ANDREA BANCHERO
NR. Matricola 10032610
Università del Piemonte Orientale, Dipartimento di Giurisprudenza, Scienze politiche, economiche e sociali.
DIRITTO INTERCULTURALE, Prof. Roberto Mazzola
LA SAS VS FRANCE
(Ricorso n. 43835/11)
SENTENZA STRASBURGO 1 LUGLIO 2014
PARTI:
Ricorrente: SAS (la ricorrente ha richiesto di celare il suo nome) una donna francese di origine pakistana.
Stato convenuto: Francia
Terza parte interveniente: Belgio e diverse organizzazioni non governative (Amnesty Internationa;l ARTICLE 19; The Human Rights Centre of Ghent University; Liberty; Open Society Justice Initiative
PRESENTAZIONE DEL FATTO:
La ricorrente è una cittadina francese nata nel 1990 in Pakistan ora residente in Francia che, in conformità con la sua cultura e come prescritto dalla propria religione musulmana, indossa gli indumenti religiosi del burqa e del niqab senza alcuna forma di costrizione da parte della famiglia
A seguito dell’entrata in vigore della Legge n° 1192 del 11 Ottobre 2010 «Interdisant la dissimulation du visage dans l'espace public», adottata l’11 Ottobre 2010 e divenuta effettiva l’11 Aprile 2011, la ricorrente ha lamentato che il divieto di utilizzare il burqa nei luoghi pubblici le impedirebbe di professare la propria fede, in violazione dei diritti fondamentali sanciti negli artt. 3, 8, 9, 10, 11 e 14, 34 della CEDU.
Per questo motivo, SAS ha adito la Corte EDU. Il ricorso è stato assegnato il 1° febbraio 2012 alla Quinta Sezione della Corte EDU.
Il 28 maggio 2013 tale Sezione ha dichiarato la propria incompetenza a pronunciarsi e ha trasmesso il caso alla Grand Chambre. La ricorrente e il Governo hanno depositato osservazioni scritte sulla ricevibilità e sul merito del caso.
Diverse organizzazioni non governative e il governo belga sono stati autorizzati a presentare osservazioni scritte. Il governo belga è stato anche ammesso a partecipare all’udienza del 27 novembre 2013.
La Corte europea dei diritti dell’uomo il 1° luglio 2014 ha respinto il ricorso presentato da SAS riconoscendo che il divieto generale imposto dalla legge francese di proibire l’uso del burqa rientra nei poteri dello Stato per garantire le condizioni affinché le persone possano «vivere insieme» nella loro diversità. La Corte EDU ritiene accettabile che uno Stato attribuisca particolare importanza all'interazione tra individui e ritiene altresì che quest’ultima potrebbe essere pregiudicata dal fatto che alcuni di essi nascondano i loro volti nei luoghi e spazi pubblici. Dunque, la misura restrittiva può essere considerata proporzionata allo scopo.
TESI DELLE PARTI
ricorrente: SAS
La ricorrente non ha subito direttamente l’applicazione della legge, ma lamentava di venire indirettamente colpita nel godimento dei propri diritti fondamentali.
La ricorrente ha dichiarato di non essere contraria alla Legge e di essere disposta a mostrare il proprio volto quando sia necessario per effettuare controlli sull’identità, ma vuole che venga riconosciuto il suo diritto ad indossare liberamente questi simboli religiosi quando lo ritiene opportuno
Cfr. in particolare quanto esposto in S.A.S. c. France, cit., § 12: “Elle ajoute qu’elle porte le niqab en public comme en privé, mais pas de façon systématique; ainsi, par exemple, elle peut ne pas le porter lorsqu’elle est en consultation chez un médecin ou lorsqu’elle rencontre des amis dans un lieu public ou cherche à faire des connaissances. Elle accepte donc de ne pas porter tout le temps le niqab dans l’espace public, mais souhaite pouvoir le faire quand tel est son choix, en particulier lorsque son humeur spirituelle le lui dicte. Il y a ainsi des moments (par exemple lors d’événements religieux tels que le ramadan) où elle a le sentiment de devoir le porter en public pour exprimer sa religion et sa foi personnelle et culturelle; son objectif n’est pas de créer un désagrément pour autrui mais d’être en accord avec elle-même”. .
SAS lamenta che il Governo non ha tenuto in considerazione le pratiche culturali delle minoranze e il fatto che esistano forme di comunicazione diverse da quelle visive. L’uso del velo è stato interpretato erroneamente in quando non rappresenta sempre e solo una forma di segregazione, ma in determinati casi potrebbe costituire perfino una maniera per esprimere la propria emancipazione e autodeterminazione femminile. Questo divieto, dunque, potrebbe portare ad una sorta di chiusura ed esclusione dalla sfera sociale delle praticanti la religione mussulmana.
Infine, anche supponendo che gli obiettivi perseguiti siano legittimi, i fini potrebbero essere raggiunti con mezzi meno restrittivi
S.A.S. c. France, cit., § 78: «Thus, to address the questions of public safety, it would be sufficient to implement identity checks at high-risk locations, as in the situations examined by the Court in the cases of Phull v. France ((dec.), no. 35753/03, ECHR 2005-I) and El Morsli v. France ((dec.), no. 15585/06, 4 March 2008)»..
convenuto: Repubblica francese
Il Governo ha sostenuto che la limitazione introdotta dalla Legge ha perseguito scopi legittimi e che era necessaria, in una società democratica, per la realizzazione di diversi obiettivi quali: garantire la «sicurezza pubblica», ma ancora di più consentire la «protezione dei diritti e delle libertà altrui»
Secondo la tesi del Governo francese, radicalmente contestata dalla ricorrente, la legge persegue «deux objectifs légitimes: la sécurité publique et “le respect du socle minimal des valeurs d’une société démocratique et ouverte”»..
Secondo il Governo, per l’interazione umana è fondamentale il poter vedere il viso dell’individuo in quanto esso svolge un ruolo importante nell'interazione tra gli esseri umani: è attraverso di lui più di ogni altra parte del corpo che si esprime l'esistenza dell'individuo come persona unica
S.A.S. c. France, cit., § 122: «the face plays an important role in social interaction. It can understand the view that individuals who are present in places open to all may not wish to see practices or attitudes developing there which would fundamentally call into question the possibility of open interpersonal relationships, which, by virtue of an established consensus, forms an indispensable element of community life within the society in question. (para 122)»..
In particolare, il Governo aveva sostenuto che il velo rappresentava un simbolo di sottomissione della donna alla supremazia dell’uomo che la obbliga a indossarlo e, pertanto, chiaramente in contrasto con il principio della parità di genere
S.A.S. c. France, cit., § 85: «The Government found the applicant “particularly ill-placed to consider herself a victim of discrimination on account of her sex”, as one of the essential objectives of the impugned Law was to combat that type of discrimination as a result of women being effaced from public space through the wearing of the full-face veil». Contra tale affermazione la CEDU ha sottolineato la mancanza di prove a sostegno all'affermazione dello Stato: « that women who wear the full-face veil seek to express a form of contempt against those they encounter or otherwise to offend against the dignity of others. (para 120) » (...) «the expression of a cultural identity which contributes to the pluralism that is inherent in democracy. It notes in this connection the variability of the notions of virtuousness and decency that are applied to the uncovering of the human body. (para 120)».
Nel caso Leyla Sahin c. Turchia del 2005 la Corte europea aveva affermato che «equality before the law of men and women are being taught and applied in practice, it is understandable that the relevant authorities should wish to preserve the secular nature of the institution concerned and so consider it contrary to such values to allow religious attire, including, as in the present case, the Islamic headscarf, to be worn».. La legge che vieta di coprirsi il volto in pubblico era, quindi, automaticamente garantista del rispetto della parità tra i sessi
S.A.S. c. France, cit., § 119 (con esplicito riferimento soltanto al principio di eguaglianza tra i sessi). La Corte sembra ora accogliere in toto le riserve espresse dal giudice Tulkens in Leyla Şahin v. Turkey: “I fail to see how the principle of sexual equality can justify prohibiting a woman from following a practice which, in the absence of proof to the contrary, she must be taken to have freely adopted. Equality and non-discrimination are subjective rights which must remain under the control of those who are entitled to benefit from them” (Leyla Şahin v. Turkey, [GC], no. 44774/98, § 12 dell’opinione dissenziente, ECHR-2005). .
parte interveniente: Stato belga (a favore del governo francese)
Il Governo ha dichiarato che l’obbligo di indossare il velo integrale non è previsto dal Corano, ma rappresenta una interpretazione di minoranza.
Una legge sul divieto di indossare qualsiasi «abbigliamento che interamente o sostanzialmente nasconde il volto» era stata approvata in Belgio il 1 ° giugno 2011 ed era entrata in vigore il 23 luglio 2011.
I codici di abbigliamento che hanno prevalso nelle nostre società sono il prodotto di un consenso sociale e il risultato di un compromesso equilibrato tra la libertà individuale e i codici di interazione all'interno della società europea; pertanto, coloro che indossano abbigliamenti che nascondono il volto non intendono sicuramente assumere un ruolo attivo nella società.
terzi: non-governmental organisation (contro il governo francese)
Amnesty International ha osservato che il diritto di indossare abiti con una connotazione religiosa è un diritto protetto dalla Convenzione internazionale, mentre ARTICLE 19 ha osservato che l’uso di abiti o simboli religiosi è garantito dal diritto alla libertà di espressione e dal diritto alla libertà di religione e di pensiero. L'interveniente inoltre ha considerato che come rilevato dal Relatore speciale sulla libertà di religione nel suo rapporto 2011, il divieto potrebbe portare a una discriminazione nei confronti delle donne musulmane che vedrebbero pregiudicati i diritti al lavoro
S.A.S. c. France, cit., § 91: « In the third party’s submission, it is an expression of gender-based and religion-based stereotyping to assume that women who wear certain forms of dress do so only under coercion; ending discrimination would require a far more nuanced approach»., d'istruzione e di parità di fronte alla legge, incoraggiando inoltre casi di molestie e violenza
Cfr. Committee’s decision in Hudoyberganova v. Uzbekistan, U.N. Doc. CCPR/C/82/D/931/2000 (2004)..
The Human Rights Centre of Ghent University ha invece sottolineato, nel suo intervento, che le leggi francesi belghe in materia erano state approvate sulla base del presupposto che le donne che indossavano il velo integrale lo fanno sotto coercizione, ma questo non è dimostrabile che caso per caso
Cfr. E. BREMS, Y. JANSSENS, K. LECOYER, S. OUALD CHAIB AND V. VANDERSTEEN, Wearing the Face Veil in Belgium: Views and Experiences of 27 Women Living in Belgium Concerning the Islamic Full Face Veil and the Belgian Ban on Face Covering, in Cambridge University Press, September 2014..
Liberty ha evidenziato che le regole generali che disciplinano il divieto di indossare tale tipologia di abiti in pubblico potrebbe comportare una violazione, non solo di una serie di diritti fondamentali, ma anche degli strumenti internazionali e regionali, quali la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali. Ha inoltre ribadito che il divieto e il dibattito ha contribuito a stigmatizzare i musulmani e alimentare atteggiamenti razzisti nei loro confronti
S.A.S. c. France, cit., § 101: «In conclusion, the intervener observed that, whilst many feminists, in particular, regarded the full-face veil as demeaning to women, undermining of their dignity, and the result of patriarchy, others saw it as a symbol of their faith. In its view, these controversies were not resolved by imprisoning at home those women who felt compelled to wear it, on pain of sanctions. This was not liberating for women and in all likelihood would encourage Islamophobia»..
Open Society Justice Initiative ha sostenuto, invece, che un consenso europeo contro il divieto di indossare il velo integrale in pubblico sarebbe proporzionato solo in presenza di effettive motivazioni di ordine pubblico supportate da prove concrete; le misure introdotte dovrebbero essere oggettivamente e ragionevolmente giustificate, limitate nel tempo.
PRECISAZIONE NEL MERITO:
La Corte EDU ha dovuto deliberare in merito ad una vicenda delicata sotto il profilo politico, giuridico e sociale, concernente il rapporto tra culture, tradizioni e fedi differenti negli Stati parti della CEDU.
Con la sentenza 1° luglio 2014, la Corte compie un importante lavoro interpretativo e di sintesi sui precedenti casi giurisprudenziali (Dahlab c. Svizzera, Karaduman c. Turchia, Leyla Sahin c. Turchia, e El Morsli c. Francia, Ahmet Arslan e altri c. Turchia) e sulla legislazione nazionale francese in comparazione con quella degli altri Stati dell’Unione, tenendo conto dell’intervento del governo Belga e di numerose organizzazioni non governative.
In particolare, la sentenza emessa dalla Grande camera della Corte EDU si occupa della compatibilità della CEDU con la Legge francese n. 2010-1192 che pone il divieto di coprire il volto nei luoghi pubblici
La legge francese dell’11 ottobre 2010, n. 2010-1192, è molto chiara nel descrivere i tratti oggettivi della condotta vietata: “[n]ul ne peut, dans l’espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage” (art. 1). Lo spazio pubblico è rappresentato «des voies publiques ainsi que des lieux ouverts au public ou affectés à un service public», mentre restano espressamente esclusi dal divieto i casi di tenuta « prescrite ou autorisée par des dispositions législatives ou réglementaires, si elle est justifiée par des raisons de santé ou des motifs professionnels, ou si elle s’inscrit dans le cadre de pratiques sportives, de fêtes ou de manifestations artistiques ou traditionnelles” (art. 2)», sanzionando eventuali violazioni dello stesso con una multa (eventualmente affiancata dall’obbligo di seguire dei corsi di educazione alla cittadinanza). La legge, approvata a maggioranza dal Parlamento francese, fu largamente criticata da quanti ritenevano che tale divieto fosse teso a colpire esclusivamente le donne di religione musulmana che indossano particolari indumenti religiosi come il burqa, che nasconde il volto del tutto, o il niqab, che lascia solo una fessura per gli occhi.
Tale divieto che una parte importante della comunità musulmana ha vissuto come stigmatizzante, si andava a sommare a un'altra legge del 2004 che aveva introdotto il divieto di esibire ogni tipo di simbolo religioso nelle scuole pubbliche (Legge n° 2004-228 del 15 marzo 2004 «encadrant, en application du principe de laïcité, le port de signes ou de tenues manifestant une appartenance religieuse dans les écoles, collèges et licée publics»), e che aveva colpito esclusivamente le studentesse musulmane e i loro chador.
Nel ricorso alla Corte la ricorrente lamentava la violazione degli articoli 3 (divieto di trattamento inumano e degradante), 8 (diritto al rispetto della vita privata), 9 (libertà di pensiero coscienza e religione), 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e di associazione), singolarmente e in combinato disposto con l’articolo 14 (divieto di discriminazione), della CEDU.
Sotto il profilo della ricevibilità, la Corte ha respinto le eccezioni preliminari francesi che dichiaravano l’irrecivibilità del ricorso perché ipotetico e perché non erano stati esauriti i mezzi di ricorso interni.
In ordine al merito della questione, deve rilevarsi che, sebbene la ricorrente avesse promosso il ricorso con riferimento anche agli articoli 3, 10 e 11, la Corte EDU ha esaminato solo gli articoli 8 e 9 della Convenzione presi singolarmente e in combinato disposto con l’articolo 14 che sancisce il divieto di discriminazione.
La Corte, a grande maggioranza (15 voti a 2, con le giudici Jäderblom e Nußberger che hanno presentato un’opinione parzialmente dissenziente) ha ritenuto manifestamente infondata la violazione degli artt. 8, 9 CEDU.
La Corte concorda che il divieto generale di coprire interamente il volto è una limitazione al diritto posto dall’art. 9 CEDU (diritto alla vita privata che sulla libertà religiosa)
S.A.S. c. France, cit., § 139: «vu son impact sur les droits des femmes qui souhaitent porter le voile intégral pour des raisons religieuses, une interdiction absolue de porter dans l’espace public une tenue destinée à dissimuler son visage ne peut passer pour proportionnée qu’en présence d’un contexte révélant une menace générale contre la sécurité publique»., il quale tuttavia non avendo carattere assoluto perché limitato solo a particolari indumenti non rientra nel divieto.
Nel suo giudizio, la Corte di Strasburgo ha innanzitutto ritenuto che il divieto assoluto di indossare il velo islamico integrale che occulti integralmente o anche solo parzialmente il volto persegue un obiettivo legittimo di assicurare la sicurezza pubblica, ma tuttavia tale esigenza non risponde al requisito di proporzionalità in quanto il legislatore prevede che la norma sia applicata a prescindere dalla concreta minaccia, anche di ordine generale, a tale bene tutelato
S.A.S. c. France, cit., § 139: nel dichiarare che il divieto generale è sproporzionato rispetto allo scopo di garantire la sicurezza pubblica, la Corte riconosce gli effetti del divieto potrebbe avere alla ricorrente: «As to the women concerned, they are thus obliged to give up completely an element of their identity that they consider important, together with their chosen manner of manifesting their religion or beliefs»..
La Corte di Strasburgo, tuttavia, ritiene che la misura adottata dal Parlamento francese risponda anche all’obiettivo di assicurare l’osservanza dei requisiti minimi di vita in una società democratica rivolti alla protezione dei diritti e delle libertà altrui, prevista quale legittima interferenza all’esercizio dei diritti individuali, al rispetto della propria vita privata e all’espressione della propria fede religiosa di cui agli artt. 8 e 9 della CEDU.
Per tali motivi, la Corte di Strasburgo, ritenendo che nel valutare il bilanciamento tra i diritti in gioco, gli Stati membri godano di un ampio margine di apprezzamento, ha statuito che la misura adottata dal Parlamento francese possa dirsi rispondente a criteri di proporzionalità. Il giudice europeo ha affermato che lo Stato francese ha fatto un uso proporzionato (prevede una sanzione amministrativa di 150 euro e un divieto limitato al volto e non ad un qualsiasi abbigliamento religiosamente connotato o tradizionale, quale il semplice velo, il chador o la jilaba, che risultano in generale ammess11111i nello spazio pubblico, salve le restrizioni per i luoghi di lavoro statali) del margine di apprezzamento di cui gode nel disciplinare materie sensibili e ha sostenuto che l’intervento legislativo trova la sua ragione d’essere nella garanzia del rispetto del valori democratici del «vivre ensemble»
S.A.S. c. France, cit., § 122: «The Court is … able to accept that the barrier raised against others by a veil concealing the face is perceived by the respondent State as breaching the right of others to live in a space of socialisation which makes living together easier». (par. 2 dell’art. 9 ) e della «protezione dei diritti e libertà altrui» (pubblica sicurezza, proteggere l’ordine, la salute o la moralità pubblica) di cui ai paragrafi 2 degli artt. 8 e ss. della Convenzione.
La Corte, nell’accogliere la decisione del Governo francese, formula tuttavia considerazioni diverse sui valori richiamati dal predetto Governo per avvalorare la propria tesi, sostenendo che il divieto di coprire il volto viene giustificato dal fatto che evita di impedire la possibilità di coesistenza e comunicazione reciproca.
Secondo la Corte, il precetto di coprire il volto ed il corpo della donna islamica deriva dal Corano il quale però non specifica quale copertura si debba adottare. Sembrerebbe che l’uso dei diversi tipi di velo (burqa, niqab, chador) derivi da usanze o interpretazioni più o meno restrittive del testo sacro. Il velo comunque può essere ricondotto a simbolo di appartenenza ad una certa religione.
Nascondere il viso nei luoghi pubblici porta con sé una violenza simbolica e disumanizzante che contrasta con il tessuto sociale. L'occultamento volontario del viso è semplicemente incompatibile con le esigenze fondamentali del «vivere insieme» nella società francese. Non è solo un problema di ordine pubblico, ma di contrasto con le regole che sono essenziali per il patto sociale repubblicano, su cui si fonda la società francese.
La Corte ha privilegiato, dunque, un approccio tradizionale a difesa dei valori storico-culturali europei, piuttosto che optare per una scelta di apertura e di integrazione nei confronti di manifestazioni culturali e religiose che denotano tratti della personalità degli individui che la stessa Corte ha messo in secondo piano. Né essa ha dato rilievo alla circostanza che un divieto generale di indossare indumenti come il burqa non produce la loro eliminazione, quanto piuttosto l’esclusione dalla vita e dai luoghi pubblici di chi lo indossa spontaneamente, ottenendo un risultato opposto rispetto a quello previsto.
Tuttavia, appare contraddittorio che la Corte, dopo aver esaminato la legislazione degli Stati parti alla CEDU e aver esaminato che solo il Belgio ha approvato nel 2011 una legge che applica una disciplina equivalente a quella francese, abbia negato l’esistenza di un comune sentire europeo contro il divieto generale di indossare indumenti che coprono interamente il corpo in nome della sicurezza, dell’uguaglianza, della neutralità dello spazio pubblico e della dignità della persona.
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