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La Piana del Sele in età normanno-sveva

2006, La Piana del Sele in età normanno-sveva

Premessa «(Il Sele) fiume che le abbondanti acque rendono navigabile; sulle sue sponde, protette da foreste e paludi, trovano ancoraggio sicuro le navi da carico ed i legni da guerra» IDRISI, p. 92

1 2 La Piana del Sele in età normanno-sveva 3 Alessandro Di Muro La Piana del Sele in età normanno-sveva Società, territorio e insediamenti (ca. 1070-1262) Prefazione di Pietro Dalena Mario Adda Editore 4 La Piana del Sele in età normanno-sveva La pubblicazione del volume è stata promossa dalla Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia. ISBN 88-8082-622-0 © Copyright 2005 Mario Adda Editore - via Tanzi, 59 - Bari Tel. e Fax 080-5539502 Web: www.addaeditore.it e-mail: [email protected] Tutti i diritti riservati. 5 Presentazione Una Banca lavora sempre con la testa rivolta al futuro, ai progetti, alla crescita e allo sviluppo delle attività umane. Una Cassa Rurale ed Artigiana come la Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia, ha dalla sua parte il valore aggiunto di essere espressione diretta di un territorio. Ne condivide ogni suo aspetto, a partire dalla sua compagine sociale. Per questo non può non essere attratta dalla storia della propria Comunità, della propria terra. Ecco quindi il nostro camminare avanti, verso il domani, senza perdere di vista quel patrimonio storico del nostro passato. Gli oltre novant’anni di vita del nostro sodalizio, i quasi 3000 soci che ne compongono la base sociale e che sono impegnati per costruire il futuro della propria collettività, hanno radici profonde e hanno un legame con queste terre che in moltissimi casi li hanno accolti e hanno permesso loro di costruire il proprio avvenire. Per questo la Cassa Rurale ed Artigiana Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia, dopo aver già patrocinato altri importanti studi sulla storia della Piana del Sele, è oggi orgogliosa di collaborare alla stampa di questo prezioso lavoro di Alessandro Di Muro. La Piana del Sele in età normanno-sveva 6 Con il patrocinio a questo “La Piana del Sele in età normanno-sveva”, abbiamo voluto contribuire a dare continuità ad uno studio che completa uno sguardo d’assieme complessivo su un lungo periodo della storia della Piana del Sele non certamente ricco di analisi storiche, ma che invece si dimostra di grande interesse sotto molteplici aspetti. Dello stesso Alessandro Di Muro e di Barbara Visentin infatti, eravamo stati protagonisti della stampa dell’altro ottimo saggio: “Attraversando la Piana Dinamiche insediative tra il Tusciano ed il Sele dagli Etruschi ai Longobardi”. La nostra Cassa Rurale è orgogliosa quindi di poter contribuire ad aprire questa ulteriore finestra sul nostro passato certa di far cosa gradita a tutti coloro che amano queste terre. Un apprezzamento sincero va all’autore e all’editore di quest’opera per il prezioso lavoro fatto, convinti come sempre siamo stati che la storia è sempre stata e sempre sarà “magistra vitae”. Battipaglia, dicembre 2005 SILVIO PETRONE Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Battipaglia 7 Prefazione “L’idea di una storiografia locale intesa come unica possibilità di realizzare una storia generale si è affermata per lunga tradizione e sembra ormai dominante; ma oggi si comincia a pensare che tale idea abbia bisogno di un profondo riesame teorico e di una aperta revisione metodologica, poiché il tentativo degli storici, di cogliere nel microcosmo il segreto significato del macrocosmo (…) non ha dato finora i frutti che speravamo”. La penetrante osservazione di Cinzio Violante, fatta nella Premessa agli Atti del Congresso tenutosi a Pisa il 9-10 dicembre 1980 su Temi, fonti e metodi della ricerca storica locale, coglie la complessa questione storiografica del legame tra storia locale e storia generale. Infatti, quando la ricerca è condotta con metodo scientifico, la storiografia locale, con la specifica conoscenza di fatti, luoghi, persone e ambienti particolari, diventa organica alla storiografia generale. Alla luce di queste riflessioni, la ricerca di Alessandro Di Muro acquista rilievo storiografico per il rigore scientifico con cui analizza frustuli di documentazione e ricostruisce vicende di uomini e di luoghi che inserisce abilmente nei circuiti degli avvenimenti generali. Di Muro, con questo nuovo volume, riprende ed allarga le sue precedenti ricerche sull’ambiente, il territorio, la società, l’economia e la cul- 8 La Piana del Sele in età normanno-sveva tura materiale della piana del Sele, focalizzando la sua indagine sull’età normanno-sveva. Particolare attenzione dedica al territorio, indagato sotto l’aspetto topografico e con i metodi dell’archeologo; del resto egli possiede una accentuata propensione per la ricerca archeologica sostenuta da una buona conoscenza della storiografia longobarda e normanna e delle fonti documentarie. Questa sua formazione scientifica gli consente di ricostruire, in un quadro ricco di informazioni e di problematiche, l’esercizio dei poteri locali e l’attività della Chiesa particolare, di cui rileva fratture e continuità, la geografia dei casali e la loro parabola, le dinamiche insediative, la frequentazione dei santuari, come quelli di San Vito del Sele e dell’Angelo a Olevano sul Tusciano, il rapporto tra città e campagna di cui tiene in grande considerazione gli aspetti congiunturali, come le guerre e le catastrofi naturali, e le strutture economiche di base, come le strade, i mulini e i corsi d’acqua. Un lavoro, dunque, quello di Alessandro Di Muro, esemplare per metodo e fecondo di risultati, che costituisce il frutto maturo di un lungo e diligente impegno scientifico. PIETRO DALENA 9 A Tiziana, Michele Adolfo e Francesco 10 La Piana del Sele in età normanno-sveva 11 Premessa «(Il Sele) fiume che le abbondanti acque rendono navigabile; sulle sue sponde, protette da foreste e paludi, trovano ancoraggio sicuro le navi da carico ed i legni da guerra» IDRISI, p. 92 Alla metà del XII secolo, nel momento forse di massimo splendore della vicenda normanna in Italia meridionale, il geografo arabo Idrisi, giunto nella sua opera dedicata al re Ruggero a tratteggiare l’arco di costa che si estende tra Salerno e Policastro, così descrive il Sele e le terre che lo lambiscono. Si tratta di un’immagine emblematica di ciò che comunemente si ritiene essere stata la pianura del Sele nel Medioevo, immaginata e descritta come malsana e desolata, inaccessibile, dominata da una natura aggressiva che ne teneva lontani gli uomini1 . Si tratta, come si avrà modo di vedere, di un’immagine in gran parte distorta, frutto di un errore di prospettiva storiografica, non corrispondente alla realtà di un territorio medievale all’interno del quale si sviluppano dinamiche economiche, di popolamento, di potere intricate e complesse. Prima di entrare nel merito delle vicende che interessarono il territorio in età normanno-sveva è indispensabile fare un passo indietro e osservare brevemente cosa lasciavano i Longobardi in eredità a Roberto il Guiscardo e alla sua gente. Trecento anni prima di Roberto, intorno al 774, Arechi II fece di Salerno, ridotta ai suoi tempi a poco più di un piccolo villaggio di pescatori, la sua residenza e attrasse nella città rinnovata nobili longobardi2 . Que- 12 La Piana del Sele in età normanno-sveva sta nuova situazione determinò un interesse accentuato dei nuovi signori di Salerno per i territori che rientravano nella circoscrizione amministrativa della città che si estendeva grossomodo tra Cava e il Sele; in particolare le potenzialmente fertilissime terre tra Salerno e il Sele ben si prestavano alla sete di terre dei nobili longobardi. Altra circostanza positiva per lo sviluppo di queste terre fu la creazione di un Principato longobardo autonomo da Benevento con capitale Salerno sancito dall’imperatore Ludovico II nell’849. La documentazione scritta e le recenti indagini archeologiche descrivono fino a tutti gli anni ‘60 del IX secolo una situazione di montante crescita economica di queste terre, grazie all’avanzante colonizzazione e alle produzioni legate alla montagna, e i resti materiali giunti fino a noi propongono riflessi davvero straordinari di questa opulenza nella chiesa di Sant’Ambrogio a Montecorvino Rovella, nella curtis di Santa Maria e nel santuario di San Michele a Olevano sul Tusciano. Le produzioni del territorio si riversavano sui mercati salernitani ormai internazionalizzati, grazie all’apporto dei mercanti amalfitani, e inserivano queste terre nell’orizzonte grandi vie dei traffici da e verso l’Oriente e il Maghreb3 . Nel corso del X secolo, dopo un breve periodo di crisi legato anche alle incursioni saracene, un rinnovato fremito colonizzatore percorse le terre tra Salerno e il Sele: intere famiglie di coloni, forti di contratti vantaggiosi, dissodarono i latifondi dei grandi possessori laici e ecclesiastici salernitani, conquistando nuovi campi per i seminativi, impiantando vigneti e alberi da frutto, coltivando gli antichi oliveti, sfruttando i laghi palustri litoranei, dando una spinta vigorosa alla costruzione di un paesaggio agrario rinnovato. In concomitanza dell’avanzante agrarizzazione si assiste al sorgere di una rete di castelli, segnacoli di potenza e di autonomia i cui ruderi ancora oggi dominano dall’alto i territori tra il Sele e Salerno. Tra X e XI secolo si formano e si consolidano gli ambiti circoscrizionali di Giffoni, di Olevano e di Eboli che andranno a frantumare l’antica unità amministrativa salernitana, ormai anacronistica a fronte della potente crescita economica e demografica in atto4 . La seconda metà dell’XI secolo vede la conquista di queste terre da parte dei formidabili cavalieri Normanni di Roberto il Guiscardo. Nel 1076, al termine di un lungo assedio, Salerno cade definitivamente e Gisulfo II, l’ultimo principe longobardo, prende la via dell’esilio, ma il territorio dei Picentini e del Sele già da qualche anno ruotava stabilmente nell’orbita degli Altavilla5 . Tuttavia si può affermare che al tramonto dell’esperienza longobarda l’immagine di desolazione che emerge dai dati archeologici nel VII Premessa 13 secolo all’ingresso in queste terre dei Longobardi si presentava completamente ribaltata. Ad un paesaggio dominato dagli spettri di quelli che furono centri famosi nell’Antichità quali Salerno, Picentia e Paestum, se ne è sostituito un altro caratterizzato da ricchi villaggi, chiese che si ergono nelle floride campagne intensamente abitate, santuari celebri, una città, Salerno, centro di commerci con tutto il Mediterraneo e punto di riferimento della cultura europea dell’epoca6 . Così i primi cavalieri Normanni, per incitare i loro conterranei a scendere al Sud, potevano a ragione affermare che Salerno con il suo territorio costituiva la biblica terra della Promessa nella quale scorre latte e miele7 . 14 La Piana del Sele in età normanno-sveva 15 CAPITOLO I Il territorio a) Territorio e viabilità Lo spazio geografico che costituisce l’oggetto di questo lavoro comprende sostanzialmente la vasta area definita dalle attuali pertinenze territoriali dei comuni di Battipaglia, Eboli e Olevano, terre che in età normanno-sveva costituivano le pertinenze amministrative del castellum Evuli e del castrum Olibani (Tav. 2). Il limite occidentale dell’area è segnato dal corso del fiume Cornea fino alla confluenza nel Tusciano e di qui fino al mare. Confine settentrionale del territorio sono le pendici sud-orientali dei Monti Picentini, in particolare i Monti di Maiano e il Monte Raione. La linea di litorale tra le foci del Tusciano e Sele definisce a Mezzogiorno l’area, mentre il Sele dall’innesto del fiume Tenza nei pressi del ponte della Popilia costituisce il limite ad Oriente. Nel territorio del Tusciano è possibile individuare una fitta trama di percorsi viari costituita da vie antiche, pubbliche e carrare, ma a causa dell’oblio di parte dei riferimenti toponomastici ricordati dalle fonti per le aree della piana, non sempre è possibile indicarne la corretta collocazione (Tav. 1). La parte meridionale del locus era interessata dal passaggio della via que badit circa litore maris, una via litoranea che proveniva da Salerno e si dirigeva verso le terre del Sele8 . Questa strada non fu proba- 16 La Piana del Sele in età normanno-sveva Il territorio 17 bilmente praticabile lungo tutta la costa a causa della presenza dei tre grandi laghi palustri Piczolu, Maiore e Paulino; forse in corrispondenza delle zone impraticabili, quando possibile, l’attraversamento delle paludi avveniva tramite chiatte o piccole imbarcazioni9 oppure si sceglievano itinerari alternativi come la via antiqua del Laneo10 , che, attraversata la tenuta di Campolongo, giungeva fino al Sele nei pressi della chiesa di Santa Cecilia11 . Altra direttrice che attraversava orizzontalmente il territorio (o parte di esso) era quella via cha dal guado di San Vito lungo il Tusciano si inoltrava nella piana, non lontano dalla chiesa di San Mattia12 , nella località Fasanara13 . Nei pressi della foce del Tusciano la via litoranea si incrociava con una via publica che risaliva il fiume e si dirigeva verso le terre settentrionali del locus14 . Circa due chilometri più a nord della via litoranea si svolgeva parallela ad essa un’altra strada che proveniva da un ponte sul Tusciano (bia que benit a ponte predicti fluminis)15 . Questa strada, il cui percorso è ancora oggi rintracciabile, insieme alle vie menzionate sopra, nella località Fasanara di Battipaglia, si inoltrava verso oriente allacciandosi all’altezza del lago Maggiore alla via antiqua del Laneo, ricordata quest’ultima nel IX secolo semplicemente come via publica16 . La strada che attraversava il Laneo proveniva dalle terre al di là del Sele e continuava, oltrepassato il ponte sul Tusciano, in direzione del Picentino e di Salerno; si tratta probabilmente del percorso seguito dalla ambasceria bizantina che, venuta a Salerno per accordarsi con Arechi II, era sbarcata ad Agropoli nel 787 da dove via terra raggiunse nel gennaio del 788 la città tirrenica17 . Sulla riva destra del Tusciano è testimoniata un’altra via publica che segue il fiume tra questo e il Lama18 . Risalendo lungo il fiume, sulla sponda sinistra si rinviene in un documento del 1035 una via publica maior: la strada si trova ad est della terra all’interno della quale si eleva la chiesa di Sant’Arcangelo, nella contrada detta Starza nella documentazione del XVIII secolo19 , terra che ha come limite occidentale le acque del Tusciano20 . La via risaliva dunque la valle e si dirigeva verosimilmente verso il castrum Olibani, secondo il tracciato seguito ancora oggi dalla strada che collega Battipaglia ad Olevano. Oltre alla via publica maior altri percorsi transitavano per il castrum Olibani, come quella via antica che è ricordata in un documento del 1049 a Nord del vallone Vallemonio21 ; la strada si svolge in direzione W-E verso il Tusciano e il castrum Olibani da un lato e verso San Vito e Faiano nel senso opposto22 , seguendo un tracciato ancora oggi percorribile. Probabilmente all’altezza di Vallemonio si innesta sul tronco di questa strada un’altra via, detta ancora oggi ‘an- 18 La Piana del Sele in età normanno-sveva tica’ che scende per la località ‘Carcarelle longobarda’ e si aggancia al percorso dell’odierna SS 19, chiamata nei pressi di Battipaglia via puplica ebulensis23 . Quest’ultima costituiva in età normanno-sveva l’asse principale delle comunicazioni nel territorio: oltrepassato il fiume Tusciano attraverso il Pons Tussani dei documenti di XII e XIII secolo24 , passava sotto il castelluccio di Battipaglia e giungeva ad Eboli. Si tratta dell’antica via Capua-Reggio, o quanto di questo antico tracciato rimaneva nel Medioevo, riadattato forse alle mutate esigenze e forse ridotto in alcuni tratti a pista sterrata a causa della mancanza di manutenzione25 , nota nei documenti medievali di Eboli anche come via pubblica che va a Salerno26 . Il tratto della via tra Eboli e il Sele è certamente tra i meglio conosciuti27 : la strada correva ai piedi dell’abitato di Eboli proseguendo in direzione sud-est verso il Sele, passando dalle odierne contrade di Campagna, Epitaffio e Verticelli; di qui seguiva per un breve tratto il Sele per poi attraversarlo meno di un chilometro a nord dall’attuale ponte da dove si inoltrava verso le nares Lucaniae (passo dello Scuorzo) e il Vallo di Diano. Si tratta di un itinerario che ricalca pressappoco il percorso tra Eboli e il Sele dell’attuale strada statale delle Calabrie. La documentazione scritta e le sopravvivenze materiali permettono di confermare questo itinerario. All’inizio del XIII secolo si menziona per la prima volta ad Eboli una località denominata Strata28 , ricordata qualche anno più tardi nei pressi del torrente Telegro29 , oggi attraversato, nelle vicinanze della località Epitaffio dalla strada statale delle Calabrie (SS 19). Nel XIV secolo si ricorda un oliveto in una carta di compravendita di terre nel locus Galdo, nella zona ubi dicitur Caput strate, nei pressi della chiesa di San Marco30 . La chiesa di San Marco si trova non lontano dalla chiesa di San Felice31 , quest’ultima collocata nella contrada Calli32 , toponimo con il quale ancora oggi si indica la zona dell’Epitaffio di Campagna, dove è localizzato un quadrivio il cui asse principale è costituito dal tracciato della via popilia, oggi SS 19, intersecato perpendicolarmente dalla strada che sale a Campagna e si inoltra verso l’alta valle del Sele, passando per Osella. Si comprende in tal modo il motivo per il quale la località venisse denominata Caput strate, vero perno del sistema delle comunicazioni con la Calabria, il Sannio e la Puglia33 . Sulle sponde del Sele si rinvengono le strutture di un ponte romano costituito in origine da almeno tre campate, con un attracco. La continuità di utilizzo del ponte e del porto fluviale in età medievale è confermata da tracce materiali e da documenti scritti redatti tra XI e XIII secolo34 . Il Sele costituiva dunque una via di penetrazione verso le vallate Il territorio 19 appenniniche ma anche un comodo percorso per spostarsi lungo i vari attracchi che segnavano il corso del fiume: non mancano infatti testimonianze documentarie di altri approdi a cominciare dal portus maris alla foce del Sele ricordato esplicitamente dalle fonti a partire dai primi anni del XII secolo35 . Poco lontano dalla foce, nel locus Mercatello è ricordato un portus et vadu, un passaggio per trasportare uomini e merci dall’una all’altra sponda del fiume36 , in ragione della via antiqua che da Santa Cecilia attraversava la pianura e si spingeva in direzione di Salerno. Si tratta forse dello stesso passaggio relativo alla strada che dalla porta settentrionale di PoseidoniaPaestum giungeva al Sele in prossimità dell’Heraion, il cui primo impianto risale al V secolo a. C.37 . Un altro portus fluminis Siler è menzionato nel 1128 nel testamento di Guglielmo di Principato, sicuramente diverso da quelli finora ricordati perché donato all’abbazia della SS.ma Trinità di Cava38 in un periodo in cui la stessa già possedeva parte della rada di Mercatello. Risalendo verso il ponte sulla popilia si rinviene già nel 1012 un guado nei pressi della confluenza del Calore cilentano nel Sele, attraversamento che avveniva mediante le lintre, piccoli traghetti il cui utilizzo era necessariamente collegato ad un attracco39 . L’atto che documenta tale situazione è la conferma da parte di Guaimario III all’episcopus Cennamus del Mons aureus; in essa si specifica tra l’altro come i rectores della sede micaelica del Tusciano e i loro uomini potessero entrare nel Sele dall’innesto del Calore e risalirlo con le lintre in supra usque [in ora] de Alimenta, fino cioè alla confluenza del rivo Alimenta circa 14 km a nord del primo punto. Nei pressi della confluenza Calore-Sele il documento ricorda inoltre una via carraria che si dirigeva probabilmente verso la località Maida, quadrivio nella lingua longobarda, e di qui doveva inoltrarsi verso Capaccio. La medesima via carraria è rammentata sulla riva destra del Sele nelle vicinanze del vallone qui dicitur de Flocche ( oggi Fiocche), non lontano dal fiume qui Telebrum dicitur, il Telegro, nei pressi del punto in cui le sue acque affluiscono al Sele40 . La strada doveva dunque scorrere nelle terre di Fiocche parallela per un tratto al corso del Sele fino, verosimilmente, alla scafa, da dove sulla sponda opposta del fiume si inoltrava verso le terre di Dulicaria41 . Sempre nei pressi della confluenza Telegro-Sele si incrocia una via che ducit ad Ebuli42 , attestata per la prima volta nel 108343 . Non dovevano inoltre mancare passaggi e risalite lungo il Sele controllate direttamente dall’autorità pubblica, come si deduce da un documento del 1114 in cui Roberto di Eboli concede ai monaci della Badia di Cava l’esenzione dal pagamento44 . Gli 20 La Piana del Sele in età normanno-sveva stessi privilegi concessi alla Chiesa salernitana e al monastero-episcopio del Mons aureus costituiscono la conferma dell’esistenza di un sistema di passaggio controllato integralmente dall’autorità pubblica, presumibilmente attraverso l’opera di ufficiali. Un punto di attraversamento del fiume forse controllato già da portunarii in epoca longobarda era la scafa del Sele, di cui permane memoria toponomastica nel toponimo Ponte della scafa all’altezza di Ponte Barizzo. Di qui ai viaggiatori del ‘700 e dell’800 si aprivano da lontano i maestosi scenari dei templi pestani e delle paludi regno degli ombrosi bufali dagli occhi selvaggi e iniettati di sangue. Poche centinaia di metri più a sud è stata ipotizzata la presenza di una rada nella località San Vito, sulla riva destra del Sele45 . Naturalmente a questi punti di passaggio sul fiume corrispondevano percorsi che si diramavano nella piana verso est e verso ovest, ma che risalivano anche lungo il Sele, come attesta un charta collationis del 1041 relativa ad una chiesa del locus Mercatello in cui si annota una via che procede iusto flubio Siler46 . La zona nord orientale del territorio indagato, un’area caratterizzata da monti e piccoli altopiani, appare nella documentazione medievale interessata da un articolato sistema viario che consente il collegamento tra i diversi centri della regione47 . In particolare un documento ricognitivo del 1164 consente di ricostruire le linee della viabilità in quest’area. Nella contrada Malitu di Monte i ricognitori annotano come confine di una terra la via qua itur Ebolum48 ; si tratta verosimilmente della stessa strada che tuttora, passando per Melito, conduce da Olevano ad Eboli. Poco prima nel documento si era menzionata una via antiqua49 , ma la scomparsa del toponimo Ursanu, contrada interessata dal suo passaggio, non permette di collocare meglio questa strada. Gli ufficiali preposti alla ricognizione delle terre della Chiesa salernitana ancora a Melito, nei pressi della via che conduce ad Eboli, accennano ad una via que vadit ad Montem50 , la strada che conduce al cuore del locus che stanno percorrendo, dove è attestato anche un castello51 . Una non meglio identificabile via publica e una viam veterem che attraversano il locus costituiscono altri percorsi che concorrono a definire il reticolo viario di Monte52 . Superata la località San Donato, nei pressi del mons Quadraginta è menzionata una via que vadit ad Paludem53 , evidentemente un percorso che collegava le zone montane del locus con l’altopiano di Palude. Procedendo verso sud est si incontra più volte una via campanina54 , con ogni probabilità la via che porta a Campagna. Si tratta del percorso che costituisce un po’ il filo rosso seguito dai ricognitori durante la misurazione delle Il territorio 21 terre tra il Montedoro (castellum de Sancta Teccla) e il Tenza. La via passa nelle vicinanze di Santa Lucia, si inoltra quindi nel locus Furano, attraversando il vallone de Foresta (oggi vallone del bosco) Truncito, Sant’Angelo e la località Truppaldisi ad est di Sant’Angelo55 . Il tracciato descritto nel documento corrisponde grossomodo alla strada che oggi mette in comunicazione Santa Maria la Nova con Campagna. Sentieri e percorsi minori erano utilizzati per raggiungere i centri a ridosso dei monti, attraversando le aspre aree che li separavano. Un documento di donazione di età normanna illustra la complessità degli itinerari nelle zone montuose tra Olevano, Campagna ed Acerno; la descrizione prende le mosse dal cilium montis de crypta Sancti Angeli que dicitur Montis aurei (il santuario micaelico del Tusciano) e passando per il vallone de lo Ginillo ascende inter fines costae caldae (oronimo ancora oggi presente a nord del monte Raione, dove tuttora sussiste un sentiero che passa per l’angusto vallone r’o Ncinillo) e inter fines de Turbulo et vadit usque ad locum qui dicitur Vadillo seguendo una viam que descendit in capite castanieto de Pedenzone nei pressi del centro abitato di Campagna, vicino al cilium montis qui dicitur de Ronda et per cilium terrae quae dicitur de la Melella secus viam que descendit ad Faitum fino a giungere verso meridione alla maculam que dicitur le Palelle, Chianelle ad ovest dell’abitato di Campagna scendendo di qui fino alla crypta que dicitur Palmentara e dunque alla via campanina56 . I sentieri ricordati nel documento come viae sono tuttora percorribili e collegano, con una certa comodità se percorsi a cavallo o a dorso di un mulo, Campagna con i colli soprastanti Eboli, con Olevano e con Acerno. Ricapitolando la situazione viaria nel territorio esaminato, si può osservare come permanesse nel Medioevo un reticolo grossomodo ortogonale, probabilmente di impronta romana. Il ramo maggiore del sistema era sicuramente il tracciato della via popilia che attraversava il territorio da nord ovest a nord est, discendendo dalle pendici dei monti Picentini e rimontando verso gli Alburni; su di essa si innestano una serie di vie che risalgono verso le valli, quali la via che dal ponte si dirige a Campagna, oppure che seguono il corso del Sele e del Tusciano verso i passi appenninici. Proprio il fiume Sele pare caratterizzarsi come via preferenziale per l’attraversamento del territorio in direzione nord-sud, come testimonia il gran numero di approdi e guadi collegati da piccole imbarcazioni, le lintrae. Soprattutto la via fluviale doveva permettere un agevole risalita verso l’alta valle del Sele, bretella fondamentale all’interno delle comunicazioni tra le coste del Tirreno e le 22 La Piana del Sele in età normanno-sveva terre dell’Adriatico: di qui infatti un percorso romano, diverticolo della popilia, lungo la riva destra del Sele, ancora oggi ricalcato dalla viabilità locale, superato lo spartiacque Sele-Ofanto all’altezza del varco appenninico della Sella di Conza, immette nella valle dell’Ofanto dominata in quel tratto dalla fortezza di Conza, insieme la via più comoda per raggiungere la Puglia, ma anche chiave di accesso per risalire lungo l’Irpinia verso Benevento57 . Dagli approdi marini risalendo il Sele era poi possibile raggiungere facilmente quelli che in epoca tardo longobarda e poi in età normanna sarebbero diventati i centri amministrativi del territorio, Eboli e Campagna. Altri percorsi fondamentali nelle comunicazioni all’interno del territorio si svolgevano paralleli alla via popilia, come la via che da Licinianum passando per le alture a nord di Eboli si immetteva sulla via campanina, collegando, attraverso il territorio del Tusciano e la sua alta valle, Eboli e Campagna al cuore dei Monti Picentini. Un sistema in definitiva che si può definire estremamente funzionale e complessivamente equilibrato, caratterizzato da un cospicuo numero di vie che attraversano sia la pianura che le colline e i monti, collegate tra di loro, con numerosi punti di attraversamento lungo il Sele e il Tusciano58 . b) Castrum Olibani e castellum Ebuli. Le due signorie di castello tra Tusciano e Sele in età normanno-sveva L’area che comprende grossomodo i territori degli odierni comuni di Olevano sul Tusciano e Battipaglia, dai monti fino al mare, viene ricordata dalle fonti scritte fino al X secolo come locus Tuscianus in finibus salernitanis, dunque tra le pertinenze amministrative dirette della capitale del Principato longobardo di Salerno. L’istituzione della signoria territoriale del castrum Olibani determinò la divisone della precedente unità; in seguito a questa disgregazione la parte meridionale del territorio conservò l’antico appellativo (locus Tuscianus) mentre la parte settentrionale mutuò la denominazione dalla fortezza (castrum Olibani, da cui Olevano)59 . La signoria olevanese si costituì in seguito all’azione del principe longobardo di Salerno Gisulfo I, detentore di gran parte delle terre del Tusciano, che, a partire dal 958, accordò una serie di donazioni di ampie porzioni di territorio alla Chiesa salernitana. In tal modo quest’ultima poté costituire in pochi anni un esteso e compatto dominio fondiario che dapprima ebbe natura immunitaria e Il territorio 23 poi, a partire dagli inizi dell’XI secolo, sfociò nelle forme della signoria territoriale, con poteri giurisdizionali su tutti gli abitanti del territorio castrense60 . Tale situazione rimase inalterata fino agli anni’30 del XIII secolo quando i sopravvenuti contrasti tra Federico II e la Chiesa portarono all’inasprimento dei rapporti tra l’imperatore e l’ordinario diocesano salernitano, sfociati nella requisizione del castrum Olibani61 . Eboli emerge dalla scarsa documentazione scritta anteriore all’XI secolo in cui appare menzionata, come una landa (un locus) rientrante nelle dipendenze amministrative di Salerno (in finibus salernitanis)62 . Alla metà dell’XI secolo la situazione appare però mutata: già nel 1047 Eboli è ricordata come un castellum, centro di un territorio definito comitatus con una famiglia comitale che lo controlla da almeno due generazioni, la famiglia del conte Lamberto, legata da vincoli di parentela alla famiglia principesca di Giovanni di Lamberto regnante a Salerno63 . All’indomani della conquista di Salerno da parte dei Normanni la famiglia del conte Lamberto risulta sostituita da un altro lignaggio a capo del comitatus ebolitano, questa volta di stirpe normanna, rappresentato nei primi anni ’80 dell’XI secolo dalla comitissa domna Emma de Ala, vedova del conte Guimondo de Mulisi e già sposa del conte Rao Trincanotte64 . Ho già esposto altrove come si possano ricercare i motivi dell’esclusione della famiglia di Lamberto dalla signoria di Eboli negli episodi che segnarono le vicende di questa parte del territorio tra gli anni 50 e 60 dell’XI secolo65 . Lo storico cassinense Amato narra come nel 1054 i normanni Guglielmo di Altavilla e suo fratello Umfredo, irritati per un premio prima promesso e poi negato dal principe Gisulfo II in cambio dei loro servigi, conquistassero le fortezze di San Nicandro, Castelvecchio e Castel Fagosa individuati nei pressi di Eboli e da lì partissero per compiere devastanti razzie nella parte sudorientale del Principato di Salerno66 . A partire da questo episodio Gisulfo II perse completamente il controllo sulle terre del Principato al di là del Tusciano e ben presto Guglielmo di Altavilla costituì nelle terre conquistate una propria signoria autonoma dal principe; a poco valse la mediazione di Roberto il Guiscardo, fratello di Guglielmo, che portò solo al riconoscimento formale della dipendenza delle terre usurpate al dominio di Roberto stesso e alla cessazione dell’avanzante conquista di terre da parte dell’Altavilla67 . Qualche anno più tardi, nel 1068, lo stesso Guglielmo di Altavilla e il suo miles Guimondo de Mulisi compaiono di fronte ad un concilio tenutosi 24 La Piana del Sele in età normanno-sveva a Salerno, presieduto dal pontefice Alessandro II e restituiscono alla Chiesa salernitana i beni che avevano usurpato durante le loro razzie, tra cui il castrum Olibani e terre e chiese nelle pertinenze di Eboli68 . E’ verosimile supporre, alla luce di questi episodi, che Guglielmo abbia ben presto conquistato durante le sue scorrerie, tra gli altri, anche il castello e il territorio di Eboli e lo abbia concesso al suo fedele compagno Guimondo, il quale, accompagnato dal suo dominus, restituì ad Alfano I di Salerno, come si è visto, i beni della Chiesa salernitana ricadenti nelle terre da lui controllate. Da questa occupazione del castello di Eboli si passò, all’indomani della conquista completa del Principato da parte di Roberto il Guiscardo (1076), al riconoscimento giuridico potremmo dire ufficiale del nuovo dominus di Eboli, incardinato nella vasta Contea di Principato a capo della quale era Guglielmo d’Altavilla. Guimondo e la sua famiglia dovettero subentrare in maniera pressocché integrale nell’asse patrimoniale del lignaggio di Lamberto tanto da sostituire i vecchi conti di Eboli anche nella signoria della chiesa privata di San Nicola di Gallucanta. A Guimondo successe probabilmente suo figlio Guglielmo, già morto nel 108269 . A questi subentrò Roberto, che aveva sposato Mabilia, figlia del conte Guido fratello del principe di Salerno Guaimario IV70 . Si torna dunque, dopo anni di contrapposizione, ad una politica di legami con gli antichi signori di Salerno, sancita da alleanze matrimoniali, come era costume dei conquistatori normanni71 . Ad Eboli probabilmente ciò accadde in ritardo rispetto ad altre aree, a causa della violenta conquista del territorio. Mabilia diede un figlio a Roberto, Guaimario, che morì prematuramente72 . Con la morte senza eredi diretti di Roberto intorno al 112073 , Eboli ritornò, almeno ufficialmente, alla signoria diretta della famiglia di Guglielmo d’Altavilla, che lo aveva affidato a Guimondo e dunque nella vasta Contea di Principato che si estendeva dalle valli del Sele e del Tanagro al Golfo di Policastro74 . Negli anni ‘30 del XII secolo il controllo su Eboli appare demandato dal signore di Principato a due ufficiali, lo stratigoto e il magister castelli Ebuli, ricordati insieme in un documento del 1132 in una concessione feudale avvenuta alla presenza di Nicola conte di Principato75 , forse espressioni dell’ amministrazione della giustizia e del controllo militare di Eboli da parte del conte76 . La signoria dei discendenti di Guglielmo d’Altavilla sul territorio permase fino al 1156 quando Guglielmo III di Principato, sconfitto dal re normanno Guglielmo I, cui si era ribellato, scelse la via dell’esilio e la Contea di Principato passò sotto il diretto controllo del sovrano il quale lo concesse a Enrico di Navarra, marito di Il territorio 25 Adelasia, figlia naturale di Ruggero II. Morto quest’ultimo, resse le sorti della Contea sua moglie Adelasia fino al 1193, quando il re Tancredi la privò della Contea e la concesse a Riccardo di Acerra77 . La guerra tra l’imperatore Enrico VI e i normanni, nella quale Eboli si schierò con gli svevi78 , conclusasi con la vittoria dell’imperatore, portò a una ridefinizione del controllo della Contea che fu restituita nel 1195 al figlio di Adelasia, Guglielmo, fino al 1219 quando Federico II immette la terra e gli abitanti di Eboli nel regio demanio79 e, dunque, sotto il controllo diretto della Corona. In questi anni si rinvengono ad Eboli due funzionari della corona, dapprima un catapano nel 1216 e nel 122080 , poi, dal 1224, un baiulo81 . Si tratta di ufficiali che svolgono le medesime funzioni: entrambi, infatti, riunita la corte, amministrano la giustizia ad Eboli. La differenza non pare legata a funzioni diverse ricoperte ma unicamente alla titolografia, probabilmente riflesso della nuova condizione amministrativa di Eboli e, più in generale, della riorganizzazione del Regno avviata da Federico II con le Costituzioni di Capua nel 122082 . Alla morte di Federico II, Eboli rientra pienamente nella circoscrizione amministrativa della Contea, affidata dal re Manfredi a Galvano Lancia che la mantenne fino alla conquista angioina del Regno. Quest’ultimo, come è stato notato, si comportò nella Contea quasi come un sovrano, facendo riportare nei documenti gli anni del suo comitato accanto agli anni di regno del sovrano e requisendo beni ecclesiastici83 . Agli inizi del XII secolo si ha un quadro chiaro dell’estensione del distretto amministrativo ebolitano; in esso rientrano le terre che spaziano dal locus Monte al Sele, perlomeno dal tratto di fiume che va dal ponte romano della popilia alla chiesa di San Vito fino al mare84 , mentre le terre della piana che vanno dal Tusciano fino all’ultimo tratto del Sele appartengono sicuramente alla giurisdizione dei conti di Eboli a partire almeno dal 1114, anno in cui Roberto concede ai monaci di Cava la facoltà di fare legna nei boschi tra il Tusciano e il Sele, territorio evidentemente che ricadeva sotto la sua signoria85 . In questo periodo Roberto di Eboli risulta anche signore di Campagna86 . Non è possibile affermare con certezza se la delimitazione territoriale del comitato ebolitano nella prima età normanna ricalcasse la precedente distrettuazione longobarda, ma è verosimile che la circoscrizione amministrativa normanna non mutasse di molto rispetto alla precedente, tendendo i Normanni, in questa prima fase del loro insediamento, di norma a non stravolgere l’assetto circoscrizionale longobardo nelle terre dell’antico Princi- 26 La Piana del Sele in età normanno-sveva pato di Salerno 87 . La circostanza sembrerebbe confermata dalla scomparsa della consueta formula in finibus salernitanis per le terre del locus Tuscianus a partire dagli anni 30 dell’XI secolo. E’ possibile che negli ultimi decenni dell’età longobarda si sia provveduto ad una riconsiderazione dei vasti confini della circoscrizione amministrativa di Salerno, troppo ampi per essere controllati direttamente dal centro tirrenico: di qui il sorgere dei comitati di Giffoni e Eboli e della signoria territoriale dell’arcivescovo di Salerno ad Olevano88 . c) La geografia del possesso La Chiesa salernitana si delinea in età normanno-sveva come una delle maggiori detentrici di possedimenti nelle terre tra il Tusciano e il Sele: in una carta del 1080 in cui Roberto il Guiscardo conferma ad Alfano I le terre della cattedra di San Matteo nel salernitano possiamo individuare a grandi linee le aree che dall’età longobarda questa deteneva89 : nel territorio di Olevano il castrum Olibani, il casale Liciniano, il casale di Scalcinati e il santuario di San Michele; nel territorio della piana del Sele, la castelluccia di Battipaglia, Fasanara, le terre intorno al fiume Lama, le grotte del mare nei pressi della foce del Tusciano, il Lago Maggiore, Campolongo, un porto lungo il Sele, le terre di San Vito al Sele con il santuario e le selve circostanti, la tenuta di Persano,e altre terre coltivate e incolte lungo il Tusciano. La situazione del dominio salenitano per tutta l’età normanno-sveva non subisce grandi modificazioni, come si evince da un documento analogo redatto dalla cancelleria di Federico II nel 122190 , se si esclude l’importante acquisizione dell’abbazia di San Pietro di Eboli con le sue pertinenze: in particolare nella piana le chiese di San Nicola di Mercatello, di Sant’Andrea, di Santa Cecilia, e oltre il Sele della Santa Trinità, di San Michele e di San Nicandro91 e la donazione delle terre di Fiocche da parte di Nicola di Principato nel 114192 . Più complessa è l’evoluzione del dominio fondiario dell’abbazia della Santissima Trinità di Cava, l’altro grande ente ecclesiastico possessore di terre nella piana. La prima attestazione della presenza cavense nella piana del Sele rimonta al 1035 quando Guaimario IV fa dono all’abate Adelferio della chiesa di Sant’Arcangelo e di alcune terre e celle93 , ma furono senza dubbio i Normanni a fare del cenobio cluniacense uno dei più potenti deten- Il territorio 27 tori di beni fondiari tra il Tusciano e il Sele. Nel 1082 la contessa Emma de Ala dona al monastero cavense la metà della chiesa di San Michele presso il Tusciano e quattro mulini94 . Il duca Ruggero Borsa, figlio di Roberto il Guiscardo, nel 1089 offre al cenobio l’importante chiesa di San Mattia de Tusciano, per secoli il centro del dominio fondiario cavense in queste terre95 , con le sue ricche pertinenze terriere e i suoi mulini lungo il fiume96 . Nello stesso anno il duca provvede ad altre due donazioni; con la prima concede tre terre nelle vicinanze della chiesa di Sant’Arcangelo97 con la seconda dona il mulino pubblico con le sue pertinenze edificato lungo il Tusciano, poco sopra la chiesa di San Mattia, con la facoltà di costruire altri mulini98 . Ancora nel 1089 Emma fa dono alla Santissima Trinità di Cava delle terre nelle quali è costruita la chiesa di Santo Stefano de Tusciano, ad est del fiume99 . Nel 1105 Roberto signore di Eboli concede alla Badia di Cava quattro appezzamenti di terreno nel locus Laneo, nei pressi di Campolongo100 , mentre nel 1109 Adelelmus normanno dona una terra nei pressi del Laneo101 . Le donazioni pro anima continuano e nel 1109 Aloara moglie del conte Landolfo dona una vasta proprietà in loco Tusciano ubi alle salelle dicitur, dunque in una zona in cui insisteva un insediamenti102 .Ma gli stessi abati cavensi sono intenti ad acquisire terre nella piana per accrescere e compattare il loro dominio, in una politica fondiaria, talora assai dispendiosa, tesa alla razionalizzazione del controllo delle fertili terre tra Tusciano e Sele: già nel 1090 il cenobio cavense acquisisce da San Pietro di Eboli una terra coltivata in loco Tusciano ubi Cabavari dicitur, terra confinante con altre terre appartenenti già alla santissima Trinità103 . Nel 1095 l’abate di Cava acquisisce per la cifra di 100 solidi aurei un cospicuo podere che in località Capilluti104 e nel 1105 per 90 solidi un’altra ubi dicitur Ceppitu sulla sponda sinistra del Tusciano105 . Di un certo interesse risulta un documento del 1165 che attesta l’avvenuto acquisto della metà di una estesa tenuta in località Calcarola, sulle colline tra Battipaglia e Eboli, di proprietà di Matteo Guarna, fratello del celebre arcivescovo salernitano Romualdo II con terre laboratorie, selve e grotte, per ben 170 once d’oro di tarì siciliani106 . Qualche anno più tardi Luca Guarna giustiziere del Regno, fratello di Matteo e di Romualdo, cederà all’abate cavense l’altra metà della tenuta per la medesima somma107 . Le stesse dipendenze cavensi gestiscono per conto dell’abate possedimenti complementari ai domini dell’abbazia: oltre San Mattia, anche la chiesa salernitana di San Nicola de Palma, ad esempio, possiede terre nei pressi del Tusciano vicino alla chiesa di San Pietro, circondata da poderi 28 La Piana del Sele in età normanno-sveva cavensi108 e qualche anno più tardi ne acquisisce altre nei pressi della chiesa di S. Maria que dicitur Zita109 . Altri incameramenti di terre avvengono fino a tutti gli anni ’80 del XII secolo, quando l’impressionante processo di acquisizione fondiaria sembra ormai stabilizzato110 . I possedimenti sono gestiti dal priorato di San Mattia mentre i casali di San Mattia, di Sant’Arcangelo e di Tusciano costituiscono i nuclei di popolamento della piana soggetti alla signoria immunitaria abbaziale111 . Di grande importanza nelle strategie della gestione del patrimonio fondiario e dei prodotti da esso derivanti dovette essere l’acquisizione dei porti del Sele: il portus fluminis Siler e il portus maris nel 1128 vengono donati all’abbazia della Trinità da Guglielmo di Principato112 . Nel 1137 l’abbazia cavense compra la sesta parte del porto del fiume Sele nella località Cerzagallara vicino al Mercatello, con le terre circostanti per 150 tarì d’oro113 . Negli stessi giorni l’abbazia acquista un’altra parte (1/12) del medesimo approdo per 67 tarì d’oro114 . Nelle carte si ha menzione notizia della permanenza dell’abate cavense nelle terre della piana. Già nel 1136 in una concessione di terre in località Curbello di Eboli si specifica che i concessionari debbano costruire una dimora (domus) nella quale potrà soggiornare l’abate quando lo vorrà115 e nel gennaio 1175 l’abate Benincasa soggiorna presso il monastero di San Mattia de Tusciano116 . Altre chiese e istituti religiosi posseggono terre nella piana: di un certo interesse risulta la testimonianza di possedimenti della chiesa di Santa Maria foris portam di Amalfi117 29 CAPITOLO II Gli insediamenti a) I casali Negli ultimi anni del dominio longobardo si affaccia nella documentazione scritta relativa alle terre a sud di Salerno il termine ‘casale’, nel senso di villaggio. In un documento del 1047 il principe longobardo di Salerno Gisulfo II conferma all’arcivescovo Amato II il casale Licinianum, il casale sancti Victoris de Gifono e il casale de Scalcinati118 . Nel corso dell’età normanna si assisterà ad una fioritura di casali in particolare nelle terre tra il Tusciano e il Sele. Di seguito si tenterà di individuare alcuni di questi insediamenti e di definirne la natura e la tipologia119 . Nella Piana: i casali di Tuscianum, di San Clemente, di Battipaglia, di Sant’Arcangelo, di Santa Cecilia, di San Nicola de Mercatello e di San Pietro ad Columnellum Il primo casale di cui si ha notizia per le terre della pianura di Battipaglia è il casale Tuscianum, non lontano dalla chiesa di San Mattia. Si tratta probabilmente del maggiore tra i casali delle terre tra il Tusciano e il Sele. Nel 1129 in un atto di compravendita si ricordano alcune terre poste nel casale 30 La Piana del Sele in età normanno-sveva Tusciano ubi puteus dicitur de porcilis120 , ma già qualche anno prima si faceva riferimento nelle carte a un vico Tusciano, ossia a un villaggio rurale121 . Nel XII secolo il casale appare suddiviso in numerosi lotti appoderati, coltivati per lo più122 e al suo interno si individuano numerose contrade, quali Ischitella, Leborano, Li Laurelli, Fasanara, Scafassa, Battipaglia, Puteus de Porcilis, Campitella, Brusca, San Biagio, Sant’Arcangelo, Populi Raonis, Anania, Calcarola, Querceta ed altre ancora123 . Il nucleo di villaggio principale del casale doveva trovarsi nei pressi del ponte del Tusciano, lungo l’antico percorso della popilia, abitato da quegli homines Pontis Tussani che nel 1231 sono chiamati, insieme agli uomini del casale Battipalie e ad altri a provvedere alle riparazioni della domus federiciana del Castelluccio124 . La documentazione scritta ricorda numerose chiese nel casale sin dall’età longobarda. Già Gisulfo I nel 968 aveva donato al vescovo salernitano Pietro alcuni oratori rurali nella zona meridionale del Tusciano, San Pietro, San Michele, Santo Stefano125 . Dalla documentazione posteriore è possibile vedere come queste chiese sorgessero tra loro vicine, non lontano dalla sponda sinistra del Tusciano: San Michele Arcangelo è detta edificata in un fondo ultra fluvium Tuscianum che ha come confine il fiume stesso126 , mentre la chiesa di Santo Stefano era costruita in una terra a sud di San Michele Arcangelo127 . La chiesa di San Pietro, ricordata come San Pietro dei Crapettoni nel XII secolo, si trovava nei pressi di Sant’Arcangelo, sulla riva destra del Tusciano128 . La chiesa nel 1186 per derelicta habetur129 . Non lontano, si è detto, sorgeva la chiesa di Sant’Arcangelo,donata dal principe Guaimario IV al monastero cavense nel 1035130 . Attorno alla chiesa in età normanna si raccolse una comunità monastica guidata da un priore dipendente sempre dalla Santa Trinità di Cava131 . Vicina a questi santuari rurali era la chiesa di Santa Maria zita, dipendenza dell’arciepiscopio salernitano, menzionata per la prima volta nel 1055132 , nota anche come Santa Maria ubi pons dicitur133 , come risulta chiaramente dai documenti del XII secolo134 . Si tratta probabilmente del ponte della Popilia che attraversava il Tusciano, luogo nei pressi del quale sorgeva il nucleo di villaggio del casale. Poco più a nord è ricordata nel 976 la chiesa di San Petroniano lungo la via antiqua sopra il vallone Vallemonio, sulla riva destra del Tusciano 135 . Altra chiesa ricordata già in età longobarda è San Biagio, menzionata in un documento del 1055 sulla sponda sinistra del fiume Tusciano136 , non lontano da San Mattia137 nella contrada Fasanara. La chiesa è ricordata come pertinenza della Trinità di Cava in una conferma del pontefice Eugenio III del 1149138 . Gli insediamenti 31 La chiesa più importante del casale in età normanno-sveva fu senza dubbio San Mattia, fondata dal principe Guaimario IV (1027-1052)139 nei pressi del riva sinistra del Tusciano, all’incrocio della via che dal mare conducevano a Battipaglia con la via antiqua che proveniva da Santa Cecilia 140 . In questi anni alla conduzione della chiesa era un abate, capo di una comunità di presbiteri, che provvedeva all’amministrazione dei beni di cui essa era dotata e alla cura spirituale dei contadini che ne coltivavano le terre141 . San Mattia fu donata, insieme alle sue pertinenze, all’abate di Cava Pietro nel 1089 dal duca Ruggiero, figlio di Roberto il Guiscardo142 . A partire dalla metà del XII secolo San Mattia si configura come una comunità monastica a capo della quale è un preposito, monaco della Santissima Trinità143 , mentre nel XIII secolo è un priore a gestire il cenobio144 . Altra chiesa principesca longobarda documentata nel territorio è San Pietro appena a nord della chiesa di San Mattia, sulla sponda sinistra del fiume, ricordata per la prima volta nel 1055 in un documento emanato dalla cancelleria di Gisulfo II come ecclesia que pertinet nostro sacro palatio145 , evidentemente diversa da quel San Pietro ricordato sopra, donata da Gisulfo I al vescovo Giovanni nel 968. La chiesa è detta in rovina (diruta) nel documento di donazione di San Mattia del 1089146 . Tutte le chiese ricordate si elevano nei pressi di importanti vie di comunicazione (la via antiqua, la via puplica maiore, il ponte sul Tusciano), definendo una precisa tendenza a creare una serie di servizi lungo le arterie principali dei traffici che vedremo pienamente sviluppata in età normanna, quando dalla documentazione emergono nuovi luoghi di culto. La chiesa di San Pietro ad columnellum, confermata nel 1089 dal pontefice Urbano II al monastero cavense147 , costituisce un ulteriore oratorio dedicato al Principe degli Apostoli nella Piana: la sua ubicazione è da porre non lontano dal Sele, nelle vicinanze del casale di Santa Cecilia presso il torrente Radica o Fatula, come si evince da un documento del 1146 in cui peraltro la chiesa, cum cellis suis, è già ricordata diruta148 . Altra chiesa del casale Tusciano testimoniata in età normanna è San Clemente, menzionata per la prima volta nel 1104149 . Si tratta dell’unica parrocchia ricordata esplicitamente dalle fonti per l’antico locus Tusciano150 . La chiesa, da cui prese nome l’omonima contrada ricordata come casale alla fine del XII secolo151 , si trovava lungo la via che conduceva ad Eboli, sulla sponda sinistra del Tusciano152 . Altre chiese ricordate nel XII secolo nel casale Tusciano sono San Felice153 , Santa Maria de Calcarola nei pressi della strada che da Battipaglia conduce ad Eboli154 e, forse, San Magno155 . 32 La Piana del Sele in età normanno-sveva L’esistenza di un così elevato numero di chiese, almeno sette aperte al culto tra XII e XIII secolo, è indice di una popolazione numerosa sparsa residente nelle contrade del casale. La stessa documentazione scritta relativa ai secoli XII e XIII restituisce la sensazione di un popolamento diffuso del quale tuttavia è impossibile precisare la consistenza156 . Dalla documentazione emerge l’importanza, in particolare per quanto riguarda le pertinenze della Trinità di Cava, dei due monasteri di San Mattia e di Sant’Arcangelo; i due cenobi presentano nel XII secolo caratteri comuni: chiese private dei principi longobardi di Salerno, donate all’abate cavense, nel XII secolo si strutturano come comunità monastiche a capo delle quali è posto un priore e un preposito. La posizione dei due monasteri ai capi opposti dell’asse verticale dei possedimenti cavensi lungo il Tusciano, uno nei pressi della Castelluccia l’altro non lontano dalla foce del fiume, ne favorì il ruolo di fulcri del controllo di Cava su queste terre: i loro priori organizzarono per conto dell’abate, a partire dal XII secolo, la gestione di pie oblazioni157 , monacazioni158 , affidamento di terre159 , controllo dei mulini160 , cause legate ai diritti di proprietà161 , acquisizioni di terre162 . Si razionalizzò in tal modo la gestione di un patrimonio molto vasto, dividendolo in competenze territoriali, destinate ad attirare tra XII e XIII secolo gli abitanti degli insediamenti sparsi circostanti e formare casali autonomi dal casale Tusciano163 . Nel XIII secolo tuttavia le competenze divise nel secolo precedente tra i due enti, sembrano concentrarsi nelle mani del rettore di San Mattia164 , forse non a caso insignito in questi anni del titolo di priore. Nel casale Tusciano si rogano atti165 e le comunicazioni sono assicurate da vie pubbliche166 . Alcuni mulini lungo il fiume Tusciano provvedono alla macinazione del grano che abbondante si coltiva in queste terre167 . Gli abitanti del casale compaiono nella documentazione scritta frequentemente come detentori di terre. Riporto di seguito alcuni esempi. Nel 1137 Domenico Scafasso del casale Tusciano acquista da Gemma Guaitarda una terra vacua nello stesso casale per 80 tarì d’oro168 . Si tratta di una cifra abbastanza alta se si considera che nel 1160 con 26 tarì si acquistavano due moggi di frumento e uno d’orzo169 e nel 1178 con 80 tarì si acquistava un gregge di 40 pecore170 . Nel 1145 Umfredo di Tusciano dona al cenobio della Trinità di Cava una terra nella località Tusciano171 . Gemma residente nel casale Tusciano dona nel 1145 una terra alberata nella contrada Palese del casale172 . Littio Madio e Urso del casale Tusciano posseggono terre nel territorio nel 1155173 . Iannone di Battipaglia vende per 42 tarì al magister Torgisio di Gli insediamenti 33 Eboli nel 1160 una terra con alberi fruttiferi a Battipaglia174 L’anno successivo Goffredo abitante nel vicus Tusciano gravemente ammalato, dona per la sua salvezza una terra laboratoria nella contrada Anania del casale Tusciano175 . Nel 1165 Urso Cacace del vico Tusciano prende in moglie Grusa e le dona, secondo la consuetudine longobarda, come morgengabe la quarta parte di tutti i suoi averi mobili e immobili176 . Nel 1172 Martino Galgano acquista tre terre laboratoriae nei pressi del fiume Tusciano per 188 tarì salernitani177 . Nel 1173 Maraldo de Beccaro del casale Tusciano vende una terra nel casale sant’Arcangelo per 120 tarì salernitani178 . Nel 1176 Urso e Pietro del casale Tusciano vendono una terra laboratoria a Caro del casale Liciniano per 200 tarì179 . Tre anni più tardi si rinviene una transazione in cui Giovanni Brusca del casale Tusciano vende al presbitero Bartolomeo due terre per ben 260 tarì di Salerno180 . Nel 1170 Marino del casale Tusciano dettando il suo testamento sul letto dove giace ammalato, stabilisce che dei suoi averi 250 tarì siano distribuiti ai poveri. Per reperire tale ingente somma sarà venduta una sua terra nei pressi del Tusciano. Marino possiede inoltre altri terreni nel casale Tusciano e ad Eboli, che insieme ad altri beni lascia a Maria figlia di Gionata181 . Nel 1175 Palermo del casale Tusciano nelle sue volontà testamentarie lascia una serie di terre nel casale ai suoi due figli naturali e altri beni mobili e fondi alla Trinità di Cava insieme a una casa solarata in muratura che possiede in civitate Eboli182 . Le numerose attestazioni di allodieri, detentori di terreni anche di un certo valore e anche al di fuori del casale, come negli ultimi esempi riportati, provano che nel casale Tusciano abitassero personaggi liberi, benestanti, che investono anche al di fuori del casale. Non stupisce pertanto trovare nel casale Tusciano le origini di una delle più importanti famiglie salernitane dei secoli XIII e XIV i Silvatico o Salvatico. Già nel 1145 Umfredo del Tusciano, figlio del fu Giovanni Silvatico, vende una terra nel vico Tusciano alla località Scafassi183 . Altri personaggi della famiglia Silvatico si rinvengono nel casale fino al 1190184 . Da questa famiglia proviene Matteo Silvatico uno dei maggiori medici d’Europa tra la fine del XIII e gli inizi del XIV, noto per l’ “Opus Pandectarum Medicinae”, considerato il lavoro più completo ed erudito del tempo sulle virtù terapeutiche delle erbe. Matteo, tra le altre cose, creò nei suoi possedimenti salernitani un giardino dei semplici, riconosciuto come il più antico orto botanico d’Europa, nel quale coltivò numerose specie di piante tra le quali la Cantalide (Athamanta cretensis), che si fece inviare direttamente dalla Grecia 185 . 34 La Piana del Sele in età normanno-sveva Il casale Tusciano risulta donato dall’imperatore svevo Enrico VI (+ 1197) all’Ordine di Santa Maria dei Teutonici con gli abitanti, le terre e le pertinenze186 , ma ben presto fu restituito alla Trinità di Cava, che ne deteneva il dominio immunitario prima della donazione 187 . L’origine dei diritti di Cava sul casale Tuscianum risale al 1089: nella carta con la quale Ruggiero Borsa dona la chiesa di San Mattia e le sue terre all’abate di Cava, Pietro, il duca rimarca come tutti gli uomini liberi che abiteranno in quelle terre non dovranno prestare più al sovrano servizi di carattere pubblico o versare dazi , ma tutto ciò che avrebbero dovuto correspondere allo Stato lo dovranno da ora all’abate. Si tratta di una importante concessione di immunità nella quale l’abate di Cava si configura quale dominus della terra e degli uomini, anche dei liberi188 . Nel 1127 tali diritti venivano accresciuti dal cosiddetto testamento del duca di Salerno Guglielmo che sul letto di morte aveva donato tutte le sue proprietà tra il Tusciano e il Sele con la giurisdizione sui suoi abitanti all’abate di Cava189 , atto confermato e accresciuto da Guglielmo d’Altavilla, conte di Principato190 . Questa presenza signorile cavense è confermata da documenti del XII secolo in cui si fa riferimento a viceconti del Tusciano dipendenti dal cenobio cavense191 . Si tratta probabilmente di ufficiali, legati alla S.ma Trinità di Cava anche attraverso concessioni di terreni, che esercitavano verosimilmente la bassa giustizia nel territorio del casale per conto dell’abate e ne rappresentavano gli interessi nei casi in cui veniva chiamato in giudizio192 . Dal 1206 si rinviene quale ufficiale della Trinità di Cava in queste terre un baiulo193 . Baiuli e viceconti ricevevano in concessione terre dall’abbazia in cambio di censi poco più che simbolici: così, ad esempio, nel 1188 l’abate Benincasa concede a Urso viceconte del monastero nel casale Tusciano ben sette appezzamenti di terreno coltivato a cereali in cambio di dodici tarì da correspondere a Natale194 , mentre nel 1208 il baiulo Giovanni riceve una terra dall’abate di Cava impegnandosi a versare ogni anno a Natale un tarì per l’acquisto dell’incenso195 . Gli abitanti del casale erano soggetti, sin dai tempi di Ruggero II e dei due Guglielmi, a corrispondere alla Santissima Trinità di Cava i diritti di fidagio, erbatico, pleteatico, acquatico, ripatico, portulatico e glandatico196 . Come altrove in Italia meridionale i signori normanni favorirono l’espansione della Santa Trinità di Cava nella piana del Sele con concessioni di immunità e donazioni di terre, in particolare fino alla metà del XII secolo. La possibilità di legarsi ad un cenobio rinomato per la santità dei suoi abati e potente per i legami che aveva già intrecciato con i principi longobardi, garantiva prestigio e sostegno a duchi e aristocratici normanni197 . Gli insediamenti 35 Altro villaggio nei pressi del Tusciano è il casale di Sant’Arcangelo pertinente anch’esso alla badia di Cava198 . Il nucleo si polarizzò intorno all’antica chiesa, ricordata, come si è visto, sin dal X secolo. Un documento del 1035 ricorda la posizione del podere all’interno del quale si elevava la chiesa di Sant’Arcangelo, tra il fiume Tusciano e la via publica maior,la strada che conduceva dalle terre del locus Tusciano ad Olevano199 ; la documentazione del XVIII secolo ricorda la chiesa posta nella contrada detta Starza200 , la Starza di Battipaglia, oggi la zona nei pressi di via Domodossola. La chiesa, poi monastero, era posta nei pressi di uno snodo viario importante nel quadro delle comunicazioni del territorio: da una parte la via che risaliva, come si è detto, verso Olevano e l’Appennino e dall’altra la strada che dal vicino castelluccio si allacciava al percorso della popilia; non a caso nelle vicinanze è documentata una taverna 201 . Lo stesso villaggio sorto intorno alla chiesa di San Mattia è detto casale nel XIII secolo202 . L’aggregazione come a Sant’Arcangelo fu favorita dal prestigio del monastero e dalla favorevole posizione nei pressi di un importante quadrivio. Anche qui, come altrove, gli abitanti dei casali posseggono terre, anche lontano dal casale, come quel Gualtierus qui dicitur Grecus habitator casalis Sancte Mathie che nel 1258 vende quattro appezzamenti di terra a Campagna al monastero di Santa Maria la Nova203 . Il casale per un certo periodo nel XIII secolo fu sottratto al dominio cavense, ma nel 1266 fu restituito alla Badia204 . Un altro casale ricordato dalle fonti è San Clemente205 già noto come locus nell’XI secolo206 . Il casale si trovava ai piedi dei colli tra Battipaglia ed Eboli207 , ed è attraversato da una via que pergit de Bactipalea208 . Al casale afferiva, come detto, l’omonima chiesa209 , centro spirituale degli abitanti del villaggio, ricordata fino al 1223210 . Altro abitato nella piana è il casale di Santa Cecilia211 . Nel 1231 i suoi abitanti sono ricordati tra gli uomini addetti alla manutenzione della domus del Castelluccio212 . La località è menzionata per la prima volta in uno strumento di donazione del 1095 . In esso Ruggero Trincanotte nobile normanno di Eboli, concede al monastero di San Pietro di Eboli tra le altre cose una isclam que Sancte Cecilie dicitur, che ha come confine orientale il fiume Sele213 . Come altri casali, S. Cecilia trae la denominazione dalla chiesa omonima ricordata a partire dal 1161 come pertinenza dell’arcivescovo di Salerno214 . Il casale sorgeva sulla riva destra del Sele, non molto distante dal santuario di San Vito. Una via antiqua che percorreva la piana proveniente dal Tusciano costituiva probabilmente l’asse principale delle comunicazioni 36 La Piana del Sele in età normanno-sveva del casale, sebbene bisogna immaginare che le condizioni di impaludamento dell’area non la rendessero sempre percorribile. Meglio praticabile doveva risultare la risalita del Sele215 . Guadato il fiume, nelle immediate vicinanze della riva, si elevava la chiesa di San Nicola de Mercatello. La chiesa fu fondata da una famiglia comitale longobarda salernitana negli anni ’20 dell’XI secolo nei pressi di un porto fluviale e del porto alla foce del Sele e conobbe una certa prosperità intorno alla metà dello stesso secolo, favorita dalla prossimità al vicino guado sul Sele e ai porti, oltre che dalla presenza molto probabile di un mercato nell’area216 . La chiesa compare nel 1160 tra le pertinenze ebolitane dell’arciepiscopio salernitano217 , ma nello stesso anno in una lite tra quest’ultimo e il cenobio cavense si stabiliscono i diritti dell’abbazia della Santa Trinità sul tenimento di Mercatello e sulla chiesa che tra l’altro risulta nunc diruta218 . L’abbandono della chiesa e del nucleo di abitato aggregatosi all’intorno219 non dovette durare molto: nel 1227 la chiesa risulta nuovamente officiata220 e nel 1306 è attestato un casale Sancti Nicolai ad Mercatellum cum omnibus suis vassallis...et cum portu fluminis ipso casali propinquo221 . Anche Battipalea è ricordata come casale ai tempi di Federico II, nel celebre documento in cui l’imperatore nomina i provisores dei castelli campani, tra questi ricorda la domus castelluccii Battipalie che deve essere riparata, tra gli altri dagli homines eiusdem casalis222 . Il casale fu strappato alla Chiesa salernitana dal conte svevo Marcovaldo (+ 1202), passato poi ai Cavalieri Teutonici, alla morte dell’imperatore fu restituito all’arcivescovo che ne deteneva il possesso almeno dai tempi di Roberto il Guiscardo (a. 1080) 223 . Il documento del 1251 che ci informa delle modalità della restituzione, permette di individuare alcune delle strutture del casale: al suo interno vi sono edifici abitativi, una cappella e terre coltivate; a controllo del casale vi è il fortilizio224 . All’atto della restituzione del castello e del casale avvenuta qualche giorno più tardi gli homines predicti casalis, gli abitanti del casale, prestano giuramento di fedeltà all’arcivescovo: si tratta di 23 capofamiglia di cui si ricordano i nomi nel documento225 , circostanza che fa valutare in circa 100 unità questi che possiamo definire ‘protobattipagliesi’. Con il giuramento di fedeltà alla Chiesa salernitana questi uomini si dichiaravano semper vassalli iuris et dictionis dicti archiepiscopi et successorum eius et predicte ecclesie, et gaudeant illa libertate, qua alii vassali ipsius ecclesie gaudere noscuntur226. I vassalli di Battipaglia dunque godranno di quella libertas di cui godono anche gli altri vassalli della chiesa salernitana. Si Gli insediamenti 37 tratta di un punto molto importante che fa intravedere una serie di diritti di cui i battipagliesi erano detentori, dei quali purtroppo sappiamo ben poco. Probabilmente si trattava degli stessi diritti di cui godevano gli abitanti del castrum Olibani, anch’essi vassalli della Chiesa salernitana227 . Ma oltre ai diritti, i vassalli battipagliesi erano naturalmente soggetti ad obblighi, che si potrebbero dedurre per analogia da quanto accadeva ad Olevano228 . Olevano: i casali Licinianum e Scalcinati Nel già ricordato documento di Gisulfo II del 1047 compare per la prima volta il casale Licinianum229 . La località peraltro risulta già nota a partire dal 958 quando il principe Gisulfo I di Salerno ne fa dono al vescovo salernitano Pietro V230 . L’insediamento è stato individuato ad Olevano sulla collina Li Cignali da Carlo Carucci negli anni ’30 dello scorso secolo231 . Si tratta di un villaggio costituito da case sparse lungo l’antica strada che da Ariano conduceva ad Eboli: ancora si scorgono numerosi resti di abitazioni nella località232 . La strutturazione del casale si declina in una serie di contrade, Ali Pandulfi233 , a la Fontana234 , a lu Campu235 , A li Grechi236 , tuttora in parte rintracciabili nella toponomastica olevanese. Gli abitanti del casale trovavano un momento di aggregazione attorno alle tre chiese del luogo, Santa Sofia, San Nicola e Santa Maria237 . Di queste ultime due si possono ancora osservare i ruderi. La chiesa di San Nicola, che sorge lungo la strada per Eboli, presenta una pianta a navata unica conclusa da un’abside semicircolare. Si tratta di un sacello di minute dimensioni che doveva soddisfare le esigenze spirituali di una piccola comunità. E’ difficile sulla base dei pochi elementi superstiti indicare una datazione dell’edificio, anche se la tipologia planimetrica e l’abside sembrano orientarne una collocazione cronologica intorno al XII-XIII secolo. Maggiori elementi per una valutazione provengono da Santa Maria di Liciniano. La chiesa si eleva lungo il versante nordoccidentale del colle, nella località Torre. Si tratta di un edificio a navata unica concluso da una profonda abside semicircolare, sul fronte del quale permangono i resti di un campanile addossato in una fase successiva all’edificazione. L’estradosso absidale conserva sulla sommità una decorazione a spina di pesce realizzata in laterizi (fig.1). Si tratta di un motivo ornamentale che conosce una certa fioritura tra XI e XII secolo e che vale ad indicare l’ambito cronologico dell’elevazione della chiesa di Liciniano. Diverse ri- 38 La Piana del Sele in età normanno-sveva Fig. 1 - Olevano sul Tusciano, Liciniano, abside della chiesa di S. Maria Gli insediamenti 39 sultano le coltivazioni nel casale: in particolare emerge la coltura dell’olivo238 , del salice239 e della vigna, ma anche della quercia240 . Gli abitanti di Liciniano possedevano trappeti come quella machina sive olearia di cui Giovanni de Sergio vende la quarta parte all’arcivescovo Cesario di Salerno nel 1240. Lo stesso Giovanni l’aveva costruito in predicto casali Liciniani insieme a Pietro de Matheo dello stesso casale241 , circostanza che illumina sui saperi pratici di questi personaggi capaci di costruire un opificio alquanto complicato e costoso come un frantoio. Oltre ai possedimenti della Chiesa salernitana, emerge in età sveva la presenza del monastero amalfitano di San Lorenzo, possessore di numerosi oliveti a Liciniano242 . Il casale è ricordato dalle fonti fino al XV secolo come soggetto alla Chiesa salernitana: in un riconoscimento del 1252 viene trascritto un documento in cui Gisulfo II conferma all’arcivescovo di Salerno Amato (✝ prima del 1058) Liciniano ed Olevano cum omnibus hominibus et bonis eorum habitantes et habitaturos in ipso et pertinentis eius et cum omnibus juribus terris aquis molinis et tenimentis suis. Si tratta della conferma di un trasferimento di prerogative pubbliche sul territorio dal Principato alla Chiesa di Salerno. Il principe chiarisce che tale autorità si estende su tutti gli abitanti, di ogni censo e condizione, di quelle terre, liberi servi censiles rusticos vel stauriti e che tutti i liberi ab omni collecta et publicis serviciis sint immunes. Inoltre si precisa che gli abitanti di Olevano e Liciniano coram eo [l’arcivescovo] et sui successoribus de omnes civiles questiones convenire debeant et a suo judice judicari243 . Il giudizio su tutti gli uomini di queste terre sarà dunque esercitato dall’arcivescovo. Anche per Licinianum dunque, come per il castrum Olibani, si prospetta una signoria territoriale della Chiesa salernitana: esentati dai publicis serviciis, ossia da quegli obblighi di carattere pubblico che sottolineavano la dipendenza dal potere centrale, in quanto dovranno riconoscerli all’arcivescovo, gli abitanti di Liciniano, così come quelli di Olevano, sono giudicati dagli ufficiali e dai tribunali possiamo dire “di banno” dell’arcivescovo. A differenza di Olevano la signoria dell’ordinario salernitano su Liciniano non si proiettò simbolicamente nella presenza di un castello: ben visibile dalle case di Licinianum, era infatti il maniero olevanese a ricordare la presenza del dominus. Roberto il Guiscardo nel 1080 confermerà ad Alfano I accanto al castrum Olibani e al santuario di San Michele del Monte aureo, Liciniano iusto titolo et vero dominio… per legitima documenta nobis ostensa244 . Infine dieci anni più tardi Roberto conte di Principato confermò e riconobbe i diritti dll’arcivescovo di Salerno sul ca- 40 La Piana del Sele in età normanno-sveva sale Licinianum, richiamandosi tra l’altro al documento di Gisulfo245 . Roberto chiarificò che gli abitanti di Licinianum de omni questione et placito … semper baiulis et iudicibus predicti domni archiepiscopi … debeant libere conveniri. Non facendo l’atto riferimento esclusivamente a coloro che lavoravano o abitavano le terre di proprietà dell’arcivescovo, pare non esservi dubbio sul carattere pienamente territoriale della signoria246 . La documentazione scritta, per quanto riguarda il periodo indagato, ricorda nel territorio di Olevano un altro casale, Scalcinati dal 1047 menzionato fino al XIII secolo247 , di cui non permangono tracce neppure nella toponomastica locale. Eboli: il casale di Monte e il casale Palude Il casale di Monte, ricordato come vico nel 1153248 , costituisce uno degli esempi meglio documentati dell’organizzazione di un casale medievale tra Salerno e il Sele. Un prezioso documento di ricognizione di possedimenti della Chiesa salernitana e del santuario di San Michele di Olevano del 1164249 , permette di ricostruire almeno in parte le strutture del casale Montis, un esteso villaggio tra Olevano ed Eboli, nella località ancora oggi ricordata come Monte di Eboli. Il documento fu stilato per ordine dell’arcivescovo salernitano Romualdo II Guarna che intese fare chiarezza sui suoi possedimenti tra le alte colline che si estendono tra Olevano e Campagna. A tale scopo inviò alcuni suoi uomini a percorrere queste lande affinché compilassero un registro. Nel corso della loro ricognizione, gli ufficiali della chiesa salernitana, percorrendo le vie di Monte, annotarono con precisione i confini delle pertinenze con le coltivazioni che si attuavano e i punti di riferimento meglio riconoscibili, per lo più chiese. Ne viene fuori un quadro suggestivo di Monte, visto con gli occhi di uomini vissuti 900 anni fa. Il casale è percorso da un reticolo viario che ne consente l’agevole comunicazione con le terre di Eboli, Olevano e Campagna250 . Le sue pertinenze territoriali appaiono molto estese: al suo interno si individuano una serie di contrade, Maljtu, oggi Melito, Ad puntum, Suberitu, Bubiljanu, A la Petrisula, Mariljnianum, Buccapizza, Martenese, Ad Castanetum, Ad Guisonem, Ad Sorbellum, A li Cariclj, A li Ferrari . All’interno del casale si elevano numerose chiese, San Salvatore a Marilininianum251 , Sant’Adiutore nella medesima località252 , San Donato253 . Centro del casale è un castello, diruto nel 1164, Gli insediamenti 41 su di un colle al di sopra della chiesa di San Donato, la collina oggi detta del Carmine, all’interno del quale vi è una chiesa dedicata alla Vergine254 . Talora i ricognitori fanno riferimento a case che si trovano negli appezzamenti che rilevano, ma per lo più tali indicazioni avvengono quando le pareti delle abitazioni fungono da confine dell’appezzamento255 . In ogni caso è verosimile che ogni appezzamento ricordato (se ne contano circa 30256 ) contenesse una casa, altrimenti non si comprenderebbe la funzione delle numerose chiese citate. Testimonianze di abitazioni a Monte, in ogni caso, si rinvengono anche in altri documenti del XII secolo257 . La presenza di numerose sorgenti permetteva un agevole approvvigionamento idrico258 . Nel casale vi era almeno un mulino259 . Anche nella produzione Monte si segnala in epoca normanna per una certa varietà: numerose sono le terre laboratoriae, ossia coltivate a grano260 , oppure con l’arbusto vitato261 , la vigna262 e il querceto263 , orti264 , alberi di castagno265 , saliceti266 , e altri fruttiferi267 , l’ulivo268 , né manca la selva insieme al coltivo nel medesimo appezzamento269 . Talvolta si fa riferimento a chi abita e coltiva per conto della Chiesa di Salerno le terre di Monte, Iohannis de Gualdo, Riccardus cum nepotibus suis, Amatus acernensis, Cristoforus, Fornatus de Radi, Iohannes de Radi, Robertus Pelejari, ma non mancano liberi possessores che detengono appezzamenti di terra anche lontano dal casale270 . Tracce toponomastiche di attività produttive (locus ubi a li ferrari) concorrono a fornire ulteriori suggestioni al quadro organizzativo del casale. La circostanza che alcune chiese, quali San Barbato siano ormai cadenti e talune abitazioni risultino abbandonate e lo stesso castello sia dirutum, costituisce la spia di una situazione di degrado in evoluzione delle strutture del casale271 . La vicenda dell’abbandono di Monte e delle terre circostanti fu molto lenta e in ogni caso non consumata nel periodo qui considerato: ad esempio ancora nel 1190 Pietro, vestatario del monastero di Cava, concedeva terre con case orti, ulivi, vigna e querceto a Pietro Pipero, al fratello Martino e ai loro discendenti a Padule, beni che erano appartenuti a un tale Pietro Bellazita272 . Si tratta forse di un tentativo di ripopolamento, ma la presenza in questi stessi anni di personaggi ancora residenti a Monte273 e l’attestazione documentaria della parrocchia di Santa Maria nel XIII secolo274 mostra come queste terre fossero ancora abitate. Alla metà del XIII secolo era inoltre attivo nel casale un frantoio appartenente all’ordine verginiano275 . Altre carte relative a Monte concorrono a definire la consistenza del casale in età normanno-sveva. In particolare è possibile farsi un’idea più precisa delle produzioni agricole di Monte anche 42 La Piana del Sele in età normanno-sveva nel lungo periodo e in particolare se ne può sottolineare la persistenza della strutturazione policolturale276 . Le pertinenze territoriali di Monte sono precisate nella documentazione scritta a partire dall’XI secolo, ma la prima notizia relativa all’esistenza di questo distretto territoriale risale all’821277 . Nel 1043 i fratelli Rainaldo e Rocco abitatori de locum Tusciano in pertinentis Sancti Angeli Montis Aurei scambiano una loro terra del Tusciano con il conte Adelberto ricevendone un’altra in loco Monte ubi Scabella dicitur278 . La contrada Scabella di Monte è già ricordata nell’atto di donazione a favore dell’episcopio salernitano rogato dalla cancelleria di Gisulfo I nel 958 ed è detta ulter ipsum Tuscianum279 . Si tratta di Scapella, altura non lontana dal santuario micaelico di Mons aureus nei pressi del quale abitano Rocco e Rainaldo. Nel 1017, un certo Maraldo figlio di Maraldo calbarusi, nel cedere una terra in locum Dossa specifica di essere abitator de loco Monte, salernitane finibus. Il documento è redatto dal notaio Radoaldo nello stesso locus280 . Qualche anno più tardi, nel 1043, nel già ricordato atto dei fratelli Rainaldo e Rocco, tra i testimoni dell’avvenuta transazione figura un tale Alferio figlio di Maraldo calbarusi abitante di Monte, mentre i due fratelli avevano scelto come mediator un certo Amato sempre de locum Monte. Dunque notai che rogano atti e liberi allodieri abitano in questi anni il locus Monte, ancora nelle pertinenze amministrative di Salerno. Con la conquista normanna il casale passò sotto la giurisdizione del comitato ebolitano281 . L’altro casale tra le colline di Eboli era Palude o Padule, anch’esso menzionato nella carta del 1164 a est di Monte. Dell’abitato rimane memoria toponomastica alle spalle del Montedoro di Eboli, nei pressi delle sorgenti dell’Ermice. Nel 1152 si ha la prima attestazione documentaria dell’esistenza del casale: in una transazione si ricorda una vigna al casale Padula282 . In esso risiedono presbiteri283 e diaconi284 , vi sono almeno due chiese, una dedicata a San Barbato285 l’altra a San Pietro286 . I suoi abitanti posseggono terre, anche fuori dal casale287 . La situazione colturale ricorda quanto descritto per il vicino casale Monte288 . Alcune considerazioni sui casali e l’insediamento di Caprarizzo ad Olevano Alla luce dei dati finora analizzati è possibile tentare di definire una tipologia dei casali normanno-svevi nelle terre tra il Tusciano e il Sele: si tratta di porzioni di territorio definiti i cui centri demici sono villaggi aperti Gli insediamenti 43 (il casale vero e proprio) formati da un nucleo più o meno compatto, senza però che si realizzi un accentramento completo, con abitazioni insistenti su poderi confinanti, almeno in origine, gravitanti intorno a chiese. E’ questo il tipo di villaggio numericamente predominate in età normanno-sveva nel territorio analizzato, pressoché l’unico nella Piana, mancando qui del tutto attestazioni certe di insediamenti murati accentrati, se si esclude un riferimento relativo al muro del castelluccio di Battipaglia289 . La presenza di casali sia nelle zone medio-alto collinari sia nella pianura fa escludere un’opzione tipologica determinata da ragioni collegate alla morfologia del territorio. La struttura organizzativa del casale permette una colonizzazione e un controllo capillare del territorio, con la possibilità di vigilare aree anche estese, per cui è pensabile che lo sviluppo di tale tipo insediativo sia legato ad altre ragioni, fondamentalmente economiche. All’interno dei casali, a differenza di quanto avviene nei borghi, l’abitazione pare spesso legata alla terra che si coltiva, talora al bosco che si sfrutta, come a Monte. Elemento necessario per l’insediamento è naturalmente l’acqua e la documentazione scritta ne fa spesso riferimento nelle numerose attestazioni di fonti, come ad esempio a Monte e a Liciniano. Il casale può variare nelle dimensioni e negli elementi qualificanti la sua strutturazione: si va dai semplici casali quali San Clemente con poche case e una chiesa, al grande e complesso casale Monte che si sviluppa ai piedi di un castello, con almeno 4 chiese, di cui una ricordata come parrocchia nel 1201, un nucleo principale compatto costituito da una trentina di abitazioni insistenti ognuna su un podere, e una serie di contrade anch’esse abitate o allo stesso casale di Battipaglia, anch’esso organizzato intorno ad una fortezza, abitato da circa 100 uomini, oppure l’esteso casale Tusciano, probabilmente il maggiore tra tutti quelli documentati, con almeno sette chiese attive nel XII secolo.Bisogna ricordare tuttavia come la definizione di casale nella documentazione scritta non risulti sempre chiara: talora il casale nello stesso documento viene presentato anche come locus o vicus, come nel caso di Monte o di Tusciano. In taluni casi i casali normanno-svevi sono villaggi già esistenti in età longobarda, come Monte o Liciniano, altre volte sono probabilmente il frutto di una riorganizzazione di terre spesso colonizzate in epoca longobarda come ad esempio il casale Sant’Arcangelo o San Clemente. L’antichità dell’insediamento probabilmente ne determina anche la complessità strutturale. Per quanto riguarda i casali della pianura di Battipaglia, dall’analisi compiuta sui documenti di archivio emerge come la loro genesi sia da individuare a partire dagli anni ’20 del XII 44 La Piana del Sele in età normanno-sveva secolo, frutto di una destrutturazione territoriale dell’antica unità del locus Tuscianus. Fino al 1173 tutte le terre della pianura del Tusciano sono ricondotte entro i limiti del casale omonimo; solo nella seconda metà del XII secolo si originano i casali di Sant’Arcangelo e San Clemente, fino ad allora agglomerati ricadenti nel casale o vicus Tusciano290 , riflesso di una più articolata strutturazione della vita socio-economica nelle terre del Tusciano e di una ulteriore crescita demografica291 . Talora si continuò ad intendere con “casale Tusciano” la globalità delle terre della Piana sulla riva sinistra del Tusciano, per lo più nei documenti redatti in terre lontane: così nel 1217 la cancelleria di Federico II da Ulma, su istanza di Ermanno di Salza, maestro dell’Ordine Teutonico, confermava le concessioni di terre demaniali,di uomini e di beni tam in mari quam in terris fatte da Federico e da Enrico VI all’Ordine teutonico nel casale Tusciano, compreso il castello fatto costruire lì da Mareguardo 292 , il celebre Marquardo d’Anweiler, uno dei maggiori collaboratori di Enrico VI e benefattore dei Cavalieri Teutonici293 , ricordato in un documento più tardo come Marcovaldo, costruttore appunto del castelluccio di Battipaglia294 . Gli uomini che abitano questi insediamenti hanno come nucleo ‘forte’della loro vita sociale le piccole chiese sparse nella contrada che segnano i tempi e i ritmi delle feste e dei momenti di aggregazione spirituale, oltre a costituire talora i fulcri dell’organizzazione economica dei casali. Si è già detto a questo proposito del ruolo, nel casale Tusciano, dei monasteri di San Mattia e Sant’Arcangelo, ma una situazione non diversa trapela dalla documentazione relativa alle chiese ‘minori’ dei casali in particolare e del territorio gravitante intorno al castellum Eboli in generale; queste si configurano, infatti, come detentrici e organizzatrici di beni patrimoniali, per lo più fondiari295 . Le popolazioni delle comunità rurali godevano, come si è accennato per il casale di Battipaglia, di consuetudini cui si aggrappavano tenacemente per difendere la loro condizione di liberi: nel caso di Battipaglia il sovrano per mezzo del governatore di Salerno chiarisce come l’arcivescovo debba garantire agli abitanti del casale le loro libertates, ossia i diritti che attenuavano in maniera efficace la possibilità di un dominio incontrastato da parte del signore. Interessante, da questo punto di vista, un documento del 1252 in cui i rappresentanti del casale Cusentinorum nei pressi del Sele guidati dal sindicum Nicolaum Citum, actorem seu procuratorem universitatis casalis cusentinorum, si oppongono al tentativo di Riccardo de Rocca, signore del vicino castello di Sicignano, di inglobare nelle pertinenze della sua signoria Gli insediamenti 45 il villaggio. A questo proposito Nicola mostra una charta con la quale Gisulfo II di Salerno aveva concesso alla Chiesa salernitana il casale Cusentinorum cum omnibus hominibus et pertinenciis suis... stabilendo che omnes homines ...essent liberi et immunes ab omni collecta et publicis serviciis, atto poi confermato nel 1090 da Roberto conte di Principato296 . E’ evidente come la comunità del casale temesse il passaggio dalla signoria della Chiesa di Salerno a quella del signore locale, circostanza che avrebbe di certo vanificato illa libertate, qua alii vassali ipsius ecclesie gaudere noscuntur come si disse negli stessi anni a riguardo del casale di Battipaglia297 . Da questa circostanza si può dedurre l’origine di tali diritti in età longobarda298 e l’esistenza di un archivio in cui la comunità conservava gelosamente gli strumenti che ne garantivano i diritti, pronti ad essere mostrati in caso di necessità299 , ma anche la relativa mitezza del dominio arcivescovile salernitano rispetto ai regimi signorili laici. La condizione di relativo benessere di alcuni abitanti dei casali si deduce da vari indicatori presenti nella documentazione scritta quali il possesso di terre all’interno dei casali300 . La documentazione mostra la capacità imprenditoriale di alcuni abitanti dei casali, che compaiono spesso anche come detentori di terreni fuori dal casale dove risiedono oltre che di opifici: ad esempio si è visto come a Licinianum alcuni abitanti si consorziassero per l’edificazione di un frantoio e poi ne cedessero quote-parti, circostanza che fa emergere, oltre alla dinamicità sociale di alcuni gruppi, anche la relativa libertà evidente in un’azione quale la costruzione di un frantoio nonostante il più volte proclamato diritto esclusivo della Chiesa salernitana in questo settore nel territorio301 . La disponibilità talora rilevante di denaro si evince da alcune compravendite che vedono come attori gli abitanti dei casali: così ad esempio nel 1176 due fratelli del casale Tusciano vendono a Caro del casale Liciniano una terra per ben 200 tarì d’oro, una cifra davvero notevole302 . La vicenda di Salitto del casale Tusciano che va ai bagni puteolani per curare le sue malattie testimonia anche della mobilità orizzontale degli abitanti di queste terre: nei casali esaminati si rinvengono le tracce di spostamenti continui di uomini303 . Anche da un punto di vista giuridico-istituzionale i casali analizzati si caratterizzano per una molteplicità di situazioni: Licinianum ad esempio costituisce una signoria territoriale della Chiesa salernitana, mentre nel territorio di Tuscianum si rinvengono aree immuni della Badia cavense e, ancora, Monte sembra essersi sviluppato come villaggio in qualche modo au- 46 La Piana del Sele in età normanno-sveva tonomo da controllo signorile, nonostante la presenza di un castello. Più difficile risulta indicare il tipo di regime signorile cui erano soggetti gli abitanti degli altri casali: se per Battipaglia sembra fosse operante una signoria territoriale304 nessuna ipotesi si può formulare per Palude e Santa Cecilia, mentre San Nicola di Mercatello si configura come signoria immunitaria al cenobio cavense. I casali dunque costituiscono i fulcri del popolamento e delle attività economiche nelle terre di Eboli e di Olevano, accanto naturalmente ai borghi murati. La consapevolezza di ciò doveva portare a delle vere e proprie imprese di fondazioni di casali, anche se la documentazione scritta risulta alquanto avara al proposito. Una serie di documenti di estremo interesse redatti tra la fine del XIII secolo e gli inizi del successivo, dunque in un periodo leggermente posteriore all’ambito cronologico qui considerato, consentono di ricostruire un singolare tentativo di impiantare un casale nel cuore della piana del Sele e gli esiti dell’intervento. Nel 1299 l’abate cavense Rainaldo concede al gallicus Oliviero de Raccellis, di costituire un casale nel tenimento di San Pietro ad Columnellum, ormai in rovina305 : Oliviero per prima cosa dovrà ricostruire a sue spese la chiesa, le case e reimpiantare le vigne all’interno del casale affinché possa essere riabitato306 , dopo di che cum consensu viri nobilis Philippi de Tucciano domini Ebuli farà sì che il casale sia separato ab Universitate eiusdem terre Ebuli in exactionibus et collectis, dunque reso immune come gli altri casali cavensi nella piana. Oliviero provvederà a costruire nel casale unam tabernam sufficientem et congruam nella quale potrà trovare ospitalità anche l’abate di Cava e il suo seguito (comitive sue) per unum diem et noctem quando vorranno alloggiare nel casale. Sarà inoltre suo compito defendere ab invasionibus, molestiis, vexationibus gli abitanti del casale, forse elevando fortificazioni, in anni di forte insicurezza per la guerra del Vespro che proprio in quelle terre aveva avuto uno dei momenti di maggior asprezza307 . Altro compito di Oliviero sarà quello di mantenere un monaco del cenobio cavense come cappellano della chiesa restaurata, affinché la offici die noctuque sicut decet e provveda alla cura spirituale degli abitanti. In cambio della concessione del casale cum vassallibus, iuribus, redditis et pertinentiis omnibus ad ipsum casalem spectantibus, ogni anni Oliviero verserà alla Santa Trinità cinque moggi di buon frumento. Alla morte di Oliviero e della moglie, Adelina, il casale passerà al monastero con ben 24 buoi bonos et domitos pro facienda massaria in casali predicto, ossia per coltivare le terre del casale. L’anno succes- Gli insediamenti 47 sivo il nuovo abate cavense, Roberto, conferma la concessione, accennando alla guerra che presumibilmente aveva reso difficile la costituzione del casale308 , operazione che in ogni caso era destinata a fallire, come si evince da un documento del 1310 in cui l’abate Roberto concede a Napoleone di Catania il tenimento di San Pietro per dieci anni309 . Il concessionario, vir nobilis, farà costruire una solida sala, il centro dell’azienda, con calce, sabbia e pietre (calce, lapidibus et arena) cum una camera in capite et una alia camera in pede ipsius sale di cui l’abate si premura di fornire le misure310 . Napoleone dovrà inoltre far edificare una stalla in muratura coperta, nella quale saranno ospitati stalloni e giumente, con relative mangiatoie, cavalli del monastero che saranno portati ad pascendum nei prati della tenuta. Napoleone e i suoi eredi infine, si impegnano a far sì che chi verrà ad abitare nel tenimento possa godere di franchige (franchiciam) e di libertates, ovvero di attenuazioni dei consueti carichi servili e di libertà del tipo concesso agli abitanti dei casali. In cambio della concessione Napoleone verserà al monastero ogni anno12 moggi di grano; trascorsi i dieci anni la tenuta sarà restituita all’abate. Evidentemente il tentativo del 1299 si era risolto in un insuccesso e l’abate cavense aveva pensato bene di abbandonare l’idea di creare un villaggio esente, ripiegando su di un progetto più facilmente realizzabile e sicuramente remunerativo. Nonostante il fallimento dell’impresa, resta la notevole capacità pianificatrice che emerge dalla concessione del 1299, con la lucida individuazione dei punti nodali dell’organizzazione spirituale e materiale di una comunità di villaggio: la chiesa, le case, terre da lavorare, la sicurezza da pericoli esterni, quasi una versione planiziaria dell’incastellamento. Si tratta di un modello che in altri tempi sarebbe risultato vincente, ma alla fine del XIII secolo altri erano i nuclei di attrazione della Piana, in particolare Eboli311 . Le testimonianze sui casali nel territorio indagato offrono dunque un quadro molto dinamico e una tipologia variegata dell’insediamento e della sua strutturazione. Anche i resti materiali ancora visibili di alcuni casali permettono di delinearne la strutturazione, come ad esempio a Liciniano. Un esempio di casale medievale giunto sino ai giorni nostri nella strutturazione medievale può forse considerarsi il sito di Caprarizzo individuato nei pressi della frazione Monticelli di Olevano sul Tusciano. I resti dell’abitato, privo di mura difensive, di cui non si rinvengono tracce sicure nelle fonti scritte, si elevano lungo il versante sud orientale del colle Pampogni312 . I ruderi delle abitazioni che costituiscono l’insediamento si dispongono lun- 48 La Piana del Sele in età normanno-sveva go una serie di terrazze artificiali per un dislivello complessivo di ca 15 m.. Si tratta di una serie di edifici abitativi e produttivi elevati tra XII e XIII secolo. Di particolare interesse risulta una torre che si sviluppava almeno su quattro piani. Si tratta di un edificio a pianta quadrata che oggi si presenta privo della parete meridionale e gran parte della parete orientale a causa di un crollo. La funzione difensiva della struttura si deduce facilmente dalle saettiere individuabili sulle pareti superstiti dell’edificio, almeno 4, tre sul lato settentrionale, due al secondo e una al quarto piano, e una lungo la parete occidentale, al secondo piano. Il piano inferiore era caratterizzato da un ambiente voltato a crociera con arconi a sesto acuto con le ghiere realizzate in laterizio. Della struttura originaria rimane un intero arcone sulla parete nord e frammenti degli arconi sulle pareti ovest e est, insieme ai pennacchi della volta (figg. 2-3). Il tipo di volta a crociera che trova raffronti nell’edilizia campana e in ambito salernitano con analoghe realizzazioni del XIII secolo313 , vale a collocare a quest’epoca la costruzione della torre di Olevano. Poco più in alto si osservano i resti di un altro complesso di estremo interesse. Si tratta di due edifici collegati da un ‘passetto’ poggiante su due archi a sesto acuto314 (fig.4) la cui parte inferiore fungeva da passaggio tra un grosso cortile delimitato da un muro e l’esterno, forse una strada del villaggio. I due edifici appaiono contestuali, edificati in una stessa fase. Ciò si deduce chiaramente dall’attacco delle rispettive quinte murarie settentrionali con l’arco del passetto315 . Il primo edificio sembra avere le forme e la qualificazione di un palazzo. Si tratta di un edificio a pianta rettangolare con una torre affiancata sul lato sud, articolato su due piani, senza partizioni sul piano terraneo (fig. 5). L’ingresso avveniva direttamente dal cortile recintato sul lato meridionale, attraverso una porta oggi tompagnata. All’estremità meridionale dell’edificio si eleva la torre articolata su tre livelli. La torre non sembra mostrare i segni di una funzionalità difensiva: sono infatti del tutto assenti saettiere e caditoie. Al contrario l’accesso avveniva attraverso un’ampia porta (oltre 2m di luce) a sesto acuto ora in parte tompagnata, e al secondo piano, al di sopra della porta, vi era un balcone in legno, come si nota dalle buche pontaie, cui si accedeva da un’ampia apertura archiacuta. Sul lato occidentale della torre, sempre al secondo piano, vi era una seconda porta cui si accedeva dall’esterno attraverso una scala in muratura di cui rimane l’impronta sulla facciata del palazzo. Un’altra finestra conclusa da un arco a sesto acuto in muratura con la sola chiave in laterizio si ritrova sul lato est 49 Gli insediamenti Fig. 2 - Olevano sul Tusciano, Caprarizzo, edificio 2 (torre) prospetto W Fig. 3 - Olevano sul Tusciano, Caprarizzo, edificio 2 (torre), volta a crociera archiacuta Fig. 5 - Olevano sul Tusciano, Caprarizzo, palazzetto visto da S-E Fig. 4 - Proposta ricostruttiva del palazzetto di Caprarizzo (dis. arch. Amintore Carucci) 50 La Piana del Sele in età normanno-sveva della torre. Altre tre aperture di dimensioni minori caratterizzano il terzo piano nei lati S e W. Il primo piano era coperto da una volta a botte. Si tratta di elementi architettonici che connotano una funzione certamente non difensiva della struttura. Doveva piuttosto trattarsi di un elemento simbolico, qualificante forse la dignità del personaggio che risiedeva nel palazzo. Sempre lungo il lato meridionale della costruzione, dove era posto l’ingresso dell’edificio, al secondo piano vi era una bifora che ora risulta nell’apertura di destra tompagnata e nell’apertura di sinistra in parte diroccata. Un’altra ampia finestra, ora tompagnata, a tutto sesto con ghiera in laterizi, era al secondo piano del lato est del palazzo. Il lato W della struttura era caratterizzato dal passetto in muratura già ricordato che fungeva naturalmente anche da terrazzo come si nota dai resti della balaustra in muratura superstiti. Ad esso si accedeva dal secondo piano dell’edificio 4 tramite un’apertura conclusa da un arco acuto con la ghiera in laterizi. L’edificio 5, collegato al 4 attraverso il passetto, risulta anch’esso suddiviso in due livelli, mentre non sembra aver avuto partizioni interne in muratura. Sulle pareti superstiti non sono visibili finestre, né all’interno ci sono quelle nicchie-armadi che caratterizzano gli altri edifici finora analizzati. Appoggiato ad esso nella parte sudoccidentale si notano i resti di un altro edificio. Questi elementi lasciano supporre una diversa funzione dell’edificio 5 rispetto agli altri: si trattava probabilmente di un grosso deposito dove si ammassavano prodotti della terra quali olive e cereali, collegato al palazzetto, funzionale in qualche modo alle necessità di chi vi risiedeva. Sulla facciata N del passetto sono stati individuati 3 frammenti ceramici cementati nella muratura: si tratta di 2 frammenti di invetriata monocroma verde e di un fondo di una forma aperta con piede ad anello, ricoperto internamente da una invetriatura policroma, in parte saltata, ma che sembra conservare i colori bruno, verde e rosso tipici della cosiddetta «RMR» o tricroma . Se per la prima classe ceramica risulta difficile stabilire una cronologia, il frammento di invetriata policroma dovrebbe trovare una collocazione tra il tardo XIII e tutto il XIV secolo316 . La porzione di muratura in questione è tuttavia un restauro praticato nell’apparecchio murario originario, dunque i frammenti ceramici in questo caso non aiutano a stabilire la datazione, costituiscono piuttosto un valido terminus ad quem. L’adozione di alcuni elementi quali archi a tutto sesto accanto ad archi acuti e la presenza di finestre bifore, così come la poco marcata tendenza allo sviluppo verticale del palazzetto, elementi che sembrano richiamare l’architettura di età sveva Gli insediamenti 51 piuttosto che le realizzazioni della successiva età angioina, lasciano ipotizzare una datazione dell’edificio intorno alla metà del XIII secolo317 . Il Caprarizzo di Olevano è un insediamento aperto sorto e sviluppatosi in un periodo compreso tra gli inizi del XIII e il XIV secolo, i cui edifici sembrano non aver subito sostanziali modifiche durante il periodo della loro fruizione, fatte salve alcune tompagnature di porte e finestre. La tipologia degli edifici abitativi appare omogenea: le case sono sempre organizzate su due livelli e sono caratterizzate da bassi recinti che definivano probabilmente degli orti-giardini. Anche alcuni elementi sintattici delle architetture, quali le tipologia delle finestre, si ripetono, come pure i tipi di ingressi. Un particolare interessante sembra essere l’assenza delle finestre nelle pareti settentrionali, tranne, per evidenti ragioni di avvistamento, nel caso della torre difensiva posta ai piedi del colle e nel palazzo. Le costruzioni presenti nel villaggio di Caprarizzo, alla luce dei dati osservati sopra, sembrano cronologicamente il frutto di un unico intervento (prima metà XIII sec.?), senza particolari gerarchie nella qualità delle edificazioni, eccetto il significativo episodio del palazzetto –deposito che spicca per dimensioni, qualità e soluzioni architettoniche rispetto alle altre abitazioni. Potrebbe trattarsi della residenza di un personaggio di rilievo preposto forse non esclusivamente al controllo delle produzioni e alla riscossione dei tributi; la stessa grande sala del palazzo sembra funzionale ad un ufficio pubblico ricoperto da chi risiedeva nel palazzo (la sede dove si amministrava la giustizia?). Nell’ampio cortile antistante probabilmente convenivano i contadini che dovevano pagare il tributo da riversare direttamente nel deposito all’ombra dell’alta torre che simboleggiava il suo potere, mentre forse i carri provenienti dai possedimenti scaricavano i prodotti della terra nei depositi immediatamente a N del palazzetto, depositi che forse avevano anche una funzione di trasformazione dei prodotti della terra. Nel deposito collegato al palazzetto si intravede ancora una vasca in muratura a pianta rettangolare addossata al muro settentrionale con un doccione lapideo al centro su uno dei lati corti: il manufatto è tipologicamente confrontabile con alcuni palmenti vinari ancora conservati nei casali di Salitto318 ; lo stesso edificio a pianta quadrata di cui si intravedono i resti sulla stessa terrazza dove sorgono i due depositi, potrebbe essere interpretato come una piccola torre posta a guardia dei depositi al di sopra del palazzo. Cosa era l’insediamento di Caprarizzo? Un piccolo villaggio aperto o un articolato centro dominico di un ricco signore o, ancora, un potente simbolo 52 La Piana del Sele in età normanno-sveva materiale elevato negli anni in cui Federico II privò la chiesa di Salerno del dominio su Olevano (1240-1255) a due passi dal complesso palaziale di Santa Maria a Corte, da sempre centro del potere della signoria arcivescovile salernitana su quelle terre,? 319 Per ora possiamo trarre delle indicazioni dalla strutturazione tipologico-funzionale dell’insediamento: un nucleo abitativo disposto a grappolo lungo la costa meridionale del colle e una serie di edifici identificabili come depositi, protetto in basso da una torre e, in alto la residenza ‘signorile’ con il deposito dei prodotti e gli opifici, una strutturazione tripartita, in qualche modo ‘classica’, che richiama la strutturazione degli insediamenti castrensi, con la differenza che qui la residenza palaziale non si rinviene alla sommità del colle, quest’ultima lasciata apparentemente del tutto priva di costruzioni320 . La tipologia sembra ben adattarsi a quanto nelle fonti scritte coeve, si è visto, si intendesse per casale. b) I castelli e i borghi I castelli costituiscono la tipologia insediativa fisicamente predominante il paesaggio del nostro territorio in età normanno-sveva: posti sugli alti colli a controllo della piana, con la loro presenza condizionavano l’esistenza delle popolazioni e ne segnavano profondamente l’immaginario. La loro funzione è in parte legata alle esigenze di difesa di Salerno e dei percorsi che dalla Calabria conducono al Nord: la catena dei castelli ancora oggi individuabile tra le alture a sud di Salerno permetteva una rapida trasmissione di notizie e, eventualmente, una efficace azione di contrasto nel caso di un esercito avanzante verso settentrione321 . Tuttavia, come si vedrà osservando più da vicino le loro vicende, l’aspetto strategico-militare non è l’unico motivo che ne determinò l’esistenza. 1 - Il castello di Olevano Il Castello di Olevano, il castrum Olibani delle fonti, sorge sul monte Castello a circa 700 m s.l.m. (fig. 6b). Il complesso è costituito da tre cinte murarie che definiscono tre aree differenziate da un punto di vista funzionale (fig. 6): la prima cinta delimita un vasto pianoro, probabilmente una piazza d’armi, la seconda cinge gli edifici di un borgo dislocato lungo il versante 53 Gli insediamenti Fig. 6 - Olevano sul Tusciano - Pianta dell’area del Castello (rilievo a cura di arch. Giovanni Montella) Fig. 6b - Olevano sul Tusciano, il Monte Castello 54 La Piana del Sele in età normanno-sveva meridionale del monte e la terza ne delimita la sommità, comprendendo le strutture della parte dominicale del castello con la residenza del signore. Così appare il castello di Olevano, ma il complesso così come lo si osserva oggi, è il frutto di circa 600 anni di interventi. Allo stato attuale delle conoscenze, il castello di Olevano rappresenta l’insediamento fortificato medievale di cui si hanno le più antiche testimonianze nel territorio di cui si tratta. Scavi archeologici condotti negli scorsi anni hanno infatti mostrato una fase di occupazione del borgo risalente almeno al IX secolo322 . In questo periodo infatti fu edificata la chiesa del borgo. Nel primo periodo di frequentazione (secoli IX e X) la chiesa presenta una semplice pianta a navata unica conclusa da un’abside semicircolare (fig. 7). La chiesa conobbe il suo massimo splendore tra XI e XII secolo (fig. 8.). In questo periodo si assiste ad un radicale rinnovamento dell’edificio con la costruzione di un subsellium che correva lungo le pareti perimetrali, un recinto presbiterale e un nuovo altare affrescato (fig. 9). Anche le pareti furono completamente affrescate con figure di santi e ricchi elementi decorativi policromi. La chiesa conservò questo aspetto fino all’abbandono che i dati archeologici indicano essere avvenuto nella prima metà del XIII secolo. Il borgo sembra essersi sviluppato tra X e XII secolo con case in pietra e edifici produttivi. Gli scavi archeologici effettuati nel settore occidentale del borgo hanno portato alla luce un ambiente fornito di una vasca di decantazione per la produzione olearia realizzata tra X e XI secolo e macine in pietra vulcanica . L’ambiente contiguo fu edificato nel XII secolo e in esso sono state rinvenute tracce di un atelier di un vasaio. Anche questi ambienti, come la chiesa, risultano abbandonati nel corso della prima metà del XIII secolo, circostanza che fa presumere l’abbandono dell’intero abitato avvenuto in questo periodo. Altre indicazioni cronologiche provengono dall’osservazione di quanto rimane in elevato. La prima cinta muraria si può datare agevolmente, in base alla tipologia delle torri scarpatre a pianta circolare, ad età angioina (XIII-XIV) secolo, mentre il recinto che chiude l’area signorile è collocabile, per la tipologia delle torri a pianta quadrata, ad età sveva (prima metà XIII secolo)323 . Le strutture della parte sommitale evidenziano una serie numericamente cospicua di interventi che non saranno analizzati per ragioni di spazio in questa sede. In sintesi possiamo osservare che una primitiva fase del sito, cronologicamente non indicabile a causa dell’assenza di elementi datanti, vide la presenza di un grosso torrione centrale sullo stretto e lungo pianoro 55 Gli insediamenti Fig. 7 - Olevano sul Tusciano, castello, proposta ricostruttiva della prima fase della chiesa (disegno arch. Amintore Carucci) Fig. 8 - Olevano sul Tusciano, castello, proposta ricostruttiva della terza fase della chiesa Fig. 9 - Olevano sul Tusciano, castello, chiesa di S. Maria, area del presbiterio 56 La Piana del Sele in età normanno-sveva tra i due spuntoni di roccia. Successivamente vi fu un primo ampliamento dell’insediamento (in età normanna?), fino alla grande fase di riconsiderazione delle strutture del castello: In questo momento (che possiamo indicare per comodità come III fase), si provvide a realizzare un grosso arco nella parete della torre della I fase (fig. 24). Contemporaneamente si edificò una nuova ala dell’edificio, appoggiata alla parete ovest della torre, che percorreva in direzione S l’intero corridoio naturale, fino allo spuntone di roccia meridionale, altri ambienti furono realizzati anche verso la roccia settentrionale fino a toccarla (fig. 25). Da questo lato fu realizzato anche l’accesso al complesso. La nuova ala si sviluppava in altezza per almeno tre livelli (fig. 23). Uno stretto corridoio che affacciava verso la valle, collegava gli ambienti dislocati al secondo piano. Il piano terra conserva nel primo ambiente tracce di affreschi policromi; si trattava forse della cappella del palazzo. Dall’altro lato della torre, verso la valle del Tusciano, si edificarono altri ambienti: in particolare di grande interesse e suggestione appare un’ampia aula rettangolare terminante in un grande fornice costruito, apparentemente senza chiusure, sullo strapiombo, in posizione dominante sulla stretta gola del fiume. Sulle pareti di questa aula si possono ancora osservare lacerti di raffinati affreschi policromi che riproducono motivi floreali. Un’altra aula più a S ad una sola navata con grandi finestre verso la valle, conclude verosimilmente la parte residenziale signorile. Con questa nuova disposizione dell’edificio la parete esterna dell’ala W funzionò quasi da muro di cinta, protetto dalle alte rupi calcaree a N e a S, quasi due torri naturali, anch’esse munite di strutture difensive, mentre la parte più qualificata architettonicamente era collocata sul lato del Tusciano di fronte alla Grotta di San Michele. In questa fase la dimora sommitale si configura come un vero e proprio palazzo con ampie sale e raffinati affreschi. Per alcuni elementi strutturali, quali i larghi archi acuti ancora visibili, è possibile datare ad età sveva questo intervento (prima metà XIII secolo) . A questo punto è interessante osservare come l’età sveva segni un deciso momento di svolta nelle vicende del castello di Olevano: si riqualifica la zona sommitale, si riconsiderano gli apprestamenti difensivi e, con ogni probabilità, si abbandona il borgo. E’ possibile trovare un filo che colleghi questi accadimenti? Forse è possibile fare un po’ di chiarezza ricorrendo alla documentazione di archivio. Le fonti scritte attestano, a partire dall’XI secolo, frequenti contrasti tra la Chiesa salernitana e gli abitanti di Olevano. Le controversie riguardavano 57 Gli insediamenti Fig. 23 - Olevano sul Tusciano, Castello, la residenza signorile (part.) Fig. 24 - Olevano sul Tusciano, Castello, la residenza signorile (part.) Fig. 25 - Olevano sul Tusciano, Castello, la residenza signorile 58 La Piana del Sele in età normanno-sveva questioni legate all’esercizio di alcuni poteri signorili, in particolare la proibizione per gli olevanesi di costruire mulini e trappeti, potenti simboli delle prerogative signorili arcivescovili ad Olevano e strumenti di controllo della produzione. La concentrazione di una parte della popolazione all’interno del castello indubbiamente consentiva al dominus, tra le altre cose, un controllo efficace sulla crescita e una pratica più comoda delle prerogative bannali. Intorno alla metà del XIII secolo l’antica signoria della Chiesa salernitana su Olevano è scossa dall’intromissione di un inatteso potere divenuto concorrente. Negli anni trenta del XIII secolo Federico II confisca il castrum Olibani alla Chiesa salernitana, ne fa un castrum exemptum, ossia posto sotto diretto controllo dell’imperatore, e lo affida ad uno dei suoi più fidati consiglieri, Ermanno di Salza324 . La morte nel 1239 del Maestro di Santa Maria dei Teutonici in Gerusalemme costringerà l’imperatore svevo ad affidare il castrum Olibani a Roderio de Rotunda325 . Solo nel 1255 il castrum Olibani verrà restituito all’arcivescovo di Salerno326 . E’ possibile che l’assenza dell’antico e, talora, oppressivo signore abbia offerto alla popolazione stanziata all’interno delle mura la possibilità di trasferirsi nei casali sottostanti il castello o forse fu proprio il nuovo signore di Olevano a favorire il trasferimento degli abitanti tra le colline: il villaggio abbandonato di Caprarizzo non lontano dal fiume Tusciano, le cui strutture in elevato ancora analizzabili sono assegnabili ad età sveva, potrebbe essere stato un prodotto di tale contingenza327 . In età sveva, come si evince dall’analisi della terza cinta muraria, si provvide a costruire ex novo le fortificazioni a controllo del nucleo signorile del castrum. Le ricognizioni effettuate nell’area del borgo e il rilievo topografico hanno evidenziato l’esistenza di ambienti rasati fin quasi alle fondazioni nella zona sottostante la terza cinta muraria, a differenza degli edifici della parte occidentale del borgo conservati in alzato anche fino al secondo livello. Si può ipotizzare una demolizione radicale degli edifici e la conseguente creazione di uno spazio libero da strutture murarie, avvenuta proprio in concomitanza con l’elevazione della cinta muraria di età sveva per motivi strategici: l’eventuale difesa della sommità del castello sarebbe stata indubbiamente più efficace. Venuta meno l’esigenza propriamente signorile di controllare parte della popolazione tra le mura del castrum si individuò probabilmente una funzione esclusivamente amministrativo-militare del castello di Olevano. In questo modo Federico II ottenne probabilmente il duplice Gli insediamenti 59 obbiettivo di limitare la potenza fondiario-territoriale dell’arcivescovo salernitano, privandolo del suo dominio più antico e importante, e di assicurarsi il favore della popolazione locale, ponendosi così nella tradizione della politica dei suoi predecessori normanni nei confronti delle grandi signorie ecclesiastiche328 . La presenza di un illustre castellano quale Ermanno di Salza, tra i consiglieri più ascoltati di Federico II e uno dei personaggi più eminenti nella storia dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici, giustificherebbe anche la costruzione di un vero e proprio palatium quale la rinnovata residenza castellana del XIII secolo appare sulla base dei ruderi ancora analizzabili. Ermanno era infatti, come si è accennato, uno dei primi consiglieri dell’imperatore Federico II, un personaggio straordinario, Gran Maestro dell’ordine di Santa Maria dei Teutonici, dal 1226 signore della Prussia, considerato uno dei fondatori di quello Stato. Le cronache narrano che Ermanno morì a Salerno la mattina di Pasqua del 1239329 . Non è improbabile però che la morte lo abbia colto proprio ad Olevano, nella sua residenza sul castello. Anche dopo la morte di Ermanno, l’ordine Teutonico pare continuasse ad esercitare il controllo sul castrum Olibani: così nel 1240 troviamo i frates Ugone e Wilganto custodi del castello, prima che venga consegnato a Roderio de Rotunda per volontà di Federico II330 e, ancora nel 1255 un Manegoldo Theutonico, dunque un cavaliere dell’ordine, detiene il castello e a questi l’arcivescovo di Salerno dovrà pagare ben 250 once d’oro se vorrà riscattarlo331 . La presenza di questi personaggi, in particolare di Ermanno, indica il posto di rilievo che il castello di Olevano doveva occupare nelle considerazioni dell’imperatore. L’esiguità della documentazione scritta non permette di dire oltre. Campagne di scavo sulla sommità del monte potranno forse fornire nuovi dati alla discussione. 2 - Il Castellum Evuli Di gran lunga più complessa risulta la vicenda del castello di Eboli in età normanno-sveva. Il centro castrense di Eboli sorge sul versante meridionale di una bassa collina (160 mls) a controllo della Piana del Sele. Tra le cause della sua fondazione vi dovettero essere considerazioni di carattere strategico; il bor- 60 La Piana del Sele in età normanno-sveva go di Eboli sorge infatti su di un colle a controllo della vecchia popilia e di percorsi che risalivano verso le valli del Tusciano, del Sele e l’agro giffonese da una parte e verso Capaccio e il Cilento dall’altra 332 . Del borgo normano-svevo rimane ben poco: le sovrapposizioni di età angioina, le modifiche urbanistiche cinquecentesce, e i successivi interventi di età moderna hanno lasciato solo qualche brandello dell’insediamento normanno-svevo. Il castellum Evuli delle fonti si configura a partire dall’XI secolo come un borgo fortificato definito da una cinta muraria con porte e case al suo interno333 . In età normanna si ha notizia della porta de la Terra334 , lungo il tratto meridionale delle mura, della porta di Sant’Elia335 , nei pressi del ponte che attraversava il Telegro non lontano dalla chiesa e della porta del castello, probabilmente l’accesso settentrionale al borgo336 . Su uno stipite lapideo di quest’ultima porta (in marmore porte olim castelli huius civitatis) era scolpito il passus che gli ufficiali ebolitani avevano stabilito come riferimento per la definizione delle misure nella circoscrizione ebolitana337 . Dai primi anni del XII secolo sono documentate abitazioni in muratura. all’interno del borgo338 . Non vi sono peraltro ancora riferimenti topografici che valgano a collocare la posizione delle abitazioni in aree precise del castello. A partire dalla fine degli anni ’20 del XII secolo la documentazione scritta ci offre un quadro del borgo organizzato in quartieri coincidenti con la distrettuazione parrocchiale. Nel 1128 per indicare la posizione di una mansionem fabricatam... infra castrum Evuli si fa riferimento alla circoscrizione parrocchiale di Sant’Angelo339 , appena a sud est della residenza del castellano. La coincidenza tra il quartiere e il distretto parrocchiale risulta ancora più chiaro in un documento del 1135 in cui si fa riferimento ad una casa di legno intus muro de castello Evuli nel vico San Lorenzo340 , sede dell’omonima parrocchia341 nel cuore del borgo. Negli stessi anni si trova menzione di case nella circoscrizione parrocchiale di San Nicola dei Greci342 . Una delle parrocchie più importanti di Eboli era quella di Santa Maria detta ad Intra, anch’essa punto di riferimento di un quartiere intramurano attestato dal 1161 nella parte occidentale del borgo343 . Una delle prime parrocchie ebolitane dovette essere San Marco, chiesa ricordata dalle fonti scritte a partire dal 1132344 , anch’essa riferimento di un quartiere di Eboli345 , così come San Giovanni ricordata dal 1161346 . Questa disposizione urbanistica organizzata in quartieri coincidenti con le circoscrizioni parrocchiali è giunta praticamente integra fino agli inizi degli anni ’40 dello scorso secolo347 . La tipologia delle case all’interno delle mura del borgo risulta abbastanza Gli insediamenti 61 varia; se le case in legno sembrano scomparire dopo il 1135348 , nei quartieri ebolitani convivono dimore terranee (su un solo livello) e solarate (ossia su due livelli), quando nella documentazione si specifica la natura delle altrimenti semplici casae. Questo almeno fino alla metà del XII secolo, quando si assiste ad una evidente crescita della densità insediativa intramurana, in particolare nei quartieri di San Lorenzo e San Nicola dove la documentazione disponibile è più abbondante, con una tendenza allo sviluppo verticale delle abitazioni349 . Le vecchie case su un solo livello vengono innalzate: così ad esempio nel 1191 il vestarario di Cava Pietro concede a Roberto e ai suoi figli una casa terranea nella parrocchia di San Lorenzo che i concessionari dovranno riparare, sopraelevare e coprire con tegole (bene aptant et preparent et in solium erigant et eam de tigulis cooperiant)350 . Queste abitazioni su più livelli sono provviste spesso di scale in muratura esterne e possono avere come dotazione foveas, ossia fosse per immagazzinare e conservare prodotti agricoli o altro351 . Talvolta ci si imbatte in dimore che spiccano per la qualificazione architettonica più rimarchevole, come quel palatium nel distretto di Santa Maria ad Intra che il ricco notaio Silvestro nel 1242 lascia in eredità alla moglie352 . Si trattava probabilmente di un elemento di manifestazione del prestigio sociale di Silvestro, il quale accanto alla sua residenza aveva edificato, o forse acquistato, altre due abitazioni più modeste353 , che andavano a formare un piccolo complesso palaziale non lontano dalla dimora dei signori di Eboli, divenuta in quegli anni domus imperiale354 . All’interno delle mura è testimoniato nell’XI secolo un mercato legato forse anche alla produzione e alla vendita di panni colorati le cui decime nel 1090 Roberto conte di Principato, dona alla Chiesa salernitana insieme all’esenzione per i suoi rappresentanti e per i suoi vassalli dal pagamento del dazio per le merci esitate o acquistate nel territorio e nel castello, unitamente alla concessione di istituire al suo interno una curia dove giudicare i propri homines dimoranti nel distretto355 . Fuori dalle mura del castello si formano ben presto sobborghi. In uno di questi si insediano anche artigiani come quel Petrus magister figulorum che prima del 1090 possedeva una casa foris murum castelli, nelle vicinanze della porta que de la terra dicitur356 . Appena al di là delle mura del castello la toponomastica sembrerebbe indicare il primo luogo dello stanziamento longobardo con l’attestazione nel 1047 della contrada ubi Barbuti dicitur357 , memoria forse di un nucleo di guerrieri stanziatosi fuori dalla città romana, 62 La Piana del Sele in età normanno-sveva o di ciò che di essa restava, al momento della conquista longobarda della piana del Sele ai tempi di Arechi I (anni intorno al 630) 358 . Nelle terre intorno al castello sono menzionate nella documentazione scritta, chiese quali San Pietro Apostolo359 , mentre probabilmente lungo il Telegro sorgeva la chiesa oggi scomparsa di San Nicandro, attestata per la prima volta nel 1083360 . Il primo sobborgo (foris muro de castello Evuli) identificato dalle carte con una denominazione precisa è il vicus Sancti Nycolai nel 1126, ma nella documentazione successiva se ne perdono le tracce361 . Le case sparse fuori dalle mura ben presto si organizzano in nuclei accentrati che si identificano con la parrocchia, come accadeva all’interno delle mura. Così già nel 1160 troviamo menzione di case in muratura foras murum de castello Evoli nelle pertinenze plebanali della parrocchia di San Matteo362 , sotto le mura orientali. In località Francavilla, nei pressi della località Pendino363 , sotto il muro meridionale del borgo al di là del fossato (carbonarium), vi erano le case gravitanti intorno alla parrocchia di San Bartolomeo, ricordata a partire dal 1168364 . Per questa zona abbiamo numerose attestazioni di abitazioni a partire dalla fine dell’XI secolo365 . L’agglomerato appare compatto366 , sviluppatosi probabilmente lungo il diverticolo che dalla direttrice Ponte SeleBattipaglia, tratto dell’antica Reggio-Capua, giungeva ad Eboli367 . La tipologia delle abitazioni nella parrocchia di San Bartolomeo non differisce da quanto già osservato per le case all’interno delle mura. Anche qui nel XII secolo non si rinvengono attestazioni esplicite di case di legno, e accanto a case terranee368 si rinvengono case solarate 369 . Le case del quartiere nel XII secolo possono avere uno slargo antistante, una sorta di cortlile370 , scale in muratura371 , oppure una vigna di pertinenza372 o, ancora, un orto retrostante373 . Tra gli abitanti del sobborgo si riscontrano personaggi giunti ad Eboli dai territori limitrofi quali Leone di Polla374 , Giovanni di Capaccio375 o i discendenti di Giovanni del Tusciano376 Altra parrocchia fuori dalle mura era San Giorgio iusta muros Evoli377 , nei pressi del quartiere di San Bartolomeo. Anche qui, come altrove, l’edificio sacro, ricordato come pieve già nel 1169, diventa nucleo aggregante di un sobborgo, tanto che quest’ultimo si identifica con la chiesa378 . Se già dal 1169 si ha notizia di abitazioni nella circoscrizione, a partire dal XIII secolo le attestazioni si fanno molto numerose, addirittura con la menzione di un palazzo nel 1222379 . Nel XIII secolo si ha notizia di un importante insediamento Verginiano extramurano che ebbe come punto focale un ospedale380 , Gli insediamenti 63 oltre a proprietà del monastero salernitano di San Leonardo381 . Alcuni elementi quali la presenza di orti e di abitazioni fornite di attrezzature specifiche per le produzioni agrarie come il palmentum per la vinificazione e il rotilio, probabilmente una piccola ruota per azionare una macina382 , lasciano trasparire la connotazione ancora rurale del sito. Anche qui come nella parrocchia di San Bartolomeo, sono attestati residenti provenienti dalle terre circonvicine, come Marco Cortesano del Tusciano383 o Domenico di Licianiano384 . S. Elia, lungo la strada che da oriente entrava ad Eboli, costituisce un altro aggregato extramurano di Eboli385 . La via che entrava ad Eboli da questa zona scavalcava il torrente Telegro attraverso un ponte detto Ponte di Sant’Elia386 . L’insediamento si estendeva lungo un areale compreso tra le mura orientali e le terre sulla riva sinistra del torrente Telegro, non lontano dalla chiesa omonima fondata ai tempi dell’arcivescovo salenitano Alfano II387 . In questo quartiere la densità insediativa doveva essere alquanto bassa: le case ricordate infatti risultano spesso circondate da vigneti, ulivi, alberi fruttiferi388 , elementi che forniscono l’idea di una campagna con qualche edificio sparso tra coltivi piuttosto che di un sobborgo accentrato come S. Bartolomeo. Non molto diverso doveva essere l’agglomerato di case sorto intorno alla parrocchia della Santissima Trinità, al di là del Telegro. Si tratta con ogni probabilità dell’abitato periurbano più recente, relativamente al periodo qui considerato, di Eboli. La chiesa della Trinità è ricordata a partire dal 1172, ma in questi anni la zona risulta interessata esclusivamente da coltivazioni389 . Abitazioni sono menzionate nella circoscrizione della Santissima Trinità solo a partire dal 1221390 e alla metà del XIII secolo, accanto a qualche abitazione, sussistono ancora rigogliosi oliveti391, segno della marginalità urbanistica dell’area. Furono questi i quartieri in cui si insediarono uomini provenienti dalle campagne. La documentazione scritta ricorda anche forestieri residenti ad Eboli originari di terre lontane: nel XIII secolo si ricordano personaggi denominati de Normannia; nel 1222 abita nel borgo un Bartolomeo di Normandia392 nel 1237 è menzionato un Pietro di Normandia393 e nel 1240 Benvenuto di Normandia acquista una vigna a Moreno di Eboli394. Altri personaggi provenienti dalla Francia risiedevano a Eboli, come quel Guglielmo che nel 1223 dona un suo servo con la famiglia all’abbazia di Cava395. Dalla Francia doveva provenire anche Pietro di Landone che nel 1135 riceve dal- 64 La Piana del Sele in età normanno-sveva l’abate di Cava 24 tarì in cambio di una terra a Campitella nei pressi di Eboli: con quella cifra Pietro potrà transsalpinare e raggiungere così i suoi parenti oltralpe, precisando che nello spazio di quattro mesi contava di ritornare ad Eboli396 . Non mancavano a Eboli personaggi di provenienza oltremarina come quel presbitero Ruggiero di Gerusalemme che appare come testimone in due documenti del 1241 397 e come compratore di una casa ad Eboli nel 1250398 . Un Matteo e un Petrone de Florenza sono ricordati in due documenti ebolitani del XIII secolo399 ., mentre un Pietro di Venezia è ricordato in due documenti della metà dello stesso secolo400 . Da quanto visto risulta evidente come la ragione principale del dilatarsi degli spazi abitativi intorno alle mura di Eboli sia da ricercare in un accrescimento della popolazione che nel corso del XII secolo interessò tanto il castello quanto il territorio: un movimento di uomini dalle campagne verso il borgo cui corrisponde un incremento del popolamento rurale, proprio in quegli anni riorganizzato in comunità di villaggio, sottointende una crescita demografica generalizzata non quantificabile con precisione, ma che, alla luce dei numerosi quartieri extraurbani, dové essere molto consistente. La cinta muraria non fu più sufficiente, già nel corso dei primi decenni del XII secolo, a contenere crescita demografica e la popolazione che si riversava su Eboli. La sopraelevazione delle case esistenti, ben documentata, come detto, nel XII secolo, non bastava a rispondere alle nuove esigenze abitative. In conseguenza di ciò nel XIII secolo vi erano quartieri intramurani in cui le case si affastellavano l’una accanto all’altra senza spazi o vie a dividerle401 . La mancanza di spazi all’interno della cinta è confermata anche dall’assenza nella documentazione di citazioni di appezzamenti di terreno liberi. Di qui la formazione dei nuclei extraurbani, strutturati sempre attorno ad una chiesa con funzioni plebanali, sintomo di una crescita in qualche modo controllata e organizzata anche dal punto di vista della cura d’anime. La vecchia cinta muraria, probabilmente elevata in età longobarda, rinserrò rigidamente l’abitato al suo interno: forse l’esigenza di avere un ricetto relativamente contenuto e, dunque, meglio difendibile o le limitazioni imposte dalla natura del colle che non permetteva facilmente l’espansione al di là della vecchia cinta, furono le cause che non consentirono un ampliamento fino a tutta l’età sveva. Il borgo presentava in età normanno-sveva una strutturazione triangolare dell’insediamento con il vertice superiore costituito dal castello402 (fig. 16). Alcune tracce della muratura originaria nella zona Gli insediamenti 65 N-E del borgo si possono osservare non lontano dal castello: si tratta di lacerti costituiti da conci calcarei locali irregolari di media e piccola dimensione, con l’inserimento di qualche blocco marmoreo ben squadrato di età romana riutilizzato e frammenti fittili di risulta legati da una malta tenace. Dalla documentazione è possibile abbozzare una dinamica dell’insediamento che possiamo definire suburbano. Il primo nucleo di insediamento sembra essere, come si è visto, dislocato nei pressi della porta della Terra, il quartiere di San Bartolomeo delle carte del pieno XII secolo, seguito dalla zona contigua di San Giorgio. Questi due quartieri formano il nucleo extramurano in cui le abitazioni si dispongono in maniera più compatta, segno di una preferenza accordata a quest’area, interessata dal passaggio della via principale che conduceva all’interno delle mura, mentre i nuclei ad est delle mura si caratterizzano lungo tutto il periodo considerato per una marcata dispersione insediativa. Il forte dislivello che caratterizza la zona al di sotto della Ripa (così ricordata nella documentazione scritta403 per il forte scoscendimento) al di là delle mura occidentali del castello, non permise la creazione di un abitato e, di conseguenza, neppure l’istituzione di una parrocchia. E’ interessante notare come la denominazione distrettuale si precisi nel territorio di Eboli pressoché sincronicamente negli ambiti intramurani e extramurani, con l’indicazione di quartieri, e rurali, con l’emergere dei casali, intorno alla metà del XII secolo. Si tratta della testimonianza di un processo di razionalizzazione del controllo del territorio ebolitano, da poco rientrato sotto il dominio diretto del conte di Principato dopo l’estinzione con Roberto di Eboli della famiglia De Mulisi-Trincanotte. La precisazione degli ambiti circoscrizionali urbani e rurali a Eboli costituisce il riflesso di una società che diviene sempre più complessa e di mutamenti profondi nelle strutture di potere, laico ed ecclesiastico, che in quegli stessi anni interessavano il Salernitano e il Mezzogiorno d’Italia. Come ben evidenziò Bruno Ruggiero, fu l’arcivescovo Alfano I alla fine dell’XI secolo ad avviare con ogni probabilità la riorganizzazione complessiva dell’arcidiocesi di Salerno attraverso l’istituzione di un reticolo circoscrizionale plebanale coerente, con chierici subordinati direttamente all’ordinario diocesano. Entro i primi decenni del XII secolo l’opera di strutturazione degli ambiti circoscrizionali diocesani appare completata, tanto che nel 1169 la Chiesa salernitana risulta ormai saldamente articolata al suo interno in 8 archipresbyteratus da cui dipendono le varie circoscrizioni parrocchiali sul territorio404 e di cui una aveva sede proprio ad Eboli405 . 66 La Piana del Sele in età normanno-sveva Il ristabilimento di un puntuale sistema di gerarchia dei carismi nella diocesi di Salerno, che provocò, tra l’altro, la crisi definitiva dell’istituto della Eigenkirche (chiesa privata), ebbe come riflesso sul territorio e, in particolare, nel castello di Eboli, l’intensa diffusione dell’istituto parrocchiale, con le circoscrizioni testimoniate dalle carte. La ripartizione delle aree del borgo in funzione della cura pastorale servì come riferimento comodo e razionale alla determinazione dei quartieri, prima anonimi. L’importanza degli edifici plebani si coglie anche nell’uso di riunire in essi le assemblee o le corti giudicanti: in particolare nell’atrio della chiesa di San Marco la comunitas Ebuli, come risulta da un atto del 1220406 , mentre, come si evidenzia in un documento del 1216,il catapano di Eboli teneva corte nella chiesa di San Nicola407 e il baiulo Domenico giudicava nel 1224 nella chiesa di San Matteo408 . 3 - Il castelluccio di Battipaglia L’altro castello di cui sono riconoscibili tracce relative al periodo di cui trattiamo nel territorio è il castelluccium de Battipalla, un fortilizio a controllo della Piana e della valle del Tusciano. Le prime testimonianze scritte dell’esitenza del castelluccio rimontano al 1080: Roberto il Guiscardo in un documento di conferma alla chiesa di Salerno, tra le altre cose ricorda la castelluccia Battipalle. Nel 1181, in una donazione di terre presso il Tusciano si fa riferimento come confine al muro antico della terra di Castelluccio409 . Questo riferimento fa trasparire la presenza di un villaggio (terra nella documentazione di età normanna) circondato probabilmente da un muro (il muro antico della terra); si tratta del murus qui dicitur de Battipalia ricordato in una compravendita del 1186410 . La fortificazione è ricordata anche nell’inventario federiciano dei castelli del 123031411 . Nel 1251 Bertoldo di Hohemburg, principe di Taranto e Governatore del Principato di Salerno, stabilisce che il castelluccio e il casale di Battipaglia vengano restituiti alla Chiesa salernitana. Nel documento si specifica come il castrum quod castellucium nominatur, fosse stato usurpato alla Chiesa salernitana dal conte Marcovaldo d’Anweiler che aveva provveduto ad una ricostruzione del fortilizio412 . Nel maggio dello stesso anno Alberto di Reggio custos del castello restituisce castelluccio e casale, consegnado le chiavi del castello con lo stesso, le torri e gli edifici, la cappella e le officine al giudice Matteo de Simone, ufficiale della chiesa salernitana413 . Gli insediamenti 67 Il fortilizio risulta aver subito profonde modifiche nel corso del secolo scorso. Ciò nonostante è possibile osservare in esso parti della struttura medievale. Si può considerare il recinto murario retrostante l’attuale facciata dell’edificio, costruito nel XIII secolo: si tratta di una corte merlata difesa da una alta torre a pianta quadrata con saettiere (figg. 10, 10b). La tipologia della torre rimanda a esempi di fortificazioni di età sveva presenti nel territorio campano: a Cancello, a Mercato San Severino, a Eboli, a Campagna e ad Olevano. Si tratta con ogni probabilità del castello ricostruito dal conte svevo Marcovaldo a cavallo del 1200 e restituito alla Chiesa salernitana nel 1251. La fortezza assumeva compiti di controllo su un importante snodo viario: da una parte infatti controllava la via che veniva da Eboli, un antico percorso di età romana ripristinato nel Medioevo che metteva in comunicazione queste terre con Salerno414 , dall’altra sorvegliava il percorso parallelo alla valle del Tusciano che conduceva ad Olevano e da qui verso l’Irpinia e la Puglia. Ma la funzione del castelluccio non era esclusivamente militare. Il fortilizio si configurava anche come centro di potere politico ed economico. Il controllo sul circostante casale ne fa emergere l’aspetto organizzativo: come residenza di un castellano ufficiale della Chiesa di Salerno cui gli abitanti afferivano la sua funzione, doveva espletare anche compiti di tipo economico, quali la raccolta di quanto dovuto dagli abitanti del casale Battipaglia per la coltivazione delle terre dell’arcivescovo, il controllo sulle loro attività, la riscossione dei dazi di carattere pubblico derivanti dalla condizione di vassallaggio alla chiesa salernitana. Un organismo complesso che forse doveva assumere anche compiti di protezione della popolazione in caso di pericolo. 4 - I castelli tra le colline di Eboli Uno dei dati più impressionati che emerge dalla lettura della già menzionata carta del 1164, fatta redarre dall’arcivescovo salernitano Romualdo II per individuare con precisione i beni dell’arciepiscopio tra Monte e Campagna, è indubbiamente il gran numero di castelli indicati dai ricognitori415 . Detto già nel paragrafo relativo ai casali di Monte e del suo castello, di cui purtroppo non sopravvivono tracce materiali, è ragionevole supporre l’erezione di queste strutture, già in rovina nel 1164, in età longobarda416 . Non 68 La Piana del Sele in età normanno-sveva Fig. 10 - Battipaglia, la Castelluccia Fig. 10b - Battipaglia, la Castelluccia, particolare della torre angolare del recinto Gli insediamenti 69 distante da Monte si elevava il castellum dirutum quod dicitur de Sancta Teccla417 , un fortilizio costruito probabilmente sul Montedoro di Eboli, colle detto anche Santa Tecchia fino al XIX secolo418 , distante meno di 400 metri in linea d’aria dal borgo medievale di Eboli. Procedendo verso Campagna i ricognitori del 1164 incontrano altre chiese, Santa Lucia e Sant’Antonino419 , poco distanti dal castellum dirutum quod de Pancia dictum est420 , sotto il quale c’è la chiesa in parte diruta di Sant’Agata. Giunti in loco Furano, nella contrada Truncito, vicino alla chiesa di Sant’Angelo, si trova il castellum dirutum quod de Alegjsio dicitur421 . Di qui infine i ricognitori giungono a Campagna422 . Castelli abbandonati insieme a chiese in gran parte dirute marcano il paesaggio collinare tra Eboli e Campagna nel XII secolo, con ogni probabilità resti di insediamenti già attivi prima della conquista normanna, come pare si possa evincere anche dall’onomastica longobarda dei loro antichi possessori, Rainaldo a Monte, Alegjsio a Furano. Ciò che indubbiamente più colpisce nello scenario tracciato dal documento del 1164 è il numero impressionante di castelli che si addensano tra Monte e Furano, almeno quattro423 e tutti abbandonati nello spazio di circa 5 km. c) I luoghi di culto: sopravvivenze normanno-sveve nelle chiese e nei santuari tra il Tusciano e il Sele 1) Eboli San Pietro Apostolo L’abbazia di San Pietro Apostolo detta ‘Alli marmi’ sorge sul colle alle spalle del castello di Eboli, lungo un antico percorso che da Eboli conduceva ad Olevano e a Campagna. La prima notizia relativa all’esistenza del monastero di San Pietro Apostolo risalirebbe al 1090. In un documento conservato presso l’archivio della sant.ma Trinità di Cava si ricorda come capo della comunità abbaziale un tale Gregorio424 . Tuttavia il documento del 1090 per alcune caratteristiche paleografiche è da ritenersi sospetto di adulterazione425 . La prima attestazione scritta che può essere presa in qualche modo in considerazione risale al 1105426 , ma solo a partire dal 1156 si ha la certezza documentaria assoluta 70 La Piana del Sele in età normanno-sveva dell’esistenza del cenobio; un’iscrizione posta presso l’ingresso meridionale della chiesa recita infatti così: Guillelmi Regis, Antistitis et Romualdi Temporibus, Domus haec aedificata fuit. Abbas istud opus Venerabilis ille Joannes Fecit, laus cuius est probitate minor: muros studiosi Bartholomaei fecit; materiam sed superavit opus MCL Sexto427 (fig. 14 bis) . Sarebbe stato dunque l’abate Giovanni a far elevare la chiesa nel 1156 ai tempi del re Guglielmo I e dell’arcivescovo salernitano Romualdo II Guarna. Quest’ultimo nel 1160 ratifica l’elezione di Pietro ad abate di San Pietro, precisando come il cenobio sia soggetto alla sede Salernitana, confermandone le pertinenze intra castellum Eboli ecclesiam sancti Iohannis, ecclesiam sancti Leonis, ecclesiam sancti Nicolay. In territorio ebolense ecclesiam sancti Viti senioris et Sancti Viti Iunioris ecclesiam sancti Andree, ecclesiam sancte Cecilie, ecclesiam sancti Nicolai ad mercatellum e altre chiese in Dolicaria e a Campagna con i loro possedimenti428 . Da questo documento si evince come il monastero fosse soggetto all’arcivescovo di Salerno e come ne amministrasse almeno parte delle chiese non incardinate direttamente al sistema plebanale del territorio ebolitano429 e i relativi patrimoni. La dipendenza dall’ordinario salernitano è confermata da successivi privilegi pontifici e imperiali430 . Si tratta indubbiamente della maggiore dipendenza ecclesiastica dell’arcivescovo salernitano nel territorio di Eboli. La circostanza che l’abate di San Pietro compaia tra XII e XIII secolo nelle questioni che vedono coinvolte la Cattedra di San Bonosio in queste terre431 , lascia trasparire che questi fungesse in qualche modo da rappresentante degli interessi del metropolita salernitano ad Eboli forse ancor più del locale arciprete. Attualmente il complesso monastico di San Pietro Apostolo si presenta come il risultato di una serie di interventi succedutisi nel corso di circa 800 anni. I numerosi rimaneggiamenti subiti durante la sua vicenda ne rendono difficile una lettura diacronica puntuale432 . L’edificio monastico di San Pietro conserva solo in parte testimonianze materiali relative al periodo considerato. In particolare queste ultime si possono individuare nell’edificio ecclesiastico e nella piccola cappella di San Berniero (fig. 11). La chiesa di San Pietro presenta una pianta basilicale senza transetto scandita da tre navate separate da una duplice serie di arcate a tutto sesto poggianti su colonne (sei per parte). Le colonne furono reimpiegate, probabilmente trasportate, almeno in parte, da un edificio tardoromano, datazione 71 Gli insediamenti Fig. 11 - Eboli, San Pietro Apostolo, planimetria della chiesa abbaziale e della cappella di San Berniero Fig. 12 - Eboli, San Pietro Apostolo, il campanile 72 La Piana del Sele in età normanno-sveva che si deduce dalla decorazione di alcuni capitelli, forse una chiesa. Il presbiterio risulta articolato in tre vani conclusi da absidi semicircolari; L’abside centrale è incastonata tra due colonne poste negli angoli. Le navate erano preceduta da un esonartece, coperto da volte a crociera acuta. L’edificio, escluso il nartece, è lungo 23, 30 metri ed è largo 9,20 metri. Una scala ricavata nella navata destra, poggiante sulla parete laterale, conduce ad una cripta. Il soccorpo, a pianta rettangolare coperto da volte a crociera, occupa circa un terzo dell’edificio superiore e ne ripropone la terminazione triabsidata. In parte inglobato nella navata destra, un campanile a pianta quasi quadrata (m. 4,60 x m.4,20), articolato su 3 livelli, si eleva per 18,80 metri. La torre è conclusa da un tamburo anulare coperto da una semicupola. Il manufatto risulta scandito all’esterno da due fasce decorative, la prima, definita in alto e in basso da una cornice di laterizi, è costituita da una semplice serie di losanghe in tufo grigio intervallate da semilosanghe in laterizio. Relativamente più complessa risulta la fascia superiore: qui la medesima tarsia muraria della fascia inferiore è delimitata da un gioco di laterizi posti di taglio a 45° a formare del V affiancate. Le ghiere delle bifore al secondo livello sono decorate con elementi in tufo grigio e mattoni alternati (fig. 12). Tarsie analoghe si rinvengono sull’estradosso delle absidi. Il tipo di decorazione a tarsie policrome trova confronti con le decorazioni di età normanna ad esempio nel quadriportico della cattedrale di Salerno (fine XI secolo-anni ‘30 XII secolo)433 , ma il tipo continua ad essere riproposto fino a tutto il XII secolo e anche oltre434 . Interessante risulta anche la tipologia del campanile che trova analogie formali con il monumentale campanile della cattedrale di Salerno fatto erigere dall’arcivescivo Guglielmo (1137-1152)435 , in particolare nell’adozione della cella campanaria finale con tamburo circolare su vano quadrato terminante con una cupoletta, sebbene il manufatto ebolitano si caratterizzi per una decorazione molto più semplice. Le dodici monofore che davano luce alla basilica erano coperte da transenne in stucco (fig. 13); di queste solo due possono ritenersi originarie mentre le altre sono il frutto dei restauri del Chierici436 . L’ornato del traforo presenta accostamenti di elementi semplici quali rosette, ogive e croci greche, potenziate e di sant’Andrea mescolate in un intricato gioco in cui di volta in volta i pieni predominano sui vuoti e viceversa formando figure differenti a secondo del prevalere ora dell’uno ora dell’altro. Difficile trovare confronti nell’area campana: se un precedente generico può essere indi- 73 Gli insediamenti Fig. 13 - Eboli, San Pietro Apostolo, finestra in stucco Fig. 14 - Eboli, San Pietro Apostolo, chiesa abbaziale, affresco (XII sec.) 74 La Piana del Sele in età normanno-sveva cato con le transenne di Santa Maria di Compulteria, la distanza cronologica437 e l’evidente differenza concettuale non permettono di tracciare alcuna linea di derivazione. Probabilmente raffronti più plausibili possono istituirsi con alcune transenne di finestra di area capuana, ad esempio la transenna di monofora nella chiesa Di San Benedetto a Capua (XI sec.)438 , o di area pugliese, quali la transenna di una monofora sulla fiancata settentrionale della chiesa di San Leonardo a Siponto (seconda metà del XII secolo)439 , fino ad arrivare alla transenna conservata presso lo spazio museale della Zisa a Palermo (XII sec.)440 . E’ proprio alla tradizione delle transenne normanno-palermitane che gli autori delle nostre monofore sembrano essersi ispirati, utilizzando una decorazione a piccoli trafori geometrici piuttosto che fori circolari propri della cultura bizantina441 . All’interno della chiesa sul muro absidale di destra si scorge un affresco effigiante la testa di un santo (fig. 14). Lo stile richiama realizzazioni del pieno XII secolo442 . Lo stile del lacerto e i confronti sembrerebbero indicare una matrice bizantina nella cultura artistica del frescante, piuttosto che ‘occidentale’: chiara la differenza con coevi esempi salernitani (ad es. affreschi nell’ipogeo di san Pietro a Corte o nello stesso Duomo), mentre, come si è visto, le affinità più stringenti si possono individuare in realizzazioni di frescanti di cultura bizantina operanti in Calabria e in Basilicata. Della chiesa conosciamo anche l’architetto, il Bartolomeo dell’iscrizione, fatto abbastanza raro nel territorio salernitano in questi anni. Si tratta di un nome abbastanza comune nella Eboli di XII secolo443 , ma di questo personaggio non troviamo traccia sicura nelle carte ebolitane. Sappiamo che ad Eboli esisteva una classe numericamente abbastanza cospicua di fabricatores e qualche maestro di mura in età normanno-sveva444 , ma forse questo Bartolomeo proveniva da altro luogo. La circostanza che si ricordò la sua opera nell’epigrafe dedicatoria attesta, oltre il prestigio del magister, come nella percezione della committenza vi fosse la consapevolezza dell’importanza dell’opera, che andava a dare lustro anche all’esecutore445 . La tipologia architettonica, lo stile delle decorazioni e l’affresco convergono nell’indicare nel XII secolo la datazione della chiesa446 in accordo con la già ricordata iscrizione dell’abate Giovanni. Tuttavia l’iscrizione si riferisce probabilmente ad una ricostruzione dell’edificio precedente447 . Tale ipotesi se non trova agganci sicuri nella documentazione scritta può essere verificata osservando le relazioni tra le strutture della basilica e del campanile. Di grande interesse in tal senso risulta l’anomalo posizionamento di quest’ultimo ri- Gli insediamenti 75 spetto alla fabbrica dell’edificio basilicale: dalla planimetria emerge infatti con evidenzia il differente asse di orientamento rispetto al quale furono realizzati i due edifici, circostanza che lascia trapelare due fasi costruttive distinte nel complesso descritto. Fu la chiesa ad adattarsi al campanile preesistente ed in parte inglobarlo: l’osservazione della relazione tra la base della prima colonna della navata di destra, poggiante in maniera evidente sulla muratura del campanile, così come l’esonartece e la presenza di una finestra tompagnata sul lato est del campanile inglobato nella navata (fig. 15) non lasciano dubbi sulla successione cronologica degli interventi. E’ probabile che il campanile fosse funzionale ad un altro edificio forse demolito per far posto all’attuale chiesa. Si spiegherebbe così anche l’iscrizione dedicatoria del 1156, che in questo caso fornisce un importante termine ante quem per l’elevazione del campanile. Del resto anche la semplicità delle decorazioni del campanile con l’assenza, ad esempio, di elementi decorativi quali archi intrecciati ormai diffusi nella seconda metà del XII secolo, lascerebbero pensare ad una datazione tra fine XI e primi decenni del XII. Nella zona immediatamente sottostante la fiancata destra della chiesa è posta la cappella di San Berniero. Nel gennaio del 2003 a seguito di un forte temporale si è verificato il cedimento di parte del muro di contenimento che delimitava a sud il piazzale antistante l’ingresso meridionale alla basilica. L’evento ha svelato il fianco sud della cappella. La fiancata è caratterizzata da una serie di archetti ciechi a tutto sesto rialzati databili all’ XI- XII secolo. Se la facciata della cappella risulta frutto di un recente restauro, l’interno conserva una copertura a volte a crociera databile al XII-XIII secolo. Rimane la domanda su cosa fosse in origine la cappella di San Berniero. Forse il sacello che conteneva le reliquie del santo prima della deposizione nella cripta della chiesa attuale448 ? Si tratta di una domanda alla quale non si può fornire al momento risposta. La circostanza che la cappella di San Berniero presenti un asse di orientamento differente dalla chiesa attuale, ma compatibile con il campanile lascia ipotizzare una realizzazione funzionale all’assetto potremmo dire ‘preromualdiano’ del complesso (ante 1156), forse un sacello annesso, elemento che potrebbe corroborare l’ipotesi dell’esistenza di una chiesa precedente all’attuale. La chiesa ebolitana rivela, si è visto, una serie di apporti culturali diversi che possiamo definire longobardo-cassinensi, bizantini e arabi, circostanza che ne fa un esempio singolare nel panorama campano, in particolare per l’adozione di un tipo di transenna del tutto estraneo alla cultura artistica 76 La Piana del Sele in età normanno-sveva Fig. 14bis - Eboli, San Pietro Apostolo, epigrafe del 1156 Fig. 15 - Eboli, San Pietro Apostolo, interno dell’abbaziale ai tempi del restauro Gli insediamenti 77 locale. A determinare questa opzione ecclettica fu certamente la volontà della committenza. In particolare ritengo che un ruolo fondamentale in questa scelta sia da attribuire all’arcivescovo Romualdo II Guarna (1153-1180) che compare nell’iscrizione dedicatoria accanto al re Guglierlmo I, anche se ufficialmente non risulta come committente. Come è noto Romualdo fu molto legato alla corte palermitana fin dagli inizi della sua missione pastorale449 e doveva ben conoscere le importanti realizzazioni architettoniche che si erano compiute e che in quegli anni si andavano eseguendo a Palermo. In particolare la cappella palatina voluta da Ruggiero II nella sua capitale, dove elementi bizantini ed arabi si intrecciavano dando vita ad un organismo architettonico originale450 o la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, dovevano aver colpito l’attenzione dello storiografo salernitano. E’ indubitabile che esperienze artistiche siciliane siano operanti in alcune opere commissionate da Romualdo II per il duomo di Salerno, come il celebre ambone “Guarna”451 . Non appare così inverosimile che le suggestioni siciliane abbiano influenzato la realizzazione della basilica ebolitana di San Pietro. Chiaramente nulla di paragonabile in termini di magnificenza e di profusione di materiali preziosi con la costruzioni sfavillanti di Ruggero II, ma ciò che conta è l’adesione a un modello e a una corrente di gusto che, quantomeno nell’adozione del tipo di transenne, non mi sembra avere altro referente se non la Palermo di quegli anni452 . Il richiamo culturale a Palermo nella chiesa di San Pietro e l’apposizione al suo interno di un’iscrizione dedicatoria dove il sovrano compare pienamente legittimato nel suo ruolo, potrebbe essere inteso come il rafforzamento di un ponte che l’ arcivescovo in quegli anni andava ricostruendo tra queste terre e la dinastia palermitana, soprattutto se si tiene conto della situazione politica da poco pacificata 453 . San Pietro apostolo di Eboli dunque come manifesto del legame tra Guglielmo e Romualdo, tra Regno e Chiesa salernitana, negli stessi anni in cui anche grazie all’opera di Romualdo, il pontefice Adriano IV riconosceva Guglielmo re di Sicilia454 . Ma anche manifesto del legame tra la Chiesa salernitana e Eboli, la più importante circoscrizione arcipresbiterale di Romualdo, già centro nodale dei domini di Guglielmo III di Principato, ribelle anch’egli al congiunto Guglielmo I. E’ interessante notare come nell’iscrizione di San Pietro si specifichino in maniera precisa i ruoli: se la committenza è da individuarsi nell’ambito ecclesiastico, l’architetto, nel senso di colui che operò sia alla progettazione che alla realizzazione (studiosus) è Bartolomeo; si tratta di un documento 78 La Piana del Sele in età normanno-sveva importante perché testimonia in maniera evidente come i due aspetti (committenza e progettazione) dell’operazione fossero ben distinti. Tuttavia il committente fissò perlomeno le linee programmatiche dell’opera e ne definì alcune caratteristiche (ad es. le finestre), come pare potersi dedurre da quanto discusso sopra. La planimetria, la spazialità e gli elementi sintattici dell’architettura che definiscono la basilica ebolitana concorrono nel collocare l’edificio pienamente all’interno della grande corrente architettonica del romanico-desideriano. Il raffronto più vicino con il nostro edificio, per quanto riguarda la spazialità, è senza dubbio con la basilica romanica dell’Annunziata a Paestum datata all’XI-XII secolo455 . Anche qui l’icnografia si sviluppa su tre navate, divise da due file di colonne libere (sei per lato), concluse da tre absidi semicircolari. Come ad Eboli la chiesa pestana è priva di transetto e presenta il motivo delle colonne negli angoli dell’abside centrale, con la differenza che qui manca il nartece. Anche le dimensioni e le proporzioni sono in parte analoghe (26,6 x 12,05); mancano qui tuttavia quegli apporti culturali eterogenei che connotano la chiesa ebolitana. Numerosi sono i confronti puntuali o generali che si potrebbero richiamare con altri edifici campani, anche ben più complessi e celebri:dal San Michele di Sant’Angelo in Formis, alla cattedrale di San Matteo a Salerno, dalla cattedrale di San Pietro a Sessa Aurunca, alla primitiva cattedrale di Carinola, dal San Menna di Sant’Agata de’ Goti alla cattedrale di Caserta Vecchia, solo a voler procedere per i vertici del romanico campano. E’ questo il prodotto di una cultura multiforme che si muove sulla linea di crinale della tradizione costruttiva longobardo-bizantina dei fabricatores e l’innovazione formale stimolata dal monachesimo benedettino e dalla committenza normanna, declinato in un articolato e innovativo linguaggio unitario456 . Il complesso di San Giovanni dell’Ospedale Il complesso di San Giovanni dell’Ospedale sorgeva su di una collinetta (oggi Costa San Giovanni) a ovest di Eboli, alla confluenza tra due delle direttrici più importanti nel quadro delle comunicazioni delle terrre a Sud di Salerno: la strada che proveniva dal ponte del Sele, l’antica Capua-Reggio, e la via che da Eboli conduceva a Paestum e al Cilento e da qui alla Calabria457 (fig. 16). 79 Gli insediamenti Fig. 16 - Eboli (da PACICHELLI 1703) Fig. 17 - Eboli, San Giovanni gerosolimitano (da CARLONE 1998) 80 La Piana del Sele in età normanno-sveva Il primo documento relativo all’edificio risale al 1216; si tratta di un lascito testamentario in cui si fa riferimento all’ospedale di San Giovanni, cui precettore è frate Onofrio458 , mentre nel 1252 preceptor domus hospitalis Sancti Iohannis de Eboli risulta Frate Matteo d’Abruzzo459 . Il complesso, come si evince dalla documentazione, comprendeva una struttura per l’ospitalità dei viandanti (domus hospitalis) e la chiesa460 . Dai due documenti del 1216 e del 1252 risulta che la commenda giovannita ebolitana dipendesse dal priorato di San Giovanni di Capua. La chiesa fu distrutta nel corso dei bombardamenti del 1943, ma fotografie dell’epoca permettono di esporre alcune considerazioni sull’aspetto architettonico insediativo del complesso (fig. 17). La chiesa presentava una semplice spazialità ad aula unica, conclusa da una profonda abside semicircolare. Sui lati della navata si aprivano quattro strette finestre archiacute caratterizzate da una forma allungata. L’estradosso absidale, la cui ampiezza era quasi pari alla larghezza della navata, era decorato da eleganti nicchie formate da lesene aggettanti terminati in archi acuti sostenuti da colonnine. Al centro della parete sinistra dell’edificio è ben visibile un ingresso laterale trabeato, concluso da un arco a sesto acuto. Dalla documentazione fotografica degli anni ’30-’40 dello scorso secolo è possibile scorgere sulla sinistra della chiesa una serie di ambienti (sembrerebbero tre) ridotti a rudere, edificati sulla parte terminale del declivio dell’altura in parte contro terra (fig. 17). Si tratta probabilmente dei resti delle strutture dell’hospitalis, ormai desuete da secoli. L’edificio del San Giovanni di Eboli trova confronti stilistici e tipologici con numerose chiese tardo romaniche dell’Italia meridionale461 . L’utilizzo dell’arco a sesto acuto fa propendere per una datazione della chiesa al XIII secolo: si tratta con ogni probabilità dell’impianto originario dell’edificio. Abbastanza singolare risulta un confronto che è possibile stabilire con una delle poche chiese giovannite sopravvissute nelle forme di XIII secolo in Europa, la chiesa di San Giovanni di Gerusalemme presso Poggibonsi (SI). Anche qui, come ad Eboli la chiesa si sviluppa lungo una sola navata conclusa da un’abside semicircolare e l’ingresso laterale sulla sinistra appare pressoché identico a quello del San Giovanni di Eboli, così come le finestre della navata. Diverso appare invece il rapporto funzionale con le strutture ospedaliere, ma l’interessante analogia architettonica tra le due chiese permette di individuare forse un modello tipologico comune adottato per le Gli insediamenti 81 piccole commende giovannite, numerose in questi anni in Italia, ma in gran parte scomparse o rinnovate nei caratteri originari462 . Il rimpianto per la scomparsa del complesso risulta acuito dalla circostanza della rarità di tali edifici conservatisi grossomodo nella loro strutturazione originaria in Europa. E’ evidente la posizione strategica del complesso, posto su una piccola altura sovrastante l’importante snodo viario costituito dall’incrocio del tracciato della vecchia Capua-Reggio con la via che conduceva a Paestum e al Cilento. 2) Battipaglia San Mattia Ben poco sopravvive del complesso monastico medievale, oggi trasformato in fattoria, tanto legato, come si è visto, alle vicende dei casali della Piana e in particolare al dominio cavense su queste terre. Le trasformazioni del XVII e del XVIII hanno quasi del tutto obliterato le fasi costruttive medievali dell’abbazia. Solo lacerti dell’attuale cappella restituiscono elementi per ipotizzarne l’originaria concezione architettonica. La riconsiderazione barocca ridusse la chiesa medievale ad una sola navata monoabsidata coperta da una volta a botte. In precedenza la spazialità dell’edificio era scandita da tre navate divise da pilastri raccordati da archi a tutto sesto, come si arguisce dall’osservazione della parete sud del sacello. La chiesa era conclusa da tre abisidi; di queste sopravvive la centrale, mentre della laterale sul lato sud rimane traccia evidente in un arco tompagnato, delimitato da resti di affresco. L’abside centrale risulta incorniciata da due colonne romane riutilizzate, sormontate da capitelli a foglie d’acanto. Lacerti di affresco visibili in diverse zone della chiesa, contestuali alle fasi medievali dell’edificio, testimoniano della decorazione che doveva adornare il sacello. La spazialità dell’edificio e alcune soluzioni decorative quali le colonne incassate ai lati dell’abside, convergono nell’individuare tra XI e XII secolo l’epoca di costruzione della fase più antica della chiesa oggi osservabile. La relativa arcaicità di alcuni elementi dell’architettura di San Mattia, quali i pilastri di 82 La Piana del Sele in età normanno-sveva divisione delle navate, sembrerebbero far propendere una collocazione cronologica più verso il pieno XI secolo che il XII, ossia in una fase che potremmo definire predesideriana, quasi un annuncio di quanto realizzato a Montecassino nel 1071463 . Ovviamente solo un’esplorazione archeologica potremme risultare dirimente in tal senso. 3) Olevano Anche nel territorio di Olevano sul Tusciano si individuano alcuni esempi di architetture e elementi decorativi riconducibili ai secoli XI-XIII. Si è già visto come alcuni casali del territorio offrano elementi in questo senso. Il complesso di Santa Maria a Corte, ad esempio,conserva un palazzetto pressoché integro databile al XIII secolo che fu residenza dell’arcivescovo di Salerno, signore di queste terre464 . Santa Maria Annunziata Nella frazione Monticelli non lontano dal fiume Tusciano si ergono i resti della chiesa dell’Annunziata attestata dalle fonti a partire dal 1511 secolo465 . La chiesa presenta una spazialità caratterizzata da una navata unica conclusa da un’ampia abside oggi inglobata in un edificio costruito recentemente alle spalle della chiesa, di cui rimane visibile la ghiera a tutto sesto all’interno dell’edificio. Al di sopra di quest’ultimo sono ancora visibili i lacerti di un grande affresco (fig. 18): al centro della scena rappresentata vi è un clipeo all’interno del quale si scorge una figura non più interpretabile. Alla destra e alla sinistra sono due angeli nell’atto di indicare il personaggio all’interno del clipeo, probabilmente il Cristo. Lo stile degli affreschi richiama opere databili tra XII e XIII secolo nel salernitano (ad esempio gli affreschi conservati nell’ambiente ipogeo della cappella di San Pietro a Corte a Salerno). La facciata conserva un rosone circolare tompagnato e parte dell’ingresso sormontato da un arco ogivale. Le dimensioni dell’edificio e la buona qualità dell’affresco ne indicano il rilievo nell’ambito olevanese sin dal XII-XIII secolo, testimoniato in seguito dalla documentazione scritta del XVI secolo, in particolare dal discreto patrimonio rilevabile dalle visite pastorali466 . Gli insediamenti Fig. 18 - Olevano sul Tusciano, chiesa dell’Annunziata, affresco (XI-XIII sec.) Fig. 19 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, affresco (XII-XIII sec.) 83 84 La Piana del Sele in età normanno-sveva d) I poli santuariali 1) San Vito al Sele Lungo la sponda destra del Sele, nel territorio di Eboli, sono stati nello scorso decennio condotti degli scavi in località San Vito, nei pressi dell’omonima chiesa che, secondo la tradizione, conserva le reliquie del santo eponimo martirizzato sulle sponde del fiume ai tempi delle persecuzioni dioclezianee467 . Il saggio, limitato a due aree nei pressi dell’attuale chiesa, ha portato alla luce varie fasi di vita del santuario: in particolare le strutture di una serie di edifici datati tra la fine del V e la metà del VI secolo, con ogni probabilità relativi al complesso originario, realizzati in laterizi, i cui ambienti interni erano riccamente rivestiti di lastre marmoree fissate alle pareti con chiodi di bronzo e pavimentati con mosaici policromi a motivi geometrici468 . Non è possibile affermare quando sia avvenuto l’abbandono del primitivo santuario; l’attuale chiesa di San Vito, frutto di vari interventi di restauro succedutisi nei secoli, mostra alcuni elementi architettonici collocabili ad età tardomedievale, quali una volta a crociera archiacuta e la profonda abside. Le fonti scritte testimoniano nel territorio di Eboli l’esistenza di due chiese di San Vito nel XII secolo: l’ecclesia sancti Viti seniori e l’ecclesia sancti Viti Iunioris affidate dall’arcivescovo salernitano Romualdo II all’abbazia di San Pietro Apostolo nel 1160469 . Il documento non chiarisce se si trattava di edifici che sorgevano in aree diverse o di due chiese contigue. Le indagini archeologiche non aiutano a dirimere la questione, ma non è improbabile che i due oratori siano stati attivi insieme per un periodo, almeno alla metà del XII secolo, per la rovina parziale dell’antico santuario che possiamo ipotizzare di lì a poco abbandonato: la documentazione scritta da allora in avanti non distinse più due chiese di San Vito, ricordandone una sola470 . L’insediamento a San Vito non doveva limitarsi al pur importante santuario extraurbano; una serie di ricognizioni non sistematiche condotte nell’area della chiesa moderna hanno individuato un’area di affioramenti ceramici sparsa su una superficie di circa due ettari che definisce un vasto insediamento, probabilmente un villaggio in epoca medievale, caratterizzato da una apparente continuità di frequentazione dal IV secolo avanti Cristo al basso Medioevo (XIII sec.). Difficile dire di più sul villaggio che presumibilmente si formò sulla riva del Sele anche per la presenza delle reliquie di Vito, ma è verosimile supporre che una vicina rada471 e il prestigioso Gli insediamenti 85 complesso santuariale ne favorissero lo sviluppo, senza dimenticare la posizione strategica del sito all’interno dei flussi di passaggi di uomini e merci nella regione472 . 2) San Michele di Olevano sul Tusciano La grotta di San Michele ad Olevano sul Tusciano costituì nell’alto Medioevo uno dei più importanti santuari dell’Occidente cristiano, inserito negli itinerari di pellegrinaggio internazionali e qualificato da raffinati interventi edificiatori e pittorici473 (fig. 20). A partire dal X secolo il santuario fu inglobato, insieme al territorio di Olevano, tra le pertinenze della Chiesa salernitana. Recenti indagini archeologiche hanno permesso di definirne in maniera precisa le fasi di occupazione e di ricostruire la raffinatezza della cultura materiale di quanti erano preposti al suo controllo, oltre a rivelare alcuni aspetti legati al pellegrinaggio474 . In particolare preziose informazioni si sono potute ricavare dall’individuazione e dall’esplorazione della discarica del santuario posta all’ingresso della cavità, funzionante dall’VIII secolo al XII (figg. 21, 23). In quest’ultimo periodo si ricoprì la discarica e si sopraelevò il piano di frequentazione in funzione della riconsiderazione degli ambienti di chiusura del santuario (fig. 21). La sopraelevazione fu realizzata precipitando dall’alto materiale ormai inutilizzabile, terra proveniente da altre aree della grotta, cenere, e grossi frammenti di muri intonacati appartenenti ai vani precedenti demoliti (UU SS 1022, 1041). La stessa operazione fu eseguita dall’altro lato del muro USM 1024 (UU SS 1026, 1027, 1028) (fig. 23). L’analisi della ceramica rinvenuta permette di indicare non oltre la fine del XII secolo l’azione sopra descritta. Le mura della nuova costruzione furono in parte giustapposte alle strutture rasate degli ambienti precedenti (UU SS MM 1024, 1019) e in parte poggiate sugli strati di terra riportati per innalzare le quote. In questo modo si realizzò l’edificio su due piani ancora oggi visibile all’imboccatura della Grotta. Sulla parete est dell’ambiente A fu realizzato un subsellium (USM 1037), mentre un semplice battuto in malta costituiva il pavimento (US 1039). Questa fase di frequentazione fu ben presto obliterata (metà XIII sec.) da un nuovo piano che innalzò la quota di circa 40 cm. con la realizzazione di un pavimento in malta con un tenace vespaio formato da pietre e malta (US 1038). Il pavimento funzionò fino al XIX secolo Questo nuovo edificio si configura come centro per l’accoglienza dei pellegrini che si recavano al La Piana del Sele in età normanno-sveva 86 Fig. 21 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, Scavo 2002, planimetria degli ambienti A e B Legenda I Area dello scavo 2002 (c. d. Monastero) II Area dello scavo 1992 (hospitium?) III Vasca IV Area delle deposizioni Fig. 20 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, Pianta generale (da Zuccaro) Fig. 23 - Olevano sul Tusciano, Grotta di San Michele, Sezione C-D Gli insediamenti 87 santuario475 . Tra XII e XIII secolo si assiste ad una profonda riconsiderazione di alcune strutture del santuario: detto dell’elevazione della foresteria, all’interno della grotta, nei pressi della cappella dell’Angelo si demolì il precedente ospizio, considerato oramai insufficiente476 ; anche il monastero all’esterno della Grotta subì delle modificazioni riconoscibili in un nuovo ingresso archiacuto nella parte meridionale della struttura. Il documento più singolare relativo a questo periodo è costituito da un affresco ritornato alla luce in seguito a recenti restauri condotti presso la cappella dell’Angelo: in esso è raffigurato l’Arcangelo Michele nell’atto di benedire tre monaci in abiti bianchi, forse su di un’imbarcazione (fig. 19). Epigrafi dipinte ricordavano i nomi dei tre personaggi, di cui uno solo, relativo al monaco centrale, risulta al momento chiaramente leggibile, frater Bernardus. Che non si tratti del monaco franco Bernardo pellegrino intorno all’870 presso il santuario micaelico olevanese si deduce dalla datazione dell’affresco, collocabile facilmente tra la metà del XII secolo e l’inizio del XIII477 : è infatti del tutto improbabile che la comunità del Mons aureus avesse continuato a serbare memoria della visita del monaco Bernardo per oltre 300 anni e a celebrarla in maniera così eclatante. Difficile precisare chi fossero i tre monaci; si tratta certamente di personaggi di rilievo, che vollero testimoniare il loro pellegrinaggio al santuario olevanese commissionando un affresco, fatto non raro nel Medioevo ma abbastanza inconsueto e in ogni caso riservato a personalità di spicco nella società del tempo, come ad esempio a Monte Sant’Angelo il cosiddetto affresco del Custos Ecclesiae alla fine del X secolo478 . La circostanza che venisse concessa ai tre frates pellegrini buona parte della parete della cappella principale del santuario ne attesta la considerazione che ne avevano la comunità monastica del mons aureus e l’arcivescovo di Salerno e, insieme, il prestigio che doveva conferire al luogo il loro passaggio. Si è detto come l’unico personaggio di cui si possa decifrare chiaramente il nome è frater Bernardus: la circostanza che nel novembre del 1137 fosse a Salerno il grande cistercense Bernardo di Chiaravalle 479 , ospite del metropolita salernitano signore di Olevano e del santuario micaelico, come inviato del pontefice per tentare di saldare la rottura intercorsa tra Innocenzo II e Ruggiero II dopo l’investitura regia per opera dell’antipapa Anacleto nel 1130480 , non autorizza ad indicare con sicurezza nel grande teologo il personaggio raffigurato nell’antro olevanese, ma si tratta, a mio avviso, di un’ipotesi da non scartare a priori. In ogni caso la raffigurazione dei monaci con il saio bianco mi sembra un elemento che definisca con una certa chiarezza la loro appartenenza all’ordine cistercense. 88 La Piana del Sele in età normanno-sveva 89 CAPITOLO III Economia e società 1) La produzione agraria 1.1 La piana di Battipaglia Le terre corrispondenti al tardo longobardo locus Tuscianus, si caratterizzano lungo i primi 70 anni della dominazione normanna per la presenza di una grande varietà di colture. Un assetto decisamente policolturale caratterizzava la piana di Battipaglia fin dall’età tardolongobarda: a prevalere, accanto alla vigna481 , era il grano482 , ma non mancavano alberi fruttiferi di vario genere483 , fichi484 , oliveti485 e anche castagni di pianura486 . La documentazione offre l’immagine di un territorio meridionale del Tusciano intorno alla metà dell’XI secolo caratterizzato da vaste zone ormai agrarizzate costituite da un mosaico di fondi dispersi sul territorio, affidati in gran parte a coltivatori attraverso contratti ad laborandum487 . Si ha l’impressione che la spinta colonizzatrice abbia trovato il suo culmine tra la fine del X secolo e i primi anni del successivo488 . In questo senso spinge a credere anche lo scarso numero di contratti ad pastenandum rispetto alle traditiones ad laborandum489 che si rinvengono in relazione a queste terre nella prima metà dell’XI secolo, sintomo quest’ultimo di un raggiunto equilibrio tra produttività del territorio ed esigenze dei possessores. 90 La Piana del Sele in età normanno-sveva L’avanzata colonizzazione, e di conseguenza l’urgenza di gestire in maniera più razionale e remunerativa la produzione agraria, unita forse ad un incremento demografico, spinse già nella prima metà dell’XI secolo alla frantumazione di considerevoli patrimoni fondiari compatti di famiglie comitali longobarde salernitane, rimasti fino a quel momento indivisi nella pianura del Tusciano490 . Già nel 1011 quattro congiunti rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria longobarda salernitana dividono in tre parti le terre che possiedono in comune lungo il torrente Vallemonio491 ; più complessa la situazione del 1026 quando dodici longobardi, membri di otto gruppi distinti, si riuniscono per dividersi l’ampio patrimonio che controllavano insieme tra il Lama, il Tusciano, il lacu Piczolu e il mare492 . Queste terre del locus Tuscianus sulla riva destra del fiume, appaiono interessate da significativi interventi colonizzatori già nel X secolo; nel 980 un tale Alfano consegna delle terre boschive ai fratelli Pietro e Nicola: i due si impegnano a dissodare per sei anni le terre loro affidate493 . Il carattere promiscuo e policolturale dell’agricoltura nelle terre del basso-medio corso del Tusciano continua a segnare il paesaggio fino a tutta la prima metà del XII secolo. Alcuni esempi possono servire a fornire un quadro della situazione494 . Nel 1085 si rinvengono due terre in loco Tusciano di cui una cum vinea arboribus et vacuo495 ; con una carta del 1089 Ruggero Borsa dona alla Sant.ma Trinità di Cava una terra con ulive, querce e vacuo oltre il Tusciano496 ; nel 1089 si ricordano terre con arbusto in loco Tusciano497 ; ancora Ruggero nel 1089 dona tre terre nei pressi di Sant’Arcangelo la prima con alberi e vacuo, con all’interno una taverna, la seconda arbusto, la terza con arebusto e vacuo denominata de lo Battipalea498 ; nel 1090 è menzionata un terra arbustata concastagneto e fruttiferi ubi Cabavari499 . L’ormai strutturata e in qualche modo, consolidata, organizzazione fondiaria dei coltivi nella Piana trapela da un documento del 1104 con il quale il signore di Eboli, Roberto, dopo aver riunito presso la sua corte Giovanni suo stratigoto e il giudice Landolfo insieme ad altri bonis hominibus huius nostri castelli Evoli, concede a Leone detto Ramaro la metà di una curtis e otto fondi nei pressi del Tusciano 500 : in ognuno di questi fondi, tutti solcati o delimitati da vie, sono impiantate attività agricole o legate all’allevamento, seminativi, alberi, fruttiferi, vigne, orti, salici, querce, nè mancano edifici abitativi. Un altro esempio dell’assetto policolturale di queste terre nella prima metà del XII secolo è dato da una carta del 1138 con la quale Alferio miles qui dicitur de Monte Marano concede in feudo a Giovanni Mastinke Economia e società 91 cinque petia de terra nel casale Tusciano: la prima in loco ubi sanctus Felicius nuncupatur con vigneto e fruttiferi confinante con un castagneto, la seconda, un castagneto, nello stesso luogo: anche la terza, nella medesima contrada è un castagneto, confinante con altri castagneti; la quarta è un frutteto, la quinta contiene alberi da frutto e un querceto in loco ubi curia de Giuso Pilato nuncupatur 501 . Tendenzialmente, come si evince anche dagli esempi riportati, le coltivazioni in questi anni sembrano uniformarsi nelle diverse contrade del locus, senza che emergano particolari aree a produzione predominante502 . Più in generale la situazione colturale della piana di Battipaglia presenta interessanti mutamenti nello scorrere degli anni. Un’analisi delle attestazioni di coltivi divisi in tre macroperiodi di 50 anni503 mostra le variazioni del paesaggio agrario nella piana di Battipaglia. Nel primo periodo considerato (anni 1085-1150) emerge un sostanziale equilibrio nell’attestazione delle coltivazioni (Tab. 1): se i fruttiferi nel complesso raggiungono il 33% del totale, le colture cerealicole (terra laboratoria o vacua nei documenti504 ) rappresentano il 28%, mentre la vite (da sola o associata con l’arbustum) incide per il 19%. Molto meno frequente la citazione di oliveti (6%), forse talvolta considerati come alberi (10%) o fruttiferi505 . Si tratta di un sistema in cui le colture arbustive prevalgono nettamente sui seminativi nudi. Indubbiamente la presenza dei numerosi corsi d’acqua che attraversavano la piana506 , opportunamente sfruttate, e il clima mite dovevano favorire il successo delle colture arbustive. In ogni caso appare evidente come questo paesaggio della Piana sia il frutto della grande spinta colonizzatrice prodotta tra la seconda metà del X e gli inizi dell’XI dal lavoro di concessionari di appezzamenti attraverso lo strumento del pastinato507 . La scena muta radicalmente nella seconda metà del XII secolo. Se si osservano i grafici relativi alle produzioni agrarie tra il 1151 e il 1200 balza immediatamente agli occhi l’aumento impressionante delle colture cerealicole (in massima parte grano e orzo): da un incidenza percentuale pari al 28% sul totale delle attestazioni si passa al 58%, più del doppio, con un sensibile incremento a partire dagli anni ’70 del XII secolo508 ; il settore che risentì maggiormente di questo incremento furono i fruttiferi che risultano crollare al di sotto del 10% delle attestazioni (Tab. 1, anni 1151-1200). La documentazione mostra come questa presenza delle colture cerealicole fosse diffusa pressoché in tutta l’area del Tusciano: terre laboratoriae La Piana del Sele in età normanno-sveva 92 Tab. 1 Le colture nella piana di Battipaglia in età normanna (anni 1085-1150) Attestazioni vigneti arbusto vitato fruttiferi cereali orti fichi oliveti alberi castagno salici noci selva 13 11 28 36 2 4 2 12 6 2 1 7 incidenza % 10% 9% 22% 28% 2% 3% 2% 10% 5% 2% 1% 6% Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1151-1200) Attestazioni alberi fruttiferi cereali vigneti arbusto vitato orto incolto 16 7 65 16 4 2 3 incidenza % 14% 6% 57% 14% 4% 2% 3% Le colture nella piana di Battipaglia in età sveva (anni 1201-1250) Attestazioni alberi fruttiferi cereali querce orto incolto 1 6 38 2 2 2 incidenza % 2% 12% 74% 4% 4% 4% Economia e società 93 si rinvengono nel 1161 nel vico Tusciano alla località Anania509 , nel 1169 ubi a la Maura dicitur, nel casale Tusciano510 , nella località Calcarola oltre il fiume Tusciano sui colli tra Battipaglia ed Eboli nel 1172511 , lungo il fiume Tusciano nei pressi del mulino della Trinità di Cava nel 1172512 , nella località Spenda nel 1176513 , nella contrada Arcatura, vicino al Tusciano, non lontano da San Mattia, nel 1177514 . nella località Cerzietum nel 1179515 , alla Fasanara nel 1181516 , nella località San Felice517 , a San Clemente nel 1184518 , nella contrada Spatatesa nel 1187519 , nelle località Cerasa, Frabitula, La Tesa e l’elenco potrebbe continuare (Tab. 3). Paradigmatico di questo paesaggio oramai dominato da distese biondeggianti di grano è un documento del 1188 con il quale l’abate di Cava Benincasa concede al viceconte Urso, sette terre nel territorio del casale Tusciano: di queste una è coltivata ad arbusto vitato, le altre sei sono terre laboratoriae520 . Il contrasto con quanto visto per la prima metà del XII secolo appare evidente. La tendenza già individuata nel periodo 1151-1200 si rafforza negli anni tra il 1201 e il 1250 (tab.1, anni 1201-1250). In quest’arco cronologico le attestazioni delle colture cerealicole giungono al 74% del totale, mentre scompaiono del tutto i vigneti e gli oliveti, con i fruttiferi che si attestano al 12% delle colture menzionate nei documenti. 1.2 Le terre di Eboli Le terre più direttamente gravitanti intorno ad Eboli (colli immediatamente all’intorno, esclusi i casali di Monte e Padule, pianura sottostante) mostrano una situazione più articolata rispetto alla Piana di Battipaglia. Già dalla semplice osservazione della tabella relativa alle colture, emerge una sostanziale tenuta delle coltivazioni arbustive rispetto ai seminativi nell’arco dell’intero periodo considerato (anni 1090-1250) (Tab. 2). Tuttavia, a differenza della Piana del Tusciano dove a partire dagli anni ’70 del XII secolo la cerealicoltura appare largamente predominante dappertutto, come si è visto, approfondendo l’analisi si nota come qui si possano individuare aree tendenzialmente vocazionali, o, più correttamente, a predominanza colturale, almeno a partire dalla seconda metà del XII secolo. Nelle terre intorno alla città la documentazione testimonia una presenza esclusiva di orti, fruttiferi, vigne521 , in particolare orti, , circostanza comune nel Medioevo alle aree circostanti le città522 . La Piana del Sele in età normanno-sveva 94 Tab. 2 Le colture nelle terre di Eboli in età normanna (anni 1090-1150)* Attestazioni vigneti arbusto vitato fruttiferi cereali orti alberi castagno salici 6 1 7 8 1 3 6 1 incidenza % 18% 3% 21% 25% 3% 9% 18% 3% Le colture nelle terre di Eboli in età normanno-sveva (anni 1151-1200)* vigneti ulivo fruttiferi cereali orti alberi quercia salici Attestazioni incidenza % 24 12 11 40 3 12 3 1 23% 11% 10% 38% 3% 11% 3% 1% Le colture nelle terre di Eboli in età sveva (anni 1201-1250)* Attestazioni alberi fruttiferi cereali vigneti orto ulivo 4 23 43 35 12 51 * (escluse le terre della piana di Battipaglia e di Calli) incidenza % 2% 14% 26% 21% 7% 30% Le colture a Calli in età normanno-sveva (anni 1160-1200) vigneti ulivo fruttiferi cereali alberi quercia Attestazioni incidenza % 2 3 4 17 2 3 6% 10% 13% 55% 6% 10% Le colture a Calli in età sveva (anni 1201-1250) alberi fruttiferi cereali vigneti ulivo querce Attestazioni incidenza % 1 6 26 2 3 3 2% 15% 64% 5% 7% 7% Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1085-1150) Doc. anno tipo di doc. località coltura DTC, XIV, 13 DTC, C, 17 DTC, XIV, 117 DTC, C, 19 DTC,G,48 DTC, XV, 27 DTC, XVI, 81 DTC, XVII, 21 DTC, XVII, 111 DTC, D, 51 DTC,E, 3 DTC,XVIII, 35 DTC,XVIII, 82 DTC,XVIII, 70 DTC,XVIII, 71 DTC, XVIII, 95 DTC, E, 30 DTC, XX, 74 DTC, XX, 88 DTC, XXI, 93 DTC, XXI, 32 DTC, XXI, 117 DTC, XXII, 22 1085 1089 1089 1089 1089 1092 1098 1101 1104 1104 1105 1105 1108 1109 1109 1109 1115 1117 1117 1123 1124 1125 1126 Donazione Donazione Vendita Donazione Donazione Pastinato Vendita Vendita Con. feudale Donazione Donazione Vendita Vendita Con. feudale Testamento Testamento Con. feudale Vendita Donazione Vendita Vendita Vendita Ad Laborandum Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Vigna, alberi e vacuo 2 uliveti, querce, vacuo arbusto vitato (la terra è nei pressi di S. Arcangelo) Alberi, vacuo, arbusto Vacua (presenza di un mulino, ischitella) alberi,vigna, pometo e saliceto (Leborano) alberi (ubi Vada de Benaturi) Vacua (vicino al Tusciano e alla chiesa di San Biagio) 3 vacua, querce, ortale, salici, fruttiferi (2), alberi 3 vacua, 2 fruttiferi, 1 selva (Laneo, chiesa San Nicola) Fruttiferi, alberi- vadu de S. Maria zita, a W il Tusciano vacuo, arbusto, fruttif., pressi Tusciano, S. Maria zita fruttiferi e infruttiferi 3 vacuo, 1 fruttiferi, alberi Vacua (a Li Laurelli) Vacua e querce Terra selvosa (Fasanara) arbusto vitato e altri alberi Chiesa di San Biagio Vigna, fruttiferi, fichi e vacuo (fines Battipallee) Vigna e fruttiferi (ai piedi di un monte) Arbusto, vacuo, castagneto, selva Laboratoria (vecchio alveo Tusciano) Economia e società Tab. 3 95 96 1127 1129 1130 1132 1135 1135 1139 1139 1140 1146 1146 1146 1148 1148 1148 Vendita Vendita Con. feudale Pastinato Con. feudale Commutatio Con. feudale Ad Laborandum Vendita Ad Laborandum Giudicato Giudicato Vendita Vendita Donazione Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Vigna, in vico Tusciano Fruttiferi Casale Tusciano ubi puteus de porcilis Vigna e fruttiferi arbusto, olivi, fichi, noci, viti, fruttiferi, grano Vacua (in vico Campitella) Nei pressi dei mulini di Cava vigna, 2 fruttiferi, 2 castagneti, (Curia de Giuso Pilato) Vigna, alberi, frutti, fichi Arbusto, alberi e vacuo (ubi Brusca) Laboratoria Terre e selve Orzo, selve. San Pietro ad columnellum alberi, loc. Corte alberi Vacua e Laboratoria (Guado di san Vito, pressi S. Mattia) Continua La Piana del Sele in età normanno-sveva DTC, XXII, 10 DTC, XXII, 83 DTC, XXII, 76 DTC, XXIII, 42 DTC, G, 10 DTC, XIII, 92 AC, XXIV, 45 AC, XXIV, 87 AC, XXIV, 82 AC,XXV,114 AC, XXVI, 48 AC, XXVI, 52 Reg, n. 178 AC, XXVI, 76 AC, H, 5 Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1151-1193) Doc. anno tipo di doc. Casale coltura e località AC, XXVIII, 74 AC,XXIX, 71 AC, XXIX, 45 AC, XXIX, 71 AC, XXX, 34 AC, XXX, 59 AC, XXX, 51 AC, XXXI, 19 AC, XXXIII, 26 AC, XXXIII, 52 AC, XXXIV, 95 AC, XXXIII, 59 AC, XXXIII, 93 AC, XXXIII, 83 AC, XXXIV, 26 AC, XXXIV, 80 AC, XXXIV, 110 AC, XXXV, 20 AC, XXXV, 84 AC, XXXV, 56 AC, XXXV, 91 AC, XXXVI, 41 AC, XXXVI, 14 AC, XXXVI, 18 AC, XXXVII, 37 1153 1156 1157 1157 1159 1160 1160 1163 1169 1170 1170 1170 1171 1172 1172 1173 1174 1175 1176 1177 1178 1178 1179 1179 1180 Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Testamento Giudicato Vendita Giudicato Vendita Vendita Testamento Divisione Vendita Vendita Donazione Testamento Vendita Vendita Pastinato Vendita Vendita Conc. Feudale Donazione Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano S. Arcangelo Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Alberi, Vico Tusciano (presso le arcature dei mulini) 2 alberi, vigna, macchia (loc. San Biagio del casale) Vacua, (loc. Populi Raonis Tristaini) Alberi Alberi Fruttiferi e vigna Laboratoria (loc. Anania) Vigna (loc. san Biagio, pressi San Mattia) Laboratoria (ubi a La Maura) Alberi (pressi monastero S. Arcangelo) Vacuo, vigna, fruttiferi (loc. San Mango) Vacuo, vigna,alberi Laboratoria e fruttiferi 2 laboratoriae, 1 selva (Calcarola, chiesa santa Maria) 3 Laboratoriae (nei pressi mulino di Cava) Vacuo, vigna e alberi Alberi (Arcatura dei mulini) Laboratoria, orto, vigna (Campomaggiore, Lispo) Laboratoria (Spenda) Laboratoria (Arcatura) Vigna, Fruttifreri Vacua (Arcaturia dei mulini del monastero) Laboratoria (Cerzietum) Alberi 3 Laboratoriae, 1 vigna, 1 alberi (loc. Pastino) Economia e società Tab. 3 97 Vendita Donazione Testamento Donazione Concessione Vendita Vendita Donazione Donazione Donazione Vendita Testamento Commutatio Conc. Feudale Vendita Donazione Vendita Commutatio Concessione Vendita Vendita Traditio ad laborandum Commutatio Concessione Vendita Vendita Traditio ad laborandum Vendita Vendita Vendita Commutatio Commutatio Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Laboratoria (Fasanara) Laboratoria (loc. Castelluccio, Arcaturia dei mulini) Laboratoria (Fasanara) Laboratoria (Arcatura) Laboratoria (sopra S. Maria zita) Terra con alberi Laboratoria, alberi (loc. San Felice) Laboratoria (San Clemente) Laboratoria (Maura) Laboratoria (Arcatura) Laboratoria (ubi Spatatesa) Laboratoria (Cerasa) Laboratoria (Querceta) 6 Laborat. 1 Arb. 2 laboratoriae, (Frabitula, Arcaturia) 2 laboratoriae (a lu Scarpone, a la Cerzeta) Laboratoria Laboratoria con alberi (loc. La Pira) Vigna e fruttiferi Vacua (Scafa) Laboratoria con alberi (loc. Mannotullo) Terra con pastino (loc. Molendina) Laboratoria, querce (loc. Puteo) Laboratoria (Campitella ) Laboratoria (Arcatura) Laboratoria (San Felice) Arbusto e Vacuo Laboratoria (pressi mulini Cava) Laboratoria (Guado Sant’Elia) Arbusto (Scafasso) Laboratoria (pressi mulini Cava) Laboratoria (pressi mulini Cava) Continua La Piana del Sele in età normanno-sveva 1181 1181 1181 1181 1182 1183 1183 1184 1185 1186 1187 1187 1187 1188 1188 1188 1189 1189 1190 1190 1190 1190 1191 1191 1191 1191 1191 1192 1192 1192 1193 1193 98 AC, XXXVII, 98 AC, XXXVIII, 9 AC, XXXVIII, 13 AC, XXXVIII, 21 AC, XXXVIII, 94 AC, XXXIX,4 AC, XXXIX, 37 AC, XXXIX, 79 AC, XXXIX, 117 AC, XLI, 9 AC, XL, 94 AC, XL, 95 AC, XLI, 52 AC, XLI, 99 AC, XLI, 87 AC, XLII, 11 AC, XLI, 88 AC, XLII, 28 AC, XLII, 69 AC, XLII, 70 AC, XLII, 74 AC, XLII, 76 AC, XLII, 54 AC, XLII, 57 AC, XLII, 105 AC, XLII, 120 AC, XLIII, 2 AC,XLIII, 18 AC,XLIII, 25 AC,XLIII, 34 AC,XLIII, 11 AC,XLIII, 12 Le colture nella piana di Battipaglia in età normanno-sveva (anni 1193-1250) anno tipo di doc Casale coltura e località CARLONE 423 AC, XLIII, 69 AC, XLIII, 91 AC, XLIV, 85 AC, XLIV, 7 AC, XLIV,10 AC, XLIV,8 AC, XLIV,25 AC, XLIV, 44 AC, XLIV, 85 AC, XLIV, 115 AC, XLV, 30 AC, XLV, 34 AC, XLV, 45 AC, XLV, 116 AC, XLVI, 40 AC, XLVI, 43 PENNACCHINI, pp. 123-124 AC, XLVI, 72 AC, XLVI, 97 AC, XLVI, 115 AC, XLVII, 72 AC, XLVII, 39 1193 1193 1193 1194 1195 1195 1195 1195 1196 1198 1202 1203 1203 1203 1207 1210 1211 1211 1213 1216 1217 1219 1220 Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Donazione Vendita Vendita Tusciano San Clemente Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano San Clemente S. Arcangelo Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano S. Clemente Tusciano S. Clemente Tusciano S. Clemente Tusciano Tusciano S. Arcangelo Vigna e alberi (vicino al mulino d Cava) Vigna Laboratoria (La Noce) Laboratoria Fruttiferi (Scafassa) Arbusto vitato (San Felice) Laboratoria (loc. Arbusto) Vigna Terra Laboratoria Arbusto (loc. Puteo) Laboratoria e fruttiferi (loc. Puteo) Laboratoria (S. Elia) Alberi (Puteo) Laboratoria e alberi (loc. Maura) Laboratoria Laboratoria (Puteo) Laboratoria Laboratoria (Escla) Orto del Cetrangolo Laboratoria (confina ad W con il fiume) Laboratoria (pressi Vadu Sancti Helie) Laboratoria Trad. ad laborandum Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Vendita Testamento Testamento Vendita Vendita Testamento 99 Doc Economia e società Tab. 3 100 1221 1222 1222 1224 1225 1226 1226 1226 1226 1227 1228 1227 1228 1229 1230 1231 1231 1233 1238 1248 1249 Commutatio Vendita Vendita Vendita Testamento Vendita Commutatio Vendita Vendita Donazione Vendita Vendita Vendita Testamento Vendita Donazione Vendita Testamento Commutatio Vendita Vendita Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano S. Clemente Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Tusciano Laboratoria (pressi Vadu Sancti Helie) Laboratoria (loc. Iscla) Laboratoria (loc. Querceta) Laboratoria (loc. Supradisi) Laboratoria Laboratoria ( Fasanara) Laboratoria (loc. Arcatura e Domo) Laboratoria (Ubi S. Nicola de Palma ) 2 Laboratoriae (S. Elia e Suprandisi) 3 Laboratoriae (confinano con l’alveo antico del fiume) Laboratoria (Fasanara) Vacua con selva (pressi alveo antico Tusciano) Laboratoria Laboratoria e fruttiferi (loc. Puzzillo) Laboratoria e fruttiferi (loc. san Felice) 3 Laboratoriae e silva 3 laboratoriae, 2 querceti (loc Cerzeta) Orto (loc. S. Stefano) Laboratoria ( loc. San Felice) Laboratoria e fruttiferi (loc, Molendina) Laboratoria (loc. Isprando) La Piana del Sele in età normanno-sveva AC, XLVII, 55 AC, XLVII, 54 CARLONE 585 AC, XLVIII, 22 AC, XLVIII, 10 AC, XLVIII, 68 AC, XLVIII, 63 AC, XLVIII, 71 AC, XLVIII, 78 AC, XLVIII, 92 AC, XLVIII, 82 AC, XLVIII, 96 AC, XLVIII, 108 AC, IL, 6 AC, IL, 24 AC, IL, 40 AC, IL, 45 CARLONE 652 BALDUCCI, I, 94 AC, XLII, 47 AC, XLII, 86 Economia e società 101 Anche sui colli intorno ad Eboli si nota una netta prevalenza di colture arbustive. Sul colle Moreno, ad est del borgo, la coltura dominante il paesaggio per tutto il periodo considerato è l’olivo che raggiunge il 78% delle attestazioni tra il 1201 e il 1250 523 , seguito dalla la vite (22% nello stesso periodo)524 , mentre del tutto assenti risultano le colture cerealicole. Anche nella località Sant’Andrea, colle a N-E dell’abitato di Eboli, si nota una predominanza delle colture arbustive con una presenza marginale dei cereali, ridotto nella prima metà del XIII secolo ad appena il 12% delle menzioni documentarie. Una situazione in parte analoga si riscontra sulle basse colline immediatamente ad ovest di Eboli nella contrada di Grataglie. Qui le prime attestazioni risalenti al XII secolo ricordano terre laboratorie accanto a fruttiferi, ma dagli inizi del XIII secolo le terre coltivate a cereali scompaiono per lasciare posto a vigneti e oliveti. Un quadro analogo si può tracciare, si è visto, per i casali di Monte e Palude525 . La contrada Calli, nelle terre più orientali di Eboli, al confine con il castello di Campagna restituisce negli anni che vanno dal 1130 al 1157 esclusivamente la presenza di fruttiferi e vigneti526 . Nel periodo compreso tra il 1160 e il 1200 si assiste nelle terre di Calli ad una netta inversione della tendenza con l’assoluta predominanza dei cereali: in questi anni le terre coltivate a cereali arrivano 52% delle attestazioni527 , mentre fruttiferi528 e ulivi529 ricorrono rispettivamente solo nel 12 % e la vigna è ricordata nel 9% delle attestazioni530 (tab. 2). Si tratta di dati percentuali che ricordano molto da vicino quanto emerso nell’antico locus Tuscianus, dato confermato dall’osservazione delle occorrenze percentuali rilevate per il periodo 12011250 con i cereali attestati al 64%, mentre le vigne si riducono al 5%, l’ulivo al 7% e i fruttiferi si mantengono intorno al 15% (Tab. 2). 1.3 Alcune considerazioni L’analisi dei contratti agrari mostra come l’età normanno-sveva si caratterizzi per una assenza quasi assoluta di traditiones ad pastenandum e per un numero esiguo di affidamenti ad laborandum. E’ appena il caso di ricordare la differenza tra le due tipologie contrattuali: mentre il pastinato ha come obbiettivo l’introduzione di nuove colture in una terra solitamente incolta, la traditio ad laborandum è tesa esclusivamente a migliorare la produzione delle colture già esistenti531. Su un totale di 138 documenti che ri- 102 La Piana del Sele in età normanno-sveva cordano colture nelle terre del vecchio locus Tusciano tra 1085 e 1250, solo 9 si riferiscono a traditiones, di questi solo 3 specificano l’obbligo del concessionario a impiantare nuove colture su terra vacua532 . E’ possibile che l’assetto del paesaggio agrario sviluppatosi tra X e XI secolo e le conquiste di terre di quel periodo rispondessero, ancora alla metà del XII secolo, alle necessità di abitanti e possessori della Piana del Sele? In effetti l’età longobarda si afferma come periodo di grande avanzata dell’ agrarizzazione533 , mentre l’età normanno sveva appare attestarsi su posizioni forse più conservative sotto questo aspetto, almeno nel territorio qui analizzato. Tuttavia la crescita demografica che caratterizza il XII secolo e di cui si hanno indicatori precisi nei nuovi casali della Piana e nella sviluppo di Eboli534 , dové avere come conseguenza necessariamente un ampliarsi dei coltivi. Ma il dato lampante dell’enorme crescita della superficie a cereali tra 1150 e 1250 apre nuovi orizzonti per la spiegazione di questo assetto, questione che sarà ripresa nelle conclusioni di questo lavoro. Per il momento si può notare come il paesaggio agrario delle terre tra il Tusciano e il Sele, dopo il variegato mosaico colturale che ne connotò l’aspetto fino alla metà del XII secolo pressoché da un lembo all’altro del territorio messo a coltura, tra gli anni 1150 e 1200 acquisisca una fisionomia diversa, ben definita, quasi irrigidita in schemi pianificati e, almeno nelle intenzioni, razionalizzanti: se le terre coltivate dell’antico locus Tuscianus e di Calli vengono ridisegnate con una diffusione capillare dei cereali a discapito dei fruttetti e delle colture arbustive in generale, le colline di Eboli verdeggiano di olivi, vigneti e fruttiferi, mentre tra i sobborghi del castello l’orto si diffonde tra i sempre più rari spazi dei quartieri di San Bartolomeo e di San Giorgio. Questa netta differenziazione tra le diverse aree si fa ancora più evidente nella prima metà del XIII secolo, segno di una situazione ormai stabilizzata. Altro aspetto significativo è la crescente importanza della coltura dell’olivo nelle terre di Eboli a partire dalla seconda metà del XII secolo.Questo interesse per l’olivicoltura si rafforza nel XIII secolo quando si rinviene una serie di interessanti contratti attraverso i quali l’abbazia cavense e il monastero di Montevergine dirigono l’impianto di uliveti nelle colline ebolitane. Nel 1226 il priore di San Mattia de Tusciano concede per 12 anni una terra con ulivi a Turello di Eboli ad un certo Pietro di Donnicella con l’accordo che questi vi impianti 20 nuove piante di ulivo fornite dal priore, che Pietro dovrà concimare almeno una volta ogni tre anni cum ovibus suis vel cum alienis. Ogni anno il concessionario verserà al monastero 2/3 delle olive la Economia e società 103 metà dei fichi e la sesta parte del seminato535 . Ancora Cava nello stesso anno concede una tenuta coltivata ad ulivi e fruttiferi, con una terra vacua, nella località Palazzo di Cava, sempre ad Eboli, a Leone fabricator che dovrà scavare un fossato intorno alla terra vacua, piantarvi 30 nuovi ulivi, circondare il giovane oliveto con una palizzata fornita di cancello con masclo et clave. Leone per 18 anni verserà al cenobio cavense i due terzi delle olive prodotte536 . Nel 1230 sempre Cava concede al corviserius Stefano e a suo figlio Giovanni una terra vacua ad pastenandum per impiantarvi ancora ulivi e frutteti. al termine della concessione (12 anni) la terra sarà divisa tra concedente e concessionario. Nel 1254 il curatore dei beni verginiani ricadenti nel territorio di Eboli Giovanni di Castolio, accorda a Giovanni di Mastlia due terre a Malito, una con un oliveto già impiantato, un’altra con bosco e quattro ulivi: ìn quest’ultima il concessionario impianterà un oliveto in cinque anni. Giovanni di Mastalia sarà obbligato a concimare gli ulivi con letame di pecora o di asino o di cavallo (stercorare stercore quo voluerit pecorino sive equino vel asinino) e portare le olive al frantoio del monastero nella misura di due terzi del prodotto dopo il primo anno di affidamento.537 Gli oliveti impiantati non erano poi così piccoli come oggi potrebbe apparire538 e la stessa preoccupazione dei concedenti, chiaramente emergente dalle carte nella minuziosità degli accordi, che le modalità della coltivazione fossero estremamente accurate, insieme alla gravosità delle corresponsioni richieste (2/3 delle olive) evidenzia quanto queste colture fossero ritenute preziose, addirittura da sbarrare talvolta con una serratura (masclo). La circostanza che in una traditio fosse un fabricator ad affittare l’oliveto fa sospettare che, almeno in questo caso, non fosse lui a coltivare direttamente il podere (non sappiamo quanto esteso) ma che demandasse ad altri tale compito, forse in vista di una commercializzazione dei prodotti, nonostante l’esosità del canone. Si è già accennato come il controllo della terra venisse rimesso dai grandi possessori ecclesiastici a chiese dipendenti nel territorio, che fungevano da poli amministrativi decentrati, oltre che da centri spirituali, quali San Mattia de Tusciano e Sant’Arcangelo per Cava539 , ma il sistema risulta valido anche per altri enti540 . Di grande interesse appaiono da questo punto di vista le chartae collationis, ossia i documenti di affidamento di chiese a presbiteri affinché ne garantiscano l’officiatura e la conduzione economica. Da questo punto di vista la documentazione longobarda risulta più ricca rispetto a quella di età normanno-sveva, per motivi legati sostanzialmente al 104 La Piana del Sele in età normanno-sveva declino dell’istituto della Eigenkirche nel XII secolo541 . Per avere informazioni più cospicue dovremo dunque tornare indietro di qualche decennio per poi riagganciarci agli accadimenti di età normanno-sveva. La documentazione più completa relativa all’affidamento di chiese nella piana del Sele concerne la chiesa di San Nicola de Mercatello e la sua tenuta. La chiesa, costruita illa pars et propinquo flubio Siler, sulla riva sinistra del fiume cioè, nei pressi di un porto e della via che costeggiava il fiume542 , è ricordata per la prima volta nel 1020 dipendente dai fratelli conti Disiu, Iaquintus e Lando, eredi del conte Disigius, fondatori della stessa543 . In questo anno i tre fratelli affidano la chiesa al presbitero Fusco affinché vi risieda, la offici o la faccia officiare notte e giorno, sicut meruerit presbiter villanos, per le necessità degli abitanti delle terre circostanti. In cambio di ciò Fusco riceverà la terra in cui sorge la chiesa, confinante a mezzogiorno con il litore maris e sugli altri lati con terre dei fratelli e le altre causa pertinentem ad essa. Si tratta, in particolare, dei libri e degli arredi sacri necessari agli uffici liturgici, assegnazioni che non appaiono diverse dalla normale dotazione di altre ecclesiae villanae nel Salernitano544 , cui si aggiunge una notevole dotazione di animali. Iaquintus offre una giumenta con i puledri (iummenta una pollitrata), un cavallo provvisto di sella e briglie (caballum unum cum sella et frenum), una vacca con i vitelli (bacca una betellata), tre scrofe con i maialini (scurie tres porclate cum ana tres filios per scurie et ultres) e tre capre filiate. Non meno generoso si rivela Lando che dona alla chiesa tre giumente, tre vacche, quattro scrofe con i lattonzoli e tre capre edate. Allo stesso modo Disiu concede una giumenta con i puledri, una vacca con i vitelli, dieci maiali e tre capre edate. I fratelli faranno pastenare la terra della chiesa impiantando mille viti, una cifra davvero sorprendente, su cui Fusco dovrà vigilare. Il presbitero riceverà per quattro anni dai figli di Disigius 9 tarì d’oro per acquistare il vino occorrente alle sue esigenze, evidentemente si riteneva che quattro anni costituissero il tempo necessario in quelle terre affinché il vigneto divenisse produttivo. Nei pressi della chiesa si trova il lagum qui dicitur Paulinum, vicino al quale c’è una palude, tra il Sele e il fiume Salsola545 . L’area in cui sorgeva la chiesa si trova dunque nei pressi della foce del fiume, non lontano dall’Heraion del Sele e dal porto che costituiva l’approdo fluviale di Poseidonia-Paestum; è anzi presumibile che il porto di Mercatellum ricordato dai documenti medievali fosse proprio ciò che rimaneva della rada poseidoniate più volte congetturata, ma mai identificata, dagli Economia e società 105 archeologi classici546 . Nella carta topografica prodotta dalla Zancani-Montuoro nella pubblicazione preliminare dello scavo dell’Heraion di Foce Sele, la zona tra la torre costiera e Volta del Forno è indicata con il toponimo significativo di Isca dei Conti; la circostanza che la studiosa annoti la presenza di ruderi di una chiesa proprio nell’Isca dei Conti547 consente di indicare proprio in questa zona il dominio dei conti discendenti di Disigius e, nelle strutture della chiesa cui rapidamente accenna la scopritrice del santuario del Sele, quanto sopravviveva a metà degli anni ’30 della chiesa di Santa Maria e San Nicola. Nei decenni successivi alla fondazione della chiesa si coglie da parte dei discendenti di Disigius la volontà di sfruttare in maniera sempre più efficace il proprio dominio fondiario alla foce del Sele: così nel 1031 il conte Giaquinto concede a Giovanni ballense un bosco da poco tagliato (terra que est cesina), situato tra il fiume Sele, la spiaggia e il lago paulinum, che aveva dato in precedenza at scampantum et seminandum ad altri due dissodatori. Giovanni dovrà portare a termine la bonifica della cesina e potrà goderne per tre anni i frutti per poi riconsegnarla a Giaquinto perché possa farla tota perfecta arare et magnaniare illa cum bobes548 . L’opera di miglioramento del possesso ereditato da Disigius appare già completata nel 1041 quando si assiste alla divisione tra i figli di Giaquinto e il conte palatino Landone: negli otto poderi in cui si scompone l’originario dominio comune di Mercatellum sono ricordate sei vigne e due terre bacue in cui bisogna forse riconoscere la terra dissodata nel 1031 per coltivare il grano549 . Alla divisione non partecipa la chiesa di Santa Maria e San Nicola né il lago Paulinum550 . Inoltre nel tenimentum viene ricordato un sedile , ubi case et redita abemus, non menzionato nei documenti precedenti551 . A questi marcati miglioramenti del dominio fondiario di Mercatellum corrispondono negli stessi anni evidenti accrescimenti del patrimonio e della qualità degli arredi per la chiesa di Santa Maria e San Nicola . Raffrontando la charta collationis della chiesa a Fusco del 1020 con l’affidamento della stessa al prete Stefano nel 1043, risulta come ci sia stato un modesto accrescimento del numero di animali pertinenti alla fondazione privata: le cinque giumente del 1020 sono diventate otto, le vacche sono rimaste cinque e le scrofe da sette sono passate a tredici, inoltre sono presenti due buoi, probabilmente destinati all’aratura dei campi. Alla chiesa è stato anteposto un porticum e si rammenta la presenza di una squilla (campana). Il cambiamento più sensibile riguarda però l’introduzione a Santa Maria e San Nicola 106 La Piana del Sele in età normanno-sveva di ricche suppellettili sacre e di pregiate vesti sacerdotali: si passa dai panni essenziali che caratterizzavano la dotazione del 1020 alle patene e ai calici d’argento, alle due stole sacerdotali (orale) de purpuro e de seta, ai panni serici africani, ai due manuli [manipoli, vesti sacerdotali] de siricu, alla sindone cum sirico et auro, per citare i più sfavillanti, a cui i domini aggiungono alie quattuor sindone grecesce, ossia bizantine. Anche la biblioteca, nella quale si trovano orazionali, libri di omelie, libri di letture sacre, dua spalteria [salteri], unum est monachile qui abet aliqua pars de cantare et legere et de imnora, antifonari, uno de die tantum et alium de nocte, appare notevolmente più fornita e specializzata rispetto a quella assegnata a Fusco venti anni prima552 . Stefano avrà inoltre la possibilità di istituire a Santa Maria e San Nicola una congregatio monachorum ospitata forse nell’alipergum che affianca la chiesa553 . Due anni più tardi Landone e i nipoti si vedranno costretti ad affidare la chiesa ad un altro presbitero, Lazzaro, forse per la sopravvenuta morte di Stefano. La carta mostra come ci sia stato in questi anni un aumento nel numero degli animali della chiesa554 e ricorda anche la presenza di un caballum ad caballicandum, davvero singolare per le spese onerose che comportava oltre che per il valore in sé, tra le dotazioni di una chiesa. Si sottolinea infine come la chiesa debba essere officiata da altri tre sacerdoti oltre Lazzaro. Il passaggio, probabilmente nel XII secolo, alla Badia di Cava non dovette mutare la situazione, anche se non è improbabile che prima del passaggio al cenobio cavense la chiesa risultasse abbandonata555 . Nel 1109 secolo si rinviene una charta collationis relativa alla chiesa di San Giorgio di Eboli, di li a poco parrocchia: Giovanni abate del monastero di San Vito di Salerno, dipendente dalla Cattedra di San Bonosio, concede la chiesa di San Giorgio di Eboli al presbitero Pietro de Luciano ad regendum et ad officiandum. Pietro dovrà in cambio versare ogni anno al monastero salernitano la metà delle oblazioni fatte alla chiesa a Natale e a Pasqua (de omnibus oblationibus que in nativitate domini et in pasca offeruntur ecclesie medietatem integram) e la metà delle offerte per la benedizione degli animali e dei morti insieme alla quarta parte delle decime provenienti dalla gestione del patrimonio fondiario della chiesa (et de decimis et primitjis de terris et vineis dicte ecclesie…quartam partem dones)556 . Non diversamente gli arcivescovi di Salerno Alfano II, Romualdo I e Guglielmo I, avevano affidato in feudo la parrocchia di Sant’Elia di Eboli tra il 1090 e il 1150 a una serie di presbiteri e diaconi affinchè l’officiassero Economia e società 107 e ne gestissero il patrimonio557 ; lo stesso abate di San Pietro alli Marmi sembra configurarsi come l’amministratore almeno di parte dei beni della Chiesa salernitana ad Eboli558 . E’ evidente come questo sistema di decentramento amministrativo di parte dei patrimoni ecclesiastici consentisse un più efficace controllo su di essi, eliminando, almeno in parte, la tradizionale figura del missus che da Salerno o Cava doveva recarsi alle dipendenze ebolitane a controllare le varie fasi dei processi di semina, raccolto, trasformazione559 . In questa maniera inoltre si concretizzava un maggior radicamento sul territorio attraverso la creazione di una più efficace rete di legami verticali con la popolazione locale in quanto i presbiteri-amministratori venivano scelti in genere tra gli abitanti del posto. 2) Ambiente naturale e economia silvopastorale Il primo altomedioevo vide la predominanza assoluta dell’incolto nella Piana, conseguenza degli abbandoni dei secoli III e IV, con conseguente formazione dell’immensa foresta planiziaria che dal Tusciano giungeva fino al Sele e dei tre laghi palustri costieri tra Tusciano e Sele560 . Come si è visto parte della pianura, in particolare a ridosso del Tusciano e ai piedi dei colli che si elevano tra il castelluccio di Battipaglia e Eboli, fu ricolonizzata, ma vastissime aree rimasero regno incontrastato di boschi e paludi. Dai contratti agrari e dalle compravendite di età medievale, infatti, si riesce a scorgere in controluce un paesaggio in cui la natura continua a far sentire potentemente il suo respiro al di là delle siepi, ai margini dei poderi, tra le pieghe di una documentazione attenta, sì, alla minuziosa descrizione di confini, all’estensione dei campi o all’enumerazione di colture ma ugualmente sensibile alla presenza dell’elemento naturale che insieme intimorisce e dona ricchezza. Boschi estesi, sodaglie intervallate da radure segnano in maniera marcata il paesaggio tra il Tusciano e il Sele; il gualdu domnicu, un vasto bosco costiero, ricordato a partire dal 799 fino al pieno Medioevo561 , si estendeva fin quasi dalle acque del Tusciano alle sponde del Sele, che ancora nel XII secolo Idrisi vedeva ricoperte di boschi, come un verde manto qua e là sforacchiato a partire dall’VIII secolo da isole agrarizzate562 . Di questo grande bosco dovevano far parte anche le vaste tenute di Campolongo563 e di Pet- 108 La Piana del Sele in età normanno-sveva ta564 , una volta proprietà del fisco principesco poi concesse alla Chiesa salernitana565 . La quercia costituisce sicuramente l’essenza dominante il paesaggio naturale medievale nella piana del Sele. Spesso ricordata nelle carte, come in quella plaga nelle vicinanze del Sele ubi quertieto dicitur566 , se ne richiede una cura particolare nei contratti agrari a partire dall’XI secolo567 o esplicitamente la salvaguardia come in una traditio nel 1035568 , chiari segnali di un’avanzante agrarizzazione del territorio e insieme indice di un mutato atteggiamento nei confronti del bosco che a quel tempo iniziava a ridursi sotto le vangate dei dissodatori e dunque bisognoso di protezione, pena il deterioramento di una economia che sulla base silvopastorale poggiava in parte non irrilevante la sua struttura569 . Accanto alla quercia le carte del tempo ricordano altre essenze arboree quali i pioppi, nei pressi del Tusciano570 , mirteta571 , elemento principe della macchia mediterranea, il sambuco572 dalle caratteristiche bacche nere, il pero selvatico573 , i castagni selvatici574 , i sorbi575 e le tamerici576 . Boschi e coltivi sono solcati dai corsi di fiumi e torrenti, non più irregimentati come avveniva in epoca romana, dei quali spesso non è possibile controllare l’impeto, così dalle cronache e dai contratti agrari veniamo a conoscenza di molina destructa, di raccolti andati a male e di ponti danneggiati dalla veemenza delle acque577 . Fiumi e torrenti, giunti nei presso delle foci o nei punti di confluenza nei collettori principali, generavano ampi pantani a causa della pendenza tendente a divenire via via più trascurabile ; si formano in tal modo i vari laghi costieri tra il Tusciano e il Sele, il lacu Piczolu tra il Tusciano e il suo affluente di destra torrente Lama o, ancora, il lacu Maiore un vasto lago palustre ricordato a partire dall’XI secolo, che ha infestato fino alla bonifica degli anni Trenta del secolo scorso con i suoi miasmi malarici il territorio alla destra del Sele578 . L’altra sponda del fiume era caratterizzata dalla presenza di vaste distese di acque, come il lacum Paulinum e la vicina palude, alimentati dal fiume Salsola, dal pullu de aqua de Certia Gallara579 e da ricche sorgenti d’acqua quali il pullu Maiore e il pullu Minore che sgorgavano nella pianura tra il Sele e il Calore580 . Terreni paludosi caratterizzavano anche le colline tra Olevano ed Eboli581 . A nord la catena dei monti Picentini, le serris de montibus dei documenti altomedievali, da dove principiano alcuni dei corsi d’acqua più copiosi del Mezzogiorno quali il Sele, l’Ofanto, il Calore, il Sabato e il Tusciano, costituiva un generoso serbatoio di essenze arboree. L’ampiezza di tali foreste Economia e società 109 colpiva l’attenzione dei viaggiatori che transitavano per queste lande; così il monaco burdigalense Bernardo, di certo aduso alle vastità dei boschi centroeuropei, in pellegrinaggio, intorno all’870, al famoso santuario rupestre dedicato a San Michele del mons Aureus imminente sull’alto corso del Tusciano, giunto al limitare della profonda cavità osservò che questa aveva super se magnam silvam e l’annotò nel suo Itinerarium582 . Ancora oggi fitti boschi di castagno, quercia e leccio ricoprono questi monti fino ai mille metri circa, dove cedono il passo a impenetrabili faggete, come quella ricordata tra Olevano e Eboli nel XII secolo583 . E’ difficile farsi un’idea precisa della fauna che prosperava in questa rigogliosa natura ; fonti scritte, archeologiche e toponomastiche, insieme alle poche tracce attualmente osservabili, inducono a credere vi fosse una compresenza di specie diverse, oggi quasi inimmaginabile. In primo luogo il cervo, insieme al cinghiale selvaggina per eccellenza del Medioevo europeo584 : gruppi di nobili solcavano le grandi foreste, lanciati in estenuanti cavalcate sulle tracce dell’imponente animale rincorso dai terribili molossi tra pianure e montagne. Il loro passaggio avveniva probabilmente secondo itinerari consolidati, di cui si ha traccia anche nella toponomastica medievale, come testimonia quel Vadu de benaturi sul Tusciano ricordato in una transazione del 1092585 . Toponimi quali Cervialto e Cervara tra i Picentini attestano la diffusione di questo animale. Un documento di donazione dell’833 ricorda l’esistenza tra le foreste di Lioni (AV), pochi chilometri a nord dalle fonti del Sele, di un waldu detto Cerbarezze i cui lati misuravano due miglia per uno586 , probabilmente una riserva di caccia. Un altra importante riserva di caccia del princeps era la cerbaricia domnica, evidentemente ricca di cervi, che si estendeva tra le alture a Sud- Est di Salerno, come testimonia un documento dell’837587 . Le fonti cronachistiche, in particolare l’Anonimo salernitano del X secolo, informano di alcuni episodi avvenuti durante battute di caccia in queste zone. I futuri principi di Salerno Sicardo e Sicone, intorno all’830, andando ex more a caccia si imbatterono in un cervo di proporzioni enormi (ingentem) e lo seguirono con i loro servi fino ad una impenetrabile selva (condensa silva) alle porte di Conza, poco a nord delle sorgenti del Sele, dove riuscirono a catturarlo, episodio che, a detta dell’Anonimo cronista salernitano del X secolo, fu all’origine di un violento conflitto tra i longobardi di Conza e quelli di Acerenza588 . L’elemento selvatico spesso fa da sfondo a storie di violenze e di morte o a spaventose apparizioni, e la caccia ne è sovente il filo conduttore. 110 La Piana del Sele in età normanno-sveva Narra il cronista salernitano del X secolo che nell’anno 849 Siconolfo, principe di Salerno, «cum non paucis suis fidelibus ludus causa seu arte venacionis in predium deveniret, ubi Cervaricia dicitur. Sed dum hac illacque, ut mox est alternatim discurrerent, in gentem singlarem repperiunt». Alla vista del grande cinghiale ognuno tentava di ucciderlo, Siconolfo però anticipò tutti e colpendolo forti yctu lo uccise . Mentre gli altri si allontanavano, improvvisamente il principe fu assalito da febbre e si sentì sopraffatto da un forte calore. «Mox tuba niso quo valuit nimirum insonuit»; i suoi compagni udita l’«insolita vox tube», immediatamente corsero da lui e lo riportarono a Salerno dove poco dopo morì589 . Qualche anno prima il nobile beneventano Agelmondo, uno dei protagonisti della congiura che aveva portato al potere Sicardo e della quale era rimasto vittima il principe Grimoaldo III, si trovava a caccia con il falcone lungo il fiume Sele. Mentre avanzava alla ricerca di una preda, da solo, «ut mos est», all’improvviso gli apparve l’ombra furente del principe Grimoaldo sul suo cavallo bianco, che, sguainata la spada, gli si gettò contro. Agelmondo, terrorizzato dalla spettrale apparizione tentò di fuggire ma, appena si voltò vide Grimoaldo alle sue spalle che, colpitolo con un fendente, lo disarcionò. Gli amici di Agelmondo, richiamati dalle urla, raggiunsero lo sventurato il quale raccontò dell’apparizione e poco dopo morì590 . Dagli episodi narrati dall’Anonimo salernitano si possono intravedere anche le due diverse strategie utilizzate nell’arte venatoria del tempo : mentre nella caccia al cervo o al cinghiale una schiera di cacciatori era sulle tracce della preda, per l’uccellagione i sodales si dividevano una volta giunti sul ‘campo’. Per lungo tempo ancora queste terre attrassero l’attenzione di nobili cacciatori: Federico II volle una domus imperiale proprio ad Eboli591 , evidentemente come punto di appoggio per i suoi passatempi venatori in quelle zone592 . Le plaghe destinate, almeno nelle intenzioni, alle cacce dell’imperatore erano le difese di Eboli, aree riservate al sovrano. La difesa di Eboli è ricordata nel 1277 nell’elenco delle defense regie fatto redigere da Carlo I d’Angiò593 . Nel 1240 Federico II da Arezzo ordinò che si rinchiudessero in prigione alcuni ebolitani che contra mandatum nostrum erano stati trovati a cacciare nelle difese della corte di Eboli594 ; si trattava probabilmente di cacciatori di frodo o di uomini che andavano a far legna, penetrati nella foresta riservata e sorpresi dai guardiani595 : il castigo ordinato dall’imperatore testimonia il valore che attribuiva all’inviolabilità della riserva.Ancora nel XVIII secolo la ricchezza di selvaggina nei boschi del Sele spinse Carlo III di Bor- Economia e società 111 bone a commissionare la costruzione di una sontuosa casina di Caccia a Persano dove egli fu solito risiedere con la sua numerosa corte tra novembre e dicembre596 . Tra i personaggi locali legati alla caccia, non sappiamo in che modo, era quel Bernardo venator il cui figlio Bernardo nel 1142 offre all’abbazia di Cava una terra nei pressi di Eboli597 Un frammento del paesaggio in cui si svolsero le attività venatorie lungo tutto l’arco del Medioevo risulta ancora apprezzabile lungo le sponde del Sele nell’oasi di Serre-Persano. Una estesa foresta planiziaria (ca 1500 Ha) lambisce le acque del fiume: le essenze che la compongono sono leccio, farnia, cerro, roverella , pioppi bianchi e salici e in essa ci si poteva imbattere ancora nel secolo scorso in cervi, e fino a pochi decenni fa in caprioli, lupi, daini e cinghiali. Lepri, volpi e ricci ancora si aggirano lungo le rive del fiume, abitate dalla rara lontra. Nibbio reale , poiana, gheppio e nibbio bruno sorvolano queste zone alla ricerca delle loro prede preferite, i roditori. Numerose specie di Passeriformi e Strigiformi, quali l’allocco, la civetta e il barbagianni, popolano l’oasi insieme al fagiano. Isole di bosco igrofilo (pioppi, olmi e salici) sono popolate da usignoli, picchi rossi picchi neri e luì verde oltre ai più comuni merlo e cinciallegra. Le isole di fango e ghiaia che si formano lungo le sponde del Sele ospitano, infine, nel periodo delle migrazioni gru, aironi bianchi maggiori, aironi rossi, aironi cinerini, spatole e i mignattai598 , prede allettanti per i formidabili falconi da caccia di Federico II599 . Cervi, daini e caprioli costituivano, oltre che lo svago preferito di una nobiltà che nella caccia esercitava ed accresceva il proprio istinto guerriero, il cibo dell’altro dominatore delle foreste medievali, il lupo, feroce ma indispensabile regolatore della loro espansione. Pochi anni or sono un branco di lupi ha attaccato e sbranato due bovini nell’alta valle del Tusciano : la notizia ha destato grande scalpore e curiosità tra gli abitanti di Olevano ed Acerno; ben altra doveva essere nei secoli passati la consuetudine a tali notizie o all’incontro dell’uomo con il lupo. La denominazione Valle del Lupo che si rinviene tra le colline che separano i comuni di Olevano ed Eboli ricorda forse un passaggio attraverso il quale la temuta fiera, spinta dalla fame, nei rigidi inverni scendeva verso i villaggi e le case ai margini della boscaglia alla ricerca di prede. Tali incursioni dovevano essere ancora molto frequenti nel XV secolo, tanto da spingere il redattore dei Capitoli e Statuti della Vagliva dello Levano spettante all’Arcivescovil Menza di Salerno ad offrire ricompense in denaro a chi nelle terre di Olevano avesse abbattuto lupi600 . La conferma di una situazione di grande espansione faunistica viene dal 112 La Piana del Sele in età normanno-sveva ricordato Statuto di Olevano dove si ordina che “tutte le persone di detta Università debbiano serrare e guardare la difesa intorno al castello d’ogni Generazione di Animali forastieri”601 , quasi un assedio! Sebbene la prima compilazione dello Statuto sia di età aragonese, non è forse improbabile ipotizzare per l’età normanno-sveva una situazione faunistica molto diversa. Neppure doveva mancare tra i Picentini l’orso ; toponimi quali Orsata sulla Serra del Giuoco a ovest di Prepezzano (SA) o Valle dell’Orso tra gli attuali comuni di Olevano ed Acerno o, ancora, Valle dell’Orso nei pressi di Caposele (AV) indicano la presenza un tempo del grosso predatore tra questi monti. Gli animali, dobbiamo ritenere non solo domestici, trovavano ristoro nelle radure, quei prata ricordati ad esempio nei pressi del fiume Irno appena fuori da una silva602 oppure quella località Prato non lontano dal Sele603 , ma non di rado, si è visto, sconfinavano entro i fragili limiti dello spazio antropizzato giungendo fino alle mura delle città, tanto che in una traditio di una terra appena fuori porta rotese del 965 a Salerno604 , i concedenti impongono al colono di terra... ex omni parte cludere, ut ibidem animalem intrare non posset. Dobbiamo peraltro immaginare che gli incontri tra gli uomini e gli abitanti del selvatico avvenissero con una certa frequenza; oltre che nelle occasioni ‘canoniche’ quali le battute di caccia, ci si doveva imbattere in essi allorquando si andava nei boschi a far legna o per la raccolta dei frutti spontanei o, ancora, quando si conducevano gli animali al pascolo, senza dimenticare come anche le zone conquistate ai coltivi fossero spesso soggette ad intrusioni poco piacevoli. La prova più evidente di quanto detto si ricava anche solo a voler dare una rapida scorsa ai contratti agrari : obbligo costante e primario per il colono nelle traditiones è la clusuria del podere con siepi o con pali, per allontanare il più possibile l’incombente minaccia di una natura esuberante. Ben presto però a tanta invadenza l’uomo medievale rispose iniziando ad elevare argini : accanto alle clusuriae si scavarono carbonaria e fossata, come quel fossatum antiquum manufactum menzionato in un documento del 1073605 realizzato nelle adiacenze di una iscla, una terra alluvionale, sulle sponde del Tusciano nel suo medio-basso corso. Questo accenno costituisce la testimonianza di una precoce resistenza alla intemperanza del fiume (antiquum manufactum) e insieme l’indice di una ripresa. Lo sfruttamento dell’ambiente naturale costituiva peraltro una voce importante nell’economia medievale e di questo ne erano ben consapevoli gli uomini del tempo. Economia e società 113 Gli enti ecclesiastici risultano estremamente interessati alle aree incolte, in particolare la Chiesa salernitana che detiene il possesso del Lago Maiore e delle terre circostanti606 e delle grandi tenute di Campolongo (circa 1800 ettari607 ) e Petta insieme alle macchie di Rotunda, di Celebrano e del torrente Lama e altre terre incolte del Tusciano, oltre alle selve di San Vito sulla sponda destra del Sele608 e la grande tenuta di Persano, sulla riva sinistra del fiume609 , anch’essa ricca di alberi e acquitrini. Una delle principali fonti di ricchezza legata allo sfruttamento dell’incolto è l’allevamento610 . E’ questa un’attività decisamente rilevante nell’economia delle terre di Eboli, anche per l’indotto, si direbbe oggi, che alimenta. Nel 1090 Roberto di Principato concede alla Chiesa salernitana la decima su omnibus nutrimentis animalium que nos et successores nostri habemus et habuerint in eadem terra (Eboli) et in eius pertinentis quandocumque611 : evidentemente il conte di Principato possedeva greggi e armenti nelle terre di Eboli, particolarmente nella piana non agrarizzata, area che, come si vedrà, sembrerebbe d’elezione per la stabulazione degli animali. L’arcivescovo di Salerno emerge dalla documentazione come uno dei maggiori possessori di greggi; nel 1096 si ricordano dei pascua pro animalibus dell’arcivescovo in un documento di Roberto di Principato relativo a Rivopetroso vicino a casale Cosentino612 . Nel novembre del 1187 davanti al giudice Pietro, presso la corte di Olevano, Cennamo arciprete e i preti Olevano, Pietro, Roberto e Ursone, abitanti di Olevano, testimoniano che oltre trent’anni addietro l’arcivescovo salernitano Romualdo II aveva ordinato di removere omnia animalia sua de tenimemnto pectano et ducere ea ad tenimentum campilongj et omnia animalia cenobii sancti Benedicti et cenobii sancte Trinitatis Cave .. de ipso tenimento Campilongi foras fecit eicere613 . L’arcivescovo fece dunque spostare i suoi animali dal tenimento di Petta e li fece trasferire a Campolongo, nei pressi del Lago Maggiore, facendo allontanare le mandrie degli abati di Cava e San Benedetto di Salerno che pascolavano illegittimamente nella tenuta arcivescovile. Possiamo farci un’idea della varietà degli animali allevati dalla Chiesa salernitana in quest’area da un mandato di Carlo I d’Angiò al giustiziere di Principato del 1274, in cui si ordinava di far restituire all’arciepiscopio salernitano boves, baccas, bubalos, porcos, scrofas, pullos et pecudes che alcuni abitanti delle contrade circostanti avevano trafugato ad masarias seu loca eiusdem ecclesie temerarie accedentes, approfittando della morte dell’arcivescovo e della temporanea vacanza delle sede episcopale614 . Anche la Badia di Cava possedeva greggi 114 La Piana del Sele in età normanno-sveva nella Piana, ad esempio nel tenimento di San Nicola de Laneo dove sono documentati pecore e maiali615 . Anche le chiese private della piana denotano un rilevante interesse per l’allevamento. Ad esempio già in età tardo longobarda emerge una preoccupazione particolare dei domini dei domini communi della chiesa di Santa Maria e San Nicola di Mercatellum per gli animalia di cui, non a caso, si elencano con una singolare meticolosità le specie e il numero in ogni charta collationis a fronte di una modesta dotazione di terra e di uno scarso interesse per la sua conduzione. La scrupolosità nel definire gli impegni cui è obbligato il presbitero tenutario della chiesa riguardo ai greggi che gli sono stati consegnati e agli altri animalia biba che entreranno ad ornamentum di Santa Maria e San Nicola sono indici della preminenza che si attribuiva nel tenimentum di Mercatello alla pastorizia616 . Il presbitero dovrà avere curam et vigilationem per gli animali, affinché, con l’aiuto di Dio (Deo adiubante), essi possano accrescere di numero; di quanti puledri (pollitri de iumente) e vitelli (gengi de vacce) nasceranno in un anno, potrà goderne della terza parte, così come dei lattonzoli delle scrofe (filii et filie de ipse scurie). Potrà inoltre ogni anno mettere all’ingrasso un maiale della mandria per la sua dispensa (faciamus per annum pingue pro nostra utilitate) ed eventualmente macellarne altri pro manducare quando vorrà ponere opere pro servitium vel pro lavore predicte ecclesie. Le setole (spurclatura, spelatura) delle scrofe e quanto latte e formaggio produrranno le vacche (casu et lacte de bacce) saranno utilizzate dal concessionario di Santa Maria e San Nicola come meglio crede (totum mee sit potestatis, faciendum inde quod mihi placuerit)617 . Il sacerdote di una ecclesia billana quale San Nicola di Mercatellum deve attendere però in primo luogo alla celebrazione dei sacramenti, per cui, accresciuto il numero degli animali, non può più prendersi cura delle greggi come necessita; Eigenkirchenherren e presbitero ricorrono allora a figure professionali, pastori qui curam abent de ipsa animalia, provvedendo anche ai loro vestimenta618 . Se la documentazione relativa a Mercatellum nell’XI secolo ci offre le maggiori informazioni sull’economia pastorale lungo il Sele, non mancano tuttavia altre notizie sul ruolo dell’allevamento nella zona. Negli atti emanati dalle cancellerie delle autorità pubbliche relativi alla esenzione per alcuni enti ecclesiastici dal pagamento dei dazi sugli attraversamenti del Sele, viene sempre sottolineata la possibilità di trasportare il bestiame; così già nel 1012 Guaimario III concede al vescovo del Mons aureus Cennamo e ai suoi Economia e società 115 successori la facoltà cum ipso lintre (in questo caso penso sia una chiatta) …homines et animales, omnesque illorum utilitate pro ipso flubio portare in illa parte619 . Cento anni più tardi il signore normanno di quelle terre, Roberto di Eboli, concederà, un eguale privilegio alla Badia di Cava con la stessa preoccupazione per il passaggio degli armenti620 . D’altronde le terre basse del Sele dovevano risultare particolarmente ricche di pascoli; se ne ritrovano, tra il Sele e il Calore, a Persano e Ielasana 621 e, poco più ad est, a Dulicaria622 . E’ evidente che le radure naturali non potessero bastare ad accogliere i capi di bestiame transitanti o stabulanti nella piana. Senza dubbio le tenute di Campolongo, Petta, San Nicola de Laneo avevano al loro interno dei prati adatti alla stabulazione, come si evince dalle testimonianze rese dai presbiteri olevanesi nel 1187. La tecnica più comoda per creare radure e pascoli nel bosco è da sempre quella del fuoco: incendiare la selva e poi divellere gli alberi bruciati è tuttora un’abitudine funesta abbastanza radicata tra i pastori. Ma non solo nobili, enti ecclesiastici, oltre ad allevatori di mestiere come si vedrà, dovevano essere forniti di mandrie consistenti di animali. Nel 1042 Giovanni e sua moglie Raita, abitatores del castellum caputaquensis, Capaccio, non lontano dalla sponda sinistra del Sele, quia cotidie vedono ruinam et infirmitatem et periculum mortis donano per la salvezza delle loro anime una terram cum pertinentia sua in castello caputaquensis alla chiesa privata salernitana di Santa Sofia623 . Tra le pertinentia di questa terra sono ricordate tres capita de bacce et unu gencu [un giovenco] et capita de capre et pecora triginta... et capita de porci nobem che vanno ad impinguare le mandrie di Santa Sofia. La preminenza nell’alimentazione della carne di maiale in particolare, attraverserà tutto il Medioevo salernitano; per verificare ciò è sufficiente ad esempio considerare il gran numero di capitoli riservati nello Statuto della Bagliva di Olevano al maiale 624 . La richiesta di corresponsioni di ghiande o di salvaguardia delle querce che si rinvengono sovente nei contratti agrari costituisce, come si è detto, una prova evidente dell’importanza rivestita da questo settore già nell’economia d’età longobarda. Nel 1021 il potente abate Maione del monastero salernitano di San Massimo, nel concedere una terra baciba da seminare ad un certo Solmanno, si preoccupa di evidenziare che se nella pecia che coltiverà vi fossero querce curam et vigilationem inde aberet ; quando poi saranno mature le ghiande, se vorrà Solmanno potrà raccoglierle e darne metà a San Massimo, in caso contrario dovrà farlo 116 La Piana del Sele in età normanno-sveva sapere prima affinché Maione le possa dare ad colligendum alteris625 . Più esplicito era stato lo stesso Maione qualche anno prima allorché nel concedere una terra ad laborandum ad un tale Giaquinto diacono nei pressi di Nocera, aveva stabilito che si in ipso quertietum porcos in escam non miserint, faciant inde ipse glandi colligere et tote ille ad pars predicte hecclesie deant, tantum tertiam pars inde sibi abeant626 . Corresponsioni di prodotti delle querce si rinvengono fino al XIII secolo627 . La toponomastica medievale della piana conferma la cospicua presenza di animali: nelle pertinenze del casale Tusciano: toponimi quali Pecorara628 , Puteus de porcilis629 e infine, vicino alla chiesa di San Biagio, il Boluttablo de li capilluti630 , costituiscono ulteriore testimonianza del peso che aveva in quelle contrade l’allevamento e la pastorizia631 . Dalla documentazione si possono distinguere due tipologie di pastori: chi possiede un gregge e chi, categoria forse più numerosa, esercita il mestiere di pastore per conto di altri. Della prima categoria faceva parte Giovanni Coco che nel 1201 vende 23 maiali del valore di 4 once d’oro e un quarto a Giordano macellaio632 . Si trattava di un vero e proprio imprenditore, detentore di terre, come si evince dallo stesso documento. Grossomodo allo stesso livello era il pastor Amato che nel 1193 vende insieme a Matteo, figlio del pullario Cursore , una terra nei pressi del Tusciano per 112 tarì633 . Altri prestavano le proprie competenze a chi ne faceva richiesta. Così la chiesa di San Nicola di Mercatello, nei pressi della foce del Sele, poteva contare nel 1045 su iumente duodecim et pullistri de oc anno quadtor et bacce maiori septem, paria de bobi unum oltre a un numero imprecisato di porci et capre che, come recita il documento, venivano affidati a pastori qui curam abent de ipsa animalia, ai quali venivano forniti i necessari vestimenta634 , quindi non censiles ma pastori professionisti. La documentazione scritta ricorda personaggi che possiamo definire specializzati nell’allevamento di alcuni animali. La forte presenza di querce anche nella pianura doveva favorire, si è detto, l’allevamento di maiali, quindi numerosi dovevano essere gli addetti alla loro custodia, i porcari. La documentazione ci restituisce il ricordo di alcuni di loro: nel 1152 si rinviene tra i fideiussori di una compravendita a Calli un Giovanni porcaro635 ;. Nel 1172 Andrea figlio di Pietro porcaro acquista una terra nella parrocchia della santa Trinità di Eboli per 80 tarì636 e nel 1187 altre due terre sempre nei dintorni di Eboli637 . Le aree acquitrinose che, come si è visto, segnavano in particolare la Economia e società 117 parte bassa della Piana costituivano un terreno particolarmente adatto all’allevamento dei bufali. Nel 1122 si incontra un Nicola bubalaro, bufalaro, che dona alla badia di Cava una terra nei pressi del Tusciano638 . Un altro bufalaro è Formato ricordato come fideiussore in due transazioni nelle terre di Eboli tra il 1170 e il 1180639 .La presenza di questi personaggi nella piana del Sele e i bufali della Chiesa salernitana ricordati nel documento del 1278, fanno comprendere come l’allevamento bufalino costituisse, già dal Medioevo, una risorsa importante in queste contrade, oggi tra le più note in Europa per la produzione di derivati dal latte di bufala. Giovanni iumentario è il genitore di Benenato, Domenico e Stefano, anch’egli iummentario, possessori di numerosi casalini e terre nel casale Tusciano nel XII secolo640 . Si tratta, come si evince dalla documentazione, di personaggi relativamente benestanti, detentori di terre e fideiussori, circostanza dalla quale si ricava l’impressione che l’allevamento fosse nelle terre di Eboli un’attività redditizia un po’ a tutti i livelli, dai grandi possessori di greggi ai piccoli allevatori. Non mancavano naturalmente pastori di condizione servile, come quel Maraldello porcaro, servo della Chiesa salernitana641 Un documento del 993 mi pare illuminante a proposito di come si poteva formare in quegli anni un pastore. Un certo Bisanteo rende noto di aver ricevuto da Gagelpoto de Ulmolongum, località dell’Avellinese, amodo et usque nobem annos ... ipso filio suo nomine Sano e che durante i nove anni pattuiti il padre non potrà riprenderselo e dovrà iuxta legem da omnis homines defensare. Dichiara Bisanteo che per i primi tre anni non richiederà a Sano alcun serbitium, pra quo est infans, et pro amore Dei illum nutrio sicut filius meus. Trascorsi i tre anni, per i successivi sei Gagelpoto dovrà infantulum filium suum ponere sibe at porci aut at caprei, quale ego potuero abere, et ipsum infantulum debeat caplare [tosare] ipsa animalia et curam bonam inde abere et de ipsa hanimalia quod inde curam abuerit, dabo inde ei quartam partem. Bisanteo dovrà inoltre nutrirlo et dare ei bestimenta et calciamenta sicut pastores meruerit ; infine se Sano dovesse fuggire, Bisanteo avrà dal padre licentiam ubi ego vel missos meos invenerimus, potestatem abeamus illum prindere et disciplinare642 . Bisanteo è chiaramente un allevatore, possessore di capre e maiali, che in questo caso ‘investe’ su di un infantulum, un ragazzino che non ha compiuto presumibilmente i 12 anni stabiliti dall’Editto di Rotari per raggiungere la legitima aetas643 o i 18 decretati da Liutprando644 , affinché possa in futuro provvedere ad uno dei suoi 118 La Piana del Sele in età normanno-sveva greggi in cambio di un quarto degli animali di cui avrà cura per sei anni. Da ciò si deduce come certo Gagelpoto, figlio del chierico Amato come si esplicita all’inizio del memoratorium, non dovesse essere un uomo di condizione servile e così di conseguenza Sano. Non sappiamo quali furono i motivi che spinsero Gagelpoto ad ‘affittare’ il figlio a Bisanteo, forse l’indigenza, forse una consuetudine prevista anche dalla legge (iuxta legem). Poteva trattarsi anche di un modo per arricchire il proprio gregge con la parte di hanimalia guadagnata dal figlio. Il documento, per quanto ne sappia unico nel suo genere, trasmette al lettore un senso di angoscia per la condizione del piccolo Sano, acuita dal finale minaccioso relativo all’eventuale fuga dell’infantulum, in particolare alla potestas che si riserva Bisanteo di illum prindere et disciplinare, di certo non con un semplice rimprovero. Bisogna peraltro immaginare che tale sensibilità non sempre fosse di quegli uomini, soprattutto se pastori, induriti da condizioni di vita che oggi definiremmo disumane645 . Altre tracce del radicamento dell’attività pastorale nelle terre di Eboli si ricavano dalla già ricordata charta collationis del 1109 con la quale Giovanni capuano, rettore del monastero salernitano di San Vito, concede al presbitero Pietro l’officiatura della chiesa ebolitana di San Giorgio: Pietro dovrà versare ogni anno al cenobio salernitano, tra le altre cose, la quarta parte delle offerte ricevute in occasione della benedizione degli animali (de oblatione vestiarum) 646 . Si tratta, come è noto, di un’antica consuetudine, in genere connessa alla festività di Sant’Antonio abate, viva ancora ai nostri giorni647 , ma che è indizio evidente dell’importanza dell’allevamento nella società ebolitana del XII secolo: il numero di capi portati a benedire, e di conseguenza le offerte, doveva essere talmente rilevante da farne singolare oggetto di richiesta di corresponsione648 . Ad un altro livello possiamo notare come evidentemente la benedizione degli animali avesse un significato rituale apotropaico, legato al timore che epidemie improvvise, una costante dolorosa nell’allevamento fino all’età contemporanea, potessero decimare gli armenti, evenienza chiaramente funesta, almeno per quella parte di società che affidava all’economia pastorale un ruolo determinante per la propria sopravvivenza, parte che, come si è visto, non doveva essere trascurabile. La pianura del Sele è stata dalla preistoria fino ai giorni nostri importante terminale della transumanza autunnale lungo la direttrice Appennino-Tirreno: greggi e pastori dai pascoli montani di Laceno e dei Monti Picentini percorrendo le comode vie naturali del Tusciano e del Sele andavano a svernare nella piana, così come dall’Appennino lucano, per risalire poi in estate ai pascoli Economia e società 119 montani649 . E’ ragionevole supporre che le attività legate all’allevamento in queste terre traessero beneficio anche nel Medioevo, oltre che dalla presenza delle mandrie locali, come quelle ad esempio dell’arcivescovo di Salerno, dalla vicinanza delle terre collinari e montane dell’alta valle del Sele. Qui la pastorizia aveva assunto già in epoca romano-imperiale un ruolo importante nella vita economica ed è pensabile che le mandrie allevate ad esempio nelle aziende romane di cui si ha notizia nei pressi di Piano del Gaudo, sul monte Cervialto650 scendessero durante l’inverno nella piana, mentre gli armenti allevati lungo il basso corso del Sele andassero all’alpeggio sugli altopiani dei monti Picentini imminenti sull’alto corso del fiume651 . Non diversamente, nel Medioevo, si dovevano percorrere le vie che univano le due aree alla ricerca dei pascoli più adatti al succedersi delle stagioni. Una situazione simile doveva riprodursi per quanto riguarda le terre degli Alburni. Una traccia di quanto detto, oltre alla conferma della rilevanza dei pascoli nella pianura del Sele, si può cogliere in un documento del 1231 con il quale l’imperatore Federico II conferma alla Santissima Trinità di Cava i privilegi concessi dai sovrani normanni fino a Guglielmo II, tra i quali il diritto di riscuotere nel casale Tusciano e nel tenimento di San Pietro ad Columnellum, l’erbatico, il glandatico e il fidagio652 . Quest’ultima richiesta, specifica e distinta dall’erbatico e dal glandatico, è da considerare tecnicamente come il canone da versare per l’affitto dei pascoli, la fida, esazione tipicamente legata alla presenza di bestiame transumante. Il documento è forse un falso prodotto alla morte dell’imperatore per sostenere i diritti feudali del cenobio cavense653 , ma in ogni caso descrive una situazione reale: evidentemente non ci sarebbe stata necessità di indicare il fidagio tra i diritti da riscuotere qualora non vi fosse stato un contesto concreto di pascolo transumante. La cospicua presenza di animali favoriva indubbiamente anche lo sviluppo agricolo delle terre di Eboli. Una delle cause delle basse rese e dell’impoverimento dei terreni nell’agricoltura medievale è notoriamente individuata nell’inadeguatezza delle concimazioni654 . Come si è visto ad Eboli la concimazione dei terreni avveniva attraverso la stabbiatura, ricordata in alcune richieste di letamazione655 . L’abbondanza di bestiame, sia stabulante sia transumante, doveva determinare ad Eboli, potenzialmente, una buona disponibilità di letame da impiegare nei campi. In quest’ottica è forse possibile, per la terra di Eboli, convertire la ‘strozzatura’ efficacemente tratteggiata da Giovanni Cherubini656 in un ‘circolo virtuoso’ così sintetizzabile: pascoli abbondanti = molto bestiame = molto concime = buona produttività 120 La Piana del Sele in età normanno-sveva della terra = benessere = relativo problema della fame = territorio produttivamente equilibrato nel suo insieme = pascoli abbondanti657 . L’altro tesoro dei boschi era naturalmente la legna, indispensabile materiale strategico, ma anche elemento necessario alle attività della vita quotidiana degli abitanti di queste terre. Le autorità protessero sempre il diritto delle popolazioni locali a recarsi nelle selve a far legna, così nel 1067 Gisulfo II rimarca la facoltà degli habitatores di Olevano di recarsi nel bosco, un tempo fiscale, ora della Chiesa, a tagliare, come consuetudine, la legna per le loro necessità658 . Ancora una volta gli enti ecclesiastici appaiono tra i maggiori beneficiari delle risorse naturali.In un documento pontificio Alessandro III confermava alla Chiesa di Salerno le decime dei boschi del Sele, evidentemente i redditi provenienti dall’esazione del legnatico in quelle aree659 . Nel 1114 Roberto, signore di Eboli, aveva concesso al monastero della S.ma Trinità di Cava, tra le altre cose, la potestatem ... in silvis que sunt foris hac predicta civitate in loco Tusciano usque ipso Siler lignamina quanta voluerint ... absque aliqua datione abscidere660 , chiaramente Roberto si riferiva al legnatico dal cui pagamento esentava l’abate cavense. Si tratta di aree marginali, ma che rappresentano importanti fonti di economia, come si può ricavare già dalla citazione delle decime spettanti all’arcivescovo per i boschi della terra di Eboli. La legna ricavata dal taglio degli alberi di queste aree è oggetto di commercio almeno a partire dal XII secolo: nell’interessante serie di documenti del novembre 1187 alcuni presbiteri olevanesi per provare l’appartenenza della tenuta di Campolongo all’arcivescovo di Salerno, testimoniano che oltre 30 anni prima i servientes di Romualdo II avevano venduto lignamina silvarum eiusdem tenimenti a mercanti amalfitani e salernitani661 . L’attività del taglio consentiva anche la formazione in loco di uomini addetti a tale lavoro: un indizio si rinviene in un documento del 1252 dove tra i testi di una redazione di una copia autentica compare un Giovanni tagliabosco662 . Altro elemento caratterizzante il paesaggio non antropizzato della piana era costituito dai laghi costieri: in particolare il lacum maiorem, un vasto pantano che si estendeva nel pieno Medioevo dalla foce del Tusciano alla tenuta di Campolongo, come si è detto, interamente ricadente nei possessi della Chiesa salernitana. Di questo grande lago palustre rimane oggi solo il Economia e società 121 toponimo sul frequentato litorale battipagliese, ma fino alla bonifica degli anni ’30 dello scorso secolo rappresentava probabilmente il vivaio malarico più rovinoso della Piana. Ma non sempre nel grande lago gli uomini, in particolare chi lo deteneva, aveva visto esclusivamente un infausto semenzaio di morte. Nel 1073 l’arcivescovo Alfano I concede all’atranese Giovanni Boccavitello l’intero lago per due anni: l’atranese in cambio verserà all’arciepiscopio la terza parte del pesce che egli stesso o i suoi servi riusciranno a pescare ogni giorno (cotidie ipsum lacum introeant et in toto eo piscent et piscare faciant )663 , inoltre Giovanni consentirà che l’arciepiscopio, qualora lo desiderasse, possa comprare il restante pescato ad un prezzo inferiore a quello normalmente praticato ad altri acquirenti (et quotiens sortes illorum ex piscibus vel ex ipsis pars ipsius archiepiscopii emere voluerint tociens ipse Iohannes...illas ei vendant et vendere faciantminus quam alijs hominibus venumdari possent ut iustum fuerit) . Lo sfruttamento intensivo del lago era favorito dalla nota ricchezza di pesce dei laghi salmastri e dalla facilità della pesca in uno spazio di questo tipo664 . Giovanni potrà migliorare le strutture produttive del lago costruendo un tugurium e infiggendo furcas sulle sponde per poi piazzare verosimilmente le retia a siccare dopo una giornata passata sulla lintrem . Si può definire il lavoro di Giovanni un’attività imprenditoriale rivolta, come si deduce dal documento, essenzialmente al mercato. Del resto doveva essere abbastanza agevole dalla foce del Tusciano raggiungere Salerno: si legge infatti nello stesso documento che, quando l’esattore del canone inviato dall’arcivescovo dovrà fare ritorno a Salerno (ovvero ogni giorno), Giovanni e i suoi figli lo accompagneranno per omnes vices navigio per mare apud hanc civitatem (Salerno) cum receptis piscis. E’ chiaro che in quell’occasione avrebbero trasportato anche l’abbondante pescagione da vendere il mattino dopo o la stessa sera sulla piazza salernitana. Particolarmente ricco di pesce doveva risultare anche il lago Paulinum, alla foce del Sele, affittato nel 1018 dai conti Giaquinto, Landone e Disiu per un anno a Giovanni atranense il quale manderà i suoi uomini per ipso lagum piscare 665 , una situazione simile a quella riscontrata per il non lontano lago Maiore nel locus Tuscianus. Anche il presbitero di Santa Maria e San Nicola potrà nel 1020 in ipso lago paulinum…nassas ponere pro pisces compreendum666 . Qualche decennio più tardi nello stesso lagum è documentata un’attività di allevamento ittico strutturata in vere e proprie peschiere667 . Il Sele costituiva, infine, una preziosa riserva di pesce per la Chiesa salernitana che deteneva diritti di pesca dall’età longobarda 122 La Piana del Sele in età normanno-sveva presso le sue acque. Un sistema di pesca utilizzato dagli uomini dell’arciepiscopio salernitano era quello delle cannitias668 , un metodo che si effettuava tramite incannucciate: in prossimità della foce veniva costruita una cortina di canne con l’alta marea; quando l’acqua si ritirava, i pesci restavano al di qua del recinto e potevano dunque essere facilmente catturati. Più in generale è presumibile che le acque del fiume, che con i suoi affluenti ancora oggi risulta ricco di trote, dovessero fornire utili integrazioni alla dieta degli abitanti di quelle terre. Varietà di sistemi per la pesca dunque, in queste terre, almeno tre, si è detto: reti, nasse, e cortine di canne, a cui si deve aggiungere forse la lenza669 . Ultima traccia che i documenti hanno lasciato dell’economia silvopastorale in queste terre è l’allevamento delle api. E’ evidente come nel Medioevo non sussistesse un tipo di allevamento analogo a quello odierno, con arnie artificiali. Le api selvatiche venivano alloggiate in tronchi d’albero svuotati disposti a pile, come si evince dagli Exultet del tempo670 , o gabbie di vimini intrecciati ai margini del bosco. Un documento del 1225 ricorda come nel tenimento cavense di San Nicola de Laneo tra le radure ai margini del Bosco grande, vi fosse un allevamento di api671 . Naturalmente tali allevamenti dovevano essere molto comuni, data l’importanza della cera per la produzione di candele ed essendo il miele, se non l’unico, di gran lunga il dolcificante più usato nel Medioevo. Si possono considerare questi tenimenti come degli avamposti, dei fori che bucano qua e là il manto selvoso che caratterizza il paesaggio del basso Sele: oltre in San Nicola de Laneo, ci siamo già imbattuti nel tenimento-casale di San Nicola di Mercatello e in quello di Santa Cecilia. Un’altra isola antropizzata tra le selve che lambivano la riva destra del Sele era San Pietro de Toro, un santuario, probabilmente centro di un abitato sparso, in rovina alla metà del XII secolo, non diversamente da San Nicola di Mercatello e tante altre chiese nella piana672 . Si tratta probabilmente della stessa chiesa di San Pietro nelle vicinanze del ponte sul Sele, costruito ex lapidibus et coemento, ricordati nella vita di San Berniero, come dallo stesso eremita costruiti.673 . In un documento del 1141 si indicano i confini delle terras cum silvis et vacuis inter quas ecclesia sancti Petri olim constructa fuit sed nunc diruta prope fluvium Sileris ubi ad Torum dicitur, terre donate alla Chiesa salernitana da Nicola di Principato. La chiesa sorgeva evidentemente su un’altura (torum) nei pressi del Sele tra questo fiume e il Telegro, non lontano dal vallone qui dicitur de Flocche (oggi Fiocche), lungo la via que ducit ad Eboli 674 , la strada che da Eboli Economia e società 123 menava a Capaccio. Le selve e le terre vacuae di questo esteso tenimento ne definiscono lo stato di abbandono in cui versa, sensazione acuita da quella via carraria che ne costituisce un confine meridionale e che per maiori parte modo non utitur675 . Anche il tenimento di San Vito sviluppatosi attorno al celebre santuario che in questi anni aveva subito un drastico ridimensionamento materiale rispetto ai fasti tardoantichi e, presumibilmente, altomedievali, doveva risultare in declino se dobbiamo giudicare dal San Vito nuovo676 . Poco distante, sull’altra riva del Sele i nuclei demici cresciuti intorno alle chiesette altomedievali di Ponte Barizzo e San Lorenzo di Altavilla Silentina risultano anch’essi in dissolvimento677 . Paesaggi di rovine segnano i boschi del XII secolo tra il Tusciano e il Sele; bisogna considerare queste macerie come desolate vestigia della sconfitta dell’uomo di fronte ad un ambiente naturale irriducibile dopo le effimere conquiste del secolo precedente o come indicatori di una diversa strutturazione delle politiche di controllo e sfruttamento del territorio? La risposta per ora rimane sospesa. 3) I mercati Idrisi nel passo riportato all’inizio di questo lavoro ricorda navi da carico che approdano presso il porto del Sele, evidentemente per imbarcare prodotti che poi andavano a commerciare sulle piazze dei centri costieri. In effetti la conformazione morfologica del territorio offre nello spazio di poche decine di chilometri tre aree ecologiche complementari: una pianura costiera a Sud segnata da corsi d’acqua e vasti laghi palustri, basse colline e pianure interne nella parte mediana, montagne ricoperte da boschi a settentrione, aree, come si è visto, ben collegate tra loro. Si tratta evidentemente di una condizione particolarmente felice, potenzialmente favorevole allo sviluppo di traffici commerciali, anche alla luce di quanto detto a proposito dei prodotti della terra e dell’incolto. Ma quale era il sistema di approvvigionamento e quali i prodotti del territorio che i mercati richiedevano? Le fonti scritte risultano alquanto avare in proposito, tuttavia i brandelli di documentazione disponibili dischiudono un orizzonte stimolante, seppur percepibile solo in parte. 124 La Piana del Sele in età normanno-sveva Il Sele doveva costituire il collettore principale delle produzioni, locali e non solo, riservate al mercato. Il fiume di per sè rappresentava, si è visto, una via formidabile d’attraversamento del territorio. A questa via, come ad un terminale, giungeva la fitta rete di percorsi che segnava orizzontalmente la piana, collegata al fiume da guadi e approdi estremamente funzionali678 . Queste strade erano percorse da mercanti di diversa provenienza : il loro passaggio era talmente frequente e radicato che già alla fine dell’XI secolo era fissato nella toponomastica, come in quel muricem que de negocianti dicitur a Rivopetroso non lontano dal Sele 679 . L’importanza nodale di queste terre per il transito delle merci, non solo della regione, si ricava dalla preoccupazione espressa da Carlo I d’Angiò affinché si ponesse presto riparo ai ponti sull’Irno sul Picentino e al pontem Tossani in territorio Eboli che, a causa dell’ impeto delle acque risultano quasi totalmente inutilizzabili, propter quod impediuntur mercatores et alii transeuntes, con grave danno doanarum et fundicorum di Principato e Terra di Lavoro e evidente incomodo di tutti680 . La circostanza che in un documento del 1277 si ricordi la strada a Salerno usque Tussanum et usque Acernum come consueta per chi dalla Campania si recasse in Puglia681 conferma come molti mercanti dovessero attraversare queste zone per raggiungere, superato lo spartiacque appenninico, la Puglia: così forse quei mercanti amalfitani che di ritorno da Melfi nella loro città furono aggrediti nel 1075 da Ruggero d’Altavilla, fratello del Guiscardo e futuro Granconte 682 . La fitta rete dei percorsi principali e secondari che giungevano agli attracchi fluviali, in particolare le vie carrarie, favoriva naturalmente la mobilità di uomini e merci, che, giunte sulle sponde del fiume, velocemente raggiungevano la foce dove venivano caricate sulle navi che avevano attirato l’attenzione di Idrisi. Una prova del funzionamento di questo sistema si ricava da un diploma del 1269 con il quale Carlo I concedeva ai monaci del cenobio salernitano di San Benedetto di trasportare dalle massariis predicti monasterii di Sancti Angeli Actanarici, Mannia et Lacu Pizula, il lago palustre alla foce del Tusciano683 , 400 moggi di grano de portu Silaris et maritime Salerni fino all’abbazia684 . Se nel XII secolo vigeva un sistema pubblico di controllo e di riscossione dei dazi sui passaggi del Sele, con ogni probabilità di origine longobarda685 , gli snodi principali di accesso al fiume risultano posseduti da enti ecclesiastici: sin dall’età longobarda l’approdo sottostante il ponte della via popilia sul Sele risulta concesso alla Chiesa salernitana686 , mentre a partire dai primi decenni del XII secolo la Badia di Cava inizia una politica di ac- Economia e società 125 quisizione dei porti del Sele concretizzata nell’incamerameto tra i beni abbaziali del porto di Mercatello e, forse, del porto alla foce del Sele687 . Gli stessi enti conseguono esenzioni sugli attraversamenti da parte dei signori normanni688 . L’interesse per gli approdi e i guadi del Sele è evidentemente legato ad aspetti economici: la semplice riscossione dei dazi su un punto nevralgico nello scacchiere delle comunicazioni tra il Sud e il Nord del Regno quale il porto fluviale sotto il ponte della vecchia popilia sul Sele doveva garantire notevoli introiti alla Chiesa salernitana, tanto più possedere approdi lungo il fiume consentiva un grosso vantaggio nel trasporto delle merci al mare e di qui alle case-madri o al mercato, come si è già visto per San Benedetto di Salerno. In particolare questo situazione doveva risultare particolarmente vantaggiosa per la Chiesa salernitana dal 1058 esente dal pagamento del plateatico a Salerno e in tutto il Principato689 . Non diversamente tali privilegi e il possesso dei porti del Sele risultavano grandemente vantaggiosi per gli abati di Cava che dal 1086 possedevano i porti di Vietri e Cetara690 , approdi dove si sarebbero potute far affluire facilmente le produzioni della piana per poi convogliarle verso la casa madre o il vicino mercato di Salerno, senza contare che dagli stessi porti agli inizi del XIII secolo si caricavano «nucellas, castaneas, lignamina vel alia»691 . Nel 1276 in via eccezionale Carlo D’Angiò consentì che l’abbazia di Cava trasportasse via mare 300 salme di frumento, orzo e legumi dal Sele. I regi ufficiali vigilarono, su disposizione del sovrano, affinché le derrate non fossero trasportate in altro luogo se non all’abbazia692 , circostanza che induce a ritenere che vi fosse il sospetto di una produzione per il mercato, ora vietata dal re, ma che prima era forse praticata. I cereali della Piana dovevano essere tra i prodotti più richiesti sui mercati693 . Sin dall’XI secolo si hanno indizi di una produzione cerealicola in queste terre finalizzata anche al mercato. Nel 1073 infatti il chierico Giaquinto, su mandato dell’arcivescovo salernitano Alfano I, concede ad laborandum una terra in loco Tusciano, stabilendo come corresponsione annuale un moggio di buon frumento (triticum bonum) secondo la misura del moggio plateatico di Salerno con il quale ille diebus per hanc civitatem publice venumdabitur iuste694 . Nel XIII secolo grano proveniente dalla piana del Sele è testimoniato sulla piazza di Amalfi695 . Altro prodotto che doveva riscuotere interesse sulle piazze, forse non solo del Regno, era sicuramente il legname, materiale strategico di primaria 126 La Piana del Sele in età normanno-sveva importanza per la costruzione delle navi, che, come si è visto veniva acquistato in queste terre da mercanti amalfitani e salernitani nel XII secolo696 . Ma anche più a nord i boschi dei Monti Picentini dovevano costituire un prezioso ed abbondante serbatoio di essenze arboree. Le montagne offrivano, infatti, sconfinate estensioni di faggete, tanto da mutuare spesso da esse il nome già nel Medioevo, come si coglie in Faitum, rilievo dei Picentini alle spalle di Campagna697 , essenze da cui si poteva ricavare materiale per la costruzione delle parti immerse delle barche, per i remi, per la realizzazione dei carri e delle zappe, oltre che per ottenerne del buon carbone. In questo contesto appare indicativo che tra i monti Picentini sulla dorsale che costituisce lo spartiacque tra l’alta valle del Tusciano e del Sele, dove domina quasi incontrastata la faggeta, si siano conservati toponimi quali Serra della Costa d’Amalfi e Varco delle Tavole, forse traccia di attività di taglio e lavorazione di tronchi d’albero698 . Se si considera la presenza nel Medioevo di Amalfitani in quelle zone699 e l’interesse che questi ultimi mostrano per la commercializzazione del legname di cui riforniscono i mercati nordafricani700 , fa pensare ad un collegamento tra le due cose forse sin dal IX secolo, ai tempi del Pactum Sicardi nel quale si accenna ai mercanti dei ducati costieri, gli amalfitani in particolare, che attraccano con le loro imbarcazioni in partibus Lucaniae, ossia nel territorio pestano, il cui confine occidentale era costituito sin dalla fondazione della colonia di Poseidonia, proprio dal Sele. E’ dunque probabile che i mercanti dei Ducati costieri alla ricerca di legno attraccassero anche alla banchina del portus maris del Sele ricadente in partibus Lucaniae701 . Dalle foreste montane e dai boschi costieri il prezioso materiale strategico poteva essere comodamente fluitato lungo il Sele fino al porto alla foce, nel luogo che, significativamente, viene ricordato nelle fonti dagli inizi dell’XI secolo come Mercatellum, quasi a marcarne una specificità funzionale702 . Di qui, gli Amalfitani o altri mercanti potevano fare rotta verso i grandi mercati, anche oltremarini. Se il commercio del legno poteva costituire un richiamo considerevole per i mercanti che si recavano alla foce del Sele, soprattutto nell’ottica del mercato a lunga distanza, non mancavano sulla piazza di Mercatellum altri articoli di cui le terre della piana non dovevano difettare, quali, come si è detto, il bestiame703 o i cereali. Tutto ciò doveva avvenire sotto la sorveglianza dei portunarii, il cui ufficio contemplava, come si è ricordato, anche la riscossione dei dazi relativi al trasporto delle merci704 . Nel rafforzamento dell’importanza di queste postazioni fluviali dovette assumere un ruolo non Economia e società 127 marginale lo sviluppo della vicina civitas di Capaccio, sorta nel IX secolo probabilmente per iniziativa degli abitanti della decaduta città di Paestum, in costante crescita economica nei due secoli successivi e fino alla distruzione da parte delle truppe di Federico II nel 1246705 . I contatti commerciali con Amalfi aventi come sorgente privilegiata le terre di Eboli e i porti del Sele sono confermati da un prezioso documento del 1212, un giudicato in cui la Chiesa salernitana accusa un tale mercante ebolitano Ruggiero, che si era recato da Eboli al Sele per poi imbarcarsi e andare a vendere olio e altre mercanzie ad Amalfi e in altre regioni senza pagare i tributi dovuti. A nulla valse la giustificazione di Ruggiero secondo il quale nulla era dovuto alla Chiesa salernitana in quanto le merci venivano trasportate per mare: dopo una lunga consultazione i giudici condannarono il malcapitato a pagare quanto richiesto alla luce dei privilegi concessi alla Chiesa salernitana dai vari sovrani706 . Dal documento sembra emergere la posizione privilegiata dell’olio nei commerci di Ruggiero e, in effetti, tra XII e XIII secolo la documentazione, come si è già accennato, mostra un accresciuto interesse per gli uliveti da parte di coltivatori e possessori, in particolare Cava e Montevergine. Si ricordi che nel territorio di Eboli la Chiesa salernitana deteneva il privilegio di disporre della quarta parte dell’olio prodotto (quartam olei)707 , probabilmente dalle terre demaniali. Oltre Eboli, numerose sono le notizie di oliveti nei casali di Olevano (forse uno dei luoghi di maggior produzione tra Salerno e il Sele) e di Liciniano, con interessamenti di enti ecclesiastici amalfitani quali San Lorenzo708 . L’olio di queste terre doveva costituire un prodotto di primario interesse sulle piazze non solo locali: così forse quel Pietro di Venezia doveva avere interessi di commercializzazione quando acquistò nel 1255 un oliveto sulle colline ad est di Eboli per ben 6 once d’oro709 . Neppure il pesce proveniente da queste zone doveva costituire un prodotto marginale tra quelli richiesti sul vicino mercato di Salerno: oltre al già ricordato lago maiore, quasi un’enorme vivaio dove il pescato era in funzione del mercato710 , anche il Sele doveva costituire un notevole serbatoio di pesce di agevole approvvigionamento711 . Come si può cogliere dai seppur rari accenni nella documentazione scritta, il legno, i cerelai, i legumi, l’olio e il pesce dovevano costituire alcuni tra i prodotti di queste terre più richiesti sulle piazze cittadine. Se i mercati di Salerno e Amalfi, dovevano essere i luoghi d’elezione per la vendita dei prodotti delle terre tra Tusciano e Sele, la documentazione 128 La Piana del Sele in età normanno-sveva rivela la presenza di mercati locali. Indizi dell’esistenza di un mercato ad Eboli si hanno già nel 1090 quando Roberto di Principato concede che l’arcivescovo di Salerno e i suoi vassalli siano liberi dal pagamento di ogni dazio o diritto di plateatico e portatico sia sulle persone che sulle merci che intromittent in Ebolum vel extraxereit de eadem, oltre a confermare le decime su omnibus redditibus nostris platearum, plancarum, tincte , celendre predicte terre nostre Ebol712 . Le decime derivavano dal privilegio di 10 anni prima con il quale Roberto il Guiscardo che aveva concesso ad Alfano I le decimas de omnibus redditibus nostris predicte civitatis nostre Salerni et terre Eboli713 . Dunque già alla fine dell’XI secolo esisteva un movimento di merci in entrata e in uscita dal borgo di Eboli, circostanza che testimonia la presenza di un mercato intramurano all’inizio della dominazione normanna. Altro punto di stoccaggio e di commercializzazione delle merci fin dall’età longobarda doveva essere, si è visto, il Mercatellum alla foce del Sele. L’emergere nelle terre tra il Tusciano e il Sele a partire dalla seconda metà del XII secolo di aree vocazionali (zona Tusciano e Calli con predominanza di cereali, zona collinare periurbana a coltura arbustiva,) potrebbe essere interpretata come tentativo di razionalizzare le grandi potenzialità agrarie, e non solo, del territorio; dico “non solo” riferendomi all’importanza dei pascoli e al pregio degli estesi boschi planiziari. Nella strutturazione di questo paesaggio tra XII e XIII secolo, mi pare possa considerarsi in grande misura influente la domanda dei mercati, in particolare di Salerno e Amalfi, che nelle produzioni di questo territorio trovarono senza dubbio sin dall’alto Medioevo una fonte copiosa di approvvigionamento. La forte produzione cerealicola è confermata dall’attestazione di una gran quantità di mulini nel territorio. Già le carte della metà dell’XI secolo ricordano mulini incamerati poi nel patrimonio della Trinità di Cava lungo il Tusciano: un numero imprecisato nella zona dei Serroni sulla sponda destra del Tusciano714 , ben quattro nelle vicinanze di Sant’Arcangelo715 e uno nei pressi di San Mattia716 . Nel 1135 sono ricordati mulini di Guglielmo figlio di Sichelmo nel casale Tusciano717 . Numerosi mulini sono menzionati anche nelle terre intorno ad Eboli: nel 1124 si rinviene una concessione di terra per la costruzione di un mulino in località San Nicandro718 ; un mulino è ricordato nella contrada Curbella nel 1140719 , un mulino è attestato in località Acque, nei pressi di Calli, nel 1170720 . Nel 1200 sono attestati altri due mulini nella contrada Calli uno in località Maniamero l’altro, poco distante, a Radelmondo721 . Anche nei pressi delle mura di Eboli era edificato un mu- Economia e società 129 lino, non lontano dalla chiesa di San Barbato722 . Ancora nel 1186 è menzionato un mulino in contrada Costerolo723 mentre nel 1220 è ricordato il mulino de Albiscenda della Chiesa salernitana724 , infine nel 1255 il mulino detto Via la cui quarta parte viene venduta per 11 once d’oro725 . 4) Attività artigianali e condizione sociale Uno degli aspetti più sfuggenti in generale dell’età normano-sveva è rappresentato dalla figura e dalla condizione dell’artigiano nelle terre del Regno, innanzitutto a causa della natura delle fonti scritte giunte sino a noi, sebbene questo stesso silenzio sia da considerare, come è stato messo ben in evidenza da Raffaele Licinio, per tanti aspetti testimonianza della posizione degli artigiani nella considerazione sociale del tempo726 . Le carte pervenute sino a noi relative a questi anni nelle terre tra Tusciano e Sele non trattano direttamente degli artigiani: la preoccupazione maggiore, se non unica, degli abati cavensi e degli ordinari salernitarni, dai cui archivi proviene gran parte delle carte di questo periodo per l’area considerata727 , era la terra. La scarsità delle indagini archeologiche sul territorio non permette di sopperire al silenzio delle fonti scritte con i dati della cultura materiale se non in minima parte. Ciò nonostante emergono da queste carte informazioni importanti, non esclusivamente sulla variegata classificazione delle categorie lavorative di questi ingegnosi detentori di preziosi saperi pratici, ma anche sulla loro condizione e, in qualche modo, il loro ruolo nella società del tempo. La documentazione scritta relativa alle terre tra Tusciano e Sele ricorda numerosi artigiani; solo a voler scorrere gli indici del lavoro di Carmine Carlone sulle carte di Eboli emerge una notevole ricchezza di vocazioni in tal senso: calzolai, fabbri, macellai, conciatori e addetti alla lavorazione delle pelli (pelliperi) e dei panni, ramieri, addetti all’edilizia (fabricatores), vasai, pettinari, pittori, lavoratori del bronzo (erarii), armieri, tessitori, costruttori di carri (carrari), popolano le carte di età normanno sveva728 . Talvolta, con una certa sorpresa, si scopre che sono donne ad essere detentrici di alcuni importanti saperi pratici, come quella Alberada oliarola, ossia addetta all’oliaria o olearia, il frantoio729 , o quella Gemma calzularia che a Campagna nel 1174 esercitava il mestiere decisamente poco muliebre della ciabattina 730 . 130 La Piana del Sele in età normanno-sveva Una delle attività artigianali più importanti nel territorio doveva essere l’arte della tessitura. Già nel 1090 Roberto di Principato, confermando all’arcivescovo di Salerno Alfano II le decime su alcune attività che si tenevano nel territorio di Eboli (decimas... predicte terre nostre Eboli), ricorda le tincte e le celendre731 , termini con i quali si indicavano le tintorie per i panni (tincte) e le macchine per la realizzazione di questi (celendre, i cilindri per la follatura dei panni). Documenti posteriori confermano la continuità di questa attività manifatturiera anche nei secoli successivi732 . Tali attività si svolgevano nel XII secolo in edifici con funzioni esclusivamente produttive, controllate dal sovrano, come mostra un documento relativo alla tincta di Salerno in cui il re Tancredi concede all’arcivescovo «tinctam totam et integram cum domo in quo exercetur tincta et ominbus pertinenciis eiusdem omi et cum...appenditiis ipsius tincte»733 . Un addetto di Eboli alla produzione dei panni era quell’Arnaldo tessitore ricordato in un documento del 1212 come possessore di una vigna in località Moreno734 . Altra figura incardinata al settore della manifattura tessile è quella del parmentarius o palmentarius735 , come quel Matteo di Eboli che appare per la prima volta in un documento del 1193 come fideiussore in una concessione di terre736 . Qualche anno più tardi, nel 1202, troviamo lo stesso Matteo costretto a vendere una casa ad Eboli per mezza oncia d’oro al ciabattino Pietro pro intolerabili necessitate et ingenti tempore famis737 , circostanza non rara in quegli anni tribolati738 . La circostanza che Matteo compaia ancora come fideiussore in un documento del 1208739 , fa ritenere che la crisi in quegli anni, almeno per lui, fosse ormai alle spalle. E’ probabile che l’attività tessile ad Eboli fosse agevolata dalla vocazione pastorale di parte del territorio. Il facile approvvigionamento di lana nella zona, insieme alla grande disponibilità di legna necessaria al funzionamento degli opifici, avrà favorito questo settore produttivo. Attività in qualche modo affine al tessile era la lavorazione delle pelli, e qui le attestazioni risultano molto più numerose: pellipari, conciatori, ciabattini (corviserii) fanno spesso capolino nelle carte considerate a partire dal 1098, allorquando il corviserius Palumbo compare come fideiussore in una compravendita nel locus Tusciano740 . Anche qui, come negli altri settori dell’artigianato, emergono disparità nella condizione socio-economica: se nel 1153 Domenico corviserius poteva investire 45 tarì d’oro per acquistare una terra nei pressi di Eboli741 o nel 1212 Trogisio calzolaio compariva come fideiussore in una transazione per ben 4 once d’oro742 , nel 1212 la vedova Economia e società 131 del calzolaio Ruggiero si vede costretta pro intolerabili famis necessitate et corporis nuditate a vendere per circa tre once d’oro una terra con viti e ulivi nel locus Moreno, nelle campagne ad est di Eboli743 , mentre Nicola pellipario nel 1232, alla morte della moglie, per volontà testamentaria di quest’ultima, devolverà in opere pie ben 2 once d’oro per la salvezza della sua anima, indice di una condizione manifestamente agiata744 . Nel ricordato documento del 1090 di Roberto di Principato si accenna anche all’attività di macellazione (decimas plancarum), anch’essa favorita dalla forte presenza di attività legate all’allevamento nel territorio. E in effetti nel territorio di Eboli si rinvengono numerosi personaggi legati alla macellazione di animali745 . Tra questi emerge in particolare il macellaio Giordano di Eboli che nel 1201 cede alcune sue proprietà nella località Macchia in cambio di 23 maiali746 . Dunque Giordano, che oggi definiremmo un piccolo imprenditore, investe presumibilmente parte dei suoi averi per l’acquisto di un gregge che poi evidentemente affiderà qualche pastore traendone in seguito la carne che poi venderà nella sua planca. Mestiere particolarmente specializzato era quello dell’armiere: si trovano nei documenti considerati tre costruttori di balestre, armi formidabili nelle mani dei guerrieri del XII e del XIII secolo. Un Alessandro balestriere (arbalestriere) compare in un documento del 1171 come fideiussore in una comprevendita di un mulino747 , mentre un Luca arbalestriere, esecutore testamentario in una carta del 1231748 , deteneva terre laboratorie con ulivi e fruttiferi nelle campagne di Eboli749 . Altro balestriere è Alessandro, omonimo del primo, che nel 1249 vende due terre nel casale Palude di Eboli per due once d’oro750 e compare come teste in un documento del 1262751 . Una famiglia di costruttori di archi si rinviene nei documenti di XII e XIII secolo. Un Anselone arcario è ricordato insieme al figlio Matteo nel 1190752 , mentre suo nipote Cristoforo arcario figlio di Matteo, anch’egli arcaro, compare come fideiussore a Eboli nel 1230753 e nel 1233754 e come testimone in una carta del 1242755 . In un interessante decreto regio angioino del 1281 si ordina alle autorità del Principato di Salerno di realizzare 40.000 quadrelle da balestra, specificando che i migliori fabbri per la produzione di punte si trovano ad Amalfi, Avellino, Sant’Agata dei Goti e Eboli756 . Questo accenno, unito ai dati sui costruttori di armi, permette di adombrare per Eboli un ruolo non marginale nella produzione di armi in Italia meridionale nel XIII secolo, così come la presenza nella documentazione di età normanno-sveva di armieri detentori 132 La Piana del Sele in età normanno-sveva di terre e fideiussori, ovvero garanti e responsabili della transazione, ne mette in evidenza la condizione agiata. Ancora una volta la facilità di reperimento di materie prime in loco quali il legno e, forse, il ferro, costituirono un presupposto necessario per il fiorire di tali maestranze. L’accenno ai fabbri di Eboli e alla loro apprezzata perizia ci spinge a tentare di indagare il ruolo di questi ultimi nella società ebolitana del tempo. Uno dei più facoltosi doveva essere quel Nicola detto de perfecta, forse per la sua maestria, alla cui morte, avvenuta nel 1168, i due figli, anch’essi fabbri, si dividono un patrimonio per nulla trascurabile costituito da due case in muratura, una nel centrale quartiere di San Lorenzo, l’altra nel sobborgo extramurano di Francavilla nella parrocchia di San Bartolomeo, una vigna e due terre laboratorie757 . Nella Eboli del XII secolo poteva capitare che un fabbro si trasformasse in imprenditore, come quel Rossemanno fabbro, figlio di un altro fabbro, Giovanni, cui un tale Raone concede un sedimen in località San Nicandro affinché vi edifichi un mulino con una plaleta (piazza). Rossemanno opererà a sue spese e, dopo la costruzione, concedente e concessionario divideranno le spese di gestione dell’opificio758 . Si tratta di un investimento in denaro e in lavoro, in quanto con ogni probabilità Rossemanno avrà provveduto alla realizzazione degli ingranaggi di ferro, le ferraturie dei documenti, necessari al funzionamenti del mulino. Considerando la difficoltà tecnica di una tale impresa e l’alto costo, ci si può fare un’idea della perizia e della condizione economica del fabbro Rossemanno759 . La relativa agiatezza economica permette ai fabbri di Eboli di comparire come fideiussori nelle carte del XII secolo in transazioni anche onerose760 . Una certa floridezza di alcuni fabbri ebolitani trapela anche nella documentazione del XIII secolo in cui compaiono come detentori di terre coltivate761 o come fideiussori per cifre che arrivavano fino a 7 once d’oro762 . All’interno della categoria dei fabbri un posto particolare per le competenze specializzate doveva essere riservato al bronzista, l’erarius dei documenti medievali. Ad Eboli si hanno due testimonianze di questi artigiani763 . Anche a Salerno sono documentati erari che svolgono la propria attività in botteghe fuori dalle mura764 . Addetti alla metallurgia erano anche i ramari, numerosi ad Eboli, tra cui spicca quel Leone che, come si vedrà più avanti, risulta legato ai signori normanni di Principato. Altro mestiere abbastanza diffuso ad Eboli in questo periodo è il vasaio. Economia e società 133 Nel 1089 si ha notizia di Petrus magister figulorum che possedeva una casa foris murum castelli, nelle vicinanze della porta que de la terra dicitur765 . Probabilmente si trattava piuttosto di una bottega, come si deduce anche dalle modeste dimensioni (circa 15 m2), nella quale il maestro vasaio Pietro aveva il suo laboratorio di ceramiche, attività favorita dalla vicinanza delle acque del torrente Telegro, elemento fondamentale per la depurazione delle argille, e dalla presenza delle argille siltose rosse nei terreni ai piedi della collina del castello, oltre che dai boschi da cui proveniva verosimilmente il combustibile per la cottura dei pezzi766 . Nella documentazione ebolitana sono ricordati numerosi altri vasai: nel 1117 è menzionato un Costantino lutifigulo in una transazione relativa ad una terra a Moreno767 , nel 1170 Pietro lutifigulo acquista una terra nella contrada Brista di Eboli768 , nel 1182 si ricorda il lutifigulo Roberto come venditore di due terre a Calli769 e nel 1186 come fideiussore in una commutatio ad Eboli770 , nel 1218 il lutifigulo Giovanni compare come fideiussore in una vendita di un uliveto per mezza oncia d’oro771 infine Perretta lutifigulo appare fideiussore nel 1236 in una transazione per una terra del valore di oltre un’oncia e mezza d’oro772 . Paolo Peduto ha delineato le competenze professionali di questi lutifiguli, identificandoli in cavatori e addetti alla depurazione dell’argilla destinata a costituire la materia prima per l’arte di qualche magister figulorum773 . Qui a Eboli tuttavia è probabile che i lutifiguli fossero addetti anche alla produzione dei vasi, non essendo ricordata altrimenti nella documentazione esaminata la figura del vasaio774 . Si trattava peraltro di personaggi benestanti, come si è visto, possessori di terre e chiamati come garanti in transazioni anche di notevole valore, dunque difficilmente riducibili a semplice manovalanza, seppur appena specializzata. Da quanto visto finora si può affermare che la totalità delle attività artigianali fossero favorite ad Eboli dall’abbondanza delle materie prime disponibili sul territorio, in primo luogo il bestiame, ma anche la creta e probabilmente giacimenti ferrosi e soprattutto dalla ricchezza delle foreste da cui proveniva il legname, necessario,come è noto, in grande quantità nei processi di produzione ricordati. Bisogna dunque sottolineare ancora una volta quanto fosse prezioso lo sfruttamento e, insieme, la salvaguardia dell’elemento selvatico del territorio per gli equilibri e la crescita economica della terra di Eboli. 134 La Piana del Sele in età normanno-sveva Tra i mestieri singolari che si esercitavano a Eboli vi era quello del cantatore e dello iocularius, del giullare, i professionisti medievali dello svago che dovevano forse rallegrare le tavole dei notabili ebolitani o le feste che si tenevano nel borgo, organizzando piccoli spettacoli in cui recitavano versi, ballavano e cantavano. Un Giovanni iocularius è ricordato in un documento del 1189775 ; un Pietro cantatore vende una metà di una terra presso Eboli per 2 once e mezza d’oro nel 1213776 mentre un Roberto cantatore acquisisce nel 1252 una terra con ulivi alla località Grataglie di Eboli777 e nel 1255 vende un uliveto in località Moreno per ben 6 once d’oro778 . Si tratta di uomini di spettacolo, diremmo oggi, la cui condizione economica, come si è visto, in taluni casi non è affatto disprezzabile, ma su di essi grava da sempre un pregiudizio: si dice che fossero personaggi spesso dalla reputazione non cristallina, marginali, ritenuti portatori di una carica trasgressiva, sovvertitrice dei valori stabiliti e che la storiografia corrente dipinge come oggetto costante di vituperio, in particolare da parte delle autorità ecclesiastiche779 . Il fatto che la figlia dello iocularius Giovanni, Oliente, sia una oblata (soror et oblata) di uno dei più prestigiosi cenobi di quegli anni, la Santissima Trinità di Cava, e non si vergogni del mestiere del defunto padre, tanto da ricordarlo in una carta di concessione dello stesso monastero780 , fa riflettere sulla pericolosità di utilizzare la bussola del luogo comune quando ci si voglia orientare tra le strade insidiose del Mezzogiorno medievale. Un altro mestiere da sempre considerato sul crinale della legalità è quello del tabernarius, il gestore della taverna, che troviamo in diversi documenti del casale Tusciano nei secoli XI e XII. La taverna del Tusciano, o almeno quella cui si riferiscono i nostri documenti, si trovava non lontano dal fiume, nei pressi della chiesa di Sant’Arcangelo, sulla via che conduceva ad Eboli. La taverna era stata donata insieme ad alcune terre dal duca Ruggiero Borsa all’abbazia cavense nel 1089781 . E’ difficile dai dati disponibili dedurre quale fosse la funzione della nostra taberna, termine che, come è noto, in età normanna e sveva assume il duplice significato di ostello e di bottega in cui si effettuano anche piccole transazioni782 . La collocazione lungo una strada trafficata come quella che da Battipaglia conduceva ad Eboli, via che seguiva il tracciato dell’antica popilia783 , lascia trasparire una funzione di ospitalità della taverna, ma una serie di transazioni del XII secolo, relative a terre del casale Tusciano, in cui Vito e Giovanni, figli del tavernaio Andrea compaiono quali fideiussori, fa ritenere che nella taverna si concludessero anche accordi commerciali784 . La posizione della taverna del Tusciano nei pressi di uno Economia e società 135 snodo viario importante785 ne faceva probabilmente un luogo di incontro di mercanti, chierici, pellegrini, viandanti, terminale dunque di notizie provenienti da lontano, voci che correvano lungo i canali non ufficiali della diceria, brusio di sottofondo di un mondo più dinamico di quanto comunemente si pensi, magari ascoltate e narrate sorseggiando un robusto vino locale prodotto nei vigneti dell’abate cavense786 . Si è detto come in generale si sia concordi nel ritenere che gli artigiani ricoprissero un ruolo marginale nelle vicende politico-istituzionali del Regnum. Questo giudizio è fondato essenzialmente sulla base dell’assenza di questa categoria produttiva nelle fonti scritte, in primo luogo cronachistiche787 . La nostra documentazione sostanzialmente conferma quanto finora ritenuto, tuttavia di tanto in tanto emergono personaggi che partecipano in qualche modo alla vita anche politica di Eboli in età normanna. Un Osberno pelliparius è ricordato tra i boni homines, ossia personaggi di riconosciuto prestigio sociale, chiamati a presenziare per la loro autorevolezza ad un atto, spesso mediatori tra il popolo e il signore, del castello di Eboli, alla presenza di Guglielmo di Principato in un documento del 1135788 . Tra gli artigiani ricordati nelle nostre carte emerge la vicenda di Leone ramaro figlio di Sergio e della sua famiglia. La fortuna di Leone pare legata al suo rapporto privilegiato con il signore di Eboli, Roberto, il quale nel 1104 gli concede ben otto appezzamenti di terra nella piana, ricevendone 64 tarì d’oro789 , un censo poco più che simbolico. Due discendenti di Leone, il miles Pagano nel 1177 e il cugino Leone, anch’egli miles, residente nel casale Tusciano790 , nel 1178 risultano detentori di terre nel casale Tusciano791 . Lo stesso miles Leone nel 1184 dona una terra detta Rotonda presso San Clemente alla Santissima Trinità per la remissione dei suoi peccati792 , mentre nel 1192 riceve da Pietro vestarario dello stesso monastero il sedio di un mulino in cambio di una terra laboratoria793 . Nel 1192 Leone risulta agente del cenobio cavense in una compravendita di terreni794 . La famiglia di Leone ramaro, dunque, nel corso di due generazioni ascende nella scala sociale ebolitana dalla posizione di artigiani ai ruoli della gerarchia militare normanna, fondata sul servitium feudale. Altre volte i discendenti degli artigiani intraprendono ‘carriere’ diverse, come quel Giovanni presbitero figlio di Michele corviserio795 o quel Pietro presbitero figlio di un fabbro796 . Si tratta di esempi di mobilità verticale di elementi della classe degli artigiani che, per quanto rari, attestano un certo dinamismo sociale. A partire dal XII secolo si riscontra un ambito prevalentemente urbano 136 La Piana del Sele in età normanno-sveva della attività degli artigiani documentati797 . I motivi di questa attrazione sono evidenti: committenza più ricca in città, maggiori occasioni di lavoro, ma nel contempo costituiscono il riflesso di una società più complessa in cui i ruoli vanno definendosi in modo netto, con la scomparsa della figura del contadino-artigiano. Anche la vita sociale degli artigiani si svolge prevalentemente in ambito cittadino; qui si stringono rapporti, si consolidano i legami, spesso tra artigiani riconducibili ad un medesimo settore produttivo: così, ad esempio, al capezzale dell’ebolitana Aurigemma nel giugno del 1231 troviamo accanto al marito, il pellipario Nicola, come mundoaldo Torgisio calzolaio e come esecutori testamentari Luca balestriere e il calzolaio (corviserio) Nicola798 . L’investimento dei proventi delle attività artigianali è, come emerge chiaramente dalla documentazione scritta, sulla terra, prevalentemente nelle campagne immediatamente nei dintorni di Eboli. La terra emerge sempre come cartina di tornasole della mobilità verticale nel Medioevo, manifestazione materiale della rappresentazione sociale a tutti i livelli, dal signore al parvenu. Oltre agli esempi citati sopra, si rinvengono numerosi artigiani detentori di appezzamenti di terre tra il Tusciano e il Sele nella documentazione di età normanno-sveva799 . Tuttavia diversamente da chi è legato direttamente alla terra, e dunque ad una economia essenzialmente di sussistenza, la condizione sociale e economica dell’artigiano e della sua famiglia sembra più esposta ai colpi imponderabili della sorte per cui talvolta questi, o chi ha improvvisamente lasciato, è spinto dalla necessità a cedere parte di quello che per lui rappresentava forse poco più che un segno di distinzione sociale o un bene-rifugio da far fruttare in qualche modo nel tempo sfavorevole800 : così nel 1197 la vedova del calzolaio Guglielmo dovette cedere una uliveto a Calli spinta dalla fame801 ,o, come si è visto, Matteo palmentarius che nel 1202 si trovò a vendere alcuni suoi beni a causa probabilmente delle guerre tra svevi e normanni che turbarono gli assetti di queste terre, mentre alla morte del calzolaio Ruggiero, la vedova Avaricia, trovandosi nell’impossibilità di nutrire se stessa e i suoi tre figli (evidentemente minorenni e dunque non in grado di continuare l’attività paterna), vendette una sua proprietà, tra l’altro anche di un certo valore, circa tre once d’oro, circostanza che fa ritenere come prima della morte di Ruggiero, forse improvvisa, la famiglia potesse condurre un’esistenza relativamente agiata802 . Economia e società 137 5) Frammenti di vita quotidiana nelle terre tra il Tusciano e il Sele Numerosi spiragli si aprono tra le pieghe della documentazione sulla vita quotidiana degli abitanti delle terre tra Tusciano e Sele e sulle fasi più intense che la scandivano. Un’occasione di festa doveva essere il matrimonio, ma anche questo, come è noto, era regolato da una serie di adempimenti legali e spesso frutto di interessi certamente non riconducibili alla sfera sentimentale. Non sappiamo se anche in queste terre avvenisse quello che rivela un ecclesiastico siciliano in una celebre lettera a Pier delle Vigne: alla metà del XIII secolo le ragazze siciliane erano talmente pudiche che gli accordi matrimoniali avvenivano esclusivamente per tramite di accordi tra genitori, direttamente o per mezzo di ruffiani803 . Di certo i contatti prematrimoniali dovevano essere alquanto rari anche da queste parti. Nel maggio del 1165 ad esempio Urso Cacace del casale Tusciano si impegna per iscritto a prendere in moglie Grusa alla presenza del fratello di lei Salerno, ma lei è assente, come consuetudine. Il documento viene redatto il giorno stesso delle nozze804 . Il giorno dopo, presenti amici e parenti a festeggiare l’evento, Urso, secondo l’uso longobardo, concede alla moglie il morgengabe, letteralmente il dono della mattina, ossia la quarta parte di tutto quanto possiede805 . La condizione subalterna della donna in questi anni ne doveva fare in certe circostanze oggetto di violenza da parte del marito; per evitare che ciò si verificasse il padre della nubenda, preoccupato di questa possibilità, rimarcava talvolta nell’atto che sanciva l’accordo matrimoniale l’obbligo dello sposo a trattarla degnamente: così in un documento del 1125 Pietro di Acerno, nel ricordare al futuro marito della figlia Sica, Stasio, i termini del matrimonio, sottolinea come quest’ultimo debba vivere tranquillamente e in modo pacifico con lei, trattandola con ogni riguardo, come facevano i suoi parenti con le loro mogli, senza usarle ingiustizie806 . Usanza che si perde nella notte dei tempi è la dote della sposa, capitale integrativo importante per il futuro della famiglia che andava a formare, attraverso il quale la donna è immessa a pieno titolo e con un deciso ‘potere contrattuale’ nella struttura patriarcale nella quale in genere si inseriva il nuovo nucleo familiare. La dote si compone di beni immobili (terre, case) e mobili. A volte dai documenti si ricavano elenchi dettagliati; nel 1235 Martino assegna la dote alla figlia Margherita secondo le consuetudini di Eboli: la metà di una casa , la metà di un oliveto, un letto, il rame (ossia le pentole), 138 La Piana del Sele in età normanno-sveva l’apparato (probabilmente ciò che oggi comunemente si definisce biancheria) e mezza oncia d’oro807 . Di certo Martino non se la passava male se poteva permettersi una dote del genere per la figlia, ma siamo informati di doti anche più cospicue, come quella che l’ebolitana Benincasa aveva ricevuto il giorno del matrimonio e che ora, prossima alla morte, con il consenso del marito il magister Gionata, si appresta a trasmettere alle tre figlie ancora minorenni: una terra laboratoria con alberi fruttiferi, due oliveti, un orto con alberi fruttiferi, l’apparato ed il bronzo (forse le pentole)808 . Se i matrimoni risultavano spesso combinati, l’amore forse lo si poteva trovare altrove, ed ecco spuntare figli illegittimi, che però si considerano come se fossero legittimi e si avviano agli studi809 o si fanno partecipi dei propri averi, consapevole la consorte legittima il cui stato d’animo possiamo provare solo ad immaginare810 . Rarissime le separazioni e, in genere causate da motivi gravi. La documentazione esaminata ricorda la vicenda di Bellemma di Altavilla e Palmerio di Tommaso che nel 1221, divorziati e separati, accompagnati dal priore dell’Ospedale di San Giovanni di Eboli, Onofrio, si accordano alla presenza del giudice Guglielmo sui beni dotali di Bellemma: quest’ultima riceve 1/3 di oncia d’oro rinunciando a qualsiasi altra pretesa811 . Accanto ai momenti di gioia, non sapremo mai fino a qual punto sincera nel caso di un matrimonio in questi anni, tra le righe della documentazione scritta serpeggiano gli spettri che hanno agitato ciclicamente i sonni di una parte considerevole degli abitanti del Mezzogiorno, e non solo, fino all’età contemporanea, primo fra tutti la Fame. La Fame sembra materializzarsi in unione con l’altro fantasma che si aggira per il Medioevo, la Guerra. Così le carte tracciano un arco cronologico preciso nel quale la fame fa la sua comparsa tra il Tusciano e il Sele, gli anni che vanno dal 1194 al 1212: negli anni precedenti e in quelli successivi questo termine è significativamente assente dalla documentazione scritta, se si esclude un documento del 1157 in cui Gemma e Arcontissa abitanti di Eboli sono costrette a vendere un terreno pro famis necessitate vel gravi pondere debitorum, poiché i mariti sono morti812 , forse in seguito al conflitto che in quegli anni aveva visto contrapposto Nicola di Principato al re Guglielmo I (1155-1156). Non che prima e dopo queste date la fame fosse assente in queste terre, ma la registrazione di queste realtà nella documentazione scritta fa pensare che in questi periodi la necessità travalicasse i limiti consueti. Fu il conflitto normanno svevo per la successione al trono di Guglielmo II alla fine del XII secolo, particolarmen- Economia e società 139 te cruento nelle terre del Salernitano principalmente per l’azione dello svevo Dipoldo di Vohburg 813 , a determinare l’aggravarsi di insicurezza e pericoli per gli abitanti di queste terre. In genere è la condizione di vedovanza a creare i disagi più gravi: si è già accennato ad alcuni casi814 a questi aggiungo la vicenda della vedova Maria e dei figli Abioso, Agnese e Giovanni che pro famis necessitate et pondere debiti si vedono costretti a vendere una casa nel quartiere della parrocchia di San Giorgio nel 1194815 . La fame è naturalmente effetto della povertà, una povertà talmente forte da non permettere neppure la possibilità del cibarsi per sopravvivere. I poveri nella nostra documentazione emergono quasi esclusivamente come soggetto passivo, e questo fatto non suscita sorpresa. Ciò che forse sorprende un po’ di più è che i poveri compaiano nei documenti esaminati solo a partire dalla metà del XII secolo, ma anche questo, come si vedrà, non è forse un caso. Solo a partire dal 1151 infatti si fa specifica menzione nelle carte di donazione a distribuzione di beni ai poveri, segno forse che in quegli anni la presenza di quest’ultimi andava facendosi più vistosa816 . Altro sintomo del timore di un’incipiente indigenza diffusa nelle terre ebolitane nella seconda metà del XII secolo, si coglie nei documenti in cui intere famiglie offrono se stessi e i propri beni agli istituti monastici ricevendone in cambio la sicurezza di un sostentamento vitalizio. Così ad esempio nel 1152 Giovanni Caputalvus e la moglie Trotta offrono alla Santissima Trinità di Cava tutti i loro beni mobili ( ben tre case nel quartiere ebolitano di San Lorenzo e due terre nei dintorni del castello) per la salvezza delle loro anime, ma se ne riservano l’usufrutto vita natural durante, obbligando il monastero ad intervenire nel caso tali rendite non si fossero rivelate bastevoli al loro sostentamento817 . Il caso di questi due coniugi fa comprendere come l’angoscia di ritrovarsi improvvisamente poveri fosse avvertita come una possibilità non remota in questi anni anche da personaggi che si possono ritenere benestanti, segno di una situazione generalizzata di incertezza818 . Numerose sono le testimonianze documentarie in questi anni di pie oblazioni testamentarie in favore dei poveri a Eboli e nel territorio della Piana. Così ad esempio nel 1156 Teodoro del casale Tusciano in punto di morte stabilisce che venga venduto un terreno di sua proprietà del valore di 92 tarì e che metà del ricavato venga distribuita ai poveri per la salvezza della sua anima819 . Più in generale si può notare, come si è accennato, che questi segnali emergano alla metà del XII secolo, ovvero in coincidenza con la crescita insediativa nel castellum Ebuli e con l’espansione extramurana, segno evi- 140 La Piana del Sele in età normanno-sveva dente di una pressione demografica. Il passaggio di molti abitanti delle campagne circostanti attratti nell’orbita urbana ebolitana dalla condizione di contadini a qualcosa di diverso (di artigiani, per lo più) se, da un lato, apriva orizzonti teoricamente più allettanti di una vita agiata, dall’altro, come si è detto, spalancava rischi concreti di ritrovarsi sul baratro della fame: se prima infatti il legame diretto con la terra garantiva quantomeno il necessario per la sopravvivenza con i frutti che se ne ricavavano, ora le attività legate ad un ambito urbano di produzione espongono più decisamente ai rischi della miseria, massimamente nei momenti di crisi politica: così al tempo della ribellione di Nicola di Principato a Guglielmo I (1155-1156), così negli anni del conflitto normanno-svevo. Ci si può trovare da un giorno all’altro indigenti e questa condizione rappresenta molte volte un punto di non ritorno. Non è forse un caso che in questi anni fioriscano istituti di accoglienza, gli hospitales, nelle terre di Eboli, lungo le vie di maggiore percorrenza, probabilmente con una missione duplice: accogliere i poveri e ospitare i pellegrini820 ; si trovano così documentati nei primi anni del XIII secolo l’Ospedale di San Giovanni821 lungo il tracciato della vecchia popilia, l’Ospedale dei poveri di Montevergine a Pendino, anch’esso nei pressi della strada che da Eboli menava a Salerno 822 noto anche come l’ospedale de Gausente823 , forse anche un ospedale di Santa Maria dei Teutonici824 . A queste strutture di ospitalità bisogna aggiungere le sedi di accoglienza delle abbazie locali quali le infermerie dell’abbazia di San Pietro Apostolo825 , di Santa Maria la Nova826 e forse l’ospedale di San Giacomo827 . A questi enti spesso vengono devolute pie oblazioni da parte di donatori: ad esempio nel 1239 il giudice Luca e la sua consorte donano all’abbazia di Santa Maria la Nova tutti i loro averi, con l’obbligo per il monastero di utilizzare i prodotti di quelle terre per le necessità dei poveri ospitati nel complesso (in usum pauperum in ipsa ecclesia hospitancium) , secondo la consuetudine dei frati828 , oppure nel 1243 quando Petrone diacono lascia all’ospedale dei poveri di Pendino 6 once d’oro e mezza per acquistare letti e per le altre attività della struttura829 . Quando nel 1210 due coniugi, forse ebolitani, donarono pro anima all’abbazia di Montevergine ben 100 once d’oro, l’abate Donato stabilì che tutti i proventi derivanti dai beni posseduti dal monastero a Eboli fossero destinati ad acquistare pane e fave da distribuire ai poveri il Giovedì Santo830 . In anni difficili come quelli tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII, in cui la minore età di Federico lasciò le terre del Mezzogiorno in una sostanziale anarchia, poteva capitare che le truppe si dessero a razzie e saccheggi, provo- Economia e società 141 cando angoscia e insicurezza tra la popolazione. Così accadeva che qualcuno subisse la triste esperienza del rapimento proprio da parte di chi doveva essere preposto a garantirne la protezione: fu questo il caso del fabbro di Eboli Nicola che nel 1201 fu preso dai soldati svevi che chiesero un riscatto alla moglie Grima per liberarlo: costei si vide costretta a vendere un fondo nei pressi del Tusciano pro redimendo viro suo a manibus Teutonicorum831 . Il pensiero della morte e del Giudizio particolare doveva condurre spesso l’uomo di questi secoli alla riflessione su cosa gli sarebbe accaduto dopo: avrebbe partecipato della beatitudine eterna nella Gerusalemme celeste o avrebbe conosciuto la condanna alle fiamme della Gehenna? In un mondo in cui si riteneva che l’ideale di perfezione cristiana si potesse raggiungere più agevolmente che altrove tra le mura di un monastero, chi avesse voluto assicurarsi la vita eterna doveva quasi necessariamente scegliere il chiostro832 . Numerosi sono i casi in cui gli abitanti delle terre tra Tusciano e Sele indossano l’abito monastico rinunciando alla vita del mondo. Tuttavia la stessa tensione verso questi ideali risultava talvolta poco sincera e non priva di dubbi. Tre documenti redatti tra il 1176 e il 1178 tratteggiano la singolare vicenda di Salitto, abitante del casale Tusciano. Questi nel 1176 aveva offerto i suoi possedimenti e sé stesso all’abbazia della Trinità di Cava833 , ma nei mesi successivi, tentato a suo dire dal Nemico (oste maligno), aveva abbandonato il monastero ed era ritornato alla vita di prima834 ; ora, nella chiesa di San Mattia, in ginocchio davanti all’abate Benincasa di Cava, supplica di essere riammesso nell’ordine, poiché ha sperimentato la fragilità dei beni terreni. L’abate magnanimamente accoglie la sua supplica e Salitto offre altri doni. Qualche giorno dopo Salitto si rivolge a Pietro, vestarario del monastero cavense perchè è molto malato e chiede di potersi recare ai valnea de Puzzoleo, ai Bagni di Pozzuoli, sperando di potere guarire 835 . Salitto, gravemente malato, temendo per la sua salute spirituale probabilmente cercava un’assicurazione per la vita eterna e per questo motivo ritornò alla vita monastica; d’altro canto non disdegnò la possibilità di garantirsi ancora per qualche tempo la permanenza in questo mondo e ritenne che fosse conveniente sottoporsi, diremmo oggi ad una cura balneoterapica, in tempi in cui le cure termo-minerali costituivano un naturale e sovrano rimedio per combattere qualsiasi genere di dolore, presso i Balnea puteolana. Qui, nei Campi Flegrei tra Pozzuoli e Baia, erano le numerose fonti idrotermali note fin dall’antichità per le miracolose virtù terapeutiche, cantate circa cinquant’anni più tardi proprio da un famoso conterraneo di Salitto, Pietro da Eboli836 . 142 La Piana del Sele in età normanno-sveva Ancor più sospetto può apparire il caso in cui il donatore si riserva l’usufrutto della pia oblazione vita natural durante, come nel caso di Giacomo che possiede numerosi beni al casale Monte e a Eboli e offre questi e se stesso a Dio e al monastero di Cava nel 1225 riservandosi l’usufrutto fino alla morte e la facoltà di vendere parte dei beni se ne avesse avuto necessità. Giacomo era sposo di Sibilia, dalla quale, con ogni probabilità, non aveva avuto figli, ma nella donazione non se ne dimentica, precisando che la sposa potrà risiedere nella loro casa di Eboli vita natural durante oltre a continuare a godere del suo morgengabe. La sua condizione di oblato gli permetteva di continuare a vivere ad Eboli e portare avanti i suoi affari, ma quando avesse voluto avrebbe potuto varcare la soglia del chiostro, accolto dai confratelli che lo avrebbero rifornito delle vesti appropriate. Se disgraziatamente fosse morto senza aver potuto indossare l’agognata veste dell’obbedienza cluniacense, allora i monaci lo avrebbero fatto seppellire con tutti gli onori e avrebbero provveduto a far distribuire mezza oncia d’oro per la salvezza della sua anima837 . Quante clausole e quante precisazioni! Come nei matrimoni anche con il Signore bisogna stabilire nei particolari ogni cosa. A volte però può essere sufficiente una donazione sul letto di morte per conseguire la speranza della Salvezza. Così, ad esempio, nel 1145 Umfredo di Tusciano per la remissione dei suoi peccati fa dono al cenobio cavense di alcune terre per ricevere a presenti et usque in perpetuum...fidelem orationem suprascripti monasterii fratrum838 . Molto particolareggiato è il testamento di un ricco abitante del casale Tusciano, Marino che nel marzo del 1171, gravemente malato ormai prossimo alla morte, stabilisce di donare 200 tarì d’oro al monastero della Santissima Trinità di Cava e di destinare 50 tarì d’oro in parte per il trasporto del suo cadavere al predetto cenobio e in parte ai poveri e ai sacerdoti. Il resto del suo patrimonio sarà ereditato da una tale Maria che se dovesse morire senza figli, donerà la sua eredità al monastero di Cava839 . Altre volte ci si trova di fronte a un lascito più articolato: Domenico del casale Tusciano lascia tutti i suoi averi nel 1181 al fratello Mauro, obbligandolo però a dare due once d’oro che serviranno ai sacerdoti di Eboli e del Castelluccio di Battipaglia per i suoi funerali e per cantare messe in suo suffragio. Inoltre lascia una terra laboratoria per la salvezza della sua anima al cenobio cavense840 . Probabilmente Domenico, lasciando pii donativi a diverse istituzioni ecclesiastiche, riteneva che la sua anima avrebbe tratto maggior giovamento a ragione della più continua preghiera che avrebbe ricevuto. Nel 1232 la vedova Menzania, morta senza eredi di- Economia e società 143 retti, aveva lasciato al monastero di Montevergine una casa ad Eboli, con tutto l’arredo, costituito da un materasso, un lenzuolo, un cofanetto, una sedia e una cesta, oltre a un pezzo di cera per il giorno della sua sepoltura: Menzania sarà seppellita a Montevergine nel celebre monastero.841 Altro rimedio per ottenere il perdono dei peccati è naturalmente il pellegrinaggio. Esistevano come si è visto santuari locali anche prestigiosi e immessi nei circuiti internazionali di pellegrinaggio, ma talvolta ci si recava ben più lontano. Molto interessante risulta da questo punto di vista un documento del 1225 in cui Cataldo di Sicilia e la moglie Reccolica, abitanti del casale Tusciano, donano per la salvezza delle loro anime e delle anime dei congiunti, tre terre nel casale Tusciano, ricevendo in cambio mezza oncia d’oro che servirà loro per recarsi in pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme842 : Giungere fin sotto le mura di Gerusalemme e visitare i luoghi della vita e della passione di Cristo costituiva indubbiamente una via scomoda e pericolosa, ma rappresentava il cammino di riconciliazione più agognato per un pellegrino del XIII secolo843 . Pellegrini in paesi anche lontani gli uomini di queste terre: come quel Simeone de Bessilleta abitante di Campagna che nel 1209 volendo recarsi in Galizia presso il celebre santuario di San Giacomo di Compostela, la meta di pellegrinaggio più prestigiosa insieme a Gerusalemme, Roma e il Gargano in quegli anni, e temendo di non poter far ritorno per i pericoli del viaggio (timens ne prout habet humana fragilitas vitam suam aliquo casu in ipso itinere finiret), fece dono al monastero di San Giacomo degli Eremiti sulle colline tra Eboli e Campagna, di due terre per la salvezza della sua anima e di quelle dei suoi genitori 844 . 144 La Piana del Sele in età normanno-sveva 145 CAPITOLO IV Alcune considerazioni conclusive: le terre tra Tusciano e il Sele nel Medioevo, tra continuità e fratture «Est prope dulce solum, nobis satis utile semper, Ebolus, aspirans,quod petit urbis honor» Liber ad honorem Augusti, vv. 404-405. «Haveva questa nobilissima Terra [di Eboli] sotto di se da trenta casali, i quali per la calamità de’ tempi sono rovinati e la gente si ridusse in un gran corpo principale di mura cinto con bellissimi, alti e grandi edificij, e con un castello ampio, e molto commodo.» BACCO 1629, p.191. Enrico Bacco, storico napoletano del XVII secolo, raccontava di una terra di Eboli un tempo pullulante di numerosi casali, 30 si diceva, forse esagerando, ai suoi giorni ormai scomparsi. Cos’era divenuta la pianura del Tusciano-Sele ai tempi di Bacco? è lo stesso storico ad informarci:«Questa pianura è abbondantissima di grani, ogli, vini et altri buonissimi e bellissimi frutti di diverse maniere. Quivi si fa bellissima cacciagione di diversi animali...; [Questa pianura è] ornata anche d’ombrosi boschi e di verdeggianti pascoli con chiare e buonissime acque per le greggi et armenti di capre, pecore, bufale, vacche e buoi et altri animali de’ quali tutta è piena la campagna; quivi parimente è un bellissimo e gran lago, ove si fa pescagione di diversi e buonissimi pesci per entrarvi il mare»845 . Riconosciamo i luoghi, ma di uomini neppure l’ombra! Brutta faccenda per lo storico che, come argutamente rilevava Marc Bloch, è un po’ come l’orco delle fiabe, per natura attratto dall’odore degli uomini. In effetti, se confrontiamo il vociare incessante dei secoli XII e XIII con il cupo silenzio che avvolge la piana acquitrinosa e i Monti di Eboli nel XVII, rotto solo dal passaggio di qualche pastore o dalle attività di masserie isolate, c’è da restare perplessi. Ancora più inquietante appare il quadro tratteggiato nella celebre descrizione del Galanti circa un secolo dopo: viaggiando tra Salerno ed Eboli non incontrò neppure un villaggio846 . 146 La Piana del Sele in età normanno-sveva Ma cosa era accaduto, quale era stata la causa della scomparsa di villaggi, di chiese, di mulini, di strade percorse nel Medioevo da cavalieri, religiosi, mercanti, artigiani, contadini, allevatori, insomma da un’umanità affaccendata e dinamica? Troppo semplicistica appare una spiegazione che riconduca la radice di questo collasso a cause esterne quali la guerra del Vespro o i conflitti degli inizi del XVI secolo che pure videro queste terre razziate da eserciti di mercenari847 . Una serie di motivazioni più complesse e più profonde dovettero determinare quella che appare come una catastrofe insediativa, con pochi precedenti nella lunga vicenda di queste terre.Ad osservare le cose in prospettiva si ha come l’impressione che un terremoto sociale, economico, politico abbia scardinato dalle fondamenta il paesaggio antropico delle terre tra il Tusciano e il Sele ad un certo punto della sua vicenda. Si tratta tuttavia di impressioni e chi voglia indagare il passato non può accontentarsi di queste. Certo, per comprendere appieno bisognerebbe analizzare la vicenda di queste terre fino a tutta l’età moderna, tenendo conto della generale crisi demografica del XIV secolo e della congiuntura economica negativa che condizionò le vicende del Mezzogiorno sino al XVI secolo848 . Limitandoci al Medioevo normanno-svevo si può tentare di fornire alcune prime risposte, individuare dove possibile le radici, il resto è una storia che attende ancora di essere narrata. Uno svolgimento insediativo complesso modella, disarticola e ricostituisce il paesaggio antropizzato delle terre tra il Tusciano e il Sele tra XI e XIII secolo. Per comprendere i mutamenti che caratterizzano il paesaggio della piana è utile richiamare brevemente l’assetto del popolamento al tramonto dell’età longobarda: in generale l’area antropizzata nella parte di pianura che corre tra Tusciano e Sele si caratterizza in questo periodo per una forte frantumazione dell’habitat, con una serie di ‘cellule’ colonizzatrici disperse su ampi lembi del territorio che nei primi decenni dell’XI secolo tendono a polarizzarsi intorno a numerose chiese rurali sparse nella piana, di qui la sensazione di una capillarità insediativa in particolare nelle basse terre del Tusciano849 . Al limite opposto del territorio affiora con forza la tendenza in età longobarda ad un infittirsi della densità insediativa nei pressi del Sele, in particolare nelle vicinanze dei guadi, e, in secondo luogo, lungo le vie principali. Il tipo di habitat nel basso corso del Sele pare caratterizzato da una polverizzazione degli insediamenti in zone diverse del territorio ma collegati da un utile reticolo viario facilmente fruibile, allacciato in maniera funzionale alla rapida via fluviale. Gli elementi che più degli altri spiccano Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 147 in questo paesaggio che l’uomo costruisce con grande sforzo abbattendo foreste e lottando contro gli elementi di una natura forse eccessivamente rigogliosa, sono anche qui le chiese, che appaiono nella documentazione quasi come componenti indispensabili per gli interventi di colonizzazione attuati nella zona, nuclei attrattivi per gli abitanti delle curtes e dei tenimenta che contribuiscono a fare di una popolazione dispersa tra i coltivi una comunità che si riconosce e forse rappresenta se stessa come tale nella celebrazione eucaristica o nella festa del martire decapitato sulle sponde di quel fiume da cui traggono sostentamento850 . La scena del territorio analizzato risulta, si è detto, in continua evoluzione tra XI e XIII secolo, caratterizzata da abbandoni di siti, riprese, occupazioni ex novo, lente dismissioni, crescite. Paradigmatica in questo senso è la vicenda, nelle zone collinari, dei casali Monte e Palude, popolati sin dal IX secolo, ubicati lungo uno snodo viario, strategico nella trama delle comunicazioni altomedievali, quando gran parte della viabilità antica nella pianura risultava dismessa851 . L’abbandono dell’area inizia nel XII secolo e appare progressiva: persistono, infatti, perlomeno fino al XIV secolo, terre coltivate, abitati aperti, chiese funzionanti ma nel XVI secolo il luogo dove sorgeva il castello di Monte era detto Evoli vecchio e l’area circostante risultava abbandonata852 . Ciò che emerge in maniera netta dallo studio dei casali sui monti a Nord di Eboli è l’impressionante fenomeno di decastellamento già compiuto nella seconda metà del XII secolo. Difficile stabilire cosa fossero il castello di Monte, il castello di Santa Teccla, il castilluzzu, il castello de Pancia e il vicino castello de Alegjso nei pressi di Calli: probabilmente luoghi di piccoli accentramenti come il castello di Monte o il castello de Alegjsio o punti di controllo lungo le vie che conducevano a Olevano e Campagna, come il castilluzzu. Già altrove si è sottolineato come la creazione della circoscrizione amministrativa di Eboli abbia avuto come conseguenza, forse già in età tardolongobarda, sicuramente in età normanna, il ripensamento delle strutture di controllo del territorio853 . E’ evidente come, alla luce del nuovo centro, si dovesse procedere verso un riassetto più razionale del nuovo ambito territoriale. In questo senso i castelli dei loca altocollinari di Eboli non avevano più ragione di esistere; altri erano i percorsi da controllare, altra la sede amministrativa, altro il luogo dove indirizzare il popolamento: di qui gli abbandoni e il paesaggio di manieri in rovina che si presentava a chi percorreva le poche miglia di strada che separavano Monte da Calli nel XII secolo. In età moderna e fino ai giorni nostri queste contrade 148 La Piana del Sele in età normanno-sveva risulteranno deserte: solo qualche santuario isolato tra boschi e campagne, quale San Donato a Monte, sarà ancora frequentato in occasione della festa del santo eponimo. Anche nella Piana si assiste, negli stessi anni, al progressivo abbandono di alcuni siti, la cui spia più evidente è la desolazione delle chiese, cardini del popolamento rurale, che non vengono riparate: San Pietro ad columnellum, San Pietro sulla riva destra del Tusciano, San Pietro de Toro, San Nicola di Mercatello o chiese che scompaiono dalla documentazione dopo la metà del XII secolo come San Biagio, Santo Stefano e San Michele854 . A questi abbandoni corrisponde un sostanziale rallentamento della messa a coltura della terra, emersa in particolare dall’analisi dei contratti agrari, rispetto all’avanzante colonizzazione dei secoli X e XI855 . Nel delineare un quadro che possa fornire spiegazioni ragionevoli di questi fenomeni bisogna valutare aspetti che potremmo definire congiunturali e strutturali. Una delle cause che in genere si richiamano con più sollecitudine per spiegare gli abbandoni, si è detto, è la guerra. Non rare furono le operazioni belliche che interessarono la zona partendo dagli anni delle razzie di Guglielmo di Altavilla passando poi ai tempi del duca Guglielmo, ancora ai tempi di Ruggiero II e Guglielmo I, fino al conflitto normanno-svevo con le numerose scorrerie di Diopoldo di Vohburg e Marquardo d’Anweiler856 . Questi eventi, per quanto tragici, tuttavia non dovettero condizionare più di tanto l’abbandono dei siti che, come detto, risulta graduale e dunque legato a mutamenti strutturali più profondi. Accanto all’evidenza di abbandoni si deve sottolineare, di contro, l’emergere nella Piana di alcuni nuovi insediamenti, ignoti alla documentazione di XI secolo, rilevati dalla comparsa di nuove chiese, Santa Cecilia, San Clemente, Santa Maria de Calcarola, San Felice o la ripresa di frequentazione dell’abitato sorto intorno alla chiesa di San Nicola nel XIV secolo. La stessa ‘gemmazione’ di casali quali Sant’Arcangelo e Battipaglia dall’originario casale Tusciano nella seconda metà del XII secolo, sta ad indicare una dinamica di disgregazione e ricomposizione di gruppi demici, con spostamenti di sedi in atto in questi anni, oltre a un aumento della popolazione. E’ evidente come la scomparsa dell’insediamento sparso nella piana corrisponda all’emergere di una stabile rete di casali857 . Si potrebbe pensare che tale fenomeno sia stato diretto in qualche modo da esigenze della strutturazione signorile, e dunque di controllo degli uomini, da parte dei due maggiori enti possessori nella Piana, la Chiesa Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 149 salernitana e la Santissima Trinità di Cava, ma il persistere di larghi strati di popolazione libera detentrice di terre nei casali, in particolare nel casale Tusciano, lascia intendere che vi fossero ragioni di convenienza. Dalla documentazione scritta emerge tuttavia il dato del sostanziale arresto della colonizzazione nella Piana tra XII e XIII secolo rispetto alla conquista di nuove terre agli inizi dell’XI, o meglio di un arretramento delle colture arbustive, in apparente contraddizione con la crescita demografica in atto in questi anni858 . Questo stato di cose si riflette anche sulle dinamiche insediative. In particolare dalla documentazione esaminata risulta come, a partire dalla metà del XII secolo, l’agricoltura arbustiva (vigneti, frutteti), che aveva caratterizzato in maniera equilibrata insieme alla cerealicoltura il paesaggio agrario della piana di Battipaglia a partire dalla seconda metà del X secolo, ceda il posto allo sfruttamento delle terre a seminativi nudi: gli appezzamenti ricordati come terre laboratoriae si moltiplicano sino a raggiungere da soli, si è visto, tra il 1151 e il 1200 percentuali pari quasi al 60% delle coltivazioni totali attestate e ben il 74% negli anni tra il 1201 e il 1250, contro il 28% della prima metà del XII secolo (tab. 1). Si tratta di un dato impressionante, che segna una radicale rottura con la strutturazione agraria precedente859 . La già evidenziata assenza di documenti dai quali si possa dedurre un deciso incremento della colonizzazione a danno dell’incolto lascia trasparire, tra l’altro, una massiccia riconversione alla cerealicoltura di molti dei poderi prima destinati alle colture promiscue e, in particolare, agli alberi da frutto. Per quanto riguarda le terre soggette alla Santissima Trinità di Cava, il maggiore detentore di coltivi nell’area, tale riconversione avvenne per lo più attraverso l’utilizzo di servi, che dobbiamo ritenere il cenobio possedesse numerosi, risultando davvero rari, per il periodo normanno-svevo, i documenti di affidamento di terre a liberi coloni conservati nel ricco archivio dell’abbazia. La medesima situazione di avanzamento della cerealicoltura si riscontra in alcune delle terre ad est di Eboli, come a Calli (tab 2). L’attestarsi del seminativo nudo nella piana come largamente predominante accanto allo sfruttamento, come si è visto, di vasti areali incolti per l’allevamento o l’approvvigionamento di legna, può essere spiegato come una strategia di politica agraria legata alle esigenze del mercato internazionale nel XII secolo, caratterizzato da una forte domanda di grano860 , prodotto che aveva nella vicina Salerno, la città più importante del Mezzogiorno continentale nel XII secolo861 , uno dei maggiori centri di commercializzazione in quegli anni862 . 150 La Piana del Sele in età normanno-sveva La forte avanzata della cerealicoltura potrebbe costituire un riflesso dell’unificazione commerciale dell’Italia meridionale, conseguenza della creazione del Regno, condizione che avrebbe favorito la specializzazione delle produzioni agrarie in alcune aree del Mezzogiorno863 . Una spinta decisa alla riconversione cerealicola della piana di Battipaglia dovette provenire dagli abati cavensi che in questi anni amministravano gran parte di queste terre e potevano sfruttare, come si è visto, l’importante approdo di Mercatellum e il porto di foce Sele: esentati dal plateaticum e da altri dazi connessi agli attraversamenti864 , i monaci della Santissima Trinità potevano facilmente riversare le loro abbondanti produzioni cerealicole sui vicini mercati salernitano e amalfitano, dove le fonti del XIII secolo ricordano la presenza di grano proveniente dalla piana del Sele865 . Tuttavia, oltre all’abbazia cavense, anche piccoli e medi proprietari terrieri riconvertirono le loro terre a cereali866 , segnale di una domanda di mercato che travalicava gli interessi di politica agraria esclusivi dei grandi possessori: evidentemente molti intravidero nella possibilità di esitare anche relativamente piccole quantità di grano un’occasione di profitto maggiore rispetto ai proventi delle altre colture e coltivarono a grano i loro appezzamenti. Tale attrazione dové essere tanto forte da spingere i piccoli proprietari a privarsi di quella varietà colturale che fino ad allora aveva costituito la base della propria sussistenza. La dinamica di riconversione analoga riscontrata nelle terre di Calli, dove l’abbazia metelliana non ha interessi fondiari e gli appezzamenti ricordati nella documentazione tra gli anni 1160 e 1200 appartengono esclusivamente a piccoli e medi allodieri867 , costituisce un ulteriore indizio in questo senso. Si può affermare che nella piana tra il Tusciano e il Sele, durante la seconda metà del XII secolo, si realizzi il passaggio deciso da un’economia agraria basata in gran parte sulla soddisfazione dei bisogni di chi coltivava direttamente le terre ad una economia in cui il mercato determina, almeno in parte, scelte e costruisce il paesaggio agrario con le forme di insediamento ad esso più funzionali868 . Lo strutturarsi più articolato tra 1150 e 1200 dei casali forse comportò una più diffusa presenza di orti nelle aree dei villaggi, cosicché gli abitanti potessero trovare, in questi spazi riservati all’autoconsumo, quanto necessitava all’integrazione delle loro esigenze alimentari869 . Il passaggio di vasti areali della piana da una agricoltura prevalentemente promiscua, in particolare frutteti e vigneti, alla cerealicoltura determinò una situazione in cui una presenza relativamente costante di uomini in quelle Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 151 zone diventava evidentemente superflua. Fu questa, con ogni probabilità, la causa principale dell’abbandono delle sedi sparse testimoniato dalle fonti870 , fattore che ingenerò, insieme al venir meno di un sistema grossomodo regolare di controllo delle acque, nel lungo periodo probabilmente l’espandersi della selva, come ad esempio nel caso del tenimento di San Pietro de Toro, e un incremento delle aree impaludate, anche queste, d’altronde, estremamente preziose nell’economia del tempo, in particolare delle terre vicine al litorale871 . Da qui la polarizzazione di una parte degli abitanti della Piana nei nuclei demici dei casali, da dove anche i liberi detentori di terre potevano facilmente gestire i vicini campi coltivati a cereali e godere di tutti i benefici che indubbiamente comporta risiedere in una comunità di villaggio rispetto alla dimora in un fondo più o meno isolato. L’altro fattore che influì nell’abbandono delle sedi di pianura fu l’attrazione esercitata da Eboli. L’elemento nuovo che appare nodale nello svolgimento della vicenda non solo insediativa di queste terre è indubbiamente il riaffiorare quasi improvviso di Eboli, a partire dall’XI secolo, quale centro amministrativo dopo 700 anni di silenzio, seppur probabilmente in un luogo diverso dall’antico municipium. Il borgo di Eboli tra XII e XIII secolo, si è visto, appare in forte sviluppo e si connota di alcuni attributi materiali e simbolici propriamente urbani: sobborghi, mercati, palazzi, luoghi in cui si amministra la giustizia, la sede di un arcipretura, numerosi monasteri extraurbani, la presenza di un centro manifatturiero, una classe media molto dinamica con un artigianato prospero, vi risiedono forestieri provenienti da lontano, ha dato i natali a un personaggio, il magister Pietro, di valore assoluto nella cultura del tempo, è centro di un ricco territorio, attraversato da importanti direttrici commerciali, strutturato in numerosi casali dipendenti e all’interno del quale sorge un santuario che conservava il corpo di un santo, Vito, venerato in tutta la cristianità occidentale. L’assenza di un potere locale residente dopo la morte del conte Roberto e, soprattutto, l’assenza di una sede episcopale, ne pregiudicò per tutto il Medioevo la piena dignità urbana. Fu tuttavia probabilmente proprio l’assenza di un dominus e di un ceto aristocratico forte all’interno del castello a facilitare lo sviluppo della classe media, tanto cosciente del proprio ruolo da potere esprimere talvolta la propria condizione, come appare nel caso del notaio Silvestro, attraverso elementi di manifestazione sociale propri della nobiltà quale il possesso di un piccolo complesso palaziale. Gli scavi condotti 152 La Piana del Sele in età normanno-sveva nel centro storico di Eboli da Giovanna Scarano confermano la condizione di benessere di cui godeva parte della popolazione ebolitana nel XIII secolo: oggetti pregiati quali brocche bronzee di produzione islamica, ceramica protomaiolica policroma e raffinati calici vitrei rappresentano in qualche modo l’aspetto materiale più indicativo della ricchezza degli abitanti di Eboli in questi anni872 . La grande crescita di Eboli al termine del periodo considerato è attestata dalla cedola redatta per l’esazione della tassa suoi fuochi nel 1271 dalla cancelleria di Carlo d’Angiò, dalla quale la città risulta tassabile per 343 nuclei familiari, secondo centro dopo Salerno nel Principato Citra873 . In ogni caso la consapevolezza di poter aspirare legittimamente alla condizione di città, se non proprio di detenerla di fatto, emerge nell’uso della classe notarile locale di designare, a partire dalla metà del XII secolo, spesso Eboli come civitas874 . Gli elementi indicati possono far definire Eboli in questi anni una quasi-città: a ragione, dunque, il suo figlio più illustre, il magister Petrus, al tramonto del XII secolo affermava la legittima aspirazione di Eboli all’honor urbis875 . La convocazione per ordine di Federico II di due rappresentanti della città fedele di Eboli all’assise generale di Foggia tenutasi il giorno delle Palme del 1240, insieme ai rappresentati delle città più importanti del Regno tra le quali Napoli, Capua, Taranto, Messina, Siracusa, «affinché vedessero il volto sereno dell’imperatore e riferissero ai loro cittadini la sua volontà»876 , costituisce un indicatore concreto dell’importanza di Eboli in età federiciana e il riconoscimento di fatto dello status urbano877 . L’impressionante crescita dell’insediamento suburbano di Eboli individuato nel XII secolo costituisce, insieme ad un incremento demografico, una prova del potere di attrazione esercitato dal borgo, potere tanto forte che gli spazi intramurani non risultavano più idonei, a poco più di 100 anni dalla prima notizia documentata dell’esistenza del castellum, a soddisfare le richieste di quanti desideravano risiedere nel centro della piana del Sele878 . Si trattava probabilmente, come emerge da alcuni documenti879 , per lo più di coltivatori che nelle campagne praticavano l’artigianato o piccoli allodieri che forse scorgevano la possibilità di trovare nel commercio una modalità di ascesa economica più agevole. Senza dubbio all’ombra delle mura di cinta si avevano maggiori occasioni di lavoro alternativo a quello dei campi. L’attestazione di numerosi artigiani anche benestanti nelle carte del XII e XIII secolo, dimostra come ad Eboli non fosse poi così difficile fare fortuna880 . Questa circostanza determinò che il legame con la terra risultasse ben presto Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 153 per i nuovi ebolitani poco più che rappresentativo di un’ascesa economica881 . Lo sviluppo di Eboli condizionò anche la vicenda di Olevano, destinato nel tardo Medioevo ad un declino della propria fortuna dopo la prosperità altomedievale, sebbene la ricchezza dei suoi campi e delle sue colline, il prestigio del santuario micaelico, peraltro anch’esso declinante, la presenza dell’arcivescovo di Salerno e il passaggio di una via che conduceva verso l’Appennino e l’Adriatico, evitarono ai casali olevanesi una sorte drammatica come quella di Monte e Palude882 . Appare infatti significativo come nel momento di massima opulenza di Olevano e Monte (IX-XI sec.), Eboli praticamente non esistesse se non come locus: la riconquista alle coltivazioni della piana del Sele tra X e XI secolo e, di conseguenza, dei suoi percorsi, in primo luogo del tratto della direttrice Capua-Reggio tra il Tusciano e il Sele, da un lato ingenerò la decadenza di alcuni siti prima crocevia dei traffici lungo percorsi alternativi in età romana, dall’altro favorì la rinascita di Eboli. Gli stessi casali di Tusciano, Sant’Arcangelo, di San Clemente e forse Battipaglia sorgono, tra XI e XIII secolo, lungo snodi viari importanti, in parte dismessi nell’alto Medioevo e ora recuperati alla fruizione in conseguenza dell’avanzata colonizzatrice di età longobarda. Si può affermare in definitiva che in questi anni, paradossalmente, ma solo in apparenza, prosperi e stabilizzati, si possa rinvenire la radice di alcuni fenomeni di disarticolazione dell’assetto territoriale legati essenzialmente alla riconversione cerealicola di gran parte della piana, alla risorsa allevamento e all’attrazione esercitata da Eboli sugli abitanti dei casali circostanti, fenomeni che sfoceranno, in età moderna, nell’abbandono sempre più consistente di sedi insediative extraurbane, sempre meno funzionali ad un paesaggio agrario dove la monocoltura cerealicola era divenuta realtà consolidata e ormai in contrasto con le esigenze dell’allevamento, la cui conseguenza più vistosa fu l’impaludamento della piana e l’impraticabilità di fatto di tanta parte di essa. Lo stesso fallimento della costituzione del casale di San Pietro ad columnellum alla fine del XIII secolo può considerarsi un caso paradigmatico della difficoltà di ricolonizzare e ripopolare un’area ormai divenuta inesorabilmente marginale: gli abati cavensi furono costretti a prenderne atto provando, come si è visto, ad impiantare sulle ceneri di quel tentativo, peraltro razionalmente pianificato, una grande azienda incentrata su un’efficiente scuderia. Ma anche qui la difficoltà maggiore doveva consistere nel richiamare uomini che rendessero produttiva l’azienda: di qui la premura dell’abate affinché il concessionario accordasse, come si è visto, 154 La Piana del Sele in età normanno-sveva franchigie e libertates a quanti fossero venuti ad abitare nel tenimentum883 : molto più comoda e sicura doveva risultare la dimora preso le mura della non lontana civitas. Al tramonto della dominazione sveva castelli, borghi fortificati, villaggi aperti, monasteri, santuari rurali convivono nella piana e sui colli circostanti. Si tratta dell’evoluzione di tipi insediativi alacremente sperimentati sin dall’età longobarda, le cui prime testimonianze materiali rimontano in queste terre ai secoli VII-VIII 884 , con la vistosa eccezione della scomparsa dell’insediamento sparso. Le chiese rurali diventano sempre più i punti di aggregazione per eccellenza dell’insediamento nella piana; i casali si strutturano chiaramente nella forma di villaggi aperti, talvolta collegati ad un castello, segno di un potere signorile in qualche modo concorrente rispetto all’ambito amministrativo in cui il casale ricade885 , mentre i borghi incastellati ‘vincenti’ si definiscono in forme strutturate in maniera via via più complessa. Uno dei fenomeni che si manifesta con maggior vigore nel distretto ebolitano a partire dalla metà del XII secolo, è la tendenza generalizzata alla razionalizzazione delle strutture e delle risorse; da questo punto di vista si può assumere proprio questo periodo come spartiacque nelle vicende del territorio. Sintetizzando quanto discusso finora relativamente a questo aspetto si può affermare che: 1) il borgo, da ammasso di case quasi indistinto, almeno nella percezione dei contemporanei desumibile dalla documentazione scritta, si viene articolando in quartieri coincidenti con le ridefinite pertinenze amministrative parrocchiali; 2) il suburbio da aggregato indeterminato risulta ordinato allo stesso modo del borgo 3) allo stesso tempo si assiste al formarsi di quella che possiamo definire una classe media strutturata perlomeno su due livelli, anche se tra loro molto distanti: il primo composto da una forte classe notarile e intellettuale886 , il secondo da artigiani specializzati che investono anche sulla terra ma che fondano l’aspettativa di elevazione, almeno economica, sul mestiere che esercitano, sul sapere pratico che detengono. 4) il paesaggio agrario muta radicalmente la precedente strutturazione policolturale indifferenziata e si organizza in aree produttive diversificate e compatte, integrate da ampie porzioni di territorio lasciate incolte, ugualmente vitali per la prosperità dell’area 5) nelle campagne si attua una polarizzazione del popolamento in comunità Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 155 di villaggio, i casali, provvisti presto di libertates, con l’abbandono intenzionale di alcuni siti considerati ormai non più funzionali al nuovo assetto agrario. Si tratta di aspetti strettamente interconnessi, frutto, come si è avuto modo di osservare, di complesse dinamiche comprensibili in una logica organicamente strutturata di trasformazioni sociali ed economiche, legate alla produttività del territorio e alla direzione di gruppi di potere, alla spinta dell’economia di mercato e alla crescita demografica, in genere difficilmente riconducibili a una chiara dialettica del tipo causa-effetto, anche se si potrebbe indicare una radice nell’indubbia esigenza ordinatrice di fondo che emerge da quanto visto, in un’iniziale crescita demografica nel X secolo, incrementata nei secoli successivi. L’istituzione del Regno con Ruggero II condizionò indubbiamente le vicende di queste terre, sia da un punto di vista politico che economico887 . Il prodotto forse più lampante di quanto detto è la costruzione del paesaggio ebolitano che agli inizi del XIII secolo appare ormai stabilito in un modello definibile ‘a cerchi concentrici’ il cui centro è Eboli con i suoi quartieri e sobborghi, avvolto da una cintura di orti e frutteti; a corona di questa, le colline caratterizzate dalla preponderante presenza di oliveti e vigneti, con qualche frutteto. Le ampie aree periferiche occidentali della piana risultano quasi del tutto coltivate a cereali, così come i lembi orientali del territorio ebolitano (Calli), solcati da corsi d’acqua punteggiati da mulini, in particolare ad occidente il Tusciano. Nel settore meridionale del territorio, la fascia litoranea appare ormai in gran parte inselvatichita, priva ormai di strade e insediamenti, con i laghi palustri costieri che ne caratterizzano sempre più il paesaggio. Tra le due aree periferiche, una distesa di pascoli e bosco, dal mare fino alle acque del Sele, ormai quasi del tutto riservati ai sollazzi dell’imperatore e agli armenti degli enti ecclesistici. In questo quadro i casali della piana, tutti dislocati lungo le arterie principali che attraversano il territorio, appaiono come isole policolturali tra campi di grano e la natura dominante percorsa da nobili cacciatori e greggi di animali888 . Possiamo ritenere che se un viaggiatore fosse partito da quelle zone alla metà del XII secolo e vi avesse fatto poi ritorno agli inizi del Duecento, avrebbe stentato a riconoscere i luoghi. Bisogna ammettere che si tratta di un paesaggio non così diverso da quello rappresentato nel celebre affresco senese di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti 156 La Piana del Sele in età normanno-sveva del Buon Governo! In particolare ciò che colpisce è l’equilibrio raggiunto e l’interdipendenza istituitasi tra i diversi settori produttivi della società ebolitana; si pensi ai meccanismi produttivi che la vasta parte di piana non agrarizzata favoriva: con i suoi pascoli e il clima mite richiamava il bestiame, circostanza che doveva risultare importantissima, come si è visto, per lo sviluppo dell’agricoltura, così come per l’artigianato, insieme alla disponibilità di legna, produzioni che andavano poi ad alimentare il mercato. Ma l’ombra del dubbio si stende sugli effetti che, nel lungo periodo, generò questa nuova strutturazione del paesaggio, in particolare sulla piana. Si trattò di un equilibrio effimero e delicatissimo, e alcuni segnali di crisi già si colgono tra XII e XIII secolo oltre che nella distribuzione dell’insediamento, in alcuni episodi quali le invasioni delle difese imperiali e la fame di pascoli nella pianura che portò, come si è visto, a contese tra gli enti ecclesiastici possessori di mandrie, sintomi che forse, anche a causa della crescita demografica, che non si saprebbe peraltro meglio valutare, il selvatico non era più bastevole, ridotto anche a causa dell’avanzare, seppur presumibilmente frenato dallo sfruttamento dell’incolto, delle aree messe a coltura. Si comprende facilmente come un incremento dell’allevamento e, dunque, di una necessità di ampliare gli spazi dedicati agli armenti, in una situzione ‘bloccata’ di questo tipo avrebbe potuto avere ripercussioni sul popolamento stesso della Piana. In definitiva alla metà del XIII secolo il sistema che aveva prodotto il paesaggio ebolitano comincia ad evidenziare problemi di tenuta e lo spettro della recessione appare dietro l’angolo: la stessa presenza di sacche di povertà nella società ebolitana, testimoniate dall’istituzione di numerosi ospizi, sembra confermare questo argomento. E’ evidente come in una situazione caratterizzata da policoltura diffusa, in un ambiente naturale in gran parte integro e a tutti accessibile, quale quella della Piana del Sele fino alla metà del XII secolo, si aveva a disposizione una gamma di prodotti, dalla carne al pesce, dagli ortaggi alla frutta, ai frutti selvatici, dal latte al formaggio, su cui si poteva fare affidamento nel caso di una carestia; non così in uno scenario produttivo dominato dalla cerealicoltura e dalla chiusura di molti spazi incolti all’uso collettivo889 , tanto più in una situazione di pressione demografica come quella nelle terre di Eboli del XIII secolo. Passando ora all’aspetto istituzionale, l’età federiciana segna una decisa rottura nella strutturazione del potere nel territorio: in questi anni il castello Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 157 di Olevano e il castelluccio di Battipaglia sono espropriati alla Chiesa salernitana mentre i casali di San Mattia e di Tusciano vengono sottratti, almeno in parte, al dominio cavense. Due documenti federiciani del 1219 e del 1221 relativi ad Eboli forniscono elementi importanti per tentare di penetrare le ragioni di questo mutamento. Nel 1219 l’imperatore, considerando la fedeltà degli abitanti di Eboli verso la sua Casa e i dampna plurima ...que pro nostra fidelitate conservanda multipliciter passi estis, riferimento evidente agli accadimenti del conflitto normanno-svevo, li riceve con le terre e le pertinenze nel suo demanio et sub speciali protectione maiestatis nostre890 , dunque liberi da qualsiasi signoria. Nel 1221 Federico riconferma i privilegi ricordati nel 1219, sottolineando come nessun estraneo in ipsa terra Ebuli teneat homines vel in casalibus eius, nisi secundum fuit temporis regis Guillelmi. Stabilisce infine che tutti gli abitanti del territorio sint communes in omni communitate terre ipsius et in nostris serviciis, cum expedierit, faciendis891 . Avocando a sé con questi atti il controllo totale del territorio e degli uomini, lo Svevo di fatto tentava di esautorare nelle terre di Eboli le precedenti strutturazioni signorili: come è chiarito nel documento del 1221, gli abitanti non saranno più costretti a fornire pubblici servizi ad alcuno che non fosse l’imperatore, anche perché, con l’atto del 1219 tam universos quam singulos et heredes vestros et terram ipsam Eboli, cum ominibus iustis tenimentis et pertinentiis suis in demanium nostrum recepimus, non escludendo nessuno dal privilegio. In questo modo si cercava di eradicare le basi degli ambiti di dominio signorile preesistenti. Si trattava dell’applicazione della costituzione de resignandis privilegis emanata a Capua nel 1220 con la quale si stabiliva la revisione di ogni concessione feudale ottenuta a partire dalla morte di Guglielmo II (1189)892 . La circostanza che un anno prima delle promulgazione delle sanctiones nella Curia generale capuana, ad Eboli venisse applicato un provvedimento che di fatto colpiva le aspirazioni di gestione del potere della classe feudale locale, appare di notevole interesse893 . Ma la politica federiciana di recupero dei demani statali nelle terre del Tusciano, se non proprio direttamente alle casse regie perlomeno a chi era particolarmente vicino agli Hohenstaufen, aveva già dei precedenti. Nel 1206 Federico, allora minorenne, concedeva all’ordine di Santa Maria dei Teutonici tutto ciò che era pertinenza del suo demanio nel casale Tusciano (uomini, terre e case), già possesso cavense, conferendone la signoria ai cavalieri Teutonici894 incrementando forse concessioni fatte dal padre EnricoVI895 . Anche il Pontefice Innocenzo III nel 1214 confermava 158 La Piana del Sele in età normanno-sveva agli uomini di Ermanno il casale Tusciano con la Castelluccia, tutte le sue pertinenze e i suoi abitanti 896 . Nel 1217 lo stesso Federico riconfermava i beni del Tusciano ai cavalieri Teutonici897 , contestualmente al riconoscimento definitivo della presenza dell’Ordine nel Regno di Sicilia all’indomani dell’accordo con Ermanno di Salza 898 . In generale per questo aspetto della politica federiciana in queste terre si possono distinguere con nettezza due fasi. Nei primi anni Federico II, ancora in buoni rapporti con la sede pontificia, agì, o fu costretto ad agire, con grande cautela; un segnale di tale tendenza si può indicare nella nomina dell’arcivescovo di Salerno a giustiziere delle terre possedute, con il diritto di giudicarne gli abitanti899 . Così nello stesso anno, i giudici Luca e Giovanni, convocata la communitas ad exequenda servicia regia di Eboli, ovvero l’assemblea dei cittadini, convenuta nell’atrio della chiesa di San Marco di Eboli, fanno redigere, su richiesta dell’arcivescovo, una copia della lettera con la quale Federico II riconosceva, in particolare, diritti sulla città di Eboli della Chiesa salernitana900 . Per quanto riguarda la sponda cavense, nel 1221, post curiam Capuae celebratam, Federico II confermava alla Santissima Trinità, cui l’imperatore in questi anni risulta particolarmente legato,901 tutti i beni che deteneva, tra cui il casale Tuscianum, che abbiamo visto in precedenza affidato all’Ordine Teutonico, per quanto di pertinenza del demanio, e gli altri possedimenti nella Piana902 . La svolta radicale, con l’usurpazione di gran parte di quanto aveva confermato ai due maggiori detentori di beni della zona negli anni ’20, si ebbe nel corso del decennio successivo. Negli anni ’30 si assiste alla requisizione del castrum Olibani, «per la malizia dei tempi», come sottolinea lo stesso Federico in un diploma del 1248903 . Grossomodo negli stessi anni si ebbero anche le occupazioni dei casali cavensi di San Mattia e di Sant’Arcangelo904 . Come ha lucidamente sottolineato Pietro Dalena nel suo saggio sui rapporti tra Federico II e gli ordini monastici «l’instabilità delle relazioni tra lo Svevo e le istituzioni monastiche del regno...non è dovuta ad una causa fortuita ed improvvisa, ma ad una serie di intricate ragioni tra cui è prevalente la scomparsa di alcuni monaci molto legati al sovrano, dotati di particolare carisma e capaci di legare le prospettive spirituali delle comunità locali agli interessi dello Stato, durante una stagione politica precaria in cui l’equilibrio tra papato ed impero divenne sempre più difficile fino a rompersi e coinvolgere in maniera diretta e specifica tutte le istituzioni monastiche del regno»905 . Nell’ambito territoriale di quest’analisi, fu la morte dell’abate Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 159 cavense Balsamo nel 1232 a segnare il mutamento negli atteggiamenti verso la Santissima Trinità, sebbene già in precedenza, come si è detto, Federico II avesse fatto valere i diritti della corona sulle terre del Tusciano. L’impatto sconvolgente che la politica federiciana di questi anni ebbe sulla geografia del potere nella pianura del Tusciano-Sele si coglie nella considerevole produzione di documenti falsi del XIII secolo, in particolare nello scriptorium cavense, la cui ragione è da ricercare nel tentativo di legittimare presunti o reali diritti degli enti ecclesiastici su uomini e cose di queste terre906 . In realtà l’abbazia cavense poteva davvero vantare diritti immunitari sulle terre di sua pertinenza del Tusciano, ma non, ovviamente, sulle terre del demanio (la terra domnica di molti documenti)907 . Si comprende così come nel casale Tusciano nel corso del XII secolo siano documentati un vicecomes regio908 ma, come si è visto, anche un vicecomes della Santissima Trinità909 . Del resto le competenze giurisdizionali dell’abate di Cava sui suoi domini risultavano pur sempre limitate all’azione civile. Il grosso equivoco sulla distinzione tra le terre del demanio e quelle appartenenti agli enti ecclesiastici, pervenute per lo più attraverso donazioni dei signori longobardi e normanni di Salerno e Eboli, si creò nel lungo periodo di vuoto istituzionale tra la morte di Enrico VI e l’ascesa al trono imperiale di Federico II. L’assenza di controlli aveva presumibilmente consentito alla Santissima Trinità in quegli anni di allargare i suoi domini a spese del demanio nelle terre del Tusciano, dove già da molti anni aveva iniziato una politica di acquisizione fondiaria. Di qui la necessità da parte di Federico II di chiarificare le pertinenze demaniali precedenti la morte di suo padre e ristabilirle. Tale vicenda si inserisce nel quadro più generale della situazione che il giovane imperatore si trovò ad affrontare, con uno Stato in pieno sfacelo sotto la spinta disgregante delle forze particolaristiche del Regno910 . Gli anni che vanno dalla morte di Costanza d’Altavilla (1198) all’incoronazione imperiale di Federico II (1220) segnano il depauperamento estremo del demanio sotto la spinta di poteri signorili, ormai di fatto autonomi, sviluppatisi in quegli anni911 . Ripristinare la strutturazione amministrativa normanna divenne l’obiettivo principale del sovrano e, dunque, anche nel documento del 1221 relativo ad Eboli, si trova l’accenno alla situazione del tempo di re Guglielmo II (+ 1189) come punto discriminante di riferimento912 . A partire dagli anni immediatamente successivi alla sua investitura imperiale, Federico II punterà ad un ampliamento delle pertinenze e dei diritti del demanio regio attraverso la soppressione di molte contee, confische 160 La Piana del Sele in età normanno-sveva di beni e le Costituzioni di Melfi (1231)913 . In tal modo il sovrano ottenne un riconsolidamento delle pertinenze demaniali, vero pilastro sul quale poté edificare la stabilità del suo potere. Attribuendosi il controllo diretto su Eboli, sede poi di una domus imperiale914 , e affidando Olevano, castrum exemptum, il castelluccio e i territori demaniali dei casali di Battipaglia ai Cavalieri Teutonici 915 , cui va aggiunta l’importante abbazia di San Cataldo a Campagna916 , Federico II confermava, anche nelle terre tra il Tusciano e il Sele, quella politica di ripristino del controllo dello Stato che ne caratterizzò l’azione politica917 e il forte legame con l’Ordine Teutonico che, in virtù delle concessioni federiciane, costituì in queste terre, se non proprio una sorta di enclave, indubbiamente la parte di gran lunga più rilevante dei suoi interessi sulla sponda tirrenica del Regno. Grazie a queste concessioni i cavalieri di Ermanno divennero l’elemento nuovo nella geografia del possesso nella piana, sconvolgendo il sostanziale duopolio costituito dalla Badia di Cava e dalla Chiesa salernitana. La presenza degli ampi possedimenti dei cavalieri teutonici sul territorio poneva un ostacolo pressoché insormontabile alle ambizioni di creare una signoria ecclesiastica compatta da parte della Santissima Trinità di Cava, proposito evidente nella produzione successiva di falsi diplomi. In ogni caso l’azione del sovrano andò ben oltre i limiti del ripristino della situazione ante quem che si era proposto riferendosi agli anni del regno di Guglielmo II nei primi anni del suo governo. Le usurpazioni di terre alla Chiesa salernitana e, in parte, alla Santissima Trinità di Cava costituiscono un dato di fatto e lo stesso imperatore ne era ben consapevole, come si evince anche dal suo testamento. In questo senso non si può essere pienamente d’accordo con Kantorowicz, il quale, commentando le vicende che videro Federico II impegnato sul fronte del ripristino dei diritti dello Stato, scrisse che l’imperatore agì «non come un conquistatore, ma come restauratore della legalità»918 . Nel XIII secolo si assiste in definitiva ad un forte conflitto tra poteri concorrenti nella Piana di Battipaglia: da una parte il sovrano, con la sua urgenza di riappropriarsi della base imprescindibile del suo potere, la terra, dall’altra le istituzioni ecclesiastiche che rivendicavano diritti talora antichissimi su ampie porzioni di quella stessa terra. Finché fu in vita Federico II la questione si risolse a favore dello Stato. Lo stesso sovrano tuttavia aveva espresso più volte la speranza di una pacificazione con la Chiesa919 , circostanza che avrebbe comportato necessariamente un ritorno alla situazione precedente. Come si è detto alla morte di Federico si giunse a questa Alcune considerazioni conclusive: le terre del Tusciano e il Sele… 161 riconciliazione. Ciò comportò, tra l’altro, la scomparsa in queste terre degli interessi dell’Ordine teutonico, cui Federico II aveva affidato quelli che riteneva i punti nodali del controllo del territorio920 . Altro elemento che caratterizza in maniera incisiva l’età normanno-sveva nelle terre tra Tusciano e il Sele è costituito dall’emergere di una solida strutturazione nell’amministrazione della cura delle anime. Si è visto come la riorganizzazione della gerarchia dei carismi nel XII secolo prevedesse nel territorio ebolitano un collegio di parroci tra i quali vi era un arciprete cui facevano capo. Era consuetudine che le chiese di Eboli versassero all’ordinario salernitano la quarta parte delle decime921 . Si trattava verosimilmente di un’imposizione che andava a pesare non poco sui bilanci parrocchiali, tanto che nel 1218 i presbiteri ebolitani si rifiutarono in massa di versare quanto dovuto all’arcivescovo. Intervenne allora il pontefice Onorio III che nel dicembre del 1218 conferì il compito di dirimere la controversia all’arcivescovo Giovanni di Amalfi e al vescovo di Sarno922 . I presbiteri e i chierici di Eboli furono invitati ad Amalfi a sostenere le loro ragioni, ma non si presentarono, comunicando di aver riconosciuto alla presenza, tra gli altri, di Gualtiero abate di San Pietro di Eboli, di essere tenuti a versare la quarta delle decime. La contesa si risolse con una deliberazione dell’arcivescovo di Amalfi nella quale si imponeva al clero ebolitano di versare quanto dovuto alla Chiesa salernitana923 . Sebbene la questione fosse risolta, rimane la sensazione di un malumore diffuso in tutto il clero ebolitano che, strutturato in un ambito circoscrizionale ampio (11 parrocchie tra castello e sobborghi e almeno altre 2 nei casali924 ), vedeva forse la dipendenza dall’ordinario salernitano e la presenza forte dell’abate di San Pietro, il cui ruolo di fiduciario dell’arcivescovo dai tempi di Romualdo II superava forse anche la stessa figura dell’arciprete, come una limitazione alla propria libertà. Ciò forse nasceva anche dalla consapevolezza di operare in una quasi-città come Eboli. In ogni caso si può affermare che l’episodio costituisca il primo atto documentato di una ricerca di indipendenza che si concretizzerà circa 300 anni più tardi, nel 1531 con l’elevazione della chiesa extraurbana di Santa Maria della Pietà a Collegiata. Con la bolla pontificia di Clemente VII tutte le parrocchie di Eboli venivano infatti affidate direttamente al Capitolo di Santa Maria, che provvedeva alla scelta e alla nomina dei cappellani. In tal modo, come è stato notato, «la giurisdizione del primicerio si configurava...allo stesso livello di una giurisdizione vescovile», esautorando La Piana del Sele in età normanno-sveva 162 di fatto, trecento anni dopo la clamorosa ribellione prontamente sedata, l’ordinario salernitano dalle questioni relative alla cura pastorale di Eboli925 . NOTE 1 Si veda ad es. il recentissimo PINTO 2005, p. 6, in cui lo studioso accosta le aree pianeggianti della valle del Sele nel Medioevo alle pianure di Sibari e Metaponto definendole «in gran parte incolte, paludose e malsane». 2 DELOGU 1977; PEDUTO 1990. 3 DI MURO 2001; Per le fonti archeologiche DI MURO et alii 2003; DI MURO-LA MANNA 2004. 4 DI MURO 2001. 5 CARUCCI 1922. 6 DI MURO 2001. 7 L’invito con i quali i primi normanni stanziati a Salerno avrebbero invitato i loro connazionali ad unirsi a loro in Amato di Montecassino, si veda ad es. DELOGU 1977. 8 CDC, II, pp. 209-210, DI MURO 1993, p. 65. Tutti i diplomi che si riferiscono alle terre di Eboli e Battipaglia redatti tra il 799 e il 1264 sono regestati in C ARLONE 1998. Per evitare di appesantire ulteriormente l’apparato delle note ho preferito in genere non citare l’utilissima opera del Carlone quando ho potuto leggere l’originale o consultare le precedenti edizioni complete o parziali dei documenti. 9 Ad esempio sulle sponde del lago detto Maggiore, lungo il litorale, era possibile trovare delle lintre, si veda il documento del 1073 edito in P ENNACCHINI pp. 39-42. 10 La via è ricordata con questo nome a partire dal 1105, DTC, D, 51; dal documento si evince che la strada transitava nei pressi della chiesa di San Nicola, ricordata nel XIII secolo come San Nicola de Lagno a Campolongo. Per la posizione di San Nicola de Lagno, TELESE 1991, p. 35. e infra. 11 La via antiqua che giunge a Santa Cecilia è ricordata in un documento del 1146, ed. BERGAMO, pp. 132. 12 DTC, H, 5, a. 1148, DTC, XXV, 114, a. 1145. 13 E’ probabile che la denominazione ‘guado di san Vito’ dipendesse dal fatto che la via che da qui si originava conducesse al celebre santuario sulla riva del Sele per il quale si veda infra. 14 CDC, II, p. 209, a. 976; DI MURO 1993, p. 65. 15 CDC, II, p. 210, a. 976; DI MURO 1993, p. 65. 16 CDC, I, p. 14, a. 823. 17 Per il viaggio degli ambasciatori bizantini B ERTOLINI 1968, I, p. 176. 18 CDC, V, pp. 122-123, a. 1026. 19 VENEREO, III, p. 78. 20 CDC, VI; p. 37-38, a. 1035. 21 CDC, VII, pp. 100-101. 22 Il percorso è definito in un documento del 976, CDC, VIII, pp. 52-55, ins., in cui trattando di beni che si trovano nei pressi del Lama, si accenna ad una via antiqua que venit usque Note 163 ecclesiam sancti Petroniani et trabersat rivus de Lama et pergit erga ecclesiam Santi Quirini, la chiesa di San Cirino e Quingesio a Faiano. 23 AC, XLII, n. 37, a. 1189. Per il reticolo viario del Tusciano cfr. anche DI MURO 1993, pp. 61-65. 24 Si tratta del ponte nei pressi di Santa Maria Zita DTC, XLI, 34, a. 1186; CDS, p 159. a. 1231. Nei pressi di questo ponte si sviluppò il casale principale del territorio, si veda infra il paragrafo sui casali. 25 Per la via Capua-Reggio nel Medioevo D ALENA 2003 b. 26 CARLONE 1998, n. 427, a. 1193. 27 ID. si veda anche BRACCO1974. 28 Per strata si intende una via lastricata, verosimilmente una strada romana. 29 CARLONE 1981, p. 98, n. 211, a. 1216; ID, p. 143, n. 307, a. 1249. 30 ID., p. 261, n. 519, a. 1393. 31 Così si deduce da un documento di compravendita I D., p. 195, n. 407, a. 1273. 32 ID., p. 61, n. 127, a. 1193. 33 E’ noto come l’alta valle del Sele costituisse un vero è proprio raccordo che metteva in comunicazione le aree del Tirreno con Conza e quindi da un lato la valle dell’Ofanto e la Puglia e dall’altro l’alta Irpinia e Benevento. Cfr da ultimo F ILIPPONE 1993, pp. 21-25. Vedi infra. Le comunicazioni con la Calabria avvenivano in età longobarda percorrendo ancora la popilia come dimostra la tappa fatta a Capaccio da Ottone II nel corso della sua avanzata verso Crotone; per il doc. si veda PAESANO 1846, I, pp. 78-79. Sulla viabilità in Italia meridionale nel Medioevo si rimanda al fondamentale DALENA 2003b. 34 DI MURO 1994; DI MURO 2000. 35 Il portus maris del fiume Sele è ricordato per la prima volta nel testamento di Guglielmo di Principato i favore della abbazia cavense nel 1128, DTC, F, 44: Anche Idrisi lo ricorda nella sua opera , IDRISI, p. 93. 36 DTC, XVIII, 17, a. 1105 ma il porto è sicuramente precedente, si veda più avanti il capitolo sugli insediamenti. 37 Per la strada antica Poseidonia-Sele si vedano G RECO 1987, p. 495 e D. GASPARRI 1989, p. 262. 38 DTC, F, 44, offerto insieme al portus maris. 39 PAESANO, I, pp. 96-97, n. 2. 40 ID, II, p. 116, a. 1141. 41 Ancora nella seconda metà del XVIII secolo esistevano due scafe lungo il basso corso del Sele, una che attraversava il fiume in corrispondenza della località Fiocche (oggi ponte Fiocche), l’altra che consentiva il transito sul fiume in località Ponte Barizzo. I due attraversamenti erano funzionali alla strada detta del Cornito che partendo da San Giovanni di Eboli si inoltrava verso Fiocche e il Sele, percorsa dai vari Winckelmann, Canova, Goethe, Lady Blessington, Lenormant sulle loro carrozze per raggiungere le rovine pestane (C ESTARO 1984, pp. 7-8), ricalcando in pratica il tragitto della nostra via carraria. 42 IBID. 43 Nel documento si fa riferimento ad una via che dal castello di Eboli va alla chiesa di San Nicandro. DTC, B, 30, a. 1083, chiesa che si elevava nei pressi del Telegro, come si evince da una compravendita del XII secolo, CARLONE 1981, n. 143, p. 69, a. 1195. 44 DTC, E, 35. Si ricorda che le situazioni esposte in precedenza erano riferite a concessio- 164 La Piana del Sele in età normanno-sveva ni di diritti di passaggio, non semplici esenzioni come in questo caso, a enti ecclesiastici che avrebbero potuto quindi chiedere dazi per l’attraversamento dei guadi loro concessi dall’autorità pubblica. 45 PEDUTO 1984, pp. 73-74. 46 CDC, VI, pp. 148-149. 47 Si veda anche DI MURO 2000. 48 PENNACCHINI, p. 75, a. 1164. 49 ID., p. 73. 50 ID. p. 76. 51 Si veda infra il capitolo sugli insediamenti. 52 PENNACCHINI 1941, p. 79, a. 1164. 53 ID., p. 85. 54 ID. p. 87. 55 ID, pp. 91-99. 56 Il documento oggi perduto è del 1168; Si tratta di una ricognizione ordinata dal conte normanno Enrico di Principato ed è riportato in RIVELLI, p. 97 e da GIBBONE, pp. 120-122, n. 1; si veda anche CARLONE 1981, pp. XV-XVI, n. 23. 57 Per la viabilità nell’alta valle del Sele cfr. FILIPPONE 1993, pp. 21-25, 33. 58 Nella documentazione si rinvengono oltre quelle ricordate FILIPPONE 1993, pp. 21-25, 33. 58 Nella documentazione si rinvengono oltre quelle altre attestazioni di attraversamenti sul Tusciano, , quali il vadu de benaturi DTC, XVI, 81, a. 1098 e il guado di Sant’Elia DTC, XLIII, 25 a. 1192. 59 DI MURO 1993. 60 Si veda a tal proposito DI MURO 2004 in c.d.s. 61 Si veda infra la parte relativa al castello di Olevano. 62 Si veda DI MURO 2000. 63 CDC, VII, pp. 30-31. DI MURO 2000. 64 Per Rao Trincanotte, Guimondo de Mulisi e Emma si veda M ENAGER 1973, p. 354, n. 1. Per i problemi legati alla falsificazione dei diplomi ebolitani che trattano di Emma si veda CARLONE 1998, pp. 16-17 n. 1. 65 DI MURO 2000. 66 AMATO di MONTECASSINO, I, pp. 161-162. Si veda anche CARLONE-MOTTOLA 1984. 67 Per le intricate vicende che videro protagonisti Gisulfo II, Guglielmo d’Altavilla e Roberto il Guiscardo si rimanda a SCHIPA pp. 216-220; per l’estensione del principato di Salerno negli anni 60 dell’XI secolo si veda anche CARUCCI1922, pp. 277-278, 382-383. 68 PAESANO pp. 122-123. 69 DTC, B, 21 e 30. 70 DTC, D, 51, a. 1105. 71 Si pensi ad esempio al caso famoso di Roberto il Guiscardo che sposò i seconde nozze una figlia di Guaimario IV, Sichelgaita. 72 DTC, D, n. 51, a. 1105; DTC, E, n. 35, a. 1114. 73 DTC, XXI, 21, a. 1119. 74 Cfr. ad es. CARUCCI 1922, pp. 382-383. 75 DTC, XXIII 44. Note 165 76 Anche a Salerno alla fine dell’XI secolo sono attestati insieme uno stratigoto e un vicecomes, CARUCCI 1922, p. 396, n. 2. E’ probabile che lo stratigoto amministrasse in questi anni senza alcuna restrizione ogni sorta di giustizia. La divisione tra amministrazione della giurisdizione bassa e della giurisdizione alta avverrà come è noto solo qualche anno più tardi con l’istituzone dei giustizieri (a. 1136) si veda a tal proposito CASPAR 1999, pp. 284 ss. 77 Per queste ultime vicende si vedano il classico C HALANDON 1905-1909, II, pp. 199-235, e CARLONE 1998, pp. VIII-IX. 78 La fedeltà di Eboli all’imperatrice Costanza d’Altavilla è esplicitamente enunciata nel Liber ad honorem Augusti, p. 148, vv. 615-618. Pietro fa esprimere così l’imperatrice assediata dai salernitani in castel terracena: « Huius ad exemplum, cives, concurrite gentis, que sit in Ebolea discite gente fides. Ebole, ni peream, memore tibi lance rependam, pectoris affectus, que meruere boni». 79 CDS, I, pp. 135-136. CARLONE 1998, IX. 80 CARLONE 1998, n. 551, Ibid. n. 571. 81 Baiuli nella terra di Eboli Ibid. 598 a. 1224, Ibid. 621, a. 1229. 82 Per le costituzioni di Capua si veda ad es. K ANTOROWICZ, pp. 100 ss. Per le ripercussioni sul territorio di Eboli si rimanda infra al capitolo conclusivo. 83 CARLONE 1998, X. 84 Ciò si deduce chiaramente dal documento del 1090 in cui Roberto di Eboli conferma e riconosce i diritti della archidiocesi salernitana nel territorio a lui soggetto, PENNACCHINI, pp. 51-54 Per la definizione territoriale del comitato di Eboli si veda anche CARLONE 1998, p. VIII. 85 DTC, E, 35. Del resto la nonna di Roberto, la contessa Emma de Ala, già possedeva negli anni 80 dell’XI secolo, un gran numero di terre e chiese lungo il basso corso del Tusciano, si veda a. e, DTC, B, 22 a. 1082, ivi, C, 20, a. 1089. 86 CARLONE 1984, p. 28, n. 126. Probabilmente però tale signoria si protrasse per un periodo limitato e forse terminò con la morte di Roberto,. Da allora si hano notizie di forti contrasti tra i due centri, contrasti si coglie un riflesso nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli: «Est prope Campanie castrum, specus immo latronum, Quod gravat Eboleam sepe latenter humum», p. 128, vv. 406-407. 87 A questo proposito si veda CILENTO 1966, p. 9. 88 Per queste vicende DI MURO 2001. 89 PAESANO 1847, I, pp. 136-137. 90 CDS, I, pp. 132-133. Oltre quanto già confermato da Roberto si aggiunga la chiesa di San Pietro de Toro con i suoi benefici presso il Sele, donata da Nicola di Principato nel 1141 insieme ad altre terre e selve tra il Telegro e il Sele, nei pressi di Fiocche, PAESANO II, pp. 115-117. 91 PAESANO II, pp. 147-149. 92 PAESANO II, pp. 115-117. 93 CDC, VI, p. 37-38. Si tratta però probabilmente di un falso. 94 DTC, B, 22. 95 Si veda infra. 96 DTC, C, 17. 97 DTC,C, 19. 98 DTC, G, 48. 99 DTC. C, 20. Il documento è ritenuto dal Carlone una falsificazione del XII secolo,CARLONE 1998, p. 22, num. 43. La Piana del Sele in età normanno-sveva 166 100 DTC, D. 51. Nei pressi vi è una chiesa di San Nicola. DTC, XVIII, 71. 102 DTC, XVIII, 85. 103 DTC, XIV, 19. 104 DTC, XV, 113. 105 DTC, XVIII, 20. 106 DTC, XXXII, 8. Come è noto un’oncia corrispondeva a 30 tarì. 107 DTC, XLII, 37, a. 1189. Nella tenuta era anche la chiesa di Santa Maria de Calcarola, DTC, XLII, 35. 108 DTC, XVIII, p. 106, a. 1109. 109 DTC, XIX, 30, a. 1112. 110 Si veda a tal proposito BERGAMO 1946 111 Cfr infra capitolo sui casali. 112 DTC, F, 44, offerto insieme al portus maris. 113 DTC, XXIV, 24. 114 DTC, XXIV, 27. 115 DTC, XXIIII, 118. 116 DTC, XXXV, 6. Anche nel 1266 l’abate Giacomo risiede a San Mattia AC, LV, 68. 117 Archivio vescovile di Minori, p.96-99, a. 1213. 118 PENNACCHINI 1942, p. 153. 119 Per i casali in Italia meridionale DALENA in c.d.s. 120 DTC, XXIV, 23. 121 DTC, XXII, 10, a. 1127. 122 DTC, XXIV, 23 a. 1137, 45a. 1138, 87 a. 1139. Si veda tab. 3. 123 Per un elenco si veda tab. 3 sotto la voce coltura e località. 124 WINKELMANN n. 764; CDS, p. 159. 125 ADS, Arca V, n. 282. Nel documento Gisulfo fa riferimento anche ad altre chiese che però rimangono di sua pertinenza e di cui tralascia di ricordare la dedicazione. 126 CDC, VI, p. 37, a. 1035. 127 Si ricorda in un documento di donazione del 1082 che San Michele Arcangelo constructa est prope fluvio Tusciano … a super et prope ecclesiam Sancti Stefani, DTC, B, 22; per la localizzazione della chiesa si veda anche DTC, C, 20, 1089. Di queste chiese si perde memoria nel XII secolo. 128 DTC, XLV, 90, a. 1185. In questo documento si specifica che la chiesa di San Pietro, non lontana da Sant’Arcangelo, apparteneva all’arcivescovo di Salerno, circostanza che induce ad identificarla con il San Pietro donato da Gisulfo I a Pietro. Per Sant’Arcangelo si veda infra. 129 DTC, XLI, 34. 130 CDC, VI, pp. 37-38. 131 Ad es. DTC, XXXI, 113, a. 1165. DTC, XXXI, 106, a. 1166, DTC, XXXII, 69, a. 1166. Sant’Arcangelo ricordato come monastero DTC, XXXIII, n. 45, a. 1169; DTC, XXXIII, 52, n. 52, a. 1170. Si veda anche infra. 132 Santa Maria qui dicitur Zita (CDC, VIII, pp. 263-264, a. 1055. 133 In una concessione di una terra ad laborandum in loco Tusciano del 1073 si specifica che questa si trova sotto la chiesa di Santa Maria ubi pons dicitur; PENNACCHINI 1941, pp. 79 ss. 134 In un documento del 1182 si ricorda una terra oltre il Tusciano sopra la chiesa di Santa 101 Note 167 Maria zita, DTC XXXVIII, 94, e nel 1186 si menziona un podere sito a lu Ponte di santa Maria zita DTC, XLI, 34. In questo documento Santa Maria Zita, dipertinenza della Chiesa salernitana, è posta nelle vicinanze di San Pietro dei Caprettoni. Santa Maria de Ponte è ricordata anche in un documento del 1235, BALDUCCI, I, p. 93. 135 CDC, VIII, pp. 51-59, a. 1057. Si tratta di un giudicato che riporta una serie di inserti tra cui quello relativo alla chiesa di San Petroniano. Nell’XI secolo, accanto alle chiese ricordate nel 968, sono documentati altri oratori rurali nella piana non sempre collocabili topograficamente quale Sanctum Sterum, non lontana da un secondo San Pietro del Tusciano (CDC, VII, pp. 295-296, a. 1055. Per San Pietro vedi infra. 136 DTC, XV, 113 (ins.). 137 DTC, XXXI, 19, a. 1163. 138 DTC, H, 7. 139 CDC, II, p. 203, a. 1053. 140 Per queste strade si veda supra paragrafo sulla viabilità, si veda anche DI MURO 1993; ID. 1994. 141 DI MURO 2001. 142 DTC, C, 17. Per una sintesi delle vicende di San Mattia fino al XVIII secolo B ERGAMO 1946, pp. 57 ss. 143 Primo documento in cui si ricorda un prepositodi San Mattia DTC, XXV, 22, a. 1141. Monastero ad es. DTC, XXXVI, 20, a. 1178. 144 DTC, XLVI, 78, a. 1222; DTC.XLVII, 117, a. 1223. 145 CDC, VII, pp. 295-296, ins. Questa chiesa di San Pietro si trovava poco a N della chiesa di San Mattia DTC, C, 17, a. 1089 146 DTC, C, 17 ed. BERGAMO 1946, pp. 121-123; questa edizione risulta peraltro incompleta. 147 DTC, C, 21. 148 La chiesa è ricordata in loco Tusciano ubi a li Capuani dicitur ; nei pressi della tenuta all’interno della quale sorge la chiesa vi è la antiquam viam usque ad Campum Sancte Cecilie e la via puplica, que dessensit ad Sancta Maria de Fatua. Per la chiesa di San Pietro ad columnellum si vedano anche BERGAMO 1946, pp. 131-133; LONGOBARDI 1998, III, pp. 230-231. 149 DTC, XVII, 111. 150 DTC, XLIII, 23, a. 1192. 151 Infra. 152 DTC, XXXIII, 94, a. 1168. 153 DTC,XXV, 24 a. 1142. 154 DTC, XXXIII, 83, a. 1172 La chiesa viene donata all’abbazia cavense da Luca Guarna regio giustiziere e fratello dell’arcivescovo Romualdo II. per la localizzazione C RISCI-CAMPAGNA, p. 242. 155 DTC, XXXIV, 95, a. 1170. 156 Abitanti del casale Tusciano risultano da numerosi documenti quali donatori , possessori di terre, artigiani. Si veda passim. 157 Ad esempio per Sant’Arcangelo, DTC, XXXI, 113, a. 1165; DTC, XXXI; 106, a. 1166; Per San Mattia DTC, XXV, 22, a. 1141; DTC, XXV, 24, a. 1141. 158 DTC, XXXIII, 45, a. 1169 (ordinazione a Sant’Arcangelo); DTC, XXXV, 6, a. 1176 (monacazione a San Mattia). 159 DTC, XXIII; 104, a. 1137 (Sant’Arcangelo); DTC, XLVIII, 46, a. 1225 (San Mattia). 168 La Piana del Sele in età normanno-sveva 160 DTC, XXX, 34, a. 1159, sebbene non tutti i mulini del casale Tusciano appartenessero all’abate cavense, si veda infra. 161 Ad es. DTC, XXXIII, 52 a. 1170 (Sant’Arcangelo); DTC, XXX, 51, a. 1161 (San Mattia); DTC, XXXI, 19, a. 1163. 162 DTC, 202, a. 1158 (San Mattia); DTC, XLVII, 117, a. 1223. 163 Si veda infra. 164 Il priore di San Mattia allarga le sue competenze gestionali anche su possedimenti cavensi a Eboli (es. DTC, XLVIII, 79, a. 1226), nelle terre del Laneo (DTC, XLVIII, 46, a. 1225) Monte (DTC, XLVIII, 52, a. 1225) , Santa Cecilia (DTC, XLVIII; 8, a. 1223) e un po’ dappertutto nel casale Tusciano (DTC, XLVII, 114, a. 1223 San Clemente; DTC, XLVII, 117, a. 1223,diverse contrade di Tusciano) mentre del priorato di Sant’Arcangelo non si fa più menzione. Un documento del 1216 conferma quanto detto: in una controversia per il possesso di alcune terre ad Eboli il giudice Andrea della Monaca accusa il priore di San Mattia e delle dipendenze di Eboli e del Tusciano di avergli invaso ingiustamente una terra, DTC, XLVI, 98. 165 Si vedano ad es. Ad es.DTC, XV, 27, a. 1092 notaio Guidone; DTC XXIV, 23, a. 1137, Madio presbitero e notaio; DTC, XXIV, 45, a. 1138, Alfanum notarium.DTC, XXIV, a. 1139, lo stesso Alfano; DTC, XXIV, 107, a. 1140 ancora Alfano; DTC, XXIV, 23 a. 1137, 45a. 1138, 87 a. 1139 (Sant’Arcangelo). 166 DTC, XXIV, 23. 167 Per i mulini lungo i Tusciano vedi infra, capitolo sull’economia. 168 DTC, XXIV, 23. 169 CARLONE 1998, 208, a. 1160. 170 DTC, XXXVI; 33. 171 DTC, XXV, 92. 172 DTC, XXVI, 2. 173 DTC, XXIX, 32. 174 DTC, XXX, 59. 175 DTC, XXX, 51. 176 DTC, XXXII, 15. 177 DTC, XXXIV, 26. 178 DTC, XXXIV, 80. 179 DTC, XXXV, 84. 180 DTC, XXXVI, 14. La famiglia Brusca doveva essere tra le più ricche del casale tanto che una contrada mutuò da loro la denominazione Ubi a Li Brusca dicitur DTC, XL, 44, a. 1185. 181 DTC, XXXIII, 93. 182 DTC, XXXV, 20. Altri esempi di possessori di terre del casale Tusciano DTC, XXXIV, 94, a. 1168; DTC, XXX, 26, a. 1169; DTC, XXXIII, 45, a. 1169; DTC, XXXIII, 71, a. 1170; DTC, XXXII, 72, a. 1170 ; DTC, XXXIV, 10, a. 1174; DTC, XXXV, 6, a. 1176; DTC, XXXV, 60, a. 1176; DTC, XXXV, 70, a. 1176; DTC, XXXV, 48, a. 1177. DTC, XXXV, 50, a. 1177; DTC, XXXVI, 41, a. 1178; DTC, XXXVI, 47, a. 1178; DTC, XXXVII, 37, a. 1180; DTC, XXXVII; 98, a. 1181; DTC, XXXVII, 64, a. 1182; DTC, XXXVIII, 113, a. 1184; DTC, XXXIX, 82, a. 1184; DTc, XL, 94, a. 1187; TC, XL, 95, a. 1187; DTC, XLI, 87, a. 1188; DTC, XLI, 88, a. 1188; DTC,XLI; 72, a. 1190; DTC. XLII; 74, a. 1190. Tutti i documenti citati si riferiscono a personaggi diversi. 183 DTC, XXV, 92. Note 169 184 Ad es. Asclettino, figlio di Giovanni Silvatico DTC, XXXV, 6, a. 1176; DTC, XLII, 69. a. 1190. 185 Il giardino di Matteo è stato riconosciuto da Luciano Mauro dell’Università di Salerno nell’attuale giardino della Minerva a Salerno. MAURO 1999, p. 57-237. 186 HUILLARD-BREHOLLES, I, p. 299 187 AC, M, N. 16 , a. 1221. HUILLARD-BREHOLLES, II, 1, pp. 118-122. Per le ragioni di questo passaggio si veda infra, il paragrafo dedicato alla vicenda complessiva del comitato di Eboli. 188 Il duca sottolinea come i liberi cui si riferisce siano uomini che non abbiano rem stabilem nel principato salernitano. Riporto per esteso l’importante parte del documento Et omnes liberi homines qui in ipsis terris habitaverint nullum servitium aut angariam aut pensionem nobis aut reipublice faciant aut persolvent, sed quidqui nobis aut reipublice facere et persolvere debuerint tibi tuisque successoribus faciant et persolveant remota omni contraditione nostra et omnium exactorum reipublice. De illis vero liberis hominibus dicimus qui rem stabilem intra salernitanum principatum non habuerint quanto in prephatis terris ad habitandum intraverint. AC, C, n. 17. 189 DTC, F, 40. Dell’autenticità del documento dubita Carlone (C ARLONE 1998, p. 51, num. 108, 1) ma la circostanza che tale donazione venga sostanzialmente confermata in un documento del 1128 (vedi nota successiva) a mio parere rende sostanzialmente verosimile il contenuto dell’atto. 190 Cum omnibus hominibus in eodem loco Tusciano habitantibus, quos videlicet homines ipse quoque dominus guiglielmus princeps et dux similiter temporis suis dominii teneri et dominari visus est, DTC, F, 44, a. 1128; DTC, F, 45, a. 1128 191 Ad es. DTC, XXXI, 13, a. 1165; AC, XLIII, 54, a. 1192; DTC, XXIII, 104 a. 1137 (si tratta però di una falsificazione in forma di originale redatta nella seconda metà del XII) sec. CARLONE 1998, p. 67. Un primo vicecomes de Tusciano è ricordato nel 1085, DTC, XIV, 13. 192 Così ad es. in AC XLII, 54, a. 1192 in cui Giovanni de Golia, viceconte della Trinità nel casale Tusciano, rappresenta l’abate in una controversia per la cessione dei beni del defunto marito di una nubenda. 193 Matteo Nocerino nel 1206, CARLONE 1998, 497; Giovanni a partire dal 1208, ID. 498. 194 AC, XLI, 99. 195 CARLONE 1998., 501, a. 1208. 196 HUILLARD-BREHOLLES, III, pp. 259-262 a. 1231. Regesto in CARLONE 1998, p. 280. 197 Per i legami tra normanni e Trinità si veda ad es. VITOLO 1985, da ultimo LORE’ 2002. L’ente che segnò più in profondità le vicende della piana di Battipaglia dall’età qui considerata fino all’età moderna fu senza dubbio la Trinità di Cava, che nel XII secolo diventa, si è detto, insieme alla Chiesa salernitana, il maggior detentore di terre della parte meridionale dell’antico locus Tuscianus. Si è visto come da subito la politica di gestione fondiaria degli abati cavensi nelle terre del Tusciano fu rivolta a una razionalizzazione dei beni, attraverso permute e acquisizioni volte al compattamento del dominio fondiario. Un modello gestionale che si organizza con modalità del tutto analoghe alla strutturazione della cattedra di San Matteo, con i punti focali dell’organizzazione materiale nei casali e nelle chiese che ne rappresentano i fulcri. Evidente differenza con la Chiesa salernitana è l’assenza nel patrimonio cavense di un luogo materiale e simbolico che ne manifesti il ruolo: se infatti il castelluccio di Battipaglia, visibile da ogni punto della piana era il segnale forte del potere, anche coercitivo, dell’arcivescovo, la Badia non si dotò di strutture militari che andassero a soddisfare questa esigenza. 170 La Piana del Sele in età normanno-sveva Ciò è legato sostanzialmente alla natura del potere signorile di Cava su queste terre, che non andò mai al di là della detenzione di diritti immunitari sulle proprie terre, a differenza della signoria territoriale dell’ordinario salernitano su Olevano e sul casale-castello di Battipaglia, circostanza che conferiva anche prerogative militari e, dunque, possesso di fortezze. Forse San Mattia, residenza dell’abate cavense durante i suoi soggiorni nella zona, poteva costituire il momento simbolico di rappresentazione materiale del dominio della Santissima Trinità su queste terre. 198 Il primo documento che attesti Sant’Arcangelo come casale distinto dal casale Tusciano è del 1173, AC, XXXIV; 80; si veda anche AC, XLIV, n. 44 a. 1196; regesto CARLONE 1998, p. 206, n. 451. 199 CDC, VI, pp. 37-38. Il documento è con ogni probabilità un falso, ma ciò non toglie che si possa utilizzare al fine della precisazione topografica del sito. 200 VENEREO, III, p. 78. 201 La taverna è menzionata nei pressi della via che viene dalla chiesa di Sant’Arcangelo DTC, XIV, 117, a. 1089. Vedi anche DI MURO 1994, p. 86. 202 AC, Reg. III, Mayneri car. 15. 203 CARLONE-MOTTOLA, p. 311. 204 AC, LV, 68, a. 1266. Per queste vicende si veda infra capitolo conclusivo. 205 AC, XLIII, 75, a. 1193; PENNACCHINI1942, p. 122 a. 1208. 206 DTC, XVII, 111. 207 Il confine a settentrione è un monte DTC XVII; 70. 208 DTC, XVII, 111. Si tratta del tratto della popilia tra Battipaglia e Eboli, si veda supra il paragrafo sulla viabilità. 209 Ricordata esplicitamente per la prima volta nel 1129 Index Perg. Caven. 22, 76, a. 1129. 210 CRISCI-CAMPAGNA, p. 329. 211 Prima attestazione DTC, XLVIII, 8, a. 1223. 212 WILKELMANN, 764. CDS, I, p. 159. 213 DTC, XVI, 36. Si tratta con ogni probabilità di un falso C ARLONE 1998, p. 29. 214 PAESANO, II, pp. 148-149. La prima citazione sicura della chiesa di santa Cecilia risale al 1146, BERGAMO, pp. 131-133. 215 Per la viabilità si veda supra. 216 Per la vicenda di San Nicola in epoca longobarda si rimanda a DI MURO 2000, si veda anche infra la parte relativa all’agricoltura. In generale BERGAMO 1946, pp. 45-49. 217 PAESANO, pp. 148-149. 218 DTC, XXX, 31. 219 Un nucleo insediativo trapela già nelle carte dell’XI secolo, infra la parte relativa all’agricoltura. 220 DTC, M, 12. 221 BERGAMO 1946, pp. 45-49. Su queste vicende anche CDC, IX, pp. 389-391. 222 WINKELMANN, 764. CDS, I, p. 159. 223 Si tratta però di una conferma; ciò fa ritenere plausibile che il casale esistesse già dall’età longobarda. Si veda infra il paragrafo dedicato ai castelli. 224 CDS, I, pp. 244-247. 225 CDS, I, pp. 248-249. 226 CDS,I, p. 247. Note 227 171 CARUCCI 1937. Il testo del documento del 1251 in cui si fa riferimento alle consuetudini degli altri vassalli della chiesa permette una tale analogia. I vassalli Olevanesi dovevano macinare le loro olive al frantoio del signore, né potevano costruire frantoi senza l’assenso dell’arcivescovo; lo stesso avviene per i mulini per il grano. Nessun forestiero poteva acquistare terre nelle terre soggette all’arcivescovo. Gli abitanti sono soggetti infine ad una serie di prestazioni d’opera sulle terre di possesso dell’arcivescovo. IANNONE 1988, pp. 55-59. 229 PENNACCHINI 1942, p. 153. 230 ID. p .112. 231 CARUCCI 1936 p. 23. 232 cfr. supra capitolo sulla viabilità. Oltre ai resti materiali, le case sono ricordate nella documentazione scritta, ad es. Codice Perris, II, p. 380, a. 1195. Codice Perris, II, p. 632-633, a. 1261. 233 Codice Perris, II, p. 380, a. 1195. 234 Codice Perris, II, p. 384, a. 1196. 235 Codice Perris, II, p. 557, a. 1249. 236 Codice Perris, II, pp. 682-683, a. 1270. 237 Le chiese sono ricordate fino al XVII secolo, sebbene ormai abbandonate I ANNONE 1988 pp. 223-225. 238 Codice Perris, II, p. 556, a. 1249; Codice Perris, II, p. 604-605, a. 1256; Codice Perris, II, p. 632-633, a. 1261. 239 Codice Perris, II, p. 384, a. 1196. 240 Codice Perris, II, p. 556, a. 1249. 241 CDS, I, p. 202-203. 242 Codice Perris, II, p. 604-605, a. 1256; Codice Perris, II, p. 616-618, a. 1257; Codice Perris, II, p. 632-633, a. 1261; Codice Perris, II, p. 682, a. 1270. 243 PENNACCHINI, pp. 151-154. 244 Documento riportato in PAESANO 1847, I, pp. 136-137. 245 PENNACCHINI, pp. 50-54, a. 1090. 246 In generale per signoria territoriale si intende un sistema in cui la giurisdizione sugli uomini da parte del signore include tutti gli abitanti di un determinato territorio, sia che le terre appartengano o meno a questi, mentre la signoria immunitaria si applica solo su coloro che abitano e coltivano le terre del signore Sulla differenza tra signoria territoriale e signoria immunitaria si veda a. e. VIOLANTE 1991; ID. 1997. 247 CDS, I, p. 133, a. 1221. 248 DTC, XXVIII, 74. 249 PENNACCHINI 1942, pp. 73-110 ss. In particolare la parte relativa a Monte pp. 74-85. 250 Si veda supra capitolo sula viabilità. 251 PENNACCHINI1942, p. 78. 252 Ibid. 253 ID. p. 85. 254 Per la posizione del colle ID. p. 85. Si tratta della chiesa di Santa Maria ricordata anche in documenti successivi ad es. AC, IL, 85, a. 1233. Sul colle oggi si scorgono i ruderi del complesso di santa Maria del Carmine elevato alla metà del XVI secolo quando il sito era detto Evoli Vecchio, cfr. infra. Fino a qualche decennio addietro era ancora possibile osservare sul 228 172 La Piana del Sele in età normanno-sveva colle i resti di alcune abitazioni del casale medievale, si vedano le foto in L ONGOBARDI1998, III, p. 193. 255 PENNACCHINI 1942, p. 73, 79. 256 Si può supporre che ogni abitazione ospitasse una famiglia composta mediamente di 5 membri, per cui si può ipotizzare che nel casale Monte abitassero almeno 150 individui. 257 Ad es. CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 54, n. 111, a. 1192. 258 Fonte de Raymundo PENNACCHINI 1942. p. 82; fonte de sancto Donato, p. 84; fonte qui ficu mansole dicitur, fonte qui fuscara dicitur p. 85. 259 ACC, 48, reg. CARLONE 1982, n. 47. 260 ID. pp. 73-78. 261 Associazione della vigna con l’alto fusto. PENNACCHINI 1942, p. 78. 262 ID. p. 79, 81, 82. 263 ID. p. 79, 81. 264 CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 69, n. 144, a. 1195. 265 PENNACCHINI 1942, p. 80. 266 ID. p. 82, 84. 267 ID. p. 82, 84. 268 ad es. AC, LII, 33, a. 1246. 269 ID. p. 76, 81. 270 ad es. CARLONE-MOTTOLA 1981, p. 54, n. 111, a. 1192; p. 69, n. 144, a. 1195; p. 98, n. 209, a. 1215. 271 DI MURO 2000; cfr. infra Capitolo Conclusioni. 272 DTC, XLII, 60. 273 AC XLII, 57, a. 1191; CARLONE-MOTTOLA 1982, 111, a. 1192 ; AC, LII, 33, a. 1246; AC, LII, 86, a. 1249. 274 AC, XLVIII, 52, a. 1225.Si tratta probabilmente della chiesa di S. Maria de Labarola ricordata in un doc. del 1246, , AC, LII, 33. 275 CARLONE 1998, 751, a. 1254. 276 Coltivazioni di ulivi, vigneti, fruttiferi, orti sono attestate a Monte nel XIII secolo, ad es. AC, XLVI, 63, a. 1214, CARLONE 541; ID, 558, a. 1218; ID., 650, a. 1233; ID. 723, a. 1249. 277 CDC, I, p. 10. 278 CDC, VI, p. 224. 279 La carta è edita in PENNACCHINI, pp. 110-111. 280 CDC, IV, pp. 270-271. 281 Si veda il documento di Roberto di Eboli del 1090. PENNACCHINI 1941 pp. 50-53. 282 DTC, XXVIII, 42. 283 DTC, XXX, 57, a. 1160, presbitero Giovanni; CARLONE 1998, 268, a. 1174, presbitero Pietro. 284 AC, XLI, 102, a. 1188. 285 PENNACCHINI 1943, A. 1164, p. 83. 286 AC, XXXVI, 115, a. 1181. 287 Si vedano ad es. CARLONE 1998, 268, a. 1174; ID, 276, a. 1176; CDV, VII, pp. 114-116; AC, XLI, 102, a. 1188. 288 Anche qui infatti si rinviene una decisa varietà di attestazioni colturali nell’intero periodo considerato, con uliveti, vigneti, frutteti, orti, campi di grano, si veda ad es. DTC, XXX, Note 173 57, a. 1160; PENNACCHINI 1943, a. 1164, pp. 82 ss.; AC, XLI, 102, a. 1188; AC, XLI, 106, a. 1188; AC, XLI, 108, a. 1188; CARLONE 1998, 557, a. 1218; ID, 694, a. 1240. 289 Si veda infra il paragrafo relativo al castelluccio di Battipaglia. 290 Si veda supra. 291 Si veda a tal proposito infra li capitolo sull’economia e il capitolo conclusivo. 292 cum castro quod Mareguardus construxit in eisdem tenimentis et pertinentiis HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920. 293 Su Marquardo e la politica di Enrico VI in Italia meridionale in gen. KAMP 1996, pp. 141 ss.; si veda anche TOOMASPOEG 2004 pp. 138 ss. 294 CDS, I, pp. 247-248, a. 1251, Vedi infra. Da ciò si deduce come il castello del casale Tusciano fosse la castelluccia. 295 Terre di Santa Maria Zita (DTC, XLI, 34, a. 1186), terre di San Silvestro di Monte, terre di. 296 CDS, I, pp. 258-262. 297 CDS, I, p. 247. 298 Situazione analoga anche per il castrum Olibani. Nel 1057 Gisulfo II, richiesto dagli olevanesi, fece redarre una carta nella quale venne abbozzato per la prima volta l’usus locale, alcune consuetudini che precisavano i poteri che il dominus poteva effettivamente esercitare senza prevaricare i diritti degli homines castri, in gran parte liberi. ADS I, si veda anche DI MURO 2004 in c.d.s. 299 Qualche anno più tardi sorse un contrasto tra l’arcivescovo di Salerno e gli abitanti di Olevano sul diritto di questi ultimi a costruire machinas ad oleum faciendum (PENNACCHINI pp. 172-177, a. 1290). Nonostante il sindaco Matteo Carabello cercasse di far valere le ragioni degli olevanesi, forse mostrando anche il documento di Gisulfo II del 1057, la sentenza fu favorevole all’arcivescovo. 300 Si veda supra. 301 IANNONE 1988, CARUCCI 1937. Mulino e frantoio costituiscono in generale uno degli aspetti materiali e simbolici più forti del potere signorile medievale ed in genere il possesso è esclusivo appannaggio del dominus. 302 AC; XXXV, 56. 303 cfr. infra, La vita quotidiana. 304 Così pare dedursi dal giuramento cui tutti gli abitanti dovettero sottoporsi dopo la restituzione alla Chiesa; si veda supra. 305 Documento edito in BERGAMO 1946, pp. 140-142. Originale conservato presso l’archivio di Cava AC, LXI, 32. Per San Pietro ad Columnellum si veda supra. Il tenimento è ricordato come casale a partire proprio dal documento del 1299. 306 Così il passo del documento Sic tamen quod infra primum biennium casale ipsum preparabimus et rehabitari faciemus domos, et vineas ...reparari.... Ad hoc autem memorandum est quod nos (Oliviero e la moglie Adelina) ecclesiam ipsam et domos expensis nostri propiis reparare facere tenemur... 307 Per la guerra del Vespro nelle zone di Eboli CARUCCI 1937, ID., Prefazione in CDS, III. 308 AC LXI, 57, a. 1300, BERGAMO 1946, pp. 142-144. Nel documento quando si riporta l’azione di ricostruzione che dovrà compiere Oliviero si sottolinea che questa sarebbe avvenuta impedimento videlicet guerre penitus inde remoto. 309 AC, LXIV, 106, a. 1310, ediz. BERGAMO 1946, pp. 145-148. 174 La Piana del Sele in età normanno-sveva 310 La sala sarà lunga sei canne (circa 12 metri), larga tre (circa tre metri) e alta venti palmi (oltre quattro metri), ciascuna camera dovrà essere lunga tre canne (circa sei metri), larga due (circa quattro metri) e alta quanto la sala. 311 A tale riguardo si veda infra, in part. il capitolo conclusivo. 312 Si veda a tal proposito DI MURO 2004. 313 Si pensi ad esempio ad alcuni ambienti del complesso di castel Vernieri a Salerno o alla vicina stanza voltata a crociera nel complesso di Santa Maria a Corte. 314 Dei due archi ne rimane uno a nord, dell’altro, sulla parte opposta, si nota l’attacco della curvatura. 315 Per l’edificio 4 quanto detto è ben visibile in elevato, per l’edificio 5 la relazione di contemporaneità si osserva solo nella parte bassa del muro, l’unica superstite su questo lato. 316 Per la Puglia si veda ad es. PATITUCCI UGGERI 1983, pp. 114 ss. Per Salerno DE CRESCENZO, 1991, pp. 63 ss. 317 Per i caratteri dell’architettura di età sveva in generale si veda il classico H ASELOFF 1992. 318 Ad esempio nelle cantine del palazzo De Rosa, databile al XVI secolo, nel casale Valle si può ancora osservarne un esemplare abbastanza integro. 319 Per il palazzo di Santa Maria a Corte residenza dell’arcivescovo di Salerno almeno a partire dal XII secolo cfr. CARUCCI1937, pp. 51-52 e infra. 320 Il rinvenimento di scorie di lavorazione del ferro durante ricognizioni nei pressi di edificio 10 testimonia la presenza di un fabbro e dunque ulteriormente la complessità dell’insediamento. 321 CARUCCI 1937. 322 Per gli scavi al castello di Olevano DI MURO-LA MANNA 2004 in c.d.s. 323 Per la datazione delle torri si veda ID. 324 CDS I p. 242 325 CDS, I, p. 172. La morte di Ermanno di Salza avvenne il 18 marzo 1239, domenica di Pasqua. Il castello sembra rimanere in custodia ai cavalieri teutonici fino al 1255. Teutonicum è infatti anche l’ultimo custos del castello, Manegoldo, CDS I p. 242. 326 CDS I p. 242. 327 Per Caprarizzo si veda DI MURO 2004; si veda anche supra capitolo sui Casali. 328 Per questo argomento si veda ad es. TOUBERT 1979, pp. 70-71. Per la politica di Federico II tendente a limitare la potenza dei baroni del Regnum cfr. ad. es. TRAMONTANA 1983, pp. 665667; SANTORO 1993 pp. 115-117. In generale si veda anche DI MURO-LA MANNA 2004. 329 KANTOROWITZ 1981. 330 CDS, I, p. 199. Di parere diverso Kristjan Toomaspoeg che indica proprio nella sottrazione del castrum Olibani da parte di Federico II all’ordine Teutonico alla morte di Ermanno il segno tangibile della fine della collaborazione tra imperatore e cavalieri Teutonici, TOOMASPOEG 2004, p. 143. Per la continuità della presenza teutonica presso il castrum Olibani DALENA 2004 p. 168. 331 CDS, I, p.277; IANNONE 1988. 332 Si veda supra il capitolo sulla rete stradale. 333 Si veda ad esempio DTC, XV, 10, a. 1090. Nel documento domna Emma contessa di Eboli, fa dono a San Nicola de Gallucanta di una casa foris murum castelli nostri Evuli, subtus porta que de la terra dicitur, dove con terra si intende naturalmente l’insediamento accentrato fortificato. Note 334 175 Nota precedente. CDS I, pp. 142-143, a. 1223. 336 CARLONE 1998, 313, a. 1181. 337 IBID. Si fa riferimento a una terra iusto passu mensurata a nobis (il venditore) iudicibus comuniter constituto et designato in marmore porte olim castelli huius civitatis. L’esposizione dell’unità metrica stabilità nella distrettuazione di una città è fenomeno comune nel Medioevo: in genere questa avveniva nei pressi dei luoghi più frequentati quali le porte della città, come ad Eboli, o la cattedrale, come testimoniato a Salerno a partire dal X secolo CARUCCI 1927 p. 67. 338 Ad es. DTC, XVIII, 113, a. 1110. 339 DTC, XXII, 51. Dubbi sull’autenticità dell’atto in CARLONE 1998, 108, n.2. 340 DTC, XXIII, 97. 341 Per la parrocchia di San Lorenzo.CRISCI-CAMPAGNA, 236-237. 342 DTC XIII 118, a. 1136. Per la chiesa CRISCI-CAMPAGNA pp. 238-239. 343 Il documento è riportato in un riconoscimento del XIII sec. si veda CARLONE 1998, 211. 344 DTC, XXIII, 93. La chiesa è ancora oggi aperta al culto, C RISCI-CAMPAGNA p. 242; LONGOBARDI, 179-186. 345 CARLONE 1998, 532, a. 1214. 346 PAESANO, II, pp. 148-149. Quartiere coincidente con la parrocchia CARLONE 1998 , 659, a. 1234. 347 CESTARO 1984, p. 117 che però fa risalire tale suddivisione ad età moderna. 348 Ultima attestazione diuna casa il legno DTC. XXIII, 97, a. 1135. 349 Case solarate nel quartiere San Lorenzo appaiono dopo il 1140: CARLONE 504, 534, 537, 538, 664, 739; San NIcola ID. 343, 738La stessa situazione si rinviene nei quartieri San Barbato (ID. 406) e San Giovanni (ID. 659, 683). 350 Il documento è conservato presso l’archivio abbaziale cavense, reg. CARLONE 1998, 401. 351 A.e. 664 711. 352 Reg. in CARLONE 1998, 702. 353 IBID. 354 La vicenda di Silvestro, un rappresentante della classe medio-alta, certamente non un nobile, che possiede un complesso che, per quanto se ne possa dedurre dalla fonte, si modella sulle forme simboliche di rappresentazione proprie della nobiltà, lascia intravedere la vivacità e la forte consapevolezza del proprio ruolo della classe media tra XII e XIII secolo ad Eboli, testimoniata, certo ad un livello più basso, in qualche modo anche dalla condizione degli artigiani e di alcuni mercanti, si veda infra. Per l’elenco di una parte dei numerosi possedimenti di Silvestro, CARLONE 1998, 702. 355 Roberto concede decimas de omnibus redditibus nostris platearum plancarum tincte calendre predicte terre nostre Eboli…liberi et exempti ab omni datione et ab omni iure diritture plateatici et portatici tam in personis quam in mercibus et in rebus suis quas intromittent in Ebolum vel extraxerint de eodem. Il documento in PENNACCHINI, pp. 51-54. 356 DTC, XV, 10, a. 1090; nel documento risulta che Pietro a quella data è già morto. 357 CDC, VII, p. 30. 358 Anche a Salerno esiste un quartiere dei Barbuti nell’area del palatium arechiano e il toponimo è stato messo in collegamento con la fase della conquista e del primo stanziamento longobardo in città; si veda PEDUTO 1988, pp. 9 e ss. 335 La Piana del Sele in età normanno-sveva 176 359 DTC, C, 24. Vedi infra DTC, B, 30. 361 DTC, XXII 15, in questo documento si ricorda una casalina all’interno del vico. 362 DTC, XXX, 57. Per la parrocchia si veda CRISCI-CAMPAGNA, pp. 234-235. 363 Pendino nella parrocchia di San Bartolomeo CARLONE 1998, 308. 364 CDV, V, pp. 298-301. Per la chiesa distrutta in seguito ai bombardamenti del 1943 si veda CRISCI-CAMPAGNA, p. 234. L’area è ricordata nei documenti precedenti il 1168 come Francavilla seu Carbonarium Domnicum CARLONE 180, a. 1151. Quest’ultima denominazione si spiega con la presenza del fossato del castello sotto il muro meridionale. In un altro documento Francavilla è infatti ricordata come foris muro de Terra Ebuli, CARLONE 1998, 188, a. 1154. 365 Quest’area doveva coincidere con le terre immediatamente al di là della porta della Terra di Eboli in cui sono ricordate case a partire dal 1090, DTC, XV, 10, a. 1090 366 Tale impressione si deduce dalle numerose attestazioni di case nella parrocchia e nella rarità della menzione di spazi liberi tra esse. Si vedano tra XII e XIII secolo CARLONE 1998, 232; ID., 299, ID. 406, ID. 416, ID. 475, ID. 568, ID. 675. 367 Si trattava della via più importante del castellum Evuli, Si veda ancora nel XVIII secolo quetso percorso che entrava in Eboli attraverso la Porta della Terra in PACICHELLI (fig.) 368 CARLONE 1998 624 a. 1229; CARLONE 1998 675, a. 1238. 369 ID. 286, a. 1178; ID. 406 a. 1192. 370 Platea, ID. 371, a. 1189. 371 ID. 286, A. 1178. 372 ID. 371 a. 1189. 373 ID. 624 a. 1229. 374 ID. 299, a. 1179. 375 ID. 475, a. 1202. 376 ID. 624, a. 1229. 377 Prima attestazione in un documento conservato presso l’archivio diocesano salernitano edito in PENNACCHINI pp. 55-56, a. 1109. 378 Si veda ad es. doc. del 1169 in CARLONE 1998, 236. 379 CARLONE 1998, 583. Il palazzo fu costruito dall’abbazia di Montevergine. 380 Per l’Ospedale di Montevergine ad Eboli infra.. Altre case appartenenti al monastero irpino fondato da San Guglielmo da Vercelli CARLONE 1998, 583 a. 1222; ID. 601, a. 1225; ID. 626, a. 1230 381 CARLONE 1998, 583 a. 1222; ID. 626, a. 1230. 382 CARLONE 1998, 565, a 1219. 383 CARLONE 1998, 236, a. 1169. 384 ID. 583, a. 1222. 385 Ponte di S. Elia, CARLONE 1998, n144 a. 1138; porta di S. Elia, reg. CARLONE 1998, a. 1223. 386 BALDUCCI, I, 28, a. 1138. 387 La fondazione avvenne alla fine dell’XI secolo. La notizia si ricava da un documento del 1163, reg. BALDUCCI, I, n. 24. 388 CARLONE 1998, 383, a. 1189; 425, a. 1193. 389 Reg. CARLONE 257 a. 1172. 390 ID. 580. 360 Note 391 177 CARLONE 1998, 701, a. 1242. BALDUCCI, I, 91. 393 CARLONE 1998 672. 394 CARLONE 1998, 692. Benvenuto è ricordato anche in una carta del 1239 come fideiussore in una donazione CARLONE 1998, 682. 395 DTC, XLVIII, 8. 396 DTC, XXIII, 93. 397 CARLONE 1998, 699, 700 (a. 1241) 398 CARLONE1998, 726. 399 CARLONE 1998, 674, a. 1237; ID. 781, a. 1264. Risulta difficile stabilire se si tratti di Firenze o di Forenza in Lucania. 400 Nel 1255 come fideiussore in un affidamento di un oliveto CARLONE 1998, 752 e nello stesso anno come compratore di un oliveto per ben sei once d’oro, I D. 757. 401 Così ad es. nel quartiere San Lorenzo, CARLONE 1998, 739, a. 1255 402 La relativa estensione del borgo per l’età considerata si deduce anche dal fatto che talune chiese, oggi all’interno del centro storico, erano ancora al di là delle mura nel XIII secolo: così ad esempio San Biagio, CARLONE 658, a. 1234, ricordata sulla collina di S. Andrea o San Matteo. 403 Ad es. CARLONE 1998, 671, a. 1236. 404 RUGGIERO 1977, pp. 65-66. 405 Documento del pontefice Alessandro II PAESANO II, 176-179, a. 1169 che però non ricorda l’arcipretura ebolitana. Si veda l’edizione completa del documento in N ATELLA 1984. Prima attestazione di un arciprete ad Eboli nel 1164, CARLONE 1998, 218. L’arciprete Cennamo risulta già morto in quest’anno. 406 CDS, I, pp. 130-131. 407 DTC, XLVI, 98. 408 DTC, XLVIII, 28 409 AC, XXXVIII, 9. 410 AC, XLI, 9. L’antichità del muro in questi anni fa forse ritenere la presenza di un villaggio accentrato già in età longobarda. In ogni caso nessuna traccia del muro è giunta fino ai nostri giorni. 411 CDS, I, p. 159. 412 CDS, I, pp. 244-246 413 CDS, I, pp. 247-248. 414 Si veda il paragrafo sulla viabilità. Per la via che da Eboli va a Battipaglia (via puplica ebulensis) DTC, XLII, n. 37, a. 1189. Il percorso è noto nel XII secolo anche come via que pergit de Bactipalea DTC, XVII, 111. 415 A questo proposito rimando al mio DI MURO 2000 416 Un indice dell’antichità di questi insediamenti potrebbe essere individuato nel fatto che il castello di Monte fu donato alla Chiesa salernitana da un certo Rainaldo, già morto nel 1164, PENNACCHINI, p. 84. 417 ID., p. 90. 418 SEFILIPPO, p. 14. 419 PENNACCHINI, p. 91, a. 1164. Di Santa Lucia rimane traccia toponomastica non lontano dalla chiesa di Santa Maria la Nova a Furano, tra Eboli e Campagna che da essa mutua il nome. 392 La Piana del Sele in età normanno-sveva 178 420 ID. p. 95. ID. p. 98. 422 ID., pp. 99-108. 423 Dico almeno quattro perché nel documento si fa riferimento ad un altro castilluzzu dirutum tra Sancta Teccla e Pancia (PENNACCHINI, p. 91), ma in maniera non chiara per cui potrebbe trattarsi dello stesso castello di Sancta Teccla. Nonostante alcuni sopralluoghi non sistematici non ho ancora individuato nel territorio le tracce di questi insediamenti, ma penso di avere dei risultati dalle ricognizioni che ho progettato di effettuare nel territorio durante i mesi estivi. 424 La chiesa è detta monasterium sancti Petri Apostoli quod situm est foris et prope castellum Evoli., DTC, XV, 19. Si veda BERGAMO pp. 87 ss. 425 Dovrebbe trattarsi di una falsificazione del XII secolo, CARLONE1998, p. 25, num.49, n. 2. 426 DTC, E, 3. Si nutrono tuttavia sospetti anche su questo documento sulla base di un errore di computo dell’indizione CARLONE1998, p. 34, num. 69, nota 2. 427 Il primo a riportare il testo PESANO II, p. 147. 428 PAESANO II, p. 147-149. Nell’edizione del Paesano manca la menzione di San Vito minore riportata da CARLONE 1998, 209. 429 Tuttavia la chiesa di San Giovanni è ricordata come parrocchia, si veda supra. 430 Si veda ad es. il privilegio di papa Alessandro III ID., p. 177. 431 CDS, I, pp. 114-117, a. 1219. 432 In generale ALBANO-AMATRUDA 1995. 433 Per le tarsie del duomo di Salerno KALBY 1971. 434 Si veda ad es. la cattedrale di Caserta Vecchia. 435 Per il campanile del Duomo di Salerno ad es. S CHIAVO 1966; CARUCCI-PECORARO 1977. D’ONOFRIO-PACE 1981. 436 Sull’argomento ALBANO-AMATRUDA 1995, pp. 34-35. 437 Le transenne di Compulteria dovrebbero datarsi all’VIII-IX secolo. si veda ad es. I Longobardi 1992. 438 Si veda DELL’ACQUA2002. 439 Su questa chiesa da ultimo BELLI D’ELIA 2003, pp. 61-69. 440 DELL’ACQUA 2002, p. 33. 441 Per la tradizione palermitana si rimanda ancora una volta a D ELL’ACQUA 2002, pp. 2225. Mentre mi accingevo a consegnare alla stampa questo lavoro ho ricevuto da Francesca Dell’Acqua le bozze di un suo articolo dove, tra le altre cose, si sottolinea il legame delle transenne ebolitane con la cultura araba. DELL’ACQUA 2004 in c.d.s. Approfitto per ringraziare l’Autrice della cortese segnalazione. 442 Ad esempio con gli affreschi oggi in gran parte perduti di Sant’Angelo a San Chirico Raparo (PZ) per cui si veda BERTAUX 1903 pp. 122-124. In particolare le affinità si colgono con i Padri della Chiesa raffigurati nella zona absidale. La datazione della seconda fase degli affreschi di Sant’Angelo alla metà del XII sec. in BERTELLI 1994 pp. 451 ss. Altri confronti si possono istituire con gli affreschi del XII secolo nella chiesa della Panaghia a Rossano Calabro. 443 Si veda a tal proposito l’Indice in CARLONE 1998. 444 Si veda infra il paragrafo sui mestieri. 445 Sulle epigrafi che ricordano gli architetti in età medievale veda ad es. F RANCHETTI PARDO 1991, pp. 193 ss. 421 Note 446 179 Per i confronti architettonici si veda infra. Di questa opinione anche PAESANO 1846, II, p. 147, BERGAMO 1946 p. 88 e più di recente ALBANO-AMATRUDA 1995, p. 30 che però fondano la loro opinione su malsicure fonti scritte o interpretando erroneamente alcuni documenti come in ALBANO-AMATRUDA1995, p. 31 quando si fa riferimento ad una carta del 1089 DTC, C, 8, in cui si parla di una chiesa di san Pietro que nunc diruta est riferendola al San Pietro di Eboli quando invece si tratta, come specifica il documento, della chiesa di San Pietro presso il Tusciano. 448 San Berniero, monaco spagnolo vissuto tra X e XI secolo, dopo un pellegrinaggio a Roma, si fermò nel territorio di Eboli conducendo vita di eremita nei pressi del fiume Sele, dove costruì anche una chiesa. La sua fama di santità e di esorcista ne fece oggetto di venerazione già in vita. Sulla vita di San Berniero si veda AA SS, Octobris VII, 15-16, pp. 1184-1189. Per la chiesa costruita da san Berniero nei pressi del ponte della popilia si veda infra, il paragrafo sull’ambiente naturale. 449 Già nel 1155 compare come rappresentante di Guglielmo a Benevento, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’abate di Cava e Maione di Bari per la stipula del famoso trattato che andò a regolare i rapporti tra la Santa sede e il Regno dopo le ribellioni seguite all’elevazione al trono di Guglielmo ROMUALDO p. 428; si veda CARUCCI 1922, p. 325. 450 si veda ad es. KITZINGER 1983 pp. 167-70, in partic. p. 169. 451 Ad esempio PACEin D’ONOFRIO-PACE 1981, p. 247. 452 Per le transenne a ‘giorno’ a Palermo e in Sicilia si veda DELL’ACQUA 2002. 453 In generale si veda CHALANDON II, pp. 232 ss. 454 Tra le altre cose Adriano IV riconobbe Guglielmo signore di Salerno, CHALANDON, II, p. 235. 455 PEDUTO1984. pp. 70 ss. 456 Si veda in generale D’ONOFRIO-PACE 1981. 457 Per il percorso di queste due importanti strade nel Medioevo si veda D ALENA 2003 b. Quest’ultima strada era nota nel XVIII secolo come via di Capaccio. 458 CARLONE1998, n. 550. 459 ID., n. 743, p. 331. 460 Per l’ordine degli ospitalieri o giovanniti si rimanda infra al capitolo conclusivo. 461 Un parallelo tipologico valido per alcuni aspetti può considerarsi l’impianto della cattedrale di Caserta Vecchia D’ONOFRIO-PACE 1981. 462 La chiesa di Poggiboinsi costituiva fino ad oggi pressoché l’unica testimonianza nota di un complesso ospedaliero giovannita in Italia del XIII secolo. Secondo l’opinione dei più accreditati studiosi di storia dell’architettura medievale sarebbe stato da escludere un modello comune di architettura sacra giovannita, adattandosi i vari edifici alle locali culture costruttive. L’esempio di Eboli sembra smentire questa tesi. (MORETTI 1997).Per una prima mappatura dei possedimenti degli Ospedalieri in Italia meridionale B RESC BAUTIER 1975, p. 37, fig. 5. 463 Si veda DI MURO 1994, pp. 81-83. 464 PEDUTO 1990, DI MURO 1994 465 IANNONE 1988, p. 211. 466 Ibid. 467 Per il testo agiografico relativo alla vicenda di Vito e i suoi compagni e per l’individuazione del sito cfr. MELLO 1988, pp. 12-23. Il Santo ebbe nella zona un culto notevole come dimostrano gli episodi della Grotta dell’Angelo e la cappella principesca di Montecorvino Pugliano, si veda a tal proposito DI MURO 1993, pp. 63 ss. 447 180 La Piana del Sele in età normanno-sveva 468 DE ROSSI 1995, in part. pp. 137-143. La fase descritta sopra è l’unica datata in maniera convincente mentre per le altre gli scavatori si sono basati esclusivamente sui rapporti tra le strutture murarie. 469 PAESANO 1867, II, pp. 148-149. Una lettura più corretta in C ARLONE1998, 209. 470 Così già nel 1169 il pontefice Alessandro III ricordava tra le pertinenze della Chiesa salernitana San Pietro Apostolo e una sola chiesa di San Vito, NATELLA 1984, pp. 26-27. 471 Il Peduto ipotizza che il villaggio di San Vito fosse collegato ad un approdo fluviale insabbiato dalle frequenti inondazioni del Sele, PEDUTO 1984, pp. 73-74; di questo porto peraltro non sussistono tracce nella documentazione scritta. Per il sito di San Vito si veda anche infra. 472 San Vito si trova nelle immediate vicinanze di Mercatellum, cfr. infra. 473 ZUCCARO 1977; DI MURO 1993. 474 DI MURO et alii 2003. 475 Ibid. 476 Ibid. 477 Che si tratti del monaco burdigalense è stato sostenuto ad es. da Paolo Peduto nel giugno del 2004 nel corso della presentazione del CD rom sui Longobardi a Salerno prodotto dalla Soprintendenza ai BAPSAAD di Saleno e Avellino. 478 D’ANGELA 1994 pp. 247-261. 479 FALCONE BENEVENTANO pp. 202-204. 480 Per il privilegio concesso da Anacleto II a Ruggero si veda ad es. HOUBEN 1999, pp. 68 ss. 481 CDC, II, p. 212, a. 977 (terre tra il Tusciano e il Laneo); GALANTE 1984, pp. 5-9 (oltre il Tusciano), a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda sinistra del fiume); CDC, VI, pp. 3738, a. 1035 (vicino Sant’Arcangelo); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano); CDC, VII, p. 96, a. 1049 (nei pressi di Vallemonio); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino San Mattia); CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano). 482 CDC, II, pp. 138-139, a. 980 (al di qua del Tusciano, vicino al fiume); CDC, III, p. 86, a. 998; CDC, IV, pp. 9-10, a. 1002 (in loco Pinu); GALANTE 1984, pp. 5-9 (oltre il Tusciano) a. 1020; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 111-113, a. 1039 (sulla riva sinistra del fiume); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino San Mattia); PENNACCHINI, pp. 48-50, a. 1081 (Vallemonium). 483 Poma, GALANTE 1984, pp. 5-9, a. 1020; CDC, V, p. 244, a. 1033 (sulla sponda sinistra del fiume); CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 203-205, a. 1053 (vicino San Mattia). 484 CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (riva sinistra del Tusciano). 485 CDC, VII, P. 96, pp. 100-101, a. 1049 (tra Vallemonio e Tusciano), due terra cum olibeto distinte. 486 GALANTE 1984, pp. 5-9, a. 1020; CDC, VI, pp. 111-113, a. 1039 (ad est del Tusciano); CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 (ad est del Tusciano). 487 Si veda ad es. CDC, VII, pp. 258-260, a. 1054 in cui si fa riferimento a ben 6 fondi tra loro confinanti affidate a 5 concessionari diversi. 488 L’ultimo documento in cui si parla esplicitamente di dissodare una terra (roncare) è una traditio ‘mista’ in cui, accanto al compito di seminare un campo, si domanda al concessionario di dissodare una selva ista parte et erga ipso flubio Tusciano, CDC, II, pp. 138-139, a. 980. 489 Tra il 998 e il 1054 sono attestati 5 contratti ad laborandum (CDC, III, p. 86, a. 998; CDC, IV, pp. 9-10, a. 1002; CDC, V, pp. 65-66, a. 1023; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre Note 181 concesse ad laborandum ed una ad pastenandum]; CDC, VII, pp. 203-205 [una parte della terra andrà pastenata]; C’è infine la già ricordata donazione del 1054 in cui si ricordano 6 fondi contermini concessi ad laborandum, CDC, VII, pp. 258-259.) a fronte di due ad pastenandum,. (CDC, V, pp. 244-245, a. 1033; CDC, VI, pp. 111-113 [due terre concesse ad laborandum ed una ad pastenandum]). 490 Probabilmente fu anche l’allentamento di alcuni vincoli familiari a provocare lo sfaldamento di alcuni dominii comuni, la cui origine va forse collegata alle concessioni di terre fiscali dei duchi e dei principi longobardi a loro fideles capostipiti delle famiglie comitali. 491 Si tratta di Grimoaldo gastaldo figlio di Roffrit, Pietro gastaldo figlio di Pietro e Landenolfo figlio di Landenolfo, zio e nipoti, CDC, IV, pp. 176-177. 492 CDC, V, pp. 122-123, a. 1026; I convenuti sono: Giaquinto conte figlio di Gaudone giudice, Giovanni conte figlio di Pietro, i fratelli Landolfo e Landemario figli di Maraldo, Truppoaldo figlio di Gaidone, i conti Giaquinto, Landone e Disigio figli del conte Disidio, Guaiferio e Giaquinto figli di Potefrid, Pietro conte figlio di Arechi e Dauferio figlio di Ado. Come si vede sono quasi tutti insigniti del titolo comitale e i loro genitori tutti defunti, fatto quest’ultimo che forse favorì la divisione. 493 CDC, II, pp. 138-139. 494 Oltre agli esempi riportati si veda in generale la Tab I. 495 DTC, XIV, 13. 496 DTC, C, 17. 497 DTC, XIV, 117. 498 DTC, C, 19. 499 DTC, E, 3. 500 DTC, XVII, 111. 501 DTC, XXIV, 45, a. 1138. 502 Forse nella contrada San Felice era una predominanza del castagneto, ma i documenti sono numericamente troppo esigui per affermare con sicurezza ciò. 503 Solo per il primo periodo si è scelto un intervallo di 65 anni, per lo scarso numero di documenti redatti tra il 1085 e il 1099. 504 E’ noto che laboratoria derivi da labor, grano; che con questo aggettivo si intendesse terra coltivataa cereali si deduce anche da alcuni documenti in cui in uno stesso documento si fa riferimento a terre diverse coltibìvate ad es. a vigna, a orto e laboratoria (DTC XXXV, 20 a. 1175; altri esempi, DTC, XLI, 99 a. 1188; DTC XLII, 74, a. 1190), o nei contratti agrari dove il concedente in cambio dell’affidamento di terra laboratoria richiede il terratico, ovvero una parte della produzione di grano (es. DTC XXII, 22 a. 1126) 505 Ad esempio in una concessione nel locus Tuscianus del 1132 un tale Glorioso affida al chierico Amato una terra con arbusto, vacuo e alberi affinché vi pianti viti ed alberi fruttiferi; il concessionario dovrà versare annualmente come corresponsione parte delle colture impiantate ossia grano, fichi, noci olive e altri frutti dopo averli essiccati (DTC, XXXII, 42). Da questo documento si evince dunque come nei fruttiferi rientrassero spesso anche gli alberi di ulivo. 506 Per un quadro della situazione idrografica medievale nella piana tra il Tusciano e il Sele DI MURO 1993, ID 2001. 507 DI MURO 2001; si veda anche infra il paragrafo Considerazioni. 508 Se si considera il periodo 1175-1200 le attestazioni di terre coltivate a cereali raggiungono il 70% delle attestazioni totali. La Piana del Sele in età normanno-sveva 182 509 DTC, XXX, 51. DTC, XXXIII, 26 511 DTC, XXXIII, 83. 512 DTC, XXXIV, 26. 513 DTC, XXXV, 84 514 DTC, XXXV, 56. 515 DTC, XXXVI, 14. 516 DTC, XXXVIII, 9. 517 DTC XXXIX, 37. 518 DTC, XXXIX, 79. 519 DTC, XL, 94. 520 DTC, XLI, 99. 521 Si veda ad es. DTC,XV, 10 (orto fuori dalla porta della Terra); CARLONE 1998, 257, a. 1172 (orto nel sobborgo Santa Trinità); ID., 308, a. 1181, (orto e fruttiferi nella località Pendino); ID. 371 a. 1189 (vigna nel quartiere di San Bartolomeo, loc. Francavilla). 522 Per il Mezzogiorno ad es. VITOLO 1987 con bibliografia. 523 Si vedano i documenti CDV, VI, pp. 197-199, a. 1173; CARLONE 1998, 374, a. 1189: ID., 407, a. 1192; ID., 454, 1196; ID., 483, a. 1203; ID., 518, a. 1212; ID., 520, a. 1212; ID., 521, a. 1212; ID., 523, a. 1212. 524 CARLONE 1998., 407, a. 1192; ID., 429, a. 1193; ID., 486, a. 1203; ID., 507, a. 1210; ID., 520, a. 1212. ID., 523, a. 1212. 525 Si veda supra. 526 CARLONE 1998, , 112, a. 1129; ID., 159, a. 1143; ID., 184, a. 1153; ID., 192, a. 1156; ID., 198, a. 1157. 527 CARLONE 1998, 216, a. 1163, ID., 218, a. 1164: ID, 226, a. 1166: ID., 227, a. 1166; ID., 229, a. 1167; ID., 276, a. 1176; ID.n 312, a. 1181; ID., 323, a. 1182; ID., 328, a. 1182; ID., 339, a. 1184; ID., 352, a. 1186; ID. 403, a. 1192; ID., 429, a. 1193; ID., 434, a. 1195; ID., 437, a. 1195; ID., 453, a. 1196; ID., 457, a. 1197. 528 CARLONE 1998, 216, a. 1163; ID., 227, a. 1166; ID., 434, a. 1195; ID., 453, a. 1196. 529 CARLONE 1998, 424, a. 1193 (2 uliveti); ID., 453, a. 1196; ID., 455, a. 1196. 530 CARLONE 1998, 424, a. 1193; ID., 429, a. 1193; ID., 438, a. 1195. 531 Si veda a tal proposito PIVANO 1904, pp. 283-302; LIZIER 1907, pp. 80-86; DEL TREPPO 1977, pp. 24-25. 532 Cfr. tab. 3. Si tenga conto che per vacua sembra intendersi sia la terra vuota di ogni coltura sia la terra a seminativo nudo al momento vuota di piante. 533 Per le terre a S-E di Salerno DI MURO 2001. 534 Supra, capitolo su Eboli. 535 DTC, XLVIII, 55. 536 DTC, XLVIII, 79. 537 CARLONE 1999, n. 751, a. 1254. Altro impianti di oliveto da parte dell’abbazia di Montevergine ad Eboli (ID., 678, a. 1238) 538 E’ noto come gli oliveti delle fonti di quest’epoca fossero in genere delle coltivazioni ridottissime, utilizzati fore più per il frutto da consumare che per produrre olio. Anche nei nostri documenti si rinvengono oliveti di questo tipo ad. es, nel 1214 si ricorda un oliveto 510 Note 183 costituito da tre piante di ulivo nei pressi di Eboli (CARLONE 1999, n. 542, a. 1214). o nel 1230 una terra ancora con tre olivi nella località Pezza di Eboli (I D., n. 636, a. 1232) 539 Supra parte relativa ai casali. 540 Le parrocchie in particolare. Si veda, ad esempio, la parrocchia di sant’Elia di Eboli il cui rettore Nicola nel 1157 concede un pezzo di terra per 32 tarì DTC, XXIX, 101. Per altri esempi si veda infra. 541 Sulla questione FONSECA 1982; RUGGIERO 1973, ID., 1991. Non mancano tuttavia attestazioni di chiese private nel territorio considerato fino a tutto il XII secolo, si veda ad es. supra la chiesa di Santa Maria de Calcarola appartenente alla famiglia Guarna nel casale Tusciano. 542 Si veda il capitolo sulla ricostruzione viaria, parte relativa a Mercatellum. 543 CDC, V, pp. 171-172. Per la dinastia del conte Disigio si veda D I MURO 2000. 544 Solo due manule de siricum impreziosiscono l’elenco delle vesti liturgiche. 545 CDC, V, pp. 4-5. La palude è ricordata a nord del lago in CDC, V, p. 207, a. 1031. 546 Cfr. supra capitolo sul territorio nel periodo tardo antico. 547 La studiosa insieme a Zanotti Bianco, nei giorni precedenti all’individuazione del sito dell’Heraion provvide a scavare una parte della chiesa nella speranza di trovare al di sotto i resti del celebre santuario magno-greco, ma dei materiali che presumibilmente furono portati alla luce non si fa alcun accenno nella pubblicazione, ZANCANI MONTUORO- ZANOTTI BIANCO, pp. 214-215. 548 CDC, V, pp. 207-208. 549 CDC, VI, pp. 148-150. 550 La comunione nel possesso della chiesa, del lago, dei guadi sul fiume e sulle peschiere è esplicitato alla fine del documento di divisione, ivi, p. 150. Nelle carte di collazione del 1043 e del 1045 compaiono come domini communi della chiesa Landone e i figli di Giaquinto, CDC,VI, pp. 225-226, a. 1043; ivi, pp. 282-283, a. 1045. 551 Ivi, p. 150. 552 In quest’ultima trovavano posto un salterio, due antifonari e un libro contenente le letture per tutto l’anno liturgico, CDC, V, p. 171. 553 CDC, VI, pp. 225-226. 554 Si ricordano 12 giumente, 4 puledri de oc anno, 7 vacche maiori , un paio di buoi. Non si dà infine il numero delle capre e dei porci pur presenti nelle stalle della chiesa. CDC, VI, pp. 283-284, a. 1045. 555 Così ad es. LEONE-VITOLO 1986, p. 390. Secondo gli Autori l’acquisizione da parte della badia di Cava consentì la ripresa della chiesa che risulta diruta nel 1160 e poi di nuovo attiva nei decenni successivi Ibid. 556 PENNACCHINI 1942, pp. 55-56. 557 BALDUCCI, I, 24, a. 1164. 558 Si veda supra, paragrafo relativo a San Pietro alli Marmi. 559 Sul missus in età longobarda ad es. ANDREOLLI 1988. 560 DI MURO 2004 in c.d.s. 561 La prima menzione del bosco si ha in una compravendita del 799, CDC, I, p. 3 ed è ancora ricordato in un documento emanato dal duca Ruggero Borsa nel 1089, conservato negli archivi della Badia di Cava a trascritto in DTC, C, 17, in cui il figlio del Guiscardo dona all’abbazia cavense tra le altre cose il cenobio di san Mattia. Proprio ad oriente della tenuta nella quale sorge l’edificio sacro il duca ricorda la silva nostra. 184 La Piana del Sele in età normanno-sveva 562 Per la colonizzazione della Piana vedi supra, più in generale per l’età longobarda D I MURO 2001. 563 Usata anche come bosco per legna nel XII secolo. vedi infra 564 Selve nel tenimento di Petta sono ricordate nella conferma di Roberto di Principato alla Chiesa salernitana del 1090 PENNACCHINI 1942, pp. 51-54. 565 Ibid. 566 DTC, XXIV, 84, a. 1137. Quercieto è anche una contrada del casale Tusciano (vedi supra). Querce si rinvengono con una relativa frequenza nelle transazioni, segno del valore che era loro assegnato particolarmente per il nutrimento dei maiali . 567 CDC, V, p. 53, a. 1022. 568 CDC, VI, p. 52. 569 Sui dissodoamnti altomedievali della pianura tra Salerno e il Sele D I MURO 2001. 570 Contrada Populi Raonis DTC, XXIX, 45, a. 1157. 571 Mortitum, CDC, V, p. 32, a. 1020. 572 Sabuci, CDC, V, p. 200, a. 1029. 573 Piru, CDC,VIII, p. 203, a. 1010 (inserto) 574 Per essi si rimanda al capitolo sui prodotti della terra. 575 Sorbum, CDC, V, p. 33, a. 972 (ins.) 576 CDC, VI, p. 149, a. 1041, in pantano de tammarici nei pressi della foce del Sele. 577 Per i molina destructa CDC, VII, p. 51, a. 1047; per i ponti sul Picentino e sul Tusciano CDS, II, p. 32, a. 1302. 578 Per questi laghi costieri si rimanda a DI MURO 2001. 579 DTC, XXI, 119, a. 1125. 580 DI MURO 2000. 581 Significativamente una contrada tra queste colline era chiamata Padule, PENNACCHINI, p. 92, a. 1163. 582 L’Itinerarium Bernardi è stato edito in T. TOBLER - A. MOLINER, Itinera hierosolymitana et descriptiones Terrae Sanctae bellis sacris anteriora et latina lingua exarata, I, 2, Genevae 1880, p. 318. 583 Faitum Documento del 1158 in RIVELLI, p. 97 584 Si veda a tal proposito ad esempio FUMAGALLI 1978, pp. 73-75. 585 DTC, XVI, 81. 586 DI MEO, a. 833, n. 6. 587 Il documento è riportato in GALANTE 1980, p. 159. 588 L’episodio è narrato in Chron. Sal., c. 43, pp. 44-45. 589 Chron. Sal. c. 92, pp. 92-93. 590 Chron. Sal. c. 56, p. 57. 591 Supra. 592 Non si hanno tuttavia notizie certe di soggiorni di Federico II a Eboli. 593 CORRAO 1989, p. 149, n.41. Per la natura delle difese si veda Ibid. passim. 594 HUILLARD-BREHOLLES, V/2, pp. 669-670. 595 Per la natura della defensa di età federiciana e in particolare di questa come luogo riservato esclusivamente alla caccia dell’imperatore si veda WILLEMSEN 1989, pp. 266-267 596 GIULIANI 1984, pp. 99 ss. 597 DTC, XXV, 6 Note 598 185 Per l’oasi naturalistica di Serre-Persano si veda M. K ALBY 1984, pp. 134-143. E’ noto che l’imperatore ordinò di procurare gru vive per addestrare i suoi falconi nelle sue domus, cfr. WILLEMSEN 1987, p. 269. 600 Lo Statuto di età vicereale è riportato in CARUCCI 1937 in appendice alla sua opera pp. 125 e ss. In particolare per i lupi si veda p. 141. 601 Ibid., p. 126. 602 CASSESE, p. 26, a. 987 ; CDC, VIII, p. 275, a. 1065. 603 CARLONE 1998, 639, a. 1232. 604 CDC, II, p. 26. 605 PENNACCHINI, p. 44. 606 PAESANO, I, 123, a. 1067. 607 Per l’estensione della tenuta di Campolongo ABBINENTE 2002. 608 Conferma di Roberto Guiscardo del 1080, ed. P AESANO I, p. 136-137. 609 PENNACCHINI, p. 153, documento di concessione di Gisulfo II di Salerno a. 1062. 610 Nel XVII secolo l’allevamento risultava l’attività preponderante nella pianura tra Tusciano e Sele, BACCO 1629, p. 191. 611 ID., p. 58. 612 PAESANO, II, p. 54. 613 PENNACCHINI pp.119-122. 614 Gli uomini coinvolti nella vicenda provengono dai casali di santa Cecilia, di Sant’Arcangelo e di Olevano, CDS, I, p. 436. 615 DTC, XLVIII, n. 46, a. 1225. 616 Recita la charta collationis del 1020 che si ibidem intraberit animalia biba, aut tale causa que ad ornamentum fuerit de ipsa ecclesia, semper siant ad potestate de ipsa ecclesia …et de ipsi animaliis et de filiis filiabus quod fecerit, cotidie cura et bigilatione ipse presbiter abere, et faciant abere, ut proficiant, CDC, V, pp. 171-172. 617 CDC, VI, p. 227, a. 1043, ma le medesime clausole valgono nel 1045 (ivi, p. 283) e nel 1049, CDC, VII, p. 45. 618 CDC, VI, 283, a. 1045. 619 PAESANO, I, p. 91. 620 Esenzione ai monaci di Cava da aliquam dationem …in transeundo vel redeundo flumen quod Siler dicitur pro se vel pro servientibus sis seu pro animalibus vel aliis rebus, LEONE, E, 35, a. 1114. 621 CDC, I, pp. 185, a. 926. Tra le donazioni che riceve San Massimo ci sono anche pascuis. 622 CDC, VII, p. 163, a. 1051. Santa Sofia concede ai coloni di alcune sue terre la facoltà di utilizzare i suoi pascuis animalis eorum ad passendum. 623 CDC, VI, p. 203. 624 Di seguito si citano alcuni titoli dei capitoli Da non far massaria de porci dentro li casali; Contene de carne de porco et de castrato; Carne de scrofa; Contene de carne de porco et de scrofa; Carne de porco et de scrofa a cantàro; Capo e pedi de carne de porco et de scrofa; Delli porci mandarini; ed. CARUCCI, pp. 130, 113, 134, 136, 138. 625 CDC, V, p. 47. 626 CDC, IV, p. 181, a. 1011. 627 DTC, XLVIII, n. 46 nella misura della decima parte della produzione annua complessiva. 599 La Piana del Sele in età normanno-sveva 186 628 a. 1104 DTC, XVII; 111. AC, XXII, 83, a. 1129. 630 CDC, VIII, p. 51 a. 976 (inserto) propriamente il brago dove i maiali usano crogiolarsi ,anche se in questo caso mi pare debba trattarsi di animali dai lunghi peli (capilluti), 631 Un altro toponimo legato all’allevamento è forse Bubuliano da bubulus = bufalo, menzionalo nei pressi del casale Padule di Eboli nel 1164 (PENNACCHINI, p. 90). Attestazioni di allevamento nella piana Buoi DTC, D, 50, a. 1104, maiali DTC, XXIII, dtc, xxxv, 57. 632 CARLONE 1998, 470. Negli stessi anni con un oncia d’oro si poteva acquistare una terra vineata nei pressi di Eboli CARLONE 1998,469 a. 1201 e con mezza oncia d’oro una casa con clibano nella parrocchia di San Lorenzo ad Eboli (C ARLONE 480, a. 1202). 633 CARLONE 1998, 423. 634 CDC, VI,. p. 283 635 CARLONE 1998, 184. 636 ID., 257. 637 CARLONE 1998, 356-357. 638 DTC, XXI, 73. Il documento è sospetto di adulterazione C ARLONE 1998, 92, n. 1. 639 CARLONE 1998, 237 a. 1170; CDV, VI, pp. 299-301 a. 1181. 640 DTC, XXXI, 19, a. 1163; DTC, XXXVII, 19, a. 1181, DTC, XLIII, 25, a. 1192. 641 BALDUCCI, I, pp. 40-41, a. 1223. 642 CDC, III, p. 1. 643 Rot., rubrica 155. 644 Liut., Leggi de anno nono, 19. 645 Vito Fumagalli ha ben tratteggiato i profili umani di questa gente la cui vita si svolgeva tra le foreste e le stalle, talora avvezza più alle bestie che agli uomini, come dimostrano alcuni soprannomi ricordati nella documentazione medievale quali ‘cane’ o ‘pazzo’, FUMAGALLI 1976, pp. 27-28. 646 PENNACCHINI p. 56. Questo il significato attribuito alla frase anche dall’editore: infatti la locuzione si inserisce in un contesto di richieste legate alle offerte ricevute in occasione delle festività più sentite e, si può presumenre, remunerative per le casse della chiesa (immediatamente prima si era fatto riferimento alle oblazioni ricevute nel tempo di Pasqua e Natale). 647 In questo giorno convengono davanti alle chiese gli animali domestici per ricevere la benedizione. Ancora oggi ad Eboli sul sagrato della chiesa di Santa Maria ad intra il 17 gennaio si impartisce la benedizione degli animali. Anche la festa di San Vito è legata in qualche modo alle celebrazione delle attività di allevamento: fino al dopoguerra infatti presso il santuario del Sele si recavano numerosi allevatori con buoi e altri animali adorni di fiocchi e paramenti policromi. In molti paesi della Sicilia, regione d’origine di Vito, ancora oggi si assiste alla benedizione degli animali nel giorno della festa di San Vito. 648 Non conosco nella documentazione salernitana richieste analoghe. 649 FILIPPONE 1993, p. 18. 650 Le ville del Cervialto, localizzate nei pressi di Caposele (AV) in GIARDINA 1981, p. 92. Nell’epigrafe di Caposele datata al I secolo d. C., in un contesto di donazioni di fondi montani dotati di ville per il culto del dio Silvano e dell’imperatore Domiziano, si ricorda anche la concessione di una fonte per l’abbeveraggio di animali allevati in un azienda posta sulle terre donate. L’epigrafe in BRACCO, p. 8. Vedi anche FILIPPONE 1993, p. 18. 629 Note 187 651 Per la piana del Sele come meta tradizionale della transumanza dall’alta valle del Sele cfr. FILIPPONE, p. 18. 652 HUILLARD-BREHOLLES, III, PP. 259-262. 653 Così CARLONE 1998, 634, n. 1. 654 Si veda ad es. CHERUBINI 1996, p. 28. 655 Cfr. supra paragrafo relativo all’Agricoltura. 656 CHERUBINI 1996 p.30. Riporto per esteso il famoso schema del Cherubini: poco foraggio = poco bestiame = poco concime = poca produttività della terra = molto lavoro umano = molte bocche da sfamare = molte terre a grano= poca produzione di foraggi. 657 Per la distribuzione e lo sfruttamento razionale delle risorse agro-silvo-pastorali nella terra di Eboli si rimanda alle Conclusioni (infra). 658 ADS, I, n. 15. 659 PAESANO II, p. 177. Il privilegio sulle decime dei boschi del Sele derivava evidentemente dalla concessione delle decime sui beni fiscali nella terra di Eboli accordata da Roberto il Guiscardo nel 1080, documento edito in PAESANO I, p. 136. 660 DTC, E, 35. 661 PENNACCHINI pp.119-122. 662 BALDUCCI I, p. 21. 663 PENNACCHINI pp. 40-42. 664 Ancora agli inizi nel XVII così si esprimeva nel descrivere la piana di Battipaglia Enrico Bacco «quivi parimente è un bellissimo e gran lago, ove si fa pescagione di diversi e buonissimi pesci per entrarvi il mare: vi sono anche magazeni e carricatori per trasportar le robbe, mercantiando altrove» BACCO 1629, p. 192. 665 CDC, V, pp. 4-5. La palude è ricordata a nord del lago in CDC, V, p. 207, a. 1031. 666 CDC, V, p. 115, a. 1020. 667 Piscatorie CDC, VI, p. 150, a. 1041. 668 Già Gisulfo II (1052-1076) aveva confermato le piscationes ipsius fluminis [il Sele] alla cattedra di San Bonosio, PENNACCHINI, p. 153(documento in cui si fa riferimento alle cannitias). Altre conferme verranno da Roberto il Guiscardo, PAESANO, I, p. 137, a. 1080 e Roberto di Eboli, PENNACCHINI, p. 54, a. 1090. 669 Non è improbabile sui laghi si effettuasse anche questo tipo di pesca allorquando si andavano a tirare le reti. 670 NASO 1989, p. 217. 671 DTC, XLVIII, 46. Il concessionario del tenimento dovrà versare ogni anno la decima parte della produzione degli alveari. 672 La prima notizia su San Pietro de Toro in PAESANO, pp. 122-123, a. 1067. Nel documento la chiesa è detta contigua al fiume Sele. Il conte di Eboli, Roberto, nel 1090 in un’altra conferma alla Chiesa salernitana, procedendo da nord verso sud (parte infatti da Licinianum e conclude con San Vito del Sele) ricorda San Pietro de toro immediatamente prima del porto di Persano (il porto dell’Annia), PENNACCHINI, pp. 51-53. Per la localizzazione di san Pietro de toro in località Fiocche si veda BERGAMO pp. 51-52. 673 AA SS, Octobris VII, 15-16, pp. 1184-1189. 674 Così nel documento PAESANO; II, pp. 115-117. 675 ID., p. 119. 676 Si veda supra il paragrafo dedicato al santuario di san Vito al Sele. La Piana del Sele in età normanno-sveva 188 677 PEDUTO 1984 pp. 63 ss. Per la questione si veda supra, la viabilità; anche DI MURO 2000. 679 Documento di Roberto di Principato relativo alle pertinenze della chiesa salernitana al casale Cusentinorum PAESANO, II, p. 54. 680 A causa dell’urgenza improcrastinabile dei lavori di riparazione, il sovrano ordina che le spese per le riparazioni siano anticipate dalle comunità locali. CDS, I, pp. 370-372. 681 Registri Angioini XIII, 184. 682 MALATERRA, I, 26. Si veda anche CUOZZO 1969, p. 714. 683 Si veda supra, il paragrafo relativo all’ambiente naturale. 684 CDS, pp. 354-355. I cereali sarebbero stati trasportati libere cum vasis. 685 In un privilegio del 1114 Roberto di Eboli concede che nessun monaco cavense in transeundo vel redeundo flumen quod Siler dicitur pro se vel pro servientis suis seu pro animalibus vel aliis rebus eiusdem monasterii, portunariis eiusdem fluminis quolivet tempore aliquam dationem deant..., set omni tempore ipsi portunarii ipsos monachos et servientes eorum et animalia et alias res eiusdem monasterii per ipsum flumen ab una parte in alia unde aptus fuerit absque aliqua datione ducant et reducant. DTC,E, 35. Di grande interesse è il ricordo dei portunarii ufficiali pubblici che in età longobarda erano addetti alla sorveglianza dei guadi, dei porti, degli attraversamenti e svolgevano anche funzione di guardie confinarie. Lungo il sele la loro funzione si completa dell’ufficio destinato nella legislazione longobarda ai riparii, ossia riscossione dei dazi sul trasporto di mercanzie. (per i compiti dei portunarii in età longobarda FASOLI 1958, p. 139). E’ evidente che questi portunarii fossero disposti lungo i guadi e gli attracchi del fiume ancora ricadenti sotto il controllo pubblico. 686 Si veda a tal proposito DI MURO 1994, p. 65; DI MURO 2000 pp. 21-22. 687 Cfr. supra il paragrafo sui possedimenti cavensi nella Piana. 688 Roberto Guiscardo nel 1080 conferma alla Chiesa salernitana il passaggio sul Sele, PAESANO I, p. 136. Roberto di Eboli nel 1114 esenta dal pagamento di dazi i monaci di Cava o i servi del monastero che dovranno attraversare il fiume, da soli, o con animali o con qualsiasi altra cosa (alias res eiusdem monasterii). DTC, E, 35. 689 In quell’anno infatti Gisulfo II concede ad Alfano I di poter tenere in ipsa platea plancas, et secus eas ponere faciatis, et habere quantas volueritis, et in ea ligamina rigere et habere, et super eas edificia qualiter volueritis, ...., et carnes, et alia mercimonia in eis mercimoniare et vendere et emere ....; neque portaticum, seu plateaticum in hac nostra civitate et foris per totum nostrum Principatum Salerni homines vestri dent. Sed omne tributum et censum et servitium, portaticum et plateaticum et pensionem, quod per annum pars ipsius nostri Sagri Palatii illi, qui in eis, ut dictum est, mercimoniaverint, et vendiderint et emerint, facere et persolvere debuerint, tibi tuisque successoribus faciant et persolvant., MURATORI 1738, I, XIX 690 Si veda ad es. CARUCCI 1922, pp. 390-391. 691 VITOLO 1974 pp. 114 ss., DEL TREPPO 1977, p. 43. 692 CDS, I, pp 466-467. 693 A questo proposito si veda infra capitolo conclusivo. 694 PENNACCHINI pp. 43-45. 695 DEL TREPPO 1977 pp. 41. 696 Si veda supra ambiente naturale. 697 Documento edito in RIVELLI, p. 97, a. 1168. 698 L’ipotesi in FILIPPONE 1993, p. 58 678 Note 699 189 Si veda in questo lavoro passim. Il ruolo degli Amalfitani nel reperimento e nella fornitura di legno per imbarcazioni e non solo alla Tunisia e all’Egitto fin dall’alto Medioevo è stato ben messo in rilievo da CITARELLA 1993, p. 263, 266. 701 Per le terre del Sele in età longobarda e per il commercio del legno degli amalfitani D I MURO 2000. 702 Lo stesso porto del fiume Sele a Mercatellum doveva assumere forti connotazioni di carattere commerciale se ad esempio nell’atto con il quale nel 1105 Giovanni iudex e i suoi consortes fittano a un tale Mauro le res illorum del Sele si evidenzia la presenza in esse del portus e del guado senza indicare altro. La presenza di tali strutture giustifica l’alto censo corrisposto annualiter dal concessionario (80 tarì d’oro più un maiale di otto tarì a Natale e Pasqua) che avrà la facoltà di tollere et habere…omne censum et dationes proveniente dall’uso del porto e del guado. DTC, XVIII, 17. 703 Il presbitero di Santa Maria e San Nicola di Mercatellum ha la facoltà nell’XI secolo di vendere un terzo dei puledri, dei vitelli e dei lattonzoli delle scrofe che nasceranno ogni anno tra le mandrie della chiesa CDC,VII, p. 112. E’ verosimile che il bestiame venisse esitato proprio nei luoghi dove sorgeva la chiesa. 704 Cfr. supra. 705 Per Capaccio si veda Caputaquis medievale 1976. 706 Reg. CARLONE 1998, 519, 638. 707 Conferma del pontefice Alessandro III a. 1169, PAESANO, II, p. 178; Si veda anche il privilegio di papa Lucio III, a. 1183 ed. PAESANO, II; p. 231. 708 Per Olevano si rimanda a CARUCCI 1937; per Liciniano si veda supra il paragrafo relativo ai casali. Nel 1292 Carlo II d’Angiò concesse alle monache di San Lorenzo l’esenzione dei dazi per l’ingresso dell’olio ad Amalfi proveniente dalle loro proprietà olevanesi, CARUCCI 1946, doc. CXVI, p. 145. 709 Pietro di Venezia in CARLONE 1998, 757. 710 Cfr., supra il paragrafo relativo all’ambiente naturale. 711 L’interesse per la pesca lungo il Sele si ricava anche da un documento di Gisulfo II alla Chiesa salernitana in cui si concede, tra l’altro, piscationes ipsius fluminis (il Sele) PENNACCHINI, p. 153. 712 PENNACCHINI, pp.52-53. 713 PAESANO I, p. 137, a. 1080. 714 Molina, CDC, VII, p. 96, a. 1049. 715 Quattro mulini, DTC, B, 22, a. 1082. AC, XL, 90 a. 1185. 716 CDC, VII,, p. 204, a. 1053. Si tratta del mulino donato nel 1089 da Ruggiero Borsa alla badia di Cava DTC, G, 48 717 DTC, XXIII, 92. 718 DTC, XXI, 106. 719 DTC XXIV, 107; una parte del mulino viene venduta nel 1171 per un’oncia di tarì BALDUCCI, I; 89. 720 CARLONE 1998, 240. 721 ID. 462. 722 ID. 248, a 1171. 700 190 La Piana del Sele in età normanno-sveva 723 ID. 351. Il mulino viene affittato a un mugnaio per 112 tarì l’anno. Nel 1245 il mulino appartine alla Badia di Cava, CARLONE 1998, 711. 724 ID. 569. 725 ID. 756 726 In generale LICINIO 1991, pp. 153-185. 727 A tal proposito si rimanda ancora una volta al prezioso lavoro di Carmine Carlone, CARLONE 1998. 728 Per una panoramica si vedano gli indici di CARLONE 1998. 729 CDV, II, pp. 130-132, a. 1117. 730 Ediz. CARLONE-MOTTOLA 1982 pp. 287-289. 731 Il documento è conservato presso l’archivio diocesano salernitano ed. PENNACCHINI 1942, pp. 51-54. 732 CDS, I, pp. 107-109, a. 1216; CDS, I, pp. 130-131, a. 1220. 733 Il doc. in PAESANO II, p. 240; Si veda anche CARUCCI 1922, pp. 454-455. 734 Reg. CARLONE 1998, 520. 735 Si veda a tal proposito LICINIO 1991, p. 158. 736 DTC, XLIII, 69. 737 CARLONE 1998, 480. 738 Si veda infra. 739 CARLONE 503. 740 DTC, XVI, 81 741 DTC, XXVIII, 83. 742 Reg, CARLONE 1998, 517. 743 reg. CARLONE 1998, 523 744 Reg. CARLONE 1998, 632. 745 Vedi infra. 746 Il valore dei maiali è stabilito pari a 4 once d’oro, Reg. CARLONE 1998, 470. 747 BALDUCCI, I; p. 89 (reg.). 748 Reg. CARLONE 1998, 632. 749 Reg. ID. 684, a. 1239. 750 reg. ID. 722. 751 Reg. CARLONE 1998, 778. 752 Reg. CARLONE 1998, 434. 753 AC IL 24. 754 AC IL, 85. 755 Reg. CARLONE 1998, 702. 756 AMATUCCIO 1995, p. 96. 757 CDV,V, pp.298-301. 758 DTC, XXI, 106. 759 Si veda a tal proposito il paragrafo relativo ai mulini. 760 Così ad es. nel 1154 Daniele ferrario figlio di Guido ferrario in una compravendita di una casa per 134 tarì d’oro reg. CARLONE 1998, 188 o nel 1133 Marco ferrario DTC, XXIII, 23 e in un documento del 1135 DTC XXIII, 97. 761 Ad es. CARLONE 1988, 704, a. 1242; 762 Reg. CARLONE 1998 , 709, a. 1245. Note 763 191 DTC, XXVIII, 46, a. 1152.DTC, XLV, 12, a. 1202. CDC, IX, p. 65, a. 1066; si tratta di una potega de lignamina quam olim Martinus faber erarius conduceva. La potega si trovava in un lotto di terreno di piccole dimensioni, circa 16 metri quadrati, lungo la strada che conduce a porta rotese. Martino era un fabbro specializzato nella lavorazione del bronzo, materiale certo di uso non comune. Anche da questa traccia si può riconoscere l’ormai avanzata evoluzione della società salernitana nella seconda metà dell’XI secolo verso forme sempre più raffinate e l’importanza assunta dalle zone immediatamente fuori dalle mura come aree di produzione e mercato. Quest’ultima considerazione deriva anche dal prezzo esorbitante pagato per l’acquisto del minuscolo lotto, ben 104 tarì d’oro, una valutazione che scaturì evidentemente dalla presenza del laboratorio. 765 DTC, XV, 10, a. 1090; nel documento risulta che Pietro a quella data è già morto. 766 Per la natura dei terreni di Eboli si veda la Carta geologica d’Italia, Eboli, f. 198, scala 1:100000. 767 CDV, II, pp. 130-132. Si tratta però forse di una falsificazione CARLONE 1998, 85, n. 1. 768 CARLONE 1998, 237. 769 CARLONE 1998, 328. 770 DTC, XLVI, 28. 771 CARLONE 1998, 556. 772 ID., 666. 773 PEDUTO 1993, pp. 46 ss. 774 Non si comprenderebbe altrimenti tale assenza nelle transazioni esaminate, poiché il vasaio doveva essere economicamente più elevato del semplice cavatore d’argilla. 775 In quest’anno lo iocularius è gia morto. DTC, XLII, 23, a. 1089. 776 CARLONE 1998, 528. 777 ID., 743. 778 ID. 757. L’uliveto è acquistato da Pietro di Venezia. 779 si veda ad es. LE GOFF 1993 780 DTC, XLII, 23, a. 1089. 781 DTC,C, 19.a. 1089. 782 Si veda ad es. LICINIO 1995, p. 308. 783 Vedi supra viabilità. 784 E’ interessante notare come spesso figuri attore della compravendita o della concessione il vestarario del monastero cavense, possessore della taverna, DTC, XXXV, 84, a. 1176; DTC, XXXVIII, 94, a. 1182; DTC, XXXVIII, 113 a. 1184; reg. CARLONE 1998, 371, a. 1189; DTC, XLII, 106, a. 1191. 785 La taverna era posta nelle vicinanze della via che conduceva ad Olevano e di qui ai valichi appenninici verso la Puglia e della via che scendeva dal castelluccio di Battipaglia verso San Mattia seguendo il Tusciano e di qui alla via litoranea che conduceva ai porti del Sele e a Paestum(vedi supra viabilità). 786 Per le taverne come punto di discussione e trasmissione di notizie si veda ad es. LICINIO 1995, pp. 313 ss. Sul ruolo in generale della cultura orale nel Medioevo OLDONI 1998, in part. pp. 422-431. 787 LICINIO 1993, pp. 156-158. 788 DTC, G, 10. 764 192 La Piana del Sele in età normanno-sveva 789 DTC, XVII, 111. Esiste anche un secondo documento di concessione del 1109 ma giustamente Carlone lo ritiene sospetto di falsificazione, si veda CARLONE 1998, 73, n. 2. 790 DTC, XL, 44. 791 DTC, XXXV, 56 a. 1177; DTC, XXXVI, 41, a. 1178. 792 DTC, XXXIX, 79. 793 DTC, XLIII 23. 794 DTC, XLIII; 29. 795 Reg. BALDUCCI, I, p. 38, a. 1219. 796 Reg. CARLONE 1998, 467, a. 1201. 797 Non mancavano tuttavia artigiani anche nei casali, ad es. il calzolaio Gualtiero nel vico Tusciano, DTC, XXXI, 113, a. 1165. 798 CARLONE 1998, 632. Il mestiere di Trogisio figlio del fu Giovanni di Troiano è precisato in altri documenti del XIII sec. ad es. CARLONE 1998, 502, 517. 799 Alcuni esempi: calzolai (i figli del calzolaio Cioffo vendono una terra ereditata dal padre nel 1143 a Calli, reg.CARLONE 159; Corrado corviserio vende terre nei pressi di Eboli nel 1230, CARLONE, 627; Benedetto corviserio, terre a Eboli, reg. CARLONE 663, a. 1235); settore del pellame (Maria f. di Domenico de Concia aveva ereditato una terra nel casale Tusciano DTC XL, 54, a. 1187): macellai (Dionisio macellaio vende una terra con oliveto e casalino a Turelloper 2 once d’oro e mezza, reg. CARLONE, 701, a. 1242). 800 Diversamente la terra avrebbe dato di che vivere a chi fu costretto privarsene come nei casi di seguito rammentati. 801 Reg. CARLONE 1998, 455. 802 Per Matteo e Avaricia si veda supra. 803 HUILLARD-BREHOLLES 1864, p. 432, Si veda anche PATRONE NADA 1993, p. 110. 804 DTC, XXXII, 15. 805 DTC, XXXII, 15. 806 DTC, XXII, 1. 807 CARLONE 1998, 661. 808 CARLONE 1998, 652, a. 1233. 809 Così il notaio Giovanni figlio naturale del presbitero Silvio DTC, XLIII, 81 a. 1193. 810 E’ il caso dei figli illegittimi di Palermo del casale Tusciano, ricco possidente della contrada, che sul letto di morte alla presenza della moglie Magdala e della madre Grima, dona ai figli naturali Guglielmo e Giordana parte dei suoi averi, a condizione che questi, ora minorenni, siano in dominio della Trinità di Cava, DTC, XXXV, 20, a. 1175. 811 CARLONE 1998, 577. 812 DTC, XXIX, 45. 813 Si veda ad es. CARUCCI 1922, CARLONE 1998 p. IX. 814 Si veda supra il paragrafo sui mestieri. 815 CDV, X, pp. 123-125. 816 Regesto in CARLONE 1998, 180. Si tratta del testamento di una certa Truda di Eboli, nel quale si afferma la volonà di distribuire 32 tarì. 817 DTC, XXVII, 45. 818 Si veda anche un documento del 1186 in CARLONE 1998, 349. 819 DTC, XXIX, 71; altri lasciti ai poveri pro anima DTC, XXXIII, 93, a. 1171; DTC, XXXIV, 32, a. 1172; ibid., 54, a. 1174; XXXV, 60, a. 1176; Carlone 1998, 340, A. 1184. Note 193 820 Per i centri di ricovero e di assistenza nel Medioevo meridionale DALENA 2003 b, pp. 141-167. Per la viabilità in relazione ai centri di pellegrinaggio I D. 2003 a. 821 Per l’ospedale di San Giovanni si veda supra paragrafo sulle chiese. In generale sulla presenza giovvanita in Italia meridionale SALERNO 2001. 822 CARLONE 1998, 572, a. 1220. 823 CARLONE 1998, n. 578, a. 1221; altri documenti CRISCI CAMPAGNA, p. 500. 824 Ospedale di Santa Maria dei Teutonici, CARLONE MOTTOLA 1981, 367, a. 1259, CARLONE 1998, 768, p. 343. Potrebbe trattarsi però di un riferimento all’Ordine piuttosto che ad una struttura nel territorio. 825 CARLONE 1998, 702, a. 1242. 826 CARLONE-MOTTOLA 1981, 341, a. 1251. 827 Di un certo interesse risulta la notizia riportata da Enrico Bacco nella sua opera sul Regno di Napoli che attesta la presenza ad Eboli di un ospedale «detto santo Iacopo ...per li pellegrini che vanno e vengono da santo Iacopo di Galitia», BACCO 1629 p. 192. L’ospedale già esisteva nel XIV, CARLONE 1986, doc. 96. 828 CARLONE 1998, 682. 829 ID. 706, a. 1243. 830 Il documento è edito in TROPEANO 1973, pp. 230-233.E’ possibile che tra i motivi che spingessero a elargizioni in denaro e in cibo vi fossero, accanto alla volontà di seguire il dettato evangelico, cause legate alle strutture profonde dell’immaginario collettivo. Infatti la figura del povero è nel folclore collegata ai culti dei morti: ancora fino a qualche decennio fa i poveri in molte aree del Mezzogiorno costituivano in qualche modo i vicari dei morti i quali, come gli indigenti appunto, soffrono la fame e la sete non potendosi più servire dei loro corpi. A questo proposito è interessante notare come le fave, espressamente ricordate nel documento del 1210, rappresentino sin dall’età romana un cibo per eccellenza legato al culto dei defunti. Si veda RAFFAELLI 1990. 831 Reg. CARLONE 1998, 467. 832 Sullo sviluppo del monachesimo in età normanna in Italia meridionale si veda ad es. FONSECA 1983, pp. 15-35 e VITOLO 1988. 833 AC, XXXV, 45. 834 AC, XXXV, 57, a. 1178. 835 AC, XXXVI, 20. 836 Per il poema illustrato da eleganti miniature si veda ad es. Petrus de Ebulo, Nomina. 837 DTC XLVIII, 52, reg. CARLONE 1998, 602. 838 DTC, XXV, 92. Altri esempi DTC, XVIII; 71, a. 1109; DTC, XX, 88, a. 1117; DTC, XXV, 5, a. 1142; DTC, XXV, 6, a. 1142; DTC, XXX, 51, a. 1161. 839 DTC, XXXIII, 93. 840 DTC, XXXVIII, 9. 841 CARLONE 1998, 648. 842 DTC, XLVIII, 53. 843 Si veda ad es. CARDINI 1995 844 CARLONE MOTTOLA 1981, pp. 295-296. Qualche giorno prima lo stesso Simeone aveva venduto alcune terre per un’oncia d’oro, con il diritto di poterle riscattare in capo a tre anni, presumibilmente per procurarsi il necessario per affrontare il lungo viaggio fino in Galizia. Il 194 La Piana del Sele in età normanno-sveva monastero di San Giacomo degli Eremiti fu fondato alla fine del XII secolo e nel corso della prima metà del XIII accrebbe i propri possedimenti nella painura di Calli. per poi divenire, intorno alla metà dello stesso secolo, dipendenza di S. Maria la Nova, CARLONE-MOTTOLA 1981, pp. XIV-XIX. Per possibili elementi di relazione tra il monastero ebolitano e il pellegrinaggio a Compostela si veda supra, capitolo Economia e società, par. Frammenti di vita quotidiana nelle terre tra il Tusciano e il Sele. 845 BACCO 1629, p. 192. 846 GALANTI 1790, IV, p. 226. 847 DI GERARDO-MANZIONE 1998 pp. 97 ss. E’ pur vero che la Guerra del Vespro in particolare dové avere conseguenze gravi sul popolamento della Piana, si consideri ad esempio il documento del 1296 in cui si attesta che la popolazione di Eboli dai 1500 abitanti degli anni ’80 del XIII secolo era ridotta a circa 800 (CDS, II, pp. 517-518). 848 Questa situazione di crisi in generale comportò un cedimento della rete insediativa nei siti di pianura, con una concentrazioe della popolazione nei borghi GALASSO 1992, pp. 806 ss, secondo il quale nel corso del XV secolo «la popolazione dell’Italia meridionale dové scendere , con ogni probabilità, al di sotto di un milione e mezzo di abitanti, registrando una perdita di forse più del 40% rispetto alle punte massime dell’espansione toccata nei due secoli precedenti», Ibid. p. 808, anche se la situazione del Principato Citra non fu così catastrofica, Ibid. p. 809. 849 DI MURO 1994; ID. 2001. 850 DI MURO 2000 pp. 83 ss. 851 DI MURO 2000 pp. 74 ss. 852 Nel 1547 si iniziò la costruzione del complesso di Santa Maria del Carmine, sul sito di una chiesa ormai diruta sull’altura della collina detta in seguito del Carmine (LONGOBARDI 1998, pp. 190-199).La collina del Carmine è da identificare, come detto, con il colle su quale sorgeva il castello di Monte (supra) e la chiesa in rovina è probabilmente la chiesa di santa Maria del castello. 853 DI MURO 2001. 854 Fino alla fine dell’XI secolo sono ricordate come funzionanti nella piana del Sele le seguenti chiese: San Michele, Santo Stefano, Sant’Arcangelo, Santa Maria de Ponte, San Pietro ad columnellum, San Pietro del Tusciano, San Mattia, San Biagio,San Nicola di Mercatello, San Nicola de Laneo, si veda supra. 855 Si deve però tener conto della possibilità che altre fossero le vie di conquista della terra in questi anni, vedi infra. 856 In generale si veda CARUCCI 1922. Preziosa fonte per quanto riguarda gli accadimenti in quest’area durante il conflitto normanno-svevo è il Liber ad honorem Augusti. 857 Supra capitolo relativo ai casali. 858 E’ ragionevole supporre che l’aumento indubitabile della popolazione nell’area, testimoniato anche dalla crescita di Eboli e degli insediamenti accentrati nella piana di Battipaglia per tutto il periodo considerato, abbia portato ad un qualche accrescimento della superficie coltivata, anche se non esistono prove documentarie certe, si veda supra il capitolo sull’economia agraria. 859 Il dato emergente dalla piana del Sele sembra contrastare con il quadro proposto anche di recente di un Mezzogiorno medievale dove la predominante produzione cerealicola rappresenterebbe un elemento di forte continuità con l’età antica (si veda ad es. MONTANARI 1989, 89-97). In realtà in questa area la cerealicoltura diventa elemento dominante, come si è Note 195 detto, solo a partire dalla seconda metà del XII secolo. Più in generale la vicenda delle terre a Est di Salerno dal III secolo al XIII mostrano una serie davvero numerosa di abbandoni, riprese, riconversioni. Mi permetto di rimandare a tal proposito ai miei D I MURO 2001; DI MURO 2004 c. 860 Ad es. TRAMONTANA 1983 p. 586. La scelta cerealicola, almeno nella piana del Sele, accomuna i grandi possessori (in particolare la Badia di Cava) e i piccoli e medi proprietari vedi infra. 861 FIGLIUOLO 1993 pp. 195-224, HOUBEN 1999, p. 209. 862 A tal proposito IDRISI, p. 91. Si veda anche DI MURO 2001. Tra le merci che si potevano acquistare sul mercato di Salerno a partire almeno dalla metà del X secolo vi era il grano: in un documento del 959 si fa riferimento ad una terra in locum Correganu salernitane finibus, Corgiano a nord di Fratte, in cui si semina una certa quantità di triticum che viene misurata cupellum ad cupellum de mercatum venalicium della città CDC, I, p. 259. 863 Si veda ad es. DEL TREPPO 1977 pp. 48 ss.; VITOLO 1987. Si ricordi che a Salerno ,come si è visto, è documentato un mercato del grano già nel X secolo e che in età tardo longobarda questo mercato emerge sempre più cospicuo (DI MURO 2001). In questo senso si può forse affermare che, almeno per quel che riguarda questo aspetto nel salernitano, l’unificazione del Regno e la creazione di una solida rete internazionale di scambi accelerò e radicalizzò processi economici innescati almeno due secoli prima. 864 Si veda supra il capitolo dedicato al commercio. 865 Si veda DEL TREPPO 1977 pp. 41, 196. 866 Riporto alcuni esempi di terre coltivate a cereali di proprietà di liberi allodieri: AC, H, 5, a. 1148; AC, XXX, 51, a. 1160; AC, XXXIII, 26, a. 1166; AC XXXIII, 93, a. 1171; AC XXXIV, 26, a. 1172; AC XXXV, 20, a. 1175; AC XXXV, 84, a. 1176; AC XXXV, 76, a. 1177. Si veda anche supra il capitolo relativo alle colture. 867 Si veda Tabella 2. 868 Non va peraltro dimenticata l’equazione pane = cibo sempre attuale nel Medioevo meridionale Così ad esempio MONTANARI 1989. 869 Ad esempio in un testamento del 1175 è menzionato un ortale nei pressi di una casa nel casale Tusciano DTC, XXXV, 20. In generale per gli orti nei pressi degli abitati della piana Tab. I, II, III. Il fatto che non si rinvengano numerose attestazioni di orti in questo periodo non compromette l’ipotesi avanzata in quanto notoriamente l’orto, per la sua natura di spazio che racchiude colture estremamente intensive e riservate al consumo strettamente personale del possessore, raramente risulta citato nelle transazioni o negli affidamenti. Si veda a tal proposito ad es. ANDREOLLI 1990, pp. 183-197. 870 Dalla geografia degli abbandoni sembra che questi abbiano interessato le aree più marginali del territorio, come quelle litoranee e del medio corso del Sele, più difficilmente raggiungibili e lontane dalle arterie principali dei traffici. 871 Segnali evidenti dell’abbandono della parte bassa della piana e del suo progressivo impaludamento sono la scomparsa della via litoranea ricordata nei documenti dei secoli X e XI secolo, la notizia della distruzione del ponte del Tusciano a causa delle piene agli inizi del XIV secolo (CDS, II, p. 32, a. 1302) e il ricordo nei documenti del XIII secolo di edifici diruti nei pressi della foce del Tusciano (si veda ad es. la conferma di Federico II alla Chiesa salernitana del 1221 PAESANO II, pp. 316-320. Il documento è probabilmente una falsificazione in forma di originale della seconda metà del XIII secolo prodotto per provare i diritti della Chiesa salernitana 196 La Piana del Sele in età normanno-sveva alla morte di Federico II, ma la presenza di edifici abbandonati sul litorale deve essere ritenuta evidentemente verace, diversamente il documento sarebbe apparso senza dubbio sospetto ai contemporanei). Il maggior grado di impaludamento delle aree litoranee è evidentemente legato alla minor pendenza che facilita l’accumulazione delle acque, si veda supra paragrafo relativo al paesaggio naturale. 872 SCARANO INDICE 2001, pp. 129-136. 873 CDS, I, pp. 400-401. Cava insieme al casale di Sant’Adiutore contava 362 fuochi ma i due centri risultavano separati, Ibid. p. 401, n. 2. Il dato è sostanzioalmente confermato dal già ricordato documento del 1296 in cui si afferma che Eboli avanti la Guerra del Vespro contava 1500 abitanti, CDS II, pp. 517-518. Il numero di abitanti di Eboli alla metà del XIII secolo sopravanza, in ogni caso, di gran lunga la consistenza demografica media dei centri dell’Italia meridionale, escluse le città maggiori del Regno, ipotizzata da Giuseppe Galasso (900-1000 abitanti, compresi i casali ricadenti nei territori di pertinenza) GALASSO 1992 pp. 807-808. E’ probabile che il numero di abitanti si riferisse esclusivanmente al centro cittadino e ai sobborghi, in quanto i maggiori casali rurali dovevano risultare esenti per il loro legame con la Badia di Cava (San Mattia, Tusciano e Sant’Arcangelo) e con la Chiesa salernitana (Castelluccio di Battipaglia che, come si è visto, nel XIII secolo contava circa 100 abitanti). 874 Attestazioni di Eboli come civitas, BALDUCCI, I, 28, a. 1139; CARLONE-MOTTOLA 1984, p. 53, XII, a. 1161; DTC, XXXV, 20, a. 1175, DTC, XXXV, 91, a. 1178; DTC, XXXVI, 32, a. 1178; DTC, XXXVI, 81, a. 1179; CARLONE 1998, 519, a. 1212 (rogato a Salerno) ID. 696, a. 1241. 875 Liber ad honorem Augusti, p. 128, v. 405. 876 HUILLARD-BREHOLLES,V, 2, pp. 796-798. 877 In questo senso si può accomunare la vicenda di Eboli a quella di centri minori dell’Italia centrale quali Prato o San Miniato, che pur privi di sede diocesana riuscirono a ritagliarsi un seppur limitato territorio dipendente, cfr. PINTO 2005, pp. 8-9. Bisogna però rilevare come, a differenza di questi centri, ad Eboli non sembra emergere fino a tutto il XIII secolo una piena e totale giurisdizione sulle campagne da parte del centro cittadino, con la direzione delle politiche economiche, anche a causa dei forti poteri concorrenti operanti nel territorio. Per i legami tra Federico II e Eboli si veda infra. La stessa presenza di un oratorio francescano ad Eboli dal 1233 costituisce un ulteriore elemento che ne connota il carattere urbano, sebbene in origine l’ordine avesse una predilezione per i siti nei pressi delle strade di grande comunicazione. Per l’insediamento francescano ad Eboli VITOLO 1986 pp. IX-XXIV. 878 Si veda supra il paragrafo relativo al castellum Evuli. La menzione di abitanti delle campagne ormai residenti nei sobborghi ebolitani a partire dalla seconda metà del XII secolo lascia intravedere una dinamica di trasferimento dai casali rurali al centro del distretto, quanto cospicuo non si riesce a determinare a causa della relativa esiguità dei documenti. Si rimarca ancora una volta la sostanziale contemporaneità degli abbandoni di Monte e Palude rispetto all’attestazione dei quartieri extramurani di Eboli. 879 Vedi supra il paragrafo su Eboli. 880 I legami di solidarietà tra artigiani di uno stesso settore che di tanto in tanto emergono dai documenti di archivio, come nel caso di alcune carte testamentarie o compravendite per sopperire a necessità, lasciano trasparire tra XII e XIII secolo l’esistenza di vincoli corporativi, ma si tratta solo di impressioni non supportate da una documentazione più precisa. 881 Si veda supra. 882 Per Olevano nell’alto medioevo DI MURO 1993; ID 2001; ID. 2004 c. con bibliografia. Note 197 Per la vicenda di Olevano nel tardo Medioevo e in età moderna si rimanda a IANNONE 1988 e a CARUCCI 1938. 883 Sulla vicenda del casale di San Pietro ad columnellum si veda supra il capitolo sui casali. 884 Si veda DI MURO 2004 c (in c.d.s.) 885 Così ad esempio il Castelluccio di Battipaglia e il casale dipendente supra; Caso opposto il casale Monte, dove l’immissione nel distretto ebolitano provoca l’abbandono del castello. 886 Sui notai ebolitani e sulle caratteristiche dei documenti da questi redatti si veda CARLONE 1991, ID. 1999; Oltre al celebre Pietro da Eboli la documentazione ricorda un tale Matteo dictator, , ricordato come già morto nel 1189 (il figlio è il notaio Abele) DTC, XLII, 41, probabilmente un maestro di retorica epistolare, l’ars dictandi che ebbe tanta parte nella cancelleria imperiale al tempo di Federico II . Per l’ars dictandi si veda.in gen. SCHALLER 1980, coll. 1034-39. ID., 1990, pp. 119-27. 887 Per la razionalizzazione del sistema statale nel Mezzogiorno con Ruggero II si veda ad es. HOUBEN 1999 pp. 196 ss. 888 Si è veda ad es. il casale di Santa Cecilia sulla riva destra del Sele (supra cap. relativo ai casali), ma anche le poche case del tenimento di San Nicola de Laneo non lontano da Campolongo erano immediatamente circondate da orti, frutteti, vigne, terre laboratorie e querce, in modo che chi vi abitava potesse trovare almeno il necessario per la propria sussistenza DTC, XLVIII, 46. 889 Si veda a tal proposito MONTANARI 1985, pp.198 ss. 890 WINKELMANN, n. 169; CDS, I, pp.122-123. 891 WINKELMANN n. 215; CDS, I, pp. 135-136. 892 Si veda atal proposito ad es. TRAMONTANA 1983, pp. 666-668. 893 L’incameramento del territorio di Eboli nel demanio della Corona non si configurò, con ogni probabilità, come atto privo di fondamento: infatti nel 1156, come si è visto, la Contea di Principato era passata sotto il controllo diretto del sovrano e la successiva ricostituzione con la concessione ad Enrico di Navarra nel 1166 escluse probabilmente Eboli dai domini del nuovo conte di Principato. Per il sostanziale ridimensionamento delle competenze feudali delle contee del Regno in questo periodo, rispetto alle compatte signorie precedenti, si veda C HALANDON, II, pp. 2365 ss. 894 HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 911-913. 895 Le prime concessioni demaniali del Tusciano erano state fatte probabilmente a Santa Maria dei Teutonici da Enrico VI come sembra potersi dedurre da un atto del 1217, H UILLARDBREOLLES, I, 2, pp. 917-920, a. 1217 896 HUILLARD-BREHOLLES, I/1, p. 299. In generale appare di garnde interesse la comparsa degli Ordini cavallereschi nel territorio di Eboli e Olevano alla fine del XII secolo. Qui si rinvengono, come si è detto, ampi possedimenti di Ospedalieri e Teutonici. I Teutonici furono particolarmente e precocemente beneficiati da Enrico VI e da Federico II che concessero loro, tra l’altro, la custodia del castrum Olibani oltre a numerosi terreni, il casale Tusciano e il castelluccio di Battipaglia (si veda infra e supra). Lo stesso Ermanno di Salza, come si è detto, si occupò del castello di Olevano e probabilmente vi risiedette. Il posizionamneto strategico del castello di Olevano e del castelluccium Baptipallae a controllo di vie commeciali e di pellegrinaggio verso la Puglia e la Calabria, conferma da un lato la vocazione dell’ordine all’assistenza dei viandanti e dall’altro la fiducia che in particolare Federico riponeva in Ermanno 198 La Piana del Sele in età normanno-sveva e i suoi (A proposito del posizionamento dei possedimenti e delle commende teutoniche lungo importanti arterie dell’Italia meridionale si veda D ALENA 2004). Discorso analogo vale per la commenda giovannita di Eboli. 897 HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920, a. 1217; Vedi supra paragrafo sui casali. 898 Per questo accordo si veda TOOMASPOEG 2004 pp. 140-141. 899 HUILLARD-BREHOLLES, I, p. 789, a. 1220; CDS, I, pp. 124-125. In precedenza uguale diritto aveva concesso alla Badia di Cava, HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, p. 152, a. 1216. 900 CDS, I, pp. 130-131. 901 DALENA 1997, pp. 138-140. 902 AC, M, N. 16, a. 1221. HUILLARD-BREHOLLES, II, 1, pp. 118-122. Non è improbabile che il documento sia un falso prodotto per avvalorare i diritti della Badia su queste terre negli anni intorno al 1266, vedi infra, in evidente contrasto con gli atti dello Svevo riguardanti Eboli; Altra falsificazione in forma di originale prodotta dallo scriptorium cavense per lo stesso scopo è con ogni probabilità il documento del 1231 con il quale Federico II conferma all’abate Balsamo privilegi e diritti nel casale Tusciano, AC,M, 29, CARLONE 1998, 634, n. 1. 903 HUILLARD-BREHOLLES, II, 2, p. 638. CDS, I, pp. 232-234. 904 I casali, con i diritti signorili sugli abitanti, saranno restituiti solo in età angioina alla Badia di Cava. AC, LV, 68 a. 1266. 905 DALENA 1997, p. 141. 906 In particolare, oltre alla probabile falsificazione di atti federiciani già rilevati, i documenti relativi a presunte donazioni della famiglia di Guglielmo conte di Principato, in cui si concedevano all’abbazia cavense tutte le terre di pertinenza del conte tra il Tusciano e il Sele insieme ai diritti signorili connessi DTC, F, 40 a. 1127; DTC, G, 6, a. 1131; DTC,G, 16, a. 1135; Si veda anche AC, XXXIII, 100, a. 1171. Anche la Chiesa salernitana produsse falsificazioni in questi anni ad es. PAESANO, II, pp. 316-320; HUILLARD-BREHOLLES, II/1, 111115. a. 1221. Sulla questione CARLONE 1998, p. X e note relative ai documenti citati. 907 Si veda supra il paragrafo relativo al casale Tusciano, in particolare il documento di Ruggiero Borsa del 1089 con nota relativa. 908 DTC, XXIII, 104 a. 1137 (falso?). 909 Vedi supra capitolo sui casali. 910 Si veda a tal proposito ad es.TRAMONTANA 1983, pp. 660-676. 911 MARTIN 1995, pp. 6 ss. 912 L’età di Guglielmo II come punto di riferimento per regolare i rapporti tra Federico II e signori locali fu stabilito nelle Costituzioni di Capua del 1220, cfr. TRAMONTANA 1983, p. 669. 913 MARTIN 1995, pp. 6-7. 914 Domus imperiale di Eboli in STHAMER 1914, p. 110, a. 1231. 915 Vedi supra il paragrafo relativo al castrum Olibani e il paragrafo relativo al casale Tusciano. 916 CDS, I, p. 151, a. 1228 917 Si veda ad es. il classico MORGHEN, Gli svevi in Italia, pp. 109-111. 918 KANTOROWICZ 1981, p. 102. 919 Per il castrum Olibani IANNONE 1988 920 Si sottolinea ancora una volta come la presenza di interessi teutonici nella piana del Sele sia forse da ricondurre ai tempi di Enrico VI (cfr. HUILLARD-BREHOLLES, I, 2, pp. 917-920, a. 1217) e, dunque, al nucleo originario dei possedimenti dell’Ordine nel Regno di Sicilia, Note 199 accanto ai già noti possessi di Brindisi, Messina, Barletta, Palermo e, forse Mesagne (per questi ultimi si veda TOOMASPOEG 2004, pp. 137-138). Il ruolo nodale dei percorsi che attraversavano le terre tra Tusciano e Sele, in particolare nello scacchiere delle comunicazioni terrestri tra Campania meridionale e Puglia, unita alla forte produttività del territorio, furono probabilmente tra le ragioni della intensa presenza teutonica, pressoché esclusiva in Campania,la cui missione principale nel Mezzogiorno era legata al rifornimento di uomini e merci alla Terrasanta (si veda ad es. TOOMASPOEG 2004, p. 146), compito favorito dai privilegi concessi da Enrico VI con i quali Teutonici erano tra l’altro esonerati dal pagamento di dazi commerciali HOUBEN 1997, p. 28. 921 Tale consuetudine è testimoniata dal 1109 per la chiesa di San Giorgio, PENNACCHINI 1942, pp. 55-6. 922 PENNACCHINI 1942, p. 151. 923 CDS, I, pp. 114-117. 924 CARLONE 1998, X. Tra XII e XIII secolo sono ricordate nella documentazione le seguenti parrocchie ad Eboli: Santa Maria ad Intra, Sant’Angelo, San Marco, San Matteo, San Giovanni, San Nicola, San Lorenzo, San Bartolomeo, San Giorgio, Santa Trinità, Sant’Elia. A queste si aggiunga Santa Maria di Monte e San Clemente del Tusciano. Per le parrocchie ebolitane nel basso Medioevo VITOLO 1986. 925 CESTARO 1984, pp. 117-118. 200 La Piana del Sele in età normanno-sveva 201 Bibliografia Studi ABBINENTE F.P. 2003 = L’antico asse produttivo Eboli-Battipaglia, Eboli. ALBANO M.-AMATRUDA T., 1995 = Il convento di San Pietro Apostolo a Eboli, in «Quaderni di Laurea», Università degli Studi di Napoli Federico II, Dip. di Storia dell’Architettura, a c. di F. LA REGINA, 3, 1995, pp. 25-44. ANDREOLLI B. 1989 = Contratti agrari e trasformazione dell’ambiente, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle VIII giornate normannosveve, Bari, pp. 111-133. BELLI D’ELIA P. 2003 = Puglia Romanica , Milano. 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Le due signorie di castello tra Tusciano e Sele in età normanno-sveva La geografia del possesso » 15 » » 22 26 CAPITOLO II GLI INSEDIAMENTI I casali I castelli e i borghi I luoghi di culto I poli santuariali » » » » 29 52 69 84 CAPITOLO III ECONOMIA E SOCIETÀ La produzione agraria Ambiente naturale ed economia silvopastorale I mercati Attività artigianali e condizione sociale Frammenti di vita quotidiana nelle terre tra il Tusciano e il Sele » » » » » 89 107 123 129 137 CAPITOLO IV Alcune considerazioni conclusive » 145 Note Bibliografia » » 162 201 212 La Piana del Sele in età normanno-sveva Finito di stampare nel mese di novembre 2005 da Edizioni Pugliesi - Martina Franca (TA) per conto di Mario Adda Editore - Bari