CONTRIBUTI E PROPOSTE
Collana di letteratura italiana
diretta da Mario Pozzi e Enrico Mattioda
85
Volume pubblicato con i contributi dei laboratori CECILLE dell’Università
Charles-de-Gaulle Lille 3 e CHER dell’Università di Strasburgo.
Comitato scientifico
BENEDICT BUONO (Universidade de Santiago de Compostela)
JEAN-LOUIS FOURNEL (Université de Paris 8)
GIUSEPPE LEONELLI (Università di Roma 3), PAOLO TROVATO (Università di Ferrara)
CARLO VECCE (Università di Napoli «L’orientale»), SABINE VERHULST (Universiteit Gent)
I volumi pubblicati nella Collana sono sottoposti a un processo di peer review
che ne attesta la validità scientifica
La nazione a teatro:
la scena teatrale italiana tra
Rivoluzione e Risorgimento
Atti della giornata di studi (22 novembre
2011, Université Charles-de-Gaulle Lille 3)
a cura di
Camilla Cederna e Vincenza Perdichizzi
Edizioni dell’Orso
Alessandria
© 2015
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perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41
ISBN 978-88-6274-571-0
Indice
Camilla Cederna – Vincenza Perdichizzi
Introduzione
1
Eva Susenna
“Il più bel fiore del teatro giacobino”. Caio Gracco de Vincenzo Monti
5
Camilla Cederna
Tra dramma e commedia: traduzioni, tradimenti, oscillazioni nel dibattito
sul teatro sulla “Biblioteca Italiana” e dintorni (1816-1830)
21
Grazia Melli
Il Conte di Carmagnola tra Fauriel e Sismondi
43
Giorgio Panizza
Liberare gli italici: il percorso dell’Adelchi
65
Piermario Vescovo
“Un sipario scolorato”. L’Italia, Venezia, la Storia e l’immaginazione
teatrale in Ippolito Nievo
81
Vincenza Perdichizzi
“Sotto il velame degli antichi eventi”. Le théâtre de Giambattista
Niccolini
99
Elodie Cornez
La repubblica di un solo giorno de Marco Baliani: une étape romaine
du Risorgimento sur la scène contemporaine
129
Introduzione
Il presente volume raccoglie gli atti della giornata di studi La nazione a teatro: la scena teatrale italiana tra Rivoluzione e Risorgimento, svoltasi
all’Università Charles-de-Gaulle Lille 3 il 22 novembre 2011, nell’ambito delle
celebrazioni per i 150 anni dell’Unità italiana. L’importanza del teatro nel
dibattito sull’identità nazionale e nella diffusione degli ideali risorgimentali è
ampiamente ammessa, al punto che nell’immaginario comune il melodramma
verdiano assurge a simbolo del patriottismo ottocentesco, ciononostante la ricostruzione dello sfondo culturale in cui si situano e con cui dialogano le opere
maggiori risulta frammentaria. Rimangono infatti poco studiati autori protagonisti dell’epopea risorgimentale, estromessi dal canone letterario odierno, come
Giambattista Niccolini ed Alberto Nota, oppure testi riscoperti dalla critica in
tempi recenti, come le commedie e le tragedie di Ippolito Nievo, eclissate dalle
Confessioni, benché l’autore protragga l’impegno nella produzione teatrale ben
al di là degli anni giovanili. Ancora da esplorare per molti versi sono anche i
rapporti fra la Rivoluzione francese e il Risorgimento, per cui sul riconoscimento della continuità ha prevalso a lungo il paradigma della rottura, favorito
in un primo tempo dalla storiografia nazionalistica, volta a dimostrare le origini
autoctone dei moti per l’indipendenza nazionale. Eppure è proprio negli ultimi
anni del Settecento, durante l’occupazione napoleonica, che vengono elaborati i
primi progetti di unificazione della penisola, frutto della collaborazione fra i
neogiacobini francesi e i patrioti italiani, e trovano un’eco immediata negli
spettacoli teatrali. Questi ultimi, infatti, reagiscono al rapido succedersi degli
eventi e, attraverso la trasfigurazione letteraria, propongono un’interpretazione
del presente e al tempo stesso contribuiscono a modellarlo. Lo illustra il contributo di Eva Susenna sul Caio Gracco del Monti, in cui il tema della libertà si
declina in rapporto alle rivendicazioni politiche, sociali ed economiche dibattute nella Repubblica Cisalpina, sottraendosi all’assolutizzazione acronica caratteristica della tragedia classicistica. Parallelamente, nel corso del processo
redazionale, l’autore si emancipa dall’individualismo del modello alfieriano,
per concedere maggiore spazio alla rappresentazione della folla, preannuncio
della coralità del teatro ottocentesco, che trova corrispondenza nell’allargamento del pubblico. Se infatti, come nota la studiosa, nella teorizzazione di Diderot
e d’Alembert “l’éducation aux vertus morales et civiles concernait presque
2
CAMILLA CEDERNA
– VINCENZA PERDICHIZZI
exclusivement une classe sociale – la bourgeoisie – à partir de la Révolution
française l’éducation civique et patriotique doivent intéresser toutes les classes
qui composent la société”.
La funzione pedagogica del teatro, sempre più marcata in senso ideologico e
politico, è condivisa dagli autori delle generazioni successive, che adottano a
loro volta la metafora settecentesca della «scuola» (e, come ricorda Piermario
Vescovo, Nievo continuerà a considerare il teatro il “liceo del popolo”, pur non
astenendosi da ripensamenti satirici sulle sue modalità e sulla sua efficacia).
Non prescindono da questa valutazione le riflessioni di Manzoni, nel tentativo
di conciliare la promozione del teatro operata dalla cultura illuministica – la cui
eredità è raccolta dagli Idéologues, a partire dal suo interlocutore Fauriel – e la
condanna cattolica, in un percorso che approda alla celebre contestazione delle
unità aristoteliche nella lettera allo Chauvet. L’analisi proposta da Grazia Melli
mostra per l’appunto come, dopo la conversione, Manzoni incoraggi l’apertura
della religione alle verità acquisite in ambito secolare e faccia appello alla
mediazione degli intellettuali, a cui la dovuta imparzialità impone lo svincolamento dai condizionamenti del potere. La stessa esigenza etica motiva la scrupolosità del Manzoni nei confronti della storia e del suo utilizzo nelle opere di
finzione. La rigorosa adesione al vero, prima del ripudio del romanzo, determina l’insoddisfazione per Adelchi, il cui protagonista, come rileva Giorgio
Panizza, “ha finito per essere portatore di un’idea troppo moderna”: il principio
egualitario come fondamento della nazione, che nel dramma sottende il progetto di fusione fra i Longobardi vincitori e gli Italici vinti. Tale proposta, erede
diretta delle conquiste della Rivoluzione francese, coesiste con la concezione
naturalistica dell’identità nazionale, circoscritta alla comunità di sangue, e a sua
volta oggetto di un’articolata rappresentazione simbolica cui contribuisce anche
la letteratura, come hanno mostrato le ricerche di Alberto Mario Banti. Per
esempio, il tragediografo Niccolini reinterpreta in tal senso il tema classico dell’incesto, per cui, nel suo Giovanni da Procida, la perversione delle leggi naturali è originata da cause storiche, anziché metafisiche: la violenza dei dominatori stranieri che contaminano i legami di sangue. Ne consegue che il progetto
di fratellanza cristiana fra i popoli, vagheggiato da uno dei personaggi, si rivela
irrealizzabile fino a quando non avrà fine l’ingiusta occupazione francese, che
allude a quella austriaca presente. Anche nel teatro di Niccolini si verifica dunque quell’attualizzazione della tragedia riscontrata per Monti e Manzoni, che
non sfugge alla repressione della censura, malgrado il “velame” interposto
dalla regressione cronologica delle vicende rappresentate. E mentre Manzoni si
riserva il “cantuccio” dei cori per non lasciare che l’interpretazione ideologica
dei suoi drammi si dirami nella polifonia statutaria del genere, Niccolini ricorre
a un folto apparato di note, in cui, dietro lo schermo dell’erudizione storica,
amplifica la propaganda patriottica.
INTRODUZIONE
3
Nell’esorbitanza del paratesto sul testo, come nell’intrusione della voce
autoriale si possono individuare le spie della crisi del genere, rilevabili anche
negli esperimenti tragici di Ippolito Nievo, in cui – osserva Vescovo – le
ingombranti didascalie connotano una “scrittura vistosamente sbilanciata verso
la narrazione”. All’idealizzazione tragica subentra però la disillusione comica e
Pindaro cede la scena a Pulcinella, nella denuncia dell’arretratezza della società
italiana, a Venezia come nel Meridione ancora corrispondente al penetrante
ritratto delle commedie goldoniane. Queste costituiscono il principale riferimento anche per gli autori che all’inizio del secolo si interrogano sulla fondazione di una commedia nazionale, animata da un progetto pedagogico che, seppur distante dalle alte finalità della tragedia, si impone per la maggiore popolarità del genere. Per quanto il drame sentimental d’Oltralpe venga screditato per
i suoi eccessi e inverosimiglianze, la mescolanza di serio e faceto, che determina l’evoluzione verso il dramma borghese teorizzato da Diderot, caratterizza le
opere contemporanee anche di autori, come Alberto Nota, che rivendicano la
fedeltà alla commedia tradizionale. Peraltro la stessa Madame de Staël, invitando gli italiani alla traduzione degli autori stranieri moderni, non mancava di
deplorare il successo del drame sentimental: la sua promozione nel famoso articolo apparso sul primo numero della “Biblioteca Italiana” si rivela in realtà l’esito di una manipolazione della traduzione del Giordani, che contribuisce così a
polarizzare i termini della polemica fra classicisti e romantici.
Il dibattito sul Risorgimento prosegue nel teatro contemporaneo che, sotto
nuove forme, ne ripropone in parte i termini, come mostra il contributo di
Elodie Cornez su La repubblica di un solo giorno di Marco Baliani. Il progetto
di riattivare la memoria collettiva ripercorrendo il patrimonio storico comune,
rivissuto attraverso il “corpo narrante” dell’attore, non prescinde dalla simbologia cristiana che aveva già caratterizzato le opere ottocentesche né dal ricorso
alle maschere della commedia dell’arte. Tuttavia la rappresentazione del popolo che aveva cominciato a porsi nel teatro giacobino e nel dramma romantico
giunge a compimento, in quanto quegli umili esclusi dal resoconto storico, su
cui si interrogava Manzoni, diventano ora protagonisti in una drammaturgia
che, privilegiando la coralità e la simultaneità, traduce formalmente i presupposti ideologici democratici ed egualitari alla base della ricerca sperimentale di
Baliani.
Camilla Cederna
Vincenza Perdichizzi
Giorgio Panizza
Liberare gli italici: il percorso dell’Adelchi1
Chiusa la sua prima tragedia, il Conte di Carmagnola, nel settembre del
1819, raggiunta finalmente Parigi subito il mese successivo, mentre a Milano si
procedeva con la stampa nella primavera del ’20, Manzoni, pur lavorando al
proprio testo teorico nato in risposta alla recensione di Victor Chauvet, pensa
molto presto a una nuova tragedia, la cui composizione inizierà, tornato a
Milano, nel novembre del 1820. La rapidità dei tempi potrebbe essere interpretata in modi diversi. Ma che la seconda prova drammaturgica di Manzoni fosse
concepita e avviata subito a ridosso della prima a mio parere conferma quello
che dicono anche considerazioni interne ai testi. Il Carmagnola era stato per lo
scrittore milanese un risultato molto convincente in una ricerca come la sua,
che, esigentissima, in continuo movimento, bruciava e abbandonava senza
rimorso i modelli che l’esperimento dimostrava fallimentari. Un risultato dunque tanto persuasivo, da pensare con l’Adelchi di seguire subito la medesima
strada.
Nel Carmagnola lo svolgimento del dramma offre allo spettatore, o meglio
al lettore, la possibilità di riflettere su come, nell’inevitabile mescolarsi di passioni che motivano l’agire dell’uomo, lo scontro con un contesto ostile e alla
fine fatale possa trasformare e indirizzare quelle passioni, possa anzi depurarle,
1
Questo intervento sull’Adelchi fa seguito a una «prima parte», alla quale rinvio: Dopo la
sconfitta: la proposta del «Carmagnola», letta al convegno La chute du Royaume d’Italie et son
influence sur la culture du Risorgimento en Italie et Suisse (Tours, 21-22 ottobre 2010), i cui atti
sono nel frattempo usciti (“sous la direction de F. Bouchard et T. Crivelli”, Paris, Le manuscrit,
2013). Ho ripreso e riunito il contenuto dei due interventi in Le due tragedie e l’idea di nazione,
in L. Danzi e G. Panizza (a cura di), Immaginare e costruire la nazione. Manzoni da Napoleone a
Garibaldi, Milano, il Saggiatore, 2012, pp. 87-101; il volume è uscito in occasione della mostra
con lo stesso titolo organizzata presso la Biblioteca Braidense di Milano (8 marzo-17 maggio
2012). Una sera di molti anni fa, una sera di festa familiare a Ponte Valtellina, Antonio Cederna,
circondato da giovani studiosi di letteratura, insofferenti di molte cose, rinnovava a memoria la
poesia di Ermengarda. Dedico al suo ricordo, al suo rigore di lombardo manzoniano, queste
approssimazioni, felice di averne avuto l’occasione grazie alla giornata di studi dedicata al teatro
e al Risorgimento organizzata presso l’Università di Lille.
66
GIORGIO PANIZZA
far scoprire all’individuo dentro di sé il loro contenuto più positivo e più alto:
come nel Riccardo II di Shakespeare, così nel protagonista, celebre capitano
mercenario dell’Italia quattrocentesca. L’efficacia morale dell’esempio sta
nella verità storica delle azioni rappresentate, di cui la poesia «divina» i
moventi interiori, consegnando al pubblico non l’esempio fittizio di risoluzioni
inventate e giocate a tavolino, come tali inutilmente consolatorie, ma esempi
reali, condivisibili. Secondo il chiarimento che nella Lettre à M.r C. si va definendo tra Manzoni e Fauriel appunto nel tempo dell’Adelchi, e che conclude
con quella ripartizione di compiti ben conosciuta, tra la storia che espone i fatti,
“des événemens qui ne sont, pour ainsi dire, connus que par leur dehors”; e la
poesia drammatica che rifiuta di inventare fatti, ma mette in scena “ce que les
hommes ont senti, voulu et souffert par ce qu’ils ont fait”; rivela insomma gli
attori storici nelle loro individualità soggettive.
Nella sua composizione la seconda tragedia fallisce proprio nel rispetto di
questo assunto. Manzoni se ne rende conto quando è ormai arrivato ben dentro
l’ultimo atto, a pochi passi dalla fine, come a quel punto dichiara sull’autografo
di quella che sta per diventare la prima stesura, riferendosi ai quasi duecento
versi già scritti dell’atto quinto: “Scartare tutto e rifar l’atto in modo più
conforme alla storia”; e come di conseguenza ripete a proposito di un’altra
lunga porzione dell’atto primo: “omettere tutta la parte cancellata perché non
ben legata all’azione né storica”2. Il rifacimento del dramma prova a reagire a
queste difficoltà, ma Manzoni porta a termine il nuovo Adelchi senza essere
riuscito a superare il problema: “Per ciò che riguarda la parte morale, si è cercato di accomodare i discorsi dei personaggi alle azioni loro conosciute, e alle
circostanze in cui si sono trovati”; così spiegano le Notizie storiche allegate
all’edizione del testo, nel pieno rispetto del programma della Lettre; ma aggiungendo:
Il carattere però d’un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca
affatto di fondamenti storici: i disegni di Adelchi, i suoi giudizj sugli eventi, le
sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso fra i
caratteri storici, con una infelicità, che dal più difficile e malevolo lettore non
sarà certo così vivamente sentita come lo è dall’autore3.
2
Per la ricostruzione e la documentazione della storia del testo nelle sue varie stesure si veda
l’edizione critica a cura di I. Becherucci, Firenze, Accademia della Crusca, 1998; ad essa ci riferiamo per le citazioni; per queste note manzoniane vedi pp. 35 e 154.
3
A. Manzoni, Adelchi, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Venezia,
Marsilio, 1992, p. 82.
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
67
È il fallimento del percorso tragico nell’unico binario che Manzoni accettava. Una crisi interna al modello, che negli stessi mesi dell’Adelchi saggia infatti, lo sappiamo bene, la strada nuova del romanzo, benché sempre more manzoniano.
Per quale motivo l’Adelchi è fallito? L’affermazione delle Notizie storiche è
già chiara, ma spiegata più ampiamente nella confessione che Manzoni scrive a
Fauriel:
Puisque je vous ai dit que ma tragédie d’Adelchi était terminée, sauf révision, il
faut que je vous dise aussi que je n’en suis pas content du tout, et si dans cette
vie si courte, on sacrifiait des tragédies, celle-ci n’échapperait pas à la suppression. J’ai imaginé le caractère du protagoniste sur des données historiques que
j’ai crû fondées, dans un temps où je ne conaissais pas encore assez l’aisance
avec la quelle on traite l’historie, j’ai bâti sur ces données, je les ai étendues, et
je me suis aperçu qu’il n’y avait rien en tout cela d’historique, lorsque mon travail était avancé. Il en resulte une couleur romanesque, qui ne s’accorde pas
avec l’ensemble, et qui me choque moi-même tout comme un lecteur mal disposé4.
Già nella prima forma del dramma, che Manzoni realizza tra il novembre
1820 e l’agosto del 1821, fin dalle prime scene, che riguardano l’arrivo a Pavia
di Ermengarda ripudiata e le reazioni di Desiderio e Adelchi, si impianta lo
scontro tra il re e suo figlio, l’opposizione di due punti di vista. Ma in questa
prima forma, come è noto, al momento in cui Desiderio prospetta i disegni di
vendetta verso Carlo, del cui esito vittorioso si sente sicurissimo, e nei quali è
compresa la definitiva conquista dei territori romani, Adelchi manifesta una
riluttanza che è segno di una consapevolezza diversa. Rifiuta l’accusa per lui
sempre infamante di vigliaccheria, perché propone una via “intentata” (I, 281),
un’impresa “Ardita / Ma necessaria ormai, di rischi piena, / Ma di salute, ma
d’onor non meno / Che di pietà” (I, 332-335). Propone l’alleanza dei
Longobardi con i Latini, unica strada che, nella condizione di scarsezza numerica e di debolezza del suo popolo, possa garantire la vittoria sui Franchi. Una
“tempesta” solleva la proposta nel pensiero di Desiderio, perché ne riconosce
l’impensato ardimento: è un “alto disegno”, che fa onore al figlio; ma è ai suoi
occhi un’avventura folle, la pretesa di “mutar il fato delle genti”, di “deviar la
forza dal corso antico”, un’opera che è “morte” solo a tentarla. “Splendido”,
ma “sogno”: uno “splendido sogno giovanil” (I, 403 sgg.). Adelchi non demor-
4
Lettera del 3 novembre 1821, in Carteggio Alessandro Manzoni – Claude Fauriel, a cura di
I. Botta, premessa di E. Raimondi, Milano, Centro nazionale di studi manzoniani, 2000, p. 313.
68
GIORGIO PANIZZA
de, e, benché con bella efficacia drammatica la frase di Desiderio sia interrotta
dall’arrivo di Ermengarda, strappa al padre la promessa che “se un giorno […]
se disperata un giorno / Fosse ogni cosa”, in quelle condizioni estreme se ne
potrà riparlare. Fino a un certo punto del percorso, Manzoni ha ben chiara la
struttura drammatica del primo Adelchi. Molto giustamente è stato sottolineato
dalla Becherucci che, per quanto di intensità non regolare e continua, e per
quanto alternato anche dalle divagazioni, per così dire, pesanti e in parte persino contrastanti, di Marzo 1821, dell’avvio del romanzo e del Cinque maggio,
un filo corre con piena coerenza a svolgere un unico disegno della tragedia fin
quasi alla conclusione. Come Manzoni aveva detto a Fauriel, davvero il suo
“bâtiment”, l’edificio poetico che l’invenzione aveva innalzato sui dati era stato
ben elaborato. Quanto infatti Desiderio riteneva impensabile, avviene. I Franchi
superano le Chiuse, dilagano in pianura, le antiche infedeltà dei duchi si riaprono, i Longobardi sono travolti. La promessa innescata nel primo atto doveva
appunto chiudersi nel quinto. Davanti all’assemblea dei duchi fedeli, o presunti
tali, riunita ancora a Pavia, è questa volta Desiderio a introdurre Adelchi, perché illustri la sua proposta, quella stessa che il re si pente di non aver seguito
subito. Lo “splendido sogno giovanil” torna dunque in campo, si alza questa
volta contro di lui Guntigi (ne parleremo tra poco), ma di colpo Manzoni interrompe la stesura, con la nota che si è detta.
Alleanza dunque tra Longobardi e Latini. In un breve e intenso libro, che
chiarisce molte questioni, l’Accame Bobbio sostenne che la proposta di
Adelchi aveva come presupposto il riconoscimento di una “rinascita negli italiani di spirito nazionale e indipendente proprio nel periodo della dominazione
longobarda”: una “nascente coscienza nazionale italiana”, che era allora “orientata a riconoscere quale suo centro e capo ideale il pontefice romano” e che in
questo suo formarsi era “l’origine prima della debolezza del regno longobardo”. Nella prima forma la missione del diacono Martino incarnava tale “orgoglio nazionale” e tale ostilità verso i Longobardi. “Capovolgere la situazione,
sottraendo al papa questa forza e dandole un capo laico nel re longobardo, è il
grande disegno di Adelchi, degno d’un discepolo del Degola e di un amico del
Grégoire”5. Interpretazione ripresa, con altri approfondimenti, da Isabella
Becherucci nella sua edizione critica dell’Adelchi e in diversi studi. È anche
evidente per lei che “una delle ragioni dell’interesse del Manzoni per l’epoca
longobarda è senz’altro da individuare nell’apparente analogia fra la condizione del popolo italiano sotto il dominio dei Longobardi e quella attuale sotto il
5
A. Accame Bobbio, Storia dell’Adelchi, Firenze, Le Monnier, 1963, p. 58; gli altri rimandi
alle pp. 54-55 e 59-60.
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
69
governo austro-ungarico”6. Nel clima del 1821 le speranze del presente si
sarebbero proiettate dunque all’indietro, a ritrovare e rappresentare nell’Alto
Medioevo un embrione di italianità e arrivando a proiettare in Adelchi l’ideale
manzoniano “del perfetto principe moderno, costituzionale e nazional-popolare”, come da ultimo lo ha definito Langella; quello che Murat non era riuscito a
essere, quello che poteva essere Carlo Alberto, o persino Francesco di Borbone.
Per contro l’esito abortito e drammatico dei moti avrebbe rafforzato la convinzione della mancanza di quel sentimento proto-nazionale7.
Il dato storico prima ritenuto fondato, magari sulla base delle affermazioni
di un Sismondi, poi dimostratosi insussistente sarebbe dunque l’esistenza di
tale sentimento. Anzi, su questo in particolare ragiona la Becherucci, è il silenzio della storia, la mancanza di notizie sulla vita delle masse anonime, che
Manzoni confessa dopo tante ricerche in passi memorabili del Discorso sopra
la storia longobarda, a dichiarare di per sé che quella «coscienza» non poteva
esistere. È l’acquisto di tale consapevolezza riguardo al silenzio degli umili che
contribuisce a muovere Manzoni in direzione del romanzo: problema importantissimo, implicato nel mio ragionamento, che non posso però discutere qui.
In verità, bisogna tornare a guardare meglio la proposta politica di Adelchi,
quale risulta nella «prima forma» della tragedia. Come sappiamo bene, il fondamento storico dell’invenzione drammatica di Manzoni consiste nella persuasione non tanto di una generica separazione, ma della netta e insuperata divisione tra il ristretto gruppo dei longobardi invasori e la massa delle generazioni
latine che dai primi sono state sconfitte violentemente e assoggettate. Conquistatori da un lato, conquistati dall’altro; unici giuridicamente liberi i primi,
6
A. Manzoni, Adelchi, ed. critica, cit., pp. XLV-XLVI. Della stessa studiosa si vedano anche
Sulla «crisi» dell’Adelchi, “Rivista di letteratura italiana”, XII (1994), pp. 383-400; Alessandro
Manzoni, Adelchi: per l’edizione critica delle prose storiche, in P. D’Iorio e N. Ferrand (a cura
di), Genesi, critica, edizione, Pisa, Scuola Normale superiore, 1998 (“Annali della Scuola
Normale superiore di Pisa”, s. IV, Quaderni 1), pp. 201-214; Nel cuore dell’«Adelchi». Premessa
alla lettura dell’opera, “Giornale storico della letteratura italiana”, CLXXXI (2004), pp. 224253.
7
Vedi G. Langella, Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, Novara,
Interlinea, 2005, pp. 75-99 (la citazione a p. 89; ma sul concetto di «patria» vedi le giuste osservazioni alle pp. 192-95). Si mantiene con misura in questa prospettiva anche la lettura ricca di
intuizioni di F. Bruni, Adelchi, eroe shakespeariano, in F. Bruni (a cura di), La maschera e il
volto. Il teatro in Italia, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 275-291, pure importante per le osservazioni sul cambiamento della concezione della storia in Manzoni e il connesso problema del passaggio al romanzo. Un’attualizzazione spinta era già in G. P. Bognetti, Manzoni giovane, Napoli,
Guida, 1977. Necessario ora ricorrere a D. Ellero, Manzoni. La politica le parole, Milano, Centro
nazionale studi manzoniani, 2010.
70
GIORGIO PANIZZA
ridotti gli altri alla condizione di servi. Questa è la struttura sociale che
Manzoni desume dall’appassionata riscostruzione che Thierry illustra dapprima
nelle vicende che hanno portato in Inghilterra alla sovrapposizione dei
Normanni ai Sassoni, quindi nella Gallia latina, invasa e sottomessa dai
Franchi. Lo scrittore milanese, a Parigi tra l’ottobre del 1819 e il luglio 1820,
conosce le idee di Thierry dagli articoli che lo storico sta pubblicando sul
“Censeur européen”, e ancor più dal contatto diretto con lui e dal comune rapporto con Fauriel, quello che Thierry ricorderà con parole commoventi come
l’insostituibile “confident intime” delle sue ricerche8. Il primo documento in
cui Manzoni parla dell’Adelchi, la lettera a Fauriel del 17 ottobre 1820, dimostra come l’ideazione del dramma sia tutta all’interno della prospettiva di
Thierry, di cui adotta persino il “lessico familiare” a proposito dei tomi dei
Rerum italicarum scriptores. Manzoni partecipa non solo del medesimo corpo
a corpo con le cronache medievali, ma condivide con gli stessi giudizi la messa
in discussione sia della storia erudita, sia di quella “filosofica”. Si sente insomma parte di una nuova visione storiografica. Fin dall’inizio, dalla prima fase di
studi, senza attendere il successivo Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia, la cui necessità e il cui contenuto sono dichiarati da questa
lettera che stiamo leggendo, Manzoni rileva bene di avere idee diverse dalle
ricostruzioni storiche precedenti, da Machiavelli a Denina, proprio per quanto
riguarda la pretesa «fusione» dei due popoli. Ma possiamo facilmente ipotizzare che, se ha già letto Machiavelli, si stia facendo un’idea diversa anche sull’altra questione oggetto del Discorso, cioè l’impedimento che con la chiamata dei
Franchi il papato ha provocato all’unificazione italiana. Fin d’ora si è anche
reso conto di quanto sia povera la storiografia a riguardo delle popolazioni italiche ed è proprio sul problema dei “peuples subjugués et possedés” che
Manzoni chiede indicazioni bibliografiche a Fauriel9.
8
A. Thierry, Dix ans d’études historiques, Milan, Stella, 1843, pp. 16-17. Sui rapporti con
Manzoni vedi C. De Lollis, Alessandro Manzoni e gli storici liberali francesi della Restaurazione, poi raccolto in G. Contini e V. Santoli (a cura di), Scrittori d’Italia, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1958; A. Saitta, Manzoni e la storiografia europea, in Atti del convegno di studi manzoniani, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1974, pp. 133-147; e ora I. Botta, Il romanzo fra
storia e impegno civile: Thierry e Manzoni, in L. Danzi e G. Panizza (a cura di), Immaginare e
costruire la nazione, cit., pp. 103-120. Importante, anche in riferimento a Manzoni, M. Gauchet,
Les «Lettres sur l’histoire de France» d’Augustin Thierry, in Les lieux de mémoire, sous la direction de P. Nora, I, Paris, Gallimard, 1997, pp. 787-850.
9
Vedi la lettera in A. Manzoni – C. Fauriel, Carteggio, cit., pp. 266-268 (corsivo di
Manzoni).
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
71
L’alto, inaudito disegno di Adelchi è quello della liberazione degli italici,
della parificazione giuridica ai loro conquistatori: renderli uomini liberi, conceder loro l’uso delle armi, il possesso del cavallo, ammetterli paritariamente alle
assemblee (I, 314-321):
[…] Questi che al solco
Che ad ogni opra servil curvi teniamo,
Chi sono? i figli di color che al mondo
Dieder la legge un dì. Gregge di schiavi
Spesso tremendo, inutil sempre, in fido
Eterno stuolo di guerrier devoti
Trasmutarli, sta in noi. Togliamo i ceppi
Da quelle mani, e rendiam loro i brandi10.
È una scelta mossa da ragioni molto più profonde che dal trovare una soluzione tattica contro i Franchi. L’unico fondamento del potere longobardo è –
ragiona Adelchi – quello della violenza e della razzia, della sopraffazione. Lo
stesso comportamento tenuto dagli invasori precedenti, per quanto più effimeri,
vale a dire gli Eruli, i Goti, i Greci: “Vedili, o Padre / Assalirlo a vicenda,
insanguinarlo, / Possederlo e sparir”, riferendosi al suolo italiano (I, 286-288).
Nell’anarchia dei duchi longobardi, l’unica ragione di unità si ritrova nella conquista e nel saccheggio. Sarebbe questo l’amaro “avvenir più ridente” che si
prospetta ad Adelchi nel progetto di conquista di Roma, come può confessare
al fidato Anfrido (III, 103-113):
Ebben, ruine
Sopra ruine ammucchierem – l’antica
Nostr’arte è questa – nei palagi il foco
Porremo e nei tugurj: uccisi i primi,
I signori del suolo, e quanti a caso
Nell’asce nostre ad inciampar verranno,
Fia servo il resto, e fra di noi diviso;
E ai più sleali e temuti, il meglio
Toccherà della preda.
Nel manifestare il desiderio di un destino diverso, di un vera grandezza eroica, è più di una recriminazione, è un giudizio politico: “Oh! mi parea, / Pur mi
parea che ad altro io fossi nato / Che ad esser capo di ladron”. Quel potere non
10
Qui e nel seguito si riporta il testo della «prima forma».
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GIORGIO PANIZZA
è una compagine politica, è una banda di saccheggiatori. In questo senso si
capisce quanto Adelchi aveva detto a Desiderio, di preferire “d’oppressi /
Farmi capo […] che d’oppressori / Esser ministro” (I, 343-345). Perché quella
forma di potere, basato sulle “fraudi” e sulle “rapine” (I, 364), insomma sulla
violenza e sull’ingiustizia, è sempre minacciata da se stessa. Osiamo l’impresa
mai pensata, dice Adelchi, osiamola per primi, surclassando tutti gli altri, che
rimarranno “Re d’indocili schiere, e su nemiche terre accampati” (I, 372-373):
“È un’alta via di scampo, osiamo d’entrarvi / Noi primi, osiamo d’esser giusti o
padre / E invincibil saremo” (I, 295-297; corsivo mio). L’unico fondamento del
potere è insomma la giustizia, l’uguaglianza giuridica della – diciamo noi la
parola – nazione (I, 297-307; corsivi miei):
[…] Una infinita
Immensa forza è presso a noi, soltanto
Che vogliam farla nostra = in sen di questa
Terra antica s’asconde, aprila, e tosto
Che col piè la percuota, e d’ogni parte
Scaturir la vedrai, da questo suolo
Che facil preda era finor, che ancora
Sarà fin che due popoli nutrica
E non è patria di nessun, fintanto
Che di fratei non sia coverto; ed ogni
Uom che il calpesta un difensor non sia.
A questo punto (per ragioni che possiamo ora capire meglio) ritorna l’immagine che era già stata del Proclama di Rimini: “Dell’itala fortuna / Le sparse
verghe raccogliam da terra, / E stringiam nelle mani il fascio antico. / Dei vincitori e dei soggetti un solo / Popol facciamo, una la legge, ed una / Sia la patria
per tutti” (I, 324-329); “allor sarem noi soli / Re d’un popolo intero” (I, 373374)11.
Perché i Latini soggiogati guardano al Papa come a un riferimento politico,
a una sia pur debole garanzia della loro sopravvivenza? Perché in rapporto a lui
i Latini non sono servi, ma fratelli. La sua forza, argomenta Adelchi, non è
affatto solo spirituale (“Tutto ei non tragge il suo vigor dal cielo”), attinge “una
secreta forza / Da questa terra che gli è madre”; “Figlio di Roma, ei non
comanda ai vinti, / Ai suoi fratelli antichi a quelli ond’ebbe / Ogni poter comanda: è sovra gli altri / E non opprime” (I, 213-219). Che il punto sia questo,
11
Il riscontro col Proclama era già di Alfonso Bertoldi, ripreso da D. De Robertis, Manzoni
tra meditare e sentire, in Id., Carte d’identità, Milano, il Saggiatore, 1974, pp. 255-314, a p. 280.
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
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sia insomma più l’identificazione di una struttura politica, che non la rivendicazione di una compagine etnica, lo manifesta come meglio non si potrebbe lo
scontro dell’ultimo atto di questa prima forma che stiamo percorrendo.
Quando dunque si arriva all’assemblea finale, quando occorre giocare il
tutto per tutto, il dramma si carica. Siamo ancora a Pavia, nel palazzo reale. La
prima battuta è per Adelchi, che insiste perché Guntigi, che vorrebbe allontanarsi, resti, considerandolo troppo importante perché si sottragga alla decisione.
Adelchi non sa quello che noi sappiamo. L’atto precedente si era chiuso con la
preparazione del tradimento. Appunto Guntigi, cui è commessa la difesa delle
mura di Pavia, aveva stretto il patto col messo di Carlo, Ildelchi, per aprirgli le
porte della città. Per lui la discussione è appunto vana. Tuttavia quando
Adelchi, con grande lucidità e molta efficacia oratoria, espone il suo progetto e
ribadisce: “Si gridi / Una legge, e sia questa = Ogni Romano / Che in nostro
ajuto sorgerà, divenga / Come un di noi = sia suo = libero segga / Nel suo terren, nudra un cavallo, assista / Ai consigli del popolo” (V, 95-100); Guntigi s’inalbera e anche nel linguaggio manifesta la sua fede nella logica dei “ladroni”,
dei padroni razziatori (V, 141-145):
[…] sappi che pria
Che ad un Romano io di fratello il nome
Dia, ch’io gli segga in parlamento al fianco
Voglio morir per la sua man e sappi
Che Longobardo io nacqui;
e ribadisce (V, 157-164):
[…] ai figli tramandar l’impero
Di questa vinta terra, e della vinta
Razza che la ricopre, uno, supremo,
Qual dai padri a noi venne, è questo il fine
D’ogni leal, d’ogni uomo a cui le vene
Corrono sangue longobardo = è questa
La pubblica salute; a questa opporsi
Tradimento saria12.
12
Notevole l’assonanza di questo discorso con quanto nota Thierry in un articolo del 1819
(Dix ans d’études historiques, cit., p. 94): “Il n’y a pas d’argument plus terrible contre les nations
que l’attestation fausse de la volonté nationale; c’est à l’aide des pareilles fictions que les rebelles
au dispotisme, que les héros de la liberté sont impunément flétris du nom de traîtres”.
74
GIORGIO PANIZZA
È Guntigi in verità ad aver appena tradito, sembrerebbe la sua una vergognosa ipocrisia. Ma è tutt’altro. Guntigi è passato a Carlo, a lui ha giurato
fedeltà, perché Carlo garantisce il potere dei signori, il dominio dei conquistatori; è un’alleanza tra conquistatori contro Desiderio e Adelchi (si veda la scena
V dell’atto III, in particolare vv. 225 sgg.). Il tradimento dei duchi longobardi è
in effetti un passaggio di fedeltà feudale. Mentre per contro Adelchi è del tutto
consapevole che la sua proposta, scardinando i rapporti tra dominatori e servi,
gli renderà nemici gli stessi duchi longobardi (“In ogni duce in ogni / Uom
Longobardo un avversario avremo, / Forse un ribelle = avrem nemici a cento /
Ma fautori a migliaja”; I, 335-338). Il rapporto di Carlo con i duchi è infatti
esattamente speculare all’altro suo verso i Latini. Quando il diacono Martino
chiede al re franco: “cangiato almeno / E alleggerito all’altra Italia il giogo / Sia
per tua man, se non è giunto il giorno, / Se l’uom nato non è che in tutto il
tolga” (II, 309-312); la risposta di Carlo è netta: libera Roma, ma sul resto
dell’Italia una concessione per dir così umanitaria, l’“impero” sarà “mite” (II,
313 sgg.). Nella nuova conquista resta il dominio dei signori sugli uomini non
liberi, rispettando una differenza insuperabile (II, 320-329):
[…] L’uom che non cinge un brando
Che non sale un destriero, è della terra,
E la terra è di colui che vi conficca
L’asta sua vincitrice: ai miei compagni
Senza cui nulla che un guerrier son io
Delle fatiche il premio e della vita
Tor non poss’io = del vincitore è il vinto,
Altre stirpi al servir destina il cielo
Altre al comando, e la vittoria è il segno
Che le discerne.
E conclude: “lascia / Che un popol guerriero a quei comandi / Che più un
popol non sono” (II, 334-336). Anche questa sequenza del dialogo tra Carlo e
Martino cade nel rifacimento, ma si sarà riconosciuto come alcuni temi (il “premio” per i guerrieri conquistatori; gli italici che non sono più “popolo”) torneranno nel coro dell’atto III, che a quell’altezza doveva ancora essere composto
e del quale parleremo tra poco.
Insomma, lo scontro suscitato da Adelchi con quella sua visione, con quel
progetto, è tra due concezioni del potere. È, se ci è lecito così sintetizzare, tra
l’Ancien Régime, la rivendicazione di una differenza aristocratica, che appunto
risale in sostanza a un diritto di conquista, e i diritti egualitari della Rivoluzione. Proprio da questo punto di vista Manzoni mostra di aver meditato a
fondo gli studi di Thierry, il cui filo conduttore fondamentale era quanto le
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
75
nazioni si costruissero come spazio ugualitario contro il dominio aristocratico.
La nazione nasce appunto nel momento in cui i “sujets”, gli asserviti figli dei
conquistati, superano la condizione di singoli dipendenti da un signore, di
schiavi della terra (come appunto ricordava Carlo nel passo appena citato), per
riconoscere la loro appartenenza comune, la realtà di un spazio astratto le cui
qualità sono l’uguaglianza e la libertà. Prima di questo processo non si ha
nazione:
Car il ne faut pas qu’on croie qu’il y eût, avant ce temps-là, une nation anglaise.
Il y avait dans le pays d’Angleterre une nation en campement, une nation
d’etrangers; mais les indigènes n’avaient entre eux rien de commun que leur
misère. Chacun, isolé, servait son maître; il ne faisait rien pour ses pareils, qui
ne faisaient rien pour lui; c’était une multitude éparse13.
A dire quanto importasse questa riflessione per Manzoni basterebbe il suo
ricordo nel coro dell’atto III, che di nuovo dobbiamo richiamare. Importa rilevare, proprio in riferimento a Manzoni, che di questo spazio nuovo di libertà,
che è appunto la nazione, la comunanza etnica (dei Sassoni, dei Jacques
Bonhomme, dei Latini), per quanto importante, è un dato in realtà strumentale,
un mezzo, non un fine; non solo perché la nuova dimensione politica si costruisce solo sulla base di un processo di trasformazione, ma perché l’astrattezza
che ne è carattere fondamentale comporta il superamento anche di quei legami.
Penso si possa concludere che il «fallimento» del dramma nasca da un
eccesso di carico «politico» del personaggio di Adelchi, che ha finito per essere
portatore di un’idea troppo moderna. È in lui, come è chiaro dalle stesse note
manzoniane, che si concentra il problema. Intendiamoci: il rigore di Manzoni
non s’attenua mai. Aveva un appiglio documentario per la proposta di Adelchi,
che trovava nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono. È lo stesso
Adelchi a richiamare l’episodio nel suo ultimo discorso all’assemblea dell’atto
V, quando ricorda come già in passato, giunti in Mauringa, i primi Longobardi,
troppo pochi per proseguire, decisero di affrancare gli schiavi che come bottino
si erano portati dietro14. Su questo e altro, certo pochissimo in relazione ad
13
A. Thierry, Dix ans d’études historiques, cit., p. 48; corsivo mio.
Atto V, 50 sgg.; vedi anche A. Accame Bobbio, Storia dell’Adelchi, cit., pp. 68-69; cfr.
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Roma, Fondazione Lorenzo Valla;
Milano, A. Mondadori, 1992, I, 12-13, pp. 26-29. Per la documentazione storica su cui si basa la
costruzione del personaggio Adelchi si veda ora G. C. Alessio, L’Adelchi nella cronaca di
Navalesa, “Testo”, n. s., XXX (2009), pp. 60-72.
14
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GIORGIO PANIZZA
Adelchi, Manzoni lavora mantenendosi fedele alle convinzioni espresse nella
Lettre e qui ricordate all’inizio. Intuisce, costruisce una psicologia. Davanti a
lui si disegna un personaggio, i cui valori storicamente definibili, la temerarietà, più ancora del coraggio, l’eroismo, la nobiltà dei sentimenti come tratto
anche regale, elaborino un tale disprezzo per la violenza della rapine, per le
bassezze di una conquista così scontata, per le slealtà di tanti signori, da produrre uno scatto morale, la visione di quel mondo diverso che abbiamo ricostruito. In questo (in modo analogo a quanto realizzato con Carmagnola) si
generava il contrasto morale con l’ambiente intorno a sé, contrasto che doveva
presentarsi come sviluppato dai fatti e che costituiva l’essenza del dramma
manzoniano.
Questa invenzione sorregge il dramma nella sua prima forma, in cui il dialogo tra Desiderio e Adelchi dell’atto primo è ideato in modo da preparare l’assemblea dell’atto quinto. Non è affatto insolito vedere Manzoni procedere nell’elaborazione seguendo un disegno che in realtà non gli è chiaro in tutte le sue
implicazioni, così che si trova a doverlo mutare, correggendo quindi anche a
ritroso, a svolgimento avanzato. Accade nel Carmagnola, ma accade anche nel
Fermo e Lucia. Nel primo Adelchi Manzoni consuma fino in fondo la sua idea.
Non pensa certo in nessun modo di modificare la storia; sa benissimo che la
proposta di Adelchi non passerà, che sarà sconfitto, e in questo sta il valore
moralmente profetico della sua vicenda tragica. Ma arrivato al punto di dover
ricondurre l’invenzione drammaturgica ai binari della storia, Manzoni si accorge probabilmente di essere andato troppo lontano, di non poter immaginare un
plausibile rientro.
Non riuscirà più tuttavia a ricondurre il personaggio a quell’equilibrio che
solo era per lui accettabile, tra i dati della storia e la divinazione dell’interiorità.
Bisognava forse buttar via tutto. Lo slancio morale di Adelchi gira ora come a
vuoto, allude a un desiderio di diversità che finisce per esser velleitario, troppo
vicino agli eroi appunto romanzeschi che Manzoni non tollerava. Quando lanciava il suo inaudito progetto, nella prima forma, Adelchi sfidava i duchi in
assemblea a riconoscere che non c’erano soluzioni alternative: “Amici / Un fin
s’appressa, un grande evento omai / Sovrasta inevitabile = o subirlo / Qual
ch’ei pur sia, qual ch’ei pur venga = o farlo” (V, 27-30). Dopo, caduta la visione, chiuso nella gabbia del suo stesso potere violento di conquistatore, non c’è
più luogo alla giustizia. Sono le parole celebri della fine nelle versione ultima
(cito dalla stampa 1822) (V, 350-358):
[…] loco a gentile,
Ad innocente opra non v’è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
77
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l’ingiustizia: i padri l’hanno
Coltivata col sangue; e ormai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è.
Sono parole in cui resta come il vuoto lasciato dall’Adelchi di prima, quello
dell’originario discorso a Desiderio sulla fragilità del potere fondato sull’ingiustizia; parole che dobbiamo intendere come conseguenza della visione fallita, o
meglio rimandata a una trasformazione che toccava operare a tempi nuovi, ai
tempi di Manzoni; mentre Adelchi si avvolge nel dramma di un nuovo Amleto,
un eroe forse troppo romantico per piacere del tutto al suo autore. Hanno ragione gli interpreti che spiegano come il cosiddetto testamento di Adelchi riguardi
non “l’agire politico in se stesso, ma quell’agire che si esplica in un grado di
iniquità” (cito qui le parole di Claudio Scarpati)15. Quello appunto di un mondo
diviso in servi e signori, in Renzi e Don Rodrighi.
Quanto tuttavia non poteva essere più offerto alla meditazione del lettore
dallo scontro drammatizzato attraverso Adelchi, aveva un altro luogo in cui
poter essere espresso, un luogo che l’elaborazione del Carmagnola aveva riscoperto. Se rileggiamo il coro dell’atto III, uno dei manifesti letterari che stanno a
fondamento della costruzione nazionale italiana, ne scopriamo il senso più
pieno alla luce di quanto abbiamo rilevato del «sogno» del principe longobardo. L’attesa dei Latini è inutile. Nelle forme storiche del «regime antico», che
alle conquiste barbariche faceva appunto risalire le sue origini, non c’è liberazione possibile:
Il forte si mesce col vinto nemico;
Col novo signor rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
L’attualizzazione non consiste qui, come spesso si intende, in un messaggio
con cui si invitano gli italiani a non aspettare aiuti stranieri, perché questi nella
15
C. Scarpati, Pietà e terrore nell’«Adelchi», in Id., Invenzione e scrittura. Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 265-287, a p. 283. Per contro mantiene “l’interpretazione tradizionale” C. Annoni nel capitolo Dall’«Adelchi» al «Natale el 1833» del suo Lo
spettacolo dell’uomo interiore, Milano, Vita e pensiero, 1997, pp. 139-215, in cui anche si sposa
l’interpretazione di “eroe nazionale proposto da uno scrittore nazionale” del primo Adelchi (vedi
pp. 179-184). Per il carattere romantico di Adelchi vedi ora F. Bruni, Adelchi, eroe shakespeariano, cit.
78
GIORGIO PANIZZA
loro estraneità sarebbero comunque egoisti. Qui non è messo in gioco un rapporto tra popoli, ma una riflessione su sistemi sociali. Chiarissima la versione
originaria, in una serie di versi poi cassati in ultimo, forse per la censura. Si
dice, parlando dei Franchi, che anche loro nella loro terra sono padroni di “lurida plebe”, ridotta nelle stesse condizioni servili dei Latini, cioè “inerme” e
“pedestre”. Sarebbe bastata una parola per liberarli, ma i Franchi non l’hanno
detta. Nemmeno la diranno, come appunto sappiamo, nel soppiantare in Italia i
Longobardi. Il riscatto liberatorio che trasforma il volgo in popolo, che gli dà
un nome, non è lo stabilimento di una nuova sovranità, ma la creazione di quel
nuovo spazio egualitario che solo può pretendere il nome di nazione. In questo
sta, per usare le parole di Manzoni, “ce qu’il y a de plus serieux et de plus poetique dans le sujet que j’ai maltraité” e che appunto “ne pouvait se developper
dans l’action, ni par les discours des personnages”16; qui sta dunque la lettura
attualizzante dell’Adelchi, ai tempi del suo autore, ma probabilmente anche ai
nostri.
Bibliografia
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16
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Risulta dunque fuori strada l’interpretazione di V. Boggione, La sconfessione di Marzo 1821: il
primo coro dell’Adelchi, in E. Calenda (a cura di), Studi di letteratura italiana della modernità.
Per Angelo R. Pupino. Sette-Ottocento, Napoli, Liguori, 2008, pp. 127-147. Nemmeno è convincente (tanto da suonare persino singolarmente antimanzoniana) la contrapposizione vista da
Annoni nella sua lettura ultima, Tempo della Chiesa e tempo della guerra: appunti su un’aporia
manzoniana, in R. Bertazzoli – F. Forner – P. Pellegrini – C. Viola (a cura di), Studi per Gian
Paolo Marchi, Pisa, ETS, 2011, pp. 61-75, che non mostra di cogliere quanto l’universalismo cristiano sia alimento coerente nel concepire l’astrattezza dell’idea di nazione moderna, e manzoniana, come è evidente nel coro del Carmagnola.
LIBERARE GLI ITALICI: IL PERCORSO DELL’ADELCHI
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