere in possesso della verità, e l’avversaria
trovarsi nell’eresia, lo zelo esacerbava gli odj da fratello a fratello.
Rinfacciavano i novatori a quei della messa, come li chiamavano,
che una fede inculcata senza il consentimento della ragione, degenera
presto in superstizioni, e molte in fatto se n’erano introdotte(49), e si
prodigavano le indulgenze(50) a scapito della morale. I preti cattolici,
temendo fin quell’esame e quella luce, il cui bisogno eleva e
ingrandisce l’anima, ma che generava l’orgoglio del senso individuale,
inculcavano che una religione scandagliata e analizzata cessa di esser
fede, e si lamentavano di veder chiamate a scrutinio le cose che il
cattolico guarda con umile meraviglia, e che Iddio, per occulti giudizj,
tolse alle dispute dell’uomo, ingiungendogli «Credi e adora».
L’augusto Sacramento, di cui Cristo volle fare un simbolo di pace e di
concordia e che, assunto in sua commemorazione, ricordasse ai figli
suoi il sangue versato a salute comune, diveniva pretesto d’acerbe
contese. E pareva che ciascuna parte si fosse proposto di mostrare,
colla condotta meno evangelica, di possedere il vero vangelo. Vi erano
sì i buoni che gridavano da una parte e dall’altra: «Se la nostra fede è
la vera, se viene da Dio proviamolo col deporre questa rabbia
anticristiana: la carità move da Dio, la discordia dall’inferno: unitevi
di spirito e di cuore, e Dio sarà con voi: il nostro non è il Dio delle
contese, ma della pace e dell’amore»(51). Così dicevano: ma quando
Baserga (corrotto di basilica) chiamano i Grigioni le chiese loro.
San Carlo negli atti del IV sinodo raccomanda che, quanta fatica si pone in
istabilire e crescer la religione, tanta cura e diligenza si spenda nello svellere dalle
menti degli uomini la superstizione. Il vescovo Bonomio (Decr. in calce alle vis. della
Diocesi Com.) esorta che nelle prediche si eviti di mettersi a confutare gli eretici e dal
riferire miracoli falsi ed apocrifi racconti.
(50) Trovo in una recente storia di Como, che in quella sola diocesi, si poteva in un
anno acquistare 1.975.405 anni d’indulgenza plenaria, non contando quelle riservate
alle confraternite del rosario, del suffragio, del sacramento, eccetera.
(51) San Paolo ai Corintii.
(48)
(49)
mai il discorso dei savj la vinse sopra l’orgoglio e l’egoismo delle
opinioni?
I Cattolici però potevano dire ai loro avversarj: «O voi che venite a
mostrarci in errore: non siete uomini voi pure, non siete voi pure
all’errore soggetti? Noi seguitiamo la tradizione d’uomini pii, e più
vicini al tempo del Redentore: voi nasceste pur jeri. Noi stiamo ad
un’autorità di origine divina, al sentimento del genere umano; voi
surrogate la più fredda delle umane doti, la ragione, il più variabile
appoggio, la particolare persuasione. Voi venite a predicare l’amor di
Dio: eppur da voi nascono la scissura e la desolazione della patria».
Fondati su questo e sulle tante ragioni, che anche umanamente
rendono inconcussa la fede nostra, contrastavano i Cattolici al
progresso dei Riformati: e poiché non v’è caso di gran timore senza che
vi sia di gran coraggio, si narrano molte e ribalde e generose
opposizioni. Poniamo fra le prime i divisamenti dell’arciprete
Schenardi di Morbegno che in uno scritto latino sul propagare la fede
cattolica nella Rezia, suggeriva che quando i ministri eretici, ogni
ottava del Corpus Domini, venivano a celebrare i loro conciliaboli, nel
ritorno fossero còlti in imboscata in quel tratto di terreno presso Bocca
d’Adda che spetta al Milanese(52), e mandati a Roma. Tommaso della
Chiesa in val Malenco caldeggiava i Riformati; onde morto il parroco
del luogo, e sepolto il tempio di colà da una frana, fece di tutto per
indurre quei valligiani a valersi del ministro degli Evangelici, per
l’uomo dotto che sapevano lui essere: e con maniere a maraviglia
scaltrite, spacciava che la parola di Cristo, predicata da questo,
varrebbe assai più che non la messa dei papisti, che non orazioni
recitate in una lingua che non intendevano. Riboccar di baje le
prediche dei loro preti, di idolatria il culto; ove trovavano che il vangelo
comandasse il celibato ai preti? e il digiuno? e la confessione
auricolare? O che! vi farete a credere che uomini di intendimento scòrti
e nel viver santi, cima di principi e dottori abbiano cercato sì
sottilmente nel vangelo e nei dogmi solo per dannarsi? E soggiungeva
altre cose or serie, or ridicole, che non sarebbero cadute a vuoto senza
la fermezza di Tomaso Sassi pastore, il quale si fece a gridare: stessero
attaccati al credo vecchio, non volessero seguire piuttosto il nuovo che
il sicuro(53), non lasciassero rapirsi la consolazione dei sacramenti, che
(52) È il tratto ove, nel 1792, gli sgherri milanesi arrestarono gli ambasciadori della
repubblica francese Semouville, Montholon, Maret.
(53) Melantone, interrogato da sua madre che cosa dovesse in somma credersi fra
le dispute dei teologanti, le rispose: «Continuate a credere e adorare come sin qui...
La nuova religione è più plausibile, l’antica è più sicura».
mescono il gaudio e la sanzione del Cielo alle più solenni circostanze
della vita, dalla culla al letto di morte. E dopo morte, su in paradiso i
padri loro che v’erano giunti credendo all’antica, stavano ad aspettarli.
Quanto dolore se li vedessero precipitarsi coi nuovi nell’inferno! Con
tali o sì fatti argomenti, tolti dal lume del natural discorso, il buon
uomo rimutò i terrazzani dal proposito di cambiar religione.
Anche il sesso imbelle spiegò costanza a sostenere il rito degli avi.
In Caspoggio, terra della val Malenco, mentre i mariti estivavano com’è
costume sugli alpi (chiamano così i pascoli montani), venne saputo
dalle donne che i riformati intendevano seppellire in S. Rocco un loro
bambino allora morto, col che avrebbero preteso d’acquistar
possessione di quella chiesa. Che fan elle? si allestiscono ben bene di
sassi, e rinserratesi nella chiesa, aspettano il funebre convoglio. Come
s’avvicina, ecco fuori lo stormo, che schiamazzando alla donnesca, con
una tempesta di pietre pone in volta il funerale. Caso che diede da
ridere in quei contorni, e da stizzire a parecchi.
In Sondrio ancora si accingeva il governatore ad entrare per viva
forza nella chiesa cattolica, e ridurla al nuovo rito. Ma un Bertolino di
colà, uomo tagliato all’antica, commise a Giangiacomo, suo figliuolo di
gran cuore, che colla daga alla mano contendesse ai Riformati l’entrare
in chiesa. Ciò adempì egli sì bravo, che al governatore non bastò
l’animo di proceder oltre: ma voltosi in traccia del Bertolino e
scontratolo, tutto in gote si querelò del figliuolo, che gli avesse, nel
maggior pubblico della gente, usata quest’onta. Al che il buon
Sondriese rispose le molli parole che frangono l’ira, e menossero a
casa, ove a lui ed al suo satellizio improvvisò una lieta merenda,
spillando la miglior botte. E lì bevi e ribevi, fra l’ilarità parliera delle
tazze cominciò il Bertolini a gettar motti di scusa pel figliuolo, onde il
governatore, per iscambio delle cortesie ricevute, si mostrò disposto a
mettere in non cale l’affronto. Allora ecco entrare Giangiacomo, né in
aspetto d’avvilito, ma sempre accinto della sua daga, e con un fiasco
del più pretto vino, che cominciò a mescere in giro alla ragunata. Non
faceva però egli atto né mostra di voler chiedere scusa e quando alcuno
ne l’interrogò, diede un fischio, ed in men ch’io nol dica uscirono fuori
quindici garzoni in tutto punto d’armi. Additando i quali al
governatore, che pensate come si sentisse, «Ecco (esclamò
Giangiacomo) e me e questi pronti pel governatore e per la repubblica
fino all’ultimo sangue, solo che non ci si tocchi la religione nostra: ma
se alcuno presumesse recarci in ciò al talento suo, non risparmieremo
la vita a tutela della nostra santa fede». Tra pei generosi modi del
giovinotto, tra per la paura dell’armi e il lenocinio del buon vino il
governatore, che non doveva essere un Verre, abbracciò Giangiacomo
ed il padre, e in lieti brindisi finita la festa, depose per allora ogni
pretensione sulla chiesa.
Altri fatterelli succedevano ogni dì, che non sempre si risolvevano
in un riso, e che rivelavano un’izza reciproca, per cui dominati e
dominatori erano pronti a correre ai risentimenti. I Riformati ne
davano ogni colpa a Nicolò Rusca, arciprete di Sondrio. Era questi nato
in Bedano terra del luganese, da Giovanni Antonio e Daria Quadrio.
Studiò prima sotto Domenico Tarillo curato di Comano, uomo di
buone lettere ed investigatore delle antichità, e recitò in quel paese la
prima volta dal pergamo, come sogliono i novelli chierici, un discorso
altrui. Fu poscia a Pavia, indi a Roma, poi nel collegio elvetico di
Milano, ove a san Carlo ne parve sì bene, che talvolta abbattutosi in
esso, postagli sul capo la mano: «Figliuol mio (gli disse), combatti
buona guerra, compi tua carriera. Per te è riposta una corona di
giustizia, che ti renderà in quel giorno il giudice giusto».
Monsignor Volpi di Como gli diede la parrocchia di Sessa: indi
compreso di che gran parti egli fosse in sapere, in saviezza, in cristiana
prudenza, lo chiamò arciprete di Sondrio. Peso enorme a quei dì. Il
predecessore suo Niccolò Pusterla era stato, con sei zelanti cattolici,
rapito in prigione, e colà, vollero dire, avvelenato dal governatore,
perché in tempi di fazione si crede non si esamina. Delle contrade
vicine molte assentivano ai Riformati, altre erano miste(54), sicché
avevano due ministri: dei Sondriesi un terzo si era sviato dalla Chiesa
romana. Aggiungi che dal 1520 al ‘63 v’era stato intruso arciprete
Bartolomeo Salice, che contemporaneamente era arciprete di
Berbenno, curato di Montagna, arciprete di Tresivio e in nessun luogo
risedeva, lasciando che il gregge sviasse a pascoli infetti. Dei benefizii
si valeva per dotare nipoti. Portò anche le armi, il che tutto giovava
miserabilmente alla diffusione dell’eresia. Di quel tempo venne a
predicar a Sondrio un frate in aspetto di somma dottrina e pietà. E il
popolo che da gran tempo non udiva più prediche, accorse alle sue: ma
ben presto egli si scoperse eretico. Se ne levò tumulto, ed egli rifuggì ai
Mossini in casa Mingardini, donde seguitava a predicar ai nuovi
convertiti. L’arciprete Salice non se ne dava pensiero. Blandiva i
(54) Il Rusca istesso lasciò scritto: «Li principali della comunità di Sondrio erano
la maggior parte eretici. Triasso, Ponchiera, Piazzo, Colda, Cagnoletti, Arquino,
Riatti, Marzi, Gualzi, Colombera, Sondrini, Bradella, Triangia, Ligari, Majoni,
Bassola erano tutti cattolici. Sondrio, Ronchi, Gualtieri, Aschieri, Prati, Mossini e
Moroni sono misti, e però si servono di due ministri, i quali tendono in Sondrio e
nella contrada dei Mossini». I Marlianici erano i principali Calvinisti.
Grigioni nella speranza di esser fatto vescovo di Coira, e quando infatti
Pio IV vel destinò egli rinunziava ai tanti benefizii in Valtellina. Ma
poiché non fu confermato, si trovò sprovvisto e morì poveramente in
Albosaggia.
Il Rusca, chiamato a quel posto, tentò sottrarsi al grave incarico.
Indi per obbedienza l’assunse, collo zelo del buon pastore che offre
l’anima per le pecorelle.
Deditissimo agli studi, sapeva di greco e d’ebraico, non che di latino:
altamente sentiva delle cose celesti, e usando la spada dello spirito che
è la parola di Dio, era tutto in predicare con una dottrina chiara,
corrente e morale, piena dei lumi della somma verità, escludendo
quanto potesse avere dell’agro e del contenzioso. Trovata la chiesa
squallida, vi rimise belle suppellettili, buon organista, solenni
funzioni. Imperterrito si oppose alle pretendenze dei novatori, i quali,
oltre esigere dal capitolo la provvigione di 30 zecchini pel ministro
evangelico, volevano ch’egli cedesse porzione del suo giardino per
fornirli di cimitero, si sonassero le campane al venerdì santo, ed altre
sì fatte novità. Intervenne a varie dispute, ove per chiarimento del vero
si solevano mettere in contraddittorio un per uno gli articoli della fede.
Dispute che, secondo il solito, non convincevano alcuno, e finivano
sempre col gridarsi da ambe le parti il trionfo(55).
Ma quale veniva chiamato martello degli eretici, si mostrò
singolarmente allorquando i Riformati ottennero si istituisse a
Sondrio un collegio, del quale il rettore e tre dei cinque professori
fossero calvinisti. Fin dal 1563 si era divisato, poi aperto nel 1584 un
collegio, dove si accettassero cattolici e no; e dove naturalmente
nessun cattolico andava. Cadde, e allora voleva rinnovarsi. Ma senza
guardare in faccia né ai Salis che lo proponevano, né al re d’Inghilterra
che si diceva somministrar il danaro, si attraversò il Rusca a questa
impresa, e riuscì a sventarla, ed unire anzi un’accademia che
propagasse le cattoliche dottrine.
Questo perpetuo e vivo contradditore dei loro disegni non poteva
non essere in gran dispetto agli acattolici, che miravano a torselo d’in
sugli occhi. Dapprima Gio Corno da Castromuro capitano della valle lo
condannò in grave multa perché avesse rimproverato ad un giovane
(55) Nominatamente in Tirano egli ed i parrochi di Mazzo e di Tirano
combatterono contro il Calandrino e Antonio Andreossa ministro di colà. Poscia in
Piuro, ove singolarmente Giovanni Paolo Nazari cremonese, bravo soggetto dei
domenicani, disputò contro Giovanni Muzio ministro di Teglio sulla messa. Abbiamo
l’Apologia di F. G. P. Nazari contro il Muzio. Como 1597, ed Acta disputationis
tiranensis del Rusca, Como 1578. Biagio Alessandro era predicante a Berbenno.
suo popolano l’aver assistito alla predica dei Calvinisti. Ma i Sondriesi
presero le armi, e si fu ad un pelo di far sangue: onde il capitano
denunziò l’affare a Coira. Il Rusca difeso da Anton Giojero ministrale
della val Calanca, fu assolto, ed il capitano ammonito. Gli apposero
quindi d’aver fatto trama con un Ciapino di Ponte per ammazzare o
tradurre all’inquisizione(56) Scipione Calandrino predicante di
Sondrio. Il Ciapino fu messo a morte: a Nicolò, che ne aveva assistite
le ultime ore, confortandolo in quella estrema e maggiore di tutte le
umane necessità, attaccato un processo, che lo costrinse a ricoverare a
Como. Giustificatosi, tornò più glorioso, aggiungendosi alla virtù il
lustro della persecuzione. Tanto più bramavano i nemici suoi di
metterlo per la mala via, e la fortuna mandò tempo al loro
proponimento.
Ci fu veduto come, fra i Grigioni, tutto andasse in brighe di potenze
straniere; fra le quali si dimenticava l’interesse della patria. Gli
ambasciatori francesi, con disapprovare la lega fatta coi Veneziani,
caddero in sospetto di esser d’accordo colla Spagna: sicché
l’ambasciatore Gueffier, denigrato dai predicanti, dovette fuggire negli
Svizzeri: quinci lamenti e turbolenze, fra le quali pigliavano il
sopravento i predicanti, venuti ormai il tutto del governo, come
succede ai pochi che schiamazzano mentre i più stanno savi e
tranquilli. E avendo intesa con Zurigo, Berna e Ginevra, non cessavano
di gridare doversi far nello Stato una sola religione, essere violate le
costituzioni poi bocconi stranieri, si operasse una volta efficacemente
a rintegrare la libertà, riformare il governo e simili altre parole, che
sempre discendono grate nelle avide orecchie della plebe. Fidati nel
favore di questa, sotto Gaspare Alessi ginevrino predicante di Sondrio,
accozzarono un loro concilio prima a Chiavenna presso Ercole Salis,
uomo per servigi ed ingegno in gran nome, poi a Bergun, paese
romancio alle falde pittoresche dell’Albula. Ivi dichiararono la fazione
spagnuola funesta alla Rezia ed alla religione, micidiale l’alleanza di
Al primo pericolo di riforma si era messo in Valtellina un nuovo inquisitore,
fra’ Modesto da Vicenza; ma il cronista Stefano Merlo scriveva. «Non penso che al
mondo si saria trovato il più furibondo e i1 più simulatore di lui; ed aveva tanta
cupidità di guadagnar scudi, che faceva ogni diligenza a trovar gente che avesse
voglia di vendicarsi, ed accusar gente assai per accumular danari. Onde, se gli uomini
non avessero provvisto a mandarlo via, voleva infamar quasi ogni persona, salva
quelli i quali ajutavano a tal impresa... Dubito che, se tali frati potessero andare in
paradiso, troverebber la via di fare che in paradiso vi fosse tal difetto (d’accusare
d’eresia i nemici)».
(56)
Francia, buona quella sola di Venezia: e si concertarono sul come dar
superiorità alla parte loro.
Consiglio di volpi, tribolo di galline. Quei predicanti, presa
dall’operare audacia all’operare, corsero intorno gridando contro gli
Austriaci, e che v’erano maneggi per quelli, e che il governatore di
Milano aveva disseminato danari per la Valtellina, e che per reprimerla
si doveva stabilire il tribunale inquisitorio, il quale correggesse la
costituzione venuta omai in gran punto. Il popolo s’infiamma, tanto
poco basta a travolgere le menti di chi, non a ragione ma ad empito, si
conduce. Ercole Salis se ne fa capo, l’Engaddina e la Pregalia levansi in
arme, i castelli dei Planta fautori degli Ispani sono diroccati, uomini
malfattori, accesi in rabbiosa ira, entrano a forza in Coira. Dispersi o
carcerati come ribelli i preti e persone di gran bontà, tutta quella
moltitudine si conduce a Tosana (Tusis), paese romancio a piè del
fertile Heinzenberg fra il Reno posteriore e la formidabile Nolla. Ivi
stanziando le 25 bandiere, con un migliajo e mezzo di soldati, proclama
13 capitoli per conservare la libertà, e pianta lo Strafgericht. Chiamano
così un criminale straordinario di giudici scelti dalle comunità
grigione, che viene ordinato con autorità dittatoria ogni qual volta
alcuna fazione sovverta il paese, si scopra abuso nel governo o
macchinazione contro lo statuto. Questa volta v’aggiunsero un
consiglio di predicanti.
Allora, pretendendo rintegrare la libertà politica col togliere ogni
libertà legale, mandano a compimento i feroci disegni. E una furia
d’accusatori esce addosso a quanti erano sospetti: cioé, come il solito
delle rivoluzioni persecutrici, a chiunque avesse nome di ricchezza o di
bontà. Là il settantenne podagroso Zambra, quasi, comprato dai
dobloni spagnuoli, avesse favorito l’erezione del forte di Fuentes,
venne squartato; là bandita una taglia sul capo di Rodolfo e Pompeo
Planta, del vescovo di Coira Giovanni Flug, e di altri profughi, ed erette
forche sulle spianate lor case(57).
Il dottor Antonio Federici di Valcamonica, mutatosi per opinioni
religiose in Valtellina, prese moglie a Teglio, e si fece protestante. Egli
diede voce che Biagio Piatti, cattolico infervorato di questo paese,
Allora Giovanni Batista Bajacca comasco segretario del vescovo d’Adria,
nunzio agli Svizzeri, scrisse al signor abate Camillo Cattaneo a Madrid una
«Relazione dello stato politico de’ Grisoni e della causa de’ moti e seditioni loro
nell’anno 1618» manoscritto di cui molto mi valsi, e dove mostra che bell’opera
sarebbe al re cattolico invadere la Valtellina, sperdere quel branco d’eretici, e
tornarla al suo dominio. Alfonso Casati, messo di Spagna a Soletta, tentò persuadere
questo partito, ma vi si opposero i Francesi.
(57)
avesse subornato un fratello di lui ed altri della Valcamonica, perché
venissero, e quando i protestanti di Boalzo si trovavano alla predica,
gli uccidessero. Il Piatti fu arrestato, e così altri supposti complici,
intanto che un fratello di esso uccideva Paolo Besta che aveva recato
l’ordine dell’arresto. Biagio, messo alla tortura, confessò quel delitto e
quanti altri se ne vollero, e fu decapitato dal tribunale inquisitorio, e
tenuto per martire dai Cattolici.
Francesco Parravicini d’Ardenno, settagenario e infermiccio, si
presenta a quel tribunale per iscolpar il proprio figliuolo contumace, e
il tribunale non potendo ottenere si ritirasse, gli coglie addosso
un’accusa. E poiché le sue infermità non permettono di alzarlo sulla
corda, gli serrano i pollici in un torchietto e sebbene stesse saldo a
negare, il condannano in 1500 zecchini. E migliaja di zecchini furono
imposti ad altri.
Nicolò Rusca, a cui da tanto tempo i predicanti, come a sturbatore
dei loro divisamenti, volevano il peggior male che a nemico si possa,
non fu dimenticato dallo Strafgericht. Marcantonio Alba di Casal
Monferrato, predicante di Malenco a capo di quaranta satelliti, la notte
del 22 giugno, colto nella sua arcipretura, per l’alpestre via di Malenco
e dell’Engaddina lo trascinò a Tosana. Si dice inviasse nel tempo stesso
per arrestare molti altri, che però, in sull’esser presi, tranne un Piatti
suddetto ed un Castelli, fuggirono, probabilmente avvertiti da quei
Grigioni che saviamente disapprovavano tali violenze.
Come appena i Sondriesi udirono entrato in forza dei nemici un
pastore che sì caramente guardavano, sorse in tutti una pietà tanto più
generosa quanto che proscritta. Nel primo furore si voltarono per far
rappresaglia addosso a Gaspare Alessio predicante, ma s’era ridotto in
salvo: diressero quindi una deputazione a scolpare l’arciprete, ma non
fu ricevuta: i Cantoni cattolici e Lugano sua patria mandarono Gian
Pietro Morosini a perorarne la causa. Ma il tribunale, cercando casi
vecchi e dubbi come recenti e certi, gli rinnovò l’accusa dell’attentato
contro il Calandrino. Poi di avere subornato il popolo a non ubbidire
alle Tre Leghe, cercato tornar cattolici i riformati, tenuto commercio
di lettere col vescovo e con altri, esortato in confessione a non portar
le armi contro il re cattolico; aver istituita la confraternita del
Sacramento, che asserivano portare micidiali armi sotto le devote
cappe.
Indarno gli avvocati suoi lo scusavano intemerato, protestando la
candidezza dell’animo suo, e come in 28 anni da che era arciprete fosse
stato al bene ed al male che s’aveva, fedele alle Leghe, se non devoto,
tutto in gran fare per l’anime altrui, non avendo in desio che il bene
della religione. Operato bensì che si mitigassero i decreti
pregiudizievoli alla cattolica religione, non ordito però mai contro il
governo. Quanto al Calandrino non che adoprar seco dispiacere od
agrezza, avergli usate quelle maniere di maggior cortesia che il caso
permetteva, visitandolo talora, e prestandogli anche libri. Ma qual pro
delle difese in caso di stato quando già è prestabilita la condanna? Il
ben vissuto vecchio, benché fosse disfatto di forze e di carne e patisse
d’un ernia e di due fonticoli, fu messo alla tortura due volte, e con tanta
atrocità che nel calarlo fu trovato morto. I furibondi, tra i dileggi
plebei, fecero trascinare a coda di cavallo l’onorato cadavere, e
seppellirlo sotto le forche, mentre egli dal luogo ove si eterna la
mercede ai servi buoni e fedeli, pregava perdono ai nemici, pietà per i
suoi(58).
Quel giorno stesso fu segnalato da un gravissimo disastro naturale,
perché di doppio danno avesse a piangere la Valtellina. Vuole la
tradizione che un antichissimo scoscendimento di montagna abbia
coperto Belforte(59) sul cui cadavere s’eresse Piuro, grossa terra posta
a quattro miglia da Chiavenna, nella valle che mena alla Pregalia.
Scorre sul fondo di quella valle la Mera fra due pendii di montagne,
l’uno volto a settentrione tutto pascoli e selve. Quello che alla plaga del
mezzodì riguarda, popolato, senza perderne spanna, di frutti, di
vigneti, di casini, di crotti(60).
Sulla cui falda lentamente inclinata sedeva il paese, pieno «di case
nobili e ricchi mercatanti con ampli cortili e portici, con colonnati, sale
spaziose di vaghe pitture ornate, da stufe alla tedesca superbissime pel
lavoro di intaglio e di commisso, ben addobbate di tappezzerie di
(58) Scrisse la vita del Rusca il suddetto G. B. Bajacca. Fra’ Riccardo da Rusconera
ne stampò il martirio nel 1620 ad Ingolstad. Ne fece un poema (Il Parlamento,
Conto, Arcione 1619) Cesare Grassi comasco, che in un altro ladro poema (Il popolo
pentito, ib. Frova 1630) descrive i mali del suo tempo. Morenas nella continuazione
del Fleury; dice il Rusca arcidiacono di Sondrio, Zschokke lo chiama arciprete di
Bedano in Valtellina, e dice che morì in prigione avvelenato c. 37.
(59) Chi osserva quei dintorni s’accorge come furono scena di violente convulsioni
della natura. Singolarmente per la valle dei Ratti e per la Codera si trovano enormi
massi di granito. La tradizione, confermata dall’aspetto dei luoghi, vuol che dalla
parte di Uschione precipitasse la val Condria. Sopra la via di Chiavenna ancor si vede
isolato un enorme macigno.
(60) Tal nome si dà a freschissime cave, aperte naturalmente nel macigno, in cui
ripongono e conservano i vini. Sono celebri i crotti del Prato-Giano a Chiavenna, quei
di Caprino rimpetto a Lugano, quei di Figino, di Mendrisio, di Moltrasio presso
Como, ed altri. Vi fa mirabile frescura ed un continuo orezzo. Saussure, che ne
discorre nel Voyage aux alpes, t. III p. 313, dice che in un giorno estivo portato in
quei di Caprino, il termometro vi si abbassò di 19 gradi.
Fiandra e d’altri preziosi drappi, di sedie di velluto con frange d’oro, di
copiose argenterie, di scrigni ben lavorati... di ameni giardini e spaziosi
con ispalliere d’aranci, cedri, limoni... non solo ne vasi di legno e di
terra cotta, ma di bronzo ancora e di rame, o molti inargentati e
indorati»(61).
Erano poi lodate per una delle belle cose del mondo le case dei
signori Vertemate, i cui giardini sono dal tipografo Locarni (62)
paragonati alle delizie di Posillipo, alla riviera di Genova, ai romani
palagi. Tanta ricchezza vi portavano il passaggio delle merci, la vendita
dei laveggi di pietra ollare che là presso si tagliano, e la manipolazione
della seta, della quale scrive alcuno vi si lavorassero 20.000 libbre ogni
anno.
Nella montagna settentrionale, alla pietra ollare (clorite schistosa)
grossolana, untuosa al tatto e liscia sovrastava un monticello, che
chiamavano Conte, di argilla e terriccio. In questo già da un pezzo i
terrieri avevano avvisato qualche crepaccio; ma quell’estate
continuarono più giorni a ciel rotto rovesci di piogge, che insinuandosi
fra la roccia e il monticello, lo scalzarono. E già franava sopra le vigne
del prossimo villaggio di Schillano, ed i pastori vennero annunziare
come e pecore ed api fuggissero da quella balza. Né perciò si
atterrirono quei di Piuro. Mal per loro, giacché sull’oscurare del 25
agosto (4 settembre secondo il calendario gregoriano) ecco in un
subito scuotersi la montagna di Conte, ondeggiare. E fra un sordo
fragore quasi d’artiglierie murali, lo scrollato colle scivola sul lubrico
pendio della montagna, precipita sopra Schillano e Piuro, seppellisce
uomini e case. I Chiavennaschi che udirono il fracasso videro caligarsi
il cielo, volare fin là il sommosso polverìo, ed interrompersi il corso
della Mera, durarono la notte intera in dubbio della sorte dei loro
amici, di sé stessi: la mattina rivelò deplorabile scena. Era Schillano
grande in quantità di 48 fuochi, di 125 Piuro con 930 abitanti, nobili
famiglie e buone borse, molti tornati appena dalla fiera di Bergamo.
Ed anima viva non ne campò. Dopo alcun tempo la Mera si aperse un
nuovo corso fra il dilamato terreno: si tentò, si scavò, nulla poté
Quintilio Passalacqua, Lett. Stor. 2. Anche oggi trovi fra i Grigioni molte stufe,
messe con bell’arte a opera di intagli, od a pitture, tratte specialmente dalla
Gerusalemme Liberata. Nel 1621 il generale Serbelloni ne fece spiantare e trasportare
a Milano una dei Salis a Soglio, che valeva degli scudi a migliaja. Ne ha pure di belle
in Valtellina, e in quella dei Vertemate, vicinissima al luogo di Piuro, sono profusi
intagli delicatissimi e belle tarsie e pitture del Campi. Ivi pure si conserva la pianta
di Piuro antico.
(62) Nella dedica della vita del Medeghino del Missaglia.
(61)
ritrovarsi che masserizie e cadaveri(63). Non mancarono prodigi al
terribile caso: la cometa che in quel tempo aveva atterrito i popoli e i
re. Predizioni portentose: angeli che avvisarono del pericolo, demoni
che infierivano la procella, chi l’attribuì a vendetta di Dio per il
licenzioso vivere d’alcuni, o per i protestanti che vi avevano culto. I più
giudicarono non senza destino fosse accaduto appunto il giorno della
barbara uccisione dell’arciprete Rusca. Fermo tra i miserabili resti e
nel letto del fiume devastatore, che scorre sopra il diroccato borgo, ben
sei disumano se non ti senti stringere il cuore pensando a quelli, che
repente dalla quiete dei domestici lari, dalla preghiera, dall’amichevole
discorso, dalla soavità degli affetti famigliari, vennero balzati in
quell’incognita regione, dove solo si fa giusta la retribuzione delle
opere umane.
Si disse esservi periti 2 milioni in oro: chi a 3.000, chi a 1.800, chi a 1.200
somma i morti. Kant, Geografia fisica IV, 13 li restringe a 200. Bossi, Storia d’Italia,
li cresce a 3.600; ed in un suo discorso all’Istituto suppose avervi dato cagione le cave
della pietra tornatile: ma ciò non può essere, giacché sono al di là del colle. Il
Dictionnaire geog. hist. et popul. de la Suisse somma i motti a 2.430. Oltre quelli che
ne parlarono per incidenza, ed il Passalacqua suddetto, vedi una relazione di
Benedetto Paravicino, Bergamo 1619: una lettera di Girolamo Borserio al P. M.
Montorfano, Milano 1618: il Quadrio, diss. 3 p 104: Sprecher p 64 che allora era a
Chiavenna, ed ebbe lordo il cappello della levata polvere, eccetera. La collegiata ne
fu trasferita alla chiesa di Prosto, che conserva una campana di Piuro (è la più
grossa), un pesante calice d’argento con ceselli leggiadri, donato nel 1588 dai
Vertemate-Franchi, e metà di una ricca pianeta. Dicesi ancora che alcuni v’abbiano
rinvenuto del bello e del buono. Pochi anni fa una mattina si trovò al posto di Piuro
sobbissata una quercia robusta, ciò che può indicare terreno cavernoso.
(63)
CAPO IV
Scontento dei Valtellinesi - Congiura dei Grigioni e dei ValtellinesiSacro Macello.
Ma, dolorosa verità! L’uomo ha più da temere le passioni dei suoi
simili che i disastri della natura. Gran doglia andava continuando alla
Valtellina il severo procedere dello Strafgericht, che per racconciare la
libertà guastava la giustizia: provocava lo sdegno dei nobili col toglierli
singolarmente di mira, mentre i popolani (se le fazioni non ne
traviavano il senno) si accorgevano che, percossi i capi, rimarrebbero
essi alla mercede dei predicanti. Nella Valtellina intanto i Grigioni ogni
di più prendevano rigoglio addosso ai Cattolici, e questi dovevano
mandar giù e mandar giù; e se dicevano parola di lamento, i padroni si
voltavan loro con un viso, quasi i buoni ed i belli fossero essi. Se ti fai
a leggere gli scritti di quei giorni, ti apparrà come i signori vivessero
timorosi e tremendi, nei sudditi fosse un’ira, un cordoglio,
un’affannosa speranza, il silenzio della paura in tutto il paese, l’idea
della vendetta in tutti i cuori, e quel sordo rumore dello sdegno di Dio
che si appressa.
Sciagura al governo, che intende col terrore comprimere i soggetti
mentre potrebbe colla giustizia amicarseli! Tristo a quello, il cui
egoismo crede riparar al male coll’acquistare tempo! I perseguitati
grigioni e valtellinesi, e quelli che riputavano meglio un onorato ribelle
che uno schiavo cittadino, cercando fuor di patria sicurezza, libertà di
lagnarsi, speranza di vendicarsi, si davano attorno per introdurre le
armi straniere nella valle non solo, ma nei Grigioni. Anche il popolo
dal terrore alla pietà, poi allo sdegno passò. E prima parlottar segreto,
poi aperte querele, ché nei patimenti sembra consolazione il gridare e
lamentarsi, e venire per il più leggero appicco a parole, e tutt’insieme
a sassi e coltelli. Avendo voluto i Reti introdurre una chiesa evangelica
in Boalzo e Bianzone, s’opposero a tutta lor possa i Cattolici. E per
vendetta di Biagio Piatti i Cattolici ammazzarono un evangelico di
Tirano, e diedero tal avviso che mal per lui al predicante di Brusio,
primizie de’ Martiri.(64) Anche al Calandrino, mentre predicava a
Mello, una banda s’avventò, e lo ferì a morte. Anzi avendo i predicanti,
(64) Così un libro intitolato Vera narratione del massacro fatto dai papisti ribelli
nella maggior parte della Valtellina, messa in luce per la necessaria informatione
et ammonitione a tutti i stati liberi, e per esemplo a tutti i veri cristiani di
perseverare nella pura professione del S. Evangelio. Beati coloro che sono
perseguitati per cagione di giustizia perciocché di essi e il regno de’ cieli.
dopo la pasqua, fatto una solita loro accolta in Tirano, i terrieri in
arnese d’armi s’erano rimpiattati al ponte della Tresenda per
trucidarli: ma lor ventura volle ne sentissero fama a tempo per
ripararsi.
Intanto i Valtellinesi non lasciavano cura per trovare rimedio
efficace ai mali sì lungamente pazientati. Dal duca di Feria, nuovo
governatore del milanese, e dal Gueffier ambasciadore francese
ricevevano subdoli incentivi: trattarono colle Corti d’Austria e di
Spagna, ma l’ambigua politica di questa niente lasciava trarre a riva. Il
papa, a cui inviarono non una sola volta, li consolava con un mondo di
promesse, ma intanto li teneva confortati ad una pazienza, che loro
pareva ormai intempestiva. Sopratutto adoperavano i fuorusciti, gente
che, nimicissima di chi la proscrisse e nulla avendo a sperare nella
quiete, tutto nei tumulti, badando ai suoi odj più che ai comuni
interessi, è perpetua autrice di partiti estremi e ruinosi, purché riesca
non tanto al proprio trionfo, quanto a danno o a dispetto dell’inimico.
Colle consuete esagerazioni costoro gridavano per il mondo
l’oppressione della patria loro, e confortavano i Valtellinesi a levarsi
una volta per la causa santa, promettendo tener mano con essi.
Poiché ad ogni partito si vuole un rappresentante, un capo, tal fu
Giacomo Robustelli di Grossotto, parente dei Planta perseguitati,
perseguitato egli stesso, uom d’alto sangue, agiato dei beni di fortuna,
d’animo gagliardo e male al servire disposto, e ricco di quell’ambizione
che dei sagrifizj altrui sa fare vantaggio proprio. Servendo nell’armi,
era da Carlo Emanuele di Savoja stato fatto cavaliere dei ss. Maurizio
e Lazzaro, e molt’aura si era tra i suoi acquistato coll’affabilità e
splendidezza, sicché parve opportuno centro alle trame per liberare la
patria. Ben giungeva all’orecchio dei dominanti come si parasse mal
tempo, farsi appresto d’armi e danari per venirne ad una: ma il sangue
del Rusca era montato al cielo, grave giudizio stava per avvenirne, e
Dio gli inebbriava col calice che manda talvolta a popoli e a principi, il
sopore(65).
Ciò faccia saggi i signori della terra, che il pubblico bene, se vuol che
il suddito soffra alcuna cosa, vuol a più forte ragione che, chi comanda,
paventi stancarne l’obbedienza, schermo d’armi non bastare ove
ingiustizie si continuano, e mostrare più ancora dissennatezza che
atrocità chi ai lamenti dei popoli risponde «Confido nel mio esercito».
Non intenderà mai la storia chi guardi i passati avvenimenti dalla
camera propria, anzi che trasportarsi in mezzo agli uomini, ai costumi,
(65)
Calicem furoris Domini, calicem soporis.
alle opinioni tra cui furono compiti. La tolleranza, questo dolce frutto
della civiltà fecondata dal vangelo, per la quale noi consideriamo
fratello l’uom di qualunque credenza, e lasciamo a Dio lo scrutare i
cuori e punir gli errori dell’intelletto. La tolleranza che nei secoli forbiti
si risolve in accidiosa indifferenza tra l’errore e la verità, e fa oggi da
molti guardar come buone del pari tutte le religioni purché morali, era
affatto estranea a secoli dove le pratiche religiose tenevano il primo
posto nella società, dov’era profonda la persuasione che una credenza
sola portasse alla salute, le altre alla perdizione. Chi però dice che la
tolleranza fosse proclamata dai riformatori, mentisce, e basterebbe a
sbugiardirlo questo nostro racconto. Le persecuzioni furono tra essi
comuni non meno che tra i Cattolici, altrettanto fiere e più durevoli, e
nelle dissensioni religiose di quel secolo si trattava solo qual parte
dovesse scannare l’altra; se in Francia i Cattolici trucidare gli Ugonotti
o in Inghilterra il contrario.
Anche in Valtellina si ha per costante che i Riformati si fossero
giurati a fare un vespro siciliano, e ridurre alla nuova religione la valle,
non lasciando razza né generazione dei Cattolici. Questo fatto
potrebbe, se non giustificare, scusare almeno l’estremità dei
Valtellinesi: ma è egli altrettanto vero, quanto asseverantemente
ripetuto? Il Ballarini, il Tuana ed altri scrittori cattolici lo affermano; e
che il governatore di Sondrio si fosse lasciato sfuggire di bocca, non
andrebbe molto che sarebbero tutti d’una fede. Nelle suppliche sporte
dal clero e dal popolo di Valtellina al re cattolico ed al cristianissimo si
asserisce questa congiura. Possibile ardissero mentire così
sfrontatamente in faccia a quelle corone? Parrebbe anzi che unissero
alle suppliche l’atto di quella congiura(66). Ma perché, mentre si
conservarono le suppliche perì tal documento? Come, fra tanti fasci di
carte, che ad altri ed a me non parve fatica rovistare, questa non si
rinvenne? Ben si ragiona di qualche lettera, ed il Bajacca asserisce nel
1619 esserne caduta in mano dei Cattolici una, di non si sa qual
predicante, che si leggeva «Dio vi salvi, fratelli. Non potendo la patria
conservarsi in altra guisa che col levare di mezzo i dissidenti, si
conchiuse che vengano dalle fondamenta tolte la città ed il vescovo di
Coira, poi la Rezia tutta per riguardo ai papisti». Ne recitano pure
un’altra lunga latina, che suona in questo tenore: «Fratelli, il dado è
gittato... usiamo prestezza: non diamo agli avversarii tempo a
(66) «Fu fatta una congiura da predicanti et Grigioni, la quale s’esibisce
separatamente alla M. V, nella quale fu risoluto d’ammazzare il clero et nobili della
valle... col giorno et ora ne’ quali doveva il tutto essere eseguito».
respirare... I papisti non si devono ridurre alla disperazione se non si
possono insieme prendere ed uccidere, poiché spesso la disperazione
è causa di vittoria. Mentre dunque il ferro è caldo, battiamo: di poi
l’occasione sarà calva: moviam loro liti, molestiamoli citando,
disputando, mormorando: calunniamoli, finché lice quanto piace;
quelli d’alto ingegno irretiamo colle astuzie: allontaniamo così
qualunque pericolo possa alle cervici nostre sovrastare; tronchiamo le
più alte: prima il vescovo, gli abati, i prelati, i ministri avversi
prendiamo, poi gli ispanizzanti; rissiamo gli altri fra loro affinché si
consumino: questi cacciamo, quelli abbattiamo: se non taglieremo,
saremo tagliati: oppressi quelli, nulla è a temere... E ch’io lo dica in una
parola: coll’esilio e la morte di 300 uomini saremo sicuri».
Fin qui la lettera. Ora ti par questo l’ordinamento d’una congiura!
O non anzi il gridare, concediam pure d’un fanatico, ma che non fa che
gettare in mezzo un suo pensamento? Mi dirai che parlar oscuro si
suole in cose di tanto rilievo; ma od egli non temeva che la lettera
cadesse sott’occhio cattolico, e diceva poco; o sì, e diceva troppo. Chi
poi vergò quella lettera? donde? quando? a chi?(67) Manca ogni data,
ogni autenticazione. Come poi cadde in mano ai Cattolici?
Miracolosamente, vi dicono: risposta vaga, che cresce le dubbiezze. E
se considero come pochi fossero i Riformati a petto dei Cattolici, come
fra questi ne fossero di baldanzosi, che, quantunque sbanditi, vivevano
in patria fidando nei satelliti e nel proprio braccio, tanto da ardire fino
insultare i magistrati, sempre più scemo fede a questa congiura, e
vengo a crederla uno spediente, che il secolo nostro non ignorò.
Accusare la parte che soccombette, coprendo l’atrocità colla calunnia
e ammantando di difesa il misfatto.
Ma nulla più facile che ottener credenza perfino all’assurdo in
mezzo al turbinio dei partiti, cui primo effetto è annichilare il buon
senso. Vi si diede dunque retta. Le apparenze si recavano a realtà, i veri
mali s’invelenivano, si fingevano dei non veri, e quelli e questi
aumentavano l’accanimento. Era quello un tempo di rivoluzioni. La
Francia, dopo il macello della famosa notte di san Bartolomeo che
molti guardarono come generosa vendicazione di libertà nel credere,
si era agitata fra guerre terribili, che appena allora avevano posa.
L’Olanda si scoteva sanguinosamente dal giogo della Spagna in nome
della religione. In nome di questa la Boemia rompeva guerra
(67) Il Tuana nelle memorie manoscritte riferisce questa lettera come scritta al
reverendo Antonio ministro di Schanvich. L’arciprete di Sondrio la credeva scritta
dopo il sinodo tenuto dai predicanti in Illanz il 15 giugno. Relazione manoscrita
nell’archivio vesc. com.
all’imperatore. Tutta Germania era in tumulto per quella che poi si
chiamò guerra dei Trent’anni. Quanto valga l’esempio nelle rivolte non
fa mestieri ch’io lo dica; né dovette essere allora inefficace a
persuadere i Valtellinesi a procacciare con mano forte ai casi loro.
Il cavaliere Robustelli accozzò nella propria casa a Grossotto alcuni
Valtellinesi di maggior recapito e di spiriti più vivi e con parole da quel
dicitore felice che egli era, discorse i danni ed i pericoli della patria e
della religione. Qui gran disparere. Chi esortava ancora a pazienza:
come si tollerano le brine ed i rovesci del tempo, doversi tollerare la
mala signoria. Esservi altri legali mezzi a sperimentare, i subugli alla
fine non far bene che ai tristi. Essi, che fin qui potevano mostrare la
ragione, non volessero gittarsi al torto col soverchio avventurarsi, colle
rivolte, esperimento pericoloso quanto la trasfusione del sangue, non
s’ottiene che di cangiar padrone, forse di ribadir le catene, certo di
perdere l’inestimabile dono della pace. I moti popolari, facili ad
eccitarsi, difficili a mantenersi. A parole tutti esser buoni, ma al fatto
si sente che altro è immaginare, altro è soffrire, quando, raffreddo il
primo bollore, si conosce di non aver altro che aperto un varco di
pianto in pianto e d’un male in un peggio. Così dicevano quelli cui pare
che la perseveranza conduca ben più innanzi che non l’impeto; e che
disposti a non transiger mai colla prepotenza confidano fiaccarla colla
sofferenza attiva, persone che il secolo nostro condanna col titolo di
moderati.
Ma uom deliberato non vuol consiglio. E i più ai quali pareva
lodevole il far libera la patria od utile il comandarla o santo il purgarla
dalla eresia, sordi ad ogni voce di moderazione, per bocca del
Robustelli esclamavano essersi sofferto assai: dallo star pazientando
qual buona mercede ce ne venne? I timidi consigli ci fecero disprezzati,
i gagliardi ci faranno rispettati. Chi non comincia non finisce. Dai padri
nostri ne fu lasciata una patria da amare, un patrimonio da difendere,
il dovere di conservare le leggi da loro promulgate. E la patria ed i beni
e le leggi e, che più conta, la religione ci hanno codesti stranieri tolto o
contaminato. Chetare le speranze in Dio? Quest’è lodevole quando
cresca stimolo alle forze, non quando sia pretesto a cessar dalle opere.
Una misera pace ben si muta anche colla guerra. Cento mila Cattolici,
quanti ne abitano dalle fonti del Liro a quelle dell’Adda, elevano un
voto solo: cento milioni di Cattolici in tutta Europa aspettano da noi
esempio, e ci preparano applausi e soccorsi. Noi dunque concorde
volere, noi sdegno generoso, noi magnanime speranze, noi armi giuste
perché necessarie, formidabili perché impugnate per la patria e per gli
altari. Il papa ci benedice, Spagna ci appoggia, la discordia dei Grigioni
ci favorisce. Se l’occasione fugga, chi più la raggiungerà? Chi non vuole
quando può, non può quando vuole. Torna meglio morire una volta
che tremar sempre la morte. Cadremo colle armi alla mano? Il mondo
ci compassionerà, ci ammirerà come martiri, come eroi.
Sopravviveremo alla ben condotta impresa? Quanto sarà dolce nei
tardi nostri anni dire ai figli ed a chi nascerà da loro: «Noi pugnammo
per la patria e per la fede: se liberi, se cattolici voi siete è merito
nostro».
Applausi non mancano mai a chi parla alle passioni più che alla
ragione, e non tardarono ad entrar tutti nel parere più violento. Si
faceva grande appoggio sulle armi e sui maneggi dei Planta, si sperava
dai Cantoni cattolici; «Ribellione (diceva il capitano Guicciardi) si
chiama il macchinare e non compiere l’impresa». «Non mancheranno
ragioni (esclamava Anton Maria Paravicini) se non mancherà la forza
di sostenerle». «Tolgo sopra di me (soggiungeva il valente
giureconsulto Francesco Schenardi), il mostrare al mondo che
abbiamo diritto d’esser liberi ed indipendenti».
Ma come operare il gran fatto? Levarsi in arme, proponevano
alcuni: intimare ai Grigioni di partirsi, ai nostrali di convertirsi alla
fede; dar mano agli ispazzinanti della Rezia per abbattere la parte
ereticale, e chiusi nei propri monti, respingere le armi che venissero
per soggiogarli. Ma «No no (gridava il dottor Vincenzo Venosta), non
è più tempo di mezzi consigli. Le ingiurie contro i principi non si
cominciano per farsi a mezzo: chi trae contro i padroni la spada, getti
il fodero, né ponga speranza che nel proprio valore. Or che clemenza?
che discorrere di diritto e non diritto, di pietoso o di crudele, quando
si tratta di salvare la patria e la religione? Non sono costoro che
uccisero Biagio Piatti ed il santo arciprete Nicolò? Che chiesero a
morte i migliori di noi? Che congiurarono per iscannarci tutti inermi?
Volti Iddio sovr’essi il loro consiglio, e si scannino fino ad uno quanti
eretici dannati al demonio vivono in mezzo all’ovile di Cristo. Se noi li
uccidiamo, se ne parlerà alcun tempo, indi scaderà fin la memoria loro:
se vivi li lasciamo, continueranno a darsi attorno, cercando a noi
nemici, a sé vendetta. Gusti il popolo la voluttà del sangue, e sia
suggello al voto di eterna nimistà con questi esecrati padroni». Quel
caldo parlare vinse i ritrosi pareri, e fece precipitare la bilancia dei
consigli esagerati. Onde, accesi tutti in gran volontà di un passo
terminativo, serrandosi le mani con quella potenza che è data
dall’accordo delle volontà, giurarono ridurre le vendette ad un colpo e
fare a pezzi quanti eretici natii o stranieri, fossero nella valle. E senza
punto frammettere, venne spedito il capitano Giovanni Guicciardi di
Ponte per amicare il cardinale Federico Borromeo, il duca di Feria e gli
altri magnati del governo milanese. Nel che riuscito a poca fatica, ed
avutone anzi 3000 doppie,(68) assoldò esuli e gente d’ogni sorta pel
primo sforzo di liberare la patria.
Non crederete che, fra tanti complici, questi trattati passassero
nascosti ai Grigioni: ma dagli interni tumulti occupati rimessamente
provvedevano, mentre i Valtellinesi per questo appunto acceleravano
vieppiù. E già avevano composto che il 19 luglio, mentre gli Evangelici
erano assembrati alla predica festiva, dovessero assalirli e trucidarli
nel punto stesso, truppe milanesi entrerebbero nella valle. I Planta dal
Tirolo, il Giojero, già podestà dì Morbegno, dalla Mesolcina,
piomberebbero sopra la Rezia. Tutti quei concerti insomma che al
tavolino pajono immancabili, e all’atto svaniscono, lasciando chi vi
credette in faccia alla nuda realtà. Disajutò gravemente quest’ordine
esso Giojero, che ai 13 di quel mese valicò il San Bernardino, e sceso in
val di Reno, difilò sovra Coira, presumendo con un avventato colpo
dare buon cominciamento all’impresa: ma dai Grigioni respinto,
sperperata quella sua marmaglia, fu mandato in fumo il tentativo.
Né però i congiurati fecero come sbigottiti e vinti al primo colpo
fallito: anzi tenevano pronto armi, munizioni e bravi per un terribile
domani. Ma di rado van piane queste pratiche. Il capitano Giammaria
Paravicini di Ardenno, cancelliere generale ed uno dei più vivi in tale
faccenda, dando nome di dover accudire a certi suoi poderi in Vacallo,
terra nei baliaggi svizzeri, si era messo colà per far còlta di gente, con
cui doveva, appena cominciata la strage, mozzare le strade del
chiavennasco perché di là non venissero Grigioni in soccorso. Ora non
so qual urgentissimo negozio lo chiamò di tutta prontezza a Milano,
donde fece inteso a Giovanni Guicciardi come per ciò fosse mestieri
dare al fatto l’indugio di otto giorni, finché spedito egli si fosse dagli
affari per cui era partito. Quanto se ne turbasse il Guicciardi lascio a
voi pensarlo, ben sapendo di qual momento sia un’ora sola nelle crisi
d’un popolo come d’un malato. Spedì dunque per il Robustelli, che da
Grossotto a Tirano in diligenza venuto, nella tinaja del podestà
Francesco Venosta unitisi molto alle strette, si consultarono su qual
partito fosse a pigliare al caso. Per evidenti segni appariva il loro
consiglio essere trapelato ai Grigioni o per ispioni, genia non mai
scarsa, o per qualche parola mal avvisata, o per quei piccoli segni che
si notano quando si ha niente indizio d’una pratica. Onde, vigili in loro
terrore, si erano recati in miglior guardia, avevano raddomandate dai
(68)
DE BURGO, P. 9: cioè da 30.000 franchi.
Valtellinesi le chiavi di tutte le pubbliche fortificazioni ed armerie,
rifrustavano con rigore alcune case, avevano posto su ciascun
campanile chi, ad ogni primo rumore, toccasse a stormo, proibito
l’uscir dalla valle e fin lo spedire lettere, tenuti ben d’occhio i caporioni,
disposta una tela di cagnotti che ronzassero alle frontiere.
E appunto in queste guardie cadde un corriere, spacciato a posta
con lettere dal Robustelli al Paravicini. Ciò sapevano i congiurati,
ignorando però come il corriere fosse stato destro abbastanza, da
gettare nell’Adda i dispacci, che avrebbero messa in luce la trama.
In così terribile intradue che fare? Fuggire, proponeva il Guicciardi,
mentre lo scampare era a tempo, e serbarsi a migliore opportunità. Ma
dissentivano fermamente gli altri due: essersi ormai là, dove se
andasse al contrario avevano giocata ogni speranza. Già era in forza
dei padroni un dei loro complici, che al domani doveva esaminarsi alla
corda: e se i tormenti gli strappassero la verità? Poi se anche riuscisse
a loro di fuggire, che ne sarebbe dei tanti, che per confidenza avevano
preso parte con loro? Che della patria, abbandonata ad un offeso
padrone? Già sono in punto d’armi molti satelliti, già il Paravicini
mandò un gomitolo di 40 uomini i quali, dato che siano scarsi di
numero, basteranno poco o assai a coprire il terziere inferiore. I
momenti che il vile usa a fuggire, il prode gli adopra al vincere. Si tolga
dunque ogni indugio al fatto, usando quell’audacia che padroneggia gli
eventi.
Neppur tanto bisognava perché anche l’altro scendesse nel loro
parere: onde navigando perduti, vinse il partito di dar corpo al feroce
disegno, se ne andasse quel che volesse. Le terre superiori non erano
da verun accattolico abitate, né i Bormiesi avevano di che lagnarsi dei
Grigioni(69). Doveva dunque la strage cominciarsi a Tirano, ove
aggregati i manigoldi in casa del Venosta, coll’avidità del fanatismo già
pareva loro mill’anni d’essere al sangue. Appena si oscurò quella notte,
trista per cielo perverso, più trista per i disegni che vi dovevano
maturare, sono fuori, altri a guardare le vie perché non esca fama del
fatto, altri a serragliare la strada di Poschiavo, altri a collocarsi
opportuni. Poi in un sogno pieno di fantasmi e di paure, quale scorre
fra il concepire d’una terribile impresa ed il compirlo, stettero
aspettando l’ora pregna di tanto dubbio avvenire, con quel gelo di
(69) Così attestava il loro oratore compar Giasone Fogliano in un petitorio al Ferer,
consigliere segreto di Filippo IV. Ivi dice che il contado di Bormio non pagava ai
Grigioni che 20 renesi, 20 bazzi e L. 400 di Milano ogn’anno. Una relazione del
Botero parte 3, l. 1 Venezia 1618, dice nella giurisdizione di Bormio, che fa 10.000
anime, non vi essere tre case infette d’eresia.
cuore, con quell’indicibile sospensione d’animo, che non conosce se
non chi la provò. Là sul biancheggiare dell’alba quattro archibugiate
danno il segno convenuto, le campane suonano a popolo, compunti il
cuore di paura, balzano dal sonno i quieti abitanti, ma come all’uscire
ascoltano gridare ‘ammazza ammazza’, e vedono darsi addosso ai
Riformati, tutti sentono il perché di quell’accorruomo. Ogni cosa è un
gridare, un fuggire, un dar di piglio all’armi, chi per difesa, chi per
offesa, e piombare sovra i nemici, e difendentisi invano, gridanti a Dio
mercé della vita e dell’anima, tra le braccia delle care donne che
ponevano i bambini a pié dei sicarj per ammansarli, e tra i singulti
degli innocenti figliuoli, nelle case, per le strade, sui tetti, trucidarli. Il
cancelliere Lazzaroni, valtellinese riformato, fuggi ignudo su per li
tetti, e s’occultò in luogo schifo; ma additato da una donna, fu finito, e
con lui un cognato suo cattolico, che gli aveva dato mano al camparsi.
Il pretore Giovanni di Capaul si rendette alla misericordia dei sollevati,
ed i sollevati l’uccisero. Trascinarono nell’Adda il pretore di Teglio. Al
cancelliere Giovan Andrea Cattaneo non valse il farsi scudo del petto
di una sposa, che pur era cugina del Robustelli e del Venosta. Non al
Salis vicario della valle ed al cancelliere suo il fuggire a franchigia nella
casa del capitano Omodei, leale cattolico aborrente di quelle estremità.
Al ministro Basso fu tronca la testa e posta, fra barbari dileggi, sul
pulpito da cui soleva predicare. Ben sessanta vennero in diversa foggia
scannati, fra cui tre donne, e le altre ed i fanciulli perdonati se
abbracciassero la cattolica fede. II Robustelli, entrato a Brusio in val di
Poschiavo, schioppettò un trenta persone, poi mise fuoco al paese.
Falò, diceva egli, per la ricuperata libertà di religione.
Che premeva a costoro? Che difendevano essi? La religione di
Cristo? No, se ne falsavano il primo precetto, il supremo distintivo,
amare. Era abitudine di antichi riti, era quel furore che accompagna le
fazioni, era zelo iniquamente incitato da fanatici capi, che predicavano
questi orrori nel nome del Dio della pace, a sostegno di una religione,
che deve essere propagata con armi incolpate, colla santità degli
esempj, coll’efficacia della parola e della grazia.
Guai se la plebe comincia a gustare il sangue! È un ubbriaco, che più
beve, più desidera il vino. «Ripurgato così (uso le parole del Quadrio)
dalla eretica peste Tirano e le sue vicinanze», si spedirono a Teglio
uomini vestiti di rosso, che annunziassero il felice incammino dato
all’impresa. All’avviso, i Besta corrono coi manigoldi addosso alla
chiesa degli Evangelici e prima li prendono a tiri di scaglia dalle
finestre, poi, atterrate le porte, a coltella li sgozzano. Diciannove
rifuggirono nel campanile, e gli insorgenti, messovi fuoco, li
soffocarono. D’ogni sesso, d’ogni età, fin settanta ne uccisero, fin un
cattolico, Bonomo de Bonomi, perché non prendeva parte
all’esecrando atto. Fin te, povera Margherita di quattordici anni, che,
colla viva eloquenza d’una giovinezza innocente, opponevi il capo alle
ferite dirette al sessagenario tuo padre Gaudenzio Guicciardi.
Intanto Giovanni Guicciardi levava a strage i paesi da Ponte in giù e
la val Malenco e drizzava i sollevati con forte mano sopra Sondrio, sede
del magistrato supremo della valle. Al governatore di colà l’usata
moderazione giovò per ottenere che colla famiglia riparasse in patria.
Settanta altri, di viva forza apertosi il passo tra gli assassini, fidati nella
disperazione, si salvarono per Malenco nell’Engadina, e si sparsero a
Zurigo, a Ginevra, a Sangallo. Toltì questi pochi, la plebe, gridando
Viva la fede romana, saccheggiò le case, e fece orribile guazzo di
sangue. Si figuri a cui regge l’animo l’orrore di quel giorno, quando ben
cenquaranta furono trucidati, ed un Agostino Tassella, coll’insensata
gioja del delitto, come di bellissima prodezza andava trionfante
d’averne egli solo mandati diciotto a casa del diavolo; e un tal
Cagnone si vantava pronto a trafiggere anche Cristo; e la ciurmaglia,
stanca ma non satolla, facendo insane gavazze in Campello, gridava:
ecco la vendetta del santo arciprete.
A Bartolommeo Porretto di Berbenno fu scritto l’ordine
dell’uccisione, ma il buon uomo mostrò la lettera ai Riformati. Qual
ebbe merito la sua virtù? Un furibondo Cattaneo trucidò lui e due altri
cattolici: esordio alla strage dei calvinisti di colà.
La fama precorsa aveva intanto fatto agio a molti delle squadre
inferiori di cansarsi. Ma quando i satelliti, messi alla posta sulle
frontiere, ebbero sentore della sommossa, precipitarono a Morbegno
per pigliar parte all’impresa gloriosa dei fratelli. Alcuni calvinisti,
assicurati di salute sulla pubblica parola, furono richiamati, e poi
crudelmente ed iniquamente ammazzati. I predicanti Bortolo
Marlianici, G. B. Mallery di Anversa, M. A. Alba furono uccisi.
L’Alessio campò con Giorgio Jenatz predicante di Berbenno ed altri.
Francesco Carlini frate apostato e predicatore calvinista, fu mandato
all’inquisizione, ove abjurò. Paola Beretta, monaca apostata, inviata
anch’essa a quel tribunale, resistette, e fu arsa viva.
Andrea Paravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra
due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando
costante, fu arso vivo. E si videro spiriti celesti aleggiargli intorno a
raccoglierne lo spirito. Né fu questo il solo prodigio, onde le due parti
pretesero che il Cielo ad evidenti segni mostrasse a ciascuna il suo
favore.
Ignobili affetti presero il velo della religione, e coll’eterna iracondia
del povero contro il ricco, contadini e servi piombarono sui loro
padroni, i debitori su cui dovevano, i drudi sui cauti mariti. Molte
donne, ancora e nella florida e nella cadente età andarono a fil di
spada: Anna Fogaroli, Pierina Paravicini, Caterina Gualteria, Lucrezia
Lavizzari scannate: Cristina Ambria, moglie di Vincenzo Bruni, e
Maddalena Merli precipitate dal ponte del Boffetto. Ben venti nel solo
Sondrio(70). Anna di Liba vicentina di sette lustri con un bambolo alla
mammella, perché ritrosa a rinnegare la fede che aveva abbracciata col
marito Antonello Crotti di Schio, venne in quattro trinciata.
Costanzina di Brescia, giovinetta di viva bellezza, era troppo piaciuta
ad un giovinastro, che chiestala invano d’amore, covò la vendetta sino
a quel giorno quando di sua mano le passò la gola. Caterina si era ad
onta dei fratelli, sposata in un Marlianici protestante, ed i fratelli si
piacquero sfracellare il cognato, e balzare nell’Adda la miserabile che
lo piangeva.
Poi per molti giorni, come bracchi entrati sulla traccia, si mettevano
fuori all’inchiesta i villani con forche e picche e moschetti e crocifissi
tutto insieme, facendo gesti e schiamazzi, ridicoli se non fossero stati
tremendi. Le selve si mutarono in armi. I coltelli delle chete mense, le
benefiche falci erano travolte al misfatto. Nelle caverne, disputate ai
lupi e agli orsi, si trucidavano freddamente i latitanti. Quali perirono
di fame. Tratto tratto uno sparo annunziava un nuovo assassinio. Non
v’è così solitaria valle, ove tu non possa dire: qui fu versato sangue.
Non eco di quei taciti poggi, che non abbia ripercosso ì miserabili lai
di moribondi. E fortunato chi moriva di primo colpo, senza vedersi
scannale innanzi le persone care, senza bevere a sorsi una morte
disperata, straziati a membro a membro, coi visceri divelti, col corpo
spaccato dalla polvere accesa nella gola... Vien meno la virtù della
favella a descrivere quell’orribile arte di strazio. Deh quante vedove
fece quel giorno! Quanti orfani! Quanti nodi d’amore barbaramente
troncati!
Che più? Fanatici frati, sacerdoti del Dio che perdona, aizzavano la
moltitudine, quasi non credessero poter essere zelanti senz’essere
feroci. Battista Novaglia a Villa tre di sua mano ne scannò; frate
Ignazio da Gandino venne a posta da Edolo; l’arciprete Paravicini
inanimava i suoi Sondriesi a tuffarsi nella strage dei fratelli; il Piatti,
(70) Il Quadrio vorrebbe contro il vero insinuare che si aveva riguardo alle donne
come cose mobili per natura: che a Teglio otto donne e tre fanciulli rimasero per
accidente sacrificati eccetera, ma non era egualmente un assassinio e su queste e
sugli uomini?
curato di Teglio, attaccò il dottor Federici di Valcamonica, e fatto il
segno della croce quale portava nella mano sinistra e una spada nella
destra, ammazzò detto dottor Calvino con altri seguaci; il
domenicano Alberto Pandolfi da Soncino, parroco delle Fusine, con
uno spadone a due mani guidava il suo gregge a trucidare i fratelli di
quel Cristo, che aveva detto: Non ucciderai. Il Sacro Macello e allora e
poi fu lodato come santo e generoso da storici, da principi e da papi(71).
Ma al secolo mio, al secolo che pure macchiò le mani di sangue e di che
sangue, e di quanto, io non ardirò domandare se possa lodarsi quella
impresa: domanderò solo se possa scusarsi. Grave è l’oppressione dei
reggitori, cara la religione in cui si nacque, siano vere le vessazioni
tutte, finanche la congiura: ma era d’uopo scannare i nemici? Avvisati
del pericolo, non bastava provvedere alla difesa? E volendo pur
togliersi di suggezione, non si poteva intimare ai Riformati che
abbandonassero quella terra? Intimarlo con quella potente concordia,
a cui nulla possono negare gl’imperanti? Che dirà il lettore quando
saprà che dei 600 uccisi (l’appunto non si può dire essendo chi li scema
e chi d’assai li cresce) poche decine erano Grigioni, gli altri indigeni o
rifuggiti d’Italia? Ma l’età si era rifatta barbara. Sull’Italia, la prima
svegliata, tornava la notte dei mezzi tempi, e ve l’addensavano gli
stranieri suoi dominatori. Poi di tempo in tempo si getta fra i popoli
un furore, simile alle epidemie, durante il quale ogni riparo di ragione,
«Che fui il 19 di luglio 1620, giorno veramente fausto, et per tanta felicità
degno d’essere annoverato tra gli più celebri dell’anno con solenni processioni»,
BALLARINI, Fel. Progr. etc. p. 10 «Come tanti Macabei confidati nel divino ajuto
assalirono gli eretici... La qual impresa quanto sia stata accetta a Dio l’ha testificato
con diversi núracoli, eccetera» Relazione manoscritta «Il che successe con tanta
facilità e felicità, che ben si vide la mano di Dio assistente ad opera tanto santa:
poiché in tutta la valle non si mossero più di 100 persone, sebbene ci fu consenso di
tutti gli altri, et nondimeno ammazzarono tanto numero di heretici et officiali
Grigioni». Supplica al re cattolico. «Di Teglio il fatto glorioso sgombra l’oscurità
dell’eresia, abbellisce il cristianesimo, empie di gioja il mio cuore e d’altri fedeli, e
tutte le lingue si debbono snodare per celebrarlo d’opera sì sublime ed alta,
conveniente alla sublimità ed altezza ove siede». Il Rusco o descrizione del contado,
eccetera. L’Alberti però nelle antichità di Bormio dice che «da prudenti fu lodata la
rivolta, non già il modo». Fortissimum consilium quod vos ad salutaria arma
capienda compulit, et Grisonum hereticorum jugum excutere suasit: faveat
exercituum Deus pietati et fortitudini vestrae. Greg, XV breve del 9 marzo 1623. Ed
il Quadrio diss. IV: «Parve che il cielo stesso dichiarar si volesse a favore del loro
disegno, poiché dove tutta la notte caduta era abbondevole pioggia... si mostrò il cielo
all’apparir dell’alba terso affatto d’ogni nube e sereno». Al fine del Vol. III degli atti
e monumenti della Chiesa Gallicana 1631 in fol. è inserita una Storia delle stragi di
Valtellina di Abbot, arcivescovo di Cantorbery.
(71)
ogni consiglio di prudenza esce indarno. Quasi per una adamantina
fatalità, bisogna che si compia il reato, che si colmi la misura, per
lasciare poi ai popoli il pentimento quando dalla colpa e dal delirio
vedono germogliare inevitabili la miseria, l’oppressione, il tristo
disinganno e il tardivo pentimento.
CAPO V
La Valtellina indipendente - Invasa dai Grigioni - Politica delle
potenze - Battaglia di Tirano - Governo della Valtellina – La
Valtellina resa ai Grigioni - Lamenti - Il trattato di Milano è cassato
I Grigioni espulsi dalla Valtellina – Invasi dagli stranieri Riconoscono l’indipendenza della valle - Ne spiace alle potenze Ambagi diplomatiche – La valle consegnata ai Papalini - Occupata
dai Francesi - Trattato di Monson.
Il primo respiro da una lunga oppressura sembra un trionfo per i
popoli, e facilmente si persuadono che la felicità d’una subitanea
riuscita sia tutto merito proprio, e rimanga compiuta l’opera, mentre
appena fu incominciata. Ma a vincere basta talvolta l’impeto, a
conservare ed ordinare la vittoria si richiedono senno, concordia,
abnegazione, virtù rare in ogni tempo. E quella perseveranza che è il
più difficile eroismo. Quante rivoluzioni felicemente iniziate, non
vedemmo noi o fallire il momento dopo per inettitudine degli uomini,
o riuscire a meschinissimi effetti per l’accorto aspettare dei nemici, e
per la improvvida fiducia dei trionfanti?
Quelle gioje così vivaci e così spesso fuggevoli, furono gustate allora
dai Valtellinesi, i quali, dichiaratisi indipendenti, scancellate le
impronte della retica dominazione si diedero un governo provvisorio,
e cominciarono a far decreti. Presero al fisco i beni dei Grigioni,
restituirono la patria agli sbanditi, i possessi alle chiese. Chiamarono
frati a predicare e confessare, accettarono il calendario gregoriano, la
bolla in Coena Domini, il concilio di Trento. Invitarono il vescovo a far
la visita, stabilirono l’inquisizione contro gli eretici, levarono il
seminario acattolico, indi, con larghe proferte, trassero dalla loro i
Bormiesi. Più allora che mai saria convenuto a questi osservare quel
loro statuto de comunione non habenda cum Valle Tellina, ma i
politici, sperando che i passi delle regie truppe, quasi al tocco d’un
Mida, convertirebbero in oro perfino le rupi, e i devoti per essere
quella santa rivoluzione a Dio dedicata,(72) indussero i Bormiesi a
prendere quel che chiamavasi il partito santo, il partito di Dio.
I Valtellinesi, in generale ragunata, sortirono al grado di capitano
generale della valle, e governatore, Giacomo Robustelli, con 200 scudi
il mese «per aver cominciato l’impresa di nostra libertà con sue gravi
spese e danno», suo luogotenente il Guicciardi. Sentendo il vicino
(72)
Informazione dei Bormiesi nel 1636.
pericolo, sfondarono i ponti, bastionarono paesi, si rassodarono di
uomini, armi, danaro, nervi della guerra. Mandarono ambasciatori a
quanti erano di momento in quell’affare, ai Cantoni svizzeri, al nunzio
apostolico in Lucerna, al papa, all’arciduca Leopoldo d’Austria, e
lettere particolari di gran calore a tutti i popoli cattolici, dando pieno
conto del fatto loro per loro giustificazione(73). Anche ad Andrea
Paruta, generale veneto di terraferma, spedirono per sincerarlo ed
imbonirlo: ma furono accolti a dir poco, freddamente. E Venezia, salda
coi Grigioni e malvolta verso i sollevati, richiamò dalla Valtellina tutti
i suoi sudditi, e allestì di armi il confine. E in generale s’aveva poca
simpatia per assassini, e spiaceva la prevalenza che Spagna veniva ad
acquistare.
Che il governatore di Milano avesse notizia della meditata
sollevazione, non si può dubitarne. E come altri ai dì nostri, avrà
accarezzato il tentativo con quelle parole che non legano il forte, eppur
dal debole sono accettate per promesse. Sciagurati i popoli al momento
che su quelle debbono contare. S’appoggiarono a una canna, e questa
si ruppe e straziò loro la mano. E i popoli invece di confessare d’essersi
ingannati, incolpano altrui e gridano all’inganno e al tradimento. I
Valtellinesi più sempre tenevano raccomandati al duca di Feria i
soccorsi che dicevano promessi. Ma questi stava colle mani giunte, o
temesse far manifesto d’aver sin da prima intesa coi Valtellinesi, o
volesse attendere finché con qualche bel fatto avessero dato segno di
valore, prova di fermezza, speranza di esito prospero, e mostrato se
dovesse il mondo chiamarli ribelli od eroi Il successo era stato in
questo mezzo udito gravissimamente dai Grigioni in Chiavenna, i quali
in grosso numero trovandosi, ebbero tempo di pararsi in difesa,
steccare gli accessi, farsi prestare dai Chiavennaschi giuramento di
durare in fede. Ond’è che quella parte rimase immacolata di sangue. Il
governo grigione poi, avutone avviso, si affrettò a far piangere amaro
il fatto ai Valtellinesi, e a ciò chiese l’aiuto dei confederati. La lega
grigia era quasi tutta cattolica, e impediva i provvedimenti contrari ai
propri fratelli di religione. Talché rifiutò le armi, e solo la lega Cadea e
le Dritture si ordinarono a vendetta e, sotto Giovanni Guller ed Ulisse
Salis, 3000 uomini spedirono per lo Spluga a Chiavenna, e per
Chiavenna in Valtellina. Il Robustelli e gli altri capi volevano mostrarsi
degni del primo posto coll’adoprar vivamente a raccogliere difensori,
sperando che l’ardore adoprato nella subitanea sommossa durerebbe
Ragioni e motivi del consiglio dai Valtellinesi preso eccetera. Milano, 1620.
Fu poi ristampato in Germania con postille ed aggiunte pro, e contro.
(73)
alla lunga difesa. Ma pericolosa e inutile è quella che si fa
tumultuariamente e senza ordine, e il popolo precipitoso,
sconsiderato, che piglia l’armi in fretta, in fretta le gitta. I Grigioni, o
schivando, oppure valorosamente superando le opposizioni, grossi ed
impetuosi investirono Traona, occuparono il ponte di Ganda, e varcato
su quello l’Adda, voltarono difilato sopra Sondrio, dove altri
giungevano da Val Malenco. Sondrio, abbandonata di soccorsi e
imperfetta di mure, non potea, non che una regolare oppugnazione,
neppur reggere una battaglia di mano. Onde i cittadini, credendo,
come si fa delle male nuove, ogni cosa peggio del vero, e ripieni di
presentimenti funesti per vedute meteore, determinarono
abbandonarla, ricovrandosi ad Albosaggia, terra montuosa sulla
sinistra dell’Adda, ove potrebbero ancora difendersi col fiume e coi
ridossi. Miserabile spettacolo, vedere le lunghe file degli abitanti con
infinito sbattito d’animo, seco trascinare quel che di più caro avevano,
e piangere e desolarsi. E l’affetto di quelli che dovevano abbandonare
gli infermi e i vecchi, e le povere monache di San Lorenzo, uscite
dall’asilo ove si erano ripromessa pace perpetua, venire, alla guida
dell’arciprete Paravicini,(74) attraverso ai monti per ricovrarsi a Como.
Entrarono i Grigioni in Sondrio, uccisero due infermi trovati, e
n’ebbero i mirallegro da alcune donne salvatesi col fingersi cattoliche,
e le quali ora gettavano ai loro piedi i rosarj e gli scapolari di che
s’erano fatto scudo.
Ho sempre creduto il più inutile uffizio della storia il divisare per
minuto i casi delle guerre. Tanto, mutati i nomi, è uniforme questa
scienza dei figli di Caino. Da per tutto invasioni e fughe, incendj di
paesi, racquisti, vittorie, sconfitte alterne, sangue, lacrime, terrore,
desolazioni d’ogni parte. Stando ai sommi capi delle cose, dirò come il
Feria, veduto che ai Grigioni davano soccorso ed i Cantoni protestanti
e la Repubblica di Venezia, mandò giù la visiera, gravò il Milanese in
(74) Giovan Antonio Paravicini successore del Rusca, nacque di padre riformato ù1
Sondrio, fu rettore di Tirano, poi parroco di Poschiavo, e giovò a mantenervi i pochi
cattolici, a ajutato anche di danaro dal cardinale Federico Borromeo: sostenne le
inquisizioni del tribunale di Tosana, fu prevosto a Montagna, indi arciprete a
Sondrio. Mandato poi a Lucerna per trattare gli affari della patria coi deputati di
Spagna e Francia, si dirizzo invece a Roma. Ivi nel 1625 ottenne da Urbano VIII due
barnabiti e sei Piaristi, coi quali voleva fondare a Sondrio un’accademia: ma i
Cappuccini, gelosi non venisse calo alla loro autorità, impetrarono che, invece delle
scuole, si piantasse il loro convento. Egli ottenne pure dal papa che i canonici di
Sondrio fossero obbligati alle cure d’anime. Lasciò manoscritti in grossi volumi lo
stato della pieve di Sondrio, ed altre cose degli affari correnti, e morì arcivescovo di
S. Severina.
900.000 lire, ottenne che Madrid dichiarasse la valle sotto la
protezione reale, e bandì inimicizia e guerra ai Riformati. Aggiungeva
legna al fuoco Paolo V papa, che offrì 80.000 scudi d’oro, bramoso di
mettere una barriera all’eresia. Si udirono i predicatori in Milano
esortare i fedeli all’impresa, che denotavano col titolo, così spesso e
stranamente abusato, di crociata.
Tutta Europa si mise in ragionamenti di politica per quell’angolo
d’Italia, piccolo sì, ma che, per la sua postura, faceva gola a troppi
potentati. Imperocché la Valtellina, come dicemmo, dall’estremo
occidentale tocca il Milanese, dall’opposto il Tirolo; gli altri due lati
confinano coi Veneziani e coi Grigioni; ed è noto che allora un ramo
austriaco imperava in Germania, un altro nella Spagna, nel Nuovo
Mondo e in tanta parte d’Asia. Immensi possessi, tra cui andavano
perduti il Milanese e il Napoletano. Cadeva la Valtellina alla Spagna?
Ecco aperto e spedito un passo, onde tragittare qualunque esercito
dalla Germania in Italia, volessero o no gli Svizzeri ed i Grigioni. Che
se in tal modo si fossero dato mano i domini austriaci dalla Rezia fino
alla Dalmazia, avrebber tolto in mezzo la Venezia e gli altri Stati
Italiani, impedendo a questi i soccorsi esterni, e divenendo arbitri della
Penisola. Veniva poi il papa, sperando in quel torbido pescare
grandezza alla Chiesa od ai nipoti; veniva la Francia ingelosita della
baldanzosa potenza austriaca, come la chiamava il Richelieu. Dall’altra
parte i Riformati della Rezia, di Svizzera, di Germania, d’Olanda, fin
d’Inghilterra, sostenevano, per interesse di religione, gli antichi
dominatori: i predicanti, in ogni paese, narravano ed esageravano
l’assassinio, chiedendone vendetta, a nome non solo della fede, ma
dell’umanità. Non è dunque meraviglia, dice il Capriata, se, come per
la bella Elena i Greci ed i Trojani, così per la Valtellina i principi, con
tutto lo sforzo dell’imperio e dell’autorità, si travagliassero.
I Valtellinesi come seppero che il re cattolico li aveva presi sotto la
sua protezione, alzarono bandiera spagnuola, se non disciplinati, certo
arditi all’opera, e mentre alcune truppe del Feria passavano nella
Geradadda, per fare una diversione ai Veneziani, altre salirono nella
valle, rammezzarono ai nemici la marcia, difesero Morbegno, ripresero
il ponte di Ganda, e don Girolamo Pimentello, generale della cavalleria
milanese, munì i passi, occupò la riva di Chiavenna, talché i Grigioni
dovettero ripassare le Alpi retiche. Non già per restare dalle offese, ma
per rinfocarle. Imperocché, accresciuti dall’oro veneziano e dai soldati
svizzeri, piegando su per il lungo dell’Engadina riuscirono, per la valle
di Pedenosso, a sboccare sopra Bormio in numero di 7.500, e chi dice
fin di 12.000(75) soldati. Avevano mandato innanzi Giovanni Scinken
cancelliere di Zug, persona di gran ricapito, a cercare i passi dai
Bormiesi. Ma alcuni, còltolo fra le gole, lo scannarono e seppellirono
con obbrobrio. Fu olio a fiamma: i Grigioni, più inacerbiti, piombarono
sul paese, ed unendo cupidigia e crudeltà al fanatismo religioso, si
piacevano profanare quanto i Cattolici avevano in venerazione, nella
marcia vestire piviali, tunicelle e cotte, sfregiare e bersagliare le
imagini devote, illaidire i lavacri battesimali ed il sacro pane, coi crismi
ungersi gli stivali, mutilare sacerdoti, menar danze nelle chiese al
profanato suono degli organi, usare a desco i calici e le patene: empietà
che, per gli animi commossi, non potevano succedere senza sangue.
Incontro a loro si erano mossi i Valtellinesi e gli Spagnuoli col
Pimentello, traendo anche le artiglierie del forte di Fuentes. Varie
incomposte avvisaglie dapprima: poi grossa e brava battaglia si fece a
Tirano, ove ben otto ore durò un tremendo menar di mani, finché i
Valtellinesi ebbero la migliore. Oltre 2.000 fra Grigioni ed ajuti si
dissero periti chi di ferro, chi nell’Adda, fra i quali il colonnello Florio
Sprecher. Il prode Nicola da Myler, capo degli ausiliarj bernesi, in sul
partire per la guerra, toccando i bicchieri coi suoi amici, aveva
promesso di riportar loro tante chierche di papisti, quante anella
contava una lunga catena d’oro, che gli pendeva dal collo. Ucciso lui,
quella catena fu mandata in dono e trofeo al governatore Feria.
Cinquanta Spagnuoli si divisero le spoglie di Bormio e 30.000 ducati
della cassa militare. Memorabile vittoria, la quale, anzichè al valor
confidente di chi combatte per la patria e per la religione, il popolo
devoto volle ascrivere a prodigio del Dio degli eserciti, asserendo che
la versatile statua dell’arcangelo Michele, posta sul pinacolo del
santuario della Madonna, per quanto durò la pugna, si tenesse rivolta,
benché contrario spirasse il vento, contro ai Grigioni, vibrando
minacciosamente la spada. Il Feria fece stampare tal prodigio, e lo
mandò a Madrid, insieme con una imagine dei ss. Gervaso e Protaso,
che sulla facciata della chiesa di Bormio, fatta bersaglio delle fucilate,
ne era rimasta illesa.
I Grigioni più che di passo ripiegarono verso Bormio, indi in patria:
avendo prima con insoliti ed aspri consigli irritato i loro soggetti, poi
con armi insufficienti mostrato incapacità di ritornarli alla rotta
pazienza. I Valtellinesi sbarrarono quel calle con una fitta muraglia.
vedi Relazione dell’empia scelleraggine dei Bernesi, Zurigani e Grigioni
eretici nella loro passata in Valtellina. Milano, Malatesta 1620
(75)
Altre ne eressero a Tirano, a Sondrio, a Morbegno e gli Spagnuoli
rimasero a tutela.
Ma tutela migliore fu il mettersi della vernata, che chiuse di nevi e
ghiacci tutti i passi. Onde, sostando il pericolo, la Valtellina, come
libera di sé, in universale assemblea, si recò in mano tutta l’autorità del
governo, nominò i magistrati e pose fra i primi un rappresentante del
ducato di Milano. Rese le monache ai conventi, riconsacrò le chiese,
disperse le ossa degli eretici, promise di tutto soffrire, anziché tornare
alla distrutta dominazione; ed entrò in quel secondo stadio delle
insurrezioni, dove gl’intriganti sottentrano ai convinti.
Mentre l’inverno quetava la guerra delle armi, risvegliava una
guerra di penne fra i gabinetti, agitandosi il destino della valle da
politici, da giureconsulti, da teologi e da quei tanti che ponevano in
campo ragioni sopra di essa. Né dormiva la Valtellina, mandando al
papa, ai re, alle repubbliche, affinché la conservassero indipendente.
Più che i soccorsi e la diplomazia a gran vantaggio le tornavano i lunghi
odii civili delle Tre leghe, ove Cattolici e Riformati litigavano
fieramente, in apparenza per dissenso religioso, in fatto per i raggiri
della Spagna e della Francia, che volevano far prevalere ciascuna il
proprio interesse. A maneggi e ad armi soprastettero in fine i Cattolici,
ed il Feria usò pienamente questa sbattuta a pro della sua corona,
lasciando, come spesso accade, i fiacchi nelle peste, e conchiudendo in
Milano una perpetua lega, a condizione che la Valtellina tornasse ai
Grigioni con buoni patti, e i Grigioni concedessero libero passo alle
truppe spagnuole.
Quanto la lega grigia, cattolica di sentimento, si tenne lieta di questo
accordo, altrettanto le altre due, singolarmente la bassa Engadina, la
avversarono sollecitate dai Veneziani e dai Francesi che, per non
lasciar crescere la Spagna, volevano rialzare i Reti, e restituire loro la
valle in pieno diritto. Anche i predicanti schiamazzavano contro quel
capitolato, onde si ruppe a baruffa, ed il Feria mandò armi che
sostenessero la guerra fraterna. La quale scoppiò nel marzo, ed i
Riformati, dati nell’armi e nel sangue in Engadina, ritolsero Tosana ai
Cattolici. Gli assaliti in gran terrore mandarono verso Bellinzona le
loro masserizie; ma sebbene i Riformati respingessero fin là alcuni
Borgognoni venuti a difesa dei Cattolici, in fine la fortuna si volse a pro
di questi, che ajutatì dai Luganesi, ricacciarono gli assalitori.
Allora i potentati e Gregorio XV succeduto papa ed informato da
persone gelose dell’austriaca potenza, scrissero al re di Spagna contro
il Feria, quasi fosse turbatore della comune pace, supplicandolo perché
rendesse le cose di Valtellina in punto di comune soddisfazione.
Giunsero le lettere quando il re stava negli estremi di sua vita, e
corse fama che nel testamento egli legasse al figlio ed erede suo
l’obbligo di restituire la valle ai Grigioni. In fatto l’imbecille Filippo IV
successogli, perché non paresse occupare l’altrui, né soperchiare la
libertà italiana, stabilì in Madrid che la valle ritornasse ai Grigioni
nell’antico assetto di cose, demoliti i forti, levati i presidii, perdonata
la ribellione: il re di Francia, gli Svizzeri e Vallesiani stessero
mallevadori per i Grigioni.
Pensate qual dire ne facessero gli insorgenti, fomentati forse dalla
Spagna a rivoltarsi ed or dalla Spagna consegnati ai nemici!
Mormoravano che il Cattolico avesse condisceso fiaccamente alla
moglie, sorella del Cristianissimo. Spedirono uomini a posta a dire, a
pregare, a lagrimare. Sposero anche al re cattolico gagliarde
significazioni in una lunga supplica, della quale questi erano i sensi e
quasi le proprie parole(76): «Soffra la serenissima vostra maestà che noi
poveri clero e cattolici di Valtellina veniamo supplichevoli in atto ad
umiliare nostre ragioni ad una corona, che degnò prenderci in
protezione; ad una corona che ha per primo fregio la santa croce ed il
titolo glorioso di cattolica. Tardi, e ce ne rincresce, le abbiamo
dichiarate le nostre querele, sicché la M. V mal informata, (lasci pur
dirlo) sì per la politica, sì per la religione, trascorse a concedere
qualche speranza ai pravi eretici Grigioni di ripossederci. E dalla
religione cominciando, la quale più deve stare a cuore alla M. V, che,
sull’esempio de gran padri suoi, tanto adoperò per conservarla pura,
resti servita di considerare in che pessima guisa sieno corse le cose da
quando cademmo sotto il giogo di quel popolo, barbaro di costumi,
empio di fede. Sarebbe un non finire mai l’annoverare le vicende
nostre, già per abbastanza relazioni fatte note al gran teatro del
mondo, talché ormai de lamenti son nojati coloro, che non provano il
martello di queste acerbe disavventure: ruine, demolizioni di chiese:
mutati ì templi di Dio in baserghe d’abominazione: i sabati volti in
obbrobrio: il santo Nicolò Rusca tratto al martirio: quanti Cattolici
avevano fermezza, perseguitati, cacciati: istituite scuole d’empi dogmi,
sicché potevamo dire con Isaia: La vite s’infiacchì, gemettero quei che
giubilavano perché trasgredirono la legge, mutarono il diritto,
dissiparono il patto sempiterno. Non più onore al culto, non più il
dovuto rispetto alle venerabili immunità del clero, al quale il gran
Costantino, specchio singolare degli imperanti, come vedesi
Le ho fedelmente raccapezzate da forse quaranta suppliche libelli, richiami
eccetera di quel tempo.
(76)
chiaramente in Rufino 1. X c. 10 dell’istoria Ecclesiastica, aveva detto:
Dio costituì voi sacerdoti, e vi diede podestà di giudicare anche noi
regnanti, e quindi noi giustamente siamo giudicati da voi, ma voi non
potete essere giudicati dagli uomini, perocchè dal solo Iddio voi
aspettate il giudizio. Che più? I Grigioni, li cui consigli Dio perda tutti
così, avevano ultimamente fatto trama di sagrificare fino ad uno i
Cattolici per radicare la scellerata eresia dell’empio e maledetto
Calvino in questa bella Italia, ov’è (al dir del poeta) la sede del valor
vero e della vera fede.
«Così tollerarono i Valtellinesi, lo sa Iddio, fin all’estremo, quando
si stancò la loro longanimità; e dalla schiavitù di Babilonia aspirando
alla libertà della vera Gerusalemme, fecero siccome Giuditta che
trucidò il nemico della sua patria, siccome i Macabei che s’armarono
contro gli Assiri, siccome i savi di Giuda che si tolsero all’ubbidienza di
Joram re, perché dereliquerat dominum Deum. Il Signore, che per far
molto non ha bisogno di molti, avvalorò con evidenza di effetti il
braccio di quelli, che avevano posto mano all’aratro senza guardarsi
indietro. I re, gli infallibili papi autenticarono la santa impresa, colla
quale ci togliemmo dal collo il retico e l’eretico giogo. Quali furono
l’opere nostre dopo che, ajutante Dio, ci vendicammo in libertà?
Rimettere in onore i santi ed il clero, introdurre il calendario
gregoriano, proclamare il sacrosanto sinodo di Trento, ristabilire il
santo uffizio dell’inquisizione, ottimo a tutelare la fede.
«Ed ora crederemo noi che la M. V abbia fatto alcuni capitoli per
ritornare questa mondata terra di Gessen nelle mani d’eretici perversi,
i quali, siccome avevano fatto del loro paese una Babele di discordie,
una Tebe di tragedie, così dal nostro avevano cacciato la quiete, la pietà
e poco meno che la religione? Volete dunque si rinnovino tutti gli
abomini, si cancelli quanto di santo e di cattolico fu introdotto dopo il
‘20, torni la nostra patria un rifugio ed un seminario di Calvinisti? Né
vi ricorda quant’oro e quanto sangue abbiano sparso i vostri gloriosi
antipassati per conservare pura la ss. religione? Né vi ricorda che
poc’anzi, ricevendo la corona, avete giurato a Dio ottimo massimo di
proteggere la fede romana, e di estirpare le eresie?
«Vi avranno forse detto che la Valtellina spetta per diritto a’
Grigioni. Falso, falso giacché quella spontaneamente in torbidi giorni
si strinse in lega coi Reti: e solo dopo che l’uomo inimico seminò la
zizzania e l’eresia, che ha per base la ingiustizia ed è nemica de’
legittimi e madre de’ tirannici imperii, questi mutarono la
confederazione in padronanza, e ci fecero come schiavi stare così, che
non potevamo star peggio. Fu dunque non ribellione la nostra, ma un
richiamo alla preziosa e imprescrittibile libertà. Però avessero pure
avuto i Grigioni diritto sopra di noi: chi non sa come, per comune
sentenza de’ teologi non si sia nodo gordiano di suddito, di padre, di
fratello così tenace, che l’eresia, come spada d’Alessandro, non lo
recida? Per questo la santa memoria di Gregorio IX ae haereticis capo
ultimo, assolse d’ogni debito di fedeltà verso un padrone caduto in
eresia: e Lucio papa, ad abolendum statuimus, ordinò si scaccino gli
eretici sotto pena di scomunica.
«O forse a questo fare si indusse la M. V pel desiderio del bene e
della quiete di questa valle? Qual bene! Quale quiete! Se i Grigioni
tanto aspramente ne trattavano in buona pace ed in sicurezza d’amore,
che non faranno tornando irritati col ferro alla mano, sopra un popolo
vinto ed abbandonato? Si rinnoveranno gli orrori del tribunale di
Tosana; faranno più che prima alle peggiori per la vita, per la roba e
(quel che più ne importa) per la religione; né sarà cosa che non si
credano lecita dopo che quei valorosi campioni, i quali, con singolare
sdegno di zelo e di ragione, restituirono la libertà alla patria, la quiete
alla fede, saranno stati scannati sull’altare della vendetta, senza poter
neppure dire, ohimé! Difficilimum imperare nolentibus: noi parliamo
esperti, e tutti siamo pronti a morire (e ne fossimo degni!) per la santa
religione. S’eterneranno adunque gli sdegni fra sudditi e signori, e di
tutto che ne potesse nascere, Dio chiederà conto alla M. V Né
v’impedisca la promessa legata a coloro, giacché niuno è tenuto a
portar fede agli infedeli. Bensì ponete mente alla perfidia de Grigioni
a mille segni palesata; che cacciarono i ministri, vilipesero i legati,
uccisero i soldati vostri. E voi li premierete a danno de’ Valtellinesi,
fedeli a voi quanto Dio vel dica?
«Deh piuttosto, se albergate alcuno spirito di pietà, movetevi in
favore d’un paese, che solo da Voi, dopo Dio, spera salute. E noi siamo
italiani di nome, di lingua, di costumazione, di generoso sentire: e
sopra noi s’inazzurra il limpido cielo di quella bella Italia, ov’è si
grande il nome ed il potere di V.M. Perché da quella separarne? Perché
tornarci al giogo che la Dio grazia scotemmo, anziché formare di noi
fedeli vassalli, che benedicano in eterno alla vostra bontà? Prostrati in
umilissimo aspetto, colle ginocchie a terra, con tutte le viscere del
cuore e pel sangue del Figliuolo di Dio, noi vi esortiamo ne tradas
bestiis animas confitentium Deo. Trovi la M. V come comporre la
pubblica tranquillità: ma deh non ci tradiscano le mani, in cui a
confidenza ci siamo noi posti. Mantenga questa porta d’ltalia senza
macchia né ruga di eresia, e non che a’ suoi ventidue regni, che il Cielo
conservi, ma al mondo tutto faccia manifesto, che è propriamente
quale si intitola, difensore principalissimo della santa, cattolica,
romana religione». Queste ragioni, esposte cogli ingredienti d’allora
come cogli ingredienti d’adesso si fanno i proclami e gl’indirizzi
odierni, giravano colle stampe, e quantunque non lasciassero i
Grigioni di rispondervi(77), pure furono di qualche momento presso il
re di Spagna; e forse egli aveva acceduto a quel trattato soltanto per
gettare polvere negli occhi, e studiava del come snodarsene; tanto più
dopo che gli fu, a prove di consigli e di valore, mostrata la fermezza dei
Valtellinesi. E la fortuna mandò tempo al suo disegno: perocchè
adunatasi in Lucerna la dieta svizzera cattolica, vi si presentarono i
Grigioni dando l’atto del perdono generale alla Valtellina, e chiedendo
la restituzione di questa. Il Tommasini inviato di Spagna, o vi fossero
di fatto o volesse vederli, notò dei cavilli in quell’amnistia; e gli
Svizzeri, forse abbagliati dai dobloni di Spagna, ricusarono interporsi
mallevadori, e così l’accordo andò sturbato.
Allora di nuovo sulle armi i Grigioni: e sicuri d’avere chi li secondava
al lembo del bergamasco e del bresciano, fatto massa, irrompono nel
bormiese con 12.000 soldati, saccheggiano, mandano a fil di spada e
di vergogna, colla crudeltà di barbari e fanatici vincitori. Ma il
governatore Feria si era inteso coll’arciduca Leopoldo, il quale già al
primo tumulto avendo fatto capo nel forte di Santa Maria nella tirolese
valle di Monastero (Munsterthal), tosto invase i retici confini. Il Feria
stesso veniva su per la Valtellina, accolto a stendardi sciorinati, a saluti
di trombe, d’artiglierie, di campane, acclamato il protettore, il
liberatore. A Sondrio il Robustelli gli fece comodità della sua casa, ed
il padre maestro Cherubino Ferrari Legnani teologo carmelitano
recitò, poi stampò un elogio a perpetua memoria et a gloria
immortale de l’ill. et eccell. sig. il sig. D. Gomez de Figueroa et
Cordova, duca di Feria ecc. per l’heroica et santa impresa d’aver
cacciati gli eretici dalla Valtellina, ove colle ampolle proprie di quella
età, vien dicendo come la Valtellina gli erge a perpetua memoria un
monumento, ove archi sono gli intelletti dei popoli, piramidi le
memorie, trofei le volontà, statue i petti, colossi i cuori.
All’ancipite pericolo si erano i Reti ricoverati in casa, e gli Spagnuoli
inseguendoli, avevano stimato bene mettere il fuoco a Bormio,
bruciando settecento case, e tredici sole lasciando illese! Tanto e amici
(77) Vedi Véritable et solide responce aux caloninies, et raisons desquelles les
resbelles de la Valtelline, vrais et naturels sujets des Grisons, pallient et desguisent
leurs exécrables forfaits, voulant par une entreprise imprudente et abominable
persuader aux rois et potentats de prendre les armes pour leur défence et
protection.
e nemici parevano in gara di far male. Ripiegò poi il Feria sopra
Chiavenna, e snidatine i Grigioni, li perseguitò per Val di Reno e per la
Pregalia.
Ecco maturato per i Grigioni l’amarissimo frutto di loro dissensioni.
I Planta, capi della parte cattolica e spagnuola, scacciati, chiamarono
vilmente le armi straniere contro la patria: onde l’arciduca d’Austria
per la valle di Monastero mandò il generale Baldiron con 10.000
uomini ad occupare l’Engadina, e Coira stessa. D’ogni parte venivano
cacciati gli eretici, presa vendetta delle antiche ingiurie, respinti i Salis;
e dopo scene compassionevoli di assassinii fraterni, le Dritture furono
staccate dalla Rezia e poste a dominio austriaco. Fra il terrore delle
spade straniere e lo scompiglio della guerra intestina, i Grigioni,
oramai non più capaci di sé, dopo essersi ostinati in tempo, dovettero
cedere fuor di tempo, ed ai cenni del vincitore stipularono in Milano
una perpetua confederazione colla Spagna, concedendo i passi liberi
alle truppe di questa. Quanto alla Valtellina, avesse piena ed assoluta
libertà civile e religiosa, pagando il tributo di 25.000 scudi. Acattolici
non vi potessero dimorare, e dentro sei anni dovessero vendere quanto
vi possedevano. L’arciduca manderebbe alla valle un commissario per
rendere la giustizia. Chiavenna, sgombrata dagli Spagnuoli, fu ceduta
ai Grigioni. Ma poiché questi non mandavano ufficiali che tenessero
ragione, i Chiavennaschi si providero d’un governo lor proprio.
Così parevano composte le cose: ma agevolmente si conosceva che
non era a durare questo assetto. Gli emuli dell’Austria, che contavano
lor perdita ogni guadagno di essa, e quelli che sempre in lei videro la
più pericolosa nemica dell’italiana indipendenza, la miravano troppo
di mal occhio godersi alla quieta un paese così ambito, mediante il
quale le era aperta l’Italia, mentre dalla Rezia poteva, per l’Alsazia e
pel Palatinato del Reno, acquisto suo recente, spedire qualunque
esercito nelle Fiandre ove la guerra fervea. I principi italiani ne
temevano per la propria indipendenza: al duca di Savoja rincresceva
che più non fosse mestieri ricorrere a lui per ottenere un passaggio
ch’egli sapeva farsi pagare: ai Veneziani il vedersi rapito il frutto di
un’alleanza comprata a peso di zecchini. Tutti gridavano contro gli
Spagnuoli come col titolo di religione insidiassero la libertà,
invadessero gli altrui possessi.
È vezzo antico degli Italiani ricorrere alla Francia nei loro pericoli,
e dei Francesi il professarsi tutori delle italiche libertà. Allora pure la
Francia, sollecitata dalla Savoja e da Venezia, formò una lega per la
libertà d’Italia contro la casa d’Austria(78), mandò ambasciatore alla
Spagna il signore di Bassompière, che prima sott’acqua poi a viso
aperto, dichiarò la sua corte pronta a sostenere il trattato di Madrid, e
rimettere i Grigioni in possesso della Valtellina. Il re di Spagna non
voleva udirne. Pure per non crescersi altri nemici, calò ad un di mezzo,
cioè di consegnare in serbo i forti della valle al papa, il quale dovesse
custodirli con genti proprie, ma a spese della Spagna, finché le due
corone vi prendessero su un partito decisivo. Infatti Orazio Ludovisi
duca di Fiano, nipote di Gregorio XV, occupò i forti coi papalini, cioè
con una mano di banditi e di ribaldi.
Di questo partito seppe assai male al partito santo, che vedevano
prepararsi lo sdrucciolo per restituir la Valtellina, salvo il decoro della
Spagna: ma misero chi non ha dal canto suo che la ragione, e commise
le proprie sorti a fede di re e a maneggi di diplomazia! Sapeva pur male
ai Veneziani cotesto incremento fosse del re o del papa(79). Si
lamentavano, e il papa destreggiava rispondendo sulle generali,
lasciando però trapelare come volentieri costituirebbe di quel paese un
principato ai suoi parenti.
Fra tali macchinazioni Gregorio XV morì, e gli successe Urbano
VIII, propenso alla Francia. Era egli appena sublimato al sommo degli
uffizi, quando in Avignone, città francese obbediente ai papi, si
combinò lega tra Francia, Inghilterra, Danimarca, Venezia, Olanda,
Savoja ed i principi di Germania a danno della Spagna e
dell’imperatore, singolarmente per costringerli a restituirle il
Palatinato del Reno e la Valtellina: tanto di generale importanza
questa pareva! Dovevano i collegati movere guerra di conserto in ogni
punto, fin nell’America e nelle Indie: il re di Francia intanto
assalirebbe il Milanese, susciterebbe i Grigioni, ed entrerebbe nella
Valtellina.
Il papa non appariva che vi avesse avuto parte: ma pure gran gelosia
ne dava alla Spagna, massimamente che franco procedeva nelle cose
RIPAMONTI, 1. IV p. 65. Questi fatti sono esposti anche nella Legatio
Rhaetica del Pascal, cioè Carlo pasquali di Cuneo, che servì utilmente ai re francesi
come diplomatico, e fra altre opere scrisse il Legatus, che è il primo trattato dei
doveri e delle attribuzioni degli ambasciatori.
(79) Nelle opere di fra Paolo Sarpi, (Verona, 1758, vol. VIII p. 160) è una scrittura
sopra gli affari della Valtellina, dettata colla limpidezza che quel famoso soleva, e
dove tende a mostrare come da antico la Spagna si mostrasse ghiotta di quel paese,
e ne instigasse i movimenti.
(78)
della Valtellina, e messala in guardia al conte di Bagno(80), aveva fatto
consegnare a questo anche Chiavenna e la Riva, non comprese nel
primo accordo. Non è però che il papa fosse da vero risoluto a
restituirla, avvegnaché da una parte vi repugnava l’interesse suo,
dall’altra una consulta di teologi, radunata a posta, lo aveva fatto certo
che non poteva in coscienza rimettere i cattolici sotto gli eretici, con
urgente pericolo delle anime. Ma il re cristianissimo che, vedendo la
Spagna occupatissima in guerra, voleva cogliere le rose mentr’erano
fiorite, e scancellare dall’Italia l’austriaco nome, intimò al pontefice
che o demolisse i forti della valle, o li restituisse alla Spagna, affinché
egli potesse, senza lesione delle sante chiavi, entrare ostilmente in quel
paese, siccome aveva deliberato di fare per richiamare a libertà i
Grigioni, e sottrarli affatto dal giogo austriaco. Si peritava Urbano
cercando tempo dal tempo, e di cortesissime parole(81) confortava i
valligiani, che stavano in grande ansietà di lor futuro destino.
Se non che mentr’egli la tentenna d’oggi in domani, il re francese
move a soccorso dei Grigioni. Ed era tempo, giacché i Grigioni si
trovavano all’ultimo tuffo. Gli Austriaci vi avevano perseguitato i
Riformati, singolarmente i ministri, soffocata ogni favilla di libertà,
rapite le armi. Colonie di cappuccini d’ogni lingua furono mandate:
tedeschi nel Pretigau, a Tavate, a Coira: i milanesi nella Pregalia;
bresciani in val Santa Maria, e ne era sostenuto l’apostolato colla forza.
Molti rimasero martiri fra questi, molti martiri fra i Protestanti(82).
Quando si volle a forza costringere quei di Pretigau ad usare alle
chiese cappuccine, ruppero a schiamazzi. E questo esser troppo:
«morremo senza patria, senza libertà, ma salviamo almeno le anime
nostre». Fuggirono dunque nelle selve, le quali tosto si cangiarono in
armerie: con falci e coltella e pesanti mazze trapuntate di chiodi
corsero addosso agli Austriaci il giorno delle palme 1622, e quanti
Il Ludovisi suddetto era caldo protettore del celeberrimo Marini. Il Bagno era
capo dei Ghibellini di Roma, e grand’amico dell’illustre Cartesio. V. BAILLET, Vie de
Descartes, I 119.
(81) «Diletti figli, salute e benedizione apostolica. Non potranno mai lagnarsi
d’essere stati dai pontefici in tanta necessità abbandonati i Valtellinesi, difensori
della libertà e propugnatori della religione. Tanto vediamo in Europa stimassi
questo paese e per l’opportunità dei luoghi e per la virtù degli abitanti, che il possesso
d’una sola valle può rompere la concordia fra potentissimi re, e suscitare l’animi di
ferocissime nazioni» Bolla del 22 giugno 1624.
(82) V. Istoria delle missioni de’ frati minori cappuccini della provincia di Brescia
nella Rezia dal 1621 al 1693 pel P. F. Clemente da Brescia. Trento, Pavone 1702. Ivi
sono descritti alla grossa i martirii di molti santificati da poi, e le superstizioni che
correvano fra quei popoli.
(80)
trovarono uccisero esultando fin le donne allo sterminio dei tiranni
della patria loro(83).
Le armi del Baldiron e del Feria ricomposero per allora la quiete.
Ma covava lo scontento, e finché un popolo non ha perduto né il
coraggio che ispira l’amore della libertà, né la confidenza in sé, nulla
ha perduto: gli spunterà il giorno della rigenerazione. E spuntò ai Reti,
i quali sfuggendo l’oppressa patria, empivano Europa dei loro lamenti,
e singolarmente facevano capo al marchese di Coevres, il quale di
ambasciatore mutato in capitano, raccolse truppe, intanto che nella
Valcamonica s’erano lesti gli ajuti veneziani.
Era orditura di Richelieu, il quale venuto allora ministro, avea
persuaso a Luigi XIII volersi armi a sostenere e risolver i trattati. Onde
all’ambasciatore di Francia che da Roma si lagnava degl’impacci
attraversati a quest’affare, rispose: «Il re ha cangiato di consiglio, e il
ministero di massima. Si spedirà un esercito in Valtellina che renderà
il papa meno incerto, e più trattabili gli Spagnuoli».
Queste mosse non restavano nascoste al Feria, e ne invocava una
providenza. Ma alla sua corte era egli scaduto di credito come primo
autore di questo moto di Valtellina, che alfine non partoriva che guai.
Ed il papa, dicendole sottili invenzioni spagnuole, non volle ricevere in
Valtellina guarnigione austriaca. Se così pensava da vero, il fatto lo
disingannò, avvegnaché il Coevres, che fu poi maresciallo d’Estrée,
spiegata bandiera francese, entrò in Coira, restituì alla libertà le
Dritture, cacciò il vescovo, rimise il primiero stato, e marciò sopra la
Valtellina. Il 29 novembre entrò in Poschiavo, poi per Brusio fu sopra
il castello di Piattamala, difeso dai soldati del papa con quel valore che
li fece passare in proverbio: espugnatolo, si condusse a Tirano(84). Il
Bagno, che ivi si trovava pieno d’orgoglio ma vuoto di valore, senz’altro
cedette; il che se non fu tradimento, fu inescusabile viltà.
Quivi il Coevres conchiuse un trattato coi deputati della valle,
promettendo gli alleati proteggerebbero il paese. Grigioni non
entrerebbero nei forti, solo resterebbero finché fosse stabilito un
ragionevole governo. Intanto si solleciterebbe una decisione all’affare.
Il Robustelli, adoprato invano a difesa della patria, che aveva tratta in
sì infelice ballo, si ridusse sul Milanese a Domaso. Il Bagno a Verceja.
La valle tutta fu occupata dai Francesi, esultando quelli, cui non
(83) Rimasero da 500 arciducali; con loro cadde il beato Fedele da Sygmaringa
cappuccino, odiatissimo prefetto di quelle missioni. LAVIZZARI, p. 254.
(84) Il forte di Tirano fu rifabbricato nel 1625 dai Veneti, dirigendo i lavori
gl’ingegneri bresciani Jacobo Tebanello e Giambattista Lantana, architetto del
duomo di Brescia, che per malattia colà contratta morì.
l’intera libertà stava a cuore ma il cambiar di signori. Il papa mosse
bensì qualche lagnanza ma quietamente, cui più quietamente rispose
il re di Francia, incolpando il Coevres d’avere trasceso le sue
commissioni. Del che un gran dire fu pel mondo: che la Francia
mostrasse così poco rispetto alla santa sede? Che voltasse contro di
essa le armi dopo solennemente impegnata la fede sua di nulla
innovare in Valtellina? E che il papa fosse così cieco del fatto suo, da
trascurare gli avvisi del Feria, e prima del riparo attendere il colpo? E
di poi si lamentasse così debolmente? E conchiudevano che Urbano se
la passasse d’intesa colla Francia, o perché, non essendo uomo da
nipoti, non trovasse di verun pro lo spendere in tenere questi forti, o
perché fosse venuto nel comune pensiero degli Italiani sbigottiti dalla
crescente dominazione austriaca. Si ragiona ancora(85) che il conte di
Bagno, rimbrottato della niuna difesa opposta, mostrasse brevi di
Roma, ove gli era così ordinato. Ma in tempi di caldi partiti chi può
scoprire la verità fra le mutue incriminazioni?
Grand’apprensione prese il Feria non volessero i Francesi, mentre
l’aura era destra, calare sul milanese, e ritorre parte dei suoi a chi aveva
voluto occupare i possessi altrui. A chi viene di Valtellina due strade si
aprono al Milanese: una per il fondo della valle, e questa dà di petto
nel forte di Fuentes, messo così opportunamente, da intercidere ogni
passaggio; l’altra rasenta la montagna sulla dritta dell’Adda, per
capitare al laghetto di Mezzòla e a Riva di Chiavenna, donde ancora
per i monti si riesce alle Tre Pievi superiori del lago di Como. Questa
strada diviene pure impraticabile se sia occupata la Riva, dove
null’altro era che un’osteria ed un portico in angusto valico fra il lago
ed il monte, e soverchiata da una montagnuola, dove tirando a gittata,
affatto si impedisce il passare. Riuscì al Feria d’occuparla, giovato
anche dalle milizie urbane comasche, e la pose in atto di difesa. A
tempo: giacché il Coevres, ridotta ad ubbidienza la valle e Bormio,
difilò sopra Chiavenna. Ma trovato quel cozzo, dovette ripiegare, e per
iscoscese vallate, senza artiglieria, scendere sopra quel borgo, che
prese dopo qualche resistenza. Di là ritorse verso Riva, ma questa
piccola Gibilterra gli resistette molto utilmente. Ed invano ebbe
Novate, invano occupò le alture sovraposte, donde si rotolavano
macigni sulla fortezza: che anzi agli Spagnuoli venne fatto di
sorprendere i Francesi, e legatili a coppia, spettacolo miserabile, li
trabalzarono dalle greppe. Il milanese generale Serbelloni, con uno
spadone a doppio taglio, si precipitava in mezzo ai nemici, ed a chi
(85)
ALBERTI, Antichità Bormiesi, m. 5.
spaccava il cranio, a chi fendeva il ventre, a chi in due la persona; eroe
se avesse pugnato per la patria. E quando a lui fu sostituito il
Pappenheim coi Tedeschi, questi fece non men cara costare al francese
quell’osteria, anzi poté togliergli tutte le fortificazioni là intorno e
spingersi fino a Traona.
Come stesse allora la Valtellina pensatelo! Tutto era pieno d’armati
baldanzosi ed ingordi: Francesi e Grigioni a gara le succhiavano il
sangue, eccedevano in prepotenza rube e sacrilegi, i nobili, per lo meno
male s’erano fuggiti, ricovrando alle Tre Pievi ed al Milanese, dove non
cessavano d’industriarsi a pro della patria.
I segreti motivi della corte condussero finalmente una concordia,
praticata in Monson città dell’Aragona dove, quel che riguarda la
Valtellina, si stabilì vi si conservasse la religione cattolica, ridotte le
cose allo stato del 1617: i natii si eleggessero i propri magistrati e
governatori, senza dipendenza dai Grigioni; toccasse però a questi il
confermare gli eletti entro otto giorni, e ricevere un annuo censo di
25.000 scudi d’oro; le fortezze fossero rimesse al papa da demolire;
Grigioni più non entrassero armati nella valle, né gli Spagnuoli
tenessero forze oltre le ordinarie alla frontiera milanese.
Questo trattato salvava il decoro della Spagna, la quale pareva sì
bene avere provveduto alla religione ed alla libertà di quei popoli. Ma
nessuno dubiti che di pessimo occhio nol vedessero i Grigioni, i quali
venivano così ad aver profuso invano il sangue e l’oro per ricuperare la
valle. Onde, cavillando, ricusavano stare in verun modo agli accordi.
Anche al Coevres ne sapeva male; ma buon grado o no che ne avesse,
dovette lasciare che, a nome del papa, entrasse Torquato Conti, che
fece demolire le fortezze e riscosse il giuramento. I soldati francesi nel
ritirarsi vollero danari; e perché tardo a pagarli, bruciarono il casale di
Piantedo. Il nuovo generale venuto pretese un regalo, perché un regalo
si era dato al Coevres. Pure la Valtellina portava in pace, sperando
finalmente composte le cose.
Non era ancor tempo. Imperocché i Grigioni chiedevano si
osservasse il trattato di Madrid, aizzati dai predicanti, da Venezia,
dalla Francia. Mentre la Spagna andava stimolando il partito santo
nella speranza che i Valtellinesi per istracchi si gettassero in braccio di
essa. Intanto però che si contrastava, la Valtellina godeva libero stato
e pubblica rappresentanza; inviava ai re, e ne riceveva messaggi ed
ambascerie, e d’ora in ora faceva ordini rigorosi contro gli eretici,
pubblicava i beni dei ricaduti e molti coperti riformati o
dall’inquisizione o dagli zelanti erano fatti capitar male. Poschiavo, che
non aveva preso parte al sacro macello, vedendo non potersi altrimenti
sbrattare dagli evangelici, meditò scannarli; e Claudio Dabene,
cameriere del Robustelli, fiero di lingua e di mano, entrò in quel borgo,
e vi uccise quanti calvinisti poté sorprendere. Del che domandato in
giudizio fu sostenuto a Tirano, ma ben presto prosciolto per grazia.
Leggo nello Sprecher e nel Quadrio che il curato fosse complice
dell’assassinio; voglio credere piuttosto al Merlo, il quale racconta che
esso curato Beccaria aperse il presbitero per ricovero agli eretici chiesti
a morte.
Quei pochi che sono avvezzi non solo a censurare in un libro quel
che vi è, ma a scoprire quel che vi manca troveranno che noi parlammo
degli avvenimenti, ma poco degli uomini: e vorrebbero avessimo posto
in prospettiva e in giuoco quei Robustelli, quei Guicciardi, quei
Venosta che ordirono prima, tesserono poi la rivolta. D’ogni eroe, ma
d’un rivoluzionario specialmente, la prima qualità è l’azione. Ora qui,
come spesso, l’ebbero impacciata da avvenimenti troppo gravi e dalla
preponderanza forestiera. A chi dirige una nave in gran fortuna
sarebbe giusto il domandar conto d’ogni comando, d’ogni movimento,
d’ogni scompiglio? Poi per un solo Washington, il quale comandi
generosamente, perché nobilmente obbedì, sappia non solo vincere i
nemici, ma, ch’è più difficile, vincere gli amici, affronti non solo gli
attacchi di coloro che offuscano colla loro bava ogni splendore, ma
anche la disapprovazione di chi all’essenziale delle teoriche stesse
ch’egli venera non sa fare i sagrifizii accidentali che l’attualità esige. Ed
altro non cerchi se non di poter direho fatto il mio dovere; per un
siffatto la storia ci offre centinaja di questi capi, che all’atto non
mostrano se non quanto male si conoscevano ed erano conosciuti. Che
quando vedono incalzar gli eventi esterni, e dentro crescere
l’irrequietudine, anziché confessar la propria inettitudine e soffrire che
il sole dissipi quelle rinomanze misteriose che reggevano solo nel
crepuscolo della considerazione, disperano della libertà e proferiscono
la bestemmia di Bruto.
Quanto ai Valtellinesi, neppur tra loro se la passavano in pace, e
facevano a torsi i bocconi l’un l’altro, in gare continue e spesso in armi,
scontenti del presente, ignari dell’avvenire, fremendo jeri pazzamente
per belar domani miserabilmente. Chè dopo le gravi convulsioni dei
popoli, gl’intriganti sogliono rimpiazzar i convinti; i rivoluzionari di
riflessione soccombere ai rivoluzionari di passione, cui pesa il rispetto
e rode l’invidia; al ciurmadore, l’uom colto e ragionevole che non ne ha
la sfacciataggine; si crede primo acquisto il non tenere subordinazione;
ribalderie colpite dalla legge o dall’infamia, perdono vergogna col
drappeggiarsi in una bandiera; passioni irose od avide si sfogano a
nome d’una causa santa; e palme di martire si pretendono ad atti, che
in tempi composti menerebbero alla gogna.
Quelli che primamente sommossero la Valtellina non credeano
certamente procurarle lunga serie di sventure. Gran lezione ai
macchinatori di cose nuove! Eppure guai maggiori sovrastavano alla
già misera valle ed al resto della Lombardia.
CAPO VI
Passo dei Lanzichinecchi per la Valtellina - Fame - Peste del 1630 Superstizioni - Il duca di Rohan in Valtellina - Capitolato di Milano.
Qui dice la storia come di quei giorni Vincenzo Conzaga duca di
Mantova fosse morto senza eredi e Carlo di Nevers duca francese, suo
prossimo parente, si credeva in diritto di succedergli nel Mantovano e
nel Monferrato(86).
Ma il duca di Savoja aveva antiche pretensioni e gravissime
convenienze sul Monferrato. Il re di Spagna, o dirò piuttosto il conte
d’Olivares suo ministro ambendo posseder tutt’Italia, mal sopportava
questo vicino sostenuto dal re di Francia, o dirò piuttosto dal Richelieu
suo ministro. E così per intrighi di successione e miscele di regii
maritaggi, di cui non vogliono ricordarsi quei che beffano i ridicoli
motivi delle guerre popolari delle repubblichette del medio evo,
nacque una delle miserabili guerre regie, cominciate senza buona
cagione, condotte senza pietà, terminate senza gloria e senza effetto.
Il duca di Nevers, profittando della recente convenzione di Francia
coi Grigioni, venne in Valtellina coll’esercito da Poschiavo, e per i
Zapelli d’Aprica passando sul Veneto andò a prender possesso del
ducato. Da altre intanto delle valli che sì inutilmente ci chiudono,
sbucavano soldati francesi, spagnuoli, savojardi a disputarsi il tristo
onore di spogliare ed avvilire questa povera Italia premio ognora della
vittoria. L’imperatore Ferdinando, per fare smacco alla Francia e
sostener egli austriaco le austriache ambizioni, mandò trentaseimila
fanti e ottomila cavalli, alla guida di Rambaldo Collalto. Truppe
terribili sempre, allora viepiù per il timore della peste che serpeggiava.
Già il grosso di costoro per Lindau era venuto nel Chiavennasco, e
stava per calarsi sul Milanese quando il Cordova, governator di questo,
mosso dai reclami dei popoli, spaventati dai latronecci e dal contagio,
mandò l’ordine che non si avanzasse più.
Si diffuse dunque per tutta la Valtellina questo nuovo ed orribile
flagello. Erano, quelle, bande assassine, che andavano desolando la
Si stamparono di quel tempo le Filippiche, attribuite generalmente ad
Alessandro Tassoni, ove si dipinge la condizione di quest’Italia, straziante sé stessa
a pro degli stranieri; e si esortano tutti a dar mano al duca di Savoja «che solo
s’attraversa ai disegni della futura tirannide, che solo non è stato effeminato da
questa non meno artificiosa che lunga quiete, che come poliedro adentato dal lupo
s’è fatto più coraggioso dopo i travagli» e si lagna che le lentezze, le freddezze, i timori
del papa, del granduca, di Venezia abbiano ridato baldanza alla Spagna.
(86)
Germania nella guerra detta poi dei Trent’anni; erano i Lanzichinecchi
di quel Waldstein che in sette anni smunse da una metà della
Germania sessantamila milioni di talleri(87). Gente che, solo ingorda di
far suo l’altrui, non perdonava a sacrilegi, a stupri. Ora colla forza, or
cogli ordini portava via i mangiari di quella povera gente. Sicché, oltre
le solite provigioni, la valle doveva pagare 10.000 scudi al mese, e con
larghissimi doni abbonacciare, se non saziare, l’ingordigia degli
uffiziali(88).
La stagione era andata affatto sinistra ai grani, sicché n’era un caro
già eccedente nel 1628, esorbitante nell’anno seguito(89): onde può
ognuno figurarsi come travagliasse la Valtellina, sino a vedere la gente,
abbandonata del pane per sostentarsi un dì, trovar buone a mangiare
le carogne, a contendere alle bestie la gramigna e le ghiande. Si
richiamavano con dolorosa istanza i Valtellinesi ai governatori di
Milano. Ma a questi piaceva meglio lasciare le truppe colà, che trarsele
nello Stato. Finché cresciute a 22.000 pedoni e 3.500 cavalli, non
trovando più sostentamento, dovettero portare il disastro delle loro
lentissime marce sopra il Milanese. Dalla valle e dal contado di
Chiavenna, raccozzatisi dunque a Colico, contaminarono la riva
sinistra del bellissimo lago di Como, percotendo d’inesprimibile
terrore gli abitanti. Fra i quali era Sigismondo Boldoni, felice scrittore
latino e non pessimo poeta italiano, il quale da Bellano sua patria ai
lontani amici descriveva i patimenti suoi e degli altri. «Tutti gli abitanti
del Lario (traduco e compendio il suo elegante latino) sono a spogliare
le case, cacciare le mandre ai monti, trasportare ogni cosa di pregio,
sovrastando i Tedeschi, che, per nostro malanno e per ira di Dio,
passano di qui, affinché l’Italia, già strema per battaglie, rapine,
uccisioni ed inumane farri, sia involta in guerre, che ai dì nostri non
finiranno. Allo schiamazzo loro non le muse soltanto, ma gli uccelli
fuggono: nulla santo, nulla sicuro».
E già in suo terrore gli pareva, fra lo scrivere, udire i tamburi, ed in
gran procella recò ai cappuccini dell’opposto Bellagio il poco suo
danaro e, che più gli premevano, le sue scritture: poi a casa a
nascondere, a steccare, a murare le porte. Intanto quei Lanzichinecchi
piombano su Colico e lo depredano: di là per sentieri montani
sboccano sopra Bellano, rubando se trovano, smurando e
SCHILLER, Dreizigjähriges Krieg: lascio a sua coscienza l’esattezza.
solo marchese Corrada diede la valle L. 30.550 perché sollecitasse la marcia
delle truppe.
(89) In Como si comprava il frumento L. 100, la segale L. 70, il miglio L. 60 al
moggio.
(87)
(88) Al
disotterrando come pratici, costringendo chi trovavano a svelare il
nascosto. «All’arrivo di quella sozzura del genere umano, tutta va
devastata la campagna, sperperata la matura vendemmia, unica
speranza dopo tanta fame e tante depredazioni. All’avidità degli
uomini, non che i frutti, neppur bastano le erbe: a tanti cavalli, non che
foraggio, neppure si trova spazio. Non un abito, non un vaso lasciano
nelle stanze: solo un insoffribile tanfo. Bruciano le travi ed i pali delle
viti, stramenano i tralci, tolgono ogni cosa ed in pagamento danno
busse e ferite e stupri. Brandeburgo, Vallenstaino, Anzalt, Maradas,
Furstembergo, nomi di casa del diavolo; Altringer, Montecuccoli,
Ferrario, Acerboni, ed i Croati, e Torquato Conti, ed in fine Galasso, e
sempre ad una banda cattiva una peggiore ne succede».
Dava alloggio il Boldoni in sua casa agli uffiziali, uno dei quali visto
una macchia d’alloro: «Che fronda è quella?» gli chiese.
«Oh l’uom barbaro! (esclama il Boldoni) povere Muse! cosa
aspettarvi da gente che neppure la vostra pianta conosce?»(90)
Così da Samolaco a Lecco guasto tutto quello che non potevano
portar via, passarono l’Adda, e giù per la Brianza: e otto giorni
rimasero a flagello del Milanese, lasciando da per tutto il segno di loro
gola e disonestà. Stridevano i miseri paesani, ma i re avevano a pensare
ad altro che al bene dei popoli, né curavano a quali guai esponessero
una pacifica popolazione per crescere d’una piccola provincia uno
stato immenso, per una prerogativa, per un puntiglio, talora per
supina infingardaggine di non saper pigliare un partito. Eppure quelle
erano truppe amiche, erano ausiliari: vi lascio pensare come dovesse
stare la Valtellina, corsa da tanti nemici. Tali frutti coglieva dal tenersi
raccomandata ai signori della Lombardia, quando avrebbe potuto farsi
libera ed indipendente col proprio braccio.
Quelle truppe scesero verso il Po a fare un lento macello d’amici e
di nemici, a devastare Mantova, che ancora se ne piange; a raccogliere
le maledizioni dei popoli travagliati da quelle non so se chiamarle
guerre o ladronaje, in tanto peggiori, in quanto che neppure offrivano
una speranza alla imaginazione. Ma un altro tristissimo dono
lasciarono al paese, una terribile peste.
Componeva egli allora un’epopea in ottave La caduta de’ Longobardi: ma
quando col fil della vita del poeta dalle Parche parcamente ordita, già si
parallelava il filo della poetica tessitura del suo poema, recise Cloto crudele col filo
della vita quello ancor del poema, e furono più veloci l’ali della morte a
sopraggiungere, che quelle di Pegaso a sottrarsene. Così suo fratello nella
prefazione ad esso poema stampato a Milano 1656. II Boldoni morì della peste nel
1630.
(90)
Ognuno sa quanto ricorressero frequenti le epidemie in Europa. Nel
1610 la morte nera, aveva imperversato fra gli Svizzeri, donde si
propagò nelle valli dei Grigioni, e di là nella Valtellina; altre volte vi
tornò, e singolarmente nel 1621 se ne stette in gran paura. Gli eserciti
erano reclutati e tenuti allora in tal maniera che, come dice il Varchi,
v’aveva sempre uno spruzzolo di peste.
Questi poi venivano da Lindau, scala generale delle merci per
l’Alemagna, «dove per il più dell’anno sono molte città e luoghi infetti
di morbo contagioso»(91). A ragione dunque se ne temeva; e di fatto
dietro a quelle sudice truppe, che si rifiutavano ad ogni legge di sanità,
si sviluppò un contagio, che ritrovando i corpi disposti dalla miseria
universale, dalla fame, dal cattivo cibo, dai crucci dell’animo, dai
patimenti del corpo, doveva produrre la più fiera mortalità che le
moderne memorie ricordino. Una contadina di Tirano fu la prima cui
si scoprisse la peste: poi su tutta la via, che le truppe avevano percorsa,
se ne trovavano orribili tracce. A Bellano, a Lecco, a Chiuso. Pier Paolo
Locato italiano a servigio di Spagna, venuto da Chiavenna, la recò a
Milano. Il moltiplicare delle vittime scosse il tribunale di sanità, che
mandò un commissario, il quale tolto seco a Como un medico visitò i
luoghi infetti: se non che a Bellano avendoli un barbiere ignorante
assicurati quella non esser peste, eglino, con imperdonabile
trascuranza, stettero contenti agli oracoli di costui. Fors’anche
bassamente connivendo al governo, al quale non giovava che peste vi
fosse o si dicesse.
Intanto il male acquistava violenza. Tutto era pieno dell’imagine di
varia morte: prima una palpitazione, indi letargo, spasimo, delirio e
col corpo orrido di buboni e di luridi gavoccioli si trascinavano i
miserabili alla tomba. I pubblici provvedimenti non bastavano alla
furia del male: onde, dopo che negli spedali si erano più ammassati
come cadaveri che disposti come infermi, avresti veduto per le vie, per
li campi stendersi poveri giacigli di stoppie e di immondo ciarpame, o
capanni di fronde e di strami, ove, malagiati di cibo e peggio di rimedi,
si gettavano i miseri man mano che il morbo toglieva loro le ultime
forze da reggersi in pié. Ivi persone d’ogni sesso ed età, cresciute fra gli
stenti o gli agi, avvezze all’umiliazione od alla prepotenza, venivano
eguagliate a dar di sé una vista d’inesprimibile compassione. Gli uni
appiccavano il morbo agli altri: col crescere dei malati crescevano le
miserie. Qua vedevi alcuno lacrimando trascinarsi lungo le vie in
traccia di soccorsi, o almen di compassione, anch’essa venuta meno.
(91)
TADINI, Ragguaglio dell’origine della peste ec. p. 13.
Là bambini che s’attaccavano all’esausto seno delle madri. E da per
tutto e tutto il dì un incessante trar di guai, ad ora ad ora funestamente
interrotto dalle disperate strida di quei miserabili, in cui al male si
aggiungeva il tedio del male, e l’aspetto dei presenti, ed il desiderio dei
lontani, ed il dolore dei perduti, ed i terrori della fantasia. Non
bastavano i cimiteri a ricevere le salme dei tanti, gettati là senza onore
d’esequie, senza funebri deprecazioni. Interi paesi furono spopolati, né
si riebbero più. Como perdette 10.000 persone, la Valtellina che,
secondo la relazione di monsignore Scotti, comprendeva ben 150.000
abitanti, fu ridotta a non più che 40.000.
Da una parte crescevano i pii legati ed i voti; dall’altra, riflettono i
contemporanei, non che farsi migliori alla terribile voce del castigo
divino, vie peggio si pervertivano i costumi degli uomini, insultando al
Dio che flagellava, godendo della vita che fuggiva, del disordine che
regnava, degli averi che nei superstiti si accumulavano. Noi vorremmo
raccomandare ai gran savii del nostro secolo di non permettere mai
queste grandi sciagure naturali. In primo luogo, essi vantano
l’onnipotenza dell’uomo, il poter suo nel domar la natura, un avvenire
di godimenti quando esso avrà tolte le cause di distruzione, incatenati
gli elementi. Ed ecco un torrente, una scossa di terra, un morbo che
s’attacca all’uomo o alle patate, un’avversità di stagione, perde le
gioconde previsioni, e attesta il predominio di una mano poderosa, e
come precario sia il possesso dell’uomo su questa crosta che copre un
incendio.
Secondariamente le gravi sventure sono il giorno del prete, del frate,
della carità. Cose tutte che i gran savii del nostro secolo devono
ingegnarsi di screditare e d’impedirne quell’influenza che divien tanto
efficace quanto benedetta in simili casi.
E anche allora se al male v’aveva qualche rimedio, lo porgeva la
carità cristiana. Al clero si erano concesse amplissime facoltà; ma era
un eroe chi rimanesse al posto destinatogli dalla provvidenza, quando
il vivere era un’eccezione. Eppure non pochi con ispontaneo sagrifizio
andavano incontro alla peste come ad un premio, non perdita ma
guadagno riputando il dare la vita temporale per acquistare altrui
l’eterna. I cappuccini dì e notte erano ove li chiamasse il bisogno altrui:
essi ad apprestare cibi e medicine, rassettare i letti, vegliare i
moribondi, con affetto più che di madre trasportarli, nettarli,
profittare di quei terribili momenti che sogliono far trovare la
coscienza anche ai più perduti d’anima, e mandare i morenti confortati
nella speranza del perdono. In Tirano singolarmente infierì la morìa, e
gli infermi si fecero collocare in un palancato attorno al tempio della
miracolosa Madonna, fidando d’averne conforto al corpo o all’anima;
consolati almeno di morire ove bramavano. Si erano colà fino dal 1624
stabiliti i cappuccini, e fin ad uno morirono a servigio degli appestati.
Altri sottentrarono volenterosi alle loro cure, a morire anch’essi. Dare
la vita per fare del bene! A queste azioni ti riconosco, o religione, che
sola crei i martiri dell’amore.
A prevenire ed a curare il malore si erano dati provvedimenti quali
buoni, quali superstiziosi, quali esecrabili. Sequestrare i malati, durare
le quarantene, non comunicare con alcuno, portarsi in mano ruta,
menta, rosmarino, aceto, una boccetta di mercurio, che si credeva
assorbire gli effluvii contagiosi. I monatti, infermieri incaricati di
portare gli infetti agli spedali, erano un nuovo flagello: ed entrando
nelle case vi commettevano le più laide cattiverie, rubando,
svergognando sugli occhi dei padroni, e minacciando chi fiatasse di
trascinarlo ai lazzaretti.
E poiché nei grandi flagelli dove non si osa bestemmiar la
provvidenza, si sente il bisogno di sfogar contro alcuno il brutale
istinto dell’odio, e della superbia umiliata dall’impotenza, si era sparsa
la funesta opinione che uomini perversi venissero con malìe ed unzioni
propagando la peste: e molti paesi soffersero il miserabile spettacolo
di alcuni reputati untorì, processati, convinti, e messi ai peggiori
tormenti ed alle fiamme. Né la mia storia può andare esente di tali
orrori, ché sempre e da per tutto vengono gli stessi frutti dall’ignoranza
e dalla superstizione. Bormio aveva posto divieto che nessuno osasse
passare nell’Engadina, ove il contagio infieriva. Nelle guardie, che
ronzavano al cordone, incappò un contadino che l’aveva trapassato.
Alle interrogazioni confessò come, trovandosi la donna sua inferma e
dubitando fosse effetto di stregheria, si fosse condotto di là per tenere
consulta coll’astrologo di Camoasco, volgar uomo che se l’intendeva
col diavolo, ed il quale di fatto gli aveva dato a vedere in un’ampolla tre
persone, che avevano fatto l’incantesimo alla sua donna(92). Ignorante
o maligno, il contadino nominò una povera vecchia, che detto fatto
catturata e domandatane alla corda, incolpò sé stessa e denunziò
molt’altri. Il giudice di Bormio istruì il processo, facendo, per sicurezza
di coscienza, intervenire l’arciprete Simone Murchio; e col consenso
del vescovo di Como furono decapitati ed inceneriti trentaquattro fra
(92) Quella donna, faturata in un braccio di panno rosso, stette due mesi fitta nel
letto senza mangiare, né bere altro che qualche stilla d’acqua infusale per un dente
mancante. Eppure la vedevano affacciarsi alla finestra; ma come tosto s’accorgeva
d’essere veduta, tornava al letto, ove immobile giaceva. Tardi guarì, non obstanti i
debiti exorcsmi.
uomini e donne(93). Così e folli guerre, e tremendi contagi, e pazzi
pregiudizi concorrevano ad affliggere ed a sterminare la miserabile
umanità.
Quand’a Dio piacque, la peste cessò: ma non i mali della Valtellina.
Poiché, ora col pretesto del passaggio, ora del bisogno, or
dell’inquietezza, era ogni tratto riempita da quella ribaldaglia che si
chiamava soldatesca, la quale diffondeva lungo il cammino malori,
fame, mal costume. E quando era costretta andarsene, se ne faceva
compensare con dei mille fiorini come d’un gran favore. Si dovettero
vendere od impegnare gli argenti delle chiese, e gli abitanti erano
messi a gravi tormenti per obbligarli a dare danaro(94); tanto che i
pochi residui della peste erano entrati nel disperato consiglio di
abbandonare l’infelice patria, se per avventura il Feria, tornato
governatore del milanese, non avesse adoprato di cuore presso
l’imperatore, affinché di là togliesse le truppe. E l’ottenne o fosse pietà,
o piuttosto il bisogno di opporre quei soldati al gran Gustavo Adolfo di
Svezia, che aveva in Germania rialzata la causa dei Protestanti.
Ed appunto per quella guerra, di grand’importanza diveniva la
Valtellina all’Austria, che per di là portava, senz’altro chiederne, i
soldati d’Italia in Alemagna a pronto soccorso. Così nell’agosto del
1633 il duca dì Feria s’inviò con 12.000 fanti e 1.600 cavalli pel giogo
di Stelvio in Tirolo, calle preferito perché non toccava terre grigioni.
Venne poi meno della vita a Monaco, mancando così un gran
protettore alla Valtellina. Anche l’anno dopo, il Cardinale infante con
12.000 combattenti fu accolto a tripudio in Como, indi per la Valtellina
passò, come dice Minozzi, invece di olivi comaschi a sfrondare
fiamminghi allori. Questi ajuti, cui porgeva agevolezza la fede della
Valtellina, furono principale stromento a difendere Costanza e
Brisacco, e sollevare l’agonia dell’impero.
Tanto più incresceva questo possesso della rivale alla Francia. La
quale si levò alfine risoluta di liberare l’Italia, titolo solito (diceva il
Ripamonti), onde i Francesi valicano le Alpi; i Francesi (soggiunge
egli) ai quali punto credere si dovrebbe, essendo gente inquieta, e che
vuol gli altri inquietare.
Fatto sforzo d’ogni parte: Weimar è sul Reno, Crequi penetra in
Italia, la Vallette assale il Piemonte, l’Arcivescovo Sourdis arma sul
mare, Gassion sul Rossiglione, e per la via dei Grigioni è mandato il
duca Enrico di Rohan, il più compito gentiluomo del suo secolo.
(93)
(94)
ALBERTI, Ant. Borm. manoscritto.
Manoscritti nell’archivio vescovile di Como.
Come capo dei Riformati aveva egli resistito con forza e genio al
Richelieu, il quale poté fargli perdere il favor della corte, ma non la
reputazione di capitano eccellente. Colla quale e con 12.000 pedoni e
1.500 cavalli passò per Basilea e Sangallo fin a Coira e preceduto da un
proclama (già si sapeva adoprare quest’arma in guerra) entrato per
Chiavenna, senza guari difficoltà occupò la valle.
Tosto 9.000 Tedeschi col barone di Fernamondo, entrano in
Bormio, e da veri barbari mandano a fil di spada oltre cento inermi.
Spagnuoli e Milanesi vengono dal forte di Fuentes, dai cui rincalzi il
Rohan è costretto ritirarsi nell’Engadina. Ivi, rinnovato di forze,
rientra, agita terribili battaglie, a Livigno fa carne non battaglia
addosso ai Tedeschi ubbriachi, poi addosso agli Spagnuoli al Fraele,(95)
indi a San Martino di Morbegno, ove, se non era il valore del
Robustelli, pigliava lo stesso famoso generale Giovanni Serbelloni(96),
e smorba la valle dagli Austriaci.
Anzi, mentre aveva buono in mano, feroce per le prospere cose,
precipita sopra le Tre Pievi, le pone a sacco e fuoco; mette fiamme al
bellissimo palazzo Gallio, composto di glorie maritate agli stupori;
ma... il fuoco conobbe esser grande empietà il danneggiare quelle torri
che nella loro elevatezza sembran parenti prossime della sua spera. Al
Monte Francesca il Rohan sconfigge il Serbelloni e s’inoltra: finché
Lodovico Guasco, mastro di campo che gli aveva sempre nojato il
fianco e impedito i viveri, gli oppose nel castello di Musso tale
resistenza, che il Rohan diede l’impresa per impossibile. Ma com’era
d’animo audacissimo, per tentare una punta sovra Milano, di concerto
coi collegati, prese via sulla sinistra del Lario e da Bellano risalendo
per il letto della Pioverna entrò nella Valsassina. Ad Introbbio
distrusse le fucine dei projetti guerreschi, e tutto malmettendo, si
spinse fino al ponte di Lecco. Quivi trovò una testa grossa dei
Brianzuoli, gente (riflette il Ripamonti) robusta e bella, salda nelle
battaglie, che esercitata nelle guerre per le frequenti insidie e contese
private, non ismentisce la vera, libera, generosa, battagliera origine
(95) Probabilmente sono da riferire a quel tempo le ossa che si trovano al Fraele,
che si sognano gigantesche, e che il popolo attribuisce agli Ariani uccisivi. Invano
cercammo là intorno quel campo di Lugo, ove, secondo lo Sprecher, nessun fiore
germoglia.
(96) Causa principale della rotta fu la vanità del Serbelloni stesso, il quale ricevuto
lettere dal Fernamondo, ove gli si annunziava il sopraggiungere del Rohan, ricusò
aprirle perché non lesse stilla soprascritta tutti i titoli a sé dovuti. I Valtellinesi, per
ischivare contese dei convenevoli facili a sorgere allora, avevano decretato che sulle
lettere si scrivesse nudamente Al sig. tale dei tali. Neppur questa fu dunque
invenzione dei Giacobini.
sua. Al tocco del campanone di Brianza, ed alle fiamme accese sulle
vette, erano essi accorsi in arme guidati dai loro castellani; e tale
aspetto offrivano di bravura e sicurezza, che il Rohan si tolse giù dal
disegno, e fatto rogare ad un notajo l’atto di questo ardimentoso
tragitto, ripeté il corso sentiero. E perché ne mormoravano le truppe
sue, schiuma di ribaldi, le acquetò permettendo il sacco del litorale,
principalmente di Mandello e Bellano, poi della Valtellina(97).
In questo stante s’erano messi nuovi trattati per parte della Francia,
la quale, smaniosa di togliere all’Austria quel passaggio, moveva ogni
macchina per amicarsi i Valtellinesi, promettendo sottrarli affatto dai
Grigioni, redimerli fin dallo stabilito censo, incaricandosene ella
stessa, e concedere giustizia propria, unica religione.
Ne venne odore ai Grigioni, i quali altamente adontatisi, come il re
gli accarezzasse solo in quanto gli parevano utili contro gli Austriaci,
abbandonarono di tratto l’alleanza del Cristianissimo e si volsero a
Spagna. E Spagna, non avendo maggior desiderio che questo, non
istette ad assottigliare sulla coscienza, e ne abbracciò la lega.
Che che delirano i gabinetti, ne soffrono i popoli. Subito sonò di
armi il paese: Spagnuoli al forte di Fuentes, Tedeschi a Bormio,
Grigioni a lato. Sicché il Rohan, a cui la rivalità del Richelieu faceva
sempre scarseggiare i soccorsi, dovette battere in ritirata, non senza
insulti e sangue per parte della ciurmaglia, usa a mordere chi fugge,
leccare chi arriva.
In tal modo la fortuna della Valtellina ritornava nelle mani della
Spagna, che ingorda di saldare l’alleanza coi Reti, perché non avesse
altri a coglier la lepre ch’essa aveva levata, non si faceva coscienza di
sacrificare agli interessi proprj l’antica ma debole sua protetta. Il
marchese di Leganes, nuovo governatore del milanese, cupido di
tornare carico di questa gloria in Ispagna, non badava se bene o male
fosse il porre a repentaglio la religione e la nazionalità altrui. Quindi
ogni cortesia ai Grigioni ambasciadori, niuna ai Valtellinesi: chiese al
vescovo di Como se la religione cattolica fosse compatibile col governo
grigione, e questi rispose del sì. Né diversamente aveva deciso una
congregazione di teologi in Spagna. Vi ricorderà che pochi anni prima
si era diversamente sentenziato: ma gli è uso antico, fin quando i
generali colle spade dettavano le risposte agli oracoli.
(97) Vedi Memoires du Duc de Rohan. Questa marcia aveva fatto entrare il governo
in disegno di una strada, che dal forte di Fuentes mettesse per Colico a Dorio,
Corenno, Dervio e Bellano, poi per la Valsassina a Lecco. Lo spilorcio governo
spagnuolo non aveva i mezzi di ridurre in fatto quel disegno, che con più audace e
generoso proponimento noi vedemmo condotto a fine.
E già nel castello di Sondrio s’era messo presidio grigione: del che
non domandate se fremevano i Valtellinesi. Si era anzi da certuni
proposto di avventarsi di bel nuovo nell’armi e, concitati da sdegno
formidabile, scannare i pochi nemici in paese, ardire ogni estremo per
risuscitare la fortuna da sé, dopo gettata a banda ogni fiducia di
soccorsi da Francia o da Spagna. Pareva ottimo quel che non era più a
tempo. Perocché erano asseccati di vivande; non più danaro né
credito; la peste del ‘30, rinnovata per soprasoma cinque anni dipoi, li
aveva consumati di popolo; ed in tutto l’universale era quella
malavoglia, quella stanchezza che suole succedere alle forti emozioni,
come al delirio furente il delirio tremante; e che fa parere il minor male
chinar la testa, e pregare Dio che la mandi buona.
In somma fu, per venire presto al fine di questa lagrimevole
narrazione, che il governatore Leganes coi deputati Reti ultimò l’affare
in Milano, restituendo ai Grigioni la Valtellina coi patti e salvi
compresi in 40 articoli, i cui termini principali erano questi: - nessuno
venisse riconosciuto pei fatti corsi dopo il 1620; cassate le procedure
di Tosana; le finanze, le tratte e le consuetudini tornino come avanti
l’insurrezione; gli uffiziali, dal vicario della valle in fuori, vengano eletti
dai signori Grigioni, e la sindacatura se ne faccia in paese; degli statuti
impressi nel 1549 sono derogati nominatamente quelli intrusi a danno
della fede e delle immunità ecclesiastiche; Bormio ed altri comuni
godano i privilegi quali avanti la rivolta; così Chiavenna e Piuro
conservino le proprie leggi, ed invece del vicario, possano nominare tre
persone pratiche del diritto, una delle quali assista al podestà nei casi
criminali; in occasione di passaggio di truppe, i Grigioni procureranno
che i Valtellinesi vengano trattati e compensati al pari di loro; unica
religione la cattolica, operando in ciò come gli Svizzeri nei baliaggi
italiani; non inquisizione; vescovo, preti frati esercitino francamente i
loro ministeri, non vi fermi dimora alcun protestante, se non sia
magistrato; i signori Grigioni cattolici eleggeranno di due in due anni
chi provveda acciocché non sia indotta novità; si manderanno a fascio
le fortezze erette dopo la sommossa. Alle tre leghe doveva la Spagna
pagar 1.500 scudi l’anno per ciascuna, e mantener sei giovani a studio
a Milano e a Pavia. Libero a soldati austriaci il transito per la valle, e a
niun altro.
Ai popoli bisogna pure gettar polvere negli occhi; e il Leganes invitò
a Milano i caporioni della Valle, come uomini di fiducia interessati
nelle decisioni che si stavano per pigliare. Vennero, ma egli non li
consultò, non li fece intervenire all’atto, perché non istessero da pari a
pari coi loro signori(98). Rato e stipulato, gl’informò dell’accordo.
Cadde il fiato a tutti in udirlo, gridarono contro il vescovo Caraffino, la
cui fede si diceva mercata e mendicata dai ministri spagnuoli(99);
parodiavano il nome del Leganes in liga-nos; protestarono;
s’appellarono: fu invano; il gran cancelliere ai loro lamenti rispondeva,
non essersi potuto ottenere di meglio; i forestieri davan ad essi
ragione, ma nulla più. Onde i Valtellinesi diedero un altro esempio a
chi si solleva per favorir un altro principe, e a chi prima degli accordi
si lascia togliere le armi di mano.
Questo capitolato formò la base del gius pubblico della Valtellina
verso i suoi padroni, e la misura dei diritti e dei doveri reciprochi.
Allora si lamentarono altamente i Valtellinesi che fosse stato
conchiuso senza di loro; eppure, venne stagjone che, trapassandosi
anche quei patti si richiamavano essi alla piena osservanza del
Capitolato, asserendo che anch’essi vi avevano stipulato, trasfondendo
i proprj arbitrj nel loro protettore(100), e con quello alla mano
dovettero, deh quante volte! ricorrere al duca di Milano, che n’era
entrato mallevadore, acciocché provvedesse alle continue violazioni.
L’ultimo lamento il portarono a Buonaparte, generale e onnipotente
della repubblica Cisalpina nel 1797, il quale, considerandosi come
sottentrato nei diritti dei duchi di Milano, citò i Grigioni a scolparsene,
e prima che arrivassero dichiarò la Valtellina unita alla Lombardia,
colla quale poi stette al male e al bene; e con essa caduta sotto la Casa
d’Austria, divenne importante anello fra i possessi di quella in Italia e
i trasalpini.
Ma senza prevenire i tempi, per allora tornarono Grigioni nell’intero
possesso e, dicasi a loro lode, moderatamente. Non s’affidarono però a
rimanere quelli ch’erano stati maggiori stromenti a ordire la rivolta; e
il cavaliere Robustelli, primo fulmine di quella guerra, benché affidato
di pace e di salute, non sofferse d’obbedire cogli altri ove agli altri aveva
comandato, e alla patria, cui più non poteva giovare, disse addio con
quel sentimento, con cui s’abbandona la terra che rinchiude ogni cosa
più caramente amata. Non mancò chi gli applicasse il titolo che gli
Italiani serbano a chi non riesce, di traditore.
(98) È presso me la lettera ch’egli scrisse al Cavallero Giacomo Robustelli che Dio
guardi, sotto il 14 agosto, invitandolo senza resta a Milano col capitano Guicciardi,
il cancelliere Paravicini (uomo sommamente benemerito della valle, per cui molto
soffrì) e qualche altro soggetto dei contadi.
(99) Nell’archivio della curia di Como.
(100) Vedi spesso il Desimoni nel Discorso Apologetico sopra la Valtellina.
Le cose però non potevano a lungo passare di cheto fra tanto astio
di sangui: e sarebbe un non finir mai il ripetere le lamentanze dei
Valtellinesi perché si violassero alla scoverta le convenzioni. I
Riformati, benché avessero divieto dal paese, crescevano di dì in dì: la
sola piccola Mese dopo un 15 anni ne contava 50. Quattro famiglie
n’erano a Tirano, tre a Teglio, altrettante a Cajolo, il doppio a Traona,
nove a Sondrio, due a Berbenno, dodici a Chiavenna, altre altrove di
buona parentela, a non contare gli artigiani ed i forestieri. E questi
vivere alla libera, facendo gabbo dei divoti e dei riti. Ed i magistrati
ledere le immunità del clero, proibire il ricorso a Roma, pretendere la
rivelazione delle confessioni, tenere in palazzo a Sondrio conventicole
di predicanti, e industriarsi d’introdurli(101). Anzi i Riformati avevano
chiesto alla dieta grigia di potervi avere tre chiese. Intanto i ricchi
tenuti sempre in colpa per ismungerne danaro; assolto chi pagava;
processati due ragguardevoli sondriesi perché avessero usato la parola
eretico e lo stesso arciprete perché congregò alcuni caporioni a
prendere partito sopra questa cattura. «O cara libertà come t’ho persa!
O cara libertà dove sei gita!» esclamavano essi(102). Quindi frequenti
richiami; e gran trattati si menarono nel 1652 nel ’59, nel ’69, ma tutti
coll’esito stesso, rimanendo fermo il Capitolato di Milano.
I Riformati però non ebbero più il vantaggio nella diocesi comense,
e libertà di riti tennero solo a Poschiavo e Brusio, terre che anch’oggi
appartengono alle Leghe grigioni, benché di lingua italiana e cisalpine.
Ivi i Riformati sono un terzo, ed in questa proporzione si
distribuiscono gli impieghi: essendo il podestà due anni cattolico, uno
riformato e così delle altre cariche. Vivono in buona concordia e
tolleranza, e noi vedemmo assai tra gli Evangelici assistere ai riti dei
Nel 1614 il vescovo di Como, Archinti, impetrava di visitar la Valtellina, e ne
mandò relazione a Paolo V. Dopo estreme lodi al paese, si consola che «in
quell’esecranda libertà di vivere, e dire quanto a ciascuno piace» appena tremila
persone abbiano adottato la riforma, e i popoli accorreano festosi e piangenti ad
accompagnarlo. A Tirano trova da 150 eretici, vil plebe. 1 cattolici di Poschiavo e
Brusio tengonsi incontaminati, benché misti ai calvinisti. In Sondrio questi erano
potenti per numero e ricchezza, sicché a fatica egli vi ottenne accesso. Più pericolosa
era la Val di Chiavenna, e dalla Pregalia i riformati minacciavano assalirlo in armi.
Un terzo dei Chiavennaschi aveva abbracciato l’errore, fra cui i meglio stanti. Quando
esso Archinti tenne un sinodo nel 1618, il podestà di Traona pubblicò per editto
terribili pene contro qualunque ecclesiastico spedisse lettere o uscisse dalla Valle;
cento scudi di multa, o tre tratti di corda a chi non lo denunziasse conoscendolo. Nel
1700 erano 10 famiglie di protestanti in Tirano, 2 in Bianzone, 2 in Teglio,1 a
Castione Inferiore, 1 a Cajolo, 65 nel contado di Chiavenna.
(102) Relazione manoscritta.
(101)
Cattolici con bella modestia. I pastori delle due chiese riformate sono
spediti dal capitolo dell’alta Engadina. Usano la bibbia tradotta da
Giovanni Díodati! e seguono la confessione retica segnata in Coira il
22 aprile 1553, cui si aggiunse poi l’elvetica. Ammette quella i tre
simboli, il pater, il decalogo, la domenica, i sacramenti del battesimo
e della cena, però come segni e non necessari alla salute. In un
concistoro, tenuto ogni anno dai pastori della Rezia per turno, e
sopravveduto dal decano, approvano i ministri, e si danno a vicenda
consigli sulla fede e sui costumi. Nei loro catechismi variano assai
anche nei punti fondamentali; alcun che di luterano vi s’introduce,
conservandosi il sacramento e portandolo agl’infermi; s’era fin
proposta la confessione auricolare, ma tutto dipende dai ministri,
laonde questi da alcuni anni ebbero istruzione di non trattare mai di
dogma, ed attenersi alle sole verità pratiche. E deh sia presta l’ora che
rinverdiscano i rami, e il sacro sangue della redenzione ci unisca tutti
in un solo ovile sotto un solo pastore.
A questo riuscì la lotta sì lungamente agitata con armi e con trattati
in Italia e fuori: lotta male avvisata nel cominciamento, crudele
nell’atto, inutile nel fine. Quegli uomini, superstiziosi non religiosi, se
la religione sta in benevolenza d’affetti e santità di opere, dopo
compiuto il gran delitto, persuasi di non trovare perdono, e che unica
salute era il non sperarla, dovevano da sé stessi difendersi fra le
barriere dei loro monti. Qual esercito, pur ordinato e grosso, può
resistere alla fatica della guerra popolare; che sventa i disegni del
nemico e glieli volge sul capo, che drizzando sempre i colpi dal giro al
centro, li fa tutti mortali; che affanna e stracca, fugge e ricompare
impreveduta, inevitabile, né può per battaglie terminarsi; ove più
valgono i soldati assai che i capitani; ogni casa diviene una fortezza;
ogni siepe, ogni macia un baluardo, ogni elemento un’arma micidiale.
Ove gli aggressori scorati, privi del mangiare e del bere, devono in fine
cedere al popolo, che, non disperando della patria nel giorno della
sventura, difende la propria indipendenza? Così vedemmo ai dì nostri
salvarsi dall’ambizione d’eserciti tremendi la Spagna, il Tirolo, la
Grecia... doveva così la Valtellina francheggiarsi. Ma i coltelli adoprati
all’assassinio parvero cadere di pugno. E dopo la vittoria di Tirano, non
sapendo intera soffrire né la libertà, né la servitù, seguitarono non
diressero gli eventi. Quand’era tempo di fare, se riandarono in consigli:
da re, i più avidi di acquistare che vogliosi di francheggiare,
mendicarono gli ajuti che dovevano da sé soli sperare.
Ricorsi all’intervenzione dello straniero, potevano ottenere buono
stato dalla Francia; invece si commisero alla Spagna, che col non
risolvere, nutricò lungo tempo la guerra. Poi pretendendo vigilarne il
bene e la religione, la vendette per vantaggio proprio a coloro che più
odiava, senza tampoco i privilegi di prima; anzi consolidando quel
servaggio, cui l’avevano ridotta le lente usurpazioni dei Reti.
Diciannov’anni di guerra fra tumulti ed eccidi, fra le ansietà della
speranza e degli sgomenti, colle solite conseguenze delle rivoluzioni,
sospensione delle utili arti e del faticato progresso, abbassamento dei
caratteri, assuefazione allo stato provvisorio ed ai mali come ad una
necessità, oblìo della franchezza vera e della legittima opposizione,
schifiltà da quell’obbedienza che è la condizione più necessaria alla
libertà, bisogno di distrarsi e stordirsi, confidenza nelle eventualità
imprevedibili e fin nella conflagrazione universale come rimedio,
mentre è un male che tutti gli altri peggiora e a nessuno ripara. E
l’appannaggio dei deboli la rabbia e la paura: aggiungete 25 milioni di
lire scialacquati, infine la sudditanza che avevano dichiarata
importabile furono l’espiazione imposta da quel Dio, di cui si erano
arrogati i diritti e le vendette.
Ad alcuno parrà che la storia dia torto ai Valtellinesi sol perché
soccombette, se fosse riuscita, cercherebbe da lei esempi del meglio.
Caduta, non vi vede che ragioni di biasimo. E forse è così: ma se il
passato potesse servir di lezione, e l’uomo non si ostinasse a
ricominciare sempre l’esperienza a proprie spese, avrebbero i signori
ad apprendere a rispettar la giustizia, i patti e la più libera delle cose,
la coscienza, onde non costringere i popoli a ricorrere all’estremo
rimedio. Avrebbero i popoli ad apprendere che a grandi mutazioni si
vuole gran consiglio prima, gran risolutezza poi, adoperare tutti i
mezzi di riuscire, né prorompere senza considerazione o procedere
senza fermezza per non pentire senza rimedio quando si trovino
ribadite e aggravate le catene da quegli appelli alla forza, da cui si erano
ripromesse libertà e pace.
FINE
Enrico Besta
Le Valli dell’Adda e della Mera
nel Corso dei Secoli
II. IL DOMINIO GRIGIONE
A cura di Beatrice Besta e Renzo Sertoli Salis
Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1964
Capitolo Undecimo
Il Forte di Fuentes
Il 18 novembre del 1600 i Bormiesi sentivano la necessità di mandare
un rappresentante alla dieta di Davos per difendere con tutte le forze i
privilegi, gli statuti e le antiche consuetudini del Comune contro
chiunque li volesse intaccare. Cominciavano così probabilmente le
controversie coi Valtellinesi, di cui ci dovremo ben presto occupare.
Tra tutti i confini del ducato milanese, uno dei più delicati era senza
dubbio quello verso i Grigioni. L’esperienza del Medeghino era ancor
viva ed a farla rimeditare concorsero anche le insinuazioni che presso
il governatore di Milano fece all’inizio del 1601 quell’ambigua figura
che fu il piacentino Broccardo Borroni, ammesso all’onore della storia
dallo stesso Sprecher ed ora ben conosciuto attraverso le pagine del
Giussani. Proprio costui rifaceva presenti al Fuentes i vantaggi che alla
difesa presentava il dosso di Montecchio, il quale, assai meglio della
torre di Olonio, poteva assumere una funzione di sbarramento verso
l’una e l’altra delle due valli prelariane.
Il Borroni, propriamente di Berceta, sfuggendo ad un processo
intentatogli per sodomia, si era rifugiato in Valtellina e quivi, fattosi
banditore delle dottrine evangeliche, era divenuto pastore a Traona e
a Chiavenna e cancelliere di questa giurisdizione; ma processato e
bandito per una serie di reati (dal malcostume al falso, dallo
spionaggio al tradimento) dei quali non si era potuto tergere, cercava
ora di vendicarsi. Poteva passare da una religione all’altra poiché non
ne aveva alcuna; poteva violare ogni legge poiché nessuna ne
rispettava. Ma aveva una certa cultura e un certo ingegno. Fattosi
improvvisamente zelatore del cattolicesimo, che poi doveva
nuovamente abbandonare, presentava al cardinal Borromeo e al conte
di Fuentes e poi a Clemente VIII un suo progetto di redenzione della
Valtellina.
Mosso improvvisamente a commiserazione dei popoli oppressi
dalla tirannia retica, indicava come potessero snidarsi gli eretici (4000
su 25.000) e mettere a ferro e fuoco una regione che non aveva
comodità di comunicazioni, purchè a questo scopo si unissero Spagna
ed Austria. Ma mentre il Borroni era a Roma per fare opera di
convinzione presso il pontefice, a Roma anche i Grigioni avevano i loro
scagnozzi: Luigi Parravicini cancelliere del comune di Caspano, Gian
Giorgio Pini di Dazio, Giovanni Antonio Parravicini speziale di
Caspano.
Costoro, saputo dal Borroni stesso delle sue macchinazioni,
riuscirono ad averne documento e, per farsene merito verso le Tre
Leghe, lo comunicarono ad esse, che aprirono contro di lui un processo
per tradimento e posero sul suo capo una taglia di 600 corone.
Cercarono anche a Roma di perseguirlo e tentarono in ogni modo di
averlo nelle mani. Bandito anche da Roma per gli echi sollevati intorno
alla sua figura dagli agenti dei Grigioni, si rifugiò prima in Germania
(Sassonia), poi nell’Ungheria, dove per qualche altra malefatta fu
condannato a morte nel 1608.
Per quanto le sue vicende personali non interessino, si deve però
pur ricordare che intorno alla sua persona si imperniarono, specie a
Traona, delle inquisizioni che dovettero compromettere anche altre
persone. Vi attese nel 1601-1602 Orazio Molina.
Voci allarmanti dovevano intanto diffondersi.
Il 29 marzo 1601 i Bormiesi eleggevano sei deputati di provvisione
per la difesa di Bormio: Bernardo Marioli, doveva essere il capitano,
Rodomonte Alberti il vessillifero, gli altri erano Pier Paolo Fogliani,
Giuseppe Sermondi, Pietro Silvestri, Cristoforo Schena, che dovevano
intendersi coi commissari delle Tre Leghe.
Lo stato d’allarme durava ancora l’aprile e il maggio.
Dei commissari era presidente Hartmanno Hartmanni e lo
accompagnava Giovanni Raser di Zug, ma quale fosse l’argomento
degli accordi non ci è noto: vi fu però a Bormio una rassegna di 1200
uomini.
Nell’estate del 1601 il conte di Fuentes guardava, come i suoi
predecessori, con sospetto le trattative che correvano tra i Grigioni ed
Enrico IV re di Francia, il quale, per tenerli a sè vincolati, si mostrava
incline ad assumere sopra di sè le spese di una «terza guerra di
Chiavenna»; e il governatore di Milano, per far naufragare il progetto,
mise in moto tutte le pedine di cui poteva disporre, valendosi anche
dell’opera di Francesco Casati, ambasciatore di Spagna presso gli
Svizzeri nonché di quella di Giulio della Torre.
Ma i nemici di Spagna trionfavano nella dieta di Coira del 18
gennaio 1602, seguita da manifestazioni popolari contro il della Torre,
che si era rifugiato nel vescovado.
Il trattato fu ratificato a Parigi il 20 ottobre.
Non potendo ormai più impedirlo, il conte di Fuentes cercò di
limitarne per lo meno la portata, adoperandosi perché la concessione
dei passi fosse riservata alla Spagna. Il segretario del Senato fu
mandato nei Grigioni con l’incarico di chiedere se nella lega fatta con
la corona di Francia intendessero «haver riservato lo Stato di Milano
et negato a quel re» (cioè al re francese) facoltà di poter passare per i
loro paesi in Italia con esercito «nonostante che non vi abbia stato
(infatti col trattato lionese del 17 gennaio 1601 anche il Saluzzese era
stato reso ai Savoia) né interesse alcuno».
I Grigioni se la cavarono dichiarando di non poter rivelare le
condizioni di un’alleanza destinata a rimaner segreta.
Entravano in pari tempo in trattative coi Veneziani, condotte dal
segretario Giambattista Padavino, che passava da Chiavenna il 20
giugno. Mentre il conte di Fuentes fin dalla fine di luglio minacciava la
chiusura dei confini, il Padavino già pensava di opporvi come rimedio
la riattazione della strada di San Marco.
Orazio Sormano, l’inviato del conte, giunse alla dieta di Davos
troppo tardi per poter agire sui Grigioni col denaro abbondante che
portava con sè; anche il trattato con Venezia era ratificato il 15 agosto.
Ma le trattative erano state alquanto movimentate.
Gli accordi con Venezia dovevano essere oggetto di nuovo esame
nella dieta bandita per il 14 giugno 1603: il Padavino vi giunse da
Venezia. attraverso la valle del Bitto il 20 e il 26 sostenne il partito
francese ed il proprio, affermando che, unite, Francia e Venezia non
avrebbero consentito il trionfo agli Spagnoli. Ma la Francia non voleva
dividere con altri il proprio privilegio e diede ordine al suo
rappresentante de Vic di impedire o almeno procrastinare l’alleanza
con la repubblica di San Marco. Il Padavino per raggiungere il suo
scopo fu costretto a blandire, offrendo pranzi, nonché particolari
regalìe a tutti i quaranta consiglieri di Coira, promettendo premi di
duecento fiorini ad ogni comune di Valtellina favorevole alla lega ed
ancor più ai più grossi; assumendosi le spese per riattare il passo di
San Marco anche nel versante valtellinese, con la lusinga di poter con
quello riparare alla chiusura dei passi verso la Lombardia,
effettivamente serrati dal 20 luglio, mentre restavano aperti i passi
verso gli Svizzeri e in ispecie quello del San Gottardo.
Con cadesti artifici, ripiegando anche il de Vic dalle sue malcoperte
opposizioni, il Padavino ottenne che la lega con Venezia fosse sancita
nella dieta di Davos del 15 agosto: per concluderla, andavano legati a
Venezia attraverso la valle del Bitto Tomaso Schauenstein e Giacomo
Jochberg per la lega Grigia, Battista Salis, Rodolfo Schauenstein e
Augusto Travers per la lega Caddea, Giovanni Guler ed Ercole Salis per
le Dieci Dritture. E fu solennemente stipulata nel Gran Consiglio il 23
settembre.
Il conte di Fuentes strinse ancor più forte il blocco. Ma la più dura
risposta fu la messa in atto del forte minacciato.
La prima pietra fu posta sul Montecchio il 25 ottobre. Il 13
settembre del 1603 in una sdegnosa lettera egli dichiarava ai Grigioni
esser ormai irragionevole «restar amici di lontano». Gli amici indecisi
son quasi nemici e bisognava trattarli come tali. Già sin dall’aprile Gian
Battista Sacchi aveva prospettato la costruzione di una fortezza ai
confini. A quest’opera ora egli attese con ogni energia. Alla fine di
settembre si notava dall’alto lago un insolito movimento di truppe. E
chi diceva che cadesti soldati studiassero il modo di aprire una nuova
via verso il passo San Giorgio, e chi, vedendoli specialmente aggirarsi
tra il lago di Mezzola e il dosso di Montecchio, si avvicinava
maggiormente al vero pensando che andassero cercando il luogo per
edificarvi il temuto castello. Il capitano Lechuga, governatore di Como
e l’ingegnere Gabriele Busca avevano infatti prescelto quel dosso, che
si trovava nel centro di una proprietà del vescovo comense, cioè il
luogo più adatto al loro compito. I Grigioni si richiamarono ai Tredici
Cantoni, e nella dieta di Baden del 12 ottobre si deliberò di mandare a
Milano, per conto di Zurigo, rappresentanti degli evangelici, e per
conto di Lucerna, rappresentanti dei cattolici. L’ambasciata però non
fu spedita e i confederati si limitarono ad una lettera, che non tagliava
i ponti per qualsiasi accordo, il 17 ottobre.
Giunsero invece a Milano gli ambasciatori nominati nella dieta del
22 ottobre col passaporto ottenuto da Gian Battista Prevosti detto
Zambra. Essi si lagnarono della violazione del trattato del 7 maggio
1531 fatto col duca Francesco Sforza, che garantiva piena libertà di
commercio e vietava in perpetuo la costruzione delle abbattute
fortificazioni di Musso e di Olonio. Il Fuentes opponeva loro che le
tante violazioni da essi fatte lo svincolavano per parte sua da ogni
obbligo di osservanza. Avevano dimenticato che nel 1447, se non tutte,
alcune delle comunità della Lega Grigia avevano promesso a Bianca
Maria Visconti di non dar passo ed assistenza ai nemici del ducato?
Valesse l’efficacia delle argomentazioni giuridiche o valesse
l’eloquenza dei doni, i delegati alla fine acconsentirono ad un progetto
di trattato nel quale il conte di Fuentes si obbligava a togliere il blocco
e le Leghe si obbligavano a non concedere, senza il suo assenso, il
transito ad eserciti stranieri. Della erezione del forte non si parlava ed
il conte poteva anche prendersi il merito di farlo figurare, diventando
amici, come una comune difesa, il 17 novembre 1603.
Lo stesso re di Spagna dava il 24 novembre l’ordine di condurre a
termine l’opera così soddisfacentemente incominciata e poco dopo la
rocca era pressocché costruita e munita di fucili, cannoni e munizioni.
Il governatore non aveva difficoltà a lasciar constatare lo stato
dell’opera dal podestà di Morbegno, e il 3 maggio 1604 ne prendeva
possesso il primo castellano, don Gabriel de Amesena.
Ad ogni buon conto i Grigioni rafforzavano i presidi della Valtellina
mandandovi cento guardie agli ordini del capitano Andrea Salis.
Tornando in patria gli ambasciatori grigioni trovarono un ambiente
assolutamente ostile: la dieta curiense del 3 dicembre respingeva il
progetto, dichiarando che la demolizione del forte era la premessa
indispensabile per qualsiasi trattativa. Lo stesso Giorgio Becli fu
rimandato a Milano per notificare la deliberazione grigione, senza
alcuna facoltà di capitolare. Giunse a Milano il 20 dicembre e chiese
quel che gli era stato ordinato di chiedere. Il conte di Fuentes rimise la
risposta al re e continuò per la sua strada, facendo però mostra di non
aver intenzioni aggressive col ridurre a soli quaranta uomini la
guarnigione del forte. Della sua risposta il Becli diede relazione ai
comuni il 28 dicembre.
La dieta di Baden arrivava ormai troppo tardi, quando il 10 maggio
1604 deliberò di mandare essa stessa ambasciatori a Milano per
chiedere «a nome di tutta l’Helvetia» la demolizione del forte e la
restituzione del commercio nonché la modifica dei capitoli formulati
dal conte di Fuentes. Questi, che già il 28 aprile aveva esposto le sue
intenzioni attraverso i Cantoni cattolici, preferì trattare direttamente
coi Grigioni e mandò a Coira il 27 giugno Alfonso Casati per invitarli a
colloquio. I Grigioni nella dieta del 30 giugno, decisero di inviare dei
legati a Baden perché nominassero i loro ambasciatori ed intanto
elessero a loro volta i propri con ben definite istruzioni.
Tre fra essi erano già stati governatori di Valtellina: Giovanni
Pianta, signore di Rhazuns, Rodolfo Pianta, Giovanni Enderlin. Il 14
agosto le due ambasciate scesero dallo Spluga.
I convenuti finivano tuttavia col sottoscrivere un trattato assai più
vicino alle aspirazioni del conte che a quelle dei loro connazionali, col
riallacciarsi alle convenzioni del 1467, del 1478 e del 1484 fra i duchi
di Milano e varie comunità Svizzere e Grigioni, in più le rinnovano
anche a favore di alcune comunità allora non considerate,
promettendo buona vicinanza ed amicizia.
Venivano inoltre concesse la libera esportazione, senza pagamento
di tratte e di dazio sino a 1200 some di grano e 300 di vino, libertà di
commercio come ai sudditi milanesi, infine l’esclusività di transito alle
merci verso la Germania pei passi svizzeri e grigioni. Vi era però un
articolo che obbligava i Grigioni a non dare il passo a milizie destinate
contro lo Stato di Milano.
L’opera dei diplomatici fu tutt’altro che grata ai Grigioni, ai quali un
simile trattato importava, a conti fatti, non lievi limitazioni di
indipendenza; inoltre la Spagna finiva coll’avere un controllo sui loro
armamenti. E mal si conciliava colle alleanze contratte con la Francia.
Tuttavia non si ruppe senz’altro ogni trattativa, la si volle
subordinata alla distruzione del forte, condizione richiesta dalla dieta
dei Tredici Cantoni, la quale voleva pure che fossero modificate le
domande fatte ai Grigioni, in modo da renderle compatibili con i
desideri dei Francesi e dei Veneziani.
Di fronte a quelle imposizioni, il conte di Fuentes non ritenne
dignitoso di continuare la discussione e lo dichiarava agli Svizzeri il 20
dicembre 1604 con una lettera a un tempo deferente e sostenuta, in cui
affermava impossibile, dato il procedere dei Grigioni, il trattar con
loro.
Questi ultimi però già si erano rivolti ai Francesi, inviando a Parigi
Rodolfo di Schauenstein e ne avevano ottenuta la promessa che, se il
forte non fosse stato distrutto, essi avrebbero provveduto a loro spese
alla costruzione di un controforte. Fu allora che il capitano Le Long,
venuto in Italia col pretesto di visitare il cognato Ulisse Martinengo,
progettò la difesa della valle.
Il Martinengo, che aveva un palazzo in Sondrio, benché protestante,
s’era affezionato probabilmente alla Valtellina sì da tener conto anche
degli interessi locali; e forse per sua raccomandazione il Le Long si
prese a cuore l’impresa.
Costui sottopose al re tre progetti: una piazza reale da costruirsi nel
piano dirimpetto al forte spagnolo, che servisse di frontiera a tutta la
valle, un forte vicino a San Gregorio, cioè oltre la stretta formata dalla
colma di Dazio ed uno sopra Sondrio (forse al Grumello).
A ricognizione del castello i Francesi mandavano in aprile il
capitano Cavallazzo, in giugno, col pretesto di una visita al cognato, il
capitano Le Long e poi ancora il capitano de Mantmartin che,
tornando a luglio, non dava rapporti troppo favorevoli ai Grigioni.
Ercole Salis presentò alla dieta i progetti di fortificazione, ma non a
torto fu osservato che tutte e tre non bastavano alla difesa della valle
della Mera.
Mentre da una parte e dall’altra si pensava ad opere di guerra, in
questo periodo giungeva a Bormio da Brescia il padre predicante
Michela, il quale ebbe il merito di erigere in Dossiglio un ospedale il 6
giugno 1604.
Sui piani del capitano Lechwy Lomenes e per cura dell’ingegner
Gabriele Busca, capitano generale di tutte le artiglierie, si sviluppava
quella che doveva essere la più considerevole e la meglio intesa
fortezza dello Stato spagnolo. Già le muraglie, seguendo con un giro
serpentino le varie accidentalità del colle, chiudevano un territorio
lungo 360 metri e largo 125.
Quando il 27 luglio 1605 venne a morte il Busca, ne erano già in
pieno assetto i baluardi, i terrapieni, le portte, le casematte, le sortite,
la piattaforma, le tenaglie, le cisterne, i mulini e la chiesa, dedicata a
Santa Barbara. Ai fianchi della piazza, lunga cento metri e larga venti,
si stavano erigendo i quartieri e in fondo il palazzo del governatore.
L’ingegnere Giuseppe Piotti Varallo ebbe solo a completar l’opera e ad
aggiungere le difese esterne.
La lapide, che fu poi collocata nel 1606 sulla porta principale,
ribadiva il concetto che essa avrebbe dovuto essere una barriera contro
le irruzioni transalpine che consentivano i facili aditi verso la Rezia.
Intorno al castello vi era una rete di fortini, uno dei quali affrontava
la bocca dell’Adda. Da quello, nei primi giorni del marzo 1605,
sortivano dei soldati, fuggendo verso Chiavenna. La scolta di Gabriel
d’Amesena, castellano di Fuentes, fu tosto alle loro calcagna. Li inseguì
anche in territorio reto ed in esso li catturò rapidamente punendoli con
l’impiccagione.
Né esito alcuno ebbe l’ingiunzione fatta dal provveditore e dal
commissario di Chiavenna di restituire i fuorusciti, alla quale il
castellano altezzosamente rispondeva consigliando i Grigioni di non
fare la voce troppo grossa e di badare, invece che alle arti di Francia e
di Venezia, ad aver buoni rapporti col conte di Fuentes, se non
volevano morir tutti di fame.
Capitolo Decimoterzo
Il cosiddetto sacro macello
La sera del giorno stesso in cui spirava il Rusca nella valle della
Mera, dopo venti giorni di incessanti nubifragi che duravano dal 15
agosto, il 5 settembre del 1618, al levar della luna, si fendeva la
montagna di Conto e con tremendo fragore una enorme frana,
precipitando giù per la costa, si rovesciava sul borgo di Piuro, allora
ricco di centoventicinque case e su la contrada di Sillano
seppellendone settantotto.
Agli accorsi dai paesi vicini e da Chiavenna non apparve che un
ammasso di terra smossa.
Quando le acque della Mera per qualche tempo ingorgate,
finalmente riuscivano ad aprirsi una strada, le chiese cattoliche di San
Cassiano e di San Giovanni erano scomparse nel gorgo insieme a
quella evangelica di Santa Maria, il cui campanile e la campana erano
stati dal turbine portati sulla destra dell’Adda, mentre le case dei
Lumaga erano state sbalzate dalla destra alla sinistra del fiume.
Si parlò di tremila persone scomparse.
Totalmente annientata fu la famiglia dei Cattaneo; larghi vuoti
furono aperti in quella dei Vertemati, dei Crollalanza, dei Giulini, dei
Lumaga, dei Mora, dei Butintrocchi, dei Serra, dei Delossi, dei Ruota,
degli Abissi, dei Passarotti, dei Forni, dei Mazzabaroni.
Le Tre Leghe si affrettarono a mandar sopra il luogo tre commissari,
Ercole Salis, il Landrichter Meysen e Costantino Planta affinché
procedessero agli scavi per recuperare il recuperabile con almeno
cento operai giornalieri, divisi per squadre, sorvegliate da caporali
indigeni, cui doveva essere consegnata qualunque trovaglia.
Gravi pene erano comminate a chi avesse tentato di nascondere o di
asportare gli oggetti rinvenuti.
Coi commissari reti sorvegliava anche un commissario francese,
Forni, e i deputati Luigi Vertemati e Butintrocchi.
Strana appare la disposizione che delle trovaglie si contemplasse la
divisione (settimanale o quindicinale) tra il Comune egli scopritori.
Un’altra piaga locale era il banditismo, che era la conseguenza in
gran parte del fuoruscitismo. Specialmente infesta una banda che dalla
Valcamonica operava nel Tiranese.
Ne era a capo Giovan Pietro di Placido Federici; accanto a lui s’era
posto Bartolomeo Cornelio detto il Colognetta ed alla banda
appartenevano anche Giacomo e Flaminio, figli del dottor Camillo
Venosta e Giovanni di Amedeo Bossi nonché un figlio di Alfonso
Quadrio: non erano precisamente dei mascalzoni, né, come asseriva il
Romegialli, di «abiettissimo stato». Contro di essi l’occhiuto tribunale
di Davos aveva disposto la proscrizione. Ma nelle loro mani cadevano
invece due fanti dello stesso podestà Giovanni Capaul, che avrebbero
dovuto arrestarli: Menichetto Lorenzini e lo svizzero Corrado detto il
Brusasco.
Di rappresaglie minacciavano il figlio stesso del pretore, il
cancelliere Michele Lazzaroni ed altri. E i banditi osarono infatti
assalire il palazzo di giustizia. Il pretore ordinò di suonare a stormo.
Ma alla chiamata corsero solo in quattro: Gian Giacomo Omodei,
capo delle milizie e tre altri. Cattivo segno! E vera espressione del
sentimento popolare.
L’intento dei banditi non era dunque solo di far rapine, furti e delitti.
E quando, in occasione della Pasqua, nel 1618, i predicanti stavano per
raccogliersi in sinodo, i banditi si appostarono presso il ponte della
Tresenda per sorprenderli. Si salvarono soltanto perché, avvertiti
dall’insidia, furono dal podestà di Tirano incamminati per una via
diversa.
Pesavano sui Valtellinesi i bandi, troppo frequentemente e
leggermente pronunciati anche contro gente di vaglia. Erano fra essi
Gian Giacomo Robustelli, Giovanni Guicciardi, Francesco Venosta, i
quali avevano cercato dapprima rifugio nella Valcamonica, sotto
l’egida della repubblica veneta; ma quando l’estradizione di Giovan
Battista Schenardi fece balenare anche a loro il pericolo di simile sorte,
passarono in Val di Sole, sotto l’egida dell’arciduca del Tirolo.
Da ultimo il Robustelli e il Guicciardi erano in Domaso. Finito
l’anno del bando, ebbero coraggio di rimpatriare, ma li circondò tosto
il sospetto e furono loro fatte nuove e gravi imputazioni.
Al Venosta si imputava di aver preconizzato in Corteno l’avvento
degli Spagnoli: furono mandati sgherri per catturarlo in Mazzo, ma
riuscì a fuggire dalla «stua», in cui era custodito. Anche Carlo Besta
riuscì a evitare guai perché Il governatore Giovanni Travers si fece
fideiussore della sua presentazione.
Nessuno sfuggì ai rigori della giustizia: il Robustelli fu nuovamente
multato per novecento zecchini e per trecento Anton Maria
Parravicini.
I profughi valtellinesi furono di conseguenza tratti ad agire di
accordo coi profughi grigioni; tra i quali erano Fabio Prevosti, Giuljo
della Torre di Mendrisio (appartenente però ad una famiglia che aveva
ancora il suo ceppo in Dazio e che, protonotario apostolico, godeva
della piena fiducia del re di Spagna e del Pontefice, già segretario del
vescovo conte Ludovico Longo e nunzio pontificio presso gli svizzeri
cattolici), e Cristoforo Carcano. Il Robustelli e il Guicciardi con
Giovanni Maria Parravicini erano passati a Milano dove prendevano
contatto con essi. Nel marzo 1619 Alfonso Casati avvertiva
Massimiliano von Mohr in Milano di tentare un’impresa sulla
Valtellina.
Correva voce che in aprile dovesse avvenire la rivolta valtellinese.
Ma il re di Spagna ancora il 22 riteneva che all’occupazione della
Valtellina dovessero provvedere i Cantoni cattolici.
Sul fare della primavera del 1620 le voci si facevano più consistenti.
Si diceva che i cattolici volessero disfarsi degli evangelici con un
generale massacro e si prediceva persino il giorno in cui sarebbe
avvenuto: il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista.
Per contro si diffondevano grida d’allarme che gli evangelici
avevano pensato addirittura allo «sterminio dei cattolici». Giovanni
Tuana nelle sue memorie manoscritte, ricordate dal Quadrio, riporta
una lettera scritta da Antonio di Schanfigg dove lo «sterminio»
sembrava proprio l’unico mezzo «per salvar la patria».
I papisti avrebbero dovuto senz’altro esser tolti di mezzo, quando si
fossero rifiutati di abbracciare la religione evangelica: e quando pur
volessimo interpretare la parola nel migliore dei significati, dovremmo
dire che se non l’uccisione, la minaccia implicasse per lo meno il
bando.
Fu però recisamente negato che il Ballarini affermasse il vero,
Quando lasciò scritto che i predicanti meditavano di distruggere tutti
gli ecclesiastici con circa trecento famiglie principali della Valtellina,
onde più agevolmente costringere il rimanente alla falsa religione. Ma
la lettera dello Schanfigg rende probabile che egli abbia raccolto una
diceria corrente.
In questa tensione di animi, maturava l’avviso collettivo che i
commissari di Valtellina facevano alle Tre Leghe, segnalando i
movimenti di truppe, che avvenivano al di là del confine e lo spirito
ostile delle popolazioni e quanti avvenimenti potessero essere forieri
di tempesta, comprese le minacce dei quattro banditi di Tirano:
Giovanni di Brando De Tomassis, detto il Chicchio, Giovan Pietro di
Placido Federici, Bartolomeo di Giovanni De Campo, Lorenzo di Pietro
Manfredotti, che insultavano quotidianamente i protestanti e
minacciavano di trattarli tutti come era stato trattato Giovanni Monti;
e, a questo proposito, i commissari suggerivano di insistere presso la
repubblica di Venezia per la loro estradizione dal suo territorio.
Nel maggio si parlava continuamente di movimenti rivoluzionari
che avrebbero dovuto aver luogo il mese prossimo; sotto la
preoccupazione di questi gravissimi pericoli, la dieta di Coira del 10
giugno aveva dato ordine di star tutti sull’avviso, preparando senza
indugio le necessarie munizioni entro quattordici giorni e le leve di
2700 uomini, divisi in tre corpi, di cui il primo doveva essere
particolarmente sicuro per mandarlo nei luoghi più necessari ed
importanti. Ogni Lega doveva mandare un provveditore in Valtellina,
che con i commissari dovesse fare «ogni necessaria provvisione» a
salute dei sudditi «et conservatione del detto paese di Valtellina et
contado di Chiavenna». (Si noti la mancanza di ogni accenno al
Bormiese); in ogni caso in Valtellina si doveva mandare una
guarnigione.
Al podestà di Morbegno si dava ordine di non lasciar passar soldati.
Ogni Comune doveva mandare il «suo avviso» entro otto giorni.
Inoltre i Grigioni si volgevano per aiuti a Zurigo, a Berna, a Glarus,
secondo la rispettiva Lega.
Già dalle pagine sin qui scritte dovrebbe essere definitivamente
sgominato il preconcetto che l’idea di far delle valli aduane un
antemurale della Lombardia sia stato solo un intrigo o un capriccio del
duca di Feria, e che il principale, anzi l’unico artefice della rivoluzione
di Valtellina, sia stato lui.
A chi ripugna lo spargimento di sangue dei propri simili, secondo il
precetto cristiano e cattolico della fratellanza universale. il modo con
cui la rivoluzione valtellinese si esplicò può apparir degno di
condanna. Ma, se questo può essere un giudizio giusto da un tale punto
di vista, non cessa però di apparire come unilaterale e parziale
l’apprezzamento del Cantù e del Romegialli: lo spirito che lo suggerì fu
quello che non sa concepire di fronte alla volontà del dominante se non
il dovere di una illimitata obbedienza.
Tale atteggiamento mentale nella prima metà del secolo
decimonono può apparire anche come l’espressione di uno spirito
austriacante. Altri, che ugualmente furono propensi alla condanna
quando l’austriacantismo non aveva più ragion d’essere, parlarono
invece in nome della umanità; ma il giudizio non fu per questo meno
ingiusto.
Inumano è chi uccide, ma inumano è anche chi col suo contegno
spinge l’oppressore a ricorrere, come ultima salvezza, all’omicidio.
Eccoci dunque a quello che fu chiamato (non però dai
contemporanei) «sacro macello» valtellinese. Di macello hanno
veramente parlato gli storici reti; l’aggettivo è aggiunta recente di
qualche cattolico che superficialmente ha considerato sacri i motivi e
non i fatti nella loro esasperata crudezza.
La giornata del 18 luglio era stata temporalesca ed il rombo dei tuoni
e il bagliore sinistro dei lampi avevano tenuto sospesi i cuori, sotto la
minaccia dello scatenarsi del furore della natura: e già un senso di
sgomento, di attesa e di inquietudine si diffondeva tra i riformati e i
Grigioni per una certa aria di cospirazione e di mistero che si coglieva
negli sguardi e trapelava da oscuri accenni.
A sera il cielo si schiariva, ma s’addensava invece la tempesta degli
animi ormai sul punto di scatenarsi.
A Tirano si radunavano infatti nella casa di Francesco Venosta,
luogotenente del pretore locale, i congiurati dei quali mancava solo
Giovanni Maria Parravicini, del terziere inferiore, trattenuto, per non
si sapeva quali motivi, nello Stato di Milano.
Giovanni Guicciardi, del terziere di mezzo, era impensierito di quel
contrattempo che dava ragionevole sospetto di qualche novità non
buona; v’erano il cavalier Giacomo Robustelli, Marco Antonio e
Simone Venosta di Grossotto, Vincenzo Venosta di Mazzo ed altri
maggiorenti.
Parve quindi che non si dovesse oltre indugiare, anche perché si
temeva che qualche compromettente risposta potesse scaturire dagli
interrogatori di Michele Federici, caduto in mano ai Grigioni.
Il Robustelli fu messo a capo dell’impresa e ognuno si recò al
proprio campo d’azione per la raccolta dei sui satelliti. Fu rapido
l’accorrere.
Narrano le cronache retiche che il 19 luglio il pretore di Tirano
Giovanni Capaul per festeggiare la nascita di una nuova bambina
avesse riunito degli amici: tra gli altri il vicario generale della valle
Antonio Salis, il pretore di Teglio Andrea Enderlin, il pretore di Brusio,
il pretore di Traona e il pretore evangelico di Mello. Sarà proprio stato
per una semplice festa di famiglia? Comunque altri e meno innocenti
riti si erano celebrati nella casa del suo luogotenente.
Si diedero le opportune istruzioni, come informa il Lavizzari, che
potevano anche essere quelle di risparmiare chi avesse abbandonata
l’eresia per tornare al cattolicesimo e di non allungar troppo gli artigli
per proprio conto sui beni altrui. Raccomandavano probabilmente di
evitare inutili stragi di donne e bambini.
Era sabato, vigilia della solennità della Pentecoste.
Verso le sei ore di notte, cioè intorno alla mezzanotte, i cospiratori
scendevano, incolonnati dai Venosta, da Grosio e da Grossotto; lungo
la via si ingrossarono dei contingenti guidati da Vincenzo Venosta di
Mazzo, e scendevano poi per il Tovo, Lovere e Sernio, giungevano sul
far dell’alba a Tirano.
Alle spalle dava sicurezza da ogni insidia la giurisdizione di Bormio,
immune per ora da fermenti rivoluzionari e sguarnita di presidi
grigioni; le spalle erano invece minacciate dalla valle di Poschiavo e
verso di quella mosse subito il Robustelli.
Quattro colpi di archibugio echeggiarono nel silenzio mattutino. Poi
squillò a martello la campanella della ringhiera: chiamava il popolo a
difesa del palazzo pretorio. Si pensava forse ancora a qualcuna delle
non infrequenti scorrerie dei banditi: gli amici del Federici e del
Cattaneo tentavano forse di sottrarli alla giustizia.
Il servitore del vicario, udendo il richiamo, accorse e fu la prima
vittima.
Ora tutti i sacri bronzi suonavano a stormo: il popolo che non s’era
mosso al primo invito, accorse al secondo; non per la preghiera, non
per la difesa, ma per la vendetta.
Si gettò sul pubblico arsenale e, infrante le porte, si provvide di
armi. Quando la belva umana si sfrena, tornano vani i consigli di
moderazione: tutte le vie furono corse da una folla inferocita
desiderosa di farsi giustizia. Tra la folla si erano facilmente insinuati
facinorosi e banditi, che incitavano con le parole e con l’esempio anche
gli irresponsabili.
L’azione principale fu nella piazza contro il pretorio: lo squillo della
ringhiera era stato quasi il simbolo di una sfida che non si poteva non
raccogliere. Ora se ne sopportavano le conseguenze.
A calmare la folla in furore non bastò la misera fine del cancelliere
Michele Lazzaroni, il quale aveva cercato salvezza fuggendo per i tetti
e, passando di casa in casa, aveva finito per rifugiarsi in un tombino.
Lo scorse una donna e lo additò agli sgherri di Vincenzo Venosta. Ebbe
ancora un momento di dignità e di coraggio: invitato all’abiura,
dichiarò che preferiva la morte e l’ebbe a colpi di spiedo e d’alabarda e
il misero corpo andò a finire nel!’Adda. Colpevole di aver aiutata la sua
fuga, benché cattolico, fu giustiziato anche il cognato di lui Maffeo
Cattaneo.
Non bastò la morte di Andrea Enderlin podestà di Teglio, che
barricato nel palazzo, aveva cercato di difendersi colle armi; ma,
scoperchiato il soffitto, fu fatto uccidere da Flaminio Venosta e, così
finito, fu buttato dalla finestra e trascinato con una fune sul greto
dell’Adda.
Non bastò la morte di Giovanni Monti figlio di Michele; anch’egli
ucciso in palazzo e defenestrato.
Anche il vicario Antonio Salis, rifugiatosi nella casa del capitano
della milizia Gian Giacomo Omodei insieme al suo cancelliere Marco
Antonio Venosta, fu rintracciato ed ucciso da Claudio Venosta che
vendicava in lui l’uccisione del proprio figlio.
Morte fu data ai pastori evangelici: il capo mozzo di Antonio Basso
fu collocato sacrilegamente sul pulpito ed esposto agli osceni dileggi
dei forsennati.
La difesa del pretorio continuava ancora la mattina del lunedì.
Finalmente, dato il fuoco alle porte, gli assedianti irrompevano
rumorosamente nell’atrio. In un primo momento non osarono mettere
le mani sul podestà; poi Antonio Bottiglioli gli strappò la spada
dall’elsa e dal pomo dorati, suscitando l’ira e forse la cupidigia del
dottor Gian Battista Marinoni, che per farla propria uccise colui che
l’aveva presa per primo. li podestà fu tradotto con la sua famiglia nella
casa di Francesco Venosta. Sottoposto a stringenti interrogatori, forse
sperò che, risultando senza gravi colpe, potesse avere qualche
compatimento. Ma avendogli qualcuno rimproverato di aver deposto
a Tosanna contro Pompeo Pianta, suscitando il furore della gentaglia,
fu cacciato in prigione e qui finito a colpi di archibugio da sgherri
capitanati da Giacomo Torelli.
Della furia omicida fu vittima il grigione protestante Antonio
Nicolai, che dalla folla ebbe strappato il naso e strappati gli occhi e così
malconcio fu precipitato dalla: finestra, fracassandosi al suolo.
Volle impedire quell’inumano scempio Giovanni Nazzarri e fu
anch’esso ucciso insieme con la moglie, che aveva cercato di frenare il
suo generoso slancio, e coi figli, colpevoli di essere nati dal suo seme.
Ai meno invisi si preferì condonare la vita, se fossero ritornati alla
fede. Per tal via, anche se l’abiura non fu sincera, il cancelliere
Gaudenzio Salis ottenne la libertà e, perché non subisse offesa, fu
accompagnato ai confini colla moglie e coi figli dello spento podestà.
Più d’uno respinse invece ogni proposta e affrontò coraggiosamente
la morte. Una donna tra loro.
Coloro che, usciti dall’equivoco che si trattasse di una delle solite
incursioni dei banditi, si resero conto di quanto succedeva dovettero
decidere fra la resistenza, la abiura o la fuga.
Fortunato fu chi prese in tempo la via dei monti: così trovarono
scampo Egidio Venosta ed il giurista Giacomo Albertini nonché
Giacomo Neffio di Coira.
La strage di Tirano ebbe qualche strascico a Villa, dove lo stesso
prete sarebbe stato più volte omicida. Non consta che uccisioni si
avessero invece a Stazzona.
I morti in Tirano si calcolarono a sessanta; senza dubbio erra il
manoscritto che li dice quattordici.
Esiste ancora una xilografia curiense in cui è raffigurato il massacro
di Tirano. In un primo piano è un gruppo di bambini, donne e vecchi
fuggenti : donne e bambini sono, già morti, per terra. Alcuni forsennati
li rincorrono con spadoni, picche e qualche pistola; li esorta all’eccidio
un padre, forse un gesuita. Anche sullo sfondo si vedono inermi in fuga
e sgherri che sfogano su di loro la propria furia brutale. Da una finestra
un ceffo mostra osannando una testa recisa.
L ‘architettura delle case adiacenti alla piazza è quella tipica
dominante nel secolo decimosettimo nelle terre grigioni e nel bormiese
la ricostruzione è quindi immaginaria. Appare strano che nessuno dei
protestanti appaia alla difesa dei perseguiti! Lo xilografo non si
preoccupò che questo potesse dar sospetto di viltà, ma solo di dar
rilievo alla ferocia dei cattolici.
All’arrivar delle staffette rosse anche Teglio fu in subbuglio.
Era già giorno e gli evangelici ascoltavano la predica nella chiesa di
Sant’Orsola. Intanto, infuocati, a quanto si dice, dalle parole suasive di
Azzo Besta, affiancato dal fratello Carlo e dal cugino Antonio di
Girolamo, si raccoglievano i cattolici.
Attraverso i battenti aperti del portone Azzo Besta scaricava il suo
archibugio sul ministro Giovan Pietro Dantz di Zuz, colpito in pieno
petto. Le porte furono prontamente chiuse e barricate, ma, appoggiate
delle scale, qualcuno degli aggressori si fece alle finestre.
Fu quindi intimata l’uscita alle donne e ai fanciulli e fu promessa la
vita a quelli che, ravvedendosi, avessero formalmente promesso di
ritornare al cattolicesimo. Ma non tutti uscirono. Vi rimase il
predicante e molti con lui.
Cominciò così la strage con una sparatoria all’impazzata dall’alto
delle finestre, che non pure abbattè i Grigioni, ma anche personalità e
abitanti del luogo: cadde Giosuè Gatti, luogotenente del podestà che
già aveva trovato misera fine a Tirano; cadde Antonio Besta figlio di
Martino, restò ferito Gaudenzio Guicciardi e piegata su di lui cadde
uccisa la figlia. Così pure periva il curiense Gugelberg.
Qualcuno tentò arditamente una sortita fra cui Vincenzo Gatti col
figlio Andrea: la forca da lui scagliata contro Azzo Besta non giunse al
segno perché il suo petto era coperto da «timida» maglia, come il
Romegialli, fatto inusitatamente poeta, sarcasticamente osservava.
Si incendiò la chiesa e la più terribile morte distrusse fra grida e
spasimi coloro che ancora vi erano rifugiati e quanti avevano cercato
rifugio sul tetto presso l’arco che sosteneva le campane, giacché San
Orsola non aveva torre campanaria.
Larghi vuoti si aprirono nelle famiglie dei Besta, dei Guicciardi, dei
Gatti, dei Cattaneo e dei Piatti.
A quelli che morirono nel tempio ne vanno aggiunti altri: vuolsi che
il parroco stesso colpisse in carcere col pugnale Gian Antonio Federici
per vendetta del fratello Biagio, condannato a Tosanna.
I morti sarebbero stati in tutto settantadue; fra cui otto donne e tre
bambini.
Caddero un Besta, undici della famiglia Gatti, sette dei Nova,
quattro Guicciardi, due Parravicini, nove Piatti, due Reghenzani, due
Federici: gente di prim’ordine non solo per nobiltà e ricchezza, ma
anche per coltura ed ingegno.
Intanto le truppe avviate verso Sondrio, rafforzate dai contingenti
di Ponte e di Chiuro, tennero due vie diverse: per il monte e per il
piano. Guidava le prime il Guicciardi, le seconde Prospero Quadrio.
Queste ebbero ad incontrare presso Boffetto un gruppo di Tellini
riformati, che tornavano da Morbegno e li mandarono a far compagnia
agli altri malcapitati.
Prima di entrare in Sondrio si congiunsero con quelle di Albosaggia,
comandate da Lorenzo Paribelli, accompagnato dai figli Gian Giacomo
ed Orazio. Avvertito di quanto era avvenuto a Tirano e a Teglio, il
governatore Gian Andrea Travers con campane e tamburi chiamava a
raccolta la popolazione. Ma non tutti obbedirono.
A salvargli la vita gli giovò essere zio dei Besta; ma probabilmente
si sperò anche di poter contare sopra di lui per l’avvenire, se poteva
nutrire qualche debito di gratitudine.
Furono in armi quei di Ponchiera, tutti cattolici, facendo buona
guardia ai confini e fermando quanti cercavano per la via di Malenco
di ripassare in Isvizzera. Cadde nelle loro mani fuggiasco il famigerato
predicatore Marcantonio Alba coi suoi accompagnatori e scontò con la
legge del taglione la cattura e la fine del Rusca.
Le invocazioni spedite a firma del governatore non poterono
giungere in porto.
Bisognava prepararsi alla difesa del borgo, che s’apprestava con
barricate alla resistenza contro l’imminente attacco.
Pareva dapprima che al mantenimento dell’ordine dovessero
contribuire insieme protestanti e cattolici. Ma anche qui prevalse la
fronda: anche in Sondrio operavano i congiurati, come i fratelli Carlo
ed Emilio Lavizzari figli di Fabrizio e il cugino Francesco.
Anche l’arciprete Gian Antonio Parravicini doveva essere della
partita.
All’alba, essendo già imminente l’ingresso del Guicciardi, cominciò
la rivolta con l’uccisione delle scolte.
Vista la mala parata, già gli evangelici si preparavano a fare l’ultima
resistenza nella casa del cancelliere Gian Andrea Mingardini. Le
attitudini minacciose della folla indussero però quest’ultimo a suggerir
loro di prendere, come fecero, il largo.
La situazione si fece ancor più difficile con l’arrivo dei Besta e dei
loro seguaci. Non fu possibile impedire l’ingresso ai ribelli. Il
Guicciardi si recò tosto al pretorio e, annunciando che la risoluzione
dei rivoltosi era di scuoter la tirannia dei pastori luterani, intimò al
Travers di lasciare l’ufficio ed andarsene.
Egli, che frattanto aveva invano atteso il ritorno delle spie da lui
diramate e l’arrivo degli aiuti, non poté opporre resistenza. Fu
cortesemente accompagnato e scortato sino a Chiesa, dove fu
trattenuto quasi ostaggio per otto giorni.
Intanto la marmaglia si sbizzarriva come aveva fatto a Tirano.
Indarno i malcapitati imploravano l’intercessione del Guicciardi:
egli non avrebbe avuto modo di tenerli a freno. Per due giorni durò la
caccia all’uomo, il 20 e il 21.
Gente pronta ad ogni sbaraglio, contava fra le sue schiere dei veri e
propri banditi.
Intere famiglie furono massacrate e non solo famiglie nobili, ma
anche contadine: insanguinate furono le contrade dei Mossini, dei
Cani o Cagnoletti, dei Moroni. Il fanatismo religioso spingeva altri alla
vendetta per fare omaggio alla venerata memoria del Rusca. Per questo
era caduto Marco Antonio Alba, ministro in Valmalenco, che aveva
guidato gli scherani alla cattura dell’arciprete; così Bartolomeo
Marlianici, predicante a Sondrio e il suo avversario Gian Battista
Mallery.
Avrebbero voluto anche metter le mani su Gaspare Alessio, il più
odiato di tutti, ma egli era riuscito a cavarsela in tempo.
Pagò per lui un disgraziato, cui la somiglianza con esso portò
sventura e che come traditore fu condotto a dorso d’asino a ludibrio
per le vie e infine trucidato.
Fortunati quelli che erano riusciti a prendere la via dei monti e
poterono riparare nel Veneto o nell’Engadina, spingendosi anche più
oltre a San Gallo, a Zurigo, a Ginevra. Fu tra essi il cancelliere di valle
Giovanni Andrea Mingardini, Ippolito Venosta di Mazzo, Ludovico
Parravicini di Sondrio.
La rivoluzione di Sondrio fu la più cruenta. Se tiriamo le somme,
appare esagerata la testimonianza che calcola a mille i caduti. E forse
esagerano anche quegli storici recenti che parlano di alcune centinaia.
Ma i Reti non avrebbero dovuto scandalizzarsi se avessero
semplicemente ricordato le vittime della rivoluzione engadinese.
Una vignetta luterana metteva a capo della crociata antiriformista
padre Ignazio da Gandino (Bergamo), corso ad infervorare i ribelli alla
strage dalla Valcamonica. Ma fu pura fantasia.
Esaurita l’azione a Sondrio, il Guicciardi proseguì verso Morbegno
il 22 luglio, donde il pretore Giovanni Antonio Travers, avvertito dal
figlio Vittore delle vicende di Tirano, aveva preso la fuga con cinque
predicanti.
Il giorno dopo lo raggiungeva il capitano Giovanni Maria Parravicini
con duecento fanti. I due avanzarono uniti fino al Sasso Corbè.
Quaranta militi, inviati dal pretore di Chiavenna per difendere
l’imbocco della valle, levarono il tacco con tanta furia e inavvertenza
che venti di loro rimasero in mano degli assalitori.
Del reparto prese il comando l’alfiere Gian Antonio Rusca.
Assicuratisi Sondrio, come si erano presidiati gli accessi da
Poschiavo, così si vollero munire quelli di Val Malenco. A tale scopo si
affidò ad Azzo Besta il comando di trecento uomini.
Al di sotto di Sondrio, nel terzi ere inferiore, la reazione sembra
essersi andata attenuando. E certamente dipese non da spirito
favorevole ai Grigioni, ma dal fatto che, tolto Ardenno e la valle del
Masino, nei singoli Comuni vi erano soltanto cattolici o essi vi avevano
un’assoluta prevalenza.
Dove vi erano riformati non mancarono episodi di sangue, e, se più
non se ne ebbero fu perché i luterani, avvertiti in tempo, poterono
rifugiarsi in valle di Chiavenna o in Val Bregaglia, attendendovi giorni
meno burrascosi.
Diverse furono le mete della loro migrazione: molti si spinsero a
Zurigo evi rimasero raccolti in una chiesa particolare, di cui fu ministro
Vincenzo di Bartolomeo Parravicini, autorizzato a predicare in
italiano, ma nelle sole domeniche, mentre sacramenti e matrimoni
dovevano celebrarsi secondo il rito locale. Così era ancora nel 1623.
Fra le vittime da Sondrio in giù si ricordano tre Moroni a Caiolo, due
Malacrida, figli di Ortensio, Giosuè e Plinio, uccisi sulla via di Buglio
per non aver voluto accettare la salvezza proposta a prezzo dell’abiura,
così finirono due mercanti grigioni che scendevano da Caspano ad
Ardenno. Altre persone perirono a Berbenno, a Cedrasco, ad
Albosaggia, a Dubino, a Castione.
Dal canto suo il Robustelli, che operava nel settore superiore, lo
stesso giorno del 19 luglio era giunto a Piattamala di là si preparava ad
ulteriori azioni che si spiegarono nei giorni successivi e che finirono il
21 con l’occupazione di Brusio.
Vi fu una trentina di morti e parecchie case date alle fiamme.
Il Robustelli non si fece scrupolo di giudicare «quel falò ben dovuto
alla vendicata libertà e religione».
La furia della reazione antiriformista si estese anche a Bormio
stessa.
Infatti, non appena i Bormiesi ebbero notizia dei moti valtellinesi,
Giambattista Fogliani, capitano delle milizie locali, levò le armi e,
preso nelle sue mani il governo, mise le guardie ai confini, mentre Gian
Francesco Alberti, succeduto al padre Rodomonte, ebbe l’ordine di
portarsi a Fraele e di là verso la bassa Engadina.
Intanto tre «fervorosi» cattolici levavano dal mondo l’unico
bormiese che avesse aderito alla riforma, Gian Pietro Fogaroli, mentre
altri due protestanti, forestieri, si salvarono con l’abiura, facendosi
cattolici.
Il podestà Cristiano Florin di Partenz, non sentendosi sicuro, si
accomiatò dai reggenti, e, fatto da essi cortesemente scortare sino ai
confini, lasciò il paese.
Fuggì in tempo. Non passò molto che, mandati dal Robustelli, si
affacciavano dalla Valtellina Marco Antonio Venosta di Grosio e
Giacomo Venosta di Grossotto e prendevano contatto col capitano
delle milizie e col reggente Nicolò Imeldi. Con essi, senza attenersi alle
formalità costituzionali, che avrebbero richiesto la immediata
convocazione di tutto il popolo, stipularono dei capitoli di amicizia e di
alleanza, con promessa reciproca di vicendevoli aiuti, a mantenimento
del paese e per difesa della santa cattolica fede.
Questi furono comunicati al consiglio generale il giorno seguente 25
luglio e approvati da tutti i presenti, senza obiezione alcuna, «clara et
alta voce»; e, dopo un caloroso discorso di Bernardo Casolari,
acclamati dal popolo tutto.
Il comune, e questo era importante, era esonerato da ogni spesa;
avrebbe invece compartecipato di ogni vantaggio.
Si presero tosto le misure necessarie eleggendo «duo viri idonei» :
Giovanni Casolari e Gian Francesco Florini, come luogotenenti del
podestà. Tutti gli altri, deputati, consiglieri e provvisori, furono
riconfermati nelle loro cariche.
Gioacchino Alberti ci informa di pratiche, fatte immediatamente dai
Grigioni per mandar nel nulla quella alleanza, che appoggiava i
Bormiesi alla Spagna, facendo grandi promesse per ridurli al pristino
stato ed offrendo per giunta trentamila zecchini per avere il passo,
rinunciando ad ogni requisizione.
Ma i Bormiesi, troppo onesti, a scapito della loro utilità, (così la
pensava l’Alberti), non ne vollero sapere.
Cosi finiva quella rivolta che qualche scrittore nostro e qualche
scrittore francese chiamò il San Bartolomeo valtellinese. Se qualche
coincidenza si ebbe fra i due avvenimenti, è anche giusto osservare che
il moto valtellinese fu un piccolo San Bartolomeo, poiché nella tragica
notte di Francia del 24 agosto 1572 nella sola Parigi caddero più di
10.000 Ugonotti e nell’intera Francia più di 50.000. In Valtellina, se si
fanno i conti, le vittime non furono molto più di 300.
La storiografia moderna non condanna più né celebra, ma espone i
fatti cercandone il valore relativamente all’ambiente in cui sono
avvenuti. Con questo spirito ecco dunque gli eventi, prescindendo dai
fregi che le età passate hanno aggiunto ai singoli quadri.
Li riferiamo, come la critica ci ha permesso di accertarli, non pur
dalle cronache, ma dalle lettere e persino da documenti privati, dai
quali dovrebbe esser stato alieno ogni scopo tendenzioso, se non ogni
interesse e ogni passione.
Non tutto quel che si disse è di buona lega. Non persuade che Azzo
Besta commettesse l’imprudenza di preparare palle di piombo per la
rivolta alla presenza di bambini, che certo per esperienza sapeva esser
ciarlieri. Non è invece inverosimile che i ragazzi cattolici per disprezzo
sovrapponessero gli indici a croce davanti ai protestanti; ma non si
comprende come, ostinandosi in quel gesto un piccolo accattone,
proferisse dinnanzi ad Elisabetta Guicciardi le parole: «Forse da qui
innanzi non mi farete più elemosina!» Chiedendo la gentildonna il
perché di quella minaccia, egli avrebbe confermato con un giuramento
che il giorno dopo essa si sarebbe compiuta.
La spiegazione del gesto non è chiara: sarebbe stato un atto di
riconoscenza per la ricevuta elemosina col valore di preavviso, o una
mossa dispettosa e villana per il diniego?
La furia omicida si spense anche col tempo. E siamo tratti a cercare
particolari motivi di odio per le vittime più tardive.
Parliamo in ispecie del caspanese Andrea Parravicini, che, vissuto
per qualche giorno fra i boschi, fu catturato il 24 agosto e tradotto a
Morbegno. Persistendo nel respingere l’abiura, fu ucciso con la pena
degli eretici sul rogo.
Lo Sprecher lo vorrebbe cinto con l’alloro del martirio: i suoi giudici
non seppero valutare la fermezza del suo carattere; ma forse per lui,
come per il settuagenario intarsiatore di Mello, vi fu il sospetto di
tramate vendette.
Più si medita e più si trova che avevano ragione i vecchi storici, i
quali hanno sempre contrapposto nella rivoluzione valtellinese
cattolici ed eretici, vedendo in essa una lotta religiosa: aspra e spietata
come sogliono essere tutte queste lotte.
La religione era ugualmente sentita dai maggiorenti e dal popolo;
ed è vano ed erroneo il cercar di purgare questo dalle colpe di quelli.
Tra l’azione e il movente di essa bisogna sempre distinguere gli
elementi accessori che l’accompagnano. Nell’azione possono
intervenire scherani e manigoldi, ma considerare come tali tutti gli
insofferenti di una condizione insostenibile affermatasi nel corso degli
eventi è un giudizio azzardato ed ingiusto.
Non coglierebbe nel vero neppure chi volesse contrapporre un
movimento aristocratico ad un movimento democratico. I precipui
attori del movimento ci risultano legati da vincoli di parentela e di
affinità e in ispecie i Paribelli e Robustelli, imparentati con la famiglia
Resta; ma tali vincoli si formarono dopo o durante la rivoluzione, non
la precedettero. Non fu dunque neanche una lotta fra consorterie
familiari. Né erano tutti esponenti del feudalesimo: se questo potrebbe
dirsi dei Parravicini, dei Guicciardi, dei Venosta, dei Resta, non
sarebbe rigorosamente vero pei Paribelli, pei Carbonera e pei
Robustelli, che, pur derivando da vecchi ceppi, non potevano far
risalire la loro nobiltà pur cospicua a privilegi sovrani.
D’altronde Parravicini, Guicciardi, Resta e Venosta erano anche fra
i protestanti, cioè fra coloro contro cui la rivoluzione fu condotta. Non
erano dunque né gli uni né gli altri legati ad una tradizione. Essi erano
inoltre distinti dal popolo, ma non avulsi dal popolo.
E nemmeno può dirsi che fossero specifici rappresentanti della
ricchezza immobiliare o della mobiliare. Vi furono fra essi dei ricchi
proprietari di terre e dei mercanti.
La rivoluzione valtellinese non ebbe, o almeno non risulta che abbia
avuto, semplicemente cause materiali. Gli attori di essa non hanno
difeso egoistici interessi. Se poi si sono mostrati tutti come ispanofili,
nessuno ha mai potuto dimostrare che essi abbian ricevuto dalla
Spagna donativi o pensioni, quali i Reti erano disposti a ricevere da
qualunque Stato per favorire i loro piani. Ma, appunto perché il
contrasto era fondamentalmente contrasto di fede, non si ebbe nei
rivoluzionari una adeguata valutazione degli elementi politici. Essi
non si posero la visione di un ordine politico nettamente diverso dal
precedente. L ‘indipendenza e la libertà religiosa premevano più che la
politica. E forse supporli antigrigioni o ispanizzanti è un nostro errore:
la Spagna rappresentava per loro soltanto il sostegno della fede
romana contro l’eresia predominante fra i Grigioni.
Partendo dal presupposto di un mero fine politico ci rendiamo
oscuri gli atteggiamenti dei valtellinesi, che non furono affatto delle
marionette manovrate dalla Spagna, né eroi da burla.
Non la fiducia nella negligenza dei Grigioni ma le preoccupazioni
destate dalla repressione nella Mesolcina e nell’Engadina spinsero i
valtellinesi all’azione. E questa si svolse così rapida, che parve
improvvisa. Se i cattolici non si fossero messi subito al riparo
sarebbero stati sopraffatti. In silenzio, ma non senza che qualche cosa
trapelasse da qualche troppo zelante emissario, si erano ordite le fila
di una congiura per una generale soppressione dei protestanti, a cui
pare alludessero certe frasi oscure di lettere o discorsi occasionali,
risalenti sino al maggio del 1620, che avrebbero dovuto mettere questi
in guardia.
Del senno di poi son piene le fosse. Se proprio avessero avuto
sentore delle cose di cui si vollero avvisati, né i pretori di Teglio e di
Morbegno, né il commissario di Chiavenna sarebbero stati così
imprevidenti. Tuttavia c’era nell’aria un senso di inquietudine. Erano
timori vaghi, che però inasprivano specie nei ribelli il senso della
propria responsabilità: se non avessero agito con grande decisione e
tempestività le vendette avrebbero preceduto le offese.
Capitolo Decimottavo
La campagna del marchese de Couvres
L’occupazione di Poschiavo non era stata senza contrasti, non certo
però per la resistenza dei papalini che si diedero alla fuga non appena
furono in vista le avanguardie del sergente maggiore Ruinella e di
Daniel de Bose.
Era facilmente riuscito ai Poschiavini di spingersi sino alla Casaccia,
all’estremo del lago di Poschiavo, ma qui trovarono ostacolo da parte
di un piccolo corpo di valtellinesi e furono costretti a ritirarsi, mentre
l’abitato veniva dato alle fiamme.
In seguito a questa azione Carlo Robustelli e Simone Venosta con
altri compagni si allontanavano da Brusio tagliando tutti i ponti di cui
il nemico si sarebbe potuto servire.
La manovra del de Couvres mirava a stabilire un più facile contatto
con le truppe veneziane, alle quali era aperta la via dell’Aprica.
Il 2 dicembre il colonnello Rodolfo Salis si assumeva il compito di
attaccare il fianco nemico salendo i dossi del monte San Romerio sopra
il lago di Poschiavo e, ridiscendendoli alla sera, di attaccare il forte di
Piattamala. Dall’altro lato lo appoggiavano le truppe del Vaubercourt.
La guarnigione pontificia non oppose resistenza e la sua ritirata
trascinò con sé quella dei rinforzi, che da Piattamala salivano guidati
da Prospero Robustelli, figlio del governatore. Lo stesso giorno gli
uomini del Vaubecourt si avanzavano sino alla Madonna di Tirano e
quelli del Salis occupavano la Rasica. Qualche squadrone di cavalleria
si spingeva sino al ponte di San Giacomo per tagliar la via agli Spagnoli,
se avessero avuto l’idea di venire in su.
I Bormiesi intanto, informati a dovere della piega degli avvenimenti,
erano pronti a cambiare casacca. Il 3 dicembre si presentava al
quartiere generale francese il canonico Murchi e, introdotto presso il
marchese di Coeuvres, offriva ai confederati la pacifica dedizione del
borgo, purché si promettesse di rispettare il cattolicesimo, gli statuti,
le franchigie e i privilegi consuetudinari e purché non si riversassero
sul paese le spese di acquartieramento o passaggio di truppe.
Il 4 dicembre, gettato un ponte sull’Adda, il Salis, passato sulla riva
sinistra, si impadroniva del Dosso sopra Tirano. Nella notte fra il 5 e il
6 uscivano dal forte con le loro compagnie Vincenzo Quadrio ed Azzo
Besta, che probabilmente non vollero farsi cogliere come topi in
trappola. D’altro canto bisognava pensare alla difesa di Teglio e del
terziere di mezzo.
Il giorno seguente Prospero Quadrio e Marco Antonio e Simone
Venosta decidevano di parlamentare.
Erano bastate poche cannonate perché Prospero Quadrio,
consigliere del Consiglio reggente, si presentasse al de Coeuvres, latore
delle proposizioni di quelli che a lui sembravano «i capi più tristi della
ribellione».
Temendone le insidie, il marchese tenne a bada il negoziatore,
sinché, gettando i ponti, non ebbe assicurato l’accerchiamento del
borgo.
Si annunciava da parte dei Veneziani l’invio di artiglierie con cui
battere quella dei difensori, che parrebbe aver avuto una certa attività.
Ma ormai i pontifici avevano affrettatamente abbattute le fortificazioni
tiranesi.
Il giorno 6 si ripresentò il Quadrio con la proposta di una
capitolazione, secondo la quale il re di Francia avrebbe ricevuto sotto
la sua protezione la Valtellina, rinunciando questa ad ogni altro
patrocinio od alleanza.
I Valtellinesi promettevano di deporre le armi, ma i Grigioni
dovevano rinunciare ad entrare nei forti e nelle terre del terziere
superiore.
Il governo sarebbe rimasto nelle mani dei Valtellinesi sino a che
paresse al re e quanto prima, si sarebbero concluse soddisfacenti
capitolazioni fra Valtellinesi e Grigioni. Si dovevano dare garanzie di
sicurezza a particolari famiglie, con la facoltà di emigrare per chi non
avesse voluto sottostare alle condizioni stabilite e con diritto
d’indennizzo dei beni.
La capitolazione, oltre alla firma di Prospero Quadrio, portava
quelle di Marco Antonio e di Simone Venosta.
Come argutamente osservava il Martinelli, il capitolato non
riguardava però tutta la Valtellina, ma solo il terziere superiore; col
resto della valle e con le milizie pontificie la guerra continuava.
Il di Bagno non volle cedere le chiavi delle porte di Tirano ma lasciò
che quattro compagnie francesi entrassero nel borgo attraverso una
breccia.
Si serrò nel castello insieme al cavaliere Robustelli e qui insieme si
finsero decisi ad una resistenza estrema; ma lo stesso giorno 7 chiesero
una tregua di tre ore e questa preluse alla resa del 10 dicembre.
Il de Coeuvres avrebbe voluto la cessione delle fortezze di tutta la
valle o almeno di quelle del Bormiese, ma il di Bagno non si credette a
ciò autorizzato: perciò tergiversava. Ma, essendo giunta notizia di un
prossimo arrivo delle truppe spagnole, il comandante francese
sollecitò la decisione, e il giorno 10, riversando la colpa sui Tiranesi
infidi e sulla preponderanza degli armamenti e degli eserciti francesi,
il rappresentante pontificio firmò la resa, facendola retrodatare dal
giorno 8; e, ottenuto di condur seco i suoi uomini, le armi e uno dei
cannoni che erano stati posti a difesa di quel forte, scese la valle diretto
a Morbegno, donde partiva definitivamente qualche giorno appresso.
Il Robustelli ebbe un salvacondotto e sollecitato, come cavaliere di San
Maurizio e Lazzaro, dal residente savoiardo ad affidarsi ai confederati,
preferiva la via dell’esilio e si portava a Domaso.
Il de Coeuvres, avendo sempre delle truppe del colonnello Salis
come avanguardia, proseguì l’avanzata, impadronendosi il 13 di
Bianzone, il 14 di Teglio, il 15 di Ponte e quindi di Montagna. Di qui
intimò la resa a Sondrio, alle condizioni alle quali aveva capitolato il di
Bagno. Ma la guarnigione si rifiutò, asserragliandosi nel castello della
Masegra. La popolazione civile invece si arrese, mediandosi Prospero
Quadrio, alle condizioni offerte alla popolazione di Tirano.
Mentre quattro pezzi di artiglieria battevano le mura del castello, il
capitano Ruvinella riusciva, scalando le rupi, a penetrare attraverso
una breccia e sorprendeva i difensori che resistevano ancora
accanitamente, benché il luogotenente Riccardo Scotti, che
comandava il presidio, avesse già offerta la resa.
Avrebbe anche il terziere inferiore seguito l’esempio di Tirano e di
Sondrio? Laggiù le condizioni erano molto diverse, ché gli Spagnoli dal
fondo della valle potevano esercitarvi per un lungo raggio la loro
influenza diretta.
Il Pimentel aveva già occupato Riva sulla sponda del lago di
Mezzola. A Chiavenna, col consenso di chi comandava per il Papa,
erano entrate anche quattro compagnie di Alamanni al soldo di
Spagna.
Non era esclusa da quella parte una irruzione nell’Engadina da
parte dell’arciduca, concordata magari coi Cantoni cattolici: si
segnalavano infatti abbondanti leve da lui fatte nel Trentino.
Non conveniva agli alleati ritirarsi addirittura nella Rezia?
Il Vallaresso contribuì a troncare le incertezze del de Couvres
assicurandolo di 2500 fanti e 400 cavalli promessi da parte di Venezia
il 24 dicembre.
Quanto alle minacce austriache poteva essere un freno la
occupazione del Bormiese, ai cui confini l’esercito della Triplice Lega
arrivò all’indomani dell’Epifania.
Saputo del suo avvicinarsi, Giustiniano Monaldini coi suoi quaranta
satelliti sgombrava il fortino a lui affidato, e lo dava alle fiamme.
Anche la torre della Serra era incendiata come ogni altra difesa
esterna.
Tutte le forze pontificie si adunarono nel forte del Feria, donde le
artiglierie aprivano il fuoco, ma guardandosi bene dall’allungare il tiro.
Così le milizie franco-grigioni potevano accedere al borgo il 12 gennaio
1625, portandovi i loro cannoni; la resistenza del forte durava più
simulata che reale: guerra ad uso di commedia!
Il 18 gli «eroici» difensori aderivano alla preconizzata resa, paghi
dell’onore delle armi. Due compagnie di Vallesiani agli ordini del Du
Lande, fatto governatore del forte, ne presero subito il posto; e le
truppe, non più necessarie lassù, piegarono verso Tirano.
Dispacci regi sollecitavano il de Coeuvres a più rapide azioni. Il
generale Harcourt gli avrebbe dato mano dalla Valle del Reno e dalla
Mesolcina; Venezia disponeva di duemilacinquecento fanti agli ordini
del colonnello Pietro Midlander e quattrocento cavalli agli ordini del
commissario Alfonso Antonini.
Lieto di quei non sudati allori il de Coeuvres, ricevuti confortanti
elogi di Francia e promesse di aiuti, ritornò a Tirano, deciso ormai a
portare in fondo l’intrapresa campagna. Pensava ora di attaccare dalla
valle della Mera, contro la quale sin dal dicembre avrebbe voluto
opporre un altro forte, ostacolato purtroppo dalla penuria di mezzi
finanziari. Ora, temendo il pericolo di assalti arciducali, dava ordine al
generale Harcourt di avviare truppe ed artiglieria verso quel settore;
pensava anche a mettere in assetto la torre di Piattamala e il castello
di Tirano.
Mentre pendeva sulla Valtellina la minaccia delle armi era forza che
tacessero le autorità civili. Il governo della valle aveva trasportato la
sua sede nelle Tre Pievi. Là non era solo il Robustelli, ma anche gli altri
maggiorenti valtellinesi che continuavano ad agitarsi perché i
potentati stranieri muovessero contro gli occupatori.
Sino dalla metà di gennaio erano incominciate a correre voci che
nuovi eventi stessero per mutare lo stato di Valtellina. Si diceva da
qualcuno (ma il signor di Bethune lo smentiva) che il pontefice,
d’intesa col governatore di Milano, in seguito alle rimostranze da
questi fatte al commissario pontificio Gianfrancesco Sacchetti sul
comportamento dei Francesi, avrebbe avuto dalla Spagna 6000 fanti e
600 cavalli per occupare la valle.
Il Paribelli, residente valtellinese a Roma, più prudentemente si
limitava a prevedere accordi assicuranti la fede cattolica, per il che
sconsigliava Azzo Besta e gli altri suoi amici ad invischiarsi in negoziati
«svantaggiosi» con i Grigioni.
Frattanto il de Coeuvres, preoccupato dei maneggi dei fuorusciti,
cercava di far pressione su coloro che reggevano i comuni, perché sotto
minaccia di perpetuo bando e di confisca richiamassero gli assenti. Col
pretesto di provvedere all’indennità, alla quiete e sicurezza del paese
Pietro Grana, luogotenente del podestà di Tirano, con un editto appeso
alla ringhiera del palazzo comunale ed alle case degli assenti intimava
tali sanzioni, invitandoli a comparire entro quindici giorni.
Così certo fecero i luogotenenti delle altre regioni. A Morbegno
furono da queste misure colpiti Annibale Filipponi, Francesco Musso,
Francesco Olmi, Pirondino Pirondini e Matteo Schenardi.
Prospero Quadrio che, rimasto in valle, si era conquistato le
simpatie e la fiducia del comandante francese, veniva da questi inviato
a Domaso per persuadere gli esuli volontari al ritorno. Era un’ottima
occasione per riunirsi ai compagni. Di là, ben consapevole dei fatti,
diramava la sua «relazione delle cose succedute in Valtellina dopo la
mossa delle armi del re Cristianissimo e dei principi collegati contro
quelle di Sua Santità», che è una commossa e fremebonda rassegna
delle enormità commesse dagli invasori a danno delle persone, dei
beni, dell’onore e delle credenze di quegli abitanti: assassinii, stupri,
rapine, furti e saccheggi, nei palazzi e nei tuguri, dal piano agli alpeggi,
sicché quasi più nulla restò per sfamarsi né al ricco, né al povero.
Nessun rispetto per le chiese, ingiuriati e malmenati i sacerdoti,
lasciato sfogo allo zelo propagandistico dei protestanti. Lo stesso
marchese de Coeuvres dava il malo esempio asportando a forza dai
templi dipinti di rinomati pittori!
Non mancarono a questa descrizione proteste e rimbrotti di
esagerazione e di calunnia; ma l’artificiosità delle apologie
dell’impresa non tolse l’impressione di veridicità che risulta dalla
documentazione dei reati e dei loro autori.
Il Papa non era un uomo da starsi zitto di fronte ad una azione «che
era grande offesa fatta alle sue armi»: il suo perdono sarebbe stato in
ogni modo condizionato ad una giustificazione ed alla riparazione. Né
la francofilia a lui rinfacciata, qualche volta non senza spirito, dalle
insolenti pasquinate, gli faceva dimenticare l’interesse della chiesa,
che è superiore ad ogni nazionalismo.
Fece dignitosamente le sue rimostranze e anche qualche cosa di più
di una formale protesta: mandò il suo cameriere segreto Bernardino
Nari a chiedere la restituzione dei forti, che naturalmente non fu
concessa col pretesto che il re non poteva lasciar le armi finché non
fosse stato applicato il trattato di Madrid. Richelieu era solo disposto
ad accordare pel Chiavennate un armistizio, qualora le operazioni non
fossero in corso.
Frattanto la spedizione del de Coeuvres aveva continuato la sua
marcia. L’esercito, partito da Tirano il 5 febbraio, giunse nel terziere
inferiore il 10, ripartendosi per Traona, Cino, Mantello, Dubino, Sorico
e Roncaglia.
Il 10 febbraio il capitano Ruinella del reggimento Salis
scaramucciava già nei pressi di Vico e l’occupava sospingendo il
nemico sino a Campo.
I difensori avevano minata la strada e fu necessario riattarla.
Lo Harcourt, sceso dallo Spluga, era giunto a Campodolcino e si
apprestava ad assalire Piuro, difeso da una ottantina di Alemanni,
assoldati dagli Spagnoli.
Gli abitanti erano inclini alla resa. Anche Chiavenna rinunciò alla
resistenza. Le barricate non avevano resistito agli attacchi del
reggimento Brucker: mentre dalla porta piurina si insinuavano i
reggimenti di Schauenstein e di Ulisse Salis, dalla porta milanese si
spinsero innanzi i moschettieri mesolcinesi, guidati da Giovanni
Negrini e da Carlo Stampa. I difensori, retrocedendo, finirono
coll’asserragliarsi nel castello, mentre anche dalle alture di Belmonte
sparavano con un tiro di cannoncini e di spingarde, ma con poco
costrutto.
Il de Coeuvres, incoraggiato da quei successi, fu spinto ad emularli
e volle impadronirsi di Campo.
L’attacco fu affidato a 500 Albanesi, comandaci dal capitano
Gramprè e dal luogotenente Cristoforo Burckardt, appoggiati dai
capitani de Bose e Ruinella. Gli Spagnoli parvero cedere, ma ricevuti
rinforzi da Novate, ricacciarono gli assalitori e il Burckardt, uccidendo
il comandante degli Albanesi. Corsero al riparo il de Bose e il Ruinella,
ma con non grande fortuna; finalmente sovvenendo col rimanente
delle truppe Ulisse Salis e Giampietro Guler, gli alleati penetrarono in
Campo.
Ma l’avidità di bottino distrasse dai voluti afforzamenti coloro che
si credevano ormai vincitori, così che non seppero resistere ad
un’ondata di cavalieri spagnoli, sopraggiunta da Novate al comando
dello stesso Serbelloni, che pure aveva dovuto lasciare il grosso delle
truppe contro l’esercito dello Harcourt, il quale, con mossa combinata,
aveva attaccato Riva. Di conseguenza l’impresa falliva.
Il 17 febbraio avrebbe dovuto incominciare il bimensile armistizio
che il re di Francia aveva promesso al Papa: ne era stata data
comunicazione anche al de Coeuvres; ma questi era troppo impegnato
nell’azione perché potesse ubbidire.
Il pensiero del papa in queste circostanze balza ben chiaro dalla
epistola di Urbano VIII al duca di Feria del 19 febbraio. Lo
preoccupava il pericolo del dilagare dalla chiostra delle Alpi di torrenti
armati di genti elvetiche. Lodava quindi che egli si armasse per
arginarle ed egli stesso si armava. Aveva perciò creato legato e latore
del suo messaggio il nipote cardinale Francesco Barberini perché
girasse le corti richiamandole alle loro responsabilità. Ma al tempo
stesso si rivolgeva al duca di Feria perché la Spagna si astenesse in
Lombardia da pericolose novità. E il duca, rispondendo, affermava
esservi più bisogno di fatti che di parole in un momento in cui
giungevano strazianti i pianti e i gemiti delle popolazioni valtellinesi,
strappate dal seno della chiesa cattolica da nefasti ladroni ed eretici, e
turpemente abbandonate da coloro stessi a cui erano state affidate
dalla chiesa. Ingannate, spogliate, deluse, esse vedevano violata ogni
legge, calpestato ogni pudore, profanata ogni cosa sacra, non
eccettuato lo stesso pane degli angeli. E ciò era accaduto non per
circostanze fortuite, ma per l’insipienza e la leggerezza di chi pur era
stato di ogni cosa avvertito.
Non era più tempo ormai di chiudere gli occhi, ma di vigilare e di
rintuzzare con valida mano le ingiurie.
Si ebbe però per qualche tempo un certo rilasso nei combattimenti.
Avendo ben compreso con chi avesse a lottare, il de Coeuvres, mentre
provvedeva a fronteggiare il nemico, insisteva presso il duca di Savoia
perché procurasse con qualche diversivo a distogliere parte almeno
delle forze spagnole sul suo fronte; e chiedeva nel contempo barche ai
Veneziani e ai Grigioni. Anche dalla Francia invocava sussidi.
Il Serbelloni il 28 febbraio ritirava le guarnigioni di Campo e di
Novate, abbandonando il castello di Codera, per concentrarsi in Riva
e nelle due località fortificate dell’Archetto e di Montagnola. Allora il
de Coeuvres volle che il capitano Ruvinella tentasse subito un colpo di
mano sull’ultima località nominata, ma non ebbe fortuna.
Alla fine del mese gli Spagnoli ricuperavano Novate e subito
cercarono il1 marzo di sloggiarvi i collegati, senza però riuscirvi. Di
conseguenza dovettero provvedere alla erezione di un fortino a
protezione di Campo e delle comunicazioni tra Riva e il forte di Codera.
Più fortunato fu l’Harcourt, che riuscì a condurre a termine l’assedio
di Chiavenna. Stretti dalla fame, i tenaci difensori contro i quali si
erano dapprima provati con ben scarso successo i cannoni di legno
cerchiati di ferro, scoppiati al terzo colpo, e quindi con maggiore
efficacia i più solidi cannoni portati da Poschiavo attraverso
l’Engadina, l’8 marzo iniziavano le pratiche per la capitolazione a
mezzo di Giambattista Naldi e di Piccino Guiglioni.
Vi fu però una battuta d’arresto, in quanto lo Harcourt,
sottilizzando, voleva far distinzione tra i soldati del Papa e gli Spagnoli
che li avevano appoggiati e i civili che si erano rifugiati sotto la loro
protezione nel castello. Alla fine il 12 marzo, fu concessa a tutti la resa
delle armi, con lo scambio dei prigionieri e dei profughi.
Liberato da quella remora, lo Harcourt poteva, affidando alla
custodia di Chiavenna alle compagnie dello Schauenstein, portarsi a
Gordona e Samolaco, donde era agevole battere con le artiglierie la
costiera di Riva.
Il 14 marzo l’armata di Campo tentò un nuovo attacco, sostenendo
qualche reazione da parte del forte di Fuentes. Poi approfittò di una
certa tregua per apprestare, sotto la direzione del veneziano Gramolin,
alcune barche armate di «cappelletti e petriere», destinate a
fronteggiare il barcheggio degli Spagnoli. Tuttavia le ostilità non si
ravvivarono che verso la fine del mese.
Si cercava di ottenere l’allacciamento tra le milizie dell’Harcourt e
quelle del de Coeuvres. Il capitano Ruinella riusciva ad occupare alcuni
ridotti attigui al forte di Codera, mentre Isacco di Saint Simon col
luogotenente Gaspare Uldrich, nella notte fra il 31 marzo e il 1 aprile,
risalendo il monte e ridiscendendo alle spalle del forte, scortato da un
disertore del Serbelloni, se ne impadroniva, non senza inganno,
superando la tarda resistenza del sergente Anton Maria Beccaria. Ed
esso fu raso al suolo.
Essendo stato ucciso il comandante dei papalini ed altri con lui dopo
l’offerta della resa, il de Coeuvres diede libertà agli altri prigionieri,
giudicando di mettersi così in regola con la cortesia guerresca.
Richiamò quindi a sé da Chiavenna le truppe dello Schauenstein e
quelle del Salis. Il congiungimento riuscì benché il Serbelloni, il 13
aprile, ricevuti rinforzi al comando di Goffredo Pappenheim, cercasse
di impedirlo tentando di riprendere Campo e la rocca di Codera.
Le voci di pace, che intanto si diffondevano, più che i Valtellinesi,
tenevano agitati i Grigioni, i quali il 14 aprile lanciavano rinnovati
appelli di guerra, sospettosi di attacchi da parte degli Spagnoli e degli
Austriaci.
L’esercito del de Coeuvres riceveva infatti importanti complementi
da Venezia : 2200 fanti albanesi e 200 cavalli agli ordini del marchese
di Savorgnan e di Bartolomeo Porta, 2200 fanti e contingenti di
cavalieri, pure albanesi, guidati dal conte Nicolò Gualdo, infine dalla
Francia un reggimento di Normandia.
Il 30 aprile vi fu anche un consiglio di guerra alleato, discutendosi
come si potesse nuocere al nemico col muovere in blocco e con
attaccati di forza (10.000 fanti e 600 cavalieri), ma non si ebbe il
coraggio di una azione a fondo, pur non mancando qualche
scaramuccia e qualche scontro fra le flottiglie lacuali e un grosso
attacco contro Novate (31 maggio).
Intanto pareva ai Grigioni di dover prendere in qualche modo
possesso delle terre, che ormai erano certi di vedersi restituite, sicché
dal giugno incominciarono a nominare i loro magistrati a Chiavenna,
a Piuro, a Bormio. A Chiavenna fu commissario Fortunato Sprecher; a
Piuro e a Bormio furono podestà rispettivamente Lucio Scarpatetti e
Giacomo Paul, quest’ultimo engadinese.
A metà giugno si ebbe da parte degli Spagnoli uno scambio di
consegne, motivato anche dalla necessità di aiutare Genova. Fu
richiamato il Serbelloni e la responsabilità delle operazioni di guerra
fu appoggiata al Pappenheim, che si era distinto nelle campagne di
Germania.
Egli provvide a fortificare le Tre Pievi e ai primi di luglio con un
colpo di mano, scacciato il nemico dalle sovrastanti alture, rioccupava
la val Codera, di cui ricostruiva il diroccato castello. Un tentativo di
sorprendere il naviglio della lega a Verceia però non gli riuscì.
Il de Coeuvres era stato apertamente autorizzato ad attaccare anche
i territori milanesi, e forse anche aveva pensato di valersi di questa
facoltà; ma pareva che sui Grigioni tornasse a pesare la minaccia
arciducale. Nel luglio si ritirò a Morbegno col grosso delle truppe e di
qui ne licenziò parecchie.
La calura estiva aveva effetti micidiali sulle truppe alleate, la malaria
mieteva vittime: ne fu colpito lo stesso Luigi Vallaresso e gli si dovette
sostituire Alvise Zorzi. Si lamentavano diserzioni fra i soldati.
Riposavano le armi, ma lavorava la diplomazia. Il Barberini, sin
dalla fine di marzo si era recato in Francia come legato straordinario
per reclamare la restituzione dei forti, sostenendo che i Grigioni
fossero decaduti da ogni diritto sulla Valtellina, Chiavenna e Bormio e,
mentre attendeva istruzioni da Roma, aveva ripreso le discussioni coi
ministri francesi Schomberg e Bassompierre. Proponeva un capitolato
per il quale nessun eretico dovesse più abitare nella valle e fossero
rimessi in vigore i trattati di Lindau e di Milano. Egli riteneva che oltre
l’alleanza coi Francesi i Grigioni potessero assumerne anche altre con
l’Austria e con la Spagna: tuttavia, se su questo punto era possibile
venire ad un accordo, vi era un argomento su cui il papa non poteva
fare delle concessioni: la difesa della religione. E il parere dei teologi
fu infatti che non fosse conveniente né lecito affidare popoli cattolici al
governo dei riformati Grigioni, come pretendeva il re di Francia.
Sostenendo per i Valtellinesi il diritto di praticare liberamente la loro
fede il papa non intendeva favorire né uno né l’altro stato. Ma la corona
francese era troppo impegnata coi Grigioni per aderire a tali richieste;
inoltre il Richelieu era contrariato dalla campagna in favore dei
cattolici valtellinesi, che era un’accusa di anticattolicità contro lui
stesso. Proprio in quel tempo era stata pubblicata l’«admonito ad
Regem Christianissimum», di imprecisato autore, ma in cui si
sospettava un gesuita al seguito del Barberini.
Poiché i ministri francesi non recedevano dai loro punti di vista, il
legato pontificio il 19 agosto lasciava Fontainebleu senza aver nulla
ottenuto e senza neppure attendere l’adunanza presieduta dal re per
averne la conferma.
Al principio di settembre il de Coeuvres si accingeva a ricostruire i
quadri sconvolti; giunsero alcune compagnie condotte dal Ruvinella;
altri sussidi seguivano alla spicciolata. Poteva sperare che a fine mese
potesse disporre di diecimila uomini.
Frattanto non dormiva il Pappenheim, a cui pure erano affluite
truppe fresche, mentre altre si tenevano pronte sulla costa più salubre
del lago. Prevenendo le mosse del nemico, il 21 settembre riprendeva
le azioni facendo una sortita notturna da Riva con un contingente di
cavalieri e fanti. Lo Sprecher non dà rilievo a questo fatto: esso infatti
faceva parte di una ben più complessa manovra che doveva aver inizio
tre giorni dopo. La notte sul 25 settecento Alemanni col cavalier
Perucci e i comandanti Bracciolini, Torre e Giraldini furono avviati per
la val Codera, perché di là passassero nella valle dei Ratti e per impervi
sentieri piombassero alle spalle delle trincee nemiche sorprendendo
Verceia. Contemporaneamente il luogotenente Magni e i capitani
Porro, Tassi, Varesino, appoggiati dalla flottiglia di sedici navi,
comandata dallo spagnolo Martino Bernal, dovevano fronteggiare
Verceia dal lago. Il Pappenheim invece con la compagnia di Pietro
Floriani doveva impugnare Campo. La sortita operata dalla cavalleria
del de Vives unitamente ai fanti del Federici, del Medici, del Brusati
verso Bocca d’Adda, aveva avuto lo scopo diversivo di simulare
l’attacco in quella direzione.
La manovra di aggiramento fu portata a compimento il 28. Il
colonnello Ulisse Salis, sospettandola, si era avanzato con un piccolo
manipolo di soldati entro la val dei Ratti al dosso della Motta, dove
stavano di presidio quaranta cappelletti e venticinque alemanni, fu
perciò tra i primi ad esser travolto, benché, ultimo nella ritirata,
riuscisse a tenere per qualche tempo il sasso Corbè.
I soldati del Pappenheim sloggiavano facilmente i difensori dalla
Montagna e costringevano il nemico ad abbandonare Verceia, campo
e Sasso Corbè. Quelli delle navi si portarono precipitosamente a Riva:
cadde nelle mani degli Spagnoli notevole bottino e fu catturata anche
la Bottiglia del lago.
L’esercito della lega era in ritirata. Per tre giorni ancora il de
Coeuvres rimase al Dosso, poi, ostacolato anche dal maltempo,
lasciando il Salis alla guardia di San Giuliano sopra la Bocca d’Adda,
mosse il campo verso Mantello, Cino, Cercino diretto a Traona. Lo
seguiva passo passo il Pappenheim, che andava ad attestarsi a San
Giovanni di Biaggio, sopra Traona (16). Il Coeuvres si accampava
intorno a Ponte di Ganda. L’impresa era stata facile per gli Spagnoli,
perché i Francesi non si erano neppur curati di tagliare i ponti.
Mentre il Pappenheim sostava attendendo istruzioni dal Feria, i
confederati tennero consiglio di guerra. Se veramente, come scriveva
Alvise Zorzi, il nemico avesse pensato a riconquistare la valle
spingendo le ali lungo le sponde sinistra e destra dell’Adda e facendo
operare la cavalleria sul centro, come era apparso da certe manovre, si
sarebbe trovato ai mali punti. Si decise quindi di agire. Erano
provvidenzialmente giunti freschi contingenti svizzeri e veneziani.
Cominciò bene il Midlander sloggiando il Pappenheim da San
Giovanni (Castelvecchio) il 7 ottobre; la cavalleria e i fanti dello
Harcourt premevano dal piano.
Non senza qualche fortunato tentativo di resistenza il Pappenheim
si ritirò da Cercino e da Mantello per quindi concentrare le sue truppe
a Verceia, Campo, Novate e Riva, rinunciando per il momento ad
accettare battaglia.
Allora gli alleati concepirono un più audace piano. L’Harcourt,
girando pel valico del Bernina con 200 cavalli unitamente alle truppe
del Salis, dello Schawenstein e del Ruvinela, sarebbe tornato a
Chiavenna, e, mentre la fanteria del Maugiron avrebbe attaccato di
fianco la Montagnola e l’Archetto, essi sarebbero sboccati in Val dei
Ratti, prendendo Verceia a tergo, secondo l’esempio dato dallo stesso
Pappenheim; il grosso della truppa poi col de Coeuvres avrebbe girato
il Sasso Corbè.
La manovra era fissata per l’8 novembre: il de Coeuvres mantenne
la parola, ma le nevi avevano impedito all’Harcourt il transito delle
Alpi. Tenendo la via del monte che sovrasta Verceia, il Midlander coi
suoi uomini calò sopra di essa, scaramucciando coi difensori di una
piccola torre, costruita sull’imboccatura della valle; il resto
dell’esercito converse verso Bocca d’Adda. Ma l’artiglieria spagnola,
che levò di mezzo lo stesso generale de la Brussiere, frenò l’impeto
degli aggressori e li costrinse a desistere.
Il 10 novembre il de Coeuvres era costretto a ritirarsi. Per riparare
in qualche modo alla situazione lo Harcourt il 17 novembre, facendo
salire dalla valle di Bodengo il monte Berlinghera, tentò di prendere
l’Archetto alle spalle; ma la tormenta attraversò l’impresa. Il 19
riusciva vano anche l’attacco frontale tentato dal Ruvinella.
L’inverno era crudo e da una parte e dall’altra si facevano numerose
le diserzioni.
I Grigioni intanto, impensieriti dalla piega degli avvenimenti,
insistevano con ambascerie presso il de Coeuvres per ottenere la
restituzione della Valtellina.
Per cercare di smussare i risentimenti causati dall’insuccesso
diplomatico del cardinale Barberini il signor di Bethunes,
ambasciatore di Francia a Roma, aveva proposto al papa di tentare
l’avvicinamento tra Valtellinesi e Grigioni attraverso la mediazione del
de Coeuvres, ed il papa non vi si era rifiutato, pur mostrandosi
inflessibile in materia di religione. Infatti, deciso a far valere il buon
diritto anche con la forza, aveva costituito tenente generale della chiesa
Torquato Conti, duca di Guadagnolo, autorizzandolo a far leva di
dodicimila fanti e millecinquecento cavalieri. Aveva inoltre inviato
presso gli Svizzeri il nunzio Scappi, che, rimproverando loro di aver
aperto il passo alle armi dei francesi, insistesse perché ora lo
negassero.
Il marchese dovette avere probabilmente qualche ordine dalla
Francia. Trovando opportuno il promuovere un accomodamento con
coloro che avrebbero dovuto tornare sudditi dei suoi alleati, egli invitò
pertanto i rappresentanti dei comuni valtellinesi ad una riunione che
avrebbe avuto luogo il 3 novembre. Ma non ebbe da essi l’attesa
acquiescenza. Attraverso un memoriale, presentato da Gian Battista
Marinoni, essi opposero anzitutto una risposta sospensiva,
affermando di non poter discendere ad accordi senza il consenso del
papa.
Il de Coeuvres ebbe allora l’idea non felice di servirsi della maniera
forte, ed intimò l’esilio al Marinoni, minacciando di sanzioni e di
sterminio l’intera valle. Venuti a più prudente consiglio, i Valtellinesi
accettarono di trattare, deputando a ciò Marco Antonio e Giacomo
Venosta, Tomaso Cannobio, Azzo Besta, Gian Antonio Gatti, Antonio
Quadrio Peranda, Andrea Carbonera e Gian Francesco Schenardi:
nomi tutti significativi.
Qualche cosa si ottenne; se non altro, per premiare la buona
volontà, fu condonata la pena inflitta al Marinoni.
Ai primi del dicembre il de Coeuvres per mezzo di Cristoforo Lehner
invitava le Leghe a mandargli deputati in Valtellina per addivenire alla
promessa restituzione: essi furono Rodolfo Marmorera, Wolfango
Montalto, Gaspare Schauenstein, lo stesso Lehner, Fortunato Juvalta,
Gian Vittore Travers, Paolo Walter, Paolo Ulderico Buol.
Ma dai valligiani non ebbero festose accoglienze. Essi non avevano
dimenticato le angherie subite durante il reggimento di quest’ultimo.
La loro venuta diede anzi occasione ad una vera sollevazione di popolo.
Al convegno parteciparono anche il provveditore veneziano Luigi
Zorzi e il residente di Savoia.
I capitoli proposti dal de Coeuvres promettevano la sicurezza del
culto cattolico e la restituzione alle chiese cattoliche dei beni ad esse
tolti. Accordavano ai Valtellinesi di proporre i loro giudici,
riservandone la scelta e la investitura ai Grigioni, ai quali soltanto
sarebbe spettato il diritto di grazia.
Quale compenso alla rinuncia all’esercizio di giurisdizione vi
sarebbe stato un tributo annuo di 25.000 coronati, oltre il consueto
censo.
Un’amnistia generale sarebbe stata accordata per tutte le pene
comminate dal 1620 al 1624, annullate le sentenze pronunciate senza
contraddittorio e tutte quelle pronunciate dai tribunali di Thusis e di
Davos.
Altre clausole concernevano il ragguaglio delle monete e i diritti di
sovranità.
I Valtellinesi chiedevano per conto loro che nella valle fosse
ammessa solo la religione cattolica, che i beni ecclesiastici usurpati dai
protestanti fossero restituiti alle chiese, che i protestanti i qua1i
avessero beni immobili nella provincia vi potessero dimorare
interpolatamente solo per tre mesi, con facoltà di venderli a giusto
prezzo ai Comuni; restando pure ai Grigioni la scelta dei nomi dei
giudici proposti e quindi la nomina da farsi, ma senza aggravio. A
questi era riconosciuto solo il diritto di grazia. In compenso della
amministrazione della giustizia a loro concessa erano disposti a
versare una somma da determinare.
Chiedevano amnistia per tutti i reati avvenuti nei tumulti di guerra
e la revocazione delle condanne fatte a Davos e Thusis. Le nuove
sentenze dovevano essere sempre date col contraddittorio da ambe le
parti.
Si riconoscevano ai Grigioni tutti i diritti spettanti all’alto dominio;
nell’esercizio della regalia monetaria si chiedeva che uguali criteri
fossero osservati di qua e di là dalle Alpi.
Questi erano i patti «così avvantaggiosi, anzi esorbitanti» per i quali
al veneziano Zorzi pareva che «pel loro condimento non restava che il
porre quello che i Grigioni dovessero esser soggetti et dipendenti dai
medesimi Valtellinesi».
I Valtellinesi chiedevano inoltre che i capitoli stessi dovessero
sottoporsi al beneplacito pontificio e si riservavano di modificarli se
non fossero stati approvati dal re di Francia e dai confederati.
I deputati grigioni opposero di non avere autorizzazione a
sottoscrivere altri capitoli che non fossero contenuti nel trattato di
Madrid; i rappresentanti della valle del pari sostennero di non avere
autorizzazione a sottoscrivere nessun accordo di soggezione alle
Leghe.
In codeste condizioni il marchese de Coeuvres non credette di fare
ulteriori insistente. Le ostilità potevano continuare.
Il 9 gennaio 1926 il Pappenheim tentava un colpo di mano su
Chiavenna facendo assalire la trincea del Pizzo con cinquanta cavalli
dell’Afflitto e cinquanta fanti comandati dallo Schmidt. Sventato dallo
Harcourt, il tentativo fu ripetuto due giorni dopo, ma la notte impedì
che l’azione si sviluppasse: quando la mattina il sergente maggiore
Fuchs la riprese gli alleati si erano così rafforzati da respingere
l’attacco ed inseguire l’avversario fino a Samolaco.
Il Pappenhein stesso, contemporaneamente in unione col
Robustelli e con gli altri Valtellinesi, ospiti nelle Tre Pievi, si era mosso
per assaltare la trincea di San Pietro in Valate, tenuta da quelli di Uri
e dagli Zurigani, nonché dagli armigeri del duca di Candale. Ma,
trovando di troppo più numerosi gli avversari, rinunciò all’attacco.
Furono queste le ultime operazioni di guerra di questa campagna.
Non che alla guerra non si pensasse più, ma invece di combattere si
provvedeva alle fortificazioni per le prossime azioni. Mentre si
procedeva ad un ampliamento di quello di Bormio un nuovo forte si
costruiva sotto Tirano, secondo i piani dell’architetto cremonese
Francesco Tenzini e un altro a Traona progettato dall’ingegnere
francese Giovanni Favre. E fu una iniziativa particolarmente gravosa
per i Valtellinesi chiamati a partecipare alle opere ed alle spese.