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TRASPARENZA BANCARIA

Il Titolo VI del T.U. origina dal coordinamento delle disposizioni contenute nelle leggi nn. 142 e 154 del 1992: la prima, di derivazione comunitaria (dir. 87/102 del 22 dicembre 1986, modificata da dirr. 90/88 del 22 febbraio 1990 e 98/7 del 16 febbraio 1998), in tema di credito al consumo; la seconda in tema di trasparenza contrattuale, nata da una singolare rincorsa tra disegni di legge e tentativi di autodisciplina.

TRASPARENZA BANCARIA Appunti per il corso di Diritto delle Banche a.a. 2013-2014 Antonella Antonucci Evoluzioni disciplinari del Titolo VI T.U. Il Titolo VI del T.U. origina dal coordinamento delle disposizioni contenute nelle leggi nn. 142 e 154 del 1992: la prima, di derivazione comunitaria (dir. 87/102 del 22 dicembre 1986, modificata da dirr. 90/88 del 22 febbraio 1990 e 98/7 del 16 febbraio 1998), in tema di credito al consumo; la seconda in tema di trasparenza contrattuale, nata da una singolare rincorsa tra disegni di legge e tentativi di autodisciplina. Pur presentando punti di contatto, basati su analoga catena informativa che si consolida nel contratto scritto, le due normative si differenziano per destinatari e finalità: - la disciplina sul credito al consumo mira a tutelare un contraente, identificato come debole sulla base di una serie di parametri, per salvaguardarne la posizione nei confronti del prestatore e rafforzarne la capacità di consumo col ricorso al capitale di credito; - la disciplina sulla trasparenza ha invece come destinatario la generalità della clientela e si caratterizza essenzialmente come disciplina a tutela degli assetti di mercato, nel momento in cui è principalmente destinata a colmare quelle che comunemente si definiscono asimmetrie informative, nella specie fra banca e cliente. Dati gli indicati rapporti fra le normative, il T.U. organizzava la materia in tre Capi, il I e il III che riprendono le norme della l. n. 154, il II che coordina la l. n. 142. Successivamente, il Titolo VI è integrato con un capo II bis, in materia di servizi di pagamento. L’intero Titolo VI – ad eccezione del capo II bis, di adeguamento a normativa comunitaria di armonizzazione massima – è stato sostituito ad opera del d. lgs. n. 141 del 2010 (successivamente oggetto di due interventi 'correttivi', dd. lgs. 218/2010 e 169/2012). Per quel che riguarda i Capi I e III, le modifiche salvaguardano il preesistente impianto del T.U., consistendo essenzialmente in misure di coordinamento nel T.U. di interventi successivi e di aggiornamento della disciplina in consonanza con l’evoluzione operativa delle banche e l’orientamento applicativo maturato dalla Banca d’Italia negli ultimi anni. La loro incidenza sarà quindi volta a volta evidenziata. Corpose modifiche sono invece apportate al Capo II, in adeguamento a normativa comunitaria di armonizzazione massima sul credito ai consumatori. Capo I - Ambito di applicazione. Le norme del capo I hanno portata generale sotto i due profili - soggettivo e oggettivo individuati dall'art. 115 T.U., che definisce l'ambito di applicazione della disciplina. Per il versante soggettivo, il 1° comma dell'art. 115 persegue puntualmente la finalità, indicata nella relazione al T.U., di delineare con nettezza i destinatari della disciplina, ricorrendo ad un criterio di individuazione soggettivo ed indicando come destinatari della normativa le banche e gli intermediari finanziari, entrambi soggetti definiti dallo stesso T.U. (rispettivamente all'art. 1, 1° co. lett. b e 2° co., lett. g) e da esso regolati. La rigida selezione soggettiva così operata è però suscettibile di incontrare integrazioni in applicazione della "norma di chiusura" - così la definisce la Relazione - di cui al 2° comma dell'art. 115, che attribuisce al Ministro dell'economia il potere di individuare, in considerazione dell'attività svolta, altri soggetti da sottoporre alle norme in parola. Le norme sulla trasparenza risultano così applicabili non più solo secondo un criterio soggettivo, ma secondo un criterio oggettivo, circoscritto dal riferimento all'attività svolta da un qualunque soggetto che già per ipotesi non è né banca né intermediario finanziario. E l'attività che può avere rilievo ai fini della norma va individuata con riferimento al 1° comma, che in via generale àncora l'ambito di applicazione della disciplina alle attività svolte da banche e intermediari finanziari, considerate senza distinguo, comprendendo quindi tutte le attività tipicamente svolte dagli indicati soggetti. Per altro aspetto l'area dei soggetti sottoposti alla disciplina in commento non è limitata dalla nazionalità dell'intermediario, bensì dalla localizzazione dell'attività: l'art. 115, 1° comma fa infatti riferimento alle "attività svolte nel territorio della Repubblica". In tal modo sicuramente si identificano le attività svolte in Italia da intermediari italiani e da intermediari stranieri tramite una succursale insediata nel nostro territorio (la regola dell'home country control si riferisce infatti alle norme di vigilanza, non a quelle che regolano i contratti al di fuori delle fattispecie e dei profili armonizzati), mentre per le attività svolte in regime di libera prestazione di servizi sembra preferibile ritenere che la disciplina trovi applicazione solo nell'ipotesi di spostamento del prestatore di servizi. L'art. 115, 3° co. detta poi il raccordo con la disciplina del credito al consumo e dei servizi di pagamento. Originariamente impostata secondo il criterio di specialità (le norme sul credito al consumo prevalevano su quelle generali poste in tema di trasparenza, che si applicavano quindi solo per i versanti non diversamente disciplinati), la norma ha visto poi capovolgere il criterio adoperato, prevedendo ora che le disposizioni del capo I “non si applicano ai contratti di credito disciplinati dal capo II e ai servizi di pagamento disciplinati dal capo II bis" salvo che non siano espressamente richiamate. L’inversione del criterio di collegamento dell’originario 3° co. è dovuta alla mutata tecnica normativa comunitaria, in precedenza impostata sul criterio dell’armonizzazione minima. Ora, invece, la disciplina del credito al consumo e dei servizi di pagamento sono entrambe di attuazione di direttive comunitarie di massima armonizzazione. A tal fine, viene ripreso il disposto del comma 3 bis (ante novella) riferito ai servizi di pagamento, disponendo che sia per tali servizi sia per il credito al consumo non possono trovare applicazione le regole generali del Capo I salvo espresso richiamo da parte del legislatore. L'ambito di applicazione della disciplina è infine definito da interventi normativi esterni alla tecnica dell'art. 115, 2° co. ed al rinvio del 3° co. - pur se conformi alla ratio delle regole considerate - estendendosi agli agenti e mediatori creditizi e ai servizi di Bancoposta. Capo I - Trasparenza e informativa. Le norme raggruppate sotto la targhetta "trasparenza" hanno in realtà contenuto eterogeneo, intrecciando previsioni relative alla pubblicizzazione di una serie di condizioni contrattuali ad altre che, direttamente o indirettamente , incidono sul contratto. Sulla sua forma e configurazione - sia chiaro! - non sul suo peso economico (salva la limitata eccezione relativa ai titoli di stato di cui all'art. 116, 2° co.), dato che le voci di costo pubblicizzate e inserite nei contratti restano quelle predeterminate dalle banche, finendo per includere anche i costi della trasparenza. Già all'art. 116, 1° co. T.U. s'incontra significativo esempio di tale commistione. Aprendo un articolo rubricato "pubblicità", il 1° co. s'avvia ponendo un obbligo di generalizzata informazione sulle condizioni economiche dei contratti e conclude: "non può essere fatto rinvio agli usi", con disposizione che incide sui contenuti delle condizioni pubblicizzate non meno che sul contratto poi concluso sulla base di tali condizioni. Con riguardo alle modalità di adempimento dell’obbligo di informazione, la norma in parola è stata modificata dal d. lgs. n. 141 elidendo il riferimento al "locale aperto al pubblico" quale unico luogo nel quale l’ intermediario è tenuto ad effettuare la pubblicità. Ciò deriva dalla constatazione dell’evoluzione dei canali di commercializzazione impiegati dagli intermediari, articolati specie attraverso l’uso di internet e “non più incentrati sullo sportello, come nel 1993” (Relazione allo schema di decreto legislativo). La possibilità, offerta dall’evoluzione tecnologica, di adoperare molteplici canali di contatto con la clientela - sia per iniziative di comunicazione, sia per adempimenti informativi, sia per operazioni dispositive - è da tempo impiegata dalle banche, che hanno affiancato all’operatività tramite sportelli l’operatività telefonica e quella on line, sia tramite siti web sia, più di recente, tramite ‘app’ per smartphone. Tale tendenza - funzionale ad una razionalizzazione dei costi, con contrazione della rete di sportelli e delle spese di produzione ed invio della documentazione, nonchè alla possibilità di raggiungere una più ampia e diversificata clientela e, in diversa prospettiva, ad essere raggiunti più agevolmente dalla clientela, con effetto incentivante dell’uso del canale bancario – è dunque raccolta dal d. lgs. 141, che parifica gli strumenti on line a quelli cartacei per gli adempimenti informativi, precontrattuali (art. 116) e in corso di contratto (art. 119). Quanto ai contenuti dell’informazione da somministrare si menzionano i tassi d'interesse, i prezzi e “le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti”, ivi compresi gli interessi di mora e le valute applicate per l'imputazione degli interessi. Per le operazioni di finanziamento, l’elenco si completa con la previsione, introdotta dal 'correttivo' della legge risparmio (art.13), della pubblicizzazione dell'indicatore funzionale all'identificazione dei tassi usurai (TEGM). È invece venuto meno, ad opera del d. lgs. n. 141, il riferimento espresso alle "spese per le comunicazioni alla clientela", in collegamento nuovo art. 127 bis, “considerato che queste dovrebbero essere fornite gratuitamente nella maggioranza dei casi” (Relazione). L’ABI, condivisibilmente, ritiene peraltro che ove ricorrano i presupposti per l’ applicazione di tali spese, l’ intermediario dovrà continuare a darne pubblicità alla stessa stregua di ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi offerti. Va infatti sottolineato che la locuzione "altre condizioni economiche" è suscettibile di essere interpretata in senso lato, ricomprendendovi tutte le condizioni, sia quelle di prezzo, sia quelle che non disciplinano direttamente oneri economici, ma che comunque riversano effetti sull'equilibrio economico dell'operazione. Il che giunge ad includere, secondo alcuni, ogni clausola contrattuale, dato che l'intero contratto regola rapporti economicamente rilevanti. Le condizioni pubblicizzate - sottolinea l'art. 116, 4° co. - non costituiscono offerta al pubblico ai sensi dell'art. 1336 c.c.; con il che certo si vuol dire che le informazioni pubblicizzate non valgono come proposta contrattuale, per cui la banca non è obbligata a contrarre con chiunque aderisca alla proposta, riservandosi una facoltà di valutazione del cliente. La norma non esclude, invece, il diritto del potenziale cliente gradito alla banca a veder trasfuse nel proprio contratto le condizioni pubblicizzate, che invece sussiste ed è pesantemente sanzionato, come fra poco si dirà. Modificando la disciplina precedente, il T.U. ripropone la sua tecnica di delegificazione anche in tema di pubblicità, attribuendo al CICR poteri che incidono sulla configurazione e sulla portata degli obblighi informativi. Ai sensi dell'art. 116, 3° co., infatti, il Comitato ha il potere di selezionare le operazioni e i servizi da sottoporre a pubblicità; di dettare disposizioni sulla forma, il contenuto, le modalità e la conservazione della pubblicità; di stabilire criteri uniformi per l'indicazione dei tassi d'interesse e per il calcolo degli interessi e degli altri elementi che incidono sul contenuto economico dei rapporti; di indicare quali fra gli elementi elencati al 1° comma vanno necessariamente indicati negli annunci pubblicitari con cui si rende nota la disponibilità delle operazioni e dei servizi. Per lunghi anni la materia è rimasta regolata dal d.m. Tesoro 24 aprile 1992, emanato in forza della l. n. 154 (e conseguenti istruzioni della Banca d'Italia, peraltro modificate sulla base del T.U.), e salvaguardato dalla clausola che, come d’uso, garantiva la continuità normativa collegando l'abrogazione della normativa secondaria all'emanazione di quella originata dal T.U. (art. 161, 5° co.). Solo molti anni dopo, la delibera CICR 4 marzo 2003 (con le conseguenti istruzioni della Banca d'Italia) interviene in maniera meditata a riorganizzare la normativa di trasparenza, tenendo conto dei limiti di effettività manifestati dalle regole previgenti, nonché delle consolidate evoluzioni delle tecniche di negoziazione. Sempre nella cornice della delibera CICR del 2003, le istruzioni della Banca d’Italia (attualmente vigenti nel versione aggiornata al d. lgs. n. 141 con provvedimento 9 febbraio 2011) sono state oggetto di profonda revisione (con prolungata consultazione sfociata nel provvedimento 27 luglio 2009) per ovviare alle criticità che continuavano ad emergere nella prassi applicativa, sotto i profili dell’effettività delle regole e della loro idoneità a ‘governare’ le tecniche e i prodotti negoziati. Alle diverse sollecitazioni – giunte anche dall’Autorità garante per la concorrenza che, in una corposa Indagine conoscitiva riguardante i prezzi alla clientela dei servizi bancari (IC32, chiusa il 1° febbraio 2007), evidenziava dettagliatamente numerosi profili di inadeguatezza dell’informazione offerta tramite i fogli informativi (dall’assenza di notizie relative ad una serie di voci di spesa, all’uso di una tecnica di frantumazione delle notizie atta a renderle poco chiare) – sembra rispondere l’intento di perseguire un ambizioso obiettivo di vigilanza: ricoprire un ruolo dettagliatamente conformativo del rapporto contrattuale fra banche e clientela. Ruolo che ha trovato poi base normativa nell’enunciazione all’art. 127 T.U. della specifica finalità di vigilanza “correttezza dei rapporti con la clientela” ad opera del d. lgs. 141, decreto che si colloca nel quadro di una interlocuzione stretta con l’evoluzione degli orientamenti di vigilanza. La vigente delibera CICR offriva spazi per raccogliere tale evoluzione. Si apre, infatti, fissando i seguenti "criteri generali" (art. 2) secondo cui l'informazione va resa: "con modalità adeguate alla forma di comunicazione utilizzata" (e l'art. 6 fornisce distinte puntualizzazioni per l'offerta fuori sede e l'offerta a distanza); "in modo chiaro ed esauriente". La qualità dell'informazione così configurata assume una sfumatura peculiare: va resa non solo in modo "chiaro" (e il criterio di chiarezza accomuna trasversalmente gli omologhi corpi normativi vigenti nei diversi segmenti del mercato finanziario), ma anche "esauriente". Tale qualificazione, non ricorrente, esprime l’esigenza di garantire la completezza (è questo il criterio ricorrente) dell’informazione, ma in maniera non indiscriminata, bensì funzionale alla sua utile acquisizione da parte del destinatario. Uno dei principali problemi che le discipline di trasparenza incontrano, infatti, è costituito dalla antitesi fra informazione completa e informazione agevolmente percepibile, sia per l'oggettiva complessità di contratti e prodotti, sia per la tecnica 'dell'ago nel pagliaio', di 'nascondere' cioè l'informazione rilevante in una gran messe di informazioni di minore o di nessun rilievo. La prospettiva di funzionalizzazione dell'informazione mira appunto a fronteggiare il problema. In tale prospettiva si apprezzano i riferiti poteri conformativi di cui all'art. 116, 3° co., dei quali la delibera fa un uso 'soft', da un canto rimettendo alla discrezionalità della Banca d'Italia l'articolazione di prescrizioni di dettaglio sui contenuti dell'informazione - che, nelle istruzioni, risultano orientate alla standardizzazione, ai fini della migliore comparabilità dell'offerta - d'altro canto tipizzando quattro strumenti di trasmissione dell'informazione: - un avviso denominato "principali norme di trasparenza", destinato a fornire le informazioni generali sui diritti e le tutele accordate dalla normativa in esame (art. 4); - un "foglio informativo" relativo a ciascun contratto o servizio regolato (cfr. elenco allegato alla delibera, modificabile dalla Banca d'Italia ai sensi dell'art. 3); - la consegna di una copia completa del contratto, che il cliente - senza che insorga alcun vincolo a contrarre - ha diritto ad ottenere, sia pure a richiesta e a proprie spese, in fase precontrattuale "per una ponderata valutazione del contenuto" (art. 8). Non una generica informazione (orale) quindi, ma il diritto - nuovo - a procedere ad una meditata ponderazione del singolo contratto che si vorrebbe sottoscrivere; - in fase contrattuale, un "documento di sintesi" che puntualizzi "le principali condizioni contrattuali, redatto secondo i criteri indicati dalla Banca d'Italia" (art. 9, 1° co.). Accanto agli elencati strumenti di trasmissione organizzata dell'informazione rilevante in relazione a distinte fasi e finalità, un diverso elemento innova le regole di trasparenza: l'introduzione dell'indicatore sintetico di costo-ISC. Si tratta di strumento che estende alla generalità della clientela la tecnica del TAEG, maturata nella disciplina del credito al consumo (infra), secondo cui l'informazione sull'onere economico dell'operazione viene somministrata anche attraverso un indicatore di immediata percezione, che dia visione complessiva delle voci di costo. L'ISC rafforza la sua rappresentatività in comparazione con il tasso medio di mercato (TEGM) elaborato nell’ambito della disciplina anti-usura, di cui - come ricordato, l'art. 116, 1° co. richiede la pubblicizzazione per le operazioni di finanziamento. Capo I - Trasparenza e configurazione del contratto. Alla generalità dei contratti conclusi da banche e intermediari finanziari si applicano le regole relative alla forma, al contenuto minimo obbligatorio e al meccanismo di integrazione legale poste dall'art. 117 T.U., che raggruppa una serie di misure di tutela del cliente. La forma scritta è imposta a pena di nullità (art. 117, 1° e 3° co.), nel quadro del c.d. neoformalismo negoziale che spesso il legislatore - distaccandosi dal principio codicistico della libertà di forma - ha adottato nella contrattazione di massa come misura di tutela dell'utente, contraente non qualificato che vedrebbe così garantita l'incontestabilità e univocità del contenuto contrattuale. Palesemente strumentale è l'obbligo - non sanzionato - di consegnare al cliente un esemplare del contratto. Il CICR può tuttavia prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere sottratti all'obbligo di forma (art. 117, 2° co.). Anche qui la delibera CICR del 2003 (art. 10) organizza i criteri precedentemente adoperati, dettando criteri per l'azione della Banca d'Italia, che può individuare forme diverse da quella scritta per operazioni e servizi prestati: nell'ambito di un contratto-quadro avente forma scritta (si pensi alle operazioni svolte nell'ambito di un contratto regolato in conto corrente); in via occasionale o per modesto importo, a condizione che essi siano oggetto di pubblicità, in modo che esistano documenti informativi - anche da asporto gratuito, come i fogli informativi - atti a precostituire il parametro delle condizioni applicabili. Le due fattispecie paiono alternative nella delibera, ma si cumulano nelle istruzioni, che esentano dall'obbligo di forma scritta la transazione occasionale di valore non eccedente i 5.000 euro. Quanto al contenuto minimo obbligatorio del contratto, l'art. 117, 4° co. impone che esso fornisca notizie chiare ed esaustive delle condizioni economiche, indicando il tasso d'interesse ed ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora. Gli elementi elencati non possono essere più sfavorevoli di quelli pubblicizzati - s'intende, all'epoca di conclusione del contratto - ai sensi dell'art. 116 e non possono essere determinati per rinvio agli usi, a pena di nullità (art. 117, 6° co.). Il vuoto creato dall'assenza delle indicazioni minime richieste al 4° comma e dalle nullità comminate dal 6° comma viene colmato dal meccanismo di integrazione legale del contratto predisposto dall'art. 117, 7° comma. La tecnica di determinazione della clausola sostitutiva di clausola nulla è stata modificata dal d. lgs. n. 141, per i motivi descritti dalla relazione: “La modifica è volta a rendere più efficace la disposizione sulla sostituzione automatica di clausole. La prassi applicativa ha infatti messo in evidenza che in alcuni casi questa disposizione, concepita a tutela del cliente, può rivelarsi svantaggiosa, in quanto i tassi dei BOT nell’ultimo anno (lett. a) o le altre condizioni pubblicizzate in corso di rapporto (lett. b) possono risultare peggiori rispetto a quelle praticate dalla banca (ma non pubblicizzate correttamente) al momento della conclusione del contratto. Sulla disposizione così come attualmente formulata sono stati altresì avanzati recentemente dubbi di legittimità costituzionale (cfr. ordinanza n. 338/2009 della Corte Costituzionale). La modifica proposta chiarisce che la sostituzione automatica comporta l’applicazione della condizione più vantaggiosa tra quella in vigore al momento della stipula del contratto e quella in vigore al momento in cui l’operazione viene effettuata o il servizio reso”. Nella remota ipotesi di mancanza di pubblicità, resta l’inciso finale del vecchio 7° co., secondo cui nulla è dovuto dal cliente alla banca. L'attività di banche e intermediari finanziari si svolge sempre più di frequente non solo attraverso contratti legislativamente o socialmente tipici, dotati quindi di riferimenti sufficientemente completi sulla configurazione del contratto e sulla disciplina applicabile, ma anche attraverso contratti nuovi, rispetto ai quali il T.U. ha ritenuto prevalente l'esigenza di esatta definizione delle fattispecie, sia per l'informazione del cliente che per un ordinato andamento del mercato. Ciò spiega la collocazione, nell'ambito dell'art. 117, 8° co., di una norma che attribuisce alla Banca d'Italia (una transeunte “intesa” con la Consob, introdotta dalla legge risparmio, scompare con il d. lgs. n. 141) il pesante potere conformativo di prescrivere che determinati contratti o titoli, individuati con riferimento alla denominazione o a particolari criteri qualificativi, abbiano - a pena di nullità - un contenuto tipico determinato. Della norma, fortemente limitativa dell'autonomia negoziale e della potenziale concorrenzialità dell'offerta, non risulta ad oggi fatto uso se non nella disciplina dei titoli emessi da banche, peraltro successivamente modificata, e nella tipizzazione di un “conto corrente semplice” portata dalle istruzioni di vigilanza in materia di trasparenza, per individuare uno strumento basico di operatività che le banche “possono offrire ai consumatori”. Capo I - L'informazione in corso di rapporto. Nuovamente sotto il versante dell'informativa, l'art. 119 regola le comunicazioni da fornire alla clientela nel corso dei contratti di durata, fissandone una cadenza minima annuale. al 1° co. della norma sono state apportate due modifiche ad opera del d. lgs. n. 141: da un canto si precisa che le comunicazioni periodiche alla clientela oltre che in forma scritta possono essere fornite dall’ intermediario "mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente", secondo la stessa ratio dell’illustrata modifica dell’art. 116 in favore dell’operatività multicanale; d’altro canto, “viene eliminato il requisito della completezza delle comunicazioni periodiche: ciò permetterà, in sede di disciplina secondaria, di evitare che l’eccesso di informazione su punti non essenziali pregiudichi l’obiettivo di fornire alla clientela comunicazioni semplici e chiare” (relazione allo schema di d. lgs.). Contenuto e modalità sono rimessi alla determinazione del CICR (1° co.), che anche qui ha fissato un paio di paletti, rimettendo alla Banca d'Italia l'indicazione di contenuto e modalità delle comunicazioni. L'art. 12 della delibera 2003 prescrive che la comunicazione sia analitica e che indichi comunque "il tasso d'interesse e le altre condizioni in vigore": un corposo promemoria per il cliente, destinato appunto a semplificarsi. Per i rapporti regolati in conto corrente, l'art. 119 prevede che l'estratto conto possa essere inviato annualmente o con più ravvicinata periodicità (semestrale, trimestrale o mensile), a scelta - e a spese - del cliente (2° co.). Dal ricevimento dell'estratto conto e delle altre comunicazioni periodiche alla clientela decorre un termine di sessanta giorni trascorso il quale, in mancanza di opposizione scritta, i documenti trasmessi si intendono approvati (3° co.). Va comunque ricordato che l'approvazione dell’estratto conto non preclude la possibilità di una successiva impugnazione dell'estratto conto per c.d. "vizi formali" (errori di scritturazione e di calcolo, omissioni o duplicazioni) ai sensi dell'art. 1832, 2° co. c.c., se pure nel breve termine di decadenza di sei mesi dalla data di ricezione dell'estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura; termine che peraltro, per prevalente giurisprudenza, opera anche per la banca. Accanto al diritto d'informativa periodica, il cliente ha altresì diritto ad ottenere copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, diritto che la norma (come novellata dal d. lgs. n. 342 del 1999) espressamente estende a colui che succeda a qualunque titolo al cliente o che subentri nell'amministrazione dei suoi beni, risolvendo così, ad esempio, i dubbi sul diritto di accesso alla documentazione da parte del curatore fallimentare del cliente. Capo I - La disciplina delle modifiche unilaterali del contratto. Fortemente penalizzante per il cliente è stato il pieno adattarsi, da parte del T.U. (art.118), alla prassi corrente della disciplina delle modifiche contrattuali sfavorevoli al cliente. La norma è stata oggetto di ripetute modifiche di diverso segno, di seguito diacronicamente illustrate, che ne hanno modificato l’originaria portata, tendendo a disegnare un regime differente per clientela retail e imprese. Nell’originaria versione, l’art. 118 riconosceva la possibilità che tali modifiche potessero essere unilateralmente e discrezionalmente introdotte dalla banca nei contratti di durata, a condizione che il cliente avesse sottoscritto appositamente la relativa clausola vessatoria e che le variazioni fossero comunicate al cliente nei modi e nei termini stabiliti dal CICR. A fronte dell'applicazione unilaterale da parte della banca delle condizioni sfavorevoli, il cliente aveva il 'rimedio' del recesso "senza penalità" dal contratto, da esercitare nel ristrettissimo termine di quindici giorni "dal ricevimento della comunicazione scritta, ovvero dall'effettuazione di altre forme di comunicazione" (art. 118, 3° co.): la norma si commentava da sola se si pensava al caso di un qualunque affidamento da cui il cliente dovesse rientrare con velocità per non sottostare al peggioramento delle condizioni economiche del rapporto. L'art. 118 T.U. era in linea di massima salvaguardato dalla successiva disciplina delle clausole abusive e, in particolare, dalla previsione secondo cui, se il contratto ha ad oggetto la prestazione di servizi finanziari, non trova applicazione la presunzione di vessatorietà relativa alle clausole di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali (ora art. 34, 3° co. CdC). Detta salvezza non lasciava però intatta la disciplina dell'art. 118 T.U., che si limitava a prevedere la sola necessità di pattuizione preventiva. L'art. 33, 3° co. CdC (già art. 1469 bis, 4° co. c.c.) introduce, infatti, ulteriore e diverso criterio, condizionando la potestà di variazione alla ricorrenza di un giustificato motivo. A riguardo, la giurisprudenza precisava che il requisito non è integrato dal ricorso a "formula vaga e sostanzialmente rimessa all'unilaterale determinazione della banca" (nella specie, "esigenze organizzative"), perché "ciò che la norma vuole prevenire è la modifica meramente potestativa, ad libitum della banca" (App. Roma, 24 settembre 2002, punto 14). E analogo indirizzo si va consolidando nelle decisioni dell’ABF (infra), che ha escluso l’idoneità di formule quali “mutato contesto di mercato”, “esigenza di offrire alla clientela una struttura di prezzo semplificata”, “effetti prodotti dall’attuale crisi economica e finanziaria”. L'esigenza che la banca espliciti le ragioni della modifica contrattuale costituisce un elemento di riequilibrio della reciproca posizione delle parti che ha manifestato una capacità espansiva idonea a travalicare i confini della tutela del consumatore, come legislativamente definito, estendendosi all'intera clientela, quale fruitrice di un servizio offerto su un mercato concorrenziale, le cui dinamiche sono lese dalla standardizzazione della presenza di clausola che attribuisca alle banche un generalizzato ed immotivato ius variandi (AGCM, Indagine conoscitiva sui prezzi alla clientela e conseguente segnalazione ai sensi degli artt. 21 e 22 l. antitrust in cui stigmatizza il metodo di comunicazione impersonale delle variazioni, ritiene incongruo il termine per esercitare il recesso e, soprattutto - dopo aver sottolineato l'esigenza che ricorra giustificato motivo della modifica nei contratti con i consumatori - suggerisce che tale requisito s'estenda a tutti i contratti rientranti nell'ambito d'applicazione del T.U.). La segnalazione dell'Autorità garante è raccolta nell'ambito dell'articolata manovra varata dal Governo il 30 giugno 2006 che, fra l'altro, include un decreto legge riferibile all’allora Ministro delle attività produttive ('decreto Bersani', n. 223 del 4 luglio, conv. in l. n. 248 del 2006) che introduce una serie di misure a tutela della concorrenza, espressamente richiamando anche le raccomandazioni e i pareri dell'Autorità garante (art.1). Il 'decreto Bersani' (art. 10, 1° co.) sostituiva quindi integralmente l'art. 118 T.U., raccogliendo le indicazioni fin qui riferite e compiendo anche passi ulteriori. Si prevede, infatti, che: la modifica contrattuale deve avere sempre giustificato motivo (1° co.); deve essere oggetto di comunicazione scritta individuale e comprensibile, con preavviso minimo di 30 giorni (2° co.); il termine per il recesso - senza penalità e senza spese di chiusura - è di 60 giorni (2°); al cliente recedente non s'applicano le variazioni comunicate (2° co. in fine). Resta la sanzione dell'inefficacia delle modifiche per le quali non siano state osservate le riferite regole, ma limitata all'ipotesi di variazioni "pregiudizievoli per il cliente" (3° co.). Quest'ultima locuzione ha sostituito, nella legge di conversione, quella di ‘consumatore’ presente nel decreto che presentava una portata restrittiva estranea all'impostazione e alla ratio della disposizione. Il 4° co. dell’art. 118 ‘versione Bersani’ contiene poi un'innovativa misura di riequilibrio sostanziale delle posizioni di banca e cliente (migliorata nella tecnica di formulazione in sede di conversione e, poi, ‘ritoccata’ con la finanziaria 2008, l. n. 244 del 2007, art. 2, 451° co.): "Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente". S'intende così ovviare alla diffusa prassi secondo cui le modifiche verso l'alto del tasso ufficiale di sconto disposte dalla BCE hanno immediate ricadute solo sui tassi passivi, mentre non riversano pari benefici sui tassi di remunerazione dei depositi della clientela, sui quali invece prontamente ricadono le riduzioni del tasso di sconto. Il d. lgs. n. 141 del 2010 sostituisce a sua volta integralmente l’art. 118, senza però modificare l’impianto che esso aveva assunto con il ‘decreto Bersani’ e che si è appena riferito. Al contenimento della potestà modificativa della banca discendente dalla generalizzazione a tutta la clientela del requisito del giustificato motivo delle variazioni sfavorevoli per il cliente, apportato dal ‘decreto Bersani’, si aggiunge un ulteriore effetto di contenimento discendente dal d. lgs. 141, la cui principale novità consiste nel restringere in maniera inequivoca l’ambito di applicazione della norma. Infatti, l’espressione “contratti di durata” – che in sede applicativa ha sollevato numerose incertezze interpretative e tensioni applicative, specie in relazione ai contratti di mutuo - viene affiancata a quella “contratti a tempo indeterminato”, “al fine di chiarire che le modifiche unilaterali sono consentite soltanto nei rapporti che si estendono nel tempo senza una scadenza predeterminata (es. conti correnti, aperture di credito a tempo indeterminato). Ciò implica che nei contratti a tempo determinato (es. mutui, aperture di credito a tempo determinato) non potranno essere inserite clausole che consentono di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali” (relazione allo schema di d. lgs.). In realtà, l’affermazione totalizzante appena riportata non trova riscontro nel definitivo testo dello schema di d.lgs., divenuto poi legge. Vero è che, infatti, si introduce un regime differenziato per i contratti di durata, per i quali non è preclusa ogni modifica unilaterale, bensì solo quella delle clausole “aventi ad oggetto i tassi di interesse” (art. 118, 1° co.). Ulteriore modifica contenitiva introdotta dal d. lgs. 141 riguarda l’individuazione del perimetro contrattuale modificabile dalla banca, con la sostituzione della formula “condizioni di contratto” con quella “condizioni previste dal contratto”, escludendo quindi la possibilità di introdurre clausole nuove e consentendo solo di operare in modifica di quelle esistenti, come condivisibilmente valutato dall’Arbitro Bancario Finanziario (ABF Napoli, 2 aprile 2010, n. 192). La norma è perfezionata per altri profili: viene, infatti, allineato il termine di preavviso con quello di recesso, per cui l’ applicazione delle nuove condizioni potrà avvenire decorso il termine di due mesi allorché il cliente non abbia esercitato il recesso; viene sanata l’assenza di regole per i rapporti al portatore, in modo da “rendere possibili le modifiche unilaterali in caso di rapporti al portatore, per i quali la comunicazione (necessariamente personalizzata) prevista dall’attuale formulazione dell’art. 118 non è evidentemente praticabile (il CICR o la Banca d’Italia individuerebbero forme di comunicazione impersonali, come per esempio la pubblicazione sul sito internet o presso le filiali)” (relazione allo schema di d. lgs.). A pochi mesi dall’entrata in vigore del nuovo art. 118, la sua portata viene nuovamente incisa con l’introduzione di un co. 2 bis (ad opera di una delle ripetute manovre economiche succedutesi nel 2011, il c.d. ‘decreto sviluppo’, d.l. n. 70 del 2011, conv. in l. n. 106 del 2011) riaprendo la possibilità di modificare i tassi d’interesse nei contratti di durata nella forma che, modificata in sede di conversione del d.l. 70 con una forte pressione della Confindustria, di seguito si illustra. La norma - che opera solo se il cliente non è un consumatore nè una microimpresa (individuata per rinvio alla normativa sui servizi di pagamento e v. art. 126 bis, 3° co.), quindi per la generalità degli affidamenti della clientela imprenditoriale - si colloca al di fuori dell’ipotesi di modifica disciplinata dal residuo corpo dell’art. 118, legittimando l’inserimento in contratto di clausole, “espressamente approvate dal cliente”, “che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse al verificarsi di specifici eventi e condizioni, predeterminati nel contratto”. Si innesta così un automatismo applicativo della clausola contrattuale, che esclude la necessità del riscontro del giustificato motivo e del preavviso, con il conseguente diritto di recesso: le variazioni di tasso costituiscono infatti, in tal caso, momento esecutivo della clausola contrattuale originaria. La necessità di apposito accordo fra le parti e la specificità delle clausole che prevedono i meccanismi di variazione dei tassi costituiscono le condizioni necessarie per configurare la fattispecie, che non integra modifica contrattuale nella misura in cui la clausola introduca meccanismi di modifica dei tassi univoci e circostanziati, cioè effettivamente dotati del carattere di “specificità” richiesto dalla norma. Diversamente si ricade – a me pare – nella disciplina generale delle modifiche contrattuali. La norma risulta, quindi, disegnare un regime differenziato per la generalità delle imprese che esorbitano dai ristretti confini della nozione di microimpresa. Capo I - La disciplina dell’anatocismo. Dopo l’introduzione del T.U., si sono registrati due ordini di interventi normativi – di segno molto diverso - destinati ad incidere autoritativamente sulla struttura dei costi dei contratti di concessione di credito stipulati nell’ambito dell’ordinaria attività bancaria. I punti toccati riguardano la clausola anatocistica e la commissione di massimo scoperto. Il d.lgs. n. 342 del 1999 ha inserito, nel contenitore dell'art. 120, disposizioni "d'emergenza" in tema di anatocismo bancario, mosso dai problemi sorti con riferimento alla clausola contrattuale che prevede le modalità di capitalizzazione degli interessi. L'art. 1283 c.c. in via generale vieta l'anatocismo, ma la regola ammette deroga in forza di usi contrari. Nella vigenza di detta norma, i contratti bancari prevedevano che gli interessi maturati in favore della banca nell'ambito dei rapporti di conto corrente si capitalizzassero trimestralmente, con clausola la cui legittimità è stata a lungo avallata dalla giurisprudenza di Cassazione, che riteneva la contrattazione uniforme atta a configurare un uso rilevante ai fini della deroga alla disciplina codicistica. La situazione muta radicalmente con l'inversione della giurisprudenza della Corte che, nel volgere di pochi mesi, emana tre sentenze (nn. 2374, 3096, 12507, tutte del 1999) di identico tenore che comminano la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale sulla base dei seguenti argomenti: gli usi cui si riferisce l'art. 1283 c.c. sono usi normativi (artt. 1 e 8 preleggi), non semplici usi negoziali (art. 1340 c.c.) o interpretativi (art. 1368 c.c.); pertanto, in materia non rilevano le NUB, che hanno natura di condizioni generali di contratto; non si riscontrano gli estremi per accreditare l'esistenza di usi normativi. Argomenta a riguardo la Corte che per configurare un uso normativo devono riscontrarsi sia il requisito oggettivo (uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento) sia il requisito soggettivo (consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica). Non è quindi sufficiente rilevare che la clausola di anatocismo trova generale applicazione nei rapporti fra banche e clienti (ciò deriva dalle NUB e può condurre a ravvisare un uso negoziale), dando luogo ad una prassi "in concreto ineludibile se si vuol porre in essere un certo tipo di rapporti, perché richiesta da uno dei contraenti mediante clausole uniformi e predisposte". Ciò che manca è la consapevolezza di prestare osservanza ad una norma giuridica, che "non deve essere unilaterale, ma costituire opinione comune dei contraenti in un determinato settore". Le sentenze riferite hanno immediatamente dato luogo ad un capillare contenzioso, anche con diffuse aspettative di rinegoziazione degli interessi maturati. La scure che in tal modo si abbatteva sui profitti bancari viene bloccata dalla modifica all'art. 120 apportata dall'art. 25 d. lgs. n. 342 del 1999, che interviene su due fronti. Da un canto, si predispone per il futuro una disciplina speciale degli "interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria", seguendo ancora una volta la linea della delegificazione: è il CICR a stabilire "modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi", secondo opzioni legislativamente non definite salvo - ed è regola idonea ad incidere sugli attuali assetti contrattuali - che per la necessità di prevedere che "nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori" (2° co.). D’altro canto, si interviene sui contratti in corso, legittimando la sopravvivenza delle clausole ritenute nulle dalla Cassazione: esse restano valide ed efficaci fino all'entrata in vigore della delibera CICR prevista al 2° comma, al cui disposto devono poi adeguarsi nei modi e nei tempi stabiliti dalla stessa delibera. In difetto di adeguamento, "le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente" (3° co.). La previsione è immediatamente investita da una pioggia di ordinanze che sollevano la questione della sua legittimità costituzionale per numerosissimi profili. A distanza di un anno giunge la decisione della Corte Costituzionale (n. 245 del 2000) che cassa la norma, riaprendo la questione per le clausole presenti nei contratti chiusi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa. Nel frattempo il CICR (delibera 9 febbraio 2000) è tempestivamente intervenuto ai sensi del 2° comma dell’art.120, disegnando una disciplina speciale dell'anatocismo bancario, sottratta al divieto di diritto comune posto dal ricordato art. 1283 c.c., ma anche a parametri cautelativi rispetto ad uno sviluppo quantitativo potenzialmente abnorme degli interessi anatocistici, derivante da una ravvicinata periodicità di capitalizzazione, che non è in alcun modo esclusa dalla delibera. Se la delibera CICR dispone per i contratti in corso, la decisione della Corte Costituzionale n. 245 del 2000 riapre la questione per i contratti chiusi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, quindi impossibilitati a conformarsi ai contenuti della delibera CICR. Dopo incertezze giurisprudenziali, le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 21095 del 2004) sono tornate a ribadire l’indirizzo del 1999, confermando altresì che la nullità della clausola d'anatocismo trimestrale 'unilaterale' è rilevabile d'ufficio (Cass. n. 10599 del 2005). La relativa conflittualità continua a divampare – e non appare destinata a spegnersi rapidamente - visto l’orientamento giurisprudenziale a ritenere decorrente il termine decennale di prescrizione dell’azione di ripetizione delle somme computate a titolo di interessi anatocistici non dalla data di chiusura trimestrale del conto che registra l’addebito, ma da quella di definitiva chiusura del rapporto di conto corrente. Sul tema sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 24418 del 2010) che elaborano una soluzione differenziata in base alla natura dell’annotazione, se effettivamente solutoria, avente cioè “lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca”, ovvero con funzioni di mero ripristino della disponibilità, come normalmente avviene nelle aperture di credito regolate in conto corrente: solo per questa seconda ipotesi, il termine prescrizionale dell’azione di ripetizione decorre dalla “data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto”. Anche in questa occasione, come nel ’99, l’intervento legislativo non si è fatto attendere: il c.d. decreto milleproroghe (d.l. n. 225 del 2010, conv. in l. n. 10 del 2011), ha introdotto una norma che si presenta come interpretazione autentica (quindi, applicabile anche ai rapporti pregressi) - “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa”- accompagnata da una diretta prescrizione, secondo cui “In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge” (art. 2, co. 61). La norma è stata subito portata all’attenzione della Corte Costituzionale da diverse ordinanze di rimessione e, nella prolungata attesa della delibazione, la giurisprudenza ha elaborato percorsi interpretativi sostanzialmente disapplicativi della previsione del ‘milleproproghe’, generalmente rifacendosi alla soluzione adottata dalle SS.UU. nel 2010. Più volte annunciata, la pronuncia di incostituzionalità, per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., della norma in parola (sentenza 5 aprile 2012, n. 78) si caratterizza per l’asprezza delle motivazioni, che ne stigmatizzano non solo l’irragionevolezza (in quanto norma formalmente interpretativa, ma di fatto innovativa e, quindi, retroattiva), ma anche il ruolo di “ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia”, in via generale vietato dall’art. 6 della Convenzione europea sui diritti umani, costituzionalmente rilevante ai sensi dell’art. 117, 1° co. “nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. All’indomani della pronuncia, quindi, riprende pieno vigore la soluzione interpretativa delle SS.UU. in ordine alla differenziata decorrenza del termine prescrizionale ed è ripristinato il diritto alla restituzione degli importi già versati in forza di clausola anatocistica rivelatasi nulla. Capo I - Dalla commissione di massimo scoperto all'art. 117 bis T.U. L’uso del danaro prestato dalle banche tradizionalmente incontra una struttura dei costi complessa: accanto all’interesse – capitalizzato nei modi illustrati ai precedenti paragrafi – si colloca una struttura commissionale complessa che determina un sensibile accrescimento del costo dei finanziamenti. Il problema è stato affrontato sia per il versante della rispondenza delle relative clausole alle regole di trasparenza contrattuale, sia con atti d’imperio orientati al divieto, strade che si sono finora rivelate inidonee a governare efficientemente il fenomeno. La questione iniziava ad essere sollevata con riferimento alla commissione di massimo scoperto (CMS), che costituiva una consistente voce di costo, ulteriore rispetto all’interesse, del finanziamento concesso. La scarsa tollerabilità della CMS è emersa in giurisprudenza, in ‘moniti’ del Governatore, che in rituali occasioni ha qualificato la CMS “istituto poco difendibile sul piano della trasparenza”, in iniziative dell’Autorità garante per la concorrenza, in interventi del legislatore. L’AGCM ha non solo ripetutamente segnalato la carente trasparenza nell’evidenziazione di una voce di costo di non agevole determinazione per il cliente (e ciò anche dopo l’intervento normativo di cui si dirà fra un attimo, cfr. parere del 2 febbraio 2009), ma ha anche condannato le maggiori banche per pratiche commerciali scorrette relative alle modalità di applicazione della CMS (provvedimenti tutti del 23 dicembre 2008, n. 19352 –Monte dei Paschi, n. 19353 –Unicredit, n. 19354-BNL, n. 19355-Intesa). Detti provvedimenti si sono conclusi con l’assunzione di impegni (vincolanti ai sensi dell’art. 27, 7° co. CdC) che sono stati ritenuti idonei a far venir meno i profili di scorrettezza della pratica commerciale. Essi si articolano in un miglioramento della qualità dell’informazione e nella sostituzione della CMS con altri tipi di commissione. Anche l’attenzione del legislatore si è ripetutamente rivolta sulla commissione ‘incriminata’. Un’ipotesi di divieto, se pur non formulata in termini categorici, era prevista nel quadro delle liberalizzazioni programmate dal ministro Bersani, ma era inclusa nel c.d. ‘Bersani 3’, disegno di legge mai definitivamente approvato. L’occasione dell’intervento è stata poi colta nella successiva legislatura, in sede di conversione del c.d. decreto anticrisi (n. 185 del 2008), con l’art. 2 bis introdotto in sede di conversione dalla l. n. 2 del 2009. La norma introduceva una parziale nullità delle CMS come strutturate, consentendo una riconfigurazione della struttura commissionale espressamente assoggettata all’art. 118 T.U. Non si configura, quindi, un calmiere, non realizza un intervento autoritativo sull’ammontare del costo del danaro, ma sui modi della sua configurazione. L’intreccio fra strumenti autoritativi e di trasparenza realizzato con una previsione intessuta di complessi distinguo ha avuto come esito un il mantenimento e, in molti casi, l’aumento del costo complessivo dei finanziamenti, cui segue l’imposizione di un parziale calmiere (tetto trimestrale dello 0,5 dell’importo dell’affidamento) apposto non a tutte le commissioni e spese, ma alla sola commissione sulla messa a disposizione della linea di fido (art. 2 d.l. n. 78 del 2009, che modifica l’art. 2 bis in commento), provocando una migrazione della contrattualistica bancaria verso nuove commissioni e spese, caratterizzate dalla penalizzazione dei fidi di minore importo e, soprattutto, per gli sconfinamenti dalle posizioni affidate. Su tale situazione interviene la legge di conversione del c.d ‘decreto salva-Italia’ (n. 201 del 2011, conv. in l. 214/2011) che introduce nel T.U. l’art. 117 bis, in tema di “Remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti”. La norma è stata successivamente ritoccata (d.l. 29/2012, conv. in l. 62/2012), all'esito di convulse vicende normative, senza modificarne l'impianto. La nuova disposizione inserita nel T.U. impone una drastica semplificazione della struttura commissionale, identificando quali possono essere gli “unici oneri a carico del cliente” nei casi di apertura di credito (1° co.) e di sconfinamento (2° co.). Per i contratti di apertura di credito, l’onere unico è costituito da “una commissione onnicomprensiva calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell'affidamento, e un tasso di interesse debitore sulle somme prelevate. L'ammontare della commissione non può superare lo 0,5 per cento, per trimestre, della somma messa a disposizione del cliente”. Per i casi di sconfinamento (extra-fido o in assenza di procedura di affidamento), l’onere è costituito da “una commissione di istruttoria veloce determinata in misura fissa, commisurata ai costi", che si cumula all'interesse debitore sull'ammontare dello sconfinamento. Comminata la nullità per “le clausole che prevedono oneri diversi o non conformi rispetto a quanto stabilito”, con salvezza del contratto (3° co.), si rimettono al CICR (e cfr. DM Economia 30 giugno 2012) l’emanazione delle disposizioni applicative e l’individuazione di “altri contratti per i quali si pongano analoghe esigenze di tutela del cliente”, cui applicare la norma, nonchè dei “casi in cui, in relazione all'entità e alla durata dello sconfinamento, non sia dovuta la commissione di istruttoria veloce di cui al comma 2” (4° co.). Al di fuori del tessuto del T.U. è stata collocata una previsione di specifica tutela di fasce deboli di utenza bancaria (le "famiglie consumatrici"), esentate dalla commissione di cui all'art. 117 bis, 2° co. T.U. in caso di limitato e sporadico sconfinamento (art. 1, co. 1 ter d.l. 29/2012, conv. in l. 62/2012). Capo I - Il diritto di recesso. Il d. lgs. n. 141 coordina nel T.U. previsioni incluse in altre fonti normative, che nel ‘transito’ e nel coordinamento con la nuova normativa subiscono modifiche di diverso spessore. È ciò che accade con l’art. 120 bis, che importa nel T.U. il diritto di recesso del cliente dai contratti a tempo indeterminato, senza penalità e senza spese. La previsione era stata introdotta dalla legge di conversione del ‘decreto Bersani’ (l. n. 248 del 2006), estendendo alla generalità della clientela una misura che l’ordinamento collegava a specifiche fattispecie, generalizzando la libertà di svincolarsi dal contratto ‘a bocce ferme’, a prescindere da qualunque modifica sfavorevole applicata dalla banca (cfr. art. 118, 2° co.). La norma costituiva la prima avvisaglia di nuovi orientamenti che da un canto tendono a favorire la mobilità della clientela bancaria per incentivare la concorrenza fra banche (anche su impulso dell’AGCM; cfr. Indagine conoscitiva sugli ostacoli alla mobilità della clientela bancaria, IC25 del 2006), d’altro canto ricorrono all’ingerenza autoritativa sui costi bancari (supra) che, in un mercato concentrato, si sono rivelati ‘ingestibili’ con i tradizionali strumenti della trasparenza contrattuale. Gli scollamenti fra la formulazione originaria e quella del T.U. sono dettagliatamente illustrati dalla relazione allo schema del d. lgs. 141, ove si sottolinea in primo luogo che l’ambito di applicazione del diritto di recesso, precedentemente riferito ai ‘contratti di durata’, è invece circoscritto ai ‘contratti a tempo indeterminato’, in coerenza con la distinzione delle fattispecie introdotta all’art. 118 (supra), con la disciplina del recesso nel credito al consumo di cui all’art. 125 quater (infra) e in continuità con l’interpretazione della norma fornita dallo stesso Ministero per lo sviluppo economico (nota 21 febbraio 2007). La stessa relazione ricorda che “per gli altri contratti, in cui è presente una scadenza prefissata (es. aperture di credito a tempo determinato), il recesso rimarrebbe possibile ai sensi delle norme civilistiche (art. 1373), secondo cui nei contratti a esecuzione continuata o periodica può essere attribuita a una delle parti la facoltà di recedere in corso di rapporto, eventualmente a fronte di un corrispettivo”. In secondo luogo, la relazione richiama l’attenzione sulla nuova previsione che fa eccezione al rigido divieto di applicare spese al cliente che recede, attribuendo al CICR, “in linea con le richiamate precisazioni del MISE”, la competenza ad individuare “i rimborsi dovuti dal cliente in relazione a servizi aggiuntivi da lui richiesti in occasione del recesso”. Nelle more dell’intervento del CICR, si ricorda che le “precisazioni del MISE” ritenevano non addebitali sia le spese qualificate in contratto come costi di chiusura, sia quelle relative a ‘servizi aggiuntivi’ quali il trasferimento dei titoli presso altro intermediario (che peraltro è adempimento che costituisce normale esecuzione della chiusura di un conto di deposito titoli), ammettendosi solo la richiesta di rimborsi delle spese sostenute per la prestazione di un servizio aggiuntivo che richiedesse l’intervento di un soggetto terzo. Capo II - Il credito al consumo: evoluzioni disciplinari. L’originaria disciplina del credito al consumo portata dal T.U. discendeva, come si è detto, dalla normativa di adeguamento alla direttiva 87/102. Tale direttiva richiedeva un intervento di decisa modifica, soprattutto per i motivi lapidariamente esposti nella risoluzione del Consiglio UE 26 novembre 2001, che concorre con le relative iniziative della Commissione. Lì il Consiglio: "Constata che la quota del consumo finanziata attraverso il credito in tutte le sue forme non cessa d'aumentare; … che pur se il credito costituisce un elemento di traino della crescita economica e del benessere dei consumatori, esso rappresenta anche un rischio per i fornitori di credito e una minaccia di costi supplementari e di insolvenza per un crescente numero di consumatori; … Prende atto dell'intenzione della Commissione, in seguito agli studi e alle audizioni effettuati, di proporre, nel quadro della revisione della direttiva sul credito al consumo, una certa armonizzazione delle misure preventive inerenti alle norme riguardanti l'informazione dei debitori, la responsabilità di coloro che offrono credito, le indennità e le spese in caso di mancata esecuzione del contratto e il ruolo degli intermediari del credito o delle agenzie". In tale quadro s'inseriva la proposta di direttiva 2002/443 che, dopo un iter faticoso, è al fine sfociata nella direttiva 2008/48 del 23 aprile 2008 il cui impatto modificativo è peraltro più contenuto rispetto alle attese. Alla direttiva s’è dato adeguamento con il d. lgs. n. 141 del 2010, cui hanno fatto seguito il d.m. Economia 3 febbraio 2011 e le istruzioni di vigilanza del 9 febbraio 2011. Il perno caratterizzante della disciplina, ora identificata con riferimento ai soggetti destinatari della specifica tutela (non più ‘credito al consumo’, ma ‘ai consumatori’) continua ad incentrarsi sul concetto di Tasso annuo effettivo globale (TAEG), su cui si basa il punto forte di tutela del consumatore, che ha diritto a conoscere previamente il reale costo complessivo del finanziamento, agendo sul rischio di costi-sorpresa. Al fine di realizzare tale obiettivo, la direttiva tende a definire in maniera più onnicomprensiva le voci di costo che rientrano nel calcolo del TAEG, elencate in apposito allegato, che è stato successivamente modificato, integrandolo con nuove previsioni di matrice europea (direttiva 2011/90 del 14 novembre 2011). La normativa pone inoltre una fitta rete di regole ed obblighi di comportamento cui il finanziatore deve conformarsi. Al rispetto di tale complesso disciplinare è finalizzata l’attribuzione di rilevanza ai requisiti organizzativi e procedurali che (in base all’art. 53, 1° co. , lett. d T.U., cui segue l’art. 12 bis d.m. Economia 3 febbraio 2011 e la sez. XI delle conseguenti istruzioni) ciascun intermediario deve articolare, allo scopo di predisporre presidi che agevolino al contempo il rispetto delle regole ed il riscontro di tale rispetto in caso di eventuali controversie. L’intervento di vigilanza in relazione a tali requisiti, corredato da poteri sanzionatori, concorre poi con i rimedi civilistici per definire il quadro sanzionatorio che la direttiva rimette alle previsioni nazionali, richiedendo che le sanzioni siano “efficaci, proporzionate e dissuasive” (art. 23). Capo II - 'Prestito responsabile', stabilità degli intermediari, tutela delle informazioni. Accanto ad una innovazione (il c.d. prestito responsabile) collegata alla finalità di formalizzare la prevenzione del sempre crescente rischio di insolvenza dei consumatori, la direttiva si orienta ad ottimizzare gli strumenti informativi essenzialmente ai fini della comparabilità delle diverse offerte nazionali, al fine di incentivare la concorrenza nel mercato europeo, mentre mantiene un approccio minimale rispetto a profili sostanziali di tutela, dal controllo delle condizioni contrattuali imposte all'utente al trattamento in caso di rimborso anticipato del prestito. Viene altresì meno (art. 6, par. 3 prop.) uno specifico dovere di protezione del consumatore da parte dell'intermediario – che sarebbe stato analogo a quello introdotto sempre dalla normativa comunitaria per i settori assicurativo e dei servizi di investimento - consistente nel "cercare", fra i prodotti offerti, quello meglio rispondente alle esigenze del consumatore, tenuto conto della sua situazione finanziaria, dei vantaggi e degli svantaggi inerenti al prodotto proposto e delle finalità del credito; dovere che ‘cade’ mentre l’obbligo della valutazione di adeguatezza del prodotto offerto è stato introdotto sempre dalla normativa comunitaria per gli altri segmenti del mercato finanziario (mobiliare e assicurativo). Resta, invece, la previsione - orientata a garantire la stabilità di sistema dei prestatori - del ‘prestito responsabile’, pur se il testo definitivo della direttiva evita prudenzialmente tale espressione, rubricando il relativo articolo “obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore” (art. 8 dir. e nuovo art. 124 bis T.U.). La regola, già presente in alcuni ordinamenti comunitari, è essenzialmente rivolta alla policy dei rapporti fra prestatori, che "rischiano di veder diminuire la solvibilità dei clienti a causa di contratti di credito ulteriori accordati dai loro concorrenti, quando tali contratti sono accordati in circostanze che mettono a grave rischio la solvibilità del consumatore" (relazione alla proposta 2002/443). In tale contesto, quindi, si onera il finanziatore della valutazione della capacità di rimborso del consumatore "con ogni mezzo a sua disposizione", in particolare mediante la consultazione di banche dati operanti nei diversi paesi. Tramontata l'idea originaria di una banca dati europea, la direttiva fa obbligo agli stati di garantire sistemi di interscambio delle informazioni sia per le banche dati pubbliche (in Italia la Centrale dei rischi gestita dalla Banca d’Itali) sia - ed è il profilo di maggior interesse, vista la ridotta misura degli ammontari interessati - per le banche dati private (e v. il nuovo art. 125 T.U.). Queste ultime sono sorte nei diversi paesi per gestire un'informazione che risulta essenzialmente relativa al credito al consumo e presentano una serie di disomogeneità e/o 'vessazioni' nella selezione e gestione dei dati che avrebbero forse reso preferibile un sistema europeo omogeneo. In Italia, ad esempio, le c.d. centrali-rischi private sono state ripetutamente destinatarie di interventi del Garante per la protezione dei dati personali, in particolare ricorrenti a tutela del diritto all'oblio, del diritto cioè a veder definitivamente cancellato il dato relativo al proprio inadempimento - pur se isolato, già sanato e di modesto ammontare - dopo un ragionevole arco di tempo. Solo il 1° gennaio 2005, dopo un'intensa e prolungata consultazione, è entrato in vigore il Codice deontologico sui sistemi di informazioni creditizie, promosso dal Garante in base all'art. 117 del codice sulla privacy (d. lgs. n. 196 del 2003), che ha regolato - con la forma di 'codificazione autodisciplinare' prevista dall'art. 12 del codice sulla privacy - le modalità di trattamento dei dati perseguendo il fine di bilanciare il diritto alla riservatezza dei debitori e l'interesse alla valutazione del merito di credito dei partecipanti al sistema. L’applicazione di tale normativa è ora fatta espressamente salva dal T.U. (art. 125, ult. co.), che la integra con le specifiche regole comunitarie relative all’informazione del consumatore. Regole specifiche per la segnalazione dei ritardi di pagamenti sono state poi inserite in una delle ripetute manovre economiche del 2011 (art. 8 bis l. n. 106). Con riferimento alle banche dati considerate si registra, per altro aspetto, un intervento in tema di sicurezza teso a contrastare, nel settore del credito al consumo, le frodi informatiche aventi per scopo il furto di identità, totale o parziale (c.d. phishing). La nuova normativa, prevista dalla legge comunitaria 2009 (art. 13 l. n. 96 del 2010), è articolata dal d. lgs. n. 64 del 2011 che integrando il d. lgs. n. 141 con un nuovo Titolo V bis - istituisce un sistema pubblico di prevenzione basato su un “archivio centrale informatizzato” di cui è titolare il Ministero dell’Economia, alle cui informazioni potranno accedere a titolo oneroso gli intermediari per avere riscontro dei dati loro sottoposti per richieste di credito, a titolo gratuito i privati che hanno subito o temono di aver subito un furto di identità. Capo II - Il credito ai consumatori: ambito di applicazione. I nuovi artt. 121 a 126 integrano nel T.U. le norme di adeguamento alla direttiva 2008/48/CE, in relazione alla quale viene innanzi tutto modificata, come ricordato, la rubrica del capo II, che fa ora riferimento ai consumatori, tutelati sia nei confronti del finanziatore che dell’intermediario creditizio che intervenga nella fase distributiva del contratto di credito (art. 125 novies). La disciplina considerata continua a caratterizzarsi come disciplina speciale a tutela di tale fascia di contraenti, il che comporta una puntuale definizione del suo ambito di applicazione. Nel nuovo testo non è modificato il perimetro soggettivo di applicazione della normativa, che continua a vedere da un lato un “finanziatore” (art. 121, 1° co. lett. f), dall’altro un “consumatore” (art. 121, 1° co. lett. b), soggetti legati da un “contratto di credito” (art. 121, 1° co. lett. c) che non ricada fra le esclusioni di cui all’art. 122. L’assenza di tale specifico vincolo contrattuale riconduce nell’ambito della disciplina generale di trasparenza la fattispecie, appositamente considerata, di “sconfinamento” dai limiti della provvista che alimenta un contratto di conto corrente (art. 125 octies). Vengono quindi confermate una nozione basata sull’assenza di finalità ‘produttive’ dell’atto di consumo, l’assoluta neutralità della forma tecnica adoperata per il finanziamento, l’esclusione dalla tutela di soggetti che non siano persone fisiche, nonostante la presumibile debolezza di professionisti e piccole imprese nei rapporti con il finanziatore, che normativamente emerge in zone contigue con la considerazione estesa alle microimprese. Due significative modifiche toccano il perimetro oggettivo di applicazione della normativa. La prima (art. 122, 1° co. lett. a) discende dalla trasposizione di un’indicazione comunitaria vincolante, che definisce le soglie (minima e massima) dei finanziamenti interessati rispettivamente in 200 e 75.000 euro, con l’effetto di ampliare notevolmente la fascia tutelata rispetto al precedente tetto massimo, che risulta più che raddoppiato. La seconda innovazione discende invece della possibilità, contemplata dalla legge delega (art. 33, 1° co., lett. a), di estendere, in tutto o in parte, gli strumenti di tutela previsti dalla direttiva ad altre fattispecie in cui sussistano analoghe esigenze di tutela del consumatore. La norma include, quindi, nella nozione di credito ai consumatori fattispecie che la direttiva esclude, quali i finanziamenti garantiti da ipoteca di durata inferiore ai cinque anni (a contrario dall’art. 122, 1° co., lett. f). La scelta, condivisibile, è così illustrata dalla Relazione, che li qualifica “finanziamenti di liquidità”: “Tale fattispecie non include i finanziamenti per l’acquisto dell’abitazione, i quali hanno caratteristiche tecniche sui generis rispetto alle quali i presidi di tutela previsti dalla direttiva possono risultare non confacenti. Per contro, i prestiti di breve durata assistiti da ipoteca risultano analoghi – per finalità e forma tecnica (ad eccezione della garanzia) - al tradizionale credito al consumo. Del resto, già oggi i prestiti garantiti da ipoteca costituiscono credito al consumo se di importo inferiore ai 31.000 euro e se non sono destinati all’acquisto o alla ristrutturazione di immobili”. Capo II - Il credito ai consumatori: l’informazione preliminare. Ridisegnata in conformità della direttiva è la disciplina dell’informazione preliminare, che distingue gli annunci pubblicitari (art. 123) e l’informazione precontrattuale (art.124). Per il primo aspetto la norma – che si rubrica “pubblicità”, ingenerando qualche equivoco con l’uso dell’identico termine, qui riferito ad entrambe le fattispecie considerate dall’art. 116 T.U., sul cui chiarimento si trattengono le istruzioni - riproduce l’elencazione di elementi informativi richiesti della direttiva per le comunicazioni pubblicitarie (art. 4, par. 2), da un canto facendo salva la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, d’altro canto delegificando la normativa di dettaglio, che è peraltro in buona misura ‘dettata’ dalle norme comunitarie. Le istruzioni contemplano la possibilità di annunci pubblicitari che non riportano il tasso d’interesse, che deve essere invece compiutamente indicato nell’eventuale successiva fase di informazione precontrattuale. Ciò ha comportato la ‘sparizione’ dai siti di molti finanziatori di un’informazione compiuta, con annunci pubblicitari che rinviano per i costi alla documentazione da richiedere presso la sede del finanziatore: in tal modo, l’agevole comparabilità dell’offerta che la rete consentiva è fortemente depotenziata. Anche per il secondo aspetto, quello dell’informazione precontrattuale, la disciplina viene uniformata dalla direttiva che, al fine di contenere l’overload informativo, prevede un veicolo omogeneo, costituito da un modulo contenente le "Informazioni europee di base sul credito ai consumatori", redatto secondo uno schema predisposto dalla direttiva (Modulo SECCI- Standard European Consumer Credit Information). Eventuali ulteriori notizie possono essere fornite, ma con documento separato, in maniera da garantire la focalizzazione dell’attenzione sulle notizie ritenute rilevanti per la configurazione e la comparazione dell’offerta. Gli obblighi informativi si considerano assolti attraverso la consegna del modulo standard (art. 124, 2° co.). Il consumatore ha peraltro diritto di ottenere dall’intermediario “chiarimenti adeguati, in modo che questi possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria” (5° co.). L’adeguata informazione (conformata alle indicazioni di vigilanza previste dal successivo 7° co.) è, quindi, funzionale a realizzare l’autotutela del consumatore, che rimane responsabile della scelta. Capo II - Il credito ai consumatori: il contratto. La disciplina relativa al contratto (art. 125 bis) è riscritta integrando le previsioni della direttiva con quelle poste in materia di trasparenza, o direttamente innestate nel corpo della nuova norma o applicabili per il rinvio del 2° co., selezionando profili compatibili con la ricordata tecnica di armonizzazione massima della direttiva, in quanto relativi ad aspetti di diritto contrattuale rispetto ai quali non sussiste normativa armonizzata, quali ad esempio i requisiti di forma (1° co.), la relativa sanzione di nullità relativa (giusta i rinvii del 2° co.), i meccanismi di sostituzione di clausole nulle (7° co.). Di derivazione comunitaria è la clausola generale (art. 125 bis, 1° co.) secondo cui i contratti di credito somministrano informazioni “in modo chiaro e conciso”. Tanto “per consentire al consumatore di conoscere i suoi diritti e obblighi in virtù del contratto di credito” (considerando 31 dir.). Alla clausola segue, nella direttiva, il dettaglio delle informazioni da somministrare tramite il modulo contrattuale. Il legislatore nazionale ha preferito seguire anche in questo caso la tecnica di delegificazione che attraversa il T.U., rimettendo all’endiadi CICR-Banca d’Italia le prescrizioni a riguardo, peraltro dettagliatamente conformate dalla fonte comunitaria. Le istruzioni, oltre ad articolare la disciplina in conformità della normativa comunitaria, provvedono anche a riempire di specifico contenuto la clausola di chiarezza e concisione prevedendo quanto segue: “Fermo restando che le parti possono articolare liberamente il testo del contratto, purché in conformità con quanto richiesto dalla presente sezione, la Banca d’Italia, nell’esercizio delle proprie funzioni, ritiene che le informazioni relative alle condizioni economiche si possono reputare in ogni caso chiare e concise quando il contratto fa rinvio alle ‘Informazioni europee di base sul credito ai consumatori’, che in questo caso sono allegate al contratto e ne costituiscono il frontespizio” (Sez. VII.5.2). Di derivazione comunitaria sono, ancora, due nuove previsioni relative alla nullità del contratto. La prima introduce una specifica ipotesi di nullità che colpisce l’intero contratto in mancanza del cuore degli essentialia negotii, tale da non consentire la salvaguardia dell’intera pattuizione (art. 125 bis, 8° co.). La seconda, che riguarda gli effetti della nullità (art. 125 bis, 9° co.), articola la tutela patrimoniale del consumatore, che non solo è tenuto alla restituzione nel limite delle “somme utilizzate” (con esclusione, quindi, di addebiti di costi o interessi), ma ha diritto a rateizzare la restituzione, con la periodicità prevista nel contratto caducato o, in mancanza di previsioni a riguardo, nel termine–tipo delle operazioni considerate, individuato ora dalla norma (sia al 9° che al 7° co.) in trentasei mesi. Va, da ultimo, evidenziata la previsione del 3° comma, relativo alle pratiche leganti, con offerta congiunta – e spesso vincolante - di più prodotti collegati e/o condizionanti la concessione di credito, quali la stipulazione di una copertura assicurativa in favore del prestatore (fattispecie già esaminata con riferimento alla nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette) o l’apposita apertura di un conto corrente, che è considerata dalla direttiva spesa inerente al contratto di credito “a meno che l’apertura del conto sia facoltativa” (art. 10, par. 2, lett. k), naturalmente secondo la prassi operativa della banca. Su tali pratiche leganti – che costituiscono fattispecie ben diversa da quella dei prestiti finalizzati, di cui fra breve si dirà - la legge delega incentrava l’attenzione, formulando apposito criterio di delega (art. 33, 1° co., lett. f), in ottemperanza al quale “si richiede che, in caso di offerta congiunta di più contratti, questi siano sottoscritti separatamente in documenti distinti. Si vuole così evitare l’effetto sorpresa che può derivare al consumatore allorché – come avviene non infrequentemente nella prassi - un contratto di credito contenga clausole relative a un ulteriore e diverso contratto che il consumatore non è consapevole di sottoscrivere” (relazione illustrativa allo schema di d. lgs.). Capo II- Recessi e rimborso anticipato. Innovata per diversi aspetti è la disciplina del "recesso", che si affianca al distinto diritto di rimborso anticipato del finanziamento residuo, con corrispondente equa rideterminazione del dovuto (art. 125 sexsies). L’art. 125 ter estende, in applicazione della direttiva (art. 14) il c.d. "diritto di ripensamento" - che ha come fine quello di consentire al consumatore di riflettere adeguatamente sull’impegno assunto - a tutti i contratti di credito al consumo, generalizzando una tutela finora limitata ad alcune fattispecie caratterizzate da modalità di offerta e conclusione del contratto ritenute maggiormente a rischio di ingenerare una manifestazione di volontà contrattuale non sufficientemente meditata, come nel caso dei contratti e proposte contrattuali a distanza ovvero negoziati fuori dai locali commerciali (art. 64 CdC) o nella vendita a distanza dei servizi finanziari (art. 67 duodecies CdC). Il recesso può essere esercitato entro 14 giorni dal momento in cui il consumatore ha piena contezza del contenuto contrattuale (v. 1° co.). Qualora nel frattempo sia intervenuta un’erogazione, la norma circoscrive gli oneri economici del consumatore (2° co., lett. b). Accanto allo jus poenitendi, il successivo art. 125 quater si occupa del recesso di entrambe le parti nei contratti a tempo indeterminato (locuzione da interpretarsi restrittivamente, anche alla luce della modifica apportata all’art. 118, supra). Per il consumatore, si configura un diritto di recesso con limitato preavviso, senza spese e penalità (1° co.); per il finanziatore, invece, è espressamente riconosciuto, in conformità con la direttiva (art. 13), un diritto di recesso anche senza giusta causa. Secondo l’art. 125 quater, 2° co., infatti, il contratto può prevedere sia il recesso con preavviso che quello per giusta causa, finendo così per disegnare un regime non dissimile da quello dell’apertura di credito (art. 1845 c. c.), al cui ricco patrimonio interpretativo fare ricorso per la configurazione della ‘giusta causa’, che è generalmente ricondotta ad una situazione patrimoniale dell’affidato che metta o possa mettere a rischio il rientro del finanziamento. Se, dunque, la previsione del recesso per giusta causa risponde ad una finalità di fondo della direttiva, tesa anche, come ricordato, a garantire la stabilità dei prestatori, per il recesso senza giusta causa non emerge un collegamento con le dichiarate finalità di tutela – del fruitore e del concedente credito perseguite dalla nuova normativa. Capo II - I prestiti personali finalizzati. La nuova normativa prosegue occupandosi dei contratti di credito collegati, caratterizzati dal collegamento funzionale fra contratto di credito e contratto che integra l’atto di consumo finanziato, affrontando il problema che si pone in caso di inadempimento del fornitore cui, normalmente, è direttamente devoluto il finanziamento. La tutela ora approntata dall’art. 125 quinquies resta scarsamente efficiente, se pur rafforzata rispetto alla precedente versione della norma. L’originaria versione della norma (art. 125, 4° co. T.U., poi coordinato nell’art. 42 CdC) estendeva la responsabilità per l'inadempimento del fornitore dei beni o servizi al finanziatore, ma limitatamente ai casi in cui vi fosse un accordo che attribuisse al finanziatore l'esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. La nuova norma interviene appunto sul profilo dell’esclusiva, che non è più espressamente richiesta. Peraltro, affinchè si possa far valere la responsabilità del fornitore nei confronti del finanziatore (non restando obbligato alla restituzione rateale del prestito), bisogna trovarsi nella fattispecie che la nuova disciplina qualifica come “contratti di credito collegati”, cioè contratti in cui (ex art. 121, 1° co., lett. d) vi sono ben precisi e forti legami tra contratto di credito e contratto di fornitura, legami che prendono ora luogo delle preesistente clausola di esclusiva. Solo per i contratti di credito collegati, infatti, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi, il consumatore ha diritto alla risoluzione del contratto di credito. La risoluzione opera, poi, in presenza di due condizioni: che il consumatore abbia inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore; che ricorra la rilevanza dell’inadempimento (art. 1455 cod. civ.) relativo al contratto di fornitura di beni o servizi. Capo II bis - I servizi di pagamento. Il d. lgs. n. 11 del 2010 (di adeguamento alla PSD) incorpora nel T.U. le regole di trasparenza relative alla prestazione di servizi di pagamento, erogati o meno nell’ambito di un contratto quadro (art. 126 bis, 1° co.) previste dalla PSD con tecnica di armonizzazione massima. La normativa, che trova applicazione anche all’emissione di moneta elettronica (art. 126 bis, 2° co.), pone una serie di obblighi informativi e comportamentali in capo al prestatore, cui viene addossato l’onere di provarne l’esatto adempimento (art. 126 bis, 4° co.) con previsione analoga a quella posta dall’art. 23, 6° co. TUF per la prestazione di servizi di investimento. Si tratta di normativa ad applicazione necessaria quando destinatario del servizio sia un consumatore o una microimpresa. Negli altri casi, le parti possono prevederne la disapplicazione, totale o parziale, “in deroga all’art. 127, comma 1” (art. 126 bis, 3° co.), cioè alla norma che vieta le deroghe sfavorevoli al cliente (infra, Capo III). I poteri attuativi della Banca d’Italia sono conferiti facendo espresso riferimento (art. 126 bis, 6° co.) alla funzione di sorveglianza sul sistema dei pagamenti (c.d. oversight), che l’Istituto esercita avendo contemporaneamente riguardo “al suo regolare funzionamento, alla sua affidabilità ed efficienza nonché alla tutela degli utenti di servizi di pagamento” (art. 146, 1° co. T.U., come modificato dallo stesso d. lgs. n. 11 del 2010). Alla Banca d’Italia è altresì rimesso il compito di regolare nella normativa secondaria la questione dei confini di applicabilità della normativa speciale dei servizi di pagamento in luogo di quella generale di trasparenza per i contratti, che convergono sul medesimo rapporto nei casi di “servizi di pagamento regolati in conto corrente o commercializzati unitamente a un conto corrente” (art. 126 bis, 5° co.). La questione affrontata generalizzando per quanto possibile le regole del Capo I e distinguendo le diverse componenti all’interno del rapporto contrattuale in caso di insormontabili differenze normative (cfr Istruzioni di vigilanza del 9 febbraio 2011, sez. VI). Pur essendo impostata secondo i canoni ricorrenti, infatti, la disciplina relativa ai servizi di pagamento si discosta da quella generale di trasparenza essenzialmente per la disciplina delle modifiche unilaterali, mentre prossime sono la disciplina del recesso e quella delle spese. Per le modifiche unilaterali, la principale differenza è data dalla enucleazione di una tipologia di modifiche di immediata applicazione. Infatti, l’art. 126 sexies si apre (1° e 2°) ponendo regole analoghe a quelle dell’art. 118 – modifica previamente comunicata con facoltà di recesso senza spese in caso di mancata accettazione – ma introduce poi una disciplina speciale per le modifiche dei tassi d’interesse o di cambio (3° e 4° co.), che si applicano con effetto immediato e senza preavviso, trasferendo in tal modo integralmente il rischio della loro variazione in capo al cliente. Per il recesso (art. 126 septies), accanto al riconoscimento di tale diritto in ogni tempo e senza spese per il cliente, allineato a quello in generale previsto dall’art. 120 bis, si colloca l’espressa previsione, introdotta in base alla direttiva, del diritto di recesso del prestatore da contratto quadro a tempo indeterminato, azionabile se previsto dal contratto e con preavviso di due mesi. Si registra un sostanziale riavvicinamento anche della disciplina delle spese addebitabili dal prestatore in relazione alle informative, ritrovandosi nel nuovo art. 127 bis criterio discretivo che resta analogo a quello fissato dall’art. 126 ter (anche dopo la modifica apportata alla norma dall’art. 2 d. lgs. n. 230 del 2011), che distingue fra informazione dovuta ai sensi di legge, che resta gratuita se trasmessa con gli strumenti previsti in contratto, e informazione ulteriore, che può avere un costo per il cliente, ma adeguato e conforme ai costi effettivi sostenuti dal prestatore. Capo III - Evoluzioni disciplinari. A conclusione del Titolo VI T.U., il Capo III raggruppa disomogenee norme che, per diversa via, concorrono a garantire l'effettività della disciplina fin qui esaminata. Il Capo III è stato sostituito dal d. lgs. n. 141, che da un canto modifica i precedenti artt. 127, rubricato “Regole generali”, 128, “Controlli” (la cui disciplina si articola nei nuovi artt. 128 e 128 ter) e 128 bis, in materia di risoluzione delle controversie, d’altro canto colloca in questo capo (art. 127 bis) la disciplina delle spese, rimodulando il divieto introdotto dal decreto Bersani. L’assoluta gratuità resta infatti prevista solo per le comunicazioni obbligatorie trasmesse telematicamente, salvo che per le ipotesi di modifica unilaterale di cui all’art. 118, gratuite a prescindere dal mezzo di comunicazione impiegato. Capo III - Regole generali. Il nuovo art. 127 si apre con l’introduzione di un nuovo comma 01, che integra il quadro delle finalità di vigilanza di cui all’art. 5 – limitatamente a “i poteri previsti dal presente titolo” con l’espressa menzione di finalità di tutela della clientela, in consonanza con analoghe previsioni vigenti negli altri settori del mercato finanziario, ove peraltro tale finalità si colloca nelle norme generali d’azione (art. 5 T.U.F. e art. 5 cod. assicurazioni), analoghe all’art. 5 T.U. In base alla nuova finalità – configurata in maniera da dare rilievo tanto ad aspetti formali che sostanziali dei rapporti con la clientela (“trasparenza delle condizioni contrattuali” e “correttezza dei rapporti” sono profili di rilevanza equiordinata) - vengono conferiti poteri d’intervento che si affiancano a quelli previsti dalle altre norme del Titolo VI in ordine allo svolgimento delle relazioni contrattuali con la clientela e che consentono di incidere sulla struttura organizzativa della banca. Interventi di tal genere sono, peraltro, già stati adottati a salvaguardia dal ‘rischio reputazionale’ e trovano ora ulteriore base normativa nella nuova finalità. L'art. 127 prosegue con il previgente 1° co., che pone a tutela di tutte le disposizioni del Titolo una clausola generale di inderogabilità. L'inderogabilità funziona, per così dire, a senso unico, cioè solo a tutela del cliente. La norma prevede infatti che le disposizioni sono derogabili solo in senso più favorevole al cliente, riproducendo un meccanismo di tutela simile a quello escogitato per il contratto di assicurazione nella disciplina codicistica (art. 1932 c.c.). Naturalmente, il punto più delicato nell'applicazione della norma sta nel determinare quando la deroga sia più favorevole al cliente, quindi legittima, problema rispetto al quale si può in generale offrire solo un'indicazione metodologica, che costituisca guida unitaria nelle differenziate situazioni di fatto. Si ritiene cioè inadeguata a garantire il rispetto della norma una comparazione astratta, preferendosi piuttosto aver riguardo alle concrete ricadute sulla posizione del cliente della deroga rispetto a quelle della disciplina legale. Secondo analoga logica a quella del 1° co., l'art. 127, 2° co. continua a prevedere che tutte le nullità comminate dalle norme del Titolo VI integrano ipotesi di nullità relativa (cfr. art. 1421 c.c.) che assumono la configurazione di c.d. nullità di protezione, a tutela del singolo interesse - sia pur seriale - del cliente, categoria maturata in dottrina e raccolta all’art. 36 cod. consumo. A tale ultima previsione è allineata la riformulazione del comma, che modifica il quadro di azionabilità delle nullità, che ora possono anche essere rilevate d’ufficio dal giudice. Fra le regole generali il nuovo comma 1 bis colloca un obbligo relativo alla somministrazione delle “informazioni fornite ai sensi del presente titolo”, che “sono rese almeno in lingua italiana”. La norma evoca il ricordo di informazioni precontrattuali rese solo in sunto in lingua italiana e pone, quindi, obbligo generale univocamente funzionale all’effettività delle norme considerate. Quanto al suo ambito di applicazione, considerando l’inserimento anche del contratto nella catena informativa che parte dalla fase precontrattuale, è da ritenersi che l’obbligo si applichi all’intera sequenza del rapporto. Capo III - Controlli. Sul diverso piano dei controlli si muovono gli artt. 128 e 128 ter. L’art. 128 coordina le attribuzioni dei poteri di controllo informativo ed ispettivo in relazione al rispetto degli obblighi posti dal Titolo VI con i distinti quadri regolamentari in cui si collocano i diversi soggetti contemplati dall'art. 126 quater e dall’art. 115. L’art. 128 ter pone invece nelle mani della Banca d’Italia una gradata serie di misure inibitorie, “al fine di vietare agli intermediari la continuazione di attività svolte in modo non conforme alle disposizioni (concernenti sia i rapporti con i clienti, sia l’impiego di determinate forme di commercializzazione, quale ad esempio la rete di mediatori) e di ordinare agli stessi comportamenti conseguenti” (relazione illustrativa dello schema di d. lgs.). Tali misure possono attivarsi a fronte di mere “irregolarità”, ponendosi così in funzione preventiva e complementare rispetto agli interventi sanzionatori, che devono basarsi su più consistenti presupposti (art. 144). Peraltro – precisa ancora la Relazione – “le inosservanze delle misure inibitorie sono sanzionate in forma aggravata ai sensi del comma 4 del medesimo art. 144”. Capo III- I metodi di gestione della conflittualità banca-cliente. Accanto alle azioni giudiziarie in via generale previste dall’ordinamento a tutela delle proprie posizioni ed ai differenziati rimedi che si sono illustrati con riferimento a specifiche fattispecie, la clientela bancaria da tempo accede a metodi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR), che hanno incontrato le evoluzioni descritte nei successivi paragrafi. La conciliazione è stata, pertanto, praticabile ben prima che la media-conciliazione divenisse oggetto di generalizzata disciplina ai sensi del d. lgs. n. 28 del 2010, applicabile alle controversie in materia di contratti bancari e finanziari dal 20 marzo 2011. Ad oggi, ai sensi dell’ art. 5, 1° co. d. lgs. 28, per le controversie in materia di contratti bancari e finanziari, il procedimento di media-conciliazione può essere svolto o rivolgendosi ad uno degli organismi regolati dello stesso decreto, fra cui si annovera il Conciliatore Bancario Finanziario, oppure avviando il procedimento davanti all’organismo istituito in attuazione dell'articolo 128 bis T.U., l’Arbitro Bancario Finanziario-ABF. La peculiare natura di tale ultimo rimedio, che lo distingue dalla generalità delle procedure di media-conciliazione, ha portato a menzionarlo distintamente nel corpo del citato art. 5. ADR e clientela bancaria. Il Conciliatore Bancario Finanziario. Operando sul versante ‘procedurale’ della tutela dei diritti, la riforma societaria precostituiva una cornice normativa per lo svolgimento di procedure di conciliazione (art. 38 ss. d. lgs. n. 5 del 2003 e conseguenti d.m. giustizia 23 luglio 2004, nn. 222 e 223). La conciliazione si colloca nell’ambito delle procedure correntemente definite ADR (Alternative Dispute Risolution) per segnarne la contrapposizione rispetto al ricorso alla giustizia ordinaria, mentre non è dato rinvenirne un’univoca definizione ‘in positivo’. Gli stessi numerosissimi - atti comunitari che da tempo guidano alla diffusione del sistema, specie con riferimento alle controversie con i consumatori, disegnano volta a volta perimetri diversi, in cui spesso si affiancano procedure di conciliazione e di arbitrato, che sono profondamente disomogenee. L’arbitrato, infatti, prevede comunque – pur nelle sue diverse forme – che vi sia un soggetto terzo cui le parti rimettono la decisione della controversia, mentre la conciliazione si caratterizza per il fatto che il terzo, lungi dall’avere poteri decisori, svolge un’attività di facilitazione del raggiungimento di un accordo fra le parti. Nella ricerca dell’accordo è possibile seguire qualunque strada, prescindendo da valutazioni dei profili giuridici e focalizzando le soluzioni che meglio possono soddisfare gli interessi delle parti. Ancora, nella conciliazione non vige il principio della domanda, per cui l’accordo fra le parti può essere ricercato non limitandosi alla controversia che ha dato origine alla procedura di conciliazione, ma considerando il complessivo assetto dei loro rapporti, presenti o da instaurare, il che rende l’istituto particolarmente idoneo a risolvere questioni insorte fra banca e cliente, favorendo una proficua prosecuzione dei rapporti. Sulla base dell’accennata normativa, l’ABI (delibera 23 febbraio 2005) ha istituito un organismo, attualmente denominato Conciliatore Bancario Finanziario, avente sempre forma di associazione fra banche e intermediari finanziari, destinato a coordinare i diversi canali di ADR promossi dall’ABI, da un canto svolgendo le funzioni amministrative già svolte dall’ABI rispetto al preesistente sistema organizzato intorno all’Ombudsman bancario, d’altro canto curando la conciliazione, mediante l’istituzione di un registro di conciliatori bancari. Il Conciliatore bancario ha prontamente avviato la propria attività, sia intervenendo sulla disciplina del preesistente sistema, sia – soprattutto – creando una rete di conciliatori diffusa su tutto il territorio nazionale, sia estendendo la propria attività oltre i confini degli intermediari bancari e finanziari, includendo il Bancoposta. Con la modifica disciplinare della conciliazione intervenuta con il ricordato d. lgs. n. 28 del 2010, il Conciliatore Bancario Finanziario costituisce uno degli organismi presso il quale può svolgersi il tentativo di media-conciliazione obbligatoria, senza alcun titolo preferenziale per le controversie del settore bancario, se non quello discendente dall’elevata competenza specialistica. Nel nuovo sistema, infatti, l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione trova contrappeso nella libertà di scelta dell’organismo presso cui incardinare la procedura. L’intervento della legge risparmio: la cornice normativa dell’autoregolamentazione. A pochi mesi dalla costituzione del Conciliatore bancario, l'art. 29 legge risparmio ha introdotto un nuovo art. 128 bis T.U. ai sensi del quale i soggetti sottoposti alla disciplina della trasparenza bancaria "aderiscono a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie con la clientela" (1° co.), le cui procedure "non pregiudicano per il cliente il ricorso, in qualunque momento, a ogni altro mezzo di tutela previsto dall'ordinamento"(3° co.). Sottolineato che con il nuovo art. 128 bis T.U. l’adesione a tali sistemi passa dall’iniziativa autoregolamentare, cui liberamente l’intermediario aderisce, ad espresso obbligo, si pone il problema di individuare quali siano – nel variegato panorama che si è abbozzato al precedente paragrafo - i “sistemi di risoluzione stragiudiziale” cui la norma si riferisce. La generica locuzione adoperata da sola non orienta in alcuna direzione, ma una serie di elementi (anche di interpretazione sistematica della stessa legge risparmio: cfr. art. 27, che diversamente dettaglia il proprio ambito applicativo menzionando anche la conciliazione) inducono a ritenere che nella mente del legislatore vi fosse la preesistente struttura dell’Ombudsman bancario. Depone chiaramente in tal senso il 2° comma della disposizione, ai sensi del quale spetta al CICR, su proposta della Banca d'Italia, determinare i criteri non solo organizzativi, di svolgimento delle procedure, che "devono in ogni caso assicurare la rapidità, l'economicità della soluzione delle controversie e l'effettività della tutela", ma anche di composizione dell'organo “decidente”, garantendone imparzialità e "rappresentatività dei soggetti interessati". Il riferimento all'organo “decidente” vale ad escludere dall’ambito di applicazione della norma la conciliazione (peraltro soggetta al distinto corpo normativo ricordato al precedente paragrafo), mentre quello alla "rappresentatività dei soggetti interessati" rimanda all’idea di un collegio di nomina composita, qual era appunto l’Ombudsman. Ed è proprio in tale ambito che interviene la delibera CICR 29 luglio 2008, n. 275, destinata a dare attuazione al riferito 2° comma, che così definisce le procedure destinatarie dell’intervento: “l’insieme formato dall’organo decidente, composto in funzione degli interessi degli intermediari e dei clienti coinvolti nella controversia, dal procedimento e dalle relative strutture organizzative” (art. 1, lett. d). Risulta allora opportuno - al fine di meglio apprezzare la portata delle modifiche apportate a seguito della delibera) illustrare preliminarmente il previgente assetto del sistema, passando poi alla disciplina dell’attuale ABF-Arbitro Bancario Finanziario. Conflittualità minore: dall’Ombudsman bancario all’ABF. L'Ombudsman (poi Giurì) bancario è stato costituito nel 1993 in forza di un accordo interbancario patrocinato dell'ABI. L'iniziativa nasce dalla sempre più avvertita consapevolezza che i tempi e i costi dei canali tradizionali di tutela delle posizioni contrattuali manifestano ovunque i loro limiti - soprattutto per le parti contrattualmente deboli - il che ha portato alla diffusione di varie forme di difesa dei consumatori: dalla forte presenza di movimenti spontanei di autorganizzazione, particolarmente significativa nei paesi anglosassoni e in Germania, all'istituzione di appositi organi di risoluzione delle controversie fra imprese e utenti - appunto, gli Ombudsmen dotati di specifiche aree di competenza. In particolare nei rapporti banca - cliente, ricorrentemente caratterizzati da una significativa conflittualità, pochi erano i paesi comunitari sforniti di momenti tipici di tutela del contraente debole ispirati al modello delle ADR: al momento in cui l'ABI varava l'iniziativa dell'Ombudsman, l'Italia si accompagnava solo alla Grecia e al Portogallo. La struttura si articola in due presidi: un Ufficio Reclami, costituito all'interno di ogni banca e intermediario finanziario aderente all'accordo, e l'Ombudsman bancario, organismo a livello nazionale. Il primo è competente ad esaminare e a gestire i reclami presentati da tutta la clientela, relativi a qualunque questione derivante da rapporti intrattenuti con l'ente creditizio ed avente ad oggetto rilievi circa il modo con cui l'ente stesso ha gestito operazioni e servizi, purchè posti in essere nei due anni precedenti. L'Ombudsman, antesignano dell’attuale ABF, era un collegio di elevata qualificazione (e differenziata designazione) che operava come una sorta di arbitro cui una certa fascia di utenti poteva rivolgersi - solo dopo aver interpellato l'Ufficio Reclami - per l'esame di contestazioni che non fossero state risolte positivamente per il cliente in prima istanza. Su tale situazione incide il riferito intervento della legge risparmio e la conseguente delibera CICR del 2008, che inquadrano il sistema nell’ambito della vigilanza regolamentare, assumendo rilevanza per l’aspetto dell’organizzazione interna, opzione da cui conseguono una pregnante presenza della Banca d’Italia e, soprattutto, una piena integrazione funzionale dell’attività del nuovo organismo nell’attività di vigilanza, come meglio si vedrà nel prossimo paragrafo. L’organismo nato dall’autorganizzazione bancaria viene, quindi, assorbito nelle coordinate regolamentari applicative dell’art. 128 bis, che non lascia sostanzialmente spazio ad analoghe iniziative associazionistiche. Costituito l’ABF, dunque, il Conciliatore ha cessato le funzioni svolte dall’Ombudsman. L’intervento più significativo della delibera riguarda l’organo “decidente” di cui all’art. 128 bis T.U., che si articola in più collegi, di cui la Banca d’Italia assume la segreteria tecnica. Per i reclami, la più vistosa novità è l’imposizione di tempi procedurali più brevi. Resta invece, la fissazione di un tetto quantitativo che preclude l’accesso alla procedura (100.000 euro), sostanzialmente rendendola riferibile alla clientela retail. La delibera CICR precisa che il ricorso è alternativo alla conciliazione per cui – qualora sia pendente un tentativo di conciliazione – non è possibile avviare nè proseguire la procedura. All’eventuale fallimento della conciliazione, il ricorso può essere riassunto. Il ruolo delle “decisioni” dell’ABF. Secondo con opinione largamente maggioritaria e di recente avallata dalla Corte Costituzionale (ord., 21 luglio 2011, n. 218), l’ABF non ha natura di organo giurisdizionale. Pur ricorrendo alcuni dei requisiti necessari per tale qualificazione – quali l’ d’indipendenza ed equidistanza dei componenti dell’organismo e il procedimento improntato al contraddittorio - il motivo determinante per escluderla sta nel fatto che alle “decisioni” dell’organismo la normativa secondaria non attribuisce un ruolo decisorio delle controversie, non collega alcun obbligo giuridico suscettibile d’essere azionato davanti all’autorità giudiziaria. Tali “decisioni” sono state variamente qualificate, in prevalenza convergendo verso soluzioni che valorizzano la duplice, inscindibile valenza degli atti in parola: da un canto, valutazione della soluzione giuridicamente adeguata ad una controversia tra cliente ed intermediario, prossima all’Early Neutral Evaluation tipica degli ordinamenti di common law; d’altro canto, parere contenente un accertamento tecnico, organicamente inserito nello strumentario di vigilanza. E proprio da tale sinergia l’atto trae la propria capacità conformativa. Esso ha, infatti, al contempo un’incidenza sul singolo caso ed una valenza di sistema. Da un canto rileva l’osservanza in fatto prestata dagli intermediari, accompagnata da una sanzione reputazionale (i.e. pubblicità della mancata conformazione volontaria dell’intermediario alla ‘decisione’, peraltro alleggerita nelle disposizioni del 2011), d’altro canto assume particolare importanza l’articolazione della pubblicità delle decisioni dell’ABF, che costituiscono delle vere e proprie linee guida dell’azione degli intermediari.