ELECTRUM * Vol. 24 (2017): 191–212
doi:10.4467/20800909EL.17.027.7509
www.ejournals.eu/electrum
miTrEi dEl viCiNO OriENTE: uNA
facies OriENTAlE dEl CulTO
miSTEriCO di
miThrA
Tommaso Gnoli
Università di Bologna
Abstract: An Oriental facies of the cult of Mithras is testiied in the Roman East from the irst century onward. This article proposes evidence and discusses crucial and peculiar characteristics and
idiosyncrasies in the known mithraea from the Roman Near East, against the generally accepted
theory stating that the cult of Mithras in the East, and particularly in Syria, shared the same features as those known of Mithraism in the West.
Key words: Mithras, Syria, tauroctony, oriental cults, Iranian religion.
Un argomento largamente utilizzato per opporsi alla teoria diffusionista relativa al culto di Mithra in Occidente, propugnata con forza persuasiva da Franz Cumont a partire
dai grandi capolavori che egli dedicò all’argomento tra otto e novecento,1 era costituito
dalla scarsità delle attestazioni del culto misterico di Mithra nell’Oriente romano, in
Siria, Giudea, Arabia, oltre che nella penisola Anatolica. Quando Cumont scriveva le sue
opere, da queste regioni le testimonianze del culto misterico di Mithra erano molto scarse
e per lo più piuttosto tarde. La situazione era quindi caratterizzata da un certo numero
di fonti letterarie, che affermavano un’origine orientale del culto, che avrebbe assunto
la sua forma misterica caratteristica nell’impero Romano in Cilicia già in epoca tardorepubblicana – si pensi soprattutto a Plutarco – e le testimonianze archeologiche che, al
contrario, mostravano una certa abbondanza di monumenti soprattutto nell’Occidente
europeo e in Italia, comunque mai prima degli ultimi decenni del primo secolo dopo
Cristo. Nemmeno l’importante scoperta del mitreo di Dura Europos, avvenuta all’inizio
di Febbraio del 1934, poté essere utilizzata per sostanziare le tesi di Cumont di una derivazione orientale del culto misterico di Mithra.2 La data relativamente tarda del mitreo,
non anteriore alla conquista del sito da parte di Roma sotto gli auspici di Lucio Vero, non
consentiva di utilizzare in questo senso la pur rilevante scoperta, e Cumont non mancò
1
2
Cumont 1896–1899; 19022; 1906.
Cumont 1975, 151–214; cfr. ora Gnoli 2016, 146–164.
192
TOmmASO gNOli
di manifestare la sua contrarietà dopo l’iniziale entusiasmo, dovuto anche al fatto che lo
studioso belga aveva precedentemente scritto al suo collega Mikhail Ivanovič Rostovtzeff che si sarebbe aspettato proprio di rinvenire un tempio dedicato a Mithra nella città
recentemente scoperta.3
Nonostante le sopra evidenziate dificoltà di una documentazione che non la supportava pienamente, la teoria cumontiana non faticò comunque ad imporsi presso un
pubblico che andava molto al di là degli specialisti studiosi di Storia antica, e il culto
misterico di Mithra inì con il rappresentare l’esempio più noto di quel sincretismo religioso che avrebbe caratterizzato il paganesimo romano, prima che la fede di Roma
si polarizzasse sugli assoluti ed esclusivi dogmi cristiani. Dopo tutto i seguaci del dio
vestito alla persiana non si deinivano essi stessi seguaci di una religione persiana, e non
chiamavano Persae alcuni loro compagni, giunti a un certo livello d’iniziazione?
Contemporaneamente alla morte di Cumont, subito dopo la ine del secondo conlitto
mondiale, le tesi dello studioso belga vennero frontalmente aggredite da importanti lavori
di un iranista svedese, Stig Wikander (1908–1983), che smantellò dalle fondamenta le
convinzioni che avevano indotto Cumont a deinire il culto misterico di Mithra come la
forma romana del mazdeismo iranico. L’importanza dei lavori di Wikander e la loro genesi
anche in rapporto alla netta rivalità personale, oltre che scientiica, che l’oppose al suo collega Geo Widengren, meriterebbero un’analisi approfondita, fatto sta che ino a tempi recentissimi i suoi lavori, e in particolare Der arische Männerbund (1938), Feuerpriester in
Kleinasien und Iran (1946), Études sur les mystères de Mithras (1950), divennero gli unici
lavori di iranisti noti e citati dagli studiosi del mondo classico che intendevano affrontare il
problema dei culti misterici di Mithra in modo autonomo rispetto al ‘sistema cumontiano’,
come si può facilmente evincere, ad esempio, dalla inluente sintesi di Martin Persson
Nilsson,4 perfettamente contemporanea all’ultimo lavoro citato di Wikander.
Nel frattempo le cose si erano mosse, e molto, anche tra gli studiosi del mondo romano. Il lavoro più importante e inluente in questo campo fu un articoletto di appena
sei pagine, pubblicato nel 1937 sul Journal of Roman Studies da Arthur Darby Nock, dal
titolo The Genius of Mithraism.
La grande ripresa degli studi mitraici che ha avuto luogo negli anni 1970, grazie
anche alla sponsorizzazione dello scià Reza Pahlavi,5 vide oramai costituiti due precisi
schieramenti, che si potrebbero schematicamente deinire come il vecchio paradigma
ermeneutico, che faceva capo all’autorità incontrastata di Cumont e all’epoca incarnato
soprattutto dal suo allievo Maarten Vermaseren,6 e un nuovo paradigma che, prendendo
le mosse dai lavori di Wikander, si sostanziava nel campo degli studi classici nelle posizioni di Richard Gordon e in quelle ancora più estreme di Roger Beck.7 Naturalmente
neanche il più ‘iranizzante’ tra gli studiosi ilo-cumontiani sarà stato più disposto ormai
a sottoscrivere l’aforisma del mitraismo occidentale come una forma romana di mazdeismo, ma ciò che rimaneva, a vari livelli, della ricostruzione di Cumont, era la derivazione iranica delle idee religiose che stavano dietro una pratica cultuale che, con ogni
3
4
5
6
7
Bongard-Levin et al. 2007, 192–193, n° 104–105; Gnoli 2016, 145–146.
Nilsson 1950, 666 sgg.
Hinnels 1975; Duchesne-Guillemin 1978; Bianchi 1978; Journal of Mithraic Studies.
Vermaseren 1956 (= CIMRM); 1963; 1971; 1974; 1982.
Gordon 1975, 215–248; Beck 1984, 2002–2115; 2000, 145–180; 2004a; 2006.
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
193
evidenza, si era profondamente arricchita e nutrita in ambienti culturali ellenistici, che
avevano nell’Asia Minore, e più speciicamente nell’area compresa tra la Commagene e
Tarso – ricordiamoci la Cilicia di Plutarco (Pomp. 24,7) – il loro focus principale, negli
ultimi decenni dell’evo antico. Dall’altra parte, invece, stavano i fautori di ipotesi in
varia misura opposte: nella forma più estrema non esisterebbe alcun legame tra il Mithra
iranico o vedico e il mitraismo romano; quest’ultimo, piuttosto, è stato un’invenzione del
tutto romana, che sarebbe stata creata da un brillante astrologo attivo nella Roma dell’età
neroniana. Costui si sarebbe servito, per la sua creazione, di un confuso immaginario
iranizzante, che sarebbe stato corrente negli ambienti di corte rafinati e orientaleggianti
del ilelleno imperatore romano. Si è creduto pertanto di poter persino dare un nome
a questo Genius of Mithraism: Ti. Claudius Balbillus.8
A partire dagli anni ’70 il dibattito si è andato via via chiarendo e nello stesso tempo
deinendo, acquisendo però caratteristiche sempre più disciplinari: tra gli orientalisti le
posizioni di Wikander apparvero in da subito estreme e non prive di esagerazioni e inesattezze, mentre tra gli studiosi del mondo romano queste continuano ancora oggi ad
essere utilizzate in via preferenziale perché funzionali al nuovo paradigma.
Tutto quanto è stato scritto inora non è inalizzato a scrivere una spigolatura sulla
storia delle ricerche sul mitraismo nel mondo antico, ma piuttosto per tratteggiare il
quadro all’interno del quale si colloca il dibattito sullo speciico tema del mitraismo in
Siria e più in generale nel Vicino Oriente romano, e cercare di chiarire perché questo
tema sia stato ritenuto così importante da aver indotto Marie-Françoise Boussac e PierreLouis Gatier ad organizzare nel 2000 un convegno internazionale speciicamente dedicato al tema. Gli atti di quel Convegno vennero poi pubblicati sul volume 11 della rivista
Topoi, targato 2001 ma apparso in realtà nel 2003.
Da allora le nostre conoscenze di monumenti mitraici provenienti dal Vicino Oriente
non si sono accresciute. La base documentaria è rimasta la stessa. Ciò che però colpisce
nella presentazione di alcuni di quei nuovi monumenti ritrovati nel corso del ventesimo
secolo un po’ in tutto il Vicino Oriente – certamente in numero enormemente ridotto
rispetto ad altre regioni di conine dell’impero – è il tentativo di far necessariamente
rientrare tali scoperte nel nuovo paradigma ermeneutico sottovalutando tutto quanto in
esse poteva puntare verso direzioni differenti. Gioverà citare ciò che, a questo riguardo,
Lewis Hopfe scrisse a conclusione della sua analisi del Mithraism in Syria in un articolo
comparso nel 1990 in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt:
the form of Mithraism which was practiced between the second and the late third centuries CE in
Syria was not native to that area. Again, from rather meagre evidence, it would appear that the Mithraism of Syria was in style and form identical to that which was practiced in the western portion of
the Empire. The notion that Mithraism was founded in Persia and moved westward toward Rome,
simply cannot be sustained by our study. The iconography of Mithraism in Syria is so similar to that
which appears in the west that it can only have been transported to Syria by Romans.9
È la tesi estrema di R. Merkelbach 1984, solo parzialmente ammorbidita da R. Beck 1998, 115–128,
in partic. 126–127 = Beck 2004a, 31–44, in partic. 43; Beck 2004b = Beck 2004a, 323–329. A mio parere,
nonostante la bibliograia sopra citata, mi sembra che rimanga insostituibile, per l’argomento, il lavoro di
J. Gagé 1968. La questione relativa alla personalità di Balbillus è estremamente intricata, ma è certo che le
speculazioni sul suo ruolo nella ‘creazione’ del mitraismo poggiano su identiicazioni quanto meno incerte.
Su questi professionisti a metà tra sacro e magia è ora uscita la monograia di H. Wendt 2016 (non vidi).
9
Hopfe 1990, 2216–2234, in partic. 2233.
8
194
TOmmASO gNOli
In questo contributo si vuol presentare quanto vi sia di originale in una selezione
(arbitraria) di monumenti mitraici dal Vicino Oriente, sia che tale originalità sia comodamente inquadrabile all’interno del nuovo paradigma, sia che invece presenti elementi
che appaiono molto più a loro agio nell’ambito del vecchio paradigma ermeneutico, senza con questo voler prendere posizione sui tanti problemi che ancora circondano questo
culto misterico, ma semplicemente con l’intento di ampliare la fenomenologia presente
nella documentazione, valorizzando elementi inora sottovalutati.
1. La cronologia
Come si è potuto vedere, al problema della cronologia dei monumenti mitraici del Vicino Oriente è stata data spesso molta importanza, nonostante sia evidente che non possa
comunque mai esser considerato decisivo: l’attestazione datata di un tempio mitraico
non può mai essere indizio sicuro della data d’introduzione del culto, ma solamente un
terminus post quem. Tuttavia uno dei punti sempre messi in rilievo nell’ambito del nuovo paradigma è costituito dalla pretesa recenziorità delle attestazioni orientali rispetto
a quelle occidentali, e romane in particolare. Ora, questo assunto non è vero. Nonostante
la ristrettezza dei dati in nostro possesso – i mitrei noti in tutto il Vicino Oriente sono
appena sette – tre, il mitreo rupestre di Doliche e quello di Caesarea Maritima, in Israele
e quello ipogeo di ̣ūarte, sono molto antichi, e anche un mitreo scoperto in Trachonitis sembra poter datare ai primissimi decenni del secondo secolo, benché i dati che da
quest’ultimo possono trarsi siano da questo punto di vista veramente esigui.
Il complesso cultuale rinvenuto nei pressi di Doliche è senza mezzi termini imbarazzante per il nuovo paradigma. Si tratta di un mitreo doppio ricavato in una grotta naturale,
che è stata appena adattata per poter servire allo scopo.10 L’ingresso è costituito da un
cunicolo piuttosto angusto che immetteva in due camere sotterranee, che sembra siano
state approntate in periodi diversi ma che vennero utilizzate entrambe per un periodo di
tempo abbastanza lungo. Il luogo era stato scoperto già in antico ed è stato fatto oggetto
dello zelo iconoclasta di visitatori cristiani, che hanno sfregiato una delle due tauroctonie
con il segno della croce. Tutti gli arredi e le sculture sono stati accuratamente distrutti,
dai cristiani e dai cercatori di tesori, e quel che oggi è in qualche modo ricostruibile sono
solamente le due tauroctonie che, una per ogni sala cultuale, sono oramai leggibili solamente in negativo, segnate dai colpi degli scalpelli. Da quanto è possibile ricostruire si
tratta di immagini consuete, dove sono presenti tutti i protagonisti abituali di queste affollate iconograie. Lo stato dei rilievi non consente di dire nulla sullo stile delle sculture
e quindi di trarre qualche pur esile indicazione cronologica dai rilievi. Un’iscrizione, che
avrebbe certamente fornito elementi molto utili, posta nell’ingresso tra le due camere
cultuali, è stata così accuratamente abrasa da risultare oggi del tutto illeggibile.
Nonostante l’accurata distruzione del complesso ipogeo, vi sono state ritrovate tre
monete di bronzo. Se non aggiungono molto alle nostre ansie cronologiche i due bronzi
di Elagabalo, ben diverso è il discorso per quanto riguarda un bronzo di Antioco IX,
Schütte-Maischatz – Winter 2001, 149–173; Schütte-Maischatz – Winter 2004; con la recensione molto critica di R.L. Gordon (2007, 602–610).
10
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
195
emesso dalla zecca di Antiochia di Siria tra il 114 e il 112 a.C. La moneta è stata trovata
in buone condizioni, priva dei segni di usura di una prolungatissima circolazione. È evidente che non può esser giunta in quella grotta se non al massimo alla ine del I secolo
a.C. Nulla in quanto resta nelle grotte autorizza a supporre un uso dei locali precedente
a quello testimoniato dalle distrutte tauroctonie. L’esigenza di ipotizzare un impiego
precedente del complesso deriva solamente dalla scarsa integrazione di questa scoperta
all’interno del nuovo paradigma ermeneutico.
Anche il mitreo di Caesarea Maritima è molto antico.11 Anche qui la situazione è
molto complessa e non sembra facile riuscire a determinare con esattezza quando una
piccola parte dei magazzini della rocca erodiana nei pressi del porto della grande colonia
romana venne adibita a mitreo. Sembra tuttavia che aree immediatamente adiacenti al
mitreo siano state rifunzionalizzate in età neroniana, e solo la scarsa adesione di questo
dato al nuovo paradigma ermeneutico induce ad immaginare una datazione per il mitreo
in una data compresa fra Vespasiano e Traiano, secondo la formulazione di Gordon.12
Anche con questa datazione per così dire prudente, il mitreo di Caesarea Maritima si colloca tra le primissime attestazioni del culto misterico di Mithra in tutto il mondo romano.
I dati cronologici desumibili dal mitreo di ̣ūarte sembrano meno decisivi.13 Oggi si
può ragionare solamente sulla fase di metà quarto secolo, ma Michał Gawlikowski ha
potuto rilevare una lunghissima utilizzazione del complesso, la cui utilizzazione potrebbe risalire addirittura alla seconda metà del I secolo d.C. 14
Insomma, dei sette mitrei noti nel Vicino Oriente romano, tre, quello doppio di Doliche, quello di Caesarea, e quello di ̣ūarte, si candidano ad essere tra i più antichi mitrei
inora noti. Uno, Doliche, addirittura sarebbe molto più antico di quanto ammesso dal
nuovo paradigma per la data d’invenzione del culto misterico di Mithra da parte di Balbillo, anzi in una data molto vicina a quella plutarchea per l’introduzione del culto misterico in Cilicia, sulla quale molto si basava il vecchio paradigma.
2. La sintassi della tauroctonia
L’immagine cultuale centrale nel culto misterico di Mithra è la tauroctonia. Mithra è
collocato all’interno di una grotta – quasi sempre rappresentata come un antro naturale –
mentre accoltella sulla spalla un grande toro bianco. La posa in cui è ritratto il dio è sem11
Bull 1978, 75–89; Blakely 1987.
Gordon 2001a, 77–136, in partic. 81: “Une pièce néronienne trouvée dans la phase céramique 4
indiquerait, jointe à d’autres indications de datation absolue, que le magasin fut réaménagé en temple
au plus tard sous Domitien. Le mithreum appartiendrait alors au petit groupe de temples et inscriptions,
échelonnés de l’aire danubienne jusqu’à Rome ... qu’on date de l’époque lavienne-trajanienne (80–120
d.n.è.).” Non sfuggerà la forzatura presente in questa affermazione: i dati archeologici sembrerebbero
rinviare a una datazione “au plus tard sous Domitien”, cioè ben addentro al primo secolo, non al secondo.
12
13
Gawlikowski 2000, 161–171; Parandowska 2002, 295–299; Majcherek 2003, 325–334; Chabiera –
Parandowska – Troclimowicz 2004, 321–326; Gawlikowski 2007, 337–361.
14
Gli strati di intonaco dipinto certamente individuabili sono almeno cinque nella cella: Gawlikowski
2007, in partic. 342. La lunghissima utilizzazione del mitreo è però testimoniata con certezza dal vasellame
a da altri ritrovamenti: Gawlikowski 2014, 109–117, in partic. 111: “the Mithraic use of the cave at Hawarte
would be at least contemporary to the earliest Italian monuments of this cult.”
196
TOmmASO gNOli
pre la stessa, con piccole varianti che non sembrano signiicative: Mithra è disposto sul
groppone dell’animale ormai inginocchiato ventre a terra, mentre con la sinistra solleva
la testa del toro afferrandolo per le narici (molto più raramente per le corna), con la destra
affonda il coltello nel collo dell’animale. La gamba destra del dio è distesa all’indietro e
il più delle volte immobilizza la zampa posteriore destra dell’animale fermandola a terra,
mentre la gamba sinistra è piegata all’altezza della spalla dell’animale, a poca distanza
dal punto della ferita. La testa del dio è (quasi) sempre girata all’indietro, guardando nella direzione esattamente contraria rispetto al sacriicio, dalla coda dell’animale morente
spesso germogliano spighe di grano. Accanto a questa rappresentazione, che è il fulcro
centrale dei misteri, vi sono una pletora di personaggi secondari, che agiscono e assistono in vario modo all’azione cruenta, e compaiono secondo una sintassi che conosce
poche variazioni signiicative.
La scena che, sulla base del numero delle testimonianze conservate, si potrebbe considerare l’archetipo sul quale si sono poi create tutte le numerose eccezioni, prevede
che il dio Mithra sia vestito alla persiana, con pantaloni, cintura, foderi di pugnali (per
lo più due), mantello e berretto frigio. Laddove la scena è conservata in pittura i colori
più comunemente attestati sono un abito di Mithra sul rosso, il mantello sempre blu. Sul
mantello molto spesso sono rappresentati sette corpi celesti. Ad interagire direttamente
con l’uccisione del toro, all’interno della grotta, sono rafigurati un corvo, che svolazza
in alto, vicino alla testa del dio, mentre in basso, sul pavimento della grotta, accanto al
corpo della bestia agonizzante, sono rappresentati uno scorpione attaccato ai testicoli
del toro, un cane e un serpente che leccano la ferita sanguinante. Talvolta il serpente
è rappresentato attorcigliato a un cratere. Talvolta il cratere è abbandonato a se stesso,
non di rado è assente. Qualche volta si vede anche un leone, sempre in posizione molto
secondaria, sullo sfondo.
Al di fuori della grotta, normalmente a destra e a sinistra della scena e spesso con la
funzione compositiva di delimitare con la loro presenza lo spazio sacro della tauroctonia, vi sono i due dadofori rappresentati in un ordine che è molto dificile stabilire con
certezza, se originariamente a destra o a sinistra: Cautes e Cautopates. Sempre al di fuori
della grotta vi sono inine, agli angoli superiori dello Urtypus,15 Sol e Luna, rappresentati per lo più come busti all’interno di due medaglioni e per i quali pure si ha la stessa
capricciosa alternanza in quanto a posizione così come avviene per i due dadofori. Le
aggiunte più comuni rispetto a questa rafigurazione, che segnalo perché a mio parere
potrebbero essere piuttosto antiche, ma che non mi sembra possibile abbiano fatto parte
dell’archetipo, sono:
1) la presenza dello zodiaco sull’arco che delimita la volta della grotta;
2) la presenza di una igura barbata con kalathos in posizione centrale, nel bel mezzo
dello zodiaco;
3) la presenza di sette stelle oppure di sette cilindri (quasi unanimemente intesi come
altari) allineati in varia posizione, ma sempre all’esterno della grotta. Quando si tratta
di sette stelle, la posizione di questa successione è sempre in alto, al centro, fuori
Dato l’alto numero di varianti esistenti tra le varie tauroctonie è molto dificile determinare con precisione lo Urtypus. Ritengo siano ancora molto utile le analisi tipologiche condotte sulla scena da L.A. Campbell (1968). Le modiiche che da allora si siano rese necessarie sulla base soprattutto di nuovi ritrovamenti
non mi sembra che tolgano validità al metodo di catalogazione delle varianti della tauroctonia.
15
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
197
dalla grotta e in posizione simmetrica rispetto alla composizione. Mi sembra piuttosto evidente che questi elementi, benché piuttosto comuni, non possano essere intesi
come elementi originali, bensì delle esplicitazioni del senso recondito di questa rappresentazione.
È stato mostrato, a mio parere in modo convincente,16 che tale senso recondito fosse
una mappa astrale, e che proprio a partire da questa mappa si sia costituita questa rafigurazione complicatissima e affascinante, che quindi viene ripetuta senza eccessive differenze in tutti i luoghi dell’impero romano dove è attestato il culto misterico di Mithra.
Le tauroctonie siriane non contravvengono a questa sintassi generale, imposta da
un elemento con ogni evidenza centrale nel culto del dio persiano e ovunque ripetuta,
ma si segnalano per una particolarità compositiva che è opportuno rilevare. In una percentuale consistente rispetto al totale delle tauroctonie conosciute nel Vicino Oriente si
ha l’inserzione, all’interno dello spazio mistico dove ha luogo il sacriicio, di elementi
normalmente relegati all’esterno della rappresentazione principale. Non è raro, infatti,
che accanto alla scena centrale dell’uccisione del toro siano rappresentate anche altre
scene relative a un mito che doveva essere certamente molto complesso e che risulta
oggi dificilissimo da ricostruire.17 Queste scene, dificilmente del tutto ripetitive ma,
appunto, ricche di variazioni anche importanti, sono però quasi sempre relegate al di
fuori di quell’area delimitata dalla volta della grotta, spesso relegate in pannelli disposti
sopra, sotto o ai lati della scena centrale, che risulta comunque nettamente delimitata
nello spazio e distinta.
Ora, nella maggior parte delle tauroctonie dal Vicino Oriente questo spazio nel quale
avviene la tauroctonia e che ammette la presenza solamente delle igure che abbiamo
già elencato, risulta ingombro di igure e di scene che, quando hanno riscontri, sono
normalmente all’esterno della grotta. Pur lasciando da parte la tauroctonia da Arsha-waQibar, fuori da qualsiasi standard per molti motivi (CIMRM 71),18 anche la tauroctonia
proveniente da Sidone e oggi a Parigi (CIMRM 75, ig. 1) è caratterizzata da una sintassi
che non può non colpire lo spettatore esperto di arte mitraica: tutto attorno alla scena del
sacriicio, molto ben equilibrata, stanno, senza alcun elemento di campitura rappresentato da grotte o altro, tutti i segni dello zodiaco, ai quali si frammischiano ben sei tondi
con busti, quattro in alto e due in basso. I medaglioni posti ai quattro angoli rappresentano le stagioni (da in basso a sinistra inverno, primavera, estate, autunno), mentre i due
Gnoli 2010, 77–86.
Non è possibile fornire qui indicazioni anche solo generali sui numerosissimi tentativi di ricostruzione
della mitologia mitraica. La loro elencazione coinciderebbe sostanzialmente con la bibliograia relativa al mitraismo stesso. Segnalo comunque l’ultimo tentativo del quale sono a conoscenza, che si raccomanda quanto
meno per accuratezza e completezza: Mastrocinque 2017. Eppure, recentemente, una nuova linea interpretativa del culto di Mithra si sta affermando che tenderebbe a negare l’esistenza stessa di un mito mitraico:
Martin 2005, 187–217; Beck 2014, 72–89. I problemi sollevati da questi e altri studi sulla medesima falsariga
esulano dallo scopo di queste pagine. Spero di potermene occupare altrove.
18
Non sono mai riuscito a trovare un’immagine dettagliata di questo pezzo pur così importante.
L’immagine pubblicata da Vermaseren in CIMRM riproduce la cattiva fotograia pubblicata già da F. Cumont
(1933, 381–395) e non consente di individuare eventuali dettagli presenti in questo monumento, che sembra
comunque estremamente rozzo, inciso su un calcare locale di scarsa qualità da scultori inesperti. Il pezzo
venne ritrovato da un militare francese nel 1932 e pubblicato fuori contesto nel citato studio di Cumont. Recentemente P.-L. Gatier (2001, 175–182), descrive il sito e lo contestualizza, ma con speciale riferimento ad
un altro reperto, che non ha connessioni con il culto di Mithra.
16
17
198
TOmmASO gNOli
medaglioni più centrali in alto rappresentano Sol (a destra) e Luna (a sinistra). Non c’è
nulla in questa rafigurazione di straordinario se non la mancanza di qualsiasi contesto
naturalistico, che crea un obiettivo disordine generale della composizione, che risulta
così proiettata in un mondo immateriale e astratto, popolato da segni astrali, di indubbia
suggestione. L’unico altro esempio che conosco che fa ricorso a un così alto grado di
astrazione è una tauroctonia proveniente dal mitreo di Walbrook, Londra, e oggi conservata al Museum of London (CIMRM 810). Da notare, inine, l’assenza dei dadofori,
che invece nella rozza immagine da Arsha-wa-Qibar avevano un ruolo importantissimo
nel campire l’immagine stessa e risultavano di dimensioni addirittura molto maggiori
rispetto a quelle dello stesso Mithra.
Fig. 1: Tauroctonia da Sidone. Parigi, Louvre (CIMRM 75).
Le intrusioni sono tuttavia molto più signiicative in altre due tauroctonie siriane. Nel
rilievo recentemente donato da un ricco privato statunitense al Museo archeologico di
Gerusalemme e pubblicato per la prima volta da Albert De Jong e quindi nuovamente
commentato da Gordon, la sintassi compositiva è manifestamente diversa, direi unica
per molti aspetti [ig. 2].19 È come se l’ansia di includere scene secondarie del mito mitraico abbia prevalso sullo spazio a disposizione, sconinando all’interno della grotta del
sacriicio. Questo sconinamento ha prodotto questa sorta di strani fumetti, a destra, ma
soprattutto a sinistra della scena del sacriicio. Se tuttavia partiamo da ciò che circonda
la grotta si vede una curiosissima inversione dei dadofori rispetto alle scene secondarie.
Quando sono presenti entrambi – dadofori e scene laterali – normalmente i dadofori sono
19
De Jong 1997, 53–63; Gordon 2001b.
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
199
Fig. 2: Tauroctonia da Gerusalemme (da R.L. Gordon, A new Mithraic relief in the Israel Museum,
Jerusalem, a summary of A. de Jong, A New Syrian Mithraic Tauroctony, Bulletin of the Asia Institute
n. s. 11 (1997 [2000]), «Electronic Journal of Mithraic Studies» 2, 2001).
sempre o all’interno della grotta (sono infatti tra le igure normalmente ammesse), oppure se ne stanno ai lati, spesso fungendo nella sintassi compositiva da pilastri sui quali
poggia la volta della grotta. Qui, al contrario, sono collocati in alto, Cautes a sinistra
Cautopates a destra, simmetricamente afiancati da Sol e Luna, questi ultimi in posizione
acroteriale rispetto al mistico spelaeum dove si svolge il dramma cosmico. I dadofori
di questa complessa composizione hanno caratteristiche rispettivamente uniche o comunque molto rare: non hanno, come al solito, le gambe incrociate e sono dotati di
lunghe lance, che ne fanno quasi degli ‘dei armati’, stando alla felice deinizione di Henri
Seyrig per caratterizzare una variegata categoria di divinità, spesso riscontrate nella Siria
centro-settentrionale.20 In ambito mitraico l’unico confronto è, ancora una volta, con
la rozza rafigurazione di Arsha-wa-Qibar. Nella posizione normalmente occupata dai
dadofori, ai lati della grotta, si trovano quattro scene laterali, due per parte, più o meno
simmetriche da un punto di vista compositivo, quelle mediane avendo molto più spazio
in altezza rispetto a quelle inferiori. Due di queste scene sono prive di confronti, mentre un’altra, quella del tauroforo, presenta caratteristiche tali da differenziarla in modo
notevole da tutti gli altri esempi noti. Tuttavia, parlando di sintassi compositiva, l’aspetto
20
Seyrig 1970. 77–112; 1971, 67–70.
200
TOmmASO gNOli
più stupefacente è costituito dalla presenza di tre scene, ancora una volta tutte molto
rare. Procedendo in senso orario e partendo da sinistra in basso, si vede un personaggio
nudo e grassoccio, con il berretto frigio, con le braccia alzate verso una volta costituita
da tralci e pampini d’uva. Si tratta senz’altro di una scena dell’infanzia di Mithra, che
normalmente viene rappresentato uscente dalle rocce.21 Sopra si vede un personaggio
forse ancora nudo e con berretto frigio, accovacciato su una roccia, le braccia appoggiate sulle cosce, immagine anch’essa unica nell’iconograia mitraica. Al di sopra lo
stesso personaggio, caratterizzato dal berretto frigio, è rappresentato disteso su una kline
in un atteggiamento mille volte riscontrato, ad esempio, su tanti sarcofagi sparsi nel
mondo mediterraneo. Tiene qualche oggetto di dificilissima identiicazione in entrambe
le mani, e questa volta è certamente vestito alla persiana. Dall’altra parte, inine, Mithra,
vestito alla persiana e con berretto frigio, sembra aiutare ad alzarsi un personaggio inginocchiato in segno di adorazione. In altre scene analoghe questo personaggio è Sol, qui
si deve tuttavia notare come anche il personaggio inginocchiato sembrerebbe indossare
un berretto frigio, anziché il più comune disco radiato.
Questa soluzione compositiva, d’inserire all’interno dello spelaeum scene che, quando s’incontrano, sono limitate al contorno della scena, è una soluzione rarissima. Ne
conosco tre soli esempi, che non hanno nulla a che fare con la Siria.
Il primo proviene dalla Pannonia Inferiore, ed è una ben nota piccola lastrina di marmo, (appena 21 x 13–15 cm: CIMRM 1740), dove le dimensioni impediscono una sicura
lettura delle scene, che appaiono appena abbozzate e prive di dettagli. Nonostante le
dimensioni, sono presenti una scena nel registro superiore, e tre scene abbastanza ben
riconoscibili nel registro inferiore. Ma quel che più c’interessa è quel che si vede sullo
sfondo della tauroctonia: alle spalle di Cautopates un busto irriconoscibile, alle spalle
di Cautes, in alto a destra due personaggi. È possibile forse individuare nei due busti
i soliti Sol e Luna, mentre la posa del terzo, con le braccia alzate, sembrerebbe rinviare
all’immagine della nascita di Mithra, come si riscontrava in basso a sinistra nella tauroctonia di Gerusalemme. Un altro rilievo, questa volta da Vienna e lì conservato (CIMRM
1650), lascia intravvedere, sullo sfondo della grotta, la scena del transitus, con Mithra
che procede verso destra.22
La somiglianza con la soluzione compositiva nella tauroctonia di Gerusalemme è ancora
maggiore nell’altro esempio a me noto. Si tratta di una celebre tauroctonia proveniente da
Otricoli e oggi conservata ai Musei Vaticani (CIMRM 556, ig. 159).23 Qui, fatte le dovute
differenze, la scena è invasa dai due dadofori, cosa non grave, uno dei quali, Cautopates,
questa volta a sinistra, è rappresentato molto piccolo per fare spazio, alle sue spalle, alla
scena di Mithra tauroforo (si noti in questa rappresentazione, rispetto a quella precedente, il
senso da sinistra a destra anziché il contrario, inoltre Mithra è vestito anziché nudo). In alto
a sinistra, però, è presente l’immagine di un giovane nudo che sembra uscire da una pietra.
La igura così com’è è frutto di un pesante restauro, per cui non sono da prendere in considerazione l’aspetto della testa, la mancanza di berretto frigio né la posizione delle braccia.
Neri 2000, 227–245; Heyner 2013, 219–229.
Cfr. ora Gordon 2004, 259–283, in partic. 266, nota 48 (ad CIMRM 1740); Sicoe 2013, 285–302, in
partic. 300 (ad CIMRM 1650).
23
Ringrazio la collega Giovanna Bastianelli per avermi indicato la letteratura rilevante sulla provenienza
di questo reperto: Pietrangeli 1942, 47–104, in partic. 52, 70, 89 e Pietrangeli 1978.
21
22
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
201
Tuttavia l’intrusione più clamorosa all’interno del campo della grotta non è costituita
dalle quattro scenette mitologiche presenti nello spelaeum rafigurato nella tauroctonia
di Gerusalemme, bensì da quanto si può vedere all’interno della spelonca rafigurata
nella tauroctonia maggiore di Dura Europos [ig. 3]. Qui, infatti, un buon terzo della
scena risulta occupato da ben cinque personaggi che non hanno alcun riscontro in nessun
altro monumento mitraico. Possiamo esser certi dell’identità di uno soltanto di questi.
Fig. 3: Tauroctonia maggiore da Dura Europos (CIMRM 40) (Yale Art Gallery).
Infatti sulla base della scena vi è un’iscrizione greca su due righe che chiarisce
data e dedicante: “Zenobios detto anche Eiaebas, iglio di Iaribol, strategos degli arcieri, ha fatto (questo rilievo) per il dio Mithra nell’anno 482 (dell’èra Seleucide =
170–1 d.C.).” La scena è inquadrata in un ambiente colonnato a volta. Lo spazio delimitato dall’ambiente colonnato è per circa un terzo occupato da questo pubblico del
tutto straordinario in scene analoghe. Dagli angoli superiori, esterni alla volta, due personaggi, certamente Luna e Sol, assistono alla scena cruenta. La volta è decorata con
i dodici segni dello zodiaco interrotti al centro dal busto di un personaggio barbato
con kalathos. Mithra compie il gesto cruento nella consueta posizione, ma l’imperizia
dello scultore fa sì che la gamba sinistra del dio, piegata nel gesto di schiacciare a terra
l’animale morente, non sembri ottenere il suo scopo. Il braccio sinistro, che pugnala
l’animale, è troppo lungo, ma, essendo piegato, giunge ugualmente sulla spalla del toro,
il braccio destro, come al solito, solleva la tesa dell’animale, afferrandone saldamente le
narici. Il toro è rappresentato con le zampe anteriori, l’una piegata col ginocchio a terra,
l’altra tesa in avanti. Tra il ginocchio e lo zoccolo della zampa sinistra sono rappresentate sette piccole sfere allineate. Gli altri ovvi spettatori della tauroctonia, il corvo,
il cane, il serpente, sono tutti rappresentati, ma in proporzioni veramente minuscole.
202
TOmmASO gNOli
È assente lo scorpione, qui come anche nella tauroctonia più piccola ritrovata accanto
e, forse, in quella di Gerusalemme.
Per quanto riguarda i cinque personaggi che assistono alla scena, essi sono quattro disposti su due ordini, piccoli sotto, più grandi sopra, mentre un personaggio di
dimensioni molto maggiori, togato e con lorica, è in piedi a sinistra. Delle didascalie in
greco consentono d’identiicare tre di questi personaggi. Quello più esterno, più grande
e rappresentato mentre pone un’offerta su un braciere, è il committente del rilievo,
cioè quel Zenobios strategos degli arcieri che si è già incontrato nell’iscrizione. Per
quanto riguarda però la descrizione di questo pubblico di cinque persone preferisco citare la descrizione di Cumont, tradotta da Francis e ripresa verbalmente da Vermaseren
(CIMRM 40):
Zenobius, the father, is pouring a libation on the altar. His two sons are standing on a ledge to his
right and, according to the rule of isocephaly, they are represented as smaller than he. One of them,
named Barnaadath, wears a simple tunic and raises his right hand with his palm turned forwards,
his thumb extended, and his ingers doubled into his palm. The other seems to be making the same
familiar gesture of adoration. He is dressed in a military costume and wears the paludamentum; his
left hand rests on his sword, which hangs from a belt at his waist. Like his grandfather’s, his name
is Iariboles. Beneath Barnaadath and Iariboles we see two small kneeling igures. At irst sight they
might be taken to represent Atlantes supporting the ledge, but it is more likely that they are the
grandchildren of Zenobius, placed below their parents.24
Si avrebbero dunque qui tre generazioni di mitraisti! Nonno, igli e nipoti sarebbero
rappresentati mentre assistono a questa scena centrale del culto mitraico. Si deve tuttavia rilevare come i rapporti esistenti tra questi personaggi siano tutt’altro che sicuri
e che sia arduo pensare a una rafigurazione familiare come questa in un contesto, quello
militare, dove ancora non erano apertamente consentite relazioni familiari per i soldati
in attività – anche se lo statuto giuridico dei militari inquadrati in unità ausiliarie appare
meno deinita di quella relativa ai legionari. Mi sembra pertanto intrinsecamente più
plausibile l’ipotesi avanzata da Lucinda Dirven, che ipotizzava di vedere, nei tre registri del pubblico di questa tauroctonia, tre diversi gradi d’iniziati, ovvero un gruppo di
commilitoni che condividevano la loro esperienza misterica all’interno della medesima
conventicola25. Accanto al soggetto più importante, lo Zenobios strategos, e, ciò che più
conta, committente della scultura, vi sarebbero quindi due personaggi – Iariboles e Barnaadath – che avranno avuto un ruolo di qualche rilievo nell’ambito di questa comunità
religiosa e che non necessariamente dovevano essere legati a Zenobios da un legame
familiare. Al di sotto di questi, vestiti con un abbigliamento apparentemente identico, vi
sono due personaggi più piccoli, inginocchiati. Si tratterebbe, secondo questa lettura, di
iniziati con un grado talmente basso da non meritare l’onore di avere una didascalia che
li rendesse individualmente riconoscibili. Erano forse reclute che ancora dovevano sottoporsi a un qualche rituale d’iniziazione? Oppure erano iniziati del grado più inimo, dei
24
Cumont 1975, 167.
Dirven 1999, 271: “family ties were of little importance in Mithraic communities. Instead, worshippers of Mithras were a brotherhood of men who frequently shared the same profession. I therefore propose to
identify the four igures as members of the Mithraic community.” Per avvalorare ulteriormente questo rilievo
basterà rilevare come in genere siano veramente esigue le attestazioni di legami familiari all’interno delle
comunità mitraiche: cfr. Clauss 1992; Gordon 1994, 459–474.
25
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
203
‘corvi’ nel gergo mitraico? È naturalmente possibile, e forse addirittura probabile. Fatto
sta che Cumont li aveva paragonati a due Atlanti, che sorreggevano, con la loro presenza,
il piano sul quale poggiavano i personaggi superiori.
Un elemento di dificoltà nella ricostruzione proposta da Dirven è rappresentato
dall’onomastica dei due personaggi del registro superiore, Iariboles e Barnaadath. Le
dificoltà non riguardano certo il primo dei due, che porta un nome teoforico molto bene
attestato a Palmira. Un dio Yarhibôl era lì venerato con un tempio ed era associato alla
sorgente Efqa, una vena di acqua sulfurea attorno alla quale si aggregò il nucleo originale
della grande città carovaniera. Conseguentemente molti palmireni portavano quel nome;
tuttavia il secondo nome, Barnaadath è, in questa forma, un hapax.26
Józef Milik spiegava il nome con una etimologia semitica: Barnahadat “notre ils
est neuf”.27 Più recentemente invece Dirven suggeriva un errore per Barhadad, ‘dono
di Hadad’.28 Sono sempre poco incline a correggere i testi antichi, se non è proprio necessario, tuttavia si deve quanto meno tenere in considerazione una possibile etimologia
iranica, non semitica, del nome: in questo caso il composto sarebbe da Farnaadath
‘dono dello splendore/gloria’ o qualcosa di simile. Il nostro Barnadat si andrebbe pertanto ad aggiungere ai tanti Farnace, Farnabazo etc. che ben conosciamo. In un ambiente fortemente semitico com’era quello di Dura Europos il suo nome si sarebbe pertanto ‘semitizzato’, per così dire, mutando l’aspirata iniziale in un modo perfettamente
analogo a quanto è testimoniato da un passo delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe (11, 207), molto opportunamente ricordato da Ferdinand Justi nel suo Iranisches
Namenbuch,29 dove s’incontra un Βαρνάβαζος aggiunto da Giuseppe o dalla sua fonte
alla parafrasi di Esther II, 21.30 In entrambi i casi, in ambiente semitico, la radice iranica
Farn ‘luce, splendore’ sarebbe stata modiicata in Bar‘iglio’, sufisso comunissimo
nell’onomastica semitica. I due personaggi anonimi della tauroctonia maggiore di Dura
Europos portano quindi nomi di possibile derivazione uno semitica, l’altro iranica – ma
del quale ultimo si era persa coscienza dell’iranicità, mutando appunto l’iranico farn in
un molto più semitico bar. Ma c’è di più: scrivendo la sua sintesi – è vero ormai molto
invecchiata – su La religion des Palmyreniens, James Février iniziava in modo sconsolato il paragrafo dedicato a Yarhibôl: “Le nom même de Yarhibôl sembre un déi à la
science étymologique”.31 Nonostante la prima parte del suo nome richiami infatti la luna
per via di una radice YṚ che rinvia sia alla Luna che al mese lunare, il dio palmireno
è senz’altro una divinità solare, Jean Starcky concludeva quindi le sue considerazioni al
riguardo cinquant’anni dopo in modo non meno desolato “On n’a pas trouvé de solution
satisfaisant à cette énigme”!32 Pur non potendo risolvere qui la questione, gioverà rilevare in conclusione come i due personaggi stanti, caratterizzati da un abbigliamento un
26
Sull’onomastica palmirena è molto utile dal punto di vista metodologico Yon 2015, 11–18, che comunque, incentrato soprattutto su Zeugma, non tratta il nostro Barnaadath.
27
Milik 1972, 336–337.
28
Dirven 1999, 266–267.
29
Justi 1895, s.v.
30
Sul passo cfr. Cassel 1888, 80, 303, 327–328; il problema del rapporto tra Giuseppe e le sue fonti, in
particolare la LXX, è tema al quale non si può nemmeno accennare qui. Mi limito a segnalare Schürer 1973,
in partic. vol. III.1, 506; vol. III.2, 718–722; Cohen 1979, in partic. 36.
31
Février 1931, 81.
32
Starcky – Gawlikowski 1985, 95.
204
TOmmASO gNOli
po’ diverso (Iaribol è armato, Barnaadath no), portano due nomi con radici che rinviano
uno alla luna YṚ l’altro alla luce FARN, e che nelle tauroctonie di Dura mancano
i dadofori.
Il mitreo siriano scoperto più di recente, nel 1997, getta forse una nuova luce su tutta
una serie di personaggi minori, dificilmente inquadrabili all’interno dell’immaginario
mitraico così come ci si sforza di ricostruire, e che vengono spesso deiniti, appunto,
Atlanti, perché spesso rappresentati mentre sorreggono grandi sfere, oppure ripiani etc.
Intendo lo straordinario mitreo rinvenuto sotto la grande chiesa di ̣ūarte, nel territorio
di Apamea, nella Siria settentrionale, il luogo che ha rappresentato l’impegno di una vita
dei coniugi Pierre e Maria Teresa Canivet.33 Mi sia consentito su questo punto richiamare l’attenzione su un dato. Il sito di Hūarte era notissimo agli archeologi,34 ed era
stato oggetto di una lunga serie di campagne di scavo durate quasi vent’anni, esattamente sull’ediicio che obliterava il nostro mitreo. Se all’improvviso e inaspettatamente
una volta non avesse ceduto sotto il peso di piogge straordinarie che si sono abbattute
nell’area nell’inverno 1996–1997 il mitreo non sarebbe mai stato scoperto.
Sia come sia, la caratteristica straordinaria di questo mitreo risiede nelle meravigliose pitture che adornavano gran parte delle pareti del complesso ipogeo.35 Purtroppo la
costruzione della soprastante chiesa cristiana ha comportato la distruzione completa di
buona parte dell’alzato, e poche sono le immagini ancora leggibili nelle parti superiori,
nessuna completa. Particolarmente lacunose sono le immagini che adornavano una parete dell’ingresso e i due pilastri della porta che immetteva all’interno della sala di culto.
Nella prima era rappresentato un grande leone che si avventa su esserini neri che tentano invano di mettersi in salvo: uno di loro è rappresentato mentre viene dilaniato tra
le fauci del leone. Sui pilastri invece sono rappresentate due igure stanti, che tengono
per le briglie un grande cavallo bianco riccamente bardato, conformi all’iconograia
dei Dioscuri, sporadicamente attestati in mitrei occidentali, come quello di Walbrook,
a Londra.36 I protagonisti delle due scene sono rappresentati con un abito ricchissimo,
chiaramente iranico. Uno di loro, quello meglio conservato e più leggibile, con la mano
libera dalle briglie tiene alla catena un esserino nero. Si tratta di un mostriciattolo nudo,
accoccolato, con una testa bifronte [ig. 4].
Qui, sulle 19 scene parzialmente ricostruibili che si trovano dipinte sugli strati
d’intonaco più recenti del mitreo,37 strati che risalgono con precisione agli anni di Costanzo II e di Giuliano, sono rafigurati una quantità di omiciattoli neri, piccoli, mostruosi, accucciati negli angoli di sfavillanti scene di corte, oppure rappresentati mentre tentano invano di sfuggire dalle grinie di enormi, terribili leoni. Ho descritto altrove questa
scena detta ‘dei Dioscuri’ che si trova rafigurata, con un doppione simmetrico, sui piCanivet – Canivet 1987.
Una recente miseaupoint sul sito: Gawlikowski 2013, 261–270.
35
La letteratura è data supra, nota 13.
36
C. Martínez Maza (2013, 167–178) indaga le sculture e i reperti relativi ad altre divinità rinvenute nel
mitreo londinese, in un deposito interrato verosimilmente nei primi decenni del quarto secolo, e sparsi nella
struttura. Si tratta di un Serapide, di una Minerva e di un Saturno, oltre a un gruppo bacchico. Non viene preso
in considerazione il Dioscuro, che venne ritrovato all’esterno della struttura, a circa due metri di distanza
e che è oggi conservato e visibile al Museum of London.
37
Gawlikowski 2007, 352.
33
34
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
205
lastri che immettevano nello spelaeum.38 Se, come sono convinto, questi esserini neri
devono intendersi come una rappresentazione visiva delle passioni e dei vizi dell’uomo,
quello che il mitreo di ̣ūarte ci fa conoscere è molto di più di una nuova scena inora
non testimoniata del mito del dio tauroctono. Per la prima volta appare con tutta evidenza
la dimensione etica del mitraismo.39
Fig. 4: Mitreo di ̣ūarte, scena ‘del Dioscuro’ (foto M. Gawlikowski).
La stessa dimensione etica è riscontrabile in un’altra scena, dipinta subito a sinistra
della nicchia della cella, in un luogo, cioè, della massima importanza del nostro mitreo.
All’interno di una riquadratura di color rosso mattone sono rappresentate le grandi mura
difensive di una città, un monotono reticolo grigio interrotto solamente da una grande
porta nera [ig. 5]. Al di sopra delle mura si vede una ila di teste molto grandi, mostruose, irsute, digrignanti i denti. Una di queste teste è rotolata sotto le mura, nell’angolo in
basso a destra. Ogni testa, compresa quella caduta, è raggiunta da una linea gialla che la
colpisce più o meno esattamente sulla fronte, partendo dall’alto. Nonostante il fatto che
gli occhi delle teste siano stati tutti volontariamente deturpati durante la distruzione del
mitreo da parte dei cristiani che costruirono sopra la chiesa, è facile immaginare che gli
sguardi fossero rivolti nella direzione da cui provengono i raggi gialli.
Trovo veramente sorprendente la spiegazione di questa scena fornita da Gordon: secondo questo studioso dal momento che “de chaque crâne sort une lance ou une lèche.
Il s’agit donc de soldats ou de prisonniers morts”.40 Quindi, dopo aver ricordato quanto
fosse comune la pratica della decapitazione, conclude affermando che, a suo parere, in
questa scena vi sarebbe il concorso di due stereotipi, comuni nelle arti minori o nelle bot38
39
40
Gnoli 2009, 215–234.
Gnoli, in corso di stampa.
Gordon 2001a, 106–107.
206
TOmmASO gNOli
Fig. 5: Mitreo di ̣ūarte, ‘la città delle tenebre’ (foto M. Gawlikowski).
teghe artigiane della Siria tardoantica: 1. La rappresentazione di barbari sulle mura, della
quale non può citare che un solo esempio, del tutto diverso dal nostro; 2. Le venationes
nell’aniteatro, dove varie iere sono rappresentate traitte da una quantità di dardi.
Mi sembra sia inutile contestare questa lettura così forzata, tanto più strana in quanto
formulata da uno dei maggiori esegeti riconosciuti del mitraismo romano. Altrettanto
curiosa mi sembra l’idea avanzata da Dirven41 che, partendo dall’idea che la luce che
Dirven, in corso di stampa. Ringrazio la collega per avermi permesso di leggere questo lavoro non
ancora terminato.
41
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
207
colpisce le teste potrebbe in realtà essere emessa da esse, propone di identiicare le teste
di ̣ūarte con gli arconti manichei. Nulla sostiene questa ipotesi, non fosse altro che per
il motivo che, secondo la mitologia manichea, gli arconti emetterebbero la luce come
liquido seminale!
Ho già manifestato altrove come io mi trovi in pieno accordo con Gawlikowski quando afferma che “the scene is strikingly Zoroastrian in spirit”.42 In effetti le teste, come
presentate nell’affresco, non presuppongono l’esistenza di un corpo, ma sembrano essere entità autonome e complete, cosa perfettamente corrispondente allo stato totalmente
spirituale dei demoni zoroastriani, dove corporeità e materialità, gētīg, sono esclusivo
appannaggio delle forze del bene. Sempre nella tradizione zoroastriana, già nei testi
avestici si trova la distinzione tra ‘teste buone’ e ‘teste cattive’, quelle dei demoni delle
persone malvagie. Lì il termine avestico per ‘testaccia’ kamǝrǝda- è associato al nome
del demone Arǝzūra per indicare un toponimo speciico, cioè il luogo dove i demoni
si danno convegno e che viene ritenuto la porta dell’inferno.43 La rappresentazione del
mitreo di ̣ūarte soddisfa queste caratteristiche esclusive della tradizione zoroastriana:
‘testacce’ di demoni raggruppate sulla sommità di un ediicio che presenta una porta nera
che conduce all’inferno. Solo la luce di Ohrmazd, rappresentata dalle linee gialle che
colpiscono ciascuna delle testacce, può sconiggere questi orrendi demoni arimanici. La
spiegazione di Gordon può spiegarsi solo con il tentativo disperato di far rientrare questa
scena all’interno del nuovo paradigma ermeneutico.
Il rinvenimento del mitreo di ̣ūarte, studiato senza preconcetti e senza tesi da difendere, costringe a rielaborare molte cose che, secondo il nuovo paradigma, sembravano
ormai acquisite.
3. Una cosmogonia mitraica?
Tornando ora a occuparci delle due più rilevanti tauroctonie siriane, quella di Gerusalemme e quella maggiore di Dura Europos, è stato giustamente notato che i due monumenti offrono importanti punti di contatto. Quello più signiicativo è a mio parere una
esplicitazione del contenuto cosmogonico del sacriicio mitraico. Benché si sia recentemente tentato di negare qualsiasi correlazione tra il sacriicio del toro e l’ordine cosmico,
mi sembra dificile spiegare altrimenti la presenza di sette elementi globulari che compaiono sia nella tauroctonia di Gerusalemme, sia su quella di Dura Europos.44 La prima
delle scene che, al di fuori della grotta s’incontra in basso a sinistra nella tauroctonia di
Gerusalemme mostra un personaggio accucciato, Mithra a giudicare dal consueto abbigliamento, seduto su una roccia a sua volta globulare, il busto leggermente proteso in
avanti, mentre tiene con la sinistra un oggetto allungato dificilmente individuabile.45
Gawlikowski 2007, 355; cfr. Gnoli 2009, 229–232; e Gnoli, in corso di stampa.
Bartholomae 1904, 202; Asmussen 1987, 691–692.
44
Cfr, anche quanto scritto supra, p. 7.
45
De Jong (1997, 56), pensava piuttosto a Saturno, sulla base però di altre rafigurazioni un po’ diverse da quella commentata, e avanzava fra molti dubbi l’ipotesi che l’oggetto tenuto con la destra fosse
una ‘(clumsy)’ harpè. Mi sembra migliore l’interpretazione di Gordon (2001b), che individua nella scena la
presenza di una sorgente che sgorga dalla roccia sulla quale si appoggia la scena superiore (l’acqua sarebbe
42
43
208
TOmmASO gNOli
Gordon è giustamente perplesso nell’interpretazione di questa scena, posta con ogni evidenza all’inizio di un qualche racconto che procede ino all’angolo in basso a destra del
rilievo, dove si trovano rafigurati Mithra e Sol mentre libano: come spiegare le sette
sfere ammassate alla rinfusa nella scena, quasi fossero delle grandi biglie con le quali si
trastulla Mithra? A mio parere ha certamente ragione De Jong quando, su questo particolare, richiama un altro gruppo di altri piccoli sette globuli, che questa volta compaiono
perfettamente allineati tra le zampe del toro morente nella tauroctonia maggiore di Dura
Europos. La presenza di sette elementi uguali e allineati a margine delle tauroctonie è
tutt’altro che rara. Si ritrovano con una certa frequenza sette altari allineati al di fuori della grotta, spesso al di sopra; oppure possono trovarsi sette astri allineati nella stessa posizione. Quello che differenzia le due tauroctonie siriane qui esaminate (e in particolare
quella di Gerusalemme) è l’inserimento delle sette sfere nella vicenda della tauroctonia,
dentro, cioè, lo spazio mistico dello spelaeum, che, come si è visto, nelle rafigurazioni
siriane si presta ad ‘accettare’ di buon grado elementi che altrove sono rarissimi.
4. Accenni di una economia del mitreo
C’è tuttavia un aspetto che differenzia la tauroctonia di Gerusalemme in un modo tale
da renderla del tutto unica. Si tratta della semplicissima iscrizione che accompagna il
rilievo: ἐκ τῶν τοῦ θεοῦ ἐπὶ Ἀβσάλμου. Non nascondo che m’imbarazza un po’ dover
dire che questo testo signiica che il rilievo è stato fatto da Absalmos con i fondi del dio,
eppure è necessario. L’editore De Jong ha dovuto faticare non poco per giungere alla
lambiccata traduzione: “Because of the things [received] from the god; in the time of
Absalmos”. De Jong era naturalmente ben consapevole dell’ovvio signiicato della frase,
eppure:
The phrase ἐκ τῶν τοῦ ΝΝ is commonly used to indicate the person who funded the object (particularly well known in the phrase ἐκ τῶν ἱδίων, “from his own means”). One possible interpretation would therefore be “funded by the god,” but this does not make much sense and is unparalleled
in Mithraic works of art.46
Ancora una volta, dunque, ci troviamo di fronte all’esigenza primaria di ‘normalizzare’ un testo eterodosso, che mal s’integra nel nuovo paradigma ermeneutico. Secondo
De Jong l’unica ragione per cui questo testo, a differenza di dozzine di altri testi analoghi
provenienti da tutto il Vicino Oriente, non potrebbe signiicare che il rilievo è stato fatto
“a spese del patrimonio del dio” è che non vi sarebbero altre attestazioni analoghe in testi
mitraici. Invece d’intedere il rilievo di Gerusalemme come la prima attestazione di un
patrimonio connesso a un tempio mitraico si preferisce una traduzione molto più complicata, basata su esempi incerti e lontanissimi nel tempo e nello spazio. Ma c’è di più. De
Jong interpreta ἐπὶ Ἀβσάλμου come una formula di datazione. Si tratterebbe di un’ipotesi
a mio parere molto attraente, se fosse probabile, perché consentirebbe di progredire sulla
l’oggetto allungato di dificile lettura). Molto utile è la notizia che egli riporta in sede di commento, cioè il
fatto che, a detta della compianta Ingeborg Huld-Zetsche, si sarebbero ritrovate nel mitreo di Dormagen ben
dodici pietre sferiche di dimensioni decrescenti che non sono state menzionate in CIMRM.
46
De Jong 1997, 58.
Mitrei del Vicino Oriente: una facies orientale del culto misterico di Mithra
209
vexata quaestio della possibile esistenza di perduti testi mitraici.47 Temo tuttavia che
anche la seconda parte di questa brevissima iscrizione sia molto meno rivelatrice di
quanto ipotizzato da De Jong. In un articolo quasi dimenticato pubblicato nel 1912 sui
Transactions and Proceedings of the American Philological Association uno dei maggiori esperti di epigraia greca e latina di Siria, William Kelly Prentice, indagò a fondo
l’uso delle preposizioni impiegate sulle iscrizioni greche per indicare il completamento
di ediici, restauri etc. da parte di quegli strani personaggi, tipicamente siriani, noti col
nome di ‘magistrati di villaggio’.48 Per quanto riguarda l’uso di ἐπὶ + genitivo Prentice
notava che nelle iscrizioni siriane questa frase designava sempre l’uficiale di rango più
alto e che corrispondeva alla πρόνοια nell’espressione ἐκ προνοίας καὶ σπουδῆς (dove
la σπουδή veniva invece resa tramite l’impiego di διά più genitivo). Ripeto ancora una
volta: questa iscrizione non può signiicare altro che il rilievo era stato fatto da Absalmos
con i fondi del dio.
Anziché tentare di ‘normalizzare’ questo testo e di ricondurlo su un sentiero più comodo e meglio battuto è a mio parere il caso di valorizzarlo e di connetterlo, se possibile, con qualcos’altro nel campo dell’organizzazione del culto di Mithra, quantomeno
in Siria. La ricerca non è dificile. Esiste un altro mitreo siriano che ha caratteristiche
uniche: si tratta del santuario di Šaʿāra un sito nell’̣awrān, località agricola posta non
lontano dalla grande arteria militare della Strata Diocletiana a sud di Damasco studiato
negli anni 1990 da Mikaël Kalos.49 Del mitreo non rimane altro oggi che l’arco che
circondava la cripta nella cella del tempio, suficiente comunque, con i scarsi resti della
tauroctonia, ad identiicare la funzione del tempio in maniera inequivoca. Quel che più
conta però è che il piccolo complesso cultuale era direttamente connesso con un altro ediicio per il quale gli archeologi hanno potuto provare una funzione economica.
Questa associazione tra tempio mitraico ed ediicio produttivo, unica inora a quanto
è dato conoscere per quanto riguarda i mitrei, contribuisce a chiarire meglio il senso
dell’iscrizione posta sotto la tauroctonia di Gerusalemme.
5. Conclusioni
Mi sembra che tutto quanto scritto inora, la cronologia estremamente antica dei monumenti mitraici di Siria, le particolarità compositive e tematiche presenti nei pochi monumenti rimasti, il ruolo esplicitamente ricoperto da peculiari dottrine mazdaiche negli
affreschi di ̣ūarte, la nuova attestazione di una qualche forma di economia connessa ai
luoghi di culto di Mithra, debba indurre a una maggiore prudenza negli studiosi, e che
si debba prendere in considerazione, almeno come ipotesi di lavoro, una facies orientale
del mitraismo romano, lasciando per ora impregiudicato il problema dei rapporti tra
quest’ultima e la meglio nota facies occidentale.
Si tratta di un tema molto delicato per tutta l’interpretazione del culto misterico di Mithra. Cfr. da
ultimo, su questo, le utili considerazioni di J. Alvar (2008, 75–76). Per una visione estrema, tendente a negare
spessore a qualsiasi ‘dottrina’ mitraica, cfr. le opere citate supra, n. 17.
48
Prentice 1912, 113–123.
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Kalos 2001, 229–277.
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