in Fraternità ferita e riconciliazione, a cura di Rossana Ragonese,
Ancora, Milano 2017, pp. 106-118.
5
Il perdono nella giustizia di transizione
Francesco Viola
*
Il carattere religioso ed etico del perdono è fuori discussione,
mentre è più controverso il suo ruolo strettamente politico e giuridico. Ci si chiede se sia possibile istituzionalizzare in qualche modo
il perdono senza che con ciò stesso si perda il suo significato più
profondo e più autentico. Ci sono, tuttavia, istituti giuridici che
richiamano l'idea di perdono.
Se, ad esempio, guardiamo all'ordinamento giuridico italiano,
. possiamo enucleare almeno sei istituti giuridici del genere, peraltro
presenti in tutto o in parte anche in altri ordinamenti giuridici1. Si
parla, infatti, di «perdono giudiziale» quando il giudice, in considerazione della minore età e del ravvedimento, rinuncia ad esercitare
la pretesa punitiva, astenendosi dal pronunciare una condanna cb.e
pure in linea di principio potrebbe essere emessa, cioè in presenza
di una colpevolezza. C'è poi la «grazia», che è un atto di clemenza
individuale, che estingue la punibilità in concreto e che interviene
· Francesco Viola è professore emerito di Filosofia del Diritto nell'Università di
Palermo. È co-direttore della collana Recta Ratio, della rivista «Ragion pratica» e
della rivista «Ars interpretandi». Dal 2010 al 2014 è stato presidente della Società
Italiana di Filosofia del diritto e direttore della «Rivista di Filosofia del diritto». I
suoi scritti sono dedicati prevalentemente ai temi dell'ermeneutica giuridica, dei
diritti umani e del diritto naturale.
1
Cf M.Q. Silvi, Declinazioni giuridiche del perdono, in G. Lorini (a cura di), Atto
giuridico, Adriatica Editrice, Bari 2002, pp. 260ss. Non si considera in questo
elenco la prescrizione, che è palesemente una forma di oblio istituzionale per
ragioni utilitaristiche. Infatti, giustamente, i crimini più gravi (primo fa tutti il
genocidio) sono imprescrittibili.
106
dopo la condanna; c'è anche la «purgazione della mora», con cui
l'offeso rinuncia alla propria pretesa maturata sulla base degli effetti prodotti dalla costituzione in mora del debitore; c'è ancora la
«remissione del debito», che appare più vicina al perdono quando il
debito è derivato da fatto illecito; ovviamente c'è «l'amnistia», che
solitamente è considerata la più vicina all'idea di perdono ma che
sicuramente se ne discosta per il suo carattere astratto; ed infine
c'è la «dispensa», in cui l'amministrazione rinuncia ad esercitare
un suo diritto, ma che sicuramente si distingue dal perdono in
quanto riguarda comportamenti futuri.
Ciò che accomuna queste diverse forme di quello che possiamo
chiamare cumulativamente il «perdono giuridico» sta nel fatto che
si rinuncia ad una pretesa legittima di rivalsa. Spesso ciò è dettato
da ragioni di opportunità e di addolcimento della pena. È questo
sufficiente affinché si possa parlare in senso proprio di perdono?
Non lo credo affatto. Il perdono non è semplicemente una rinuncia
a punire un colpevole, ma mira a ben altro, ha traguardi molto più
elevati, quali quello della riconciliazione e dello stesso superamento della colpevolezza. Si dirà, però, che il diritto non può spingersi
più avanti di cosi. Il diritto è prigioniero della logica dell'equivalenza e della simmetria e si può ben poco discostare da essa. Il
perdono va contro questa logica. Anche l'amnistia, che, insieme
alla grazia, è l'istituto giuridico più vicino al perdono, in realtà è
ben lontano da esso. La sua derivazione da «amnesia» indica chiaramente - come ha notato Ricoeur2 - quell'oblio della memoria,
quella dimenticanza dei fatti compiuti, quella cancellazione di ciò
che è stato che sono proprio ciò che il perdono vuole e deve evitare.
Per questo esamineremo
un altro tentativo d'istituzionalizzare
I
il perdono, quesfa volta di tipo politico piuttosto che strettamente
giuridico, ancne ウセ│@ il diritto è chiamato a svolgere un ruolo importante. Mi riferisco a ciò che a partire dagli ultimi due decenni
' P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio (2000); tr. it. di D. !annotta, Cortina,
Milano 2003, pp. 642-646.
107
del secolo scorso è stato chiamato «transitional justice»3• Si tratta
del problema di come amministrare il passaggio da un regime
dittatoriale o totalitario ad un regime democratico, ma non già
in senso puramente formalistico. La democrazia deve essere realmente accettata, anche se non è ancora possibile instituirla in
modo pieno e completo. In questi casi - com'è noto -, quando il
regime precedente ha lasciato dietro di sé una lunga scia di lacrime
e sangue, il tessuto sociale deve essere ricostruito dalle basi, poiché
tra i cittadini vi sono ancora i responsabili dei crimini passati e
anche i fiancheggiatori e coloro che con la loro ignavia non hanno
impedito gli atti di violenza.
Bisogna notare che a questo proposito sono possibili tre tipologie
sulla base del modo in cui è avvenuto il crollo del regime ingiusto
e tirannico, cioè dall'esterno, dall'interno e dall'esterno e interno
insieme. I cittadini oppressi possono essere stati liberati dall'esterno in seguito ad una guerra, come nel caso della seconda guerra
mondiale; possono liberarsi da sé in seguito ad una guerra civile,
come nel caso della lotta contro l'apartheid in Sudafrica; possono
liberarsi da sé ma con l'aiuto determinante di potenze esterne,
come nel caso della caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo.
Certamente bisognerà tener conto della situazione di partenza nel
predisporre la strategia più adeguata al passaggio verso la democrazia. La logica punitiva dei processi di Norimberga e di Tokio
(e, più di recente, dei Tribunali Penali Internazionali per la ex
Jugoslavia e per i Crimini in Rwanda) forse è giustificata quando
si tratta di un regime totalitario (e quindi con debole opposizione
interna) e quando i giudici sono esterni, anche se può nuocere
alla loro imparzialità il fatto che siano designati dai vincitori. Invece, quando si tratta di un regime dittatoriale (e quindi con una
consistente opposizione interna) e quando si esce da una guerra
civile, allora la logica strettamente giuridica impedisce quella
'Per un'idea generale rinvio a C. Corradetti, Che cos'è la giustizia di transizione
(Transitional Justice), in «Parolechiave», 2015, I, pp. 231-242.
108
riconciliazione sociale che è il presupposto della democrazia. La
giustizia di transizione propriamente vuole affrontare questi casi
e sarà oggetto della nostra riflessione proprio perché il perdono è
una parte costitutiva di essa. Di quale perdono si tratta?
Qui noi considereremo la giustizia di transizione solo come un
modello di carattere paradigmatico, che trova nel caso del Sudafrica
il suo esempio migliore\ ma che è stata applicata con varianti interne
significative in Argentina, Cile e in altri paesi dell'America Latina.
L'idea generale è quella di «comprendere e non vendicare». La
giustizia di transizione è una giustizia politica e non giuridica, perché il suo obiettivo non è tanto di focalizzarsi sulle singole azioni
di particolari individui, ma di portare sulla scena pubblica l'intero
quadro delle violazioni al fine di raggiungere il traguardo ultimo
di una riconciliazione nazionale. Ciò non significa che per raggiungere tale obiettivo le azioni degli individui non siano importanti e decisive, ma solo che esse vengono considerate nel contesto
generale in cui sono state compiute al fine di cogliere la loro piena
portata. Per questo il processo giudiziario è inadeguato, in quanto
non adatto a raggiungere la verità storica di un complesso di eventi
di carattere collettivo. Conseguentemente, l'organo giudicante non
è (o non dovrebbe essere) in senso proprio un tribunale, ma una
commissione rappresentativa della società civile, dei gruppi religiosi e dei movimenti politici. Si tratta di un organo socio-politico
fornito di poteri paragiuridici e, pertanto, da ben distinguersi dai
Tribunali ad hoc. I problemi che esso solleva non possono essere
qui discussi, ma è chiara la difficoltà di presentarlo come un organo super partes e come realmente indipendente dal governo.
Le tappe della giustJzia transizionale possono essere così individuate: recupero della verità storica attraverso la ricostruzione della
;
._
セ@
セ@
• Mi riferisco ovviamente alla Commissione <ffruth and Reconciliation» (19961998), istituita dal presidente del Sudafrica Nelson Mandela e presieduta da
monsignor Desmond Tutu. L'obiettivo di questa Commissione è stato quello
di «collezionare le testimonianze, consolare le offese, indennizzare le vittime e
amnistiare coloro che confessassero di aver commesso crimini politici».
109
memoria (truth telling); identificazione degli autori delle gravi violazioni; coinvolgimento degli autori delle violazioni (persecutors)
in un percorso di confessione e di presa di coscienza delle proprie
responsabilità; possibile amnistia o sensibile riduzione della pena
per coloro che, oltre a confessare senza reticenze, avessero provato
la natura «politica» del loro crimine; riparazione delle vittime;
sollecitare il perdono personale in aggiunta al perdono politico e
attivare processi di riconciliazione nazionale5 •
Questa molteplicità di obiettivi dice chiaramente qual è il punto
centrale della questione. Si tratta, infatti, di collegare il principio
etico-giuridico e irrinunciabile della responsabilità individuale
con quello etico-politico della responsabilità collettiva. Mentre il
primo produce torti e vittime, turbando le relazioni intersoggettive, il secondo produce ampie fratture nella comunità politica e
nei rapporti tra le generazioni. Si tratta del difficilissimo compito
di riannodare tra loro due coppie di relazioni che l'opera della
giustizia tende a separare per meglio padroneggiarle.
Da una parte, c'è la relazione tra passato e futuro. La giustizia
giuridica si rivolge al passato, che considera come un dato immodificabile. La giustizia politica, invece, guarda al futuro e alla pace
sociale. Di conseguenza, tende a mettere tra parentesi il passato, a
dimenticarlo, perché anch'essa è convinta che non sia modificabile.
Dall'altra, c'è la relazione tra ciò che è individuale o intersoggettivo e ciò che è collettivo o comunitario. Qui, al contrario, la
tendenza attivata dalla prospettiva meramente individualistica è
quella di misconoscere un ruolo in certo senso autonomo della
dimensione comunitaria. Noi, però, sappiamo, e la storia l'insegna abbondantemente, che non basta risarcire in qualche modo
singolarmente le vittime e dare loro giustizia quando esse sono tali
' Cf A. Ceretti, Riparazione, riconciliazione, ubuntu, amnistia, perdono. Alcune
brevi riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana, in «Ars interpretandi», 9, 2004, pp. 47-67 e bibliografia ivi citata. Cf anche
M.P. Aquino e L.C. Susin (a cura di), Riconciliazione in un mondo di conflitti, in
«Concilium», 39 (5), 2003.
llO
in ragione della loro appartenenza e della loro identità culturale.
Resta la ferita nel cuore del gruppo sociale e si trasmette alle generazioni future in modo inalterato e forse ancora più esacerbato. C'è
una solidarietà tra le generazioni: quelle passate lasciano a quelle
future i doni e i pesi della loro eredità6• La vita sociale non è un
fatto meramente biologico, ma eminentemente storico e culturale.
Ogni cultura è sostanziata di ricordi e le identità culturali spesso
sono alimentate e rafforzate dalle contrapposizioni ataviche. Il loro
superamento viene percepito come una minaccia rivolta al cuore
della stessa identità culturale.
Come si può constatare, il problema dell'atteggiamento delle
vittime singolarmente considerate e, soprattutto, del loro gruppo
di appartenenza comunitariamente considerato è cruciale almeno
quanto quello dei carnefici e dei criminali e forse anche di più. A
questi ultimi sono richiesti la confessione e il pentimento, che sono
facilitati dall'atteggiamento di pacificazione assunto dai vincitori,
ma a coloro che sono stati gravemente offesi si chiede una cosa ben
più difficile e supererogatoria, cioè il perdono. Mentre la confessione e il pentimento sono dovuti in ragione degli atti compiuti, il
perdono per sua stessa natura non è cosa dovuta e in questo senso
- come è stato più volte notato - appartiene al regime del dono,
anche se è un dono sottoposto alla condizione che sia richiesto, a
differenza del dono spontaned. C'è un'incommensurabilità tra il
carattere non condizionale del perdono e il carattere condizionale
della richiesta di perdono8 •
Tutto ciò è ulteriormente aggravato quando si passa dalla prospettiva del singofo individuo a quello del gruppo. Possono i popoli
o i gruppi sociali perqonare?9 Possono i popoli e i gruppi sociali
•Gli israeliti confessano i propri peccati e l'iniquità dei loro padri. CfEsdra 9-10
e Neemia9.
' Cf P. Ricoeur, Il perdono può guarire?, in «Hermeneutica», 1998, pp. 157-163.
• P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, cit., p. 689.
• Cf K.M. Kodalle, Verzeihung nach Wendezeiten?, Palm, Erlangen 1994.
lll
chiedere perdono? La risposta della storia non è confortante. Non
è raro constatare che le vittime di ieri possono trasformarsi nei
carnefici di oggi o di domani, perché il male fatto ha generato una
catena di vendette che solo il perdono autentico riesce a spezzare.
E non è neppure raro constatare quanto il male compiuto resti come un'inguaribile e non accettata ferita nella memoria storica del
popolo che non ha saputo impedirlo. Ma questo perdono o questa
richiesta di perdono dovrebbe provenire dall'identità culturale
nel suo insieme che non è la mera somma dei singoli individui.
Dubito che ciò sia possibile da parte di una collettività in quanto
tale. Chiedere e dare perdono è in senso proprio un atto individuale e personale, che non tollera rappresentanza, sicché in realtà
nei rapporti fra i popoli e i gruppi sociali non è sufficiente andare
alla ricerca di atti ufficiali e generali di perdono o di richiesta di
perdono, che anche se presenti non sono conclusivi 10, ma piuttosto
dell'instaurazione di uno stato di pacificazione, di riconciliazione
e di accoglienza che sono situazioni sociali conseguenti al perdono
e, quindi, possono essere considerati come indizi che la richiesta di
perdono e lo stesso perdono siano realmente avvenuti.
Poiché il perdono è atto non dovuto ed eminentemente gratuito,
quello che possiamo fare è soltanto di creare le condizioni favorevoli affinché questa irruzione della grazia sia possibile. La prima
di esse è quella della confessione, cioè del riconoscimento della
colpa, ma questa a sua volta è impossibile al di fuori della ricerca
comune della verità. Si ritiene a ragione che la conoscenza della
verità storica abbia di per se stessa una funzione catartica e ciò
si capisce bene ove soprattutto si pensi che i regimi dittatoriali e
10
Ciò vale anche per il perdono chiesto da Giovanni Paolo II per i peccati e le colpe
della Chiesa. Di per sé quest'atto ancora non dice se il popolo di Dio nel suo insieme l'abbia fatto proprio e neppure se sia stato accolto da coloro a cui il perdono
è richiesto, cioè dai non credenti o dai credenti in altre confessioni cristiane o in
altre religioni. Sono questi due aspetti che non bisogna dare per scontati. Cf AA.
VV., La Chiesa e le colpe del passato, in «Rivista di teologia morale», 32, 2000, 2,
pp. 149-186.
112
totalitari vivono di menzogne e di segreti. Le vittime scompaiono
nel nulla e le prove sono manipolate, sicché mancano gli elementi
per stabilire la verità e la propaganda dei mezzi di comunicazione
influenza subdolamente l'opinione pubblica. Si tratta, dunque,
di ricostruire la memoria individuale e collettiva alla luce della
verità storica. Contrariamente a quello che pensa Borges, per cui
il miglior modo di perdonare è dimenticare, si può perdonare
solo ciò che non è stato dimenticato e, quindi, che è con certezza
conosciuto. Non si può ricordare ciò che non si sa e non s'è mai
saputo. La purificazione della memoria richiede che non venga
meno la memoria.
Ogni comunità politica s'identifica attraverso la narrazione che
continuamente fa della sua storia. Essa tollera che al suo interno
s'intreccino narrazioni differenti, ma in qualche modo compatibili, anzi spesso ciò è proprio delle società più sviluppate e aperte.
Tuttavia non accetta narrazioni contraddittorie, contrapposte o
alternative. Esse hanno l'effetto di lacerare la comunanza senza
cui è vano parlare di comunità e di pace sociale. Se questo avviene,
allora una comunità deve avere il coraggio di affrontare dalla base
l'opera della narrazione comune. A questo fine bisogna mettere da
parte le situazioni di fatto e le risultanze esteriori della storia. Come nei processi c'è la presunzione d'innocenza, così nei cammini
della memoria bisogna presumere che gli atti, per quanto cri:rninosi
in modo orribile, siano stati dettati da ragioni dotate di una certa
qual capacità giustificativa che attenua il loro carattere disumano.
È questo che s'intende quando si parla della natura «politica» del
crimine, cosa che dal punto di vista strettamente etico è ben poco
rilevante, ma che lo è per una vita in comune.
La ricostruzione della memoria comune esige che si ripristini una certa eguaglianza tra coloro che debbono pa;tecipare a
quest'opera. Per questo bisogna fare il possibile per attenuare la
posizione di vantaggio che ha il governo e la parte che lo sostiene.
Una narrazione comune richiede condizioni che sono le stesse
di quelle proprie del discorso pubblico, poiché, in presenza di
r
セ@
113
narrazioni alternative ed incompatibili, bisogna imparare quello
che Ricoeur ha chiamato «l'uso critico della memoria»11 • Ogni
racconto non può che farsi da un determinato punto di vista,
quello del soggetto che racconta. Non sono possibili racconti da
nessun luogo e di nessuno. La verità storica si trova al crocevia di
punti di vista differenti, ma ciò non deve intendersi nel senso del
consenso per intersezione (overlapping consensus) di Rawls che è
puramente casuale e resta monologico. Qui si tratta di imparare
a raccontare dal punto di vista dell'altro. Il mettersi nei panni
dell'altro è secondo Hegel proprio della persona. Ma ciò significa
anche coltivare la capacità di guardare se stesso da un punto di
vista esterno e, conseguentemente, di assumere un atteggiamento
critico nei confronti di se stesso. Ognuno ha non solo qualcosa da
rimproverare, ma anche qualcosa da rimproverarsi. Ma ciò implica
la disponibilità a revisionare la propria memoria, cioè la propria
interpretazione dei fatti, poiché la memoria è costituita dal senso
che diamo alle nostre esperienze di vita e i ricordi non riguardano
mai nudi fatti ma il modo in cui gli eventi sono stati vissuti. In
tal modo la memoria da individuale o di gruppo si fa comune e
pubblica, cioè si traduce in linguaggio.
Alla luce di queste considerazioni bisogna riconoscere che i destinatari della giustizia di transizione non sono tanto coloro che si
sono macchiati di efferati delitti e che possono essere considerati
a tutti gli effetti come criminali, ma soprattutto coloro che hanno
appoggiato con convinzione il passato regime, che hanno occupato posti di responsabilità, che hanno coltivato e diffuso idee non
favorevoli al rispetto della dignità umana e all'eguale trattamento
degli esseri umani, contribuendo così a stimolare e provocare le
attività propriamente criminali a cui peraltro non hanno direttamente partecipato. Si tratta di coloro che sono responsabili sul
piano politico, e forse anche morale, piuttosto che sul piano stret-
tamente giuridicd 2 • Tra costoro vi sono spesso molti intellettuali.
La purificazione della loro memoria, il pentimento e la richiesta di
perdono di costoro è per la pace sociale ben più importante della
punizione esemplare dei criminali.
Un'ultima osservazione riguarda direttamente il perdono di cui
non bisogna sottovalutare le ardue difficoltà. Bisogna dire che esso
non può essere istituzionalizzato. Ogni volta che diventa una cosa
normale, un fatto di routine o burocratico, non si tratta mai di
autentico perdono, ma di una finzione che potrebbe sortire effetti
di risentimento e di rivalsa. Mentre oppressori e vittime sono impegnati insieme nella purificazione della memoria al fine di ristabilire una narrazione comune, solo le vittime possono perdonare.
Cosa significa ciò? Per comprendere l'enormità dell'atto di perdono
bisogna considerare le relazioni che abbiamo con le nostre azioni.
Attraverso le azioni l'essere umano dà forma e identità a se stesso.
L'agire porta a compimento l'essere alla luce della libertà e della
responsabilità. Noi siamo ciò che diveniamo nell'agire, cosicché
siamo al contempo padroni delle nostre azioni nel momento della
loro scelta e della loro esecuzione, ma dopo siamo prigionieri dei
loro effetti. Il nostro volto reca i segni indelebili delle nostre azioni.
Non solo non possiamo più cancellare ciò che è stato compiuto, ma
neppure possiamo far sì che esso non lasci traccia nel nostro essere
e nel cammino verso la sua realizzazione. Gli altri ci conoscono e
ci riconoscono per le nostre azioni. Dagli altri veniamo giudicati
per le nostre azioni.
In questo senso. è notato che il passato viene considerato come
già determinato, chiuso e immodificabile, per alcuni cammino
già compiuto verso il bepe e la felicità, per altri prigione da cui è
impossibile ・カ。、イセN@
Ma il perdono è una sfida a questa legge del
tempo e, quindl, alJà\temporalità dell'essere umano. Il perdono,
s
Sui vari tipi di colpevolezza (criminale, politica, morale ed esistenziale) rinvio
a K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania
(1946); tr. it. di A. Pinotti, Cortina, Milano 1996.
12
11
P. Ricoeur, Il perdono può guarire?, cit., p. 159.
114
115
quand'è autentico, mira a slegare le azioni compiute dall'essere
che le ha fatte 13 • Non si tratta di negare le responsabilità e neppure
di dimenticare le colpe, ma di liberare l'essere dai segni nefasti
del suo agire, riconoscendo che le sue capacità di fare il bene non
sono esaurite dal male compiuto ma sopravanzano le azioni fatte.
Ma nessuno può fare ciò da se stesso, nessuno può perdonare se
stesso, solo gli altri ci possono perdonare. Per questo ogni concezione rigorosamente individualista non conosce la possibilità del
perdono, che presuppone il carattere relazionale della vita umana.
Ciò spiega anche perché le culture (come quella africana) più aperte
alla solidarietà siano più sensibili alla logica del perdono di quelle
governate da un'antropologia atomistica. Questa interdipendenza
è rigorosamente circolare: nessuno potrà ricevere perdono se non
sarà disposto a concedere perdono. «Se voi infatti perdonerete agli
uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;
ma, se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro
14
perdonerà le vostre colpe» •
È qui evidente il carattere in ultima istanza religioso del perdono, poiché solo così possono essere realmente vinte e superate
le leggi del tempo e della temporalità. Potrebbe sembrare che la
dimensione religiosa sia un'aggiunta estrinseca al perdono puramente umano e, invece, ne è l'inveramento. Non v'è perdono
divino senza perdono umano, ma questo sarà veramente tale solo
se coloro che perdonano si riconoscano a loro volta bisognosi di
perdono in quanto solidali nella colpa, foss'anche per la sola ragione dell'appartenenza alla comune umanità15 • D'altronde, l'esigenza
di un ricorso alla prospettiva religiosa si percepisce già chiara"Ancora una volta dobbiamo rinviare all'acuto parallelismo istituito da Ricoeur
tra la promessa, che lega l'uomo alla sua azione, e il perdono che slega l'uomo dal
suo atto. Cf P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, cit. pp. 696-702.
,. Mt 6,14-15.
" La connivenza nel male è magistralmente illustrata da H. Arendt, La banalità
del male: Eichmann a Gerusalemme (1963); tr. it. di P. Bernardini, Feltrinelli,
Milano 2010.
116
mente all'interno della stessa problematica giuridica e politica.
Il rispetto della dignità umana richiede la possibilità di separare
o di «slegare» l'essere umano dalle sue particolari azioni ed esige
di riconoscere tale dignità anche nel più feroce aguzzino e nel più
abietto criminale. Come ciò sarà possibile se non in un'ottica in
ultima istanza religiosa?
Ritornando ora alla problematica della giustizia nel tempo della
transizione politica, dobbiamo riconoscere che essa, almeno nell'esempio del Sudafrica, è in qualche modo aperta alle considerazioni
già fatte. È vero che può essere criticata da molteplici punti di vista: per il tentativo di istituzionalizzare il perdono, per il fatto di
favorire confessioni insincere e stimolate dalla prospettiva di pene
più miti, per il pericolo di pervenire a soluzioni compromissorie
e negoziate al posto delle risposte richieste dalla stretta giustizia.
Tuttavia bisogna considerare che il suo obiettivo diretto è quello di
una giustizia che superi la logica tradizionale della bilancia e della
contrapposizione fra diritto e torto. È una giustizia che guarda al
futuro piuttosto che fare i conti con il passato. È una giustizia che
costruisce nuove relazioni piuttosto che rettificare quelle preesistenti.
Se appena gettiamo uno sguardo all'imponente attenzione che
oggi viene rivolta al tema della giustizia, ci accorgiamo facilmente che essa si articola in due grandi movimenti complementari:
da una parte quello che conduce ad una frammentazione della
giustizia e, dall'altra, quello che aspira ad una ricomposizione
unitaria del concetto di giustizia. Il concetto di giustizia politica
è stato opportua'amente disarticolato in settori distinti sulla base
dell'oggetto a cui adeg)larsi con appositi criteri di distribuzione16 •
Inoltre, ci si fa più attenti alla distinzione fra la giustizia politica,
che è quella delle ゥセエオコッョL@
la giustizia giuridica, che è quella della
soluzione dei conflitti dei casi concreti, quella morale rivolta al
1
•
Basti qui ricordare le «sfere di giustizia» individuate da M. Walzer, Spheres of
fustice, Basic Books, New York 1983.
117
bene e alla virtù, quella economica governata dalla logica del mercato, ma non dimentica della solidarietà, e quella religiosa rivolta
al trascendente. Ma questa frammentazione non è l'ultima parola,
perché la giustizia è anche un'armonia fra questi differenti profili
17
della vita umana. Quando oggi si parla di «giustizia globale» , che
tuttavia si inscrive sempre nell'ambito più specificamente politico,
forse si intende evocare anche quest'aspirazione dell'umanità ad
una riconciliazione tra gli uomini e con la natura. In questo senso
la giustizia si compie veramente e pienamente solo nella pace. Ma
8
non c'è pace senza perdona1 •
Il cammino ininterrotto e mai concluso verso il compimento
della giustizia richiede una collaborazione fra i suoi differenti
livelli, pur nel rispetto della loro specificità. Ciò significa che le
distinzioni tradizionali tra i diversi settori della vita pratica (morale, politica, diritto, economia, religione) sono diventate più fluide
e porose e che si aprono spazi d'interdipendenza e di prudente
commistione, come quelli che abbiamo visto nel caso della transitional justice19 , perché la giustizia delle azioni è volta a realizzare
uno stato generale di giustizia nelle relazioni umane. Ma questo è
un ideale che supera le capacità puramente umane. «Misericordia
e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità
20
germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» •
" Cf I. Trujillo, Giustizia globale. Le nuove frontiere de li'eguaglianza, il Mulino,
Bologna 2007.
"Giovanni Paolo li, Non e' è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono,
Messaggio per la pace del 1° gennaio 2002.
" Cf R. Teitel, From Dictatorship to Democracy: The Role of Transitional f ustice,
in H. Hongiu Koh and R.C. Slye, Deliberative Democracy, Yale U.P., New Haven
1999, pp. 272-290.
20
Sal 85, 11-12.
118
6
La misericordia come fondamento della civitas
Rileggendo il X libro del De civitate Dei
Mattia Antonio Agostinone *
«Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo
stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo
che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità»1•
La risposta dello starets Giovanni alle domande rivolte a lui, al
papa e al pastore luterano, da parte dell'Anticristo, in seguito alla
richiesta di questi di concedere ai capi delle tre Chiese di praticare
il loro culto, previo riconoscimento della sua autorità assoluta,
rappresentano un buon punto di partenza per addentrarci in uno
dei sentieri del capolavoro agostiniano. Scritto tra il 412 e il 426,
in seguito al Sacco di Roma del 410, il De civitate Dei fu concepito
dal vescovo di Ippona per giustificare il cristianesimo dalle accuse rivoltegli dal paganesimo di esser responsabile del crollo della
civiltà romana. Questa, stando al giudizio dei detrattori, sarebbe
venuta meno a causa della diffusione della nuova religione e del
conseguente affievolimento del fervore religioso pagano.
Fin dai primordi, i cristiani dovettero scontrarsi con le accuse
del potere poliOco e uno dei motivi risiede nel fatto che esso si
presentò come un fenomeno religioso nuovo: non si configurava,
.
I
• Mattia Antoni<:> Agqstinone (Chieti 1988) è dottore in Filosofia. Sposato, è
borsista presso il Ct;ntro Universitario Cattolico ed è studioso del pensiero
patristico e medioevale.
' V. Soloviev, Tri ·rasgovòra. O voinié, progressie i konstié vsiemirnoi istorii so
vkliuceniem kratkoi poviesti ob antichrisie i s prilozeniiami, Trud, San Pietroburgo 1904'; tr. it. di G. Faccioli, I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo, Marietti,
Genova 1996', p. 190.
119