IL PORTICO.
BIBLIOTECA DI LETTERE E ARTI
176.
Sezione: MATERIALI LETTERARI
La critica letteraria
nell’Italia del Settecento
Forme e problemi
a cura di
Gabriele Bucchi e Carlo Enrico Roggia
LONGO EDITORE RAVENNA
Col contributo di
I contributi di questo volume sono stati sottoposti a doppia revisione paritaria anonima (peer review)
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ISBN 978-88-8063-988-6
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Printed in Italy
CARLO ENRICO ROGGIA
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
I will tell you in three words what the book is. – It is a history. –
A history! of who? what? where? when? Don’t hurry yourself —
It is a history-book, Sir, of what passes in a man’s own mind; and
if you will say so much of the book, and no more, believe me, you
will cut no contemptible figure in a metaphysic circle.
(L. Sterne, Tristram Shandy)
1. Tra le molte ragioni (e magari più importanti) per cui il Settecento può essere considerato per molti versi il secolo che schiude la modernità, c’è anche il fatto
che proprio nel Settecento se non nasce, certo si consolida e viene definendosi in
senso moderno la nozione di stile, e insieme quella concomitante di un’opposizione
tra lingua e stile1. Nasce qui, di conseguenza, anche una stilistica che in un certo
senso possa dirsi moderna: questa stilistica, anzi, costituisce una parte assolutamente rilevante, soprattutto in Italia, di quella che è stata chiamata la linguistica
illuminista.
Il tema è di un certo interesse in un incontro dedicato alla critica letteraria del
Settecento, anche se, come vedremo, è più che lecito chiedersi fino a che punto questa stilistica, almeno nel caso di cui mi occuperò da vicino, si possa considerare
propriamente una forma di critica. C’è poi un’altra ragione di interesse, che riguarda
piuttosto la stilistica come disciplina, il suo statuto, i suoi metodi e la sua storia in
Italia: su questo torneremo nell’ultima parte di questo intervento.
Delle due opere di gran lunga più importanti della stilistica italiana del Settecento, che sono le Ricerche intorno alla natura dello stile di Beccaria (1770) e il
Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti (1785), prenderò qui in esame la
prima. Con i due autori citati, la cui riflessione corre parallela nonostante i quindici anni che separano la pubblicazione dei rispettivi trattati, ci troviamo su una linea di spartiacque: quello che è stato definito il linguistic turn, la svolta filosofica
nelle discussioni linguistiche italiane2. I principi di cui discuteremo rientrano
1 Si veda l’affermazione perentoria di Cesarotti: «La lingua non dee confondersi collo stile, come
suol farsi da molti [...]. L’uffizio di essa è di presentar i materiali allo stile, e lo stile è l’arte di farne
uso» (Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana, I.IV.5, in Dal Muratori al Cesarotti, t. IV, Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, a cura di E. Bigi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 317: d’ora in poi Saggio). Sulla storia sei-settentesca del concetto
di stile, cfr. PH. AUDEGEAN, Beccaria et l’histoire du concept de style, «Poétique», CXXXVI (2003),
pp. 487-509, ora in ID., Cesare Beccaria, filosofo europeo, Roma, Carocci, 2014, pp. 137-160.
2 Cfr. S. GENSINI, Melchiorre Cesarotti e l’origine della filosofia del linguaggio in Italia, in Angewandte Linguistik. Zwischen Theorien, Konzepten und der Beschreibung sprachlichen Aeußerungen, a cura di S. Große et al., Frankfurt am Main, Peter Lang, 2013, pp. 59-76. Il Saggio di Ce-
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Carlo Enrico Roggia
quindi, almeno in parte, in un patrimonio condiviso, ripreso però e rielaborato dai
due autori in modi diversi, e nel caso specifico di Beccaria con una curvatura assolutamente personale e degna di attenzione.
L’interesse per la questione dello stile affiora com’è noto due volte nella carriera
di Beccaria: la prima, corrisponde al Frammento sullo stile pubblicato nel «Caffè»
del 1 febbraio 1765; la seconda alle Ricerche, che portano a maturazione il frammento di cinque anni prima in forma di trattato, pur rimanendo a loro volta un testo incompleto3. Nel mezzo, tra i due episodi, il successo universale del Dei delitti
e delle pene, il viaggio fallimentare a Parigi, la nomina a professore di «Scienze camerali»: il Beccaria più proverbiale, militante e riformatore, di fronte al quale le Ricerche sono sempre state guardate con un certo imbarazzo, sia dai contemporanei
che dai critici più recenti. Emblematico fra tutti il giudizio di Franco Venturi, che
nel trattatello vedeva il simbolo «di una rinuncia alla lotta», dell’«incapacità [di Beccaria] di prendere nelle proprie mani il destino suo di scrittore»: del cedimento insomma a una tentazione regressiva sempre in agguato nel più perplesso tra gli accademici dei Pugni4. Più di recente Philippe Audegean ha provato invece a restituire
piena dignità al trattato, e insieme unità all’opera di Beccaria, cercando il vero nucleo di irradiazione delle due opere e delle due anime del marchese principalmente
in una questione di metodo: uno spunto fondamentale, su cui torneremo5.
2. Chi conosce le Ricerche sa che sono un libro quantomai difficile. Lo sono
sarotti esce nel 1785, ma è frutto di una riflessione già fissata su carta tra il 1769 e i primi anni Settanta, allorché l’abate diventa professore di lingue antiche a Padova: cfr. C.E. ROGGIA, “De naturali
linguarum explicatione”: sulla preistoria del “Saggio sulla filosofia delle lingue”, in Melchiorre Cesarotti, atti del convegno di Padova 4-5 novembre 2008, a cura di A. Daniele, Padova, Esedra, 2011,
pp. 43-66, e ID., Cesarotti professore: le lezioni universitarie sulle lingue antiche e il linguaggio, «Lingua Nostra», LXXV (2014), Fasc. 3-4, pp. 65-92.
3 Cfr. rispettivamente «Il Caffè» 1764-1766, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 277-284, e C. BECCARIA, Ricerche intorno alla natura dello stile, a cura
di G. Gaspari, in ID., Scritti filosofici e letterari (Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, vol. II), Milano, Mediobanca, 1984, pp. 63-232: d’ora in poi Ricerche. Si tratta di un testo incompleto perché Beccaria pubblicò solo la prima parte del trattato: di una progettata seconda parte
arrivò a stendere un capitolo prima di abbandonare il lavoro.
4 Cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, vol. V, L’Italia dei lumi (1764-1790), t. 1, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino, Einaudi,
1987, p. 444. Si vedano anche nelle stesse pagine (441-449) le reazioni immediate o ravvicinate alla
pubblicazione dell’opera.
5 Cfr. PH. AUDEGEAN, Cesare Beccaria, cit., pp. 24 e 145-148. Sulle Ricerche cfr. anche S. GENSINI, Volgar favella. Percorsi del pensiero linguistico italiano da Robortello a Manzoni, Firenze, La
Nuova Italia, 1993, pp. 125-128 e 181-191; L. FORMIGARI, Lingua e stile nelle «Ricerche» di Cesare
Beccaria, in Kontinuität und Innovation. Studien zur Geschichte der romanischen Sprachforschung
von 17. bis 19. Jahrundert. Festschrift für Werner Bahner zum 70. Geburtstag, a cura di G. Hassler
e J. Storost, Münster, Nodus Publikationen, 1997, pp. 159-165. Sulla matrice sensista e condillachiana
delle Ricerche (sulla scia dei lavori fondamentali di Rosiello e Aarsleff) ho insistito nel mio La lingua della poesia nell’età dell’illuminismo, Roma, Carocci, 2013; molti materiali in questo senso sono
messi a disposizione dal commento di Gianmarco Gaspari nell’edizione nazionale.
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non solo per la densità concettuale e per la lingua complessa, ipotattica, molto più
conservativa di quella dell’opera giuridica, anche a prescindere dalla revisione modernizzante lì operata da Verri («un libro sullo stile scritto senza stile», sentenziò
Diderot); ma lo sono soprattutto per la loro impervia astrattezza: in tutto il libro
manca praticamente, o quasi, una concreta esemplificazione sui testi, di modo che
l’opera viene a comporsi quasi esclusivamente di enunciati generali. Nelle 137 pagine dell’edizione Gaspari, i testi citati a supporto del discorso sono tredici, tutti
latini, quasi tutti virgiliani6. Una ben strana stilistica, dunque, quella che prescinde
dai testi: ma c’è una ragione per questa scelta, ed è che Beccaria intende fare col
suo libro una stilistica espressamente “filosofica”, o potremmo anche dire una stilistica generale (così come esiste una linguistica generale), slegata cioè da ogni
specifica lingua o tradizione letteraria e quindi capace potenzialmente di sussumerle
tutte7. È un progetto che si colloca programmaticamente sulla linea aperta da Locke
e dai suoi seguaci (su tutti Condillac): «Essi hanno incominciato a ricercar nelle
facoltà nostre, nella nostra maniera d’intendere e di sentire, l’origine e le leggi del
buon gusto, leggi così invariabili come lo possa essere l’umana natura» (Ricerche,
p. 74). L’esemplificazione in latino, lingua ad un tempo neutrale (transglottica) e
archetipica, risponde a questa pretesa di universalità, anche se poi la scelta del latino, e in particolare di Virgilio, sarà frutto anche di una precisa posizione critica,
come cercheremo di vedere.
Possiamo riconoscere in questa ideale pretesa di universalità, o di neutralità, una
prima caratteristica fondante dell’opera e della proposta teorica di Beccaria. Una
seconda sarà quella di configurare una stilistica fortemente orientata sul significato,
o sul contenuto: al punto che il trattato non riserva praticamente spazio a due temi
che invece tradizionalmente costituivano il fulcro di ogni discorso sullo stile, ovvero quello dei livelli linguistici, e in particolare lessicali (in cui rientra la questione
dei registri e delle varietà sociolinguistiche), e quello ai nostri occhi anche più irrinunciabile della forma, o diremmo meglio del significante8. «Mio scopo – avverte
in limine Beccaria – non è di parlare di quella parte di stile che appartiene semplicemente alle parole, ma di quella parte che appartiene alle idee» (Ricerche, p.
81): tutto ciò che è ritmo, metro, sostanza sonora delle parole resta quindi pressoché interamente al di fuori di questo trattato sullo stile, ed è un’assenza clamorosa
e certamente consapevole.
Si può dire in pratica che quella delle Ricerche è una stilistica semantica radi6 Questo, per l’esattezza, l’elenco delle citazioni (tra parentesi la pagina delle Ricerche): Virgilio, Buc V 20-21 (p. 92); Aen IV 651-652 (p. 96); Buc I 3-4 e Aen III 11 (due passi contaminati per
errore: p. 107); Aen VII 295-296 (p. 107); Aen XII 119 (p. 129); Aen II 311-312 (p. 130); Georg I
84-85 (p. 138); Aen III 1-3 (p. 142); Aen IV 691-692 (p. 149). Lucano: Phars I 1-2 (p. 107). Ovidio:
Her I 53 (p. 109); Met II 1-2 (p. 153). Lucrezio: DeRerNat IV 1133-1134 (p. 170).
7 Lia Formigari (Lingua e stile nelle «Ricerche», cit., p. 160) ha parlato di una «semiotica generale» «nel migliore spirito di quella che si chiamerà più tardi ideologia». Sul tema anche PH. AUDEGEAN, Cesare Beccaria, cit., pp. 144-145.
8 Pochi gli spunti, anche se (soprattutto per il primo ambito) talvolta notevoli: è il caso delle riflessioni sull’uso dei termini tecnici (Ricerche, pp. 124-125).
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Carlo Enrico Roggia
cale, o anche una stilistica della sostanza, che Beccaria più o meno implicitamente
contrappone a una stilistica che potremmo dire della forma. Una stilistica della forma
per eccellenza è quella incarnata in Italia dal filone retorico-grammaticale di tradizione umanistica: una tradizione in sé scarsamente popolare, per non dire screditata, presso buona parte del fronte “filosofico”, perché fortemente sospetta di pedanteria, di formalismo ozioso e fine a sé stesso: le mende più deteriori da cui si
voleva una volta per tutte depurata la cultura italiana. È interessante notare che questo stesso rifiuto vale anche per Cesarotti, che fa anzi dell’opposizione alla pedanteria dei grammatici una sua bandiera: e tuttavia il suo trattato dedica un’attenzione
non saltuaria al corpo fonico dei vocaboli, dando soprattutto importanza alla dimensione dell’armonia imitativa, dei rapporti tra suono e senso, e insomma al fonosimbolismo e alla motivazione del segno, mantenendo dunque attiva anche in questo ambito una forte pregiudiziale semantica9. Nulla del genere, o quasi, in Beccaria,
che nel rifiuto delle parole in nome delle cose manifesta, al di là della rottura con
i Verri e della dissoluzione del gruppo dei Pugni, una sostanziale fedeltà alle parole
d’ordine di quella stagione fondamentale della sua vita.
Il principio per cui le parole non hanno autonomia e non contano se non come
veicolo di idee emerge più volte e nei contesti più diversi, ad esempio in osservazioni
come questa: «inutile sarebbe qui il diffondersi sulla volgare, ma verissima osservazione intorno l’essere viziosi i contrasti di parole fra di loro, o di parola con cosa;
essere necessario che i contrasti siano fra le idee» (Ricerche, p. 109). Naturalmente
Beccaria sa bene che, a differenza di altri tipi di discorso più direttamente orientati
sul mondo, la poesia è fatta per definizione di parole: solo che di queste parole sceglie di considerare (saussurianamente parlando) solo una faccia, quella del significato, mentre non sembra disposto ad accordare nessuna forma di “autonomia” al significante, il quale al contrario gli appare tanto più appropriato quanto meno attira
l’attenzione su di sé. Idealmente, anzi, il segno dovrebbe essere del tutto trasparente,
«pellucido»: il veicolo, ossia il suono, «deve essere il più immediato, il più pronto,
il più facile ed efficace, ed il meno occupante di sé medesimo che sia possibile, acciocché l’attenzione si occupi tutta delle cose ch’egli trasporta con sé, e non resti distratta dall’istromento che serve ad un’operazione in danno dell’operazione stessa»
(Ricerche, p. 160). L’affermazione, che collide frontalmente con la nozione moderna
e jakobsoniana di funzione poetica della lingua, può dare il senso dell’atmosfera rarefatta in cui avviene una parte cospicua della teoresi nelle Ricerche.
3. Mi provo ora a caratterizzare un po’ meglio la proposta di Beccaria servendomi deliberatamente di categorie metastoriche e tipologiche. In linea generale,
quella delle Ricerche (ma il discorso potrebbe essere esteso ad altri protagonisti di
questa stagione “filosofica”) può ben essere definita una stilistica cognitiva e fun9 Cfr. soprattutto i capitoli VII-IX della seconda parte del trattato («Sarà però sempre vero, che
prendendo ogni parola isolata, ella sarà per questo capo tanto più bella quanto più manderà un suono
adeguato alle qualità della cosa che si rappresenta»: M. CESAROTTI, Saggio II VIII, p. 328). Nelle Ricerche non più di un cenno a p. 164, all’interno del capitolo XIII Dell’armonia dello stile.
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zionale: molto diversa in questo dalla stilistica che su fondamenti idealistici sorgerà
in Italia nella prima metà del Novecento, per poi espandersi e proliferare nella seconda; più vicina nello spirito, paradossalmente, a certe proposte che vengono avanzate nel panorama attuale10.
In primo luogo, dunque, una stilistica cognitiva. Beccaria, che come detto si
muove pienamente nell’orizzonte di un paradigma empirista-sensista, concepisce
il significato in termini di rappresentazioni mentali: idee nel senso tecnico della filosofia post-lockiana. I segni linguistici, più esattamente, sono per lui stimoli che
attraverso l’udito o la vista producono delle modificazioni o alterazioni nella nostra
mente, anch’esse di natura fisica, che sono rese a loro volta col termine di sensazioni, o impressioni. Se dunque «le parole sono il mezzo, ossia lo stromento eccitatore di tali sensazioni» (Ricerche, p. 84), allora combinare insieme le parole significa produrre un fascio di effetti nella mente di chi legge o ascolta: chi controlla
questo meccanismo controlla lo stile, perché anche il piacere estetico è qualcosa che
ha luogo fisicamente nella mente, o più esattamente nel cervello. Leggendo il trattato ci si rende conto facilmente di come molto del ragionamento di Beccaria avvenga in termini, francamente paleocognitivi, di sforzo o fatica della mente, di inerzia, di velocità o lentezza nel concepire le idee, ovvero attraverso concetti e metafore
che guardano alla mente come a un campo processuale aperto all’osservazione.
Ora, un punto centrale del discorso è che queste modificazioni indotte dai segni linguistici, a loro volta, non sono qualitativamente diverse da quelle prodotte
dalla percezione diretta della realtà: udire la parola albero o vedere un albero sono
due esperienze che producono nella mente effetti, se non del tutto identici, certo per
lo meno comparabili. Di qui il corollario che la scrittura (o almeno la scrittura poetica) è una sorta di percezione di secondo grado: solo che a differenza della percezione di primo grado, diretta e giocata tutta sul rapporto tra organi di senso e una
realtà esterna data qua talis, quella mediata dalla lingua è una percezione che può
essere orientata e guidata a suo piacimento dallo scrittore, il quale lo fa appunto maneggiando gli strumenti dello stile. In linea di massima vale il principio per cui
scopo [dello stile] è certamente di sforzarsi di eccitar nelle menti umane le medesime
impressioni, e nel medesimo grado, per quanto sia possibile, di quello che la presenza
degli oggetti in natura produce (Ricerche, p. 132)
oppure, detto altrimenti, «dipingere o scolpire nella mente gli oggetti tutti» (Ricerche, p. 111). È la teoria classica dell’arte come imitazione della natura aggiornata
e adeguata all’episteme sensista: né a questa altezza poteva essere altrimenti.
La conoscenza di questi meccanismi appartiene a quella «filosofia dell’animo»
che, dice Beccaria, «con poca proprietà vien detta metafisica, e meglio dovrebbe
chiamarsi psycologia» (Ricerche, p. 73)11: è nella centralità di questa «filosofia»,
10 Soprattutto anglosassone; ma cfr. ad esempio S. CALABRESE, Retorica e scienze neurocognitive, Roma, Carocci, 2013.
11 Interessante l’uso del termine, che il Battaglia registra dal 1736 in uno scritto di Antonio Conti,
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Carlo Enrico Roggia
altrove e più spesso detta «scienza dell’uomo», che è dato trovare, come ha osservato Audegean, il primo e più solido legame tra le Ricerche e il Dei delitti e delle
pene. Se infatti, contrariamente a quanto voleva la giurisprudenza d’Ancien Régime,
le pene non servono a vendicare o a espiare un’offesa alla divinità, ma a ricucire
uno strappo nel tessuto sociale, e soprattutto a dissuadere nel modo più efficace ed
economico gli individui dal delinquere o dal tornare a farlo, esse devono essere disegnate in modo da orientare adeguatamente la sensibilità dei cittadini. Di qui l’importanza di un’esplorazione sistematica e di un calcolo dei loro effetti cognitivi:
è qui la vera leva per una rifondazione razionale del sistema giuridico, ed è infatti
questo tipo discorso che riempie ad apertura di pagina il capolavoro di Beccaria12.
È una scienza, questa, che per essere rigorosa dovrebbe basarsi su una conoscenza intima dei meccanismi del cervello («per conoscerne tutta la natura bisognerebbe e l’interiore struttura del cervello aver conosciuto, e le leggi profonde ed
impercettibili della sensibilità avere discoperto», Ricerche, p. 183; «tutte le idee
si associano nella mente per alcuni legami reali, ma finora a noi ignoti e occulti»,
ivi, p. 137): ma per intanto, remotissima ancora la porta d’accesso a una comprensione fisica della coscienza, la scienza dell’uomo professata dai due trattati è
costretta a fondarsi su ciò che ha a portata di mano, ossia l’introspezione. Beccaria, come bene aveva intuito il suo amico Pietro Verri, possiede un senso acutissimo dell’introspezione, una inclinazione fin troppo spiccata verso quelli che
chiama gli «inviluppati fenomeni dell’animo»: una inclinazione non scevra da piacere a «ripiegarsi in sé medesimo a sentir profondamente». Di qui il metodo che
egli mette al servizio del suo programma di rifondazione dei saperi: «esaminare
sé medesimo attentamente», «formarsi una scienza dei propri pensieri», che per
inciso è poi ciò che ci fa amare lo scrittore Beccaria anche al di là della pregnanza
e del valore storico e ideologico del suo capolavoro. Prima di essere un apostolo
del sensismo, Beccaria è infatti un uomo sensibile, capace cioè di sentire profondamente e di rimanere colpito e interessato dal proprio stesso sentire, fin dentro ai
«più cupi recessi dell’animo»13. Una sensibilità a ben vedere tutt’altro che strana
in un critico: la cosa significativa è magari che questa vigile coscienza della progrande mediatore di cultura inglese: in inglese il termine risulta usato fin dal 1703 (Oxford English
Dictionary), mentre sono molto più tarde le attestazioni francesi (del 1848 la prima registrata dal Tresor de la langue française). In latino, invece, il termine circolava liberamente fin dal XVI secolo.
12 «Beccaria è un criminologo ante litteram. La psicologia criminale che egli elabora punta sugli effetti morali della pena per modificare il comportamento delinquente»: M. PORRET, Beccaria. Il
diritto di punire, Bologna, il Mulino, 2013, p. 77. Al saggio di Porret rinvio anche per la separazione
tra pena e peccato, e per la concezione preventiva del diritto penale in Beccaria (ivi, pp. 47-55, ma
passim).
13 Cfr. C.E. ROGGIA, L’entusiasmo della ragione: Cesare Beccaria sulla pena di morte, in Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di A. Afribo, S. Bozzola, A. Soldani, Padova, Cleup, 2016, pp. 123-144. Un ulteriore punto di contatto tra le due opere può essere
trovato in una comune matrice utilitaristica, a patto di guardare alle Ricerche come a una teoria generale dello stile in quanto tecnica della comunicazione efficace, applicabile in quanto tale a contenuti “utili” in funzione istruttiva o divulgativa: per questa prospettiva, cfr. soprattutto PH. AUDEGEAN,
Cesare Beccaria, cit., pp. 148-153, e S. GENSINI, Volgar favella, cit., pp. 125-128.
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
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pria capacità di sentire si dispieghi non tanto nella lettura empatica dell’opera d’arte,
quanto nel capillare esame del suo farsi, e del suo essere recepita.
L’altro aggettivo con cui ho proposto di definire la stilistica di Beccaria, funzionale, si riferisce invece al fatto essa si fonda su un’esplorazione che si vuole
obiettiva dei rapporti tra mezzi linguistici ed effetti cognitivi: se si aziona la lingua in un certo modo, si producono effetti mentali che possono essere previsti e
calcolati. Lo stile, in ultima analisi, si riduce a una tecnica.
4. Se questi possono essere considerati, con qualche semplificazione, i fondamenti epistemologici della proposta di Beccaria, da qui in poi si schiude un’ulteriore serie di problemi: date queste premesse – ci si chiede – quali sono gli effetti
cognitivi per così dire “buoni”, quelli che riescono a suscitare in noi l’esperienza
del bello, e quali i “cattivi”? La questione è interessante perché, com’è chiaro, la
risposta a queste domande contiene un’estetica.
Anche in questo caso Beccaria pretende di far derivare le sue indicazioni da un
principio oggettivo, “scientifico”: è il principio secondo cui la molteplicità di sollecitazioni (sensazioni) produce nell’anima un senso di movimento che è di per sé
fonte di piacere, e dunque ci sarebbe una sorta di proporzionalità diretta tra la quantità di impressioni ricevute e il godimento estetico. Questa proporzionalità ha tuttavia un limite: quando l’accumulo di sensazioni supera un certo livello, un certo
carico di attenzione, il lavoro della mente smette di essere piacevole e diventa gravoso. Di qui quello che Beccaria definisce di volta in volta il «principio» o il «canone fondamentale di ogni stile», cioè il «doversi eccitare il massimo d’impressioni sensibili e combinabili nell’animo», o più icasticamente «il massimo di
sensazioni compossibili tra di loro» (Ricerche, pp. 108 e 129):
Tutto dunque si riduce a destare in ogni momento una tal determinata quantità di sensazioni, al di là della quale l’immaginazione soverchiata si ottenebra e si stanca, ed al
di qua resta languida, inquieta, e più oltre desiderante (Ricerche, pp. 90-91)
A misura che le sensazioni elementari si associano e si aggruppano tra di loro, cresce
il piacere finché l’attenzione vi resiste, e segue l’energia di tutto l’oggetto; ma al di là
del limite vario, ma costante, fissato ad ogni essere sensibile, gli avviluppamenti delle
medesime sensazioni diminuiscono il piacere medesimo (Ricerche, p. 85)
Emerge da queste definizioni un’idea di bello come punto di equilibrio tra tensioni opposte. Da un lato agisce la spinta verso una molteplicità capace di mettere
in movimento l’animo, dall’altra un concomitante impulso di riduzione centripeta,
e in ultima analisi di controllo: il bello viene così a essere teorizzato come una sorta
di formazione di compromesso.
Da questo principio fondamentale, Beccaria fa poi discendere una serie indicazioni o di osservazioni di vario tenore, ma attraversate tutte da alcune costanti
di fondo, che sono i veri e propri motivi conduttori del suo discorso sullo stile. Ne
elencherò quattro: chiarezza, condensazione, economia, impressività.
Il primo, molto illuminista, è l’imperativo della chiarezza, che vuol dire in primo
166
Carlo Enrico Roggia
luogo delimitazione dei contorni delle idee, e in secondo luogo associazione stabile e immediata tra un segno e un’idea: «la chiarezza dello stile deve essere costante ed inalterabile nel fare che ogni idea da per sé sia rappresentata con parole
e con frasi che la eccitino senza equivoco e senza inciampo di sorte alcuna» (Ricerche, 179). L’opposto, confusione e indeterminatezza semantica, tende in linea
di principio a essere visto come un disvalore:
Onde le parole indeterminate, e le espressioni che fanno fare giudizi e paragoni, ed indicano rapporti estesi delle cose, indeboliscono l’effetto, quantunque in altre occasioni
lo ingrandiscano, perché diminuiscono l’intensità del sentimento; onde la mente […]
viene slanciata a rapporti più estesi, da lei non però sentiti né gustati (Ricerche, p. 179)14.
Difficile non pensare qui a Leopardi, che partendo da presupposti analoghi (il
Beccaria delle Ricerche è tra i primi autori citati nello Zibaldone) approda a conclusioni opposte, fino a fare dell’indeterminato o indefinito l’essenza stessa del poetico: diversamente, Beccaria non sembra essere ancora giunto a intuire il piacere
del naufragio totale della ragione15.
Eppure, in direzione opposta, Beccaria si mostra anche perfettamente consapevole del potenziale estetico della condensazione semantica, ossia del suggerire
più idee simultaneamente. Virgilio, maestro di quest’arte, offre molta materia di
riflessione a riguardo:
Le idee semplicemente suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la
quale regge senza di quelle; non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate
sono dalle parole immediatamente […] onde con minore dispendio di forze si ottiene
un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire a Didone
dulces exuviae, dum fata deusque sinebant,
accipite hanc animam, meque his exolvite curis,
quanta folla d’idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette,
dulces exuviae […]; e coll’accennare soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! (Ricerche, p. 96)
Si osservi come la spiegazione di questo plusvalore estetico del non detto faccia nuovamente appello alla ricostruzione di processi mentali, alla scienza dell’uomo. Il piacere dell’implicito deriva da un lato da una sorta di gratificazione interiore per uno sforzo cognitivo andato a buon fine (le idee non espresse ma
solamente destate giovano «perché la picciola fatica che facciamo e l’applauso in14 Si veda anche quanto viene detto a proposito del discorso metaforico: «[i traslati], quando siano
ben impiegati, contribuiscono alla chiarezza del discorso, benché la molteplicità di essi produca oscurità ed imbarazzo» (Ricerche, p. 131).
15 Su Leopardi e Beccaria, cfr. S. GENSINI, Linguistica leopardiana, Bologna, il Mulino, 1984,
pp. 45-46 e 103-104.
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
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terno del nostro ritrovato ci rinfranca l’attenzione sul restante», Ricerche, p. 94);
dall’altro dalla rapidità stessa dei passaggi associativi quando possono fare a
meno del supporto materiale della parola:
Egli è evidente che una medesima serie d’idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano tacciute, perché un maggior
tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si continua
la presenza dell’idea corrispondente, di quello che sia consunto nella rapida ed affollata successione d’imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente […].
Ora, se le idee tacciute fossero tutte espresse noi verressimo a rendere più tarda e più
lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il
netto concepimento del tutto (Ricerche, pp. 96-97)
Osservazione notevole, tra l’altro, anche per quanto Beccaria arriva a intravedere del funzionamento pragmatico e comunicativo dell’implicito16.
D’altra parte, e in un certo senso specularmente, se è ammesso e anzi auspicabile che più idee siano veicolate da un unico segno, ciò che non appare in alcun
modo tollerabile è il contrario, l’impiego di segni che non veicolano idee: «l’esercizio dell’eccellente scrittore sarà quello di perpetuamente sforzarsi di non lasciar
che la mente si carichi di parola alcuna senza che ella non sia stabilmente più associata colla sua precisa e determinata idea corrispondente» (Ricerche, p. 200). Ritroviamo tutta la perentoria avversione dei Pugni per la superfetazione delle parole sulle cose, il vizio tutto italiano di una cultura verbalistica e vuota:
Tutte le parole che non aggiungono chiarezza al discorso, che non istampano nuove impressioni, e che non guidano l’attenzione a nuove e diverse maniere di sentire, dovranno
essere soppresse (Ricerche, p. 137)
Si direbbe un’etica della scrittura promossa a estetica, ma non è solo questo.
Esiste nelle Ricerche tutto un filone ricchissimo di osservazioni intorno ai pregi
estetici dell’economia del segno17. In generale vale l’assioma per cui, a parità di
contenuto, minore è l’espressione, o l’ingombro del significante, migliore il risultato: «lo stile riesce noioso e prolisso quando la massa delle parole, o sia de’ segni rappresentatori, sia maggiore della quantità d’idee rappresentate» (Ricerche,
p. 136). Si tratta di un concetto non nuovo: lo rintracciamo in un autore fondamentale per le poetiche empiriste quale l’abate Du Bos, che in un capitolo delle
sue Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture (1719), osservava:
rien ne sert davantage à rendre une phrase énergique que sa brieveté. Il en est des mots
comme du metal qu’on employe pour monter un diamant. Moins on y en met plus la
16 Cfr. E. LOMBARDI VALLAURI, The “exaptation” of linguistic implicit strategies, «SpringerPlus»,
5, 2016, pp. 1-24; M. SBISÀ, Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Roma-Bari,
Laterza, 2007. Si veda anche il commento a questo passo in S. GENSINI, Volgar favella cit., p. 189.
17 Ho approfondito il tema in C.E. ROGGIA, La lingua della poesia, cit., pp. 49 sgg., a cui rinvio.
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Carlo Enrico Roggia
pierre fait un bel effet. Une image terminée en six mots frappe plus vivement et fait plustost son effet que celle qui n’est achevée qu’au bout de dix mots18.
La citazione proviene da un capitolo in cui sono messi a confronto francese e
latino («Le Latin est plus court que le François, géometriquement parlant»), inclinando a suggerire che il latino, al pari di altre lingue antiche più sintetiche delle
moderne, avesse anche in sé un maggiore potenziale estetico. Anche Beccaria riprende il concetto, e memore di Condillac, arriva ad affermare che «le lingue tutte
sono più energiche e poetiche quanto conservano più fresca la traccia del linguaggio
primitivo ed originario […]; e perciò quelle che hanno meno parole grammaticali,
o che le hanno rilegate al fine delle parole significanti, hanno più d’energia» (Ricerche, p. 162). Di nuovo siamo spinti verso l’antico: il latino, lingua del classico
e del classicismo, si fa archetipo di economia e modello formale.
Chiarezza, condensazione, economia: un ultimo cenno in questo catalogo di valori estetici di segno positivo può toccare al tema dell’impressività. Beccaria; parla
con terminologia empirista di idee più o meno sensibili, dove la “sensibilità” andrà
intesa come una misura della forza con cui le idee arrivano a imprimersi nella mente.
Il massimo di impressività si ha nei termini concreti e oggettivi, il minimo nei termini generali e astratti, oltre che ovviamente nel lessico intellettuale: i termini concreti si trovano in questo modo a essere investiti di un valore estetico che forse non
hanno mai avuto nelle poetiche italiane. Ad essi in particolare deve fare ricorso
l’espressione dell’universo affettivo. Nel capitolo espressamente dedicato alle passioni riguardo allo stile (XIV), Beccaria raccomanda che la «catena degli affettti
sia interspersa di sensazioni fisiche di oggetti», dal momento che «per sola cagione
degli oggetti medesimi gl’interni affetti si risvegliano e si sentono dentro di noi»:
dunque uno stile, le accessorie del quale fossero tutte espressioni semplicemente esprimenti l’interna successione degli affetti, e lasciasse all’immaginazione di ciascuno la
necessaria briga di appoggiarli sulla base degli oggetti e delle sensazioni fisiche ed esteriori […] diverrebbe perciò languido, noioso e metafisico […]; ed è questa la cagione
di quella sazietà che si prova in leggendo gli imitatori del Petrarca e talvolta lui medesimo; onde pensieri pieni di verità, e profondamente presi da’ più cupi recessi del
cuore umano, perché nudi e mancanti del loro vero sostegno, riescono spesse volte insipidi e nauseosi. (Ricerche, p. 180)
Dove, per una volta, abbiamo anche l’applicazione del principio a un caso critico concreto, quello del petrarchismo, che del resto è uno dei bersagli prediletti
della critica illuminista19.
5. Mi fermo, per lasciare spazio ad alcune considerazioni finali. La prima servirà a ribadire quanto già detto lungo il filo dell’argomentazione svolta finora: gli
18 J.-B.
DU BOS, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, Paris, chez Jean Mariette,
1719, p. 288. Sulla possibile influenza di Burke su questi passi, cfr. oltre, § 5.
19 Si vedano in questo volume i contributi di Giacomo Vagni e Amelia Juri.
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
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ideali di chiarezza, di unità nella varietà, e al limite di condensazione si lasciano
facilmente inquadrare in un’estetica di tipo classicista, per quanto rivisitata alla luce
di suggestioni moderne. Certo l’assenza di ogni riferimento letterario che non sia
latino rende difficile discernere un orientamento militante in questa critica – cosa
del resto verosimilmente estranea alle intenzioni del trattato –, tuttavia credo si
possa dire che la rifondazione filosofica della stilistica come scienza dello stile conduce non tanto a una liquidazione tout court del passato e della tradizione, quanto
a una riscoperta delle sue radici classiche: un classico, per inciso, virgiliano assai
più che omerico.
D’altra parte, e lo mostra bene in questo stesso volume il saggio di Silvia Contarini, i punti di riferimento delle Ricerche si estendono verosimilmente ai teorici
del sublime, probabilmente allo stesso Burke, ma come si è detto (ed è questa la
seconda considerazione), la sistemazione di Beccaria è all’insegna di una dialettica tra opposti: chiarezza e condensazione, implicito e impressività sono chiaramente vettori orientati in direzioni diverse, sicché l’ideale non può che essere teorizzato nei termini di un delicato punto di equilibrio. Non è questo uno stigma tanto
di Beccaria quanto di un’epoca: di un clima culturale che avverte con urgenza la
necessità di trovare un punto d’incontro tra le esigenze dell’immaginazione e dell’entusiasmo promosse dalle nuove estetiche, e un’istanza fondamentale di ordine
e di controllo razionale ancora sentita evidentemente come irrinunciabile20.
Restano ancora aperte in chiusura due questioni fondamentali. La prima è quella
già enunciata all’inizio: è opportuno, dopo tutto, parlare di critica per un’opera così
intimamente teorica quali sono le Ricerche? Come detto, in tutto il libro vengono
riprodotti ed esaminati non più di tredici lacerti di testi, tutti in latino: manca quindi
ogni riferimento non solo alla letteratura contemporanea o recente, ma anche alle
opere che fondano il canone letterario italiano ed europeo. Di più: si può aggiungere che, salvo un caso già citato e su cui torneremo, queste poche esemplificazioni riguardano sempre delle riuscite stilistiche, mai dei fallimenti o dei difetti,
il che pone qualche problema se per critica si intende un procedimento orientato
al giudizio di valore oltre che alla spiegazione, e dunque capace sì di decretare il
successo di un’opera, ma anche il suo contrario.
Viene in mente che un’accusa analoga torna come un leitmotiv nella storia della
critica stilistica successiva. Anche Spitzer sentirà il bisogno di schermirsi in un celebre saggio metodologico, asserendo che «la scelta dell’autore presuppone già una
valutazione», dato che «a priori non si studierà la lingua degli imbrattacarte e dei
20 Rinvio di nuovo al mio lavoro La lingua della poesia, cit., in particolare p. 190, dove è descritto in questi termini l’atteggiamento di Cesarotti traduttore dell’Ossian; ma considerazioni analoghe si trovano in PH. AUDEGEAN, Cesare Beccaria, cit., pp. 145-148, e G. FINZI, Beccaria e lo stile,
«Belfagor», XV (1960), p. 330. Sul rapporto delle Ricerche con Burke sono interessanti le conclusioni a cui giunge Lia Formigari (Lingua e stile, cit.): «Il confronto del suo [scil. Di Beccaria] testo
con quello di Burke mi è parso un esempio istruttivo del modo in cui spesso accade, nella storia delle
idee, che da una stessa posizione teorica possano trarsi conseguenze e applicazioni diverse o addirittura divergenti» (p. 165), la divergenza situandosi proprio in corrispondenza di una pregiudiziale
classicistica a carico del milanese.
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Carlo Enrico Roggia
mestieranti»21, col che il critico veniva a ritagliare alla sua stilistica uno spazio eminentemente esplicativo o conoscitivo, affidando ad altre istanze e ad altri mezzi il
momento della valutazione, o del giudizio di valore. Nelle Ricerche, tuttavia, c’è
almeno un’eccezione a questa regola, ed è l’esempio già citato sopra, in cui sono
presi di mira gli «imitatori del Petrarca» rei di aver violato il principio di impressività. Per quanto si tratti come detto di un bersaglio quasi canonico della critica
progressista della seconda metà del Settecento, resta tuttavia, oltre che un giudizio non privo di una sua acutezza, un esempio di come sia possibile mettere l’armamentario di questa stilistica al servizio di una valutazione aperta, tanto positiva
che negativa, delle opere. È chiaro che per completare il discorso bisognerebbe andare oltre Beccaria: cercare se e dove i principi di questo tipo di stilistica sono stati
effettivamente utilizzati in chiave critica nel Settecento. È un lavoro tutto da fare,
ma intanto basterà almeno tornare di nuovo a Cesarotti, la cui opera critica (si pensi
solo al lavoro su Ossian e su Omero) attinge largamente a un repertorio metodologico e teorico del tutto comparabile a quello descritto sopra.
La seconda questione non risolta riguarda invece il seguito di queste idee e di
questi procedimenti: muoiono con quel Settecento alla cui temperie sembrano così
intimamente legati oppure lasciano un’eredità? E se la lasciano, fin dove arriva, e
quali sono le vie lungo le quali essa dispiega la sua influenza? Ritengo (senza però
avere il tempo per dimostrarlo) che questa stilistica ingenuamente cognitiva e a dominante semantica abbia lasciato una traccia effettiva lungo l’Ottocento: di nuovo
seguire questa traccia richiederebbe una ricerca a sé, che non è certo questo il luogo
per impostare, ma a cui mi arrischierei ad additare come punto di partenza il solido filone classicista che attraversa il secolo decimonono, dal Monti critico di sé
stesso a certi aspetti della critica carducciana, non senza passare per il classicista
anomalo Leopardi.
Certo, quando poi la stilistica si affermerà in Italia nella prima metà del Novecento intorno alla triangolazione Croce-Spitzer-Contini, avrà tutt’altra base
teorica, e tutt’altra curvatura22. Germoglierà su radici idealistiche, e sarà innanzitutto una stilistica dell’individuo, fondata sul presupposto che esista «un’armonia
prestabilita, una misteriosa coordinazione fra volontà creativa e forma verbale»23.
Lontanissima dall’immaginare che esista qualcosa come un centro unificatore dell’opera letteraria (un principium individuationis o un “etimo spirituale”), la stilistica professata da Beccaria è tipologicamente diversa: è focalizzata sulla lingua
e non sull’individuo, e non è affatto disposta a vedere qualcosa di intrinsecamente
misterioso nel rapporto tra volontà creativa e forma verbale. Anzi: il suo programma
nasce proprio dalla fiducia intorno alla possibilità di illuminare di luce piena e di21 Cfr. L. SPITZER, Stilistica e linguistica, in ID., Critica stilistica e semantica storica, Roma-Bari,
Laterza, 1975, p. 43.
22 Cfr. per questo D. COLUSSI, La critica stilistica tra forme e mondo: Spitzer, Contini, Auerbach,
in S. BRUGNOLO, D. COLUSSI, S. ZATTI, E. ZINATO, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Roma, Carocci, 2016, pp. 107-137.
23 Cfr. L. SPITZER, L’interpretazione linguistica delle opere letterarie, in ID., Critica stilistica e
semantica storica cit., p. 52.
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
171
retta ogni recesso di quel rapporto. Per certi versi, il suo è un programma che può
ricordare piuttosto quello di Bally: quella di Beccaria può in fondo ben essere definita una stylistique de la langue confinata nel recinto poetico.
In un’epoca in cui le scienze del linguaggio hanno imboccato con decisione la
via cognitiva, mettendo al centro del loro programma i rapporti tra linguaggio e
mente, se non tra linguaggio e cervello, abbiamo forse la possibilità di sentire un
po’ più vicina questa stilistica: se non per le risposte che dà, almeno per le domande
che pone. Ad ogni modo, quando si voglia dare una spiegazione piena della straordinaria fortuna della stilistica nell’Italia dell’ultimo secolo, sarà forse utile prendere in considerazione anche la natura del terreno in cui essa si è piantata: un terreno accogliente, reso fertile dall’eredità mai intermessa di quella che ho chiamato
“stilistica della forma” di matrice umanistica, ma anche da questa illuminista “stilistica del contenuto”: magari ingenua, ma non priva di lampi di intelligenza, e comunque capace di interpretare istanze della cultura italiana forse più tenaci di
quanto si sarebbe portati a pensare.
Gabriele Bucchi
Introduzione
p.
7
I. CRITICA, FILOLOGIA, CANONE
William Spaggiari
Dall’Arcadia al Parnaso: il canone della moderna poesia
Amelia Juri
Anton Federigo Seghezzi editore delle «Opere» di Pietro Bembo
(Venezia, Hertzhauser, 1729): prime osservazioni sul commento
ai poeti rinascimentali nel Settecento
Renzo Rabboni
L’edizione delle «Opere» del Tasso: due iniziative di primo Settecento
(Venezia 1722, Firenze 1724)
Giacomo Vagni
I poeti del Cinquecento nelle prose di Parini e Bettinelli
» 21
» 33
» 47
» 65
II. CRITICA MILITANTE E GENERI LETTERARI
Simone Forlesi
Una polemica “mediata” tra Addison e Voltaire intorno al genere epico.
Lo «Spectator» nel cantiere del «Paradiso perduto» di Paolo Rolli
Stefania Baragetti
Verso una nuova letteratura: il dibattito sulla poesia d’occasione
Anna Maria Salvadè
Dialoghi e lettere dall’aldilà: note su un genere di saggistica letteraria
Francesca Savoia
Ancora su Baretti, Voltaire e Shakespeare
Roberta Turchi
Il lavoro autocritico del primo Alfieri
» 81
» 93
» 105
» 117
» 129
188
Indice
III. CRITICA E STORIA DELLE IDEE
Silvia Contarini
Intorno a Burke: tracce della ricezione italiana
dell’«Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful»
nel “tournant des Lumières”
Carlo Enrico Roggia
La (proto)critica stilistica di Cesare Beccaria
» 147
IV. INDICI
» 173
» 159