A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
di Giuliana Benvenuti
Nel nostro mondo, ormai, i fatti non
significano nulla, o solo i più rumorosi
Franco Fortini
In concomitanza con la crisi della fiducia nella natura referenziale del
segno e dunque dell’idea stessa di realtà come trasmissibile attraverso il
linguaggio, che ha condotto alla rivisitazione dei concetti di mimesi e di
realismo ottocenteschi, anche l’idea di evento storico si è profondamente
modificata. Secondo Haiden White, «la progressiva scomparsa dell’evento
mette in discussione un presupposto fondamentale del realismo occidentale:
la contrapposizione tra fatto e finzione»1.
La discussione oramai pluridecennale sulle conseguenze in ambito storiografico della fine del realismo ingenuo, ovvero dell’idea che la lingua sia
un mezzo conoscitivo neutrale, è stata riportata alla ribalta in Italia dalla
pubblicazione di una silloge di scritti del comparatista Haiden White, Forme
di storia, che qui intendiamo presentare criticamente e che esce in concomitanza con l’edizione degli scritti dello storico Carlo Ginzburg, Il filo e le
tracce2, nella quale vengono tra l’altro riproposti i termini della polemica
di quest’ultimo nei confronti della prospettiva di White, che data a partire
dalla pubblicazione, nel 1973, di Metahistory3.
1. Realismo e antirealismo: la questione della referenzialità
In quello studio White aveva sottolineato l’insistenza del Nietzsche
della Nascita della tragedia nel proporre e difendere la natura estetica della
scienza come della religione, considerando tutte le verità delle perversioni
che congelano la vita nella forma definita del sogno, mortificando l’impulso
estetico al dinamismo incessante tra sogno e realtà, e aveva proposto una
lettura dell’inattuale sulla storia quale estensione delle riflessioni sulla tragedia. L’intenzione di Nietzsche era di «liberare l’uomo non dal mito ma
da quelle “illusioni” di cui erano tipici esempi la “storia” o “il processo
storico”»4, partendo dal presupposto che forma, significato e contenuto sia
1
H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006, p. 103.
C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006.
3
H. White, Metahistory. The Historical Imagination Nineteenth-Century Europe, Baltimore,
Johns Hopkins University Press, trad. it. Retorica e storia, 2 voll., Napoli, Guida, 1978.
4
Ibidem, vol. II, p. 91.
2
INTERSEZIONI / a. XXIX, n. 1, aprile 2009
131
Giuliana Benvenuti
della scienza sia della religione, sono motivati dal bisogno umano di imporre
un ordine all’esperienza.
Intrecciando la lettura di questi due testi con la Genealogia della morale,
White perveniva ad una lettura di Nietzsche incentrata sul «modo metaforico» che è proprio di ogni forma, poiché ogni forma è, in quanto tale,
metaforica. Su queste basi, ma attraverso un percorso che è impossibile qui
ripercorrere nel dettaglio, White concludeva che da Nietzsche:
lo storico viene liberato dall’obbligo di dire qualcosa sul passato, che diventa per
lui solo l’occasione per inventare ingegnose «melodie». La rappresentazione storica
diventa ancora una volta tutta racconto, niente intreccio, niente spiegazione, niente
implicazione ideologica, cioè «mito», nel suo significato originario quale lo intendeva
Nietzsche, «fabulazione»5.
Benché White prendesse le distanze dalle implicazioni ideologiche della
sintassi presente nella riflessione nietzscheana sulla storia (con la dicotomia
forte/debole e la subordinazione dell’impulso estetico alla volontà di potenza), è evidente che l’enfasi sull’elemento della fabulazione e su una storia
tutta risolta nella dimensione del racconto costituiva il punto di origine della
sua analisi della storiografia tradizionale.
L’intenzione di White era quella di caratterizzare in «modo neutrale e
puramente formale, le diverse strategie interpretative elaborate dagli storici
e dai filosofi della storia del diciannovesimo secolo»6.
Ma, dobbiamo chiederci, è davvero possibile un’analisi «neutrale e puramente formale» delle strategie interpretative sottese alla storiografia? È
possibile prescindere dallo studio delle forme di organizzazione del sapere/
potere che forniscono non solo la strumentazione, ma anche attribuiscono
legittimità alla scrittura della storia? Come hanno sottolineato de Certeau,
Althusser e Foucault, occorre riflettere sulla posizione dalla quale proviene
l’enunciato storiografico e sulla natura istituzionale che lo rende possibile.
Nel volume dedicato alla scrittura della storia, pubblicato nel 1975, de
Certeau – le cui tesi presentano rilevanti punti di contatto con quelle di
White, ma anche, come cerchiamo di evidenziare, rilevanti discrepanze
nell’impostazione generale del discorso – ha posto l’accento sulla circostanza
per cui lo storico lavora in sinergia con un apparato burocratico investito
della funzione sociale della produzione scientifica della storia:
Più generalmente, un testo «storico» (cioè una nuova interpretazione, l’esercizio di
metodi specifici, l’elaborazione di altre pertinenze, uno spostamento nella definizione
e nell’uso del documento, un modo caratteristico, etc.) enuncia un’operazione che si
situa in un insieme di pratiche. Questo aspetto è il primo e il più essenziale in una
ricerca scientifica7.
In altri termini, il racconto storico nasce nella relazione con il corpo
sociale e con un’istituzione del sapere: «Non si può parlare di racconto
storico laddove non sia esplicitata la relazione con un corpo sociale e con
5
Ibidem, vol. II, pp. 146-147.
Ibidem, vol. II, p. 225.
7
M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Paris, Gallimard, 1975, trad. it. La scrittura della
storia, Milano, Jaca Book, 2006, p. 72. La convergenza tra le tesi di de Certeau e quelle di
White viene ricordata da C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 210.
6
132
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
un’istituizione del sapere»8. La possibilità di parlare in nome del passato,
di dire un’assenza, è attribuita allo storico dal suo essere il rappresentante
di un sapere che organizza una intelligibilità con una normatività e questo
«sgrava dalla necessità di rintracciare un fondamento interno, squisitamente
epistemologico, come fondamento che legittimi l’operazione storiografica.
La storia-scienza è perciò una delle modalità di relazione con il passato. E
sebbene gran parte della produzione storiografica sia di tipo narrativo essa
mantiene una chiara distinzione dalla fiction perché sta in rapporto con una
pratica scientifica istituzionalmente riconosciuta»9.
Questa modalità di approccio al problema della legittimazione del discorso storiografico, che insiste sulla questione del rapporto con il potere e
sull’uso pubblico della storia, avvicinandosi alla sociologia del savoir e alla
sua analisi della «produzione» sociale del sapere, si è posta quale alternativa
possibile all’impasse che, a partire dal linguistic turn, si è venuta progressivamente delineando nella riflessione epistemologica, con l’opposizione tra
i difensori del realismo e quelli dell’antirealismo, nel nostro caso Ginzburg
e White, rappresentanti di due differenti concezioni dei rapporti tra realtà,
verità e linguaggio, e, pertanto, anche della relazione tra racconto storico e
racconto di finzione. Essa, tuttavia, se ha fornito importanti strumenti per
rendere comprensibile le forme di legittimazione della storiografia di impianto positivista non ha ancora raggiunto la medesima chiarezza rispetto alla
delegittimazione di tale discorso, della quale è tra i maggiori responsabili.
Questo contributo non pretende certo di colmare una simile lacuna, si limita
piuttosto a porre in evidenza le questioni che un approccio di tale natura
potrebbe, forse, consentire di illuminare.
Il dibattito epistemologico entro il quale si iscrivono le posizioni di
White e Ginzburg è stato piuttosto articolato e ha visto diverse posizioni
a confronto, che vanno dalla difesa del realismo classico, o metafisico (per
la verità molto rara dopo la diffusione delle tesi esposte nel 1953 nelle
Ricerche filosofiche di Wittgenstein), alla radicalizzazione estrema, in ambito
postmodernista, sulla scorta di Barthes10 e Foucault, delle tendenze antirealiste e «costruttiviste», attraverso una serie di posizioni intermedie tra le
quali ricordiamo quella di Putnam11. Putnam, nel tentativo di mantenere
saldo il nesso tra realismo e verità, ha proposto il concetto di realismo
«interno», ripreso con qualche correttivo da Topolski, che ha scelto la metafora del filo, contro quella delle tracce e della lente che distorce (metafora
ottica preferita da Ginzburg) per rappresentare il legame problematico dello
storico con le fonti. Il realismo «interno» ammette – proprio in virtù del
complesso rapporto con il passato istituibile a partire dal filo delle fonti,
che spesso sono anch’esse racconti – una pluralità di verità «in rapporto a
quadri diversi di descrizione, dunque a diversi livelli ideologici (normativi)
e teorici»12. È questo il massimo livello di mediazione consentito a chi
8
M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 101.
P. Capuzzo, Raccontare un assente, in «Contemporanea», 10, 2007, n. 2, p. 336.
Si vedano in particolare i contributi di R. Barthes, Il discorso della storia e L’effetto di
reale in Le bruissement de la langue. Essais critiques IV, Paris, Seuil, 1984, trad. it. Il brusio
della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1988, pp. 137-150 e 151-159.
11
H. Putnam, Reason Truth and History, Cambridge, Cambridge University Press, 1981,
trad. it. Ragione, verità e storia, Milano, Il Saggiatore, 1994.
12
J. Topolski, Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, Milano, Bruno Mondatori, 1977, p. 225.
9
10
133
Giuliana Benvenuti
comunque intende ribadire l’esistenza di un legame referenziale, di una
referenzialità però mediata e problematica, tra le parole e le cose, a chi
sostiene l’esistenza di un rapporto con la realtà che, se certo non considera
la lingua uno specchio della realtà, non le nega la capacità di dire qualcosa
di «vero» e, nel momento stesso nel quale tenta un’uscita dall’ordine di
questioni imposte dal linguistic turn, vorrebbe anche correggere alcune
proposte del pragmatismo13.
Il tentativo di mediazione tra istanze realiste ed antirealiste compiuto da
Topolski, ha il vantaggio di richiamare l’attenzione sulla necessità di uscire
dalle secche del linguistic turn, appellandosi all’esperienza, reintroducendo
categorie extralinguistiche, come accade, nel confronto con l’esperienza
traumatica dell’Olocausto, anche a storici radicalmente postmoderni come
Ankersmit e, in modo diverso, come vedremo, allo stesso White14. Se questo
è il maggior pregio di questa proposta il suo limite risiede, crediamo, nel
continuare ad eludere la questione dei rapporti di forza che prendono corpo
nel costituirsi dei saperi, o meglio, per utilizzare il lessico della riflessione
degli studi postcoloniali, nel non domandarsi chi ha il potere di rappresentare, una domanda che, peraltro, non investe solamente la storiografia, bensì
anche la letteratura15.
Prima però di configurare i limiti di un dibattito occorrerà ricostruirne
i contorni, tornando alla proposta di White, il quale si inscrive nella linea
antirealista, scegliendo un punto di osservazione retorico-narrativo.
Al fine di condurre la propria analisi del racconto della storia, White si
appunta sull’intreccio tra il livello manifesto delle narrazioni storiche, che
espone i concetti utilizzati per l’elaborazione dei dati, e il livello latente considerato come la base linguistica su cui sono precriticamente fondati questi
concetti. Questo secondo livello viene sondato a partire dalla teoria dei tropi
13
In particolare, l’idea che la storia non possa essere altro che «microstoria», nel senso qui
di giustapposizione di piccole storie, come ipotizzava Richard Rorty dopo aver radicalizzato le
posizioni di filosofi della scienza come Feyerabend e Kuhn. Si vedano R. Rorty, Consequences
of Pragmatism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1982, trad. it. Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986 e Contingency, Irony, and Solidarity, Cambridge, Cambridge
University Press, 1989, trad. it. La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà,
Roma-Bari, Laterza, 1994. Su queste posizioni si veda J. Topolski, Narrare la storia, cit., p.
200.
14
Le proposte più interessanti di Ankersmit sul terreno che stiamo dibattendo si trovano
in F.R. Ankersmit, Narrative Logic: A Semantic Analisys of the Historian’s Language, The Hague, Nijoff, 1983. Sulla questione della rappresentabilità dell’Olocausto si vedano, tra gli altri,
Probing the Limits of Representation: Nazism and the «Final Solution», a cura di S. Friedlaender, Cambridge, Harvard University Press, 1992 (che contiene anche l’intervento di White,
Historical Emplotement and the Problem of Truth – presente anche in Forme di storia, cit., con
il titolo Le strutture d’intreccio nelle rappresentazioni storiche e il problema della verità, pp.
62-87 e quello di Ginzburg, Just One Witness, riprodotto con qualche modifica e con il titolo
Unus testis in Il filo e le tracce, cit., pp. 205-224); R. Braun, The Holocaust and the Problems
of Historical Representation, in «History and Theory», 33, 1994, n. 2, pp. 172-197; Writing and
the Holocaust, a cura di B. Lang, New York, Holmes and Meier, 1988.
15
Si vedano G.C. Spivak, A Critique of Postcolonial Reason: Towards a History of the
Vanishing Present, Cambridge, Harvard University Press, 1999, trad. it. Critica della ragione
postcoloniale, Roma, Meltemi, 2004; H.K. Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge,
1994, trad. it. I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001; E.W. Said, Culture and Imperialism,
New York, Knopf, 1993, trad. it. Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto
coloniale dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998; e Reflection on exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press, 2000, trad. it. Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri
saggi, Milano, Feltrinelli, 2008.
134
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
proposta da Northrop Frye in Anatomia della critica, con la conseguente
individuazione di quattro strategie interpretative ed esplicative, o strutture
d’intreccio archetipe: romance, tragedia, commedia e satira16. La prefigurazione del campo storico avviene secondo White ad un livello preteorico
e precritico, specificamente linguistico, sul quale si fonda l’accordo tra lo
storico e il suo pubblico. Nel corso degli anni White ha difeso il proprio
punto di vista invitando i suoi critici a considerare come i codici siano essi
stessi contenuto di messaggi, a puntare l’attenzione sull’aspetto performativo
del linguaggio, a non dimenticare che la figurazione non può essere eliminata dal discorso, a tenere presenti, insomma, tutte quelle acquisizioni della
linguistica che ci mostrano come «la referenzialità e la rappresentazione
linguistiche sono questioni molto più complicate di quanto prospettarono le
vecchie concezioni letteraliste del linguaggio e del discorso»17.
Le numerose obiezioni al discorso di White che sono derivate dall’uso
della teoria tropologica sono, come White ci ricorda lucidamente, depotenziate via via che si affievolisce la fiducia nelle distinzioni tra «linguaggio
letterale e linguaggio figurativo, tra discorso referenziale e discorso nonreferenziale, tra prosa fattuale e prosa di fantasia, tra contenuto e forma di
un dato tipo di discorso e così via»18. Fa eccezione l’obiezione mossagli anni
or sono da Ankersmit, che si situava su una linea di antirealismo ancora
più radicale e imputava a White un residuo di idealismo frammisto ad un
residuo di realismo19, e ancora fa eccezione, in parte almeno, quella che gli
è venuta da Topolski, il quale in sostanza accusa White di restare impigliato
negli stessi meccanismi che pretende di analizzare con la neutralità di chi
compie un’analisi formale, ovvero di ricorrere, attraverso la teoria tropologica di Frye ad una «griglia teorica» di quelle che finiscono per strutturare
«in maniera fondamentale tutto il racconto»20. Rientra invece nella tipologia
delle critiche evocate da White – quelle fondate cioè sulla difesa della referenzialità – la prospettiva di Ginzburg, che muove un attacco a ciò che
egli considera un inaccettabile relativismo il cui limite consiste nell’«eludere
la distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di valore»21.
In virtù della centralità della riflessione nietzscheana per la storia non
solamente artistica del Novecento, e non solo della «filosofia della storia»
ricostruita da White, ma anche della interconnessa «filosofia del linguaggio»,
Ginzburg non si esime dall’analizzare le origini nietzscheane dell’ultima versione, assolutamente radicale, di scetticismo storiografico, riconducendola ad
uno dei passi più commentati dello scritto nietzscheano pubblicato postumo,
nel 1903, Su verità e menzogna in senso extramorale:
Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeti16
N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton, Princeton University Press, 1957,
trad. it. Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari,
Torino, Einaudi, 1969.
17
H. White, Forme di storia, cit., p. 77.
18
Ibidem, p. 76.
19
F.R. Ankersmit, Narrative Logic, cit., pp. 82-86. Un’analisi critica del rapporto di White
con il pensiero di Croce, nonché del ricorso a categorie gentiliane, è stata condotta da C.
Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 211-219.
20
J. Topolski, Narrare la storia, cit., p. 203.
21
C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 42.
135
Giuliana Benvenuti
camente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo
uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di
cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno
perduto ogni forma sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che
vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete22.
Nel commentare questo passo, Ginzburg riflette sull’impulso umano a
creare metafore quale motore della creazione mitica e artistica e sulla proposizione nietzscheana che il linguaggio sia intrinsecamente poetico, che ogni
parola sia originariamente un tropo23, inserendo queste tesi nel contesto «di
una crisi di scetticismo morale»24.
2. Nietzsche e la decostruzione: la retorica come innocenza
Ciò che interessa principalmente Ginzburg sono gli esiti decostruzionisti,
ovvero l’uso che del saggio incompiuto di Nietzsche è stato fatto da Paul
De Man, il quale ne ha accentuato la componente ironica25, diversamente,
ma non in contrasto, rispetto a White che di Nietzsche enfatizza la componente mitica e metaforica e che forse per questo si è rivolto ad altri testi.
Non è questa la sede per discutere se, come ritiene Ginzburg, vi siano
delle componenti autobiografiche all’origine della ripresa da parte di De
Man della retorica radicalmente antireferenziale di Nietzsche, quello che
ci interessa è quali strumenti egli mobilita per discutere la riduzione della
verità ad un insieme di tropi.
Ginzburg non tralascia una critica alle posizioni del Derrida degli anni
sessanta, impegnato in una valorizzazione del gioco nietzscheano e della sua
componente di affermazione, «affermazione gioiosa del gioco del mondo
e dell’innocenza del divenire, l’affermazione di un mondo di segni senza
errore, senza verità, senza origine, aperto ad una interpretazione attiva»26.
Percorrendo questa strada De Man ha sostenuto che ogni colpa può essere
scusata, ogni esperienza può essere affrontata, poiché l’esperienza stessa
esiste sempre simultaneamente come avvenimento empirico e come discorso
fittivo.
Di fronte a queste e ad altre consimili affermazioni, Ginzburg, sulla
scorta di Franco Moretti27, reagisce sostenendo che questa «retorica come
22 F. Nietzsche, Über Warheit und Lüge im außermoralischen Sinne, in Die Philosophie im
tragischen Zeitalter der Griechen, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin, de Gruyter, 1971,
trad. it. Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e
scritti 1870-1873, Milano, Adelphi, 1991, p. 231.
23 C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., pp. 24 ss. L’autore nota come le tesi di Nietzsche abbiano un antecedente nel libro di G. Gerber, Die Sprache als Kunst, 2 voll., Bromberg, Mittler,
1871 e indugia sul lascito delle discussioni con Overbeck, sulla polemica con Wilamowitz e più
in generale sulle implicazioni anti-teologiche di Su verità e menzogna in senso extramorale.
24 C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., p. 27.
25 Ibidem, p. 36. Ginzburg si riferisce in particolare all’intervento di P. De Man, Rhetoric
of Tropes (Nietzsche), in Allegories of Reading. Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke,
and Proust, New Haven, Yale University Press, 1979, pp. 103-118, trad. it. Retorica dei tropi
(Nietzsche), in Allegorie della lettura, Torino, Einaudi, 1997.
26 J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967, trad. it. La scrittura e la differenza,
Torino, Einaudi, 1990, p. 375. Si veda anche C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., pp. 38-40.
27 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine,
Torino, Einaudi, 2003, pp. 48 ss.
136
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
innocenza» finisce per trasformarsi in una «retorica dell’innocenza»28 e funge da strumento di autoassoluzione individuale e collettiva. Per questa via
l’Occidente si assolve dei propri crimini e la tesi «secondo la quale sarebbe
impossibile tracciare una distinzione rigorosa tra narrazioni storiche e narrazioni immaginarie (fictional)», ovvero la tesi sostenuta da White, rientra
nel quadro di un relativismo che ha un limite «al tempo stesso conoscitivo,
politico e morale»29 del quale Ginzburg respinge la radice decostruzionista
e radicalmente scettica, ponendo in evidenza come lo sfondo di queste
discussioni teoriche, la posta in gioco sia il problema della convivenza tra
culture diverse.
La risposta che Ginzburg articola di fronte alle tesi antirealiste mette
in discussione il loro fondamento, ovvero «l’incompatibilità tra retorica e
prova, o (che è lo stesso) la tacita accettazione di quell’interpretazione nonreferenziale della retorica che, come si è visto, risale a Nietzsche»30. Ginzburg tenta una operazione di demistificazione, alla luce di un’ermeneutica
del sospetto, delle tesi di White e più in generale della critica postmoderna
e decostruzionista alla storiografia professionale, chiedendosi a chi giova la
difesa della commistione tra realtà e finzione nella narrazione storiografica,
analizzata dal punto di vista di un antirealismo di matrice retorica. Nel far
questo, ma le due cose sono una sola cosa, egli difende la figura dello storico di professione, la necessità non soltanto del metodo, ma del riconoscimento sociale del valore della disciplina e dei suoi rappresentanti. Ginzburg,
in altri termini, si rende conto del pericolo insito per la definizione stessa
della storiografia come disciplina, della ipotesi secondo la quale non si darebbe accesso al passato se non mediato dal ricorso massiccio e sistematico
all’immaginazione e per questo insiste sul tema del falso, ovvero sul darsi di
una premeditata manipolazione della realtà, che nelle tesi degli antirealisti
verrebbe ad essere sostanzialmente indistinguibile dal vero.
Il ricorso al falso, viceversa, si configura quale luogo proprio della libertà
della letteratura nei suoi rapporti con la realtà, ma la proliferazione di testi
di finzione che parlano della storia, la concorrenza che il romanzo sembra
oggi in grado di fare al discorso storiografico, pone una serie di questioni
sulle quali occorrerà interrogarsi, come faremo tra poco in alcune rapide
note. Per ora basterà evidenziare che le ipotesi formulate da White portano,
quale corollario, alla delegittimazione dello storico, mettono cioè in discussione la sua funzione di depositario del sapere sul passato. In questo le tesi
di White convergono con quelle di de Certeau, che ha indicato come la
storiografia moderna sia una delle modalità possibili di rapporto con i morti.
Ma, di nuovo, la prospettiva archetipica mututata da Frye sembra impedire
a White di spostare lo sguardo sui rapporti di sapere-potere che legittimano
questa specifica modalità di rapporto con il passato.
28
29
30
C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., p. 40.
Ibidem, p. 42.
Ibidem, p. 43.
137
Giuliana Benvenuti
3. Eventi e fatti
La necessità di confrontarsi con eventi «inauditi» e di cercare una possibile assoluzione rispetto alle responsabilità dell’Occidente, sembra avere,
come suggerisce Ginzburg, non poco a che fare con l’idea che non esista la
possibilità di distinguere il racconto storico da quello finzionale. Non a caso
White insiste sulla specificità inaudita dell’«evento modernista», rispetto alla
quale occorre riconoscere la legittimità e la necessità di quelle nuove forme
di rappresentazione che l’arte ha messo in opera nel suo superamento del
realismo31. Dopo il verificarsi di eventi traumatici come la soluzione finale,
sulla scorta di Adorno viene posta in discussione la possibilità stessa di
rappresentare gli eventi storici. Ma la posizione di Adorno, che insiste sul
carattere inaudito e irrappresentabile, traumatico di un evento come lo sterminio programmato e tecnologizzato degli ebrei, non può essere assimilata
alla posizione di chi, come White, sostiene che la «dissoluzione dell’evento,
quale fondamentale unità di accadimento temporale e principio costitutivo
della storia» minaccia la stessa distinzione tra il «discorso realistico e quello
puramente immaginario»32.
Gli avvenimenti che nel corso del Novecento avrebbero prodotto trasformazioni inimmaginabili per gli storici precedenti, producendo lo «smantellamento del concetto di evento come oggetto di un genere prettamente
scientifico di conoscenza», sono per White eventi che hanno la natura
di «olocausti», tra i quali egli annovera «due guerre mondiali, la Grande
Depressione, le armi nucleari, l’esplosione demografica, l’assottigliamento
della zoosfera, carestie, genocidi come politica intrapresa coscientemente da
regimi “modernizzati” etc.»33. Tutti eventi che «agiscono sulla coscienza di
certi gruppi sociali come i traumi infantili si ripercuotono sulla psiche di
individui affetti da nevrosi»34.
Nella proposta di White scorgiamo un legame sostanziale tra la storia
del Novecento, la «svolta linguistica» e le nuove forme di rappresentazione
artistica che mettono in questione la tradizione del realismo.
White si richiama alla discussione sullo status epistemico della narratività,
avvenuta nel corso degli anni settanta (e che ci rimanda in primo luogo ai
nomi di Barthes, Kristeva, Derrida, Lyotard, Ricœur) dove la narratività è
stata concepita come contenuto del mito moderno, ovvero dell’ideologia,
accusata di produrre una soggettività assoggettata, criticata in quanto genere
privilegiato del diritto, considerata una modalità meramente consuetudinaria
di dare forma e senso al mondo, una forma ormai in via di superamento o,
viceversa, concepita quale manifestazione entro il linguaggio dell’esperienza
umana della temporalità, descritta, infine, in relazione alla sua funzione
sociale quale fonte di legittimazione dell’autorità35. Per White, ciò che ren31 Si veda H. White, The Modernist Event, trad. it. L’evento modernista, in Forme di storia,
cit., pp. 103-123.
32 H. White, Forme di storia, cit., p. 103.
33 Ibidem, p. 107.
34 Ibidem, p. 106.
35 Si veda R. Barthes, Il discorso della storia, in Il brusio della lingua cit.; J. Kristeva, Séméiôtiké: recherches pour une sémanalyse, Paris, Seuil, 1969, trad. it. Semeiotiké. Ricerche per
una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978; J. Derrida, La loi du genre (conferenza del 6 luglio
1979), in Parages, Paris, Galilée, 1986, trad. it. Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Milano,
Jaca Book, 2000, pp. 299-334; J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris, Les Editions
138
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
de questo dibattito un punto di svolta è il riconoscimento della narrativa
come «un modo discorsivo il cui contenuto è la sua forma»36. La narrazione
non è il «mito» di Barthes, ovvero una «distorsione della realtà a noi data
in percezione», né «una manifestazione epifanica di un livello metafisico
dell’essere», quali sarebbero le «strutture della temporalità» di Ricœur 37.
La narrazione è invece «l’apparire in una forma discorsiva di una delle
possibilità topologiche di uso del linguaggio»38. Intesa in questo senso, essa
sarebbe «un universale culturale perché il linguaggio è un universale umano», pertanto, «non possiamo eliminarla dal discorso più di quanto possiamo bandire il discorso stesso dall’esistenza»39. Il problema è semplicemente
la scelta dell’una o dell’altra forma archetipica, una scelta che lo storico
compie in sintonia con l’orizzonte d’attesa del proprio pubblico.
Il dibattito coinvolge la distinzione tra evento e fatto, dove il primo, non
potendo essere rivissuto dallo storico, resta opaco perché sempre mediato
dalla sua trasposizione linguistica, il fatto. L’evento non viene più concepito
come oggetto di un sapere scientifico, poiché la teoria tropologica ridefinisce
le relazioni tra fatto e fantasia all’interno di qualsiasi genere di discorso. Ne
deriva che
se non esiste nulla di simile ai fatti nudi e crudi ma solo eventi in diverse descrizioni, allora la fattualità dipende dai protocolli descrittivi usati per trasformare eventi
in fatti40.
La critica all’ingenua fede positivista, nella quale troviamo White solidale con le istanze di delegittimazione ricordate in apertura, ha condotto
White, attraverso Frye, a «considerare le narrazioni storiche per quello che
evidentemente sono: costruzioni verbali, i cui contenuti sono tanto inventati
quanto trovati e le cui forme hanno più in comune con i loro corrispettivi
nella letteratura di quanto abbiano con quelli nelle scienze»41. L’accento viene ad essere collocato sulla capacità di costruire storie partendo da semplici
cronache, su quella che già in Metahistory White denominava «costruzione
di strutture di intreccio»42. La storiografia sarebbe allora «la combinazione
di coscienza mitica e coscienza storica»43.
Benché sia innegabile che l’analisi dell’aspetto retorico della scrittura
storiografica mette in luce una componente essenziale della ricostruzione
storica e conduce alla necessaria acquisizione da parte degli storici della
consapevolezza circa l’aspetto narrativo e linguistico dei loro resoconti, fermare l’attenzione esclusivamente sui fondamenti epistemologici, o retorici,
della storiografia elude, come abbiamo accennato, la questione di come
de Minuit, 1979, trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli,
1981; P. Ricœur, Temps et récit, 3 voll., Paris, Seuil, 1983-1985, trad. it. Tempo e racconto, 3
voll., Milano, Jaca Book, 1986-1988; H. White, Literary Theory and Historical Writing, trad.
it. Teoria letteraria e scrittura storica, in Forme di storia, cit., pp.
36 H. White, Forme di storia, cit., p. 81.
37 Ibidem, pp. 81-82.
38 Ibidem, p. 82.
39 Ibidem.
40 Ibidem, p. 78.
41 Ibidem, p. 16.
42 Ibidem, p. 17.
43 Ibidem, p. 16.
139
Giuliana Benvenuti
siano selezionati i «protocolli descrittivi» utilizzati per trasformare i fatti in
eventi. Spostare l’attenzione su questo piano, ricordando che lo storico ha
sempre a che fare con un archivio costruito all’interno di specifici rapporti
di forza e che a sua volta dà vita ad una «ricostruzione» del passato che gli
è resa possibile dal suo legame di legittimazione con le istituzioni, significa
spostare il discorso sulle configurazioni di sapere-potere che si danno vuoi
nella costituzione dell’archivio, vuoi nel racconto storiografico.
Una volta accettata la conclusione, ormai generalmente acquisita nel
dibattito sulla sulla storiografia, che le interpretazioni di serie di fatti possono essere molteplici, il problema resta, semmai, come escludere la deriva
ermeneutica che tende alle infinite possibili interpretazioni e, accanto ad
esso, quello di comprendere come si determini la prevalenza di un racconto,
di una macronarrazione, rispetto a un’altra antagonista.
Riguardo a queste questioni la proposta di White punta sull’indagine
del rapporto tra lo storico ed il suo pubblico, il suo uditorio, lasciando in
ombra il percorso di ricerca e l’ermeneutica delle fonti, dal momento che,
considerati quali elementi potenziali di una storia, «gli eventi storici non
hanno valore intrinseco»44. La loro selezione, i modi della concatenazione,
il rilievo e la subordinazione di alcuni di essi ad altri, insomma tutti gli
elementi della messa in intreccio entro una storia che è tragica, comica,
romantica o ironica, dipendono «dalla decisione dello storico di configurarli secondo degli imperativi dell’una o dell’altra struttura di intreccio o di
un mito rispetto a un altro»45. La scelta dello storico a favore dell’una o
dell’altra configurazione è mediata dai presupposti che lo storico condivide
con il suo pubblico rispetto a come l’intreccio di determinati eventi debba
essere strutturato, rispondendo a imperativi «ideologici, estetici o mitici,
vale a dire di natura extrastorica»46. Per una via opposta ma convergente
rispetto alle preoccupazioni di Ginzburg, il problema della scrittura della
storia appare anche in questo contesto argomentativo sotto l’aspetto di una
questione morale47.
In linea di principio, secondo White, gli «olocausti» potrebbero essere
soggetti ad una narrazione comica: il divieto è di natura sociale, non storica,
dove però andrebbe chiarito quali sono gli imperativi di natura propriamente storica. E, poiché tutto ciò che è necessario allo storico per trasformare
una situazione tragica in una situazione comica è lo spostamento del punto
di vista, egli ha un compito prossimo a quello dello psicoterapeuta: riportare
l’estraneità e il mistero entro confini riconoscibili, entro configurazioni familiari. I dati vengono conformati a un’icona di un processo comprensibile e
44
Ibidem, p. 18.
Ibidem, pp. 18-19.
46 Ibidem, p. 19. «Lo stesso complesso di eventi può servire da componente di una storia
che è tragica o comica, a seconda del caso, sulla base della scelta dello storico di una struttura
d’intreccio che egli considera più adeguata per ordinare eventi di tale tipo così da farne una
storia comprensibile». Ibidem.
47
Le implicazioni che discendono dalla constatazione che su fronti opposti ed avversi gli
studiosi che si occupano di scrittura storiografica e del lavoro dello storico, riconducano le
decisioni ultime alla sfera della morale sono (di nuovo un lascito nietzscheano) sono rilevanti
e richiederebbero altri spazi ed altri strumenti per essere comprese appieno. Qui mi limito ad
evidenziare che ad essere in gioco non è solamente lo statuto epistemico della storiografia in
quanto forma di narrazione in Occidente, ma la posizione stessa della storiografia occidentale
entro la configurazione dei rapporti di forza nel mondo postcoloniale. Il territorio di osservazione andrebbe a questo punto esteso alla crisi dell’orizzonte della Weltgeschichte.
45
140
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
finito, che ne fuga l’aspetto minaccioso riconfigurandoli entro un intreccio,
reintrecciandoli in modo da rendere il loro significato comprensibile per
la collettività traumatizzata. Il racconto storiografico non ha tanto funzioni
conoscitive quanto mitopoietiche, come del resto White scrive a chiare lettere laddove afferma che, considerata da un’ottica puramente formale, «una
narrazione storica è non solo una riproduzione di eventi in essa riportati, ma
anche un complesso di simboli che ci dà le direzioni per trovare un’icona
della struttura di quegli eventi nella nostra tradizione letteraria»48. Se il come
debbano essere configurati gli eventi dipende dalla scelta e dalla abilità dello
storico (che risponde però ad esigenze di attribuzione di senso poste dalla
collettività), ecco che l’operazione compiuta dallo storico «è essenzialmente
un’operazione letteraria, cioè di costruzione fantastica, e chiamarla così nulla
toglie allo status delle narrazioni storiche in quanto forniscono un certo tipo
di conoscenza»49.
Il compito assolto dallo storico è quello di fornire di un senso compiuto eventi che altrimenti resterebbero privi di significato, irrelati. Sono
qui evidenti sia i lasciti nietzscheani, quelli dell’Inattuale sulla storia, sia la
possibilità di dare risposta al desiderio dell’Occidente di fare i conti con i
propri olocausti e con le «narrazioni» che li hanno resi possibili. Ma sono,
nel contempo, demistificate le pretese di «verità» di queste narrazioni.
È quello che White definisce l’elemento morale presente sotto l’aspetto estetico: narrativizzare è sempre anche moralizzare, ovvero, in questo
contesto argomentativo, contribuire a rendere accettabile, comprensibile,
assimilabile il passato, nietzscheanamente potremmo dire, a renderlo funzionale alla vita. Dove è chiara l’intenzione demistificante di chi indaga
la natura «extramorale» delle motivazioni che animano la scrittura della
storia. Il valore attribuito alla narrazione storiografica discende, secondo
White che riprende la riflessione postmodernista sulle macronarrazioni,
dal «desiderio che gli eventi reali manifestino la coerenza, l’integrità, la
pienezza e la conclusione di un’immagine di vita che è e può essere solo
immaginaria. L’idea che una sequenza di eventi reali possegga gli attributi
formali delle storie che si narrano su eventi immaginari poteva avere origine
solo da desideri, sogni, fantasticherie»50. Questo sogno è stato infranto e
White intende contribuire ad infrangerlo in via definitiva: ora si tratta di
trovare nuove modalità rappresentative. Ma, ed è questo il nodo gordiano,
le nuove forme di rappresentazione non potranno pretendere ad uno statuto
veritativo, saranno altre forme di «costruzione» del senso, altre modalità di
interpretazione del mondo51.
48
Ibidem, p. 23.
Ibidem, p. 20.
50
Ibidem, p. 60.
51
Le posizioni di White appaiono prossime all’antirealismo radicale di Robert Braun, il
quale sostiene che, in luogo di ricercare la verità, gli storici devono essere consapevoli dell’uso
pubblico della storia, ovvero della circostanza che i loro racconti servono a legittimare giudizi
attuali di natura politica, morale ed estetica. Si veda R. Braun, The Holocaust and the Problem
of Historical Representation, cit., ma anche J. Topolski, Narrare la storia, cit., pp. 228-231.
49
141
Giuliana Benvenuti
4. Evento e rappresentazione
La tesi di White è, come abbiamo visto, che la specifità dell’«evento
modernista» sia consustanziale alle modalità narrative che si distaccano dal
realismo ottocentesco per rivolgersi alla sperimentazione di nuovi modi di
rappresentazione caratteristici dell’«arte modernista»52, i quali prevedono: la
scomparsa dell’autore quale narratore di fatti obiettivi; la dissoluzione di un
punto di vista esterno alla narrazione (romanzesca), in breve del narratore
onnisciente; il prevalere di un tono dubbioso e interrogativo nella presentazione degli eventi; l’utilizzo del flusso di coscienza, del monologo interiore
e dell’erlebte Rede; l’impiego di nuove tecniche nella rappresentazione della
temporalità. A tale proposito White afferma:
Quanto detto indica che le modalità moderniste di rappresentazione possono
offrire possibilità di rappresentare la realtà sia dell’Olocausto sia della sua esperienza
come nessun’altra versione di realismo potrebbe fare53.
La proposta di White è quella di ricorrere ad una «scrittura intransitiva»
nella quale l’evento venga espresso da uno stile della «voce media»54, una
scrittura che, forte della critica al realismo ottocentesco (i cui caratteri sono
stati indagati esemplarmente da Auerbach55), sia incapace di rappresentare
eventi come «l’Olocausto, la Soluzione Finale, la Shoah, il Churban o il
genocidio tedesco degli ebrei», attraverso un nuovo stile, lo stile appunto
«modernista»56. La «voce media» consentirebbe di situare lo storico all’interno della propria narrazione, egli non si proporrebbe quale narratore esterno,
ma narrerebbe, nel medesimo tempo, l’Olocausto e il processo del racconto
sull’Olocausto, divenendo parte dell’evento che narra57.
Siamo così ricondotti alla questione della legittimità di certe possibili
modalità della rappresentazione e ai condizionamenti sociali che le consentono e/o proibiscono. Siamo, in breve, posti nuovamente dinanzi ai problemi
52
«Desidero chiarire – scrive White in una nota al saggio L’evento modernista – che con il
termine “modernismo” non mi riferisco a quel programma di dominio della natura attraverso
la ragione, la scienza e la tecnologia presumibilmente inaugurato dall’Illuminismo; mi riferisco
invece ai movimenti letterari e artistici, promossi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo
proprio contro quel programma di modernizzazione e i suoi effetti sociali e culturali, rappresentati da scrittori come Pound, Eliot, Stein, Joyce, Proust, Woolf e altri». Forme di storia,
cit., p. 211.
53
Ibidem, p. 101. Un problema diverso da quello della rappresentabilità/irrappresentabilità
dell’Olocausto mi pare quello, che White intreccia senza soluzione di continuità a questo, del
ruolo dei media nella derealizzazione dell’evento. Gli esempi scelti da White sono, tra gli altri,
la trasmissione reiterata dell’esplosione del Challenger e il caso del processo a O.J. Simpson,
eventi che mostrerebbero una elisione della distinzione tra «interno» ed «esterno» e di quella
tra «inizio» e «fine».
54
Si veda R. Barthes, Scrivere, verbo intransitivo?, in Il brusio della lingua, cit., pp. 13-22,
che aveva proposto la nozione di «voce media» risalendo all’antica lingua greca e ad una forma
né attiva né passiva, vicina alla forma riflessiva, che esprime la voce (autoriale) dall’interno
dell’azione e del testo.
55
E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, 3 voll.,
Bern, Francke, 1946, trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 voll., Torino,
Einaudi, 1996.
56
H. White, Forme di storia, cit., p. 101.
57
Sull’utilizzo della «voce media» nel racconto dell’Olocausto si veda H. Kellner, «Never
Again» is Now, in «History and Theory», 33, 1994, n. 2, pp. 127-144, ora in The Postmodern
History Reader, a cura di K. Jenkins, London-New York, Routledge, 1997.
142
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
posti dalla derealizzazione dell’evento, criticata da Jameson quale forma di
rifiuto della storicità che apre alle lusinghe del mito e ad un ricorso problematico all’archetipo58. Siamo anche riportati circolarmente a riflettere sulla
natura metaforica di ogni proposizione linguistica e dunque della forma
linguistica di accesso al reale59.
Sulla scorta di una rilettura, qui impossibile da ripercorrere nel dettaglio, della Retorica di Aristotele, Ginzburg oppone, a quella che egli
considera una deriva ermeneutica aperta dal decostruzionismo, l’ipotesi che
l’elemento costruttivo insito nella ricerca storica e nella storiografia non sia
incompatibile con la prova. «La proiezione del desiderio – scrive Ginzburg
– senza cui non si dà ricerca, non è incompatibile con le smentite inflitte dal principio di realtà. La conoscenza (anche la conoscenza storica) è
possibile»60. Rispetto alla tesi che «testi storiografici e testi di finzione sono
autoreferenziali perché accomunati da una dimensione retorica»61, Ginzburg
si richiama al «principio di realtà» senza il quale non si crea lo spazio per
una comprensione letteraria del reale.
Nella resistenza da parte di Ginzburg verso le proposte della decostruzione e verso la riduzione della storia a retorica, si avverte a più riprese una
preoccupazione di ordine morale e conoscitivo ad un tempo. Per Ginzburg
lo storico non deve considerare le fonti né come vie di accesso immediate
alla realtà né, al contrario, secondo la declinazione scettica, quali «muri che
ostruiscono lo sguardo», il problema dello storico è analizzare la «distorsione specifica» implicata da ogni fonte62.
Riprendendo la polemica di Arnaldo Momigliano nei confronti delle tesi
di White63, Ginzburg si oppone, non senza un certo sarcasmo, alla pratica
della «storia della storiografia senza storiografia»64 che egli riconduce alla
separazione tra il lavoro di ricerca e le narrazioni storiche che su di esso si
fondano, proposta da Croce già nel 1895 in un saggio giovanile, La storia
ricondotta sotto il concetto generale dell’arte, la cui importanza White sottolineava in Metahistory65. La convergenza tra la prospettiva di White e quella
58
F. Jameson, The Ideologies of Theory: Essays 1971-1986, 2 voll., Minneapolis, University
of Minnesota Press, 1988 e The Political Unconscious: Narrative as a Socially Simbolic Act,
London, Methuen, 1981, trad. it. L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente
simbolico, Milano, Garzanti, 1990.
59
Che vi siano forme non linguistiche di contatto con la realtà è questione che non può essere dibattuta in questa sede. Qui mi basta notare che, di fronte al problema della percezione,
White si arresta, ammettendo che la teoria dei tropi nulla ha da dire sulla questione. È anche
questa una apertura verso il riconoscimento dell’esperienza oltre il linguaggio.
60
C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., p. 49.
61
Ibidem, p. 52.
62
Ibidem, p. 49. Ma si veda anche, dello stesso autore, Occhiacci di legno. Nove riflessioni
sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998, in particolare il capitolo dedicato a Distanza e prospettiva. Due metafore, pp. 171-193.
63
Si veda A. Momigliano, The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: On Hayden White’s Tropes, in Comparative Criticism: A Yearbook, a cura di E.S. Shaffer, Cambridge,
Cambridge University Press, 1981, trad. it. La retorica della storia e la storia della retorica, in
Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di storia
e letteratura, 1984.
64
L’espressione di Momigliano si trova in La contraddizione felice? Ernesto De Martino e
gli altri, a cura di R. Di Donato, Pisa, Ets, 1990, p. 198 ed è ripresa da C. Ginzburg, Il filo
e le tracce, cit., p. 41.
65
C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 41.
143
Giuliana Benvenuti
dell’idealismo crociano viene poi indagata in modo ravvicinato nel saggio
Unus testis, che Ginzburg ripubblica nel suo volume più recente.
Ma piuttosto che riprendere le accuse di idealismo, relativismo e scetticismo mosse a White in Unus testis – che, nelle loro linee generali, dovrebbero a questo punto essere chiare – o ripercorrere i termini dell’intreccio, individuato da Ginzburg, tra processo giudiziario e processo di acquisizione e
interpretazione degli eventi in sede di ricerca storica, credo che qualche utile
suggerimento possa ora venirci dall’analisi delle forme ibride e confusive di
realtà e finzione nelle opere letterarie «moderniste», ovvero genericamente
oppositive verso le modalità rappresentative del realismo ottocentesco.
5. Romanzo e realtà
Una raffinata analisi delle intersezioni tra storiografia moderna e romanzo storico è stata condotta da Carlo Ginzburg nella Postfazione a Natalie
Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre66. In essa si evidenziava come la
rivendicazione da parte di Balzac e di Manzoni della vita privata e degli
effetti della vita privata sulla vita pubblica abbia costituito, vista col senno
di poi, ossia all’interno di una lettura «anacronistica», «la prefigurazione
delle caratteristiche più appariscenti della ricerca storica degli ultimi decenni – dalla polemica contro i limiti di una storia esclusivamente politica e
militare, alla rivendicazione di una storia della mentalità degli individui e dei
gruppi sociali, fino addirittura (nelle pagine di Manzoni) a una teorizzazione
della microstoria e dell’uso sistematico di nuove fonti documentarie»67. Nel
rintracciare in Manzoni e nel grande romanzo dell’Ottocento una sorta di
avanguardia letteraria della storiografia contemporanea e nel ricostruire in
tal modo anche la propria genealogia, Ginzburg osserva che «c’è voluto
un secolo perché gli storici cominciassero a raccogliere la sfida lanciata
dai grandi romanzieri dell’Ottocento – da Balzac a Manzoni, da Stendhal
a Tolstoj – affrontando campi d’indagine precedentemente trascurati con
l’aiuto di modelli esplicativi più sottili e complessi di quelli tradizionali»68.
A queste acquisizioni rispetto ai rapporti tra storiografia e letteratura segue
una critica al modello esplicativo di White, colpevole, agli occhi di Ginzburg, di trascurare i problemi concreti (le fonti e le tecniche di ricerca) e
di ridurre la storiografia dell’Ottocento (Michelet, Ranke, Tocqueville, etc.)
a «un puro e semplice documento ideologico»69.
La tesi di White riguarda lo statuto intrinsecamente fittivo di ogni narrazione, o meglio, la «abolizione del tabù che riguarda la commistione tra
fatto e fantasia con l’eccezione dei discorsi manifestamente immaginati»70.
Essa riguarda dunque la comparsa del «nuovo genere di rappresentazione
parastorica postmodernista, sia in scrittura sia in rappresentazioni visive,
66
N.Z. Davis, The Return of Martin Guerre, Cambridge, Harvard University Press, 1983,
trad. it. Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento,
Torino, Einaudi, 1984. La prefazione di Carlo Ginzburg è stata ora ripubblicata in appendice
al volume Il filo e le tracce, cit., pp. 297-315.
67
C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 307.
68
Ibidem, pp. 307-308.
69
Ibidem, p. 309.
70
H. White, Forme di storia, cit., p. 103.
144
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
chiamata a seconda dei casi docu-dramma, faction, infotrattenimento, factfiction, metafiction storica e così via»71. Si tratta di una nuova tipologia
di narrativa costruita a partire da fenomeni storici, che differisce in modo
sostanziale dal romanzo storico, il quale dava per assodata la capacità del
suo lettore di distinguere tra eventi reali ed eventi immaginari entro la
narrazione, di mantenere separate vita e letteratura. I nuovi generi danno
origine, al contrario, a forme di commistione che prevedono la sospensione
della distinzione tra il reale e l’immaginario – ma forse converrebbe parlare
di una nuova immagine del reale – e si fondano su una funzione referenziale
depotenziata, mescolando, attraverso un montaggio che colloca i materiali
sullo stesso piano, come nel famosissimo film di Oliver Stone, JFK, fonti
d’archivio e scene ricreate, inducendo lo spettatore ad assumere le congetture proposte dalla pellicola quali verità letterali. L’utilizzo del montaggio
serve ad annullare la distinzione tra fatto reale e creazione immaginaria in
modo da proporre un mélange nel quale eventi conosciuti attraverso prove
storiche, eventi basati su congetture ed eventi creati per sostenere l’intreccio e dare compattezza alla narrazione, vengono collocati esattamente sullo
stesso piano, risultando indistinguibili.
Questa commistione non opera nel solo film di Stone, bensì anche in
molta narrativa e cinematografia contemporanea. Essa configura un terreno
di riflessione possibile sia sulla differenza tra narrazione della storia (o delle
storie) e narrazione romanzesca, sia sulla possibile relazione tra scrittura
romanzesca e «problema del senso» o «crisi del senso». Gli eventi storici
vengono sottoposti ad un trattamento che presuppone l’idea che non ci
siano limiti alla loro interpretazione, ovvero a ciò che può essere detto
legittimamente sul loro conto, ma più radicalmente essi vengono dichiarati
rappresentabili – e questo da sempre – entro forme narrative che mescolano
realtà e finzione, poiché senza questa mescolanza non si darebbe discorso
possibile sul passato
Ma, ed è questo il punto sul quale vorremmo portare l’attenzione, già
Auerbach, nella lettura di Joyce e della Woolf, indicava oltre il realismo ottocentesco nella direzione di nuove modalità di esperienza e rappresentazione della temporalità. Quando White propone Between the Acts di Virginia
Woolf come modello di scrittura che consente una nuova rappresentazione
di una nuova realtà72, benché questo modello risulti estremamente problematico in sede storiografica, dobbiamo chiederci se gli storici di fine secolo
non scriveranno, come fa oggi Ginzburg quando parla del romanzo storico,
che il romanzo «modernista» ha costituito una sorta di prefigurazione dei
temi e dei problemi che essi si troveranno (ma in effetti si trovano già) ad
affrontare. Il punto critico delle proposte di White risiede nella oscillazione,
percepibile nei suoi scritti, tra un antirealismo radicale, dal quale deriva la
completa elisione della distinzione tra fiction e history, e la ricerca di una
nuova modalità di accesso al «reale» consapevole delle acquisizioni più interessanti della narrativa e della cinematografia contemporanee.
La Woolf, ad esempio, ci pone dinanzi ad una modalità di esperienza
della temporalità, ovvero costruisce una situazione finzionale che certamente
ha a che fare con la realtà, e che anzi ne garantisce la conoscibilità tema71
72
Ibidem, p. 104.
Ibidem, p. 113.
145
Giuliana Benvenuti
tizzando la mancanza di sostanza degli intervalli tra supposti eventi e degli
eventi stessi entro la percezione della famiglia Oliver, in un susseguirsi di
«epifanie mancate» dove alla fine la stessa distinzione tra atti e intervalli fra
gli atti sembra venire meno. È questa modalità rappresentativa derealizzante
che White auspica per la rappresentazione degli «olocausti» novecenteschi?
Se la risposta è, come mi pare che sia, affermativa, questo implica conseguenze di ampia portata non solamente sul piano della conoscenza storica.
Parimenti, quando White sostiene che occorre un massiccio intervento della
fantasia per raccontare la «storia dell’esperienza» degli assassini – come, a
suo avviso, aspira a fare Browning, che tenterebbe di ricostruire la storia
quotidiana dell’esperienza dei singoli carnefici73. Browning conclude che
una simile storia dell’esperienza è in realtà impossibile da concepire e che,
tuttavia, senza di essa, gli storici non conoscono niente del loro tema in
termini di esperienza. Richiedere allo storico una conoscenza esperienziale
del proprio oggetto di ricerca porta con sé alcuni corollari problematici: è
infatti discutibile che lo storico debba empatizzare con i protagonisti delle
storie che narra fino al punto da ricostruirne narrativamente le possibili costituzioni psichiche, congetturando sulle motivazioni e reazioni individuali.
Per un verso il richiamo all’esperienza, all’extratesto sembra porsi come
salutare correttivo di un eccesso di attenzione alla testualità, al linguaggio,
inteso come unica realtà effettivamente e concretamente analizzabile, oltre
la quale la realtà non si dà, perché sempre da esso mediata, metaforizzata
e veicolata a un tempo, per altro verso sembra discutibile una prassi ermeneutica fondata, come nell’ermeneutica classica da Schleiermacher a Dilthey,
alla sua riproposizione critica in Gadamer, sulla partecipazione dell’interprete all’orizzonte di comprensione di ciò che si ripromette di interpretare,
sia esso un testo letterario o una fonte storica, sulla «fusione di orizzonti»,
quello dell’interprete e quello del «testo» interpretato74. Questa prospettiva
presume infatti un’adesione precritica all’idea di tradizione quale luogo di
ricomposizione, prevede che l’istanza comunicativa non sia interrotta da
discontinuità e, infine e più profondamente, che l’universalmente umano si
faccia garante della comunicazione. È una concezione ermeneutica sostanzialmente irenica (ed eurocentrica) alla quale può legittimamente opporsi
una diversa concezione della tradizione e della storia, di ascendenza benjaminiana, che interpreta la tradizione come il luogo in cui si costruisce e
custodisce il racconto dei dominatori, la storia di chi vince.
Le ricognizioni di White alla ricerca di modelli narrativi plausibili pongono una questione che non sembra eludibile, quella cioè della rappresentazione di una realtà che pare irrappresentabile entro il paradigma descrittivo
del realismo ottocentesco. Non è detto che la risposta di White debba
essere accettata, anche perché più che di una risposta dovremmo parlare
di una frastagliata e non univoca serie di tentativi di risposte. È però impossibile sottrarsi alla domanda, alla quale va poi affiancata, a complicare il
quadro, l’interrogazione circa la legittimazione del sapere storico, o meglio,
la sua attuale crescente delegittimazione e la conseguente concorrenza delle
73
C.R. Browning, German Memory, Judicial Interrogation, Historical Reconstruction, in Probing the Limits of Representation: Nazism and the «Final Solution», a cura di S. Friedlaender,
cit.
74
H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik,
Tübingen, Mohr, 1960, trad. it. Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2001.
146
A proposito del dibattito sulla narrazione della storia
narrazioni di finzione sul terreno della ricostruzione del passato. Se è vero
che «ogni universo narrativo si basa, in misura parassitaria, sull’universo del
mondo reale che gli fa da sfondo»75, il testo romanzesco, fin dalle indicazioni fornite dal paratesto, era costruito solitamente in modo da evidenziare il
suo statuto di opera d’immaginazione entro la quale anche gli eventi reali
sono, o possono essere, legittimamente deformati. Abbiamo visto, però, che
si va oggi affermando una «confusione» dei piani entro nuovi generi letterari
che trovano un riscontro nel mercato editoriale. Essi propongono riletture
della storia che entrano in concorrenza con la scrittura storiografica, anche
in virtù dell’indebolimento dell’autorevolezza di quest’ultima.
Sorge allora il dubbio che la difficoltà di tracciare i confini tra reale
e immaginario abbia qualcosa a che vedere con il fallimento della critica
dell’ideologia. Se è vero che il potere si autolegittima attraverso strategie
affettive ed emotive che travalicano il problema della verità, della manipolazione della realtà e dell’informazione, allora trovare ed esibire le prove
di tali manipolazioni finisce per essere un’operazione pressoché inutile (lo
dimostra la eco effimera di romanzi e film di denuncia). Essere in grado di
dimostrare che la realtà è diversa da come ci viene presentata non sembra
più avere alcun effetto, non conduce alla messa in discussione, alla revoca
di fiducia verso chi ha manipolato e distorto ciò che è accaduto. Anche
l’esibizione di «prove» di mendacia lascia indifferente l’opinione pubblica,
che si forma una immagine della realtà emotivamente fondata e difficile da
modificare con le armi della critica dell’ideologia. È in questo quadro che
la letteratura, dopo il tramonto della storia-scienza positivista, può proporsi
come concorrente della storiografia. È questa la situazione alla quale si
oppone fermamente Ginzburg, che richiama la necessità di discernere e
distinguere la letteratura dalla storiografia: una cosa è mutuare dalla sperimentazione letteraria forme di rappresentazione del reale, altra cosa asserire
che la letteratura sia indistinguibile dalla storia.
Tuttavia, se è vero che in epoca postmoderna la storia è caduta in discredito, divenuta narrazione tra le narrazioni, con un valore di verità sempre
revocabile e in dubbio, non stupirà che la letteratura si appropri dei suoi
domini e che il romanzo (ma anche altre «finzioni», quella cinematografica,
televisiva, virtuale) divenga uno dei luoghi nei quali cercare la verità, o
meglio, un possibile orizzonte di senso o, se si preferisce, in termini postnietzcheani, una possibile interpretazione del mondo.
In questo quadro lo storico-terapeuta e lo storico-letterato si presentano
come figure che assecondano le proiezioni del desiderio che una collettività
compie sul proprio passato in funzione del proprio bisogno di rendere abitabile il presente e percorribile il futuro. È forse questo il punto critico verso il quale ci porta il discorso di White, che tocca, di nuovo, la questione
di come si legittimi e di quali bisogni soddisfi il discorso storiografico. Ed
è dunque a questo livello che la discussione deve ricollocarsi, interrogando
i modi della costruzione del racconto della storia come «sapere dell’altro», di un discorso che «comprende il suo altro – la cronaca, l’archivio,
il documento» attribuendosi il «potere di dire quello che l’altro significa
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U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 19921993, Milano, Bompiani, 1994, p. 114.
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Giuliana Benvenuti
senza saperlo»76. Per non restare irretiti da una sorta di «ossessione della
testualità» occorre tuttavia, pur consapevoli della impossibilità di attingere
direttamente alla «realtà» del passato, ricordare, con Edward Said che
it is not praticing criticism either to validate the status quo or to join up with a
priestly caste of acolytes and dogmatic metaphysicians. The realitis of power and
authority – as well as the resistances offered by men, women and social movements
to institutions, authorities, and orthodoxies – are the realities that make texts possible, that deliver them to their readers, that solicit the attention of critics. I propose
that these realities are what should be taken account of by criticism and the critical
consciousness77.
Il che significa, lo ripetiamo, ricollocare su basi diverse le questioni proposte in questo contributo, evidenziando come la decostruzione del concetto
di realtà modifichi la nozione stessa di ideologia e di critica dell’ideologia78,
come il rapporto tra lo storico e il suo pubblico sia da riconsiderarsi alla
luce di una diversa nozione di collettività, non più funzionale alla costruzione dell’identità nazionale, ma consapevole di come, per usare nuovamente
un’espressione di Said, acutamente interessato alla carica eversiva della
storiografia dei Subaltern Studies: «l’opera storiografica sia dopo tutto una
scrittura e non la realtà, e la storia e le fonti dei subalterni, proprio in
quanto subalterni, siano necessariamente nelle mani di altri»79.
76 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit. In altri termini, nel racconto storiografico
si determina qualcosa di analogo a quanto accade nel rapporto che l’esorcista e il medico
instaurano con la posseduta: «la voce della posseduta incosciente e il corpo della malata muta
sono là unicamente per dare un consenso al sapere che è il solo a parlare». Ibidem, p. 138.
Un’affermazione che ci introduce nelle aporie e nei paradossi di ogni discorso che parli in
luogo dell’alterità.
77 E. Said, Secular Criticism, in The World, the Text, and the Critic, Cambridge, Harvard
University Press, 1983.
78 Si veda, a questo proposito, da una prospettiva lacaniana, la riflessione di Slavoj Žižek
iniziata nel volume The Sublime Object of Ideology, London, Verso, 1989. Di particolare rilievo ci pare la definizione, proposta dallo stesso autore in modo articolato in Il Grande Altro.
Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di M. Senaldi, Milano, Feltrinelli, 1999,
dell’età attuale come età del cinismo e il conseguente rinvenimento del vero nemico ideologico
odierno precisamente nell’atteggiamento postideologico della «distanza cinica» che coincide
con la posizione postmoderna. Sul cinismo postmoderno si veda anche P. Sloterdijk, Kritik
der zynischen Vernunft, Frankfurt, Suhrkamp, 1983, trad. it. parziale Critica della ragion cinica,
Milano, Garzanti, 1992. All’interno di una bibliografia considerevole, rinviamo anche, per
una prospettiva diversa ma ugualmente feconda, a E. Balibar, Écrits pour Althusser, Paris, La
Decouverte, 1991, trad. it. Per Althusser, Roma, manifestolibri, 1991; Id., La Crainte des masses.
Politique et philosophie avant et après Marx, Paris, Galilée, 1997, trad. it. La paura delle masse.
Politica e filosofia prima e dopo Marx, Milano, Mimesis, 2001; F. Jameson, Late Marxism: Adorno,
or the Persistence of the Dialectic, London, Verso, 1990, trad. it. Tardo marxismo. Adorno, il
postmoderno e la dialettica, Roma, manifestolibri, 1994.
79 E. Said, Introduzione a R. Guha e G.C. Spivak, Selected Subaltern Studies, New York,
Oxford University Press, 1988, trad. it. Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura
di Sandro Mezzadra, Verona, ombre corte, 2002, p. 23.
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