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SVERRE FEHN . CINQUE OPERE MUSEALI (Dicembre 2008)

Forse l'ultima sua opera è proprio l'esposizione itinerante che propone un'attenta e meditata retrospettiva sulla produzione dello studio -rara occasione per un architetto di fare il punto sulla propria vita, sulla propria poetica, di rintracciare linee di continuità e crescita, nuovi innesti e scoperte. La sua apertura ha inaugurato il nuovo museo dell'architettura di Oslo, formando con esso un binomio che suggella un periodo particolarmente fertile per il piccolo studio, dopo lunghi anni in cui la fiamma pilota della ricerca progettuale era rimasta in vita grazie a piccoli interventi privati. Come una vena di sottofondo ha però continuato a scorrere sotto la pelle una riflessione di più ampia portata, sgorgata talora in occasione di concorsi o progetti mai realizzati, ed emersa infine negli anni recenti in alcune realizzazioni di una vitalità inattesa, cui rimarrà inevabilmente affidato il messaggio estetico di questa lunga avventura architettonica. Il museo di Oslo è fra queste la più recente e piccola. Il nuovo padiglione, che l'architetto ha chiaramente identificato come il meglio riuscito tra gli interventi del genere, si accosta alla vecchia sede della banca centrale di Norvegia, un edificio neoclassico della prima metà dell'Ottocento. Il nuovo innesto si allaccia con un passaggio semplice e dinamico, che impiega la facciata posteriore del palazzo come primo gesto per un nuovo discorso architettonico. Lo spazio coperto ha forma quadrata, con una grande volta in concreto al suo centro che costituisce la chiave del progetto; poggiando su quattro pilastri angolari, si incurva quanto basta per ritagliare l'impressione di uno spazio raccolto, definito, eppure la sua freccia rimane abbastanza bassa da comprimere questo spazio e farlo evadere verso l'esterno, oltre la linea immaginaria tratteggiata tra i pilastri. Questo movimento non avviene in modo brusco: la copertura in cemento si estende oltre la volta con profilo piano, formando tutt'intorno un anello quadrangolare richiuso da una parete di vetro, oltre la quale è posto un secondo anello, scoperto e separato dal "mondo di fuori" da una serie di setti in calcestruzzo che lo serrano tutt'attorno. Si forma così uno spazio concentrico, concatenato dalla tensione spaziale innescata dalla volta, che disegna linee immaginarie lungo le quali viene a cadere la tradizionale distinzione tra un interno e un esterno, e una netta separazione degli ambienti; il pavimento stesso sembra protendersi oltre il guscio di vetro, creando una mensola sulla quale poggiano i pannelli che lo controventano. Oltre questo confine, la percezione del "mondo di fuori" è fratturata da una serie di scorci fugaci tra i setti perimetrali, che inquadrano ora un albero, ora l'angolo di un palazzo, aprendo l'edificio verso il mondo, ma dichiarando allo stesso tempo una evidente impossibilità a raggiungerlo. In un contesto urbano non di particolare pregio, l'architettura inventa un suo contesto sublimando la specifica locazione in una scomposizione di elementi, e sopra di essi, il bizzarro cielo di Oslo,

Sverre Fehn Cinque opere museali di Roberto Malvezzi Nasjonalmuseet 2008 Forse l’ultima sua opera è proprio l’esposizione itinerante che propone un’attenta e meditata retrospettiva sulla produzione dello studio – rara occasione per un architetto di fare il punto sulla propria vita, sulla propria poetica, di rintracciare linee di continuità e crescita, nuovi innesti e scoperte. La sua apertura ha inaugurato il nuovo museo dell’architettura di Oslo, formando con esso un binomio che suggella un periodo particolarmente fertile per il piccolo studio, dopo lunghi anni in cui la iamma pilota della ricerca progettuale era rimasta in vita grazie a piccoli interventi privati. Come una vena di sottofondo ha però continuato a scorrere sotto la pelle una rilessione di più ampia portata, sgorgata talora in occasione di concorsi o progetti mai realizzati, ed emersa inine negli anni recenti in alcune realizzazioni di una vitalità inattesa, cui rimarrà inevabilmente afidato il messaggio estetico di questa lunga avventura architettonica. Il museo di Oslo è fra queste la più recente e piccola. Il nuovo padiglione, che l’architetto ha chiaramente identiicato come il meglio riuscito tra gli interventi del genere, si accosta alla vecchia sede della banca centrale di Norvegia, un ediicio neoclassico della prima metà dell’Ottocento. Il nuovo innesto si allaccia con un passaggio semplice e dinamico, che impiega la facciata posteriore del palazzo come primo gesto per un nuovo discorso architettonico. Lo spazio coperto ha forma quadrata, con una grande volta in concreto al suo centro che costituisce la chiave del progetto; poggiando su quattro pilastri angolari, si incurva quanto basta per ritagliare l’impressione di uno spazio raccolto, deinito, eppure la sua freccia rimane abbastanza bassa da comprimere questo spazio e farlo evadere verso l’esterno, oltre la linea immaginaria tratteggiata tra i pilastri. Questo movimento non avviene in modo brusco: la copertura in cemento si estende oltre la volta con proilo piano, formando tutt’intorno un anello quadrangolare richiuso da una parete di vetro, oltre la quale è posto un secondo anello, scoperto e separato dal “mondo di fuori” da una serie di setti in calcestruzzo che lo serrano tutt’attorno. Si forma così uno spazio concentrico, concatenato dalla tensione spaziale innescata dalla volta, che disegna linee immaginarie lungo le quali viene a cadere la tradizionale distinzione tra un interno e un esterno, e una netta separazione degli ambienti; il pavimento stesso sembra protendersi oltre il guscio di vetro, creando una mensola sulla quale poggiano i pannelli che lo controventano. Oltre questo conine, la percezione del “mondo di fuori” è fratturata da una serie di scorci fugaci tra i setti perimetrali, che inquadrano ora un albero, ora l’angolo di un palazzo, aprendo l’ediicio verso il mondo, ma dichiarando allo stesso tempo una evidente impossibilità a raggiungerlo. In un contesto urbano non di particolare pregio, l’architettura inventa un suo contesto sublimando la speciica locazione in una scomposizione di elementi, e sopra di essi, il bizzarro cielo di Oslo, 24 e le chiome degli alberi lungo il viale. L’anello dei setti esterni non delimita dunque solo uno spazio di rispetto: il procedimento costruttivo adottato rende possibile afiggere lungo le facce interne dei setti elementi utili alla esposizione; in questo caso si tratta di pannelli trasparenti, su cui sono stampati schizzi e disegni. Fra dentro e fuori si costruisce un rapporto ibrido: raramente è prestata tanta attenzione alla dimensione del “fuori” come in questo ediicio in cui, a prima vsta, essa viene negata; e non vi rientra sotto le consuete vesti dell’astrazione poetica, delle vedute abissali, delle trasparenze velate, dei rilessi, e tutto l’armamentario dell’architettura sensibile contemporanea: vi rientra in un modo solo in apparenza semplice, negando l’esistenza di conini netti di un ediicio. Lo spazio evapora verso un esterno che è prossimità e apertura, e lascia come unica traccia isica la gabbia di vetro che crea il clima protetto - non a caso le condotte dell’aria sono ricavate come nicchie dentro i pilastri della volta, con le grate ben in vista, rivolte all’interno. Non esiste un limite isico che possa fermare l’esplorazione della 25 mente: all’interno di questo sistema, il visitatore è inizialmente portato verso la grande volta, sotto la quale può esaminare i materiali esibiti come da un primo punto di vista, raccolto; il primo incontro, la lettura, lo studio, ma poi l’abbandona, e si avventura lungo il primo anello,sfuggente, contaminato dagli eventi del mondo che lo assediano. Qui si sperimenta una diversa prospettiva, quella della rilessione individuale, dell’esperienza personale; l’esplorazione si fa più irregolare, e ora interseca più volte le invisibili soglie tra i due spazi, come guidato da un orientamento inconsapevole; assorta in una nebuolsa di spazi e idee, la curiosità disegna mappe imprevedibili, forse guidate dalle variazioni di luce portate dalle nuvole e dal vento, che rendono il movimento nello spazio non più separabile dalla conoscenza di ciò che viene esibito. Un percorso mentale che inizia ancora prima dell’ingresso, col rifarsi del nuovo innesto al noto bastione della fortezza appena accanto: un invito ad entrare, a scoprire cosa contiene la sagoma di vetro che sporge oltre gli spalti immaginari dei muri di cemento. Forse, un riferimento a cosa in fondo l’architettura è, ed è sempre stata, sogno, gioco, immedesimazione, modi sempre diversi di vivere il mondo. Hedmarksmuseet 1968 La ricerca contenuta in questo padiglione mostra una sintesi compatta di un itinerario culturale avviato già negli anni sessanta, quando a Sverre Fehn venne afidato il restauro-ricostruzione a scopo museale del Castello di Hedmark, presso Hamar, circa 2 ore di treno a nord di Oslo. Dell’antica residenza dei vescovi di Hamar, insieme agli adiacenti resti della catedrale romanica uno dei gioielli della storia di Norvegia, poi convertita in fattoria nel XVIII secolo, restano le murature perimetrali, disposte in una grande U. Gli scavi hanno rimesso in luce le strutture più antiche e rinvenuto reperti appartenenti a tutta la storia della struttura, ora esposti nel suo museo. L’intervento di Fehn si concretizza in una copertura posta a chiusura delle antiche murature, che ripristina la volumetria e in parte l’aspetto dell’ultima fase insediativa, e nell’organizzazione del percorso espositivo al suo interno. La nuova copertura, alla quale è afidata in gran parte la caratterizzazione architettonica dell’intervento, è realizzata con un sistema di capriate in legno che poggiano direttamente sui corsi scoperti delle strutture murarie; un sistema di pali lignei mantiene costante la quota di gronda, assecondando l’andamento irregolare delle rimanenze e insieme costituendo il supporto per una semplice tamponatura lignea che completa la scatola muraria; la vivace pittura rossa di questa chiusura recupera la tinta dei coppi di copertura, distinguendo cos’ chiaramente in da lontano il nuovo dall’antico. La stessa ilosoia ritorna anche in altri elementi, come nelle semplici superici vetrate, montate esternamente all’ediicio come pezzi di un meccano che non vogliano toccare le strutture, solo proteggerle; l’ambiente interno così ricavato non rende possibile realizzare un microclima controllato: si è in uno spazio a metà tra il chiuso e l’aperto, come conviene a ciò che per anni ha atteso sotto l’erba e i rovi, e ancora si lascia osservare come un’ insanabile rovina. Le calde tinte del legno confermano anche all’interno il distacco tremendo tra il gesto protettivo sospeso in aria e la nuda, fredda pietra che riposa sul fondo; tra le capriate e nelle pareti, si aprono squarci di luce, che 26 calando lungo le trame del legno rivelano inine al visitarore l’oggetto ultimo della sua visita, le poche pietre superstiti. In questa tensione si inserisce l’elemento più soprendente del progetto, una lunga promenade di calcestruzzo che conducendo il cammino attraverso i diversi ambienti espositivi, trasforma il mueso-architettura in una màchine-à-explorer; varcato l’ingresso, posto accanto all’angolo sinistro della U, giusto il tempo è lasciato per una prima impressione dei cromatismi, e subito si è nella corte interna, dominata da una lunga rampa ricurva che salendo riporta il passo all’interno dell’ediicio, presso l’angolo opposto; lungo questa rotta si osservano alcuni dei luoghi più importanti della vita del castello, i cui scavi sono ora protetti da altre strutture realizzate dallo stesso studio. La rampa è inine inghiottita da una grande parete di vetro, e si arrotola poi in una monumentale chiocciola che collega gli ambienti posti nel braccio destro della U. Qui sono esposti i reperti, e ha trovato collocazione una sala conferenze realizzata là dove minime erano le preesistenze storiche. Chiusa verso la corte, un’ampia parete di vetro la affaccia sul giardino di alberi secolari, e dietro, il luccichio del grande lago. La luce che vi proviene è iltrata da una parete interna che consente rafinate modulazioni percettive. La scala a chiocciola scende ancora, e conduce a un passaggio sospeso che penetra attraverso un muro massiccio nel braccio centrale della U; da un lato lasciamo una calda luce naturale, dall’altro ci accoglie il gelido rilesso del neon contro la pietra. Si entra in uno spazio stupefacente, spoglio, scuro, vuoto; la rampa sale lentamente, sì da scavalcare il punto di ingresso con suficiente agio, e in tal modo, allontana il punto di fuga creando un’illusione prospettica recuperata poi anche in altri progetti. Volando in questo spazio, si scoprono tutt’intorno altri punti di interesse, ben descritti da pannelli protesi oltre il parapetto. A chiudere la fuga e lo spazio sul fondo, alcuni grandi volumi di cemento misteriosamente sospesi da terra, dentro i quali un’improvvisa ondata di luce svela dalle tegole vitree oggetti di pregio rinvenuti durante scavi. 27 Scavalcato inine l’ingresso, prosegue nel braccio sinistro della U, in cui trovano posto altri ambienti espositivi; questa volta gli innesti di legno e cemento riempiono lo spazio, moltiplicando la sequenza delle metamorfosi spaziali – e ho quasi respirato il profumo del legno, l’odore freddo del cemento; ma erano solo penombra, scherzo dei chiaroscuri – per svoltare in una nuova torsione che riconnette inine il percorso allo spazio d’ingresso. Si ritrova il primo colpo d’occhio, che annoda da ultimo la trama di una esperienza intensa, in cui presente e passato si smembrano in una tavolozza di impressioni, e del passato resta quasi il sapore della pietra e della polvere, del presente il sentire di questi grandi vuoti, in cui corrono liberi il pensiero e l’immaginazione, e ancor più, la dolcezza di una mano che riscopre, che cura, e guida, osserva, e ricrea; resta uno specchio rifratto del tempo, che non lascia spazio al iabesco o alla rievocazione - giusto l’abito in stile degli addetti – una terza vita, che è rinascere, senza pretendere d’esser sopravvissuti; appartenere per intero, e soltanto, al tempo che ha voluto riscoprire, ma che piegandosi per farlo, non coincide più con il mondo d’intorno. 28 Aukrustsenteret 1996 Spostandosi ancora più a nord si raggiunge il paese di Alvdal, dove sorge il museo dedicato al disegnatore Kiell Aukrust. Celebri in tutta la Norvegia le sue strisce di personaggi reali e fantasiosi, ambientate invariabilmente nelle valli e tra i paesi intorno ad Alvdal. Un grande muro inclinato appena si presenta a chi viene dalla strada, di scandole in pietra, alto e lungo, che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Ma in quel muro che trincera come un segreto da scoprire ciò che più oltre accade, ci si può entrare, per effetto di un sollevarsi della pelle verso il suo centro, uno spalancarsi della pietra che ci introietta in uno spazio semplice e luminoso; un rapido sguardo misura l’estensione del museo, un’unica sala stretta e larga quanto il muro stesso, ritmicamente scandita dal ripetersi del medesimo modulo strutturale. La luce che accoglie con tanta morbidezza proviene da un lucernario a nastro nascosto nella parte alta della copertura, dove la falda opposta al muro esterno scende all’inizio con la stessa aspra pendenza, per poi mutare bruscamente in un leggero spiovente; sui legni che tamponano le costole di cemento si spande un diffuso chiarore, che invita a concentrare l’attenzione sull’interno della sala, lungo cui sono alloggiati i materiali espositivi più importanti e tutti gli spazi funzionali, come la caffetteria e i servizi. Questa parete interna è di fatto il luogo più importante del museo, una lunga sequenza di campate aperte verso l’alto che come in un’aurora dissolvono i limiti dello spazio, e lo dilatano in un’atmosfera di rievocazione, o leggenda, proprio come in una vignetta in cui rimangono appesi gli schizzi e i bozzetti, gli acquerelli e gli autograi che ripercorrono la vita dell’autore. Sul lato opposto di questo spazio, la sala è chiusa da una seri di corpi più bassi, adombrati, cui si accede, come a piccole grotte, passando tra grandi pilastri di legno lamellare, brevettati apposta per questo ediicio; in queste salette laterali sono alloggiati altri momenti dell’esposizione, ricostruzioni di ambienti, o le diaboliche macchine per cui il disegnatore era famoso, e di cui i suoi personaggi si servivano nelle 29 30 loro concitate avventure. Piccole fenditure alle pareti poste alternativamente ad altezza di uomo o di bambino riversano lo sguardo verso i monti alle spalle, intravvisti di sfuggita, come squarci, suggestioni frammiste agli sguinci di pietra grezza. Raggiunta la caffetteria, al lato opposto della sala, una grande vetrata si apre verso il retro, mostrando l’incanto di una vallata ampia e intatta; sui suoi pendii, si intravvedono ancora i paeselli di pietra descritti nelle storie e le viuzze, i picchi, le foreste. In questo mondo a metà tra il reale e il iabesco ci si può addirittura inoltrare, su di un viottolo rialzato posto in asse con l’ingresso, che si prolunga ben oltre l’ediicio, ino ad interrompersi, d’improvviso; lì ci si accorge di essere davvero nel mezzo di questo enorme spazio vuoto circondato di monti, e voltandosi, l’ediicio mostra l’altro suo volto: dall’altra parte della siepe, è ora la città ad essere tagliata fuori dallo sguardo, e l’intuizione di pietra intravvista tra le inestrelle si mostra come una serie di massicce murature che rivestono le salette laterali e recuperano le tecniche a secco degli antichi alpeggi. Di colpo si avverte come questo museomuro non è solo un luogo di mostra, ma ambisce ad operare a una più ampia scala, del paesaggio, e della mente: protendendosi lungo l’accesso alla valle, vuole forse proteggere dal tempo che passa questa fonte formidabile di ispirazione e storie; ancor più, desidera frapporre tra i due mondi una distanza, uno spazio di attesa e decantazione. Ciò che ivi racconta, non è che una prima fase dell’esplorazione, che attraversando gli occhi dell’autore e le sue opere, prepara inine al vero incontro con quel piccolo mondo antico; l’ediicio è così l’ultimo pezzo della storia; l’ultimo omaggio all’uomo e alla sua terra. 31 capriate; questa soluzione consente un’adeguata o studio Fehn aveva realizzato un un altro edificio preparazione all’evento della visita, trasfigurato lo Norsk studio Fehn aveva realizzato altro edificio Bremuseum 1993 capriate; questa soluzione consente un’adeguata udioPoco Fehn aveva realizzato un altro edificio prima di aver completato l’Aukrust Center, preparazione all’evento della visita, trasigurato in un eidei rami deldel fiordo di Sogne, detto Fjaerland; la la fiordo di Sogne, detto Fjaerland; lorami studio Fehn aveva realizzato un altro ediicio ingresso nella roccia: la dimensione del paesaggio è ramimuseale, del fiordodall’altra di Sogne, detto la uno dei parte delFjaerland; paese, lungo ridottaèagià unounscorcio orizzontale che nega all’occhio d’intorno ricordo interrotto, una tensione, d’intorno è già un ricordo interrotto, una tensione, roprio suldel confine dove le montagne cedono proprio sul confine le montagne cedono rami iordo didove Sogne, detto Fjaerland; la posizione lo svettare dei monti e le prospettive lontane verso d’intorno è già un ricordo interrotto,d’intorno una tensione, prio non sul confine le montagne cedono potrebbedove essere più azzeccata: proprio sul il cielo e i ghiacci. L’ambiente è già un conine dove le montagne cedono il passo al mare, ricordo interrotto, una tensione, un desiderio, lì sorge oggi il Museo dei Ghiacciai, sotto le estreme quando al termine della passeggiata, il portico unauna porta minuscola, l’accesso all’edificio. L’interno porta minuscola, l’accesso all’edificio. L’interno propaggini del più grande ghiacciaio dell’Europa risale la parete inclinata svelando una nuda parete una porta minuscola, all’edificio. L’interno continentale, lo Jostedalsbreen. I ghiacci si di cemento, che sil’accesso attraversa tramite una porta sciolgono, oggi, a un ritmo impressionante, ma dietro minuscola, l’accesso all’ediicio. L’interno del museo le creste dei monti e sullo sfondo delle vallate, fanno è il calco in negativo della sua forma esterna: il prosegue la direzionalità impostata dal portico prosegue direzionalità impostata portico è ora ancora capolino dei bianchi cappucci, sentinelle compluviolache tagliava per il lungo dal la copertura esterno e consente alla luce di filtrare al di sopra esterno e consente alla luce di filtrare al sopra 00500 kmq; un universo separato, inaccessibile kmq; un universo inaccessibile dell’immane distesa separato, che ancora si estende alle loro prosegue una pensilina ribassata, che prosegue ladidirezionalità la direzionalità impostata dal portico spalle per quasiseparato, 500 kmq;inaccessibile un universo separato, esterno impostata dal portico esterno e consente alla luce e consente alla luce di filtrare al di sopra kmq; un universo Questa di luce è l’unico contatto fisico i dimuri. Questa diilluminando luce è l’unico contatto inaccessibile all’uomo comune, e dal quale è dipeso, i muri. iltrare alfonte di fonte sopra le doghe di fisico legno con il mondo esterno; una volta dentro la roccia, con il mondo esterno; una volta dentro la roccia, e tuttora dipende, così gran parte della storia di chiaro che rivestono i muri. Questa fonte di luce i muri. Questa fonte di luce è l’unico contatto fisico è ifficili: la proporzione degli spazi e lae vastità del difficili: la paese. proporzione degli spazi la vastità deldi questo La missione architettonica era mondolaesterno; con ill’unico mondocontatto esterno;isico una con voltail dentro roccia, una veduta, rivolta verso quel mare verso cuidella fluiscono veduta, rivolta verso quel mare verso cui fluiscono quelle dificili: la proporzione degli spazi e la vastità volta dentro la roccia, solo nell’area caffetteria cili: la proporzione degli spazi e la vastità del le acque una volta disciolte; all’interno, è un leè acque unauna voltaveduta, disciolte; all’interno, è unmare del contesto scoraggiavano un qualsiasi tentativo di veduta, ammessa rivolta verso quel rivolta verso quel mare verso cui fluiscono ’edificio nonnon sioallarga nella valle, mama si contrae L’edificio sidi allarga nella valle, si stesso contraepiano. le acque confronto intervento giocato sullo versouna cuivolta luiscono le acque una volta disciolte; all’interno, è undisciolte; L’ediicio non si allarga nella valle, ma si contrae all’interno, è un susseguirsi di installazioni e ificio non si allarga nella valle, ma sialluvionale; contrae upi eindepositatosi mezzo ai terreni blocco diincalcestruzzo, dalle alte esperimenti che come in un laboratorio, insegnano rupi eundepositatosi in mezzo ai precipitato terreni alluvionale; rupi e depositatosi in mezzo ai terreni alluvionale; la vita e la meccanica dei ghiacci, la loro evoluzione e depositatosi in mezzo ai terreni alluvionale; la tessitura scabra del cemento recupera le antiche storica, la loro importanza, la loro bellezza. e massicce murature delle fortezze norvegesi. Da questo spunto iniziale, il blocco prende ad animarsi, intrecciare una rete ildilato sottili relazioni col contesto heche sie irraggia tutt’intorno; cheche inclinandosi si irraggia tutt’intorno; il lato inclinandosi che si irraggia tutt’intorno; il lato che inclinandosi i èsiconficcato nel terreno diviene una doppia è conficcato nel terreno diviene una doppia si irraggia tutt’intorno; il lato che inclinandosi si è coniccato nel terreno diviene una doppia conficcato nel terreno diviene una doppia scalinata che avvolgendo il percorso onduce sula copertura; salendo lungo di d’ingresso, essa, perper conduce sula copertura; salendo lungo di essa, conduce sula copertura; salendo lungo di essa, per duceunsula copertura; lungo di essa, per piano istante i monti salendo spariscono, e ricompaiono piano, scalino dopo scalino, e si ha l’impressione di dirigersi verso il prossimo picco, sino a che dal sommo del tetto si scopre per intero uno degli ambienti naturali più belli al mondo. La stessa forma data alla copertura rievoca una valle, con un lungo e stresso compluvio al centro che piega verso il mare, e rilascia nelle giornate di pioggia l’acqua raccolta verso un laghetto, intorno cui con il sole si raccolgono i tavolini L’elemento maggior efficacia deldel progetto è però ilbar. lungo portico maggior efficacia progetto èdel però il lungo portico di maggior eficacia del progetto è però il lungo d’ingresso, che col suo ilintreccio di legni scuri ggiorportico efficacia del progetto è però lungo portico ritaglia una tregua nella luce abbagliante, uno spazio d’ombra appena scandito dal susseguirsi delle 32 33 34 eimportanti custodire la pro trascorse la sua giovinezza trascorse uno la sua dei giovinezza piùlaimportanti dei più fiordo, raggiungere valle diuno Ørsta, attraverso Ivar Aasen - Tunet 2000 questa seconda lingua nazionale impone ha ancora oggi alla vista discussi letterati emontagne Norvegia, dinel Norvegia, cuore nel cuore e padre, altriunfiordi su cui le padre, strade È quasi unepellegrinaggio, partendodi daldiscussi remoto letterati fortissimo radicamento nellasi galassia di piccole pendio, sopra la s iordo, raggiungere valle di Ørsta, attraverso comunità sparpagliate traaiBergen e Trondheim, del XIXlasecolo, di una del XIX nuova secolo, lingua dinorvegese una nuova lingua norvegese interrompono per lasciare il tratto traghetti. Qui montagne e altri iordi su cui le strade si spesso ancora isolate tra loro neiun lunghi mesi arti oggi chiamata Nynorsk. oggi chiamata Là leNynorsk. strade siLà dove Nel lead strade siterrapieno undove centro culturale dedicato Ivar diAasen, interrompono per lasciare il tratto aisorge traghetti. dell’inverno sub-artico. progetto Fehn questo nasconde gran p non interrompono, si ad interruppe il non suo viaggio interruppe illegno suo viaggio Qui sorge interrompono, un centro culturale dedicato Ivar a fianco mondo trova nondisolodiriconoscimento, madi un luogo, appena allasi casupola dove Aasen, appena a ianco allaricerca casupola di legnocomune dove uffici, mentre in cui difendere e custodire la propria decenni alla decenni della alla ricerca anima della di questa comune di identità. questa trascorse la sua giovinezza uno deianima più agli importanti trascorse la sua giovinezza uno dei più importanti e L’ediicio non si impone alla vista,inmadue sporge fronti sfals Norvegia profonda, lontana, né l’attività instancabile népendio, l’attività instancabile enel discussi letterati dilontana, Norvegia, padre, nel discussi letterati di Norvegia, padre,Norvegia cuore delprofonda, XIX appena a mezzo del sopra lacuore strada che dalla strada secolo, di che una nuova linguaanorvegese percorre valle; un artiiciale ched’acc lo portò fondere che lelochiamata varietà portò adei fondere lefondo locali varietà deiterrapieno dialetti locali deloggi XIX secolo, didialetti una ilnuova lingua norvegese Nynorsk. Là dove le strade si interrompono, non si si prolunga verso la valle nasconde gran parte del si s dei in un nuovo strumento in undichiamata nuovo comunicazione strumento ed diLàcomunicazione ed dove le sidueil colmi interruppe il suo viaggio di decenni oggi alla ricerca della Nynorsk. piano terreno, destinato aglistrade ufici, mentre secondo l’impatto della nu emancipazione perprofonda, emancipazione la gentilontana, dei villaggi. persilaèDa genti sempre deiin villaggi. Da sempre comune anima di questa Norvegia livello scomposto due frontiviaggio sfalsati, didimodo interrompono, non interruppe il suo né l’attività instancabile che lopersino portòcontrapposto, a fondere le bianca si stacca che, Norvegese per chi giunge dalla strada d’accesso che risale d contrapposto, osteggiato, persino dal osteggiato, Norvegese decenni alla ricerca della comune dal anima di questa varietà dei dialetti locali in un nuovo strumento di il pendio, le linee dei due colmi si sovrappongono, Norvegia lontana, l’attività instancabile comunicazione ed emancipazione per la genti deiprofonda, rendendo minimo né l’impatto della nuova costruzione. villaggi. Da sempre contrapposto, persino osteggiato, Una grande stele bianca si stacca da questo che lo portò a fondere le varietà dei dialetti localibasso dal Norvegese colto che si parla ad Oslo e nel sud, proilo, su cui orgogliosa campeggia l’autografo in un nuovo strumento di comunicazione ed emancipazione per la genti dei villaggi. Da sempre contrapposto, persino osteggiato, dal Norvegese 35 dello studioso, Ivar Aasen; salendo ancora lungo un tornante che aggira questa stele, si accede direttamente al primo livello. Un grande muro di contenimento ci rivela che l’ediicio è ricavato dentro la roccia, e proseguendo in profondità attraverso una grande vetrata, ci invita a entrare. Anche questo progetto si sviluppa lungo un asse prevalentemente orizzontale, afidato a una sezione costante che distribuisce le funzioni e decide dell’approvvigionamento luminoso. Alcuni grandi setti disposti a V, col vertice rivolto verso l’esterno, reggono una copertura piana e piuttosto bassa; proseguendo verso l’interno, questa copertura si interrompe, per dare spazio ad una lunga semivolta di cemento che incagliandosi dentro la montagna, solleva appena la pelle d’erba che scende dal bosco, rendendo l’intera struttura praticamente invisibile dall’alto. Questa semivolta sporge in alto sopra la copertura piana, realizzando così il piano sfalsato che avevamo osservato, e piegando la luce della valle verso gli ambienti espositivi sottostanti. Lo schema dei setti a V, già sperimentato nella villa di A. Bødker a Oslo, acquista una valenza altamente simbolica; a ricordarlo sono gli allestimenti che trovano spazio tra i setti, in cui appaiono lo scrittoio dell’autore, i suoi libri, la sua biblioteca personale. Questi grandi libri aperti di cemento scandiscono lo spazio del museo, rendendolo volta a volta proiettato verso la valle, oppure introverso, e buio; percorrendo il corridoio centrale si inisce travolti dall’alternanza di questi momenti, slanci di apertura e iducia verso il mondo esterno, e lunghe pause di meditazione: la dura vita del ricercatore, spesa interamente per realizzare ino in fondo l’impossibile progetto di cui parlò la prima volta ancora ventenne, di dare unità alla nuova Norvegia, la Norvegia delle genti, dei paesi, dei iordi. Questo gioco dei momenti, preannunciato sin dallo scoprirsi progressivo della isionomia dell’ediicio, è una strategia che sovrintende a tanti altri dettagli, come le vetrate verso la valle; una mensola le percorre, sulla quale è possibile consultare le opere più signiicative scritte in questa lingua, la sua letteratura. Addentrandosi negli ambienti posti fra i setti, la linea della mensola viviseziona il campo ottico in due comparti: verso il basso, scorre la strada, scorre il tempo del presente 36 e del cambiamento, su cui oscillano al vento gli steli in iore che rivestono il terrapieno artiiciale. Più in alto, le vetrate incorniciano il pendio opposto della valle, verde, intatta, immota, la stessa montagna che guardavano i suoi occhi. Un duplice movimento della coscienza viene portato in supericie, di identiicazione, che è memoria e comune identità, e distanza, come individuale e attuale è la possibilità della sua comprensione, la responsabilità della sua sopravvivenza. Così la intendeva la ragazza, che raccontava le antiche storie ai bambini, avendo ascoltato le parole dello stesso architetto, quando venne in visita al museo; e mi diceva in particolare del teatro, con questa grande campata libera al suo centro, intorno a cui lo spazio pareva frusciare, e piegarsi nelle due alte fauci laterali, da cui durante l’annuale festival Nynorsk le ragazze nel loro costume cominciavano a recitare, e cantare prima ancora di giungere in scena, e allora solo le parole e le storie impregnavano lo spazio. Non credo facesse parte del progetto, forse, solo di un comune sentire per luogo e il suo valore, un momento d’incontro e di comprensione reciproca di cui l’architettura in fondo è il resto. Proprio dalla grande stele bianca piove la luce che illumina la scena; la grande parete si fa sfondo per l’evento, e insieme richiamo, visibile a una grande distanza, sorgere improvviso e gradito dalla terra che nutre tutti gli uomini. Questa breve rassegna di opere vuole raccontare un viaggio, e insieme una sequenza di realizzazioni che in pochi anni ha scritto una pagina importante della storia dell’architettura, non solo norvegese. Ho provato a raccontarle, così come le ho vissute con i miei occhi, senza cercare di trarre conclusioni o estrapolare linee interpretative. Vorrei però aggiungere un ultimo spazio, che è stato aggiunto nel 2007 al Bremuseum; un percorso espositivo ad anello collocato sul suo retro, verso i monti, come un ultimo bastione del mondo antropizzato. In questo percorso è incastonato un piccolo ambiente, in cui inalmente viene concesso un contatto diretto con il mondo di fuori; le sue pareti sono rivestite da un sistema di specchi che scompongono l’immagine in una serie disordinata di rilessi; il contatto 37 concesso è criptico, e restituisce solo frammenti di mondo. Cosa è che vediamo, sembra chiederci questo spazio. Siamo certi di sentire, di avvertire davvero la realtà per quello che è, o piuttosto è essa il frutto di una serie di elaborazioni inconsce che assommano strato su strato di esperienze e giorni e memorie, ino a ricomporle in qualcosa che ha solo l’apparenza della realtà d’intorno.. credo che si condensi una poetica, tra questi specchi, che ritorna con mille sfumature nelle opere di Sverre Fehn; in esse non va cercata una risposta: rimane la deinizione di un vocabolario architettonico semplice e chiaro, un repertorio di esperimenti spaziali profondi quanto immediati, e mai avulsi dal contesto in cui operano. Tanti piccoli passi, uno dopo l’altro, lungo la stessa strada; una strada nuova. Foto dell’autore 38