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Un'ipotesi post-science fiction di chiusura delle scuole

… Il sistema educativo di Camiroi è inferiore al nostro… Alcuni degli edifici scolastici sono grotteschi. Abbiamo espresso meraviglia su un particolare edificio che ci sembrava incredibilmente vistoso e pacchiano. -Che cosa pretendete da bambini di seconda?ci hanno risposto… -Volete dire che sono i bambini stessi a progettarli?... Una cosa del genere non sarebbe certo permessa sulla Terra. Robert A. Lafferty, Associazione genitori e insegnanti (1970) … un alto edificio un po' tetro e con innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il liceo. Stephen King, Il talismano (1983) -Sia creativo… Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo. -Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni? Orson Scott Card, Il gioco di Ender (1985)

Un’ipotesi post-science fiction di chiusura delle scuole Adolfo Fattori … Il sistema educativo di Camiroi è inferiore al nostro… Alcuni degli edifici scolastici sono grotteschi. Abbiamo espresso meraviglia su un particolare edificio che ci sembrava incredibilmente vistoso e pacchiano. – Che cosa pretendete da bambini di seconda? – ci hanno risposto… - Volete dire che sono i bambini stessi a progettarli?... Una cosa del genere non sarebbe certo permessa sulla Terra. Robert A. Lafferty, Associazione genitori e insegnanti (1970) … un alto edificio un po’ tetro e con innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il liceo. Stephen King, Il talismano (1983) - Sia creativo… Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo. - Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni? Orson Scott Card, Il gioco di Ender (1985) Scriveva William Burroughs che “la fantascienza ha la cattiva abitudine di avverarsi”. Una professione di fede decisamente pessimista, o perlomeno disincantata, marcata da quell’attributo, “la cattiva abitudine”. Un’affermazione, insomma, che fa immaginare che lo scrittore, riflettendo sulla relazione fra la science fiction letta in precedenza e il mondo al tempo in cui scriveva, abbia rilevato come delle “previsioni” elaborate dai romanzi di fantascienza letti, se ne fossero “avverate” solo le più fosche e sgradevoli. D’altra parte, se è senz’altro eccessivo affermare che la narrativa di science fiction sia in grado di predire il futuro in senso referenziale, letterale, è pur vero che spesso si è dimostrata in grado di percepire la direzione tendenziale dei fenomeni sociali in atto, e immaginarne, forzandoli, gli esiti. Esaltando, così, le percezioni, le paure, le ansie – anche solo i sentimenti di disagio – connesse alla percezione, anche inconsapevole, del mutamento sociale. E vogliamo immaginare che il vero senso delle parole di Burroughs fosse questo. Possiamo provare a testare questa affermazione applicandola agli sviluppi – e alle derive – del sistema educativo nella sua parte più istituzionale, quella che sovrintende all’educazione “formale”, a partire dall’impatto dei cosiddetti “nuovi media”, e più in particolare delle tecnologie digitali, prendendo ad oggetto l’Italia. Si tratta di un periodo di circa trent’anni, che quindi parte attorno ai primi anni Ottanta del secolo scorso per arrivare fino a noi. Usando come chiave di lettura proprio alcuni spunti che provengono dalla narrativa di fantascienza. E ricordando che, almeno per quanto riguarda l’ultimo secolo e mezzo, i sistemi educativi dei singoli paesi, e in particolare quelli occidentali, possono essere tranquillamente considerati nella sostanza simili, spesso ispirati l’uno all’altro – e che in particolare per quanto ci riguarda negli ultimi decenni le proposte di riforma a qualsiasi titolo del sistema educativo italiano, nel suo complesso e/o nei suoi singoli segmenti, spesso erano articolate richiamandosi ai sistemi esteri e alle “sperimentazioni” relative. D’altra parte la logica del digitale1 ha avuto come cifra non solo la capacità di impregnare profondamente il sociale, ma anche quella di stimolare e accompagnare lo sviluppo dei fenomeni connessi alla globalizzazione nel suo stadio attuale. Il che rende eccentriche eventuali obiezioni – che siano ispirate al senso comune o meno – relative alla circostanza che la fantascienza sia un genere fondamentalmente anglosassone che quindi non avrebbe particolari relazioni con vicende specificamente italiane. Proverò quindi a prendere spunto da alcuni romanzi o racconti di science fiction del passato per ragionare su alcune tendenze dell’oggi, e suc ome si sono sviluppate. Nel 1970 Robert A. Lafferty (1970), uno degli scrittori più scanzonati e eccentrici della fantascienza della cosiddetta “età dell’oro”, pubblicava due racconti brevi, ambientati sul bizzarro pianeta di Camiroi (per certi versi una sorta di pianeta Gong, quello inventato dal musicista pop Daevid Allen negli stessi anni, per intenderci), dove di fatto non esistono istituzioni stabili di nessun genere. Una sorta di utopia hippie, potremmo dire. Una commissione ricercatori – ingessati e presuntuosi – spedita dalla Terra a “esplorare” le usanze del posto si trova a contatto con il modo di vivere degli abitanti del pianeta, rimanendo sempre più interdetta dal loro stile di vita (nel primo racconto, Leggi e usanze dei Camiroi, 1967), fin quando perde completamente l’orientamento nell’imbattersi nel sistema educativo del pianeta (il secondo racconto, Associazione Genitori e Insegnanti, 1979), per il semplice motivo che su Camiroi un sistema educativo altamente formalizzato – e autoreferenziale – come quelli cui siamo abituati nelle società occidentali moderne non esiste. In pratica, gli abitanti di Camiroi sono riusciti a realizzare una sorta di quadratura del cerchio: hanno sviluppato un sistema in cui l’educazione formale è un leggerissimo, evanescente contenitore riempito di modalità pratiche e procedure tipiche dell’educazione informale. Agli scolari, alunni, studenti viene dato un compito; sta a loro Con “digitale” intenderò tutto ciò che ha a che fare con le tecnologie basate sull’elettronica e il sistema binario: cibernetica, informatica, virtuale, etc. 1 poi trovare il sistema di svolgerlo senza applicare procedure standardizzate o prescritte in anticipo. Naturalmente i risultati possono apparire a volte discutibili o bizzarri (come nell’epigrafe a inizio di questo testo), ma c’è sempre tempo di correggere le disfunzionalità (perché alla fine di questo si tratta) più evidenti, seguendo un processo per tentativi ed errori che gli adulti camiroiniani (o camiroinesi) sperano, prevedono, sanno che condurrà ad una soluzione accettabile. Facendo contemporaneamente, i ragazzi, esperienza delle procedure e degli effetti di queste. Insomma, i ragazzini di Camiroi imparano (dovrei dire “impareranno”?) per esperienza e non per sentito dire (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda, 1996). Il punto di catastrofe cruciale dell’educazione in tutte le società complesse. In realtà probabilmente Lafferty non poteva avere consapevolezza delle riflessioni sociologiche sulla differenza fra i due tipi di conoscenza, effetto dell’estensione delle conoscenze e contemporaneamente della separazione progressiva dalle fonti di queste, quanto piuttosto, da “abitante” degli anni Sessanta-Settanta del Novecento – quelli dell’«immaginazione al potere» e dell’esplosione delle istanze di libertà delle culture giovanili – sentiva tutto il peso di una organizzazione della trasmissione dei saperi paludata, rigida, autoritaria, prescrittiva, a volte addirittura confessionale – apertamente negli Stati Uniti, subdolamente in Italia. Siamo all’alba dell’emersione diffusa dell’informatica e del digitale nella società. Le tecnologie elettroniche del calcolo e della gestione delle informazioni sono ancora appannaggio dei militari, dei centri di ricerca delle scienze hard – e della produzione, come anni dopo argomenteranno due ingegneri italiani, Giuseppe Perrella e Raffaele Strino (1980) in un testo particolarmente lucido e incisivo: “L’interdipendenza tra hardware, software e linguaggi di programmazione, i limiti (insuperabili) dei linguaggi di programmazione rispetto al linguaggio naturale, la funzione economica, sociale e culturale del mercato del software contribuiscono a tracciare le coordinate di una trasformazione antropologica in atto basata sulla riproduzione di un nuovo soggetto conoscitivo ed estetico-percettivo. Si tratta, peraltro, di quella trasformazione legata allo sviluppo della fase elettronica dell’industrializzazione, che abbiamo già definito come una produzione e riproduzione mediante modelli generativi”. Siamo, scrivevo, agli albori della penetrazione della logica del digitale nel corpo sociale della società ancora “di massa”, ancora basata sul modello fordista – quello che ha informato di sé l’intera gamma dei comportamenti sociali – ma il fatto che abbia colonizzato l’organizzazione della produzione è la premessa perché diventi il calco non solo dei rapporti di produzione, ma anche, in prospettiva, del modo di conoscere e dare senso al mondo – come peraltro Jean Baudrillard già aveva intuito nel 1976 (2015). La scuola, ancora in quegli anni, era quella tipicamente fordista, in Italia ibridata con il modello ancora ottocentesco ispirato – e orientato – alla caserma (Cfr. Fattori, 2012a) descritto in testi come il Cuore di Edmondo De Amicis: rapporti gerarchici rigidi, bloccati, testi scolastici – specie per i cicli dell’obbligo – spesso ancora ispirati e infettati dalla tradizione fascista. Una scuola bloccata su di sé, che però era in quegli anni investita in pieno dall’uragano della contestazione e del “Sessantotto”. Il conflitto ruota attorno alla distanza – sempre più profonda – fra la rigidità prescrittiva e l’autoritarismo dell’organizzazione dello studio (sul modello di quelli dominanti in fabbrica) e le istanze di indipendenza e autonomia – e di scelta dei propri modelli di vita, di gusto – da parte degli utenti della scuola (e dell’università, se è per questo…). E questo in tutto il mondo occidentale. Dalla tempesta del “Sessantotto” la scuola italiana esce alla fine illesa, anche se acciaccata. Nella sostanza, nei termini dei bersagli che i critici avevano individuato – autoritarismo, ritardo storico, meritocrazia basata sul censo, anacronismo dei contenuti – non cambia nulla, se non qualche innovazione “vivificante” in qualche antologia per la scuola media superiore (tipo l’inserimento di qualche raccontino di fantascienza, giusto per mostrarsi “moderni”), diventa solo più facile essere promossi, e le ottusità più evidenti vengono messe “in sonno” – ma comunque non abolite dalla normativa. Appare anche una parvenza di “democrazia”, attraverso la creazione di occasioni assembleari rigidamente regolamentate… Ma la scuola rimane fordista da una parte, legata all’estemporaneità delle pratiche degli insegnanti, estranea spesso a qualsiasi criterio di organizzazione della gestione dei contenuti, delle verifiche sui progressi degli alunni, della valutazione dall’altra. Nonostante la liberalizzazione degli accessi all’università, le divisioni fra i vari indirizzi rimangono quelle di sempre, sostanzialmente legate al censo, in un mercato del lavoro che nonostante tutto continua a “tirare”, per cui i liceali proseguono negli studi e si preparano alle professioni “liberali” – o a entrare al servizio dello stato – e gli altri vanno a lavorare. Né c’è bisogno di altro, fin quando, sottotraccia, non si cominciano a sentire da un lato gli effetti della crisi energetica del 1973 (Harvey, 2010), dall’altro i primi effetti della penetrazione della logica del digitale nel complesso del corpo sociale e delle sue istituzioni: si avvicina quella “mutazione antropologica” di cui scrivono Perrella e Strino. In pratica, delle trasformazioni che erano già avvenute nell’industria con la diffusione dei primi “calcolatori” e delle macchine a controllo numerico, nelle scuole non v’era traccia. Tanto per fare un esempio, ancora gli orari degli istituti industriali (tecnici e professionali) erano appesantiti da ore di “laboratorio” in cui gli alunni si dedicavano a levigare a mano con gli utensili tradizionali (lime ed altro) piccoli blocchi di metallo, mentre per esempio nei tecnici per ragionieri al massimo poteva capitare di trovare delle macchine per la tenuta della contabilità, spesso neanche elettriche. Se quindi la finalità dichiarata di questi istituti è la formazione al lavoro, già la scuola italiana è in ritardo: qualsiasi punto di vista si abbia sull’organizzazione di fabbrica, delle burocrazie e della produzione nel passaggio dal fordismo al toyotismo, va da sé che i diplomati che la scuole sfornano partono già, largamente, ad handicap. Il procedere e i risultati dell’educazione formale erano insomma in gran parte legati a processi casuali e intuitivi, non discretizzabili e non numerabili nel loro sviluppo, se non – necessariamente – nello sbocco finale: il voto. Pure, ma in particolare per i cicli dell’obbligo, esistevano dei tentativi di organizzazione formalizzata dei procedimenti di valutazione, che ruotavano attorno a griglie e tabelle tassonomiche che provavano a distinguere e classificare – un’intenzione lodevole, ispirata dal desiderio di ridurre discrezionalità, “effetto alone”, casualità, ma in una dimensione che assomigliava in modo preoccupante a quella delle scienze naturali, quella di Carl Nilsson Linnaeus per intenderci, e che però in qualche misura già applicava una logica attigua a quella della programmazione digitale: classificare significa distinguere e separare, attraverso l’uso di un sistema di opposizioni, in fondo binarie. Contemporaneamente, per effetto dell’onda lunga delle agitazioni degli anni precedenti e del diffondersi di una cultura più “progressista” e “democratica”, comincio a diffondersi fra gli insegnanti il desiderio di praticare strade nuove, più “coinvolgenti” per gli alunni, di far riferimento a metodi come il problem solving, per intenderci, che, a pensarci bene, già avevano in nuce un altro elemento tipico dei paradigmi della programmazione, l’if, then, il “se, allora”. Se ci si pensa, questi timidi – e inconsapevoli – sfioramenti della sfera del digitale riguardavano comunque le pratiche dei docenti, non toccavano gli alunni; l’esempio dei blocchetti di metallo lavorati a mano dai futuri meccanici o tornitori la dice lunga: l’idea di “fabbrica” che aveva l’apparato della Pubblica istruzione era ancora addirittura prefordista, per certi versi. Ma è proprio dagli istituti tecnici che parte una – prima timida, poi sempre più convinta – trasformazione nello sguardo verso i processi di formazione che si svolgevano nelle scuole italiane. All’inizio degli anni Ottanta, con la prima vera messa sul mercato di quelli che poi ci saremmo abituati a chiamare “pc”, i personal computer, avviene una vera, profonda mutazione nella diffusione dell’informatica nelle imprese. Dai reparti produttivi – la gestione dell’approvvigionamento di scorte, i reparti di trasformazione delle materie in prodotti, la gestione della distribuzione – l’elettronica passa ai luoghi dove si crea la memoria dell’impresa, il suo essere un organismo misurabile nel suo valore economico: i reparti di gestione della contabilità. I luoghi in cui si registrano i valori – il valore dell’impresa nelle sue parti, in termini qualitativi, sì, ma prima di tutto quantitativi. In termini discreti, numerabili, come solo il denaro può essere, e come il computer tratta i suoi dati. In effetti, prima della commercializzazione di massa, quella rivolta al consumatore finale, il computer si diffuse negli uffici di contabilità, un luogo di elezione, per le sue potenzialità: niente più errori di calcolo, o di interpretazione, e una riduzione decisamente significativa dei tempi di lavoro necessari a aggiornare tutti i registri contabili – e quindi una straordinaria riduzione dei costi del lavoro. Arrivare agli uffici contabili significò per il paradigma digitale arrivare a occupare il cervello e il cuore delle imprese, lì dove si descrive nella lingua che gli è propria la loro identità e la loro memoria: la gestione del flusso della documentazione e dell’informazione aziendale. Quella cui pensava Harold Innis – non a caso, forse, un ingegnere – quando cominciò a riflettere sull’importanza vitale dei documenti nella vita delle società complesse, delle loro burocrazie. Ed è proprio nello stesso periodo che dalla Direzione Tecnica del ministero2 – quella che si occupa appunto degli istituti tecnici – e in particolare da chi al suo interno ha una cultura tecnico-aziendale3 – parte una proposta di innovazione nel modo di insegnare. La proposta riguarda solo gli istituti tecnici, comunque: evidentemente il monolite della 2 Da qui in poi, molto di quel che scriverò è anche frutto della mia esperienza diretta come insegnante di Economia aziendale in una cosiddetta “scuola pilota”, che cioè ospitava volentieri progetti “innovativi”. 3 In pratica, un gruppo di ispettori centrali ex insegnanti di Ragioneria e di presidi di istituti per ragionieri. trasmissione delle basi della cultura vera, quella umanistico-scientifica, quella che forma le élite – i licei, insomma – non aveva bisogno di modificarsi, di “innovarsi”: il greco, il latino, l’arte classica certo non cambiano, né cambiano la fisica newtoniana, la chimica, l’astronomia… “Kuhn? Chi era costui?” 4 probabilmente si sarebbero chiesti i custodi ministeriali del sapere, se gli fosse capitato di sentirne il nome… In ogni caso, lanciando la parola d’ordine “dal programma alla programmazione” questo gruppo di operatori dell’istruzione provò ad attuare una piccola rivoluzione copernicana, sostenendo che il “programma” scolastico come elenco ordinato di nuclei di contenuto non implicava nessuna attenzione all’alunno, era “docentecentrico” per così dire, perché chiedeva solo di essere “svolto” in successione, senza che si dovesse badare alla reale quantità, ritmo, qualità dell’apprendimento da parte degli alunni, e apparteneva quindi ad una logica superata e disfunzionale, autoritaria e prescrittiva. Passare – convertirsi, se si vuole – alla “programmazione” significava dividere i contenuti dell’insegnamento delle varie discipline in nuclei omogenei (le “Unità didattiche”), per quanto possibile autoconclusivi, organizzabili secondo una scansione diversa da quella dei vecchi elenchi ministeriali – che spesso finiva per essere identificata con l’indice del libro di testo – per i quali il processo di insegnamento/apprendimento doveva essere organizzato secondo modalità nuove – che avevano come calco i procedimenti tipici della programmazione informatica: il modello era il “diagramma di flusso” o “diagramma a blocchi”. L’insegnante era invitato intanto a dichiarare – scandendoli con precisione – quali sarebbero stati i contenuti, gli obiettivi didattici che avrebbe perseguito, i tempi necessari, il metodo, gli strumenti che avrebbe messo in opera per ogni singola unità didattica. Ed era tenuto a verificare periodicamente se gli obiettivi che si era prefisso erano stati raggiunti o no, per tornare indietro e replicare il processo se non fosse andato a buon fine (il “se-allora” dei diagrammi a blocchi). Insomma, si immaginavano pratiche per quanto era possibile centrate sugli alunni, piuttosto che sui tempi standard della scuola, imposti dalla logica del programma. A questa cornice si aggiungeva naturalmente – necessariamente – l’incoraggiamento a usare tassonomie via via più articolate per misurare e valutare il processo di apprendimento, i progressi degli alunni, nel suo farsi – e nei suoi esiti. Come si può percepire, già qui era presente una dimensione che andava verso la discretizzazione dei processi educativi, in termini di procedure, in un andamento che se da un lato faceva attenzione ai tempi degli alunni, dall’altro introduceva logiche sì, razionalizzanti, ma a rischio di automatizzazione. È una soglia sottile, quella che viene a definirsi: da un lato, c’è il tentativo di vincolare il processo educativo a una logica che in tendenza dovrebbe ridurre le disparità fra gli alunni e rendere gli insegnanti più consapevoli della loro azione; dall’altro, la strada che si intraprende razionalizzando e organizzando riduce in tendenza l’incommensurabilità di alcuni aspetti della crescita culturale, conoscitiva e personale degli alunni. Discretizzare, misurare, valutare significa ridurre, delimitare, eliminare tutto ciò che nell’identità dell’alunno – o almeno di ciò che di questa la scuola può percepire – non sia Thomas Kuhn (1922 – 1996) è l’autore del testo La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino, 1979), pubblicato nel 1970, testo fondamentale per l’epistemologia della seconda metà del Novecento, non solo nel campo delle scienze “esatte”. 4 riconducibile a parametri definiti. Una logica di valori che già si avvicina virtualmente a quella del valore di scambio, da assumere nel momento in cui si sarebbe entrati sul mercato del lavoro. Ricordiamoci che la proposta del gruppo di progetto ministeriale nasce all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso: il mercato del lavoro ancora assorbiva diplomati, almeno al centro-nord,5 e questi progetti si rivolgevano esclusivamente agli istituti tecnici. A partire dai tecnici per ragionieri, i più “elitari”, e quelli che avevano i rapporti più diretti con i territori di azione del valore di scambio, oltre ad insegnare una disciplina, l’Economia aziendale, particolarmente affine alle architetture di calcolo del computer: se i linguaggi di questo hanno in comune, in profondità, il “sistema binario”, che funziona per opposizioni – “spento/acceso”, “sì/no”, “zero/uno” – altrettanto avviene per il nucleo dell’Economia aziendale, la contabilità generale in partita doppia: “dare/avere”, “costi/ricavi”, “attività/passività”, “economico/finanziario”, “patrimonio/reddito”… Alla fine, lo stesso nucleo di senso del mercato, dello scambio merce-denaro (altra opposizione!) sulla base di un valore numerabile insegnata a scuola, informa di sé il processo educativo, sulla base di procedure che simulano il funzionamento del computer. Rimanendo però patrimonio dei docenti, senza diventare conoscenza per gli alunni. In questa fase, insomma, di “digitale” nell’apprendimento dei ragazzini non c’è niente – a parte l’imparare a usare il pc a “scuola” per scrivere testi in Wordstar e costruire tabelle e “torte” con Lotus123.6 Vivevamo ancora in un mondo che – nella percezione quotidiana, comune, fenomenica – era ancora quello della Modernità metropolitana e fordista. In termini di percezione della propria collocazione in un tempo e in uno spazio precisi – quindi della nostra percezione dello scorrere del tempo e della “forma” dello spazio – rimaneva una coerenza, una affinità profonda fra le esperienze fatte a scuola e nella vita quotidiana, la scansione del tempo vissuto era simile in tutti i contesti in cui si abitava: lo spazio/tempo scolastico era anche il proprio, si era abituati a star fermi, seduti, ad ascoltare qualcuno che parlava o scriveva alla lavagna… Si era abituati alla scansione oraria delle lezioni, alla location costituita dall’aula… Era, in fondo, il tempo della televisione, di quella generalista, ancora non ibridata e rimediata con il computer e le sue modalità. Era uno spazio/tempo gestibile e familiare. Predigitale, pre-multidimensionale. È però interessante notare come i due media, quello audiovisivo e quello digitale potessero convivere nelle logiche dell’innovazione didattica. E la spinta veniva dal mercato. La CaRipLo, ad esempio, naturalmente attenta alla qualità dei suoi potenziali dipendenti, propone in quegli anni alle scuole una serie di lezioni sul funzionamento della Borsa valori in videocassette vhs (sì, il videoregistratore cominciava ad entrare nelle scuole: il futuro incombeva), svelando subito il limite invalicabile dell’insegnamento in absentia degli strumenti di comunicazione non interattivi: se un alunno non capiva un passaggio, poteva tornare indietro e riascoltare/rivedere la lezione anche ripetutamente, ma avrebbe E non a caso la maggior parte delle scuole che accolsero questi progetti, i “progetti assistiti” del ministero, tutti identificati con una sigla vagamente evocativa: Igea, Mercurio, Erica, Aracne, Sirio… erano al centro-nord. 6 Gli antenati di “Word” ed “Excel”. 5 risentito sempre le stesse frasi e visto le stesse immagini: non c’era feedback, insomma, né avrebbe mai potuto esserci. Capito il problema, la CaRiPlo rilancia proponendo un gioco per computer, Holding, che invece si basa sull’interattività: Holding simula un mercato, in cui ogni giocatore (ogni alunno) è un’impresa, con un suo capitale, un suo prodotto, una sua dimensione. Ogni impresa deve fare delle scelte (di investimento, di intervento sul mercato…), giocando “al buio”, in pratica, sulla base di informazioni che simulano quelle che un imprenditore potrrebbe avere nel reale. Sulla base di un algoritmo specifico, interno al programma, ad ogni “giro” il gioco decide chi ha fatto scelte corrette e vantaggiose e chi no. Con le logiche conseguenze … Naturalmente le “mosse” dei giocatori dovevano essere contemporanee, come “in tempo reale”, ma giocando tutti sullo stesso computer, i giocatori inserivano la loro scelta uno dopo l’altro, poi il computer lavorava e – dopo un certo tempo – dava la sua risposta. La simultaneità delle mosse era solo simulata, ma forse quello di Holding è uno dei primi casi di simulazione applicata ad un prodotto didattico. Presto caduto nel dimenticatoio. Intanto, però, nelle scuole si rafforzava il paradigma della “programmazione”. Vale ancora la pena di citare Perrella e Strino: “Ora, con la fase elettronica dell’industrializzazione, da forme di rappresentazione deterministe si è passati a modelli di simulazione che generano storie di eventi e di stati possibili, senza la necessità di un rapporto diretto col processo concreto. Quindi, il processo produttivo, mentre con l’industrializzazione meccanica veniva rappresentato e determinato, con la diffusione delle tecnologie elettroniche viene sempre più dedotto, previsto e regolato da modelli generativi. Modelli generativi che in quanto modelli che incorporano e sintetizzano il processo concreto in forme astratte di conoscenza e di rappresentazione e quindi modelli che diventano mezzi che generano il reale” (Perrella, Strino, cit. pagg. 23-24). In pratica, la riduzione del reale a simulazione produce dei modelli che diventano il calco attraverso cui gli umani “leggono” il reale, lo decifrano e lo organizzano – lo decodificano e ricodificano. Trasferita dalla fabbrica alle scuole tecniche – che preparavano al lavoro di fabbrica e d’ufficio progressivamente sempre più informatizzati – questa logica è alla base della “trasformazione antropologica” su cui i due ingegneri – precocemente – puntavano l’attenzione. Nel decennio Ottanta la trasformazione è silente, sotto traccia, ma già virale, come impareremo a dire qualche anno dopo. E comincia a modificare il nostro modo di percepire il reale. L’avanzare sempre più impetuoso dei “nuovi media” elettronici, la penetrazione interstiziale del loro modo di gestire spazio e tempo colonizzerà sempre più il reale, trasferendoci in un mondo in cui aumenterà la mobilità – fisica, percettiva – sradicandoci dalla necessità dell’immobilità davanti a una lavagna, ad uno schermo, ad una pagina stampata… La scuola invece non si muove: rimane lì, con i suoi banchetti e le sue sedioline per puffi, le sue aule, il gesso e la lavagna, il suo orario scandito come in una istituzione totale – cui somiglia, per forza di cose: la sua dimensione abitativa rimane quella del falansterio (o del panoptikon: gli edifici scolastici degli anni Ottanta, progettati da architetti pieni di buone intenzioni, sono un inno all’open space), della fabbrica – Stephen King coglie un punto cruciale, nelle righe che ho posto in epigrafe. E con un curioso ribaltamento di prospettiva: laddove le tecnologie elettroniche tendono a simulare – potenziandone le performance – le tecnologie precedenti, nella scuola il loro uso finisce per venir ridotto a queste. Un uso al ribasso, insomma… E la divaricazione fra lo spazio/tempo su cui è organizzata la scuola e quello che si esperisce nel mondo si allarga sempre di più. Raggiunto – ed è stata una vittoria della democrazia, seppur sussunta agli interessi del mercato – l’obiettivo della scuola per tutti, la scuola “di massa”, questa si ferma lì, abbandonando – se non nelle petizioni di principio – la concezione, pur nella sua versione romantica, di una educazione attenta ai talenti, alle vocazioni, alle passioni dei singoli. Necessariamente, devono funzionare meccanismi basati sull’applicazione di un qualche massimo comun divisore che permetta di valutare i singoli sulla base di parametri generali. Senza accorgersi – o trascurando – che non solo progressivamente diventa obsoleto il sapere che viene trasmesso (e qui siamo al senso comune), non solo lo sono altrettanto i metodi (e vale lo stesso discorso), ma che – ed è decisivo – ci si rivolge a persone che ormai vivono altrove, che esperiscono il mondo secondo griglie conoscitive che sono altre rispetto a quelle all’interno delle quali esiste la scuola. Tutti gli anni Novanta, fino al Duemila e oltre, grazie anche alle generose iniezioni di finanziamenti provenienti dall’Unione europea (il Fse e il Fesr), sono segnati nella scuola dalla realizzazione di “laboratori informatici”, usati prima di tutto per familiarizzare con quello che poi sarebbe diventato il “pacchetto office” della Microsoft, nel mondo esterno e nella esperienza degli adolescenti e dei ragazzini dall’invasione delle play station e degli X-box che realizzavano l’ibridazione fra immersione nel virtuale e mobilità totale. Tecnologie che emancipavano dalla necessità della postazione fissa, e contemporaneamente permettevano un’immersione virtuale nei mondi che proponevano. D’altra parte nel Rapporto sulla situazione sociale del paese redatto ogni anno dal CENSIS, già nel 1983 si leggeva che “La socializzazione e l’apprendimento dei giovani tende ad assumere quote sempre più vaste di formazione non formale […] e di quella definibile come informale (mass media specialmente, attività culturali in senso lato); per contro il sistema di istruzione tende sostanzialmente ad operare come se il resto non esistesse o risultasse del tutto trascurabile)” (CENSIS, 1983). Un vizio antico, quindi, quello di non guardare a ciò che accade al di fuori del proprio cortile. Una delle espressioni dell’autoreferenzialità delle burocrazie. Ragioniamoci un attimo. Se fino agli anni Sessanta del Novecento gran parte dell’educazione informale si realizzava in famiglia o per strada, e quella formale a scuola (e nelle parrocchie, per alcuni aspetti), ma in ogni caso attraverso forme analoghe di interazione fra adulti e ragazzi, con lo sviluppo della televisione questo rapporto comincia a spostarsi a favore dei mezzi di comunicazione di massa. Analogici, ancora, limitati nella copertura del tempo vissuto quotidiano, il che comincia a far traballare la presa della comunicazione istituzionalizzata sugli alunni. Certo, qualche insegnante più “moderno” invita a vedere alcuni programmi in tv, più tardi comincerà a far vedere la tv a scuola – o meglio, combatterà (questo nei Novanta) perché la propria scuola si doti di un televisore da usare come monitor per collegarci un videoregistratore, per far vedere magari qualche film (o qualche documentario, giusto per salvarne la “valenza didattica” dell’operazione e ridurre le critiche cui si espone…), ma non andiamo oltre la sostituzione dell’emittente di messaggi in carne ed ossa con un emittente virtualizzato: non cambiava il grado di separazione fra l’esperienza concreta che gli alunni potevano fare nel mondo esterno e quella “per sentito dire” che facevano a scuola... Forse sarebbe stato il caso di far sperimentare agli alunni il montaggio video (già era possibile praticarlo con attrezzature non troppo costose e complicate) per fargli fare esperienza della possibilità di “costruire mondi” ispirati dall’immaginazione manipolando le immagini. Cosa che d’altra parte, con i mezzi volta per volta disponibili, gli umani hanno sempre fatto. E praticare la differenza fra realtà “naturale” e realtà via via sempre più “virtualizzate” (Cfr. Fattori, Fucile, 1988). Intanto, però, una forma di “digitalizzazione” sistematica – obliqua, sorniona, subdola – nelle scuole cominciava a penetrare, non nel processo educativo – che tendeva grazie al fascino del “diagramma a blocchi” e della sua apparente semplicità a trasformarsi in un sistema di procedure, non dissimili da quelle alla base di un budget aziendale – ma nella valutazione: l’ossessione per la ricerca di una presunta oggettività della valutazione se da un lato aveva scatenato l’immaginazione didattica nella costruzione di tassonomie, dall’altro spingeva a costruire griglie valutative sempre più discretizzate – e cogenti – che pretendevano di eliminare qualsiasi “effetto alone” (uno dei fantasmatici spauracchi degli insegnanti, frutto della psicologia spicciola erogata nei vari – e spesso disastrosi – “corsi di aggiornamento” cui si partecipava…), ma che hanno l’unico risultato di inchiodare gli alunni al proprio passato da un lato (come se il processo educativo erogato dalle istituzioni non debba produrre cambiamenti da un anno all’altro, nelle persone: un vero e proprio lapsus!), dall’altro a quella parte delle prestazioni di questi che può essere misurata contabilmente, statisticamente, senza nessuna attenzione – appunto – all’emergere di talenti, vocazioni, affinità – allo “stile personale”, se si vuole, dei singoli individui… Ecco, qui finisce per giocarsi tutta la dinamica della transizione verso una società “connessa” grazie alla Rete e al digitale, e la versione di cartapesta della stessa nella scuola. Il fatto è che i nostri adolescenti già per conto loro esperiscono il virtuale: con i loro smartphone, con gli Xbox, con le playstation. Fanno esperienza quotidiana, continua della connessione e di uno spazio/tempo che è ubiquo e non-lineare, in cui si avventurano e navigano – vivono – senza aver bisogno che qualcuno gliene insegni in maniera formalizzata le grammatiche, le sintassi, gli oggetti. Anzi, spesso sono loro a farci da coach nei nostri tentativi di esplorazione. In altri termini, se la formazione dell’individuo – l’obiettivo dell’educazione, alla fin fine – riguarda il processo attraverso cui costui diventa un membro attivo, consapevole, autoriflessivo della formazione sociale in cui vive, la sua socializzazione, insomma, questo processo non si riduce certamente ai saperi – pratici e teorici – che gli vengono impartiti a scuola. Anzi: la sproporzione fra le quote di educazione informale e non formale e quella formale di cui scrivevano gli estensori del Rapporto CENSIS che ho citato tende a spostarsi sempre di più a sfavore dell’ultima – e il sistema educativo istituzionale insiste a non accorgersene. Ma se la formazione è questo, allora è qualcosa in cui si è immersi in ogni momento della propria giornata, e che di fatto è costituita da tutte le esperienze che l’individuo fa, su cui può riflettere, e che diventano parte della sua identità, che muovono la sua vita e le sue azioni, il suo essere-nel-mondo, allora dobbiamo intenderla come “… nel senso più generale e fondante di formazione dell’individuo: costruzione di mondi; costruzione dell’identità personale; produzione di sistemi comunicativi e simbolici necessari alla metabolizzazione individuale e collettiva dei traumi del mutamento; definizione di un sistema di regole e credenze per l’orientamento dell’azione sociale. Così collocata, la formazione non può essere interpretata in modi distinti né dalla produzione di fiction, giochi, divertimento, né dalla produzione di informazione, perché tutti questi ambiti, queste zone, appartengono a un’unica grande costellazione di pratiche significanti e simboliche, grazie alle quali il soggetto ha modo appunto di «formare» se stesso” (Abruzzese, 2006, corsivo mio). Praticamente tutto lo spettro delle esperienze che l’umano può fare e delle pratiche che può sperimentare, che ne fanno un membro della formazione sociale che abita. Questa articolazione del senso che possiamo dare alla dinamica dell’educazione – che a questo punto possiamo sostituire con socializzazione (intendendo sia quella primaria che secondaria) – per molti versi è analoga a quella che è alla base della traslazione operata da coloro che hanno promosso il passaggio dal termine “Pedagogia” al termine “Scienza dell’educazione” per rivendicare la necessità di un cambio di paradigma e promuoverlo, sostenendo che “Pedagogia” rimanda ad una concezione tradizionale, autoritaria, prescrittiva della disciplina, mentre la “Scienza dell’educazione” è una modalità di accompagnamento del processo di cambiamento che interessa l’umano nella sua socializzazione, perché “L’educazione è un modo di designare processi complessi che non possono essere scomposti nei minimi termini […] utile a capirsi rispetto ad un insieme di accadimenti che si verificano nella storia di un individuo o di un gruppo il cui scopo è un cambiamento modale” (Demetrio, 1990, pag. 25, corsivo mio). Il che significa, portando il discorso alle sue estreme implicazioni, che – premettendo che (come peraltro scrive anche Duccio Demetrio nello stesso luogo7) la traslazione dalla “pedagogia” alla “scienza dell’educazione” è storicamente e socialmente determinata, aspetto anch’essa del mutamento sociale e discorso, seppur “locale” su questo mutamento – non è più praticabile una strategia di formazione strutturata e prescrittiva come quella che gioco forza la scuola può proporre e somministrare. Nel senso che se, in passato – nel relativamente lungo periodo che ospita storicamente l’emergere, l’affermarsi, l’istituirsi dei sistemi di massa dell’istruzione –, in corrispondenza della parabola della società della fabbrica e della metropoli una scuola strutturata, articolata sul modello del fordismo, sui tempi e gli spazi dell’esperienza metropolitana e industriale era coerente e funzionale allo sviluppo delle biografie e delle identità, e agiva su una percezione del continuum spazio-temporale condiviso dagli individui, dai gruppi, dagli apparati, proprio questa configurazione entra in profonda crisi e si frantuma, svanisce. Intanto l’ordine della simulazione e del digitale impregna il mondo sociale, e in profondità, sottotraccia, diventa il modello da cui procedono tutti gli ambiti della vita collettiva e della formazione delle identità individuali. In modo sottile, morbido, silente riorganizza il mondo del gioco e del divertimento – e riarticola le modalità di uso degli spazi e dei tempi ludici. E quindi educa, permette lo sviluppo delle quote di socializzazione e di formazione informali e non formali, sempre più egemoni nella vita degli adolescenti e dei bambini. 7 “… modo convenzionale, storicamente e culturalmente mutevole”. In modo palese, sfacciato, sembra colonizzare e informare gli ambienti dell’educazione formale: progetti centralizzati di “classi digitali”, come il Cl@ssi 2.0, gestito da Ansas, Miur e facoltà universitarie (di Scienze dell’educazione, naturalmente, con l’unica eccezione di Sociologia della Federico II) per alcuni anni a partire dal 2009, con inondazioni di computer, Lim e altre strumentazioni, specchietti per le allodole, ritinteggiature superficiali… Perché se le pratiche didattiche, le concrete procedure di organizzazione dei contenuti, il sistema di misurazione e valutazione dei risultati della didattica, il continuum spaziotemporale in cui si svolge il processo di insegnamento/apprendimento rimangono gli stessi, quelli tradizionali, scanditi dalle campanelle orarie, collocati nelle aule tradizionali, cosa cambia davvero? Un po’ – ma in termini molto meno decisivi e sistematici – come nel romanzo di Orson Scott Card citato in epigrafe, da cui è stata tratta anche una dimenticabile pellicola (Hood, 2013): per vincere una guerra contro una razza aliena che vuole invadere la Terra, vengono addestrati dei ragazzini, usando dei simulatori digitali. È un confronto impari, fra l’ambiente di apprendimento informale, quotidiano, costituito sempre più dagli spazi virtuali dei media digitali, dagli universi che questi ospitano, dalla interattività che propongono, e lo spazio/tempo ripetitivo e serializzato degli edifici scolastici in cui l’accoglimento della dimensione digitale è solo nei cascami, nelle apparenze, nella superficie… più supporti, mortificati nell’uso al ribasso delle proprie funzionalità e degli sguardi prospettici che propongono… Ecco, c’è invece un luogo, un’area in cui il digitale è penetrato, e a fondo, entrando dal sottoscala, dalla porta posteriore, giocandosi l’affinità che ha con tutti gli altri sistemi basati sul numerico, sul discreto: nell’esaltazione della ideologia della valutazione. E qui vengono evocati i fantasmi dell’azienda e dell’aziendalismo. “Fantasmi” perché della azienda si prende in considerazione un modello evanescente e fantasioso, disegnato in termini archeologici e superficiali, e perché si propone della cultura aziendale l’applicazione di uno solo dei suoi strumenti, quello più rozzo ed elementare, estratto a forza dalla logica della contabilità e ridotto ai minimi termini – e applicato ad una sfera cui non è pertinente: quella di una presunta “produttività” sul piano della “merce” che la scuola sforna: il “successo formativo” degli alunni. Un’altra evocazione fantasmatica. E questo avviene su due piani: da un lato, la ricerca ossessiva, inesausta – e inesauribile – di una tecnologia di valutazione esaustiva; dall’altra, la concreta offerta, debitamente opacizzata, ai docenti, “in bundle” con il registro elettronico, di un repertorio finito di tratti distintivi ordinati gerarchicamente (che corrispondono banalmente ai voti in cifre) con cui costruire stringhe che costituiscono la valutazione dell’alunno. Una riduzione – debitamente accompagnata – della complessità del processo educativo ad un ritratto che rimane numerico che vuole eliminare ogni ambiguità e agisce da filtro di ogni eventuale qualità non misurabile (cfr. Fattori, 2015a). Una definizione in termini confrontabili, scambiabili fra loro – e paragonabili in termini di valore di scambio sul mercato del lavoro e della continuazione eventuale degli studi. A imitazione delle grammatiche con cui si costruiscono i profili personali sui siti web… Più che di ispirazione alle strategie aziendali si tratta di applicazione di un singolo aspetto delle pratiche dell’azienda, quello contabile sommativo, neanche “in partita doppia”. Perché per coloro che in questi ultimi venti anni hanno governato le politiche dell’istruzione la dimensione e la filosofia aziendale si è ridotta all’obiettivo di ridurre i costi e basta, senza però pensare al prodotto finale – cosa che invece le aziende hanno ben presente: le tecniche di riduzione dei costi hanno ben chiaro l’obiettivo di mantenere la qualità dei prodotti inalterata. Nella scuola è successo invece che – sotto la parola d’ordine della “razionalizzazione” e del risparmio – si è tagliato a man salva in termini di personale, delegando al Fondo sociale europeo il finanziamento della pretesa “innovazione” didattica, attraverso la fornitura di tecnologie, puntando sull’informatizzazione veicolata attraverso strumenti e supporti che, però, in assenza di politiche tese ad accogliere e rispondere al mutamento sociale e alle trasformazioni antropologiche che hanno investito le società occidentali hanno lo stesso impatto beffardo della fornitura di un’auto da corsa da usare in un cortile condominiale. Il risultato sono alunni che usano il computer come Alan Turing avrebbe usato la sua “macchina a stadi finiti” non per decifrare i messaggi di “Enigma” ma per giocare ai cruciverba (Fattori, 2015b). Cosa che peraltro spesso fanno quando sono nelle aule laboratorio: annoiati da lezioni che – nonostante Lim e altri supporti – rimangono frontali, di nascosto giocano on line, chiacchierano sui social, imparano e esplorano seguendo l’impulso del momento. Ecco, qui precipita la dinamica dei cambiamenti che hanno investito la scuola italiana: di fronte all’impetuoso avanzare della virtualizzazione e della globalizzazione, della riarticolazione delle identità individuali e delle soggettività sociali, di fronte all’immersione sempre più completa nella dimensione delle culture digitali la scuola italiana lascia la sua struttura complessiva inalterata accogliendo dei paradigmi della digitalizzazione solo ciò che attiene direttamente alle sue affinità con l’altro modello digitale fondante: il paradigma contabile della numerazione, della misurazione. In maniera opaca, sotterranea, nascosta. Solo in funzione della valutazione degli alunni fino ad ieri, oggi in funzione anche di una presunta “autovalutazione”. L’ultimo coniglio tirato fuori dal cappello dei tecnici ministeriali è infatti il Rav, “rapporto di autovalutazione”, che si dedica – esclusivamente – a fare il consuntivo degli alunni promossi, rimandati, bocciati, eleggendo questo a misura del “successo” o “insuccesso formativo”. Ancora una volta, contabilità elementare al ribasso. Una dimensione che più autoreferenziale non si può, un contributo, naturalmente di risulta, di uno dei fenomeni connessi allo sviluppo delle grandi burocrazie, dove il flusso dei documenti e dei dati finisce per sostituirsi, simulandoli, ai fenomeni che questi dovrebbero descrivere. L’estremo esito – nelle visioni di filosofi pessimisti coe Jean Baudrillard – della “supremazia del codice”, della colonizzazione del mondo da parte del digitale, quello che – prima con la televisione, come scriveva il francese, poi con il computer, potremmo inferire – “ha ucciso la realtà” (1996). Intanto i nostri pre e adolescenti scoprono, visitano, colonizzano gli universi virtuali, vi “costruiscono mondi”, si formano ad un mondo sociale che è progressivamente più ibridato dal virtuale. Si preparano agli scenari del futuro, scenari di connessione e comunicazione, rispetto ai quali il tempo/spazio scuola è sempre di più un noioso, lento, fastidioso intermezzo quotidiano – una espansione part time del tempo (che si riduceva però a un solo anno) di quella istituzione totale a termine che è stata per generazioni la leva militare obbligatoria: una segregazione in un mondo parallelo fatto di regole, geometrie, visioni proprie, da decrittare e subire in apnea, in attesa del rilascio. Le politiche scolastiche, scrivevo, rispetto ai processi in corso sono altrove: dimentichi o disinteressati a questi, rabberciano azioni e retoriche che si sviluppano in un altrove evanescente e artificiale, privo di punti di contatto con la realtà cui si applicano.8 E l’ultima trovata spettacolare delle nostre élite non è da meno: la cosiddetta “Buona scuola” non è che un tentativo di ratificare uno stato di fatto già presente, con quel po’ di potere in più che dà alle dirigenze, la sistemazione – obbligata e che non modifica nulla, nella sostanza – di una certa quantità di insegnanti… non tocca i veri punti di crisi del sistema perché non coglie l’aspetto strutturale, profondo, catastrofico della questione: la totale indifferenza di contenuti e metodi dell’insegnamento alla realtà esterna, sociale, naturale, umana, strombazzando di un cambiamento epocale ad uso di color che – pur essendone gli utenti: famiglie, imprenditori, quindi elettori, contribuenti – non frequentandola possono solo coglierne gli aspetti di inadeguatezza superficiali: muri scrostati, infrastrutture inadeguate, aule sporche... Una certa opposizione diffusa paventa l’ipotesi che da qualche decennio a questa parte sia in corso un progetto di sistematica distruzione dell’istruzione pubblica, di cui le “riforme” che si sono susseguite nel tempo sarebbero tappe successive. Forse non è così, ma è chiaro che l’attenzione all’educazione delle giovani generazioni ha intrapreso un percorso che per chi a vario titolo si occupa di formazione, socializzazione, educazione sembra quantomeno inadeguato, fuori bersaglio – oltre a scontare il fisiologico ritardo delle burocrazie ad accorgersi e governare i cambiamenti volta per volta in atto (Fattori, 2010, pagg. 17 e segg.). Può valere quello che sosteneva Alberto Abruzzese in un’intervista che mi concesse qualche anno fa, a ridosso della pubblicazione del suo Il crepuscolo dei barbari (2011), esemplare nella sintesi che propone: “La scuola e l’università sono state le istituzioni alle quali i regimi di senso della scrittura – le culture identitarie di classe tipiche del libro, della città, della cittadinanza e della politica, infine degli stati nazionali e delle relazioni internazionali – hanno affidato il compito di educare e formare l’individuo al lavoro e alle professioni, dunque di gettare le basi delle strategie progressiste di modernizzazione della società. Il regime chiuso, verticale, autoritario, sapienziale, militaresco delle aule scolastiche e accademiche non poteva reggere a lungo al potere di socializzazione del cinema e della televisione, che pur essendo regimi di senso affidati all’immagine frontale, hanno creato le premesse dell’intrattenimento dei consumi con l’esperienza quotidiana delle cose e poi la dimensione creativa dei consumi stessi. A partire dalla metà del Novecento la scuola e l’università hanno occupato un posto sempre più residuale. L’avvento dei new media ha creato l’illusione di potere ridare vita alle istituzioni della cultura ma era ormai troppo tardi per riuscire a sfondare le pareti del sapere e della didattica: lo spazio delle reti sta incrementando le dinamiche iniziate con l’industria dei media e cioè processi di autoformazione che attingono a regimi relazionali, centrifughi e glocal (ogni punto dei territori post-industriali si è fatto centro e periferia al tempo stesso). La qual cosa non comporta di necessità – e i segnali in tal senso non mancano – che nei territori digitali 8 O meglio, tesi a ridurre la realtà ai propri vaniloqui, sempre in funzione della realizzazione di un modello di istruzione contabilizzato. non si ricostituiscano le dinamiche, i soggetti e le strategie dei vecchi poteri e delle vecchie soggettività del tempo moderno e dei suoi regimi imperialisti” (Fattori, 2012b). Con il consueto equilibrio, Abruzzese richiama i due aspetti dei processi cui assistiamo: da un lato le opportunità di (auto)formazione offerti dalla Rete e dagli universi di discorso del digitale – e quindi le potenzialità “libertarie”, emancipatorie, del Web; dall’altro, il carattere di potenziale, rinnovato strumento di oppressione delle nuove tecnologie. Come peraltro sta succedendo. Portando il ragionamento al limite, dobbiamo accettarne una conseguenza: la scuola, come apparato di socializzazione ed educazione, è obsoleta. Perché, a prescindere dal verso e dalle intenzioni di chi la governa, non è più pertinente ai suoi utenti. Appartiene ad un altro continuum spazio-temporale. È oltre il punto di catastrofe, destinata a svanire, come tanti altri prodotti dell’agire umano, nell’«oscuro abisso del tempo», in attesa che noi si scopra il nostro pianeta Camiroi e lo si popoli. Oppure che, come nel film Tron, quello per certi versi profetico di Steven Lisberger del 1982, in cui un umano sperimenta la possibilità di migrare in un sistema computerizzato trasformandosi in programma. Forse uno dei sensi che potremmo dare al termine “postumano” – non nel senso proposto da Rosi Braidotti nel suo saggio (2014), quanto nel senso di erede evolutivo e prosciugato. Un individuo che risolve gli esiti dell’individualizzazione “esplodendo” il suo corpo negli spazi/tempi a-dimensionali del Web e delle protesi e dei supporti cibernetici e digitali, che scopre nuove forme di socializzazione e di scambio simbolico grazie alla connessione, assumendolo definitivamente come interfaccia totale, riscrivendo così i rapporti con le dimensioni sociali ed identitarie di esistenza. Un’ipotesi postfantascientifica? Bibliografia Abruzzese, A., L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Carocci, Roma, 2006. Abruzzese, A., Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011. Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2015 (1976). Baudrillard, J., Il delitto perfetto, Cortina, Milano, 1996. Braidotti, R., Il postumano, DeriveApprodi, Roma, 2014. Cavicchia Scalamonti, A., Pecchinenda G, La memoria consumata, Ipermedium, Napoli, 1996. CENSIS, XVII Rapporto/1983, Milano, 1983, p. 156. 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