dalla
Tuscia
Vignanello
Un portone,
due padroni
e una poetessa
La vera storia dell’“Arco
Maurizio
(detto) del Vignola”
Grattarola
Q
uell’agosto del 1692 si presentava
particolarmente
caldo. Gli uomini, a torso
nudo, sudavano sotto la sferza del sole, mentre lavoravano intensamente sulla sommità del colle.
Nonostante fosse più alto del paese
sottostante, non c’era ventilazione, e
Serafino, Bastiano, Domenico e gli altri
si servivano spesso dell’acqua che le
donne portavano incessantemente sul
luogo della costruzione. Domenico
Pilli e Bernardino Santi, impegnati a
fare la calce, erano quelli che pativano
di più anche se l’acre odore della
mistura raggiungeva anche gli altri.
Quello era un giorno particolare, e
mastro Pietro Bossi, esperto muratore
e capomastro e responsabile della
costruzione, stava scambiando due
parole con mastro Antonio Cartone,
venuto da Roma per scolpire le pietre
di peperino per ornare la sommità
della costruzione, che cominciava a
profilarsi. Mastro Antonio era già piuttosto noto soprattutto a Roma dove
aveva eseguito una serie di lavori per
importanti committenti. L’aver affidato a lui il coronamento dell’opera
stava a significare l’importanza che il
committente dava alla stessa. Certo,
bisognava superare non pochi problemi tecnici per sollevare sino in cima le
pietre scolpite, o meglio scalpellinate,
stante la piccola base d’appoggio che
si aveva, ma mastro Pietro sapeva che
ce l’avrebbe fatta.
E così, lentamente, ma con sicurezza,
il nuovo “Portone del Molesino”
cominciava a prendere forma, per
arricchire e chiudere il nuovo Borgo
che nel 1725, con l’arrivo di papa
Benedetto XIII per la consacrazione
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della nuova chiesa collegiata, stava
nascendo ad ovest del centro storico
di Vignanello, lungo la strada Marescotti/Ruspoli. Ma è ora di andare per
ordine.
Alla morte di Sforza Vicino Marescotti,
quarto conte di Vignanello, avvenuta
nel dicembre del 1655, attraverso il
suo testamento e dopo un attento
esame delle varie carte lasciate anche
dai predecessori, fu confermato che il
feudo di Vignanello era assoggettato
alla primogenitura. Pertanto a Sforza
Vicino successe il suo primogenito,
Marco Antonio Marescotti, canonico
della basilica vaticana.
Alla morte di questo, avvenuta il 18
maggio 1681 a Latera (altro feudo dei
Marescotti, a cui Marco Antonio era
più legato), Vignanello passò al secondogenito di Sforza Vicino, Galeazzo
Marescotti, all’epoca cinquantaquattrenne e già da sei anni cardinale. Di
fronte alle numerose incombenze che
la sua carica gli recava, Galeazzo decise di cedere in gestione il feudo di
Vignanello all’altro fratello successivo
in ordine di nascita, Francesco, di
sette anni più giovane di lui e marito di
una nobildonna di origine senese,
Girolama Bichi, che sarà protagonista
di una dura lotta legale per l’ererdità
del marito con il nipote Francesco
Maria Marescotti Capizucchi Ruspoli.
Comincia con la gestione di Francesco
il periodo che trasformò Vignanello da
paese rinascimentale in paese barocco, e la sua rocca da castello a residenza feudale. Fu infatti lui, fra le altre
cose, che per soddisfare un preciso
lascito del padre fece costruire la fontana pubblica, e fu lui che cominciò
l’estensione verso ovest del paese, al
di fuori della Porta Grande o Porta Flaminia, al di là della quale erano già
presenti l’osteria e il monte frumentario.
Quando Francesco morì, nel 1687,
Galeazzo si trovò di nuovo alle prese
con il problema del feudo di Vignanello e decise di affidarne la cura all’ultimogenito di Sforza Vicino, Alessandro. Questi, dal 1681, aveva assunto il
cognome del cugino Francesco Capizucchi. La sua vita era stata un succedersi di eventi in parte avventurosi; il
padre aveva lottato per anni perché
Alessandro fosse accettato nell’Ordine di Malta, ma quando la madre, Vittoria Ruspoli, si rese conto che i figli
che non avevano preso i voti, Francesco ed Orazio (quest’ultimo sparito
quasi improvvisamente senza più
dare notizie di sé), non garantivano la
successione della famiglia, aveva
repentinamente ingiunto ad Alessandro di tornare in Italia e prendere
moglie.
Così Alessandro nel 1663 ottenne la
dispensa per tre anni e nel 1670, ancora Marescotti, aveva sposato Anna
Maria Corsini, che morì due anni dopo
nel dare alla luce Francesco Maria, il
futuro principe di Cerveteri e di Vignanello. Alessandro, dopo otto anni, si
era risposato con Prudenza Gabrielli,
che gli darà ancora vari figli.
Sono proprio Galeazzo, Alessandro e
Prudenza i personaggi che in qualche
la
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Il portone da Vallerano con particolare del coronamento e dello stemma Marescotti
modo rimangono ancora oggi scolpiti
nel peperino del Portone del Molesino, che non ha nulla a che fare con
Jacopo Barozzi detto il Vignola, morto
nel 1573, a meno di non pensare che
sia stato lui a realizzare il primo Portone di cui parleremo fra poco.
Come detto, era iniziata già da tempo
l’estensione dell’abitato di Vignanello
verso ovest, e molto probabilmente
un nuovo portone, a protezione di
questi primi edifici fabbricati fuori
della Porta Grande, era già stato eretto, se già nel gennaio 1688 mastro Pietro Bossi, su ordine del ministro del
conte, nel rispondere con una perizia
alla richiesta di valutare il costo del
nuovo portone commentava: “…avendolo di rifare il detto Portone in cima a
detto Borgho trovo che essendo stato
fatto in nel posto in cui si ritrova al presente… pol essere costato fra muratore
la
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e conci di pietra di peperino scudi quarantacinque”, perché le fondamenta
possono poggiarsi sul tufo sottostante. Ma “dove si è di mettere il detto portone, poiché vi è terreno e non il tufo,
nol si pol giudicare quanto si averà di
andare a fondo con li fondamenti”.
Ma evidentemente anche la prudenza
di mastro Pietro non fermò né Alessandro né Galeazzo, che decisero
comunque di andare avanti. Per loro il
portone rivestiva una importanza tale
da essere prevalente la sua realizzazione rispetto al costo.
Questa importanza è confermata indirettamente dal fatto che la parte ornamentale del Portone fu affidata non ad
un artigiano locale ma a mastro Antonio Cartone. L’attribuzione ad Antonio
Cartone, per quanto si è potuto sapere, non è stata finora documentata, ma
risulta chiaramente dai documenti
dell’archivio segreto vaticano. Al
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Tuscia
momento della realizzazione dei coronamenti del Portone, Antonio Cartone, dalle ricerche effettuate, aveva al
suo attivo lo stemma di Urbano VIII
sulla facciata della chiesa dei SS. Luca
e Martina (1671); il monumento sepolcrale di Museur nella chiesa di S. Giacomo dei Fiamminghi, su disegno di
Domenico Terzaghi (1673); i telai di
sette porte del piano nobile di Palazzo
Barberini (1677). Successivamente,
sono noti i lavori di sistemazione dell’altare maggiore nella chiesa di S.
Angelo in Pescheria (1699).
I lavori del Portone presero il via
molto probabilmente fra giugno e
luglio 1692 ed andarono avanti fino
alla fine dell’anno. Qualche altro lavoro dovette sforare nel 1693, perché a
marzo del 1693 un falegname, mastro
Santi Bidrivi o Bidrini viene pagato per
la “porticella della lumaga del Portone
del Molesino”.
Come di consueto, ai lavori presero
parte molti abitanti del paese, i cui
nomi ci sono stati tramandati dalle
Filze di Giustificazione di Vignanello
dell’archivio segreto vaticano: oltre a
Pietro Bossi come capomastro, lavorarono lì fra gli altri Cesare Pacelli,
Ventura Pilucchi, Giuseppe Succi, Giuliano Troilo, Bernardino Agnocchetti,
e anche l’altro capomastro Giuliano
Urri.
Non è documentato l’autore del disegno, anche se alcuni richiami a pagamenti effettuati fanno supporre che
possa essere stato l’architetto Domenico Martino Spazza di Soriano, del
quale al momento non si sono reperite altre informazioni, ma sicuramente
attivo in Vignanello in quegli anni e
varie volte pagato per le sue attività.
Da quel momento, il Portone continua
a stagliarsi in alto, alla fine del rettifilo
del Borgo, con accanto la quasi coeva
chiesa del S. Angelo Custode, anch’essa voluta da Alessandro Capizucchi, e
che darà il nome al Borgo.
Torniamo al titolo di queste brevi
note, per darne ragione.
Il portone è ad unico fornice, con due
parti laterali aggettanti verso fuori.
Sopra il cornicione, una semplice
balaustra chiude un terrazzino, coronato da due globi. Ma la semplicità e
anche l’austerità dell’insieme non può
nascondere che il Portone è come un
libro che illustra quella strana mescolanza di nomi, famiglie e personaggi
caratteristica del feudo vignanellese
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negli anni a cavallo fra il 1680 e il 1703.
Alla morte di Alessandro, Galeazzo
cedette definitivamente la gestione
del feudo a Francesco Maria Marescotti Capizucchi Ruspoli, che lo
tenne fino alla sua morte nel 1731, trasformandolo completamente attraverso l’edificazione della nuova chiesa
collegiata, delle nuove carceri, della
nuova rimessa, del teatro e di tutto il
Borgo di S. Sebastiano a est.
La facciata del portone verso Vallerano, che è quella che incontra chi entra
nel paese, pur se deturpata da un cartello di senso unico che forse sarebbe
meglio mettere in una posizione diversa, è impreziosita da una cornice in
bugnato, chiusa ai lati da due coppie
di lesene, le più aggettanti delle quali
leggermente divaricate. Il tutto è ornato dallo stemma della famiglia Marescotti, e la scritta “AN[NO]* DO[MINI]*
GALEATIUS CARD. MARESCOTTUS 1692”. E’
chiaro l’intento di dare importanza a
chi, per motivi dinastici, era il vero
padrone del feudo.
Ma la parte più interessante sta nella
facciata verso il paese, più semplice.
Qui infatti abbiamo anzitutto la lapide
con l’indicazione del vero artefice del
Portone:
Vignanello con i due borghi nel 1821
sta famiglia a cui appartiene Prudenza, e che acquistò il palazzo di Monte
Giordano dagli Orsini.
Prudenza Gabrielli fu la prima donna
in assoluto ad entrare nell’Accademia
dell’Arcadia, nel 1695, con lo pseudonimo di Elettra Citterio. Fu lei che,
superate le difficoltà dovute alla
morte di Alessandro nel 1703, prese in
mano l’organizzazione dello svolgi-
ALEXANDER COMES CAPISVCCVS
SFORTIAE VICINI MARISCOTTI
FILIVS
GALEATIS CARD MARISCOTTI
FRATER
PVBLICAE SECVRITATI ET ORNAMENTO
ANNO DOM MDCXCII
Sopra la scritta c’è uno stemma sormontato dalla corona comitale. Questa è la parte storicamente più interessante. Lo stemma è bipartito verticalmente: a sinistra, come di consueto, lo
stemma del marito, in questo caso lo
stemma dei Capizucchi; a destra lo
stemma della moglie, quello dei
Gabrielli. I Capizucchi sono una famiglia antichissima, forse di origine gotica, presente a Roma dalla metà del
Quattrocento, che nel 1596 acquisì il
marchesato di Poggio Catino.
L’importanza è testimoniata anche dal
possesso del bel palazzo in Piazza
Campitelli e dalla cappella presente
nell’adiacente chiesa di S. Maria in
Campitelli, dove è sepolta Anna Maria
Corsini, prima moglie di Alessandro .
Col cognome Gabrielli a Roma si
distinguono due famiglie, una di origine eugubina, l’altra detta “della Regola” dal rione dove abitavano. E’ a que-
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Il portone da Vallerano con particolare della lapide
e dello stemma Capizucchi Gabrielli
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Canino
mento delle adunanze arcadiche nelle
residenze del figliastro, Francesco
Maria ormai Ruspoli, fino alla sua
morte avvenuta nel dicembre del
1709.
Possiamo concludere dicendo che i
monumenti vanno “letti” come fossero dei libri e come era nelle intenzioni
di coloro che li promovevano, perché
in essi si nascondono una infinità di
notizie e curiosità che li rendono
ancora oggi vivi.
[email protected]
Nota bibliografica
Per quanto riguarda le notizie sulle famiglie Marescotti e
Ruspoli, così come per il Portone del Molesino, la fonte
principale è il fondo Ruspoli-Marescotti conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano, molto vasto e che contiene una enorme quantità di informazioni su Vignanello dal
1531 alla fine dell’800.
Per quanto riguarda Alessandro Capizucchi, esiste un
Archivio Capizucchi alla Biblioteca Centrale Statale di
Roma, meno vasto del precedente ma molto interessante.
Su Antonio Cartone:
Karl Noheles, La Chiesa dei SS. Luca e Martina, Bozzi editore, 1970, p. 109
E. Debenedetti Bonsignori (a cura), Roma, le case, la città,
1998, p. 135
Patricia Waddy, Seventeenth-Century Roman Palaces, MIT
press, 1990, p. 258
E. Debenedetti (a cura), L'arte per i giubilei e tra i giubilei
del settecento, arciconfraternite, chiese ed artisti, vol.I
Sulle famiglie romane:
C. Rendina, Le grandi famiglie di Roma”, vol. I , Compton,
2006
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Filosofia caninese
raccontata da Francesco Menghini a Bruno Del Papa
(segue dal numero precedente)
Filosofia dei tombaròli
Anche loro hanno la loro filosofia: quella dei
“corsi e ricorsi” della Storia. Come Giambattista
Bruno
Vico. O come Plutarco. Insomma i tombaroli caniDel Papa
nesi pretendono di riconoscere negli Etruschi i
loro antenati. E non sbagliano. Quello che gli Etruschi hanno lasciato - in tombe, iscrizioni ed oggetti vari - appartengono a loro,
veri eredi di tanta civiltà. Quelli dominarono un tempo, e ritorneranno a dominare in futuro: lo hanno già fatto
altre volte: il Papato, il Rinascimento, il Risorgimento… non
Tombaròli saggiano il terreno
sono forse opera loro? Ancora si
con lo spito
avrà un risveglio prossimo venturo; e loro, i tombaroli di Canino, si preparano all’evento. Per
questo studiano, depredano,
rubano e conservano - si fa per
dire - i beni degli Etruschi. Legittimamente, come i veri prosecutori, successori ed eredi di tutto
lo scibile etrusco. Molti, infatti,
studiano: si intendono di arte
etrusca; ne sono critici e sanno
valutare gli stili, le epoche… perfino le differenze fra gli autori:
“Ezechias differisce da Policleto
per… Eufronio dal Pittore di Berlino… in quanto pone l’occhio in
prospettiva frontale, mentre l’altro
lo rappresenta di tre quarti…”.
Roba fina… da veri intenditori! E
sanno perfino leggere e interpretare le iscrizioni… In quanto ai
bronzi, poi…
Glielo avete insegnato voi…
Macché… sono loro che l’hanno
insegnato a me. Oddìo, qualcuno
quegli oggetti se li vende pure,
magari per farci la casa; ma il
concetto rimane sempre quello: i
corsi e i ricorsi degli Etruschi.
Quando poi Canino sarà divenuta la nuova capitale dell’Ecumene Etrusco, allora… potremo
riprendere la produzione su
scala industriale di vasi, manufatti, bronzi… Qualcuno ha già
incominciato. Chi?
Li conosciamo! Lo sappiamo
tutti chi sono. Ci sono di quelli
che riproducono tali oggetti alla
perfezione, tanto da non poterli distinguere da quelli antichi. I musei ne sono
pieni… ma voi non ne sapete niente?
Io sto con l’orto e zappo li frati…
Come dire: “Io dormo da piedi e faccio finta di niente”…
Come siete malfidati!...
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