Il Mulino - Rivisteweb
Roberto Secchi, Massimo Rosolini, Paola Gregory, Maria Clara Ghia
Un dialogo intorno alla distruzione
(doi: 10.7388/83167)
Psiche (ISSN 1721-0372)
Fascicolo 1, gennaio-giugno 2016
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Un dialogo intorno
alla distruzione
R.S. È per qualche verso sorprendente che parlando di distruzione
si pensi immediatamente all’architettura.
Dal punto di vista di un architetto è paradossale che si pensi a colui
che per definizione è un costruttore di spazi. Tuttavia, non respingo
questa associazione di idee. Costruzione e distruzione sono in qualche
modo indisgiungibili, l’una implica l’altra, sebbene in diverse modalità.
Va considerato inoltre che è opinione oggi assai diffusa che l’architettura abbia contribuito e continui a contribuire non poco alla distruzione
del paesaggio. Per quanto le responsabilità in merito debbano essere
almeno condivise con molti e diversi attori, come architetto non posso
che accettare questo rilievo. Bisogna infatti convenire che gli architetti
portino parte della responsabilità del degrado dell’ambiente, del paesaggio, in una parola dell’habitat.
Prima di inoltrarsi nella disamina dei delitti compiuti, vale però la
pena di soffermarsi su un’interrogazione più radicale: cosa significa
«distruzione»?
Roberto Secchi, professore ordinario in Composizione architettonica e urbana, Università
La Sapienza, Roma
Massimo Rosolini, architetto, Latina
Paola Gregory, professore associato in Composizione architettonica e urbana, Politecnico
di Torino
Maria Clara Ghia, dottore di ricerca in Architettura e in Filosoia, Università La Sapienza,
Roma
PSICHE
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Roberto Secchi, Massimo Rosolini,
Paola Gregory e Maria Clara Ghia
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L’etimologia della parola ci può venire in soccorso: il termine viene dal latino struere, dare struttura, cui si aggiungono i prefissi con- e
de- per indicare, rispettivamente, l’azione del costruire, come mettere
insieme secondo una struttura e quella dell’allontanare da, del separare
dalla struttura di appartenenza.
Se questa etimologia è corretta, si deve parlare di distruzione quando sia in gioco una struttura. Distruggere non significherebbe dunque
eliminare, annientare, ma intervenire a modificare un assetto originario
dettato da una struttura. Anche questa parola, che abbiamo impiegato
come chiave interpretativa, deriva dallo stesso verbo struere. Insomma
distruzione, come costruzione, sono inestricabilmente legate alla stessa
radice, allo stesso concetto cui si riferisce qualcosa che è stato frutto di
un’elaborazione tale da produrre un ordine di relazioni strutturanti, sì
da farne un’entità unita e coesa.
Costruzione e distruzione sembrano essere due facce del medesimo.
L’azione del costruire come del distruggere evoca, dunque, qualcosa
cui si sottrae struttura, ovvero il prodotto dell’azione del costruire,
evoca qualcosa di fisico ma si usa anche in senso figurato nel campo
dell’universo simbolico. Il terremoto distrugge un insediamento, una
dottrina distrugge una certa carta o tavola di valori.
Il termine «struttura» nell’accezione fin qui impiegata evoca a sua
volta l’azione del progettare di cui sarebbe il risultato. Il cerchio si
chiude e appare sempre più evidente quanto la questione della distruzione ci riguardi.
Tutte le ricerche delle avanguardie storiche sono imperniate sulla negazione del passato, sulla distruzione dei valori delle tradizioni,
sulla tabula rasa. L’idea della «distruzione creatrice» ha animato molte ideologie e molte poetiche del Novecento. Il Futurismo ne ha fatto
una bandiera, anche oltre l’atteggiamento provocatorio. Si è giunti
persino a vedere nella guerra, massima espressione della volontà di
distruzione, la possibilità di una rigenerazione della società e della
civiltà. Questo paradosso non è apparso a lungo tale. I movimenti
rivoluzionari dell’epoca, o l’anarchia, hanno creduto nella forza creatrice della distruzione. Al contrario Ortega y Gasset, ad esempio e
i movimenti a fondamento liberale hanno pensato la distruzione e la
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M.R. Io sono istintivamente portato a sentire il tema della distruzione assieme a quello della libertà. Ovviamente è un tema ambiguo, che
ha due facce: quella della morte e quella della vita. C’è una distruzione
che vuole uccidere, e una distruzione che vuole liberare. Parafrasando
Nietzsche si potrebbe dire che c’è un’utilità e un danno della distruzione per la vita e che una vita «sana» è una vita che sa distruggere ciò
che c’è da distruggere, che sa togliere ciò che c’è da togliere, che sa
scrostare da sé ciò che rischia continuamente di riaccumularvisi sopra
e di indurirsi come una maschera funebre. Questo richiede una consapevolezza a cui da sempre i sapienti hanno richiamato gli uomini:
gli antichi orientali dicono che non si deve far posare la polvere sullo
specchio e che bisogna saper «distruggere» tutti gli attaccamenti, e io
ho sempre pensato che anche la raccomandazione di Gesù nel vangelo: state pronti, «estote parati» richiama alla capacità di staccare da sé
continuamente ciò che tende a soffocarci e ad ucciderci. E poi, questo
state pronti non è forse uno stare pronti ad una distruzione definitiva?
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negazione come scorciatoie ineffettuali verso un vero progresso della
società.
Il quesito: rivoluzione o riforma? Chirurgia o medicina? ha attraversato la letteratura del secolo e deciso degli schieramenti politici. Anche
in architettura si possono citare l’uso che ne fa Le Corbusier o le teorie
di Karel Teige. Le piste di ricerca ovviamente sono infinite. Segnalo
ad esempio come la distruzione creatrice è una formula attribuita da
Schumpeter al capitalismo come sistema economico e che il concetto
è ripreso da Nicola Emery in Distruzione e progetto. L’architettura promessa.
L’idea che dalla distruzione si creino le condizioni del sorgere del
nuovo è d’altra parte antichissima. Dalla distruzione di Troja si creano
le condizioni della nascita di Roma, di una nuova fase della civiltà e del
destino degli umani. Dalla distruzione di sé stessi alla resurrezione è il
tema prevalente dell’opera letteraria di Tolstoj. Come lo è stato nell’opera di Dostoevskij. È il tema del Un re Lear della steppa di Turgenev, o
lo scenario di Vita e destino di Vasilij Grossman. Come pensare queste
relazioni?
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Non è lo stare pronti alla fine del mondo? E l’escatologia cristiana non
parla forse dell’apocalisse come apparizione della verità attraverso la
distruzione? Tu hai già ricordato che le avanguardie storiche ebbero la
distruzione, la tabula rasa dei modelli estetici accademici e in generale
del passato, come motivo essenziale: la costruzione del nuovo è inscindibile dalla distruzione del vecchio e noi ci siamo già occupati di questa
dinamica e l’abbiamo messa al centro del progetto di architettura contestando, si potrebbe dire distruggendo, di essa la pretesa autonomia, e
le teorie modellistiche, prescrivendo il ricominciare ogni volta da capo
senza attaccarsi a forme già date, a linguaggi eletti o a schemi precostituiti, ma guardando ogni volta ai problemi da risolvere e al tema che
le circostanze concrete pongono. Questo «realismo» che non è affatto
una naïveté è al contrario ciò che libera tutto il potenziale dell’esperienza e della conoscenza e può avere esiti «im-previsti» liberando una
creatività che è la stessa della vita.
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R.S. Per i contenuti che proponi mi viene in mente che siamo comunque alla ricerca di un esito positivo della distruzione. Come rovesciarla in costruzione? Ma le sue tracce possono essere capovolte in
fattori positivi? Che differenza c’è tra distruzione, annullamento e rimozione? È davvero possibile l’oblio?
M.R. La rimozione (almeno nel linguaggio della psicoanalisi che è
quello che si è appropriato con più forza della parola) è una falsa eliminazione. È lo spostamento nell’inconscio di un contenuto disturbante,
che però, a seguito dello spostamento non smette di disturbare, anzi
disturba molto, solo non sembra esistere e ci vuole appunto la psicoanalisi per farlo riaffiorare e renderlo inoffensivo.
La distruzione, viceversa, possiamo intenderla come un atto consapevole, deliberato in cui ciò che c’è da distruggere è noto e presente, e
la cosa «delenda» è riconosciuta come pericolosa, come negativa. Certamente come da non ricostruire (almeno da parte di chi distrugge). Essa
comporta violenza ed è perciò altra cosa dalla demolizione che appartiene al linguaggio e alla pratica degli architetti, ed è l’altro volto della costruzione, vi appartiene intimamente ed è parte essenziale della trasfor-
mazione, cosa alla quale tutti noi nel nostro mestiere siamo tipicamente
chiamati. Chi demolisce lo fa pensando a ciò che costruirà, chi distrugge
lo fa pensando a ciò che distrugge; perché punta al suo annullamento.
Dunque non credo che si possa rovesciare la distruzione in costruzione né che le sue tracce, i resti della cosa distrutta, la memoria della
cosa distrutta, possano essere capovolti in fattori positivi. Questo può
avvenire in un solo caso: quando si è vittime della distruzione. Quando
qualcuno, o la natura, ha distrutto qualcosa che per noi non doveva
essere distrutto, ma allora la distruzione non ci riguarda in se stessa,
ci riguarda solo l’impegno a ricostruire e questo può assumere un valore umano nuovo. Questo però ci trova su un altro terreno, distante
e contrapposto alla distruzione, la quale non si rovescia in sé in valore
positivo. La distruzione nega, e il suo valore, diciamo così, positivo, lo
raggiunge quando nega ciò che c’è da negare, quando distrugge impedimenti, ostacoli, forze negative che ci impediscono uno sviluppo
vitale. È in questo senso che la distruzione può far parte della vita;
perché, quando è necessario, e a volta può essere doloroso, la favorisce, la libera. In questo senso la distruzione materiale non c’entra in
senso stretto con il mestiere dell’architetto, che semmai entra in scena
dopo la distruzione, per costruire. Può e deve entrarci in senso lato, in
senso mentale, come disposizione a rompere gli schemi soffocanti, per
rinnovare le capacità creative e risolutive che possono essere soffocate
dall’attaccamento a forme che in quanto tali tendono ad abbandonare
la vita che le ha prodotte, ad irrigidirsi e morire.
«È davvero possibile l’oblio?», ti chiedi. Non lo so, ma non credo
che la distruzione punti all’oblio, se non in senso lato. Io credo che
essa punti a eliminare l’efficacia, la funzione, della cosa distrutta e non,
o non in senso stretto la memoria. È importante, per chi distrugge,
che la cosa distrutta non abbia più potere, non che sia cancellata dalla
memoria. Questo è piuttosto l’obiettivo della rimozione, che vuole che
la cosa non esista più, o meglio che non sia mai esistita, che ne vuole
la cancellazione radicale, ma che proprio per questo fallisce, perché la
cosa dimenticata torna ad agire per vie impreviste ed agisce tirannicamente sotto mentite spoglie proprio perché «dimenticata». E non ce se
ne libera fin quando non torna, appunto, alla memoria.
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P.G. La prima cosa cui ho pensato è che – in accordo con Emery –
il termine «distruzione» si associa (in opposizione) più a «progetto»
che a «costruzione», nonostante la medesima etimologia come ci hai
ricordato. Costruzione mi sembra piuttosto doversi associare a «demolizione» (almeno nel nostro campo disciplinare), dove la demolizione
diviene anche modalità di costruire il nuovo.
Quindi la prima questione che porrei è: quali differenze possono
porsi fra distruzione e demolizione? Mi vien da pensare che, innanzitutto la distruzione può essere volontaria o involontaria (i cataclismi
distruggono una città, per es.) ed è sempre associata a violenza, laddove invece la demolizione è sempre intenzionale e programmatica
e si riferisce ad artefatti (si demolisce un edificio, non un bosco, per
es.) per di più (generalmente) di grandi dimensioni, almeno non di
piccole. Ma si demoliscono anche le idee, come gli avversari (in senso
metaforico).
Distruzione, mi sembra abbia piuttosto a che fare (nel nostro campo) con il tempo che distrugge-corrode-rovina… gli artefatti dell’uomo. Per estensione possiamo dire – come suggerisci – che l’operare
dell’uomo abbia distrutto la natura (per es.), ma anche qui il processo è
molto più lungo e lento rispetto alla singola opera umana.
Inoltre il termine distruzione si associa anche a decostruzione. In effetti Derrida usò il termine «decostruzione» perché la traduzione francese della Destruktion o Abbau heideggeriani (operazione relativa alla
struttura o all’architettura tradizionale dei concetti fondatori dell’ontologia) implicava un «annichilimento» più vicino alla «demolizione»
nietzscheana che all’interpretazione di Heidegger o al tipo di lettura
che Derrida proponeva.
Quindi Distruzione/Demolizione/Decostruzione: sono già ambiti
molto ampi sui quali poter riflettere.
M.R. Le tesi poste da Emery nel suo libro e in varie interviste, relativamente al problema della distruzione, sono molto utili perché ci fanno
capire a che punto ci troviamo. Sono cose condivisibili, ma direi piuttosto condivise, usando intenzionalmente il passato. È un utile riassunto,
ma non mi pare che ci sia niente di nuovo. Non pare a me, beninteso.
Brutalizzando molto direi che è un ritorno a Marx. Un ritorno per
molti versi legittimo ed anche comprensibile in tempi di crisi del capitalismo.
La Distruzione è intesa qui come questa distruzione. La «distruzione globalmente in atto» della cui realtà non si discute. Il mondo si sta
distruggendo: le cose stanno così e basta! Questo è un dato acquisito.
Parlare della distruzione come di questa distruzione significa affrontare la cosa in termini sociologici e non in termini filosofici (il che, certo, è perfettamente legittimo). Affermare che il mondo si sta distruggendo – il mondo nel senso dell’ambiente umano – e che questo deriva
dal capitalismo che ha trasformato la tecnica da mezzo a fine e la realtà
in un cumulo di merci le quali per rimanere tali, per rimanere merci e
non diventare cose, debbono necessariamente andare distrutte per essere rimpiazzate, e questo ha inondato la terra di rifiuti, di scorie ecc. e
questo, unito al consumo dissennato di risorse, tra cui quella del suolo,
sta mandando in malora tutto, è noto da un bel po’; anche se il fatto di
esserlo non gli toglie certo la gravità che rappresenta.
Si potrebbe aggiungere che il capitalismo che porta scritta dentro
di sé la distruzione, come ha visto, senza criticarlo per questo, Schumpeter, deve pur sempre cercare di sopravvivere (ed infatti lo stesso
Schumpeter parla, mi pare, di distruzione creatrice) ed è difficile che
il capitalismo sopravviva senza il mondo; ma, certo, potrebbe, ad un
certo punto, non farcela più a salvare capra e cavoli. A mantenere, cioè,
in piedi il mondo per sfruttarlo.
Ma il fatto è che questo ritorno a Marx (che, ripeto, io giudico, in
un certo modo, sensato) non si conclude con la ricostituzione del Partito Comunista, né con la Rivoluzione (ovvero – per restare in tema –
con la distruzione del capitalismo), ma con l’indicazione di riabilitare le
macerie della distruzione medesima (si cita tra l’altro Baudelaire, ed è
appena il caso di ricordare che lì si parla di rifiuti in termini metaforici),
con l’indicazione di resistere, di tirare il freno d’emergenza, di porre
limiti alla produzione nichilistica, e di riscoprire la virtù della prudenza.
Insomma di correre ai ripari come si può.
Il povero Heidegger dopo aver tentato di ribaltare, diciamo così, il
paradigma del mondo della tecnica, mettendosi sulla via filosoficamen-
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te durissima, ai tempi nostri, di tornare a pensare l’Essere, aveva concluso che: «solo un dio ci può salvare». Affermazione pericolosissima
che spiega a mio parere tutta l’ambiguità (involontaria) del pensiero
di Heidegger, ma che non credo si possa liquidare dicendo che invece
siamo noi che dobbiamo salvarci da soli. Anche perché sarebbe bene
ricordare che il tanto detestabile mondo della tecnica, siamo noi che lo
abbiamo fatto.
Certo si tratterebbe una buona volta di cercare di capire chi siamo
noi. A questo proposito, e per tornare a Baudelaire, credo sia utile interrogarci ancora sugli stracci, sui rifiuti che la società borghese elimina
da sé. Chi sono e che cosa sono i rifiuti? Che cosa la società borghese
rifiuta? E rifiuta, direi, per esistere come tale? Per esistere come società borghese? Inutile dire che Baudelaire sentiva di essere lui uno di
quegli stracci, di quei rifiuti. E capiva anche che la società borghese
deve, ripeto, per esistere come tale, buttare via qualcosa. Qualcosa di
importante che essa tratta come un rifiuto, qualcosa che butta via, che
elimina. Qualcosa che non le serve più, ma – attenzione – non si tratta
solo di qualcosa che non le serve più, ma anche di qualcosa di pericoloso, di distruttivo appunto, per la società borghese stessa. Qualcosa
che essa caccia via da sé con la nonchalance di chi getta un rifiuto, ma
che in realtà la terrorizza e che combatterebbe in armi se ce ne fosse il
bisogno. È qualcosa che essa, per esistere deve rimuovere.
E siamo arrivati alla parola magica: «rimuovere». Io sono convinto
che il mondo moderno (ma forse si potrebbe dire il mondo senz’altro)
nasce e si mantiene su una grande «rimozione». Sull’eliminazione di
qualcosa di essenziale, rimossa la quale, l’età moderna non può che
qualificarsi (come si è effettivamente qualificata) come età della crisi.
Il grande rimosso, in quanto tale, scompare, è dimenticato, si inabissa
dove non è più visibile. Esso non esiste più per nessuno, non ha nome,
eppure, conformemente al suo ruolo di rimosso, disturba e non fa vivere in pace e sottilmente anima il disagio, il senso di una grave colpa
di cui non si saprebbe dire quale è, e che tuttavia tormenta, poco o
tanto, ciascuno. E siccome questo disagio chiede urgentemente di essere spiegato nell’illusione che una spiegazione razionale possa bastare
a vincerlo, esso ha dato e dà origine a molte teorie sulla crisi o persino
sulla maledizione dell’occidente e per conseguenza genera l’illusione
che le colpe, gli errori, la cattiva coscienza di questo mondo e soprattutto i disastri che gli si imputano, le distruzioni o la distruzione di
cui è incolpato, possano essere emendate in vari modi. Per esempio,
oggi, ponendo limiti, resistendo, tirando il freno d’emergenza, o recuperando le macerie, riabilitandole, strappandole allo statuto di merci,
oppure programmando la decrescita (nell’illusione che questa, se praticata seriamente, non produca con il capitalismo – che sia detto per
inciso non è già più un capitalismo squisitamente industriale, ma si è
trasformato ormai in capitalismo finanziario per il quale le merci sempre più diventano un mero pretesto – una violenta contrapposizione,
una guerra… insomma ancora una volta una rivoluzione, e invece se
praticata in modo soft non possa essere mangiata e digerita dal capitalismo stesso, che poi ci ritroveremmo a criticare perché ha sfruttato
pure la decrescita).
Invece siccome il disagio viene dalla rimozione, non c’è spiegazione
razionale che tenga, se non quella che forse si può mutuare proprio dalla psicoanalisi. Sennonché sul lettino ci si dovrebbe sdraiare il mondo
intero, oppure quel noi che dicevo prima; che è la stessa cosa.
Eppure è questo, credo, che va pensato.
Dire cosa sia il grande rimosso è difficile. Si potrebbe dire che è la
vita e con ciò non abbiamo detto ancora nulla di chiaro, giacché la vita
è la cosa meno razionale che ci sia e appena la si nomina sfugge e diventa qualcosa che non è. Anche se il fatto è strano perché cosa sia la vita
dovremmo saperlo tutti per esperienza diretta; ma il punto è proprio
questo: riuscire a riaprire il canale di questa esperienza ed avere la forza
di rinunciare allo scudo del luogo comune mondano-borghese che lo
ostruisce (quando uso questa espressione provvisoria mi riferisco naturalmente a qualcosa di più profondo della semplice chiacchiera borghese che è facile criticare. Mi riferisco ad un «paradigma»). Potremmo
dire che è l’integrità della persona umana che la società borghese reprime alienando l’uomo da sé stesso, dalla vita appunto. Potremmo dire
che è Dio, anche se la società borghese non ha formalmente abolito la
religione. Ma Dio è la religione? Potremmo dire che è l’eterno di cui
siamo intessuti, e del quale infatti non c’è più parola…
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Il povero Heidegger lo ha chiamato l’Essere, mantenendosi nel linguaggio della filosofia occidentale ed infatti è stato l’ultimo filosofo,
solo che anche per questo non è riuscito ad evitare di ritrovarsi in compagnia dei nazisti.
Una cosa certa, è che, se vogliamo cominciare dai primi romantici,
il sentimento di una mancanza, essenziale, del tramontare di qualcosa
che lasciava l’uomo nella sua coscienza infelice, per usare liberamente un’espressione di Hegel, ha segnato la letteratura e il pensiero per
due secoli mentre la società borghese si instaurava e infine trionfava. Il
Baudelaire già nominato è stato il più emblematico martire della nuova società. Ed è logico che i letterati, i poeti, gli intellettuali si siano
sentiti, nella grande maggioranza, naturalmente dalla stessa parte dei
comunisti quando questi hanno cominciato ad «aggirarsi per l’Europa»
come i più grandi combattenti contro la società borghese. Ed è altrettanto logico che il mito (ed anche la realtà) del sovvertimento di questa,
mediante la rivoluzione proletaria, abbia assorbito tanta creatività che
questi generosamente gli offrivano.
Ma dopo di questo? Rimane il disagio che non trova più parole forti
per essere detto. Rimane l’incertezza di poter combattere il mostro.
Di poterlo distruggere sostituendolo decisamente con qualcos’altro. E
resta l’approccio debole di cercare rimedi pur dentro un orizzonte che
se è fortemente criticato non è totalmente contestato. Questa lunga
storia di disagio umano tipico della società moderna è giunta fin qui,
fino al terzo millennio, fino ad oggi in cui ne vediamo un ultimo volto.
L’inabitabile che Emery nomina come intrecciato all’abitabile (e che
lui connette con il degrado urbano risalendo perfino alla Manchester
di Engels) è una forma di questo, ma è molto difficile che la cosa possa
essere affrontata dall’architettura, dal progetto; almeno non direttamente. Starei per dire che è qualcosa che non la riguarda, e che è bene
che non la riguardi direttamente se si vogliono evitare le solite parodie.
Se si vuole evitare che qualche altro post- che qualche altro -ismo sorga
con la pretesa di salvare il mondo e finendo nel ridicolo. Così come è
difficile che riguardi la sociologia, la quale del disagio può tutt’al più
darci qualche utile ritratto. Può spingersi fino alla diagnosi, fino a dire
«sì, c’è il disagio», ma non può occuparsi della cura. Il mondo si salva
fuori del mondo, la società si salva fuori della società. Si tratta di guardare altrove (di cambiare «paradigma» se si vuole dir così), di guardare
dove in genere non si guarda e che invece sta sotto i nostri occhi, come
la famosa lettera rubata. Si tratta di guardare in noi. Siamo noi che
dobbiamo guarire, siamo noi che dobbiamo liberare il grande rimosso
e reintegrarci. L’abitabilità del mondo verrà di conseguenza.
La reintegrazione dell’uomo in quella dimensione che è alienata
dall’uomo stesso e di cui l’uomo che noi siamo è il residuo, è un atto
del pensiero e non un’azione del progetto. Questo pensiero è urgente e
quello che non è questo pensiero non serve, se non a passare il tempo.
Del resto questo è il pensiero della salvezza, che bisogna tornare a
pensare. E su questo occorre essere chiari: o si crede che l’uomo possa
salvarsi o non lo si crede: aut-aut. Non ci sono debolezze che tengano.
Ce la farà l’alba del terzo millennio a tornare a pensare la salvezza?
Ce la farà a raddrizzare il pensiero, e in conseguenza di questo, solo
in conseguenza di questo, a raddrizzare l’azione dell’uomo? Ce la farà
a pensare l’uomo nella sua vita, reintegrato in essa e strappato al paradigma borghese che lo ha dimezzato e con questo lo ha ammalato
decretandone il destino da moribondo di cui un aspetto, solo un aspetto, è quello che Emery (e non solo lui) chiama la distruzione globale
attualmente in atto? Ce la farà a tornare a cogliere nell’uomo l’eterno
che egli è, l’infinito su cui si «fonda» e che è il motivo della inalienabilità della libertà dalla vita dell’uomo stesso? Ciò che ridimensiona le
pretese «imperiali» dell’uomo storico, ciò che lo rimpiccolisce, ciò che
lo «umilia» (innalzandolo), e che a seguito di questo, solo a seguito di
questo, porterà al riaffiorare del rispetto per le cose, per la terra, per
tutto? Un rispetto sereno che non discende da un’etica faticosamente
imposta e contrattata, ma che è il rispetto naturale per tutto di chi ha
ritrovato la propria vita? Ce la farà a guarire questa nevrosi chiamata
uomo che oggi abita il mondo, trovandolo inabitabile?
Non lo so, lo spero, ma certo è impossibile che questo avvenga se
non ci si mette a pensare e a «sentire» questa possibilità. E purtroppo,
uno degli effetti della distruzione globalmente in atto è la sottrazione,
la privazione del pensiero nell’uomo. Non credo di dire una novità, è
facile constatare che nessuno pensa più. Tutt’al più si cercano rimedi
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che possano alleviare i dolori dell’ammalato e questo certo è quanto di
più nobile si possa fare. Ma, vi prego, non scambiamolo per la cura.
È possibile che chi sente questo mio discorso ricominci a parlare di
utopia. A questi rispondo di fare attenzione perché pensare che la vita
sia un’utopia è il sintomo più certo della malattia.
Torniamo allora sanamente a Marx, torniamo a fare critica dell’ideologia e diciamo chiaro che pensare che la vita sia un’utopia, che la
salvezza sia un’utopia, che uscire dalla coscienza infelice sia un’utopia,
è un’ideologia, ovvero una falsa coscienza che ci fornisce una falsa idea
della realtà che non riusciamo a sospettare che sia falsa. Applichiamo
un po’ di metodo marxista o almeno torniamo a ricordarne la capacità
rivoluzionaria. Su questo punto, però, Marx e Freud sono stati gemelli,
ambedue hanno insegnato a vedere sotto quello che sembra. I due però
vanno presi con le molle perché non escono dal materialismo e dunque
non possono pensare veramente la salvezza.
Di Marx è significativo l’esito della liberazione dalla alienazione che
egli immagina quando parla dell’uomo totale, che sarebbe l’uomo disalienato secondo lui. Sono pagine persino involontariamente comiche
in cui quest’uomo ormai libero dalla schiavitù del lavoro ha finalmente
recuperato la sua vita che consisterebbe nell’andare a pesca la mattina,
ascoltare musica il pomeriggio, leggere la sera e così via… sarebbe cioè
una specie di uomo perennemente in vacanza – e questo non sarebbe
erroneo – che si agita come un nevrotico per godere di tutto quello che
può, prima della morte. La miseria di questa scena finale basterebbe a
sollevare sospetti sulla sensatezza di tutto ciò che Marx prescrive per
arrivare fin qui. E d’altra parte il comunismo realizzato si è incaricato
di darne qualche conferma.
A chi pensa che l’uomo sia la sua coscienza infelice si deve rispondere con Dostoevskij che l’uomo è infelice perché non sa di essere felice. È
infelice per questo e non perché mangia gli OGM, i quali va da sé che
vanno evitati se fanno male alla salute, o perché non trova parcheggio
sotto casa.
Resta che l’attività di controllare, e se è il caso contrastare, lo stravolgimento di certi equilibri naturali o occuparsi di progettare soluzioni
che permettano la vivibilità delle città, e la salvezza del paesaggio, an-
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M.C.G. Dalle prime riflessioni mi pare che fra Distruzione e Demolizione emergano sostanziali differenze. Una prima essenziale differenza è senz’altro quella espressa da Paola Gregory: la distruzione, sia essa
volontaria o involontaria, è sempre associata a violenza, la demolizione
è invece intenzionale e programmatica e può avere a che fare con un
«fare spazio», «lasciare posto», «rendere libero, sgombrato» (il Raum
heideggeriano). A questa violenza della distruzione, Freud associa immediatamente un termine fondamentale: aggressività. Vi sono due specie di pulsioni: quelle sessuali e quelle aggressive, quindi l’Eros e la
pulsione di distruzione. Scopo della prima è di stabilire unità sempre
più vaste e tenerle in vita. Scopo della seconda è al contrario dissolvere
i nessi in modo da distruggere le cose. Il suo fine ultimo è (ri)portare il
vivente allo stato inorganico.
Demolizione dunque se si guarda alla materia di cui l’architettura è
fatta, distruzione se si guarda all’oggetto architettonico come campo di
relazioni. Relazioni che producono vita, che danno da abitare. Laddove queste relazioni vengono negate ecco dilagare la potenza distruttiva
dell’agire umano, anche dell’agire architettonico.
Il passo successivo potrebbe essere quello compiuto da Erich
Fromm, che distingue fra aggressività benigna, ossia biologicamente
adattiva, e aggressività maligna o distruttività, prodotto puramente culturale, propensione specificatamente umana a distruggere e cercare il
controllo assoluto:
essendo specificatamente umana e non derivata dall’istinto animale, la distruttività non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell’uomo, ma è un elemento
dialogando
che redistribuendo le risorse, è un nobile impegno ed anche un lavoro
appassionante di cui tutti abbiamo bisogno e, certo, è un fare che implica un conflitto con interessi antagonisti.
Solo che non si tratta di un atto del pensare, se non nella misura in
cui ogni attività umana lo è.
Ma certo, se ci si atteggia ad «apocalittici» (e questo è molto diffuso
tra gli architetti e i sociologi), poi bisogna essere conseguenti, e mettersi
a pensare al livello dell’apocalisse che si è evocata.
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importante del suo funzionamento mentale. È una di quelle passioni potenti e
dominanti in certi individui e culture e non in altri. È una delle possibili risposte
a esigenze psichiche radicate nell’esistenza umana e ha origine dall’interazione di
varie condizioni sociali con i bisogni esistenziali dell’uomo (Fromm, 1975, 278).
Mi interessa molto il tema della distruzione come prodotto culturale. Come scrive giustamente Massimo Rosolini, cose condivisibili, ma
anche ormai del tutto condivise.
Per me, rileggere Benjamin non è mai scontato. Il cumulo di macerie
che solo l’angelo della storia riesce a guardare, la catastrofe su cui ha
fisso lo sguardo, occhi spalancati, bocca aperta, ali dispiegate dal vento
della bufera del progresso. È un’immagine di una forza straordinaria.
Un’immagine terrorizzante, d’altra parte. Da cui deriva una domanda
di spessore esistenziale: come affrontare questa valanga di distruzione?
Esiste anche solo una possibilità di agire con queste macerie, di trasformarle, di farne qualcosa?
La risposta che oggi ci stiamo dando ha a che fare con l’attenzione
rivolta agli scarti. Le avanguardie da sempre attribuiscono allo scarto qualità estetiche. Come ho scritto nel breve saggio per la ricerca
Recycle (2014), che Roberto Secchi conosce, tra il 1920 e il 1936 nella
casa studio dell’artista dadaista Kurt Schwitters, cresce a dismisura una
scultura composta da materiali di scarto, fino a sfondarne il tetto. È
il Merzbau, e Merz significa merce. Il sottotitolo dell’opera è: Cattedrale della miseria erotica, per indicare quale fine faccia la merce nel
momento in cui perde la sua capacità attrattiva. Si può andare avanti
all’infinito, ricordando i combine paintings di Robert Rauschenberg, la
merda d’artista di Piero Manzoni, i resti del pasto di Daniel Spoerri, le
installazioni sonore di Jean Tinguely, gli scarti di tappezzeria di Alberto
Burri, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto.
Sarebbe interessante in tal senso, provare a interrogare un giovane
artista francese, Cyprien Gaillard, altra voce della poesia della distruzione. Gaillard esplora il mondo a caccia di monumenti della nostra
epoca per documentarne il progressivo degrado. Macerie e relitti sono
i protagonisti delle sue fotografie, dei suoi video, delle sue installazioni. Anche trasformazioni violente e manifestazioni di disintegrazione,
vandalismo, lotta. Una riflessione sul potere delle immagini, ancora più
attuale in un mondo scosso da rivoluzioni di piazza e movimenti di
grandi masse devastate.
Ma rispetto a questa contemplazione della distruzione nei suoi aspetti estetici (ed estetizzati), Benjamin come sempre ci sollecita verso possibilità alternative. Ci porta immediatamente dalla dimensione estetica
a quella etica. Il «carattere distruttivo», da cui la realtà sembra essere
inevitabilmente segnata e la nostra esistenza inevitabilmente definita,
assume una valenza tutt’altro che negativa, è capace di eliminare il presente per fondare il nuovo: «Distruggere ringiovanisce, perché toglie di
mezzo le tracce della nostra età». Costituisce il fondamento del futuro,
che per la visione messianica benjaminiana è il luogo dell’eventualità e
dell’imprevedibilità radicale.
Possiamo interrogarci sulla distruzione per fare qualcosa? Per riscattarla? Per usarla («Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non
per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo
possibile: usandoli», Benjamin, 1939)?
Possiamo immaginare un’etica distruttiva, come pratica che invece
di negare il passato, la memoria, la tradizione, si impegni a instaurare
con essi un rapporto critico, strappandoli al loro contesto? Che non distrugga nel senso dell’annichilimento, ma del far posto al cambiamento, all’emancipazione? Un’etica del «far spazio» alla trasformazione di
cui il passato ha diritto (Seminario di studi benjaminiani, 2010)?
Il termine Destruktion appare anche in Benjamin sempre legato a
Charakter nell’accezione di Abbau, ossia come demolizione, smontaggio (vedi ciò che Paola Gregory scrive sul rapporto fra Distruzione/
Demolizione/Decostruzione nell’accezione di Derrida): un lento sottrarre i pezzi che non porta all’annichilimento, al Nulla, al vuoto, ma
piuttosto al deserto, al luogo senza luogo, origine della stessa nostra
civiltà, a partire dall’esodo. Luogo della ricostruzione e non della (sola)
distruzione.
Questo ci conforta, a me pare, immersi come siamo in ormai consolidati paesaggi della distruzione. Distruzione ambientale, economica, politica, sociale. Distruzione della Terra e delle vite che la abitano.
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Benjamin sembra dirci che ogni epoca si è pensata come epoca della
distruzione. Ci sentiamo quindi meno soli, meno vittime, meno originali? Esiste un modo di salvarsi? Salvarsi facendo?
Ho riletto Susan Sontag, il saggio Davanti al dolore degli altri, in
occasione del clamore per l’ultima, distruggente immagine del bimbo
naufrago riverso sulla spiaggia. Anche lei, mi pare, ci spinge a un’etica
della distruzione che sia scintilla per la modificazione, verso nuove relazioni, nuova vita.
Non è detto che lasciarsi commuovere sia meglio. Il sentimentalismo, come è tristemente noto, è del tutto compatibile con la propensione alla brutalità o ad atti
ben peggiori (pensate al classico esempio del comandante di Auschwitz che la sera
rientra a casa, abbraccia moglie e figli e si siede al pianoforte per suonare un po’ di
Schubert prima di cena). La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato – se
così si può descrivere ciò che accade – a causa della quantità di immagini da cui
è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e emotiva, in realtà traboccano di
sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione. Ma se dovessimo stabilire
quali emozioni siano auspicabili, sarebbe forse troppo semplice optare per la
compassione. L’immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l’esistenza tra chi soffre in luoghi lontani – in
primo piano sui nostri schermi televisivi – e gli spettatori privilegiati di un
legame che non è affatto autentico, ma è un’ulteriore mistificazione del nostro
rapporto con il potere. Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di
non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci
proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle
nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo
alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri
privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in
modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze,
dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma
per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo
fornire una scintilla iniziale.
R.S. Cara Maria Clara, voglio sottolineare alcuni punti:
– è decisiva la considerazione che fai circa il modo di guardare l’architettura come oggetto o come agente di relazioni. Noi vogliamo in-
tenderla soprattutto in questa seconda accezione e come tale essa ci
suggerisce di oltrepassare lo stretto limite della demolizione e ci apre
un terreno nel quale le nostre responsabilità di architetti emergono in
tutta la loro evidenza;
– è altrettanto importante il tema del liberare, del fare spazio. Mi
sembra vada in accordo con quanto diceva Massimo nella sua prima
risposta alla mia interlocuzione quando sottolineava il valore della distruzione in noi di quanto ci appesantisce nel nostro rapporto con il
mondo per guadagnarci la dimensione di una maggiore, più autentica
libertà; credo che non ci si debba limitare a guardare la distruzione
globale, che sia necessario, comunque tentare di agire anche nella consapevolezza di non poter produrre che palliativi, piuttosto che una vera
e propria cura, cominciare da noi, anche come architetti, per giungere
al noi più profondo. (forse è solo se partiamo da questo che possiamo essere architetti migliori). Credo che il tentativo di riscattare gli
«scarti» sia il nostro compito. Riscatto è una parola importantissima di
Benjamin dalla quale abbiamo tanto da imparare.
Partendo dai dettagli, ci insegnano tanti maestri, si giunge al cuore
dei problemi e alle più grandi vastità del pensiero. In ogni caso, credo
che dobbiamo dare anche una risposta da architetti impegnati nel loro
mestiere a opporre resistenza alla «distruzione globale» cominciando
intanto dal nostro terreno specifico. Poiché siamo in una certa misura
responsabili quando rispondiamo ciecamente alla committenza di progetti che hanno come conseguenza dei processi di desertificazione del
territorio, progetti che ne minano la sicurezza, che offendono la dignità
dei suoi abitanti, che li umiliano in spazi che contrastano il compiersi
dei diritti umani, che attentano alla bellezza dei paesaggi che abbiamo
il dovere di difendere come un dono. Io sono interessato anche a capire
cosa siamo chiamati a fare delle tracce lasciate dalla distruzione fisica e
simbolica di luoghi e spazi, cosa siamo chiamati a fare della memoria.
L’architettura si prende cura della ricostruzione, ma anche della conservazione delle tracce della memoria. Ritorno sul Don di Rigoni Stern
ci mostra come la letteratura sappia farlo con le parole. L’architettura
deve farlo con i suoi mezzi (monumenti; memoriali; Eisenman a Berlino; Ground Zero, terribile, fallimentare prova degli architetti in quel
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concorso!). Mi vengono in mente, ovviamente, le immagini di questi
giorni delle distruzioni dell’Isis e ricordo il caso della distruzione dei
Buddha di Banjan da parte dei talebani, distruzione di statue colossali
e delle popolazioni che abitavano nei loro dintorni e dei pellegrini; mi
viene in mente il film Berlino anno zero, il paesaggio della distruzione
fisica della città e quella della sua popolazione nel suicidio del bambino
sua espressione più autentica. A ricordare che una distruzione fisica è
sempre anche una distruzione del vissuto e della sua memoria. La traccia lasciata nel vuoto dell’assenza è forse la più forte.
Mi viene in mente che l’archeologia ci offre sempre il paesaggio della distruzione, anche se noi guardiamo i siti archeologici con curiosità
scientifica e non li riviviamo come veri e propri paesaggi delle vicissitudini storiche che li hanno causati. Li guardiamo per lo più come frutti
«naturali» dello scorrere del tempo. Insomma, mi vengono in mente
tante cose, tante immagini dolorose come anche è successo a Maria
Clara e mi affanno a cercare una via di salvezza. Credo che Massimo
abbia ragione: non sta in artifici e strategie ma nella rimessa in discussione della dimensione umana espropriata della sua essenza spirituale,
alienata e mercificata.
M.R. I numerosi richiami a Benjamin – da ultimo quello di Maria
Clara – mi suggeriscono le seguenti riflessioni:
L’angelo di Benjamin «ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare
una catena di eventi egli vede una sola catastrofe» (Benjamin, 1955). A
noi appare una catena di eventi, lui vede una sola catastrofe. Vorrebbe
ridestare i morti e ricomporre l’infranto ma una tempesta spira dal paradiso e lo tira via dalla catastrofe. Lo tira nel futuro. E questa tempesta
è il progresso.
Le tesi di filosofia della storia si concludono parlando del futuro e
si dice che per gli ebrei ogni secondo in esso, era la piccola porta da cui
poteva entrare il Messia.
Dunque la tempesta che spira dal paradiso spinge verso il futuro
e tira via dalla catastrofe della storia, e il futuro secondo Benjamin ha
a che fare col Messia. E se la tempesta tira verso il futuro è segno che
tira verso la condizione in cui può entrare il Messia. In un tempo che
è cosparso di schegge messianiche. Il contrario del tempo dello storicismo che non contempla il presente, non contempla la possibilità di far
saltare il continuum della storia.
E se questa tempesta è il progresso è segno che il progresso è il movimento verso la possibilità del Messia.
L’angelo non può ridestare i morti e ricomporre l’infranto perché
deve correre verso il futuro, verso l’ingresso del Messia che solo può redimere il passato, giacché solo così il passato si trasforma in preparazione del Messia. In ciò che prende senso a partire dalla sua conclusione.
Benjamin inizia le tesi avvertendo che il materialismo storico ce la
farà a patto di prendere a servizio la teologia. Ed il resto delle tesi mostrano come per lui la rivoluzione è possibile solo se sovrapposta alla
redenzione messianica. Egli contesta lo storicismo e gli contrappone
una storia come storia della redenzione, come storia che si redime solo
se si conclude con l’irrompere del Messia. Solo se conosce la rottura,
la discontinuità estrema che il Messia costituisce. In altre parole solo
la fine della storia salva la storia; perché mostra a cosa la storia stessa
tendeva.
Benjamin era ebreo e marxista ed egli attende il Messia come qualcosa che deve venire e la rivoluzione come la irruzione del presente,
che verrà. Egli pensa alla salvezza come la salvezza di un popolo e come
la redenzione della storia. Da marxista, pensa alla salvezza nella storia.
Per un cristiano lo sguardo è diverso, perché per lui ciò che deve
venire è già venuto, e non si tratta di attendere, ma di ricordare, nel
senso di rammentare. Il cristianesimo, come si sa, mantiene il concetto
di attesa e la escatologia, ma introduce una impressionante ed in un
certo modo scandalosa innovazione, che qualifica in modo specifico il
mistero cristiano. Il regno dei cieli è di là da venire, ma è anche già qui.
Il Messia tornerà alla fine dei tempi, ma è già venuto. In Giovanni, il
più misterioso degli evangelisti, il Signore dice: il tempo verrà ed è ora
(Gv 4,23).
Certo questo è una rottura della logica razionale, ma d’altra parte il
mistero non può che esserlo. Il mistero non è qualcosa di inaccessibile,
è qualcosa di indicibile logicamente, ma al quale ciascuno può accedere
nella sua esperienza interiore. Mistico è ciò che avverte il mistero.
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Nonostante la spaventosa diffusione del cristianesimo nel mondo
conosciuto dei primi secoli e la sua ufficializzazione che lo intreccia
all’impero e finisce per identificare l’Europa con la Cristianità, e la
permanenza nei secoli della Chiesa Cattolica come uno dei centri più
importanti del mondo, lo schema profondo del pensiero corrente nel
mondo occidentale, non mi sembra conformato all’annuncio cristiano che il cattolicesimo ha di fatto conservato nel tempo. Lo schema
ebraico, veterotestamentario, è rimasto dominante e si è fuso poi con
il cristianesimo protestante. Ed è la miscela di questi che sottostà oggi
alla mentalità corrente dell’uomo dell’occidente. Il richiamo etico del
protestantesimo si è fuso con la cultura della Legge. Il peccato originale
non è stato cancellato, il secondo Adamo non è ancora venuto. Solo
la Legge ci parla di Dio, e solo osservandola conosciamo un contatto
con lui, e che solo lui può accordarci. Dio è lontano. Naturalmente
non parlo in termini strettamente teologici, mi riferisco alla vulgata, alla
cultura corrente, al modo ordinario di vedere le cose, starei quasi per
dire alla struttura psichica dell’uomo occidentale. Questa struttura non
lo salva dalla disperazione, non lo salva dal senso di colpa, che oggi, e
da più di mezzo secolo, è anche, soprattutto, la colpa di aver distrutto
il mondo, aver distrutto la natura, aver imposto alla terra un equilibrio
iniquo che si fonda sullo sfruttamento dei più deboli (cose, beninteso,
realmente accadute) ed esclude dalla coscienza la possibilità dell’innocenza. A questo riguardo le parole di Susan Sontag, richiamate da
Maria Clara Ghia, sono emblematiche. Si suggerisce di non cedere alla
compassione di fronte all’immagine del bambino morto sulla spiaggia,
per paura che la compassione ci faccia sentire innocenti, mentre non
lo siamo e dunque chi guarda quell’immagine deve sentirne la responsabilità. È lo schema della cultura progressista occidentale. Anche qui
niente di nuovo, direi.
Il cristianesimo, invece, normalmente non è pensato. Dunque a me
pare che il pensiero inteso come il più tradizionale sia ancora oggi in effetti il più nuovo. Ed il suo scandalo perdura. Il Messia cristiano ha dato
all’uomo uno statuto nuovo, per il quale egli non deve più aspettarsi la
salvezza dall’esterno. Egli non è venuto a indicarci la distanza da Dio,
ma la sua vicinanza, di più, la sua consustanzialità con l’anima dell’uo-
mo. Dopo Cristo l’uomo è cambiato: possiede ormai in sé la via della
sua salvezza, della reintegrazione, della uscita dalla alienazione, della
cancellazione della colpa. La partita si gioca nell’interiorità di ciascuno
e non nella storia. La quale guardata con certi occhi è, sì, un cumulo di
macerie. Lo è in quanto storia umana, in quanto storia della alienazione umana, storia della caduta. Dove a noi appare una catena di eventi,
l’angelo vede una sola catastrofe.
L’arte contemporanea ha spesso messo in scena le macerie, il cumulo di rifiuti. Da un lato, in questo, c’è la critica al consumismo, il
rovesciamento dei valori borghesi, o la metafora dell’arte stessa come
rifiutata, oppure la contestazione della attribuzione di valore entro il
meccanismo del mercato, a ciò che non ne ha nessuno; ma in un altro
senso c’è, ci può sempre essere, l’evocazione dello sguardo dell’angelo
di Benjamin, che vede la catastrofe dove noi vediamo una catena di
eventi. L’angelo ha compassione per il cumulo di relitti, ma non può
scendere a ricomporli a ridargli vita, perché la redenzione non è il recupero ma la trasformazione radicale che irrompe con il Messia.
«Le cose di prima sono passate. Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
È annunciato nell’Apocalisse.
Ed in questo qualcosa resta distrutto, tutto è distrutto e tutto prende
nuova vita. Come ho già detto l’attesa dell’ultimo giorno passa dall’ebraismo al cristianesimo, ma in quest’ultimo c’è la novità, l’annuncio
che in ogni attimo è possibile ascoltare le stesse parole «ecco, io faccio
nuove tutte le cose». In ogni attimo la vita salva dalla morte.
Il riferimento alle distruzioni operate dall’Isis e dai Talebani, che è
in effetti il più diretto nella nostra attualità, con tutta la sua drammaticità non basta a toglierci, quando parliamo di distruzione, l’abitudine
a pensare in primo luogo alla distruzione di cui si macchia la società
industriale dell’occidente, non possiamo non pensare alle colpe del primo mondo. Queste colpe sono, evidentemente, così gravi, da legittimare, persino – nella loro mente – le scelte dei foreign figthers. Ed è nota
la teoria circolante secondo la quale le torri gemelle se le sono buttate
giù gli americani da soli.
Siamo di fronte dunque ad almeno due forme della distruzione:
quella che il modo di sviluppo occidentale imprimerebbe al mondo
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intero, per cui si parla di distruzione globalmente in atto; e gli atti di
distruzione che praticano oggi proprio quelli che – secondo loro –
combattono contro la distruttività dell’occidente. Le distruzioni dei
fondamentalisti islamici sono distruzioni compiute in nome del sacro.
Quella compiuta dall’occidente sarebbe invece proprio la conseguenza
del tramonto del sacro. Per i fondamentalisti islamici l’occidente è Satana proprio perché ha soppresso il sacro. Essi non combattono contro
la nostra religione (farebbero anche quello, beninteso), ma contro la
nostra assenza di religione. Il che configura la loro azione ai nostri occhi anche come una guerra contro la libertà e ci mostra come il sacro
sia mortifero quanto la sua presunta cancellazione. E che quindi è un
tema da cui allontanarsi. Gli idoli materialistici o trascendenti finiscono
sempre nella distruzione.
Resta il fatto che chi distrugge uccide, e questa mi pare la questione
essenziale. Alle domande sulla possibilità di salvarsi facendo, di Maria
Clara, o alla preoccupazione di Roberto sul che fare con le tracce, i
resti, della distruzione, mi pare si possa rispondere solo se il tema della
distruzione si muta in quello della distinzione tra ciò che è morto e ciò
che è vivo. Il nostro mestiere non c’entra con la distruzione perché a
noi è sempre chiesto di dar vita a qualcosa, anche quando il materiale
da usare è ciò che resta di una distruzione, noi, sempre, se operiamo,
operiamo per dare vita ad uno spazio che sarà abitato, percorso, vissuto; e perché qualcosa viva nella vita di chi la userà, la vedrà anche
senza guardarla con attenzione, o gli passerà solo accanto, fin a quando
anche quella diventerà macerie. E rammentare questo è l’unica cosa
che possiamo fare.
Le macerie si accumulano davanti agli occhi dell’angelo ed egli non
può che abbandonarle perché è chiamato da una nuova vita (penso
io…).
R.S. Caro Massimo, le tue parole hanno il potere di scuotermi e di
interrogarmi come sempre (e sono quasi quaranta anni che ci parliamo). Ora mi domando: seppure ciascuno compie lo sforzo di ripensarsi
e di riguadagnare per sé la reintegrazione nella vita come persona, se
pure lavora per riguadagnarsi una dimensione umana, come può anche
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P.G. La distruzione globale si distingue dalla distruzione puntuale:
la prima è «quella che il modo di sviluppo occidentale imprimerebbe
al mondo intero, per cui si parla di distruzione globalmente in atto»
(Emery, 2011); la seconda emerge dagli «atti di distruzione che praticano oggi proprio quelli che – secondo loro – combattono contro la distruttività dell’occidente», ovvero quella propria del fondamentalismo
islamico. Resta per entrambe «il fatto che chi distrugge uccide», ovvero
che la distruzione è, come ho inizialmente sottolineato, sempre un atto
di violenza. Ne conseguono, a mio parere, due aspetti:
1) l’architetto in quanto produttore di opere, di artefatti, in quanto
progettista, non può mai deliberatamente distruggere: progetto e distruzione appaiono termini conflittuali e antitetici. Tuttavia, attraverso
la «demolizione» (fisica e metaforica) può liberarsi da vincoli storici,
contestuali, culturali… Può demolire idee, oltre che il patrimonio fisico al quale si rapporta (positivamente o negativamente). In questo
senso la demolizione (più che la distruzione, che è sempre violenza,
consapevole o meno) può consentire nuovi e diversi gradi di libertà,
è necessaria e serve a rinnovare. Non a caso, mi ripeto, Derrida usò il
termine «decostruzione» piuttosto che «distruzione» e nel Metapolis
Dictionary of Advanced Architecture (2003) non esiste il termine destruction o destroying, ma solo demolish, dove «demolition is sometime
as destructive as building», le demolizioni – si legge – possono essere
strategiche in rapporto alla proiezione futura del risultato.
2) L’opera di distruzione, attribuibile anche agli architetti – ma assai
di più alla politica e all’economia (secondo me) – è quella che attiene alla distruzione globalmente in atto, ovvero al lento processo che
ha portato alla in-sostenibile condizione attuale, al debito che le generazioni passate hanno contratto rispetto alle generazioni future. Un
dramma – una tragedia – quindi, molto più ampia al quale noi, come
architetti (ma innanzitutto come persone che vivono oggi in questo
pianeta) abbiamo il dovere di rispondere, secondo una responsabilità
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trasferire questo all’Altro, come agire perché questo si faccia azione
concreta sul mondo, per opporsi all’autodistruzione in cui comunque
è trascinato?
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che è innanzitutto quella di «dare vita a uno spazio che sarà abitato»
da generazioni diverse dalla nostra: generazioni future. La distruzione
in atto è la condizione che ci dovrebbe portare verso nuovi livelli di
responsabilità (morale, civile, professionale). In questo processo noi architetti dovremmo partire dalla consapevolezza della distruzione attuata e in corso (del pianeta, della natura, persino – eventualmente – del
sacro) per tentare di operare una riconversione, allontanandoci dalla
distruzione per ri-costruire.
In questa ri-costruzione possiamo – anzi dobbiamo – utilizzare anche i resti, le tracce, le scorie rimaste, non solo perché dobbiamo imparare a riciclare ciò che esiste (fin dove è possibile oggi riciclare), ma
anche perché essi sono la testimonianza di ciò che abbiamo lasciato (e
spesso sperperato).
Un esempio fra i molti: la riconversione delle aree industriali dismesse, avvenuta spesso attraverso una cancellazione (demolizione) totale dei manufatti, una «distruzione» di un pezzo di storia legata a un
modello di organizzazione del territorio per grandi aree specializzate
ormai superato. Dovremo chiederci se la «ri-naturalizzazione» di queste aree (come per i bacini estrattivi della Ruhr) o la ricostruzione di
intere parti di territorio (come per i Docks di Londra)… siano l’unica
soluzione possibile. Se oggi, in un periodo di così grave crisi economica (oltre che politica e morale), l’azione prepotente e lungimirante del
soggetto pubblico (spesso pubblico e privato insieme) capace di grandi
investimenti abbia ancora senso, soprattutto se sia ancora fattibile. Se
non sia invece il caso di procedere per gradi, per azioni più misurate
che tengano in conto anche quelle presenze (ingombranti) che hanno
strutturato pezzi di città.
Vivendo a Torino, mi accorgo di quanto questo problema sia importante: troppe le aree de-industrializzate in cerca di nuove identità. Ma
l’identità si trova cancellando la storia?
La demolizione praticata è in questo caso strumento di distruzione
di culture, storie, identità. Ha ragione Roberto: una distruzione fisica
è sempre anche una distruzione del vissuto e della sua memoria e le
distruzioni dell’Isis sono un messaggio terribile. Ciò che si è demolito
NON si può ricostruire; ciò che è stato distrutto da una guerra, da
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M.R. Mi sembra di concordare con quello che dice Paola Gregory.
Il progetto e la distruzione sono termini antitetici. La demolizione è
altro dalla distruzione. Come ho già detto: chi demolisce pensa a ciò
che costruirà, chi distrugge pensa a ciò che distrugge perché ne vuole
l’annullamento. Dunque la demolizione non ha l’obiettivo di uccidere,
ma di dar vita a qualcosa di nuovo. Essa non è violenta come la distruzione perché questa implicazione gli è estranea.
La demolizione è compatibile col progetto, è una parte del processo
di costruzione: è difficile che la realizzazione di un intervento di costruzione non passi attraverso la demolizione di tutto o di una parte di ciò
che gli preesiste. È difficile, e direi sempre più difficile, se è vero che
l’idea di risparmio di suolo e di rigenerazione dell’esistente in termini
di maggiore sostenibilità (ovvero di minore distruttività) ci consigliano
ormai di intervenire sull’edilizia esistente appunto, di sostituire e di riqualificare, piuttosto che di progettare in espansione. Tra l’altro questa
inversione è ormai acquisita nella cultura degli architetti, e sta diventando uno slogan persino del linguaggio politico e informa già, seppur mo-
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un cataclisma naturale, secondo me si potrebbe ricostruire, almeno in
parte. Uso il condizionale, perché in alcuni casi la distruzione (involontaria) può segnare anche la fine di un’epoca: lo disse Churchill nel
1936 a proposito della distruzione del Crystal Palace a causa di un incendio. Ma, potremmo dire, il Crystal Palace anche distrutto è rimasto
nel nostro immaginario, nella nostra cultura, traccia immateriale di una
modalità operativa che ha continuato a sussistere nelle esperienze più
recenti (come l’high-tech). Si possono perciò trattenere materialmente
le tracce di ciò che resta nel nuovo, ma il nuovo può anche sorgere dalle tracce immateriali del passato, vivificate nel presente. In tutti i casi
il passato, quello importante (dove l’importanza attribuita al passato
dipenda evidentemente da noi, dalla nostra cultura…) deve essere sollevato dal presente per scivolare verso il futuro.
In questo senso, gli sventramenti fascisti furono senza dubbio distruzione (quelli sì) di un presente per ricordare-immortalare-museificare… un passato glorioso, mentre a volte si ricorda – paradossalmente
– per dimenticare…
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destamente, la normativa (vedi la Valutazione di impatto ambientale,
la Valutazione di incidenza ambientale, la Valutazione ambientale strategica, la tutela delle reti ecologiche, le direttive europee sulla qualità
delle acque, ma anche solo i Piani di assetto idrogeologico e non ultimi
i Piani paesistici, che sono ormai cose imprescindibili nonostante i conflitti che generano e alcune volte la sciatteria con cui sono elaborati).
Per quanto riguarda l’Italia questo significa che la distruzione c’è stata
e spaventosa, è iniziata con il boom degli anni Sessanta, è proseguita
fino al 1967 senza ostacoli di legge e poi è andata avanti fuori legge fino
al 1984. Da quel punto in poi l’invasione abusiva del territorio ad es.
non si è fermata ma è stata condonata e questo per tre volte, nel 1984,
nel 1997, nel 2003, ingenerando negli italiani la convinzione di poter,
in attesa del prossimo condono, agire tranquillamente fuori legge. La
distruzione c’è stata dunque e ce ne sono gli effetti, ma non direi che
prosegue, almeno non con il vigore e l’impunità che ha avuto in passato. La cultura del territorio, del paesaggio, delle risorse naturali, del
risparmio energetico, del riutilizzo, del recupero, della rigenerazione,
dell’assetto idrogeologico del paese, della sostenibilità di ogni intervento sono ormai pane quotidiano di chi fa il nostro mestiere. Questo
non significa che non si debba fare molto meglio e molto di più, né che
non ci siano spinte continue ad aggirare la norma, ma anche queste
tendono a scemare e negli ambienti più evoluti anche gli imprenditori
hanno capito che sostenere questa inversione di rotta rispetto agli anni
della distruzione può essere conveniente. Per non parlare della grande
quantità di prodotti edilizi e di materiali ecocompatibili che l’industria
mette continuamente sul mercato.
Mi pare dunque che limitatamente al nostro angolo visuale, e alle
vicende italiane (che però se ci limitiamo alle nazioni avanzate sono le
peggiori del mondo), la tendenza alla distruzione è stata invertita. Questo non significa che il nostro territorio è guarito, perché resta stravolto, ma almeno che non è più attaccato quanto negli anni della industrializzazione e della «cementificazione». E il nostro lavoro è già cambiato.
Persino le occasioni di lavoro sono oggi più possibili nel campo della
riconversione, della rigenerazione, della introduzione di sostenibilità
dove è possibile. Certo non c’è ancora un grande piano nazionale per
la rigenerazione del territorio e delle città italiane, non c’è ancora una
grande prospettiva di impegno per quei poveri 150.000 architetti che
combattono ogni giorno per sopravvivere l’uno contro l’altro e contro
altrettanti ingegneri e geometri coi quali devono contendersi lo stesso
campo e che invece potrebbero essere una risorsa importante (sempre ammesso che abbiano imparato qualcosa nelle scuole da dove sono
usciti). Ma per questo ci vogliono delle leggi, e come vedete si passa
alla politica.
Circa poi la responsabilità degli architetti nella distruzione del paesaggio italiano, ricordo che tempo fa nel congresso nazionale dell’Ordine degli Architetti – mi pare a Palermo – fu reso noto il reddito medio
degli iscritti il quale ammontava a 26.000 euro annui lordi. A me venne
un’idea provocatoria: un convegno e un grande cartellone in cui si vedessero da un lato una massa di architetti e fosse stampato in grande
il loro reddito annuo e dall’altro un collage di immagini del territorio
italiano devastato dalle costruzioni, e sotto a tutto una didascalia che
spiegasse: Evidentemente questi (gli architetti) non hanno fatto questo
(l’invasione di cemento del territorio italiano). Non feci il cartellone né
il convegno, ma la realtà è questa.
Ma a parte queste considerazioni di ordine pratico, che comunque è
bene tenere a mente, resta il fatto che io non vedo come distruzione e
progetto possano essere implicati l’uno nell’altro, a meno di non avere
di «progetto» una nozione estesissima come quella di «azione umana»
e di distruzione una nozione altrettanto estesa come quella di «effetto
inevitabile dell’azione umana sulle cose». Poi se da un approccio così
astratto e generale si passa a storicizzare, allora la distruzione non può
che essere intesa come la conseguenza del progetto di organizzazione
del mondo che è prevalsa negli anni del secondo dopoguerra. In sostanza del progetto della modernità. All’interno della quale nozione rientra
certo anche il progetto di architettura, ma essa è più vasta e più seria
perché ricomprende l’uso della bomba atomica, l’esclusività del reperimento dell’energia dal petrolio, la scoperta della plastica e la sostituzione totale di questa ai materiali naturali e biodegradabili, l’unicità della
industrializzazione come orizzonte di sviluppo, ecc. Ma si deve anche
dire che quella modernizzazione, se ebbe subito i suoi critici (es. Il Club
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dialogando
Un dialogo intorno alla distruzione
dialogando
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Roberto Secchi, Massimo Rosolini, Paola Gregory e Maria Clara Ghia
di Roma, ma ad esempio non il PCI), rappresentò per il mondo di allora
una speranza di massa, e quanto questa fosse malintesa si seppe solo
molto più tardi. Oggi che parliamo di distruzione globalmente in atto ne
siamo consapevoli, ma dobbiamo anche dire che non è più l’Europa il
rischio perché questo si è spostato altrove, ad esempio in Cina. O forse
nei paesi della ex Unione Sovietica. In cui mi pare che stiano a loro turno effettuando la distruzione mascherata di modernizzazione.
Io non credo che l’architetto in quanto tale possa assumersi la responsabilità della distruzione. Non lo è più di qualunque altro in quanto partecipe di una cultura generale che ha sottovalutato gli effetti distruttivi della modernizzazione quando questo è avvenuto; non lo è in
se stesso perché egli è chi costruisce, e semmai ricostruisce dopo e in
alternativa alla distruzione; non lo è perché progettare è sempre un
fare che implica un grado di consapevolezza, un elemento di pianificazione del fare stesso a vantaggio della civiltà umana nella quale si
opera. Ci potrà essere stato chi ha cinicamente accompagnato forme
di colpevole speculazione, ma questo appartiene al malaffare non all’identità dell’architetto in quanto tale. La distruzione è connessa come
conseguenza ampiamente imprevista con un modello di sviluppo, non
con l’architettura, anche se ovviamente l’architettura ha partecipato a
quel modello di sviluppo. E a guardare bene neanche questo è così vero
perché gli architetti, negli anni Sessanta e Settanta, proprio in virtù del
fatto che il progetto impone in se stesso una coerenza interna che mal
si adatta al fare puramente mercantile e speculativo, furono i maggiori
critici dello sviluppo capitalistico e rappresentarono una categoria che
più di altre mostrò una consapevolezza della potenziale distruzione in
quel modello di sviluppo. Se poi associare gli architetti alla distruzione
significa aderire alla vulgata che li vuole distruttori della città tradizionale perché autori di «Mostri» come sarebbe Corviale ad esempio, e
prima delle borgate del dopoguerra, o addirittura semplicemente di
edifici «moderni», è chiaro che non ci siamo proprio. È ovvio che non
si tratta di questo, ma anche guardarsi dai malintesi è opportuno.
P.G. Caro Massimo concordo in tutto. A sostegno del fatto che oggi
(ormai da diverso tempo) ci sia stata un’inversione di tendenza che
Un dialogo intorno alla distruzione
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sempre più ci allontana dalla «distruzione», vorrei riportare un concetto espresso da Zagrebelsky nel suo intervento Patto generazionale a
Modena, un concetto – secondo me – chiave per quello di cui stiamo
discutendo, che ben evidenzia il cambiamento di passo del nostro presente rispetto alla modernità e ai suoi modelli rivoluzionari, e quindi «distruttivi». Richiamando Weber, Zagrebelsky sottolineava che la
responsabilità (relativamente al tema dei «diritti» delle generazioni
future, tema etico, non giuridico-costituzionale) può essere declinata
secondo due etiche: l’etica della convinzione e l’etica della conseguenza. La prima è propria delle generazioni giovani che agiscono in nome
delle proprie convinzioni senza curarsi delle conseguenze; la seconda è
propria dell’età adulta (anzi egli si riferiva esplicitamente alla vecchiaia,
pur con tutte le difficoltà di definire esattamente quando si diventa
«vecchi») nella quale la maggior esperienza porta a valutare in prima
istanza le conseguenze prodotte dall’azione. La prima etica è quella
della modernità; la seconda – mi sembra – è quella dell’epoca attuale:
post-modernità o come preferite chiamarla. Non possiamo tornare indietro…
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