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Zuschauendes Bewusstsein: lo spettatore da Hegel a Warhol

2005

an analysis of the "spectator consciousness" (Zuschauendes Bewusstsein) in Fenomenology of Spirit by Hegel, up to Warhol's concept of contemporary art

Zuschauendes Bewusstsein. La coscienza spettatrice da Hegel a Warhol I Secondo quanto afferma Guy Debord nel suo La Società dello spettacolo (1967), lo spettacolo si è sostituito a tutte le forme di dominazione del passato, ed in particolare costituisce la forma ultima del capitalismo. Tuttavia, se nel capitalismo l’individuo era considerato in quanto lavoratore, nella società spettacolare non è più riconosciuto come essere produttivo, ma è ridotto a consumatore. In particolare, lo spettacolo esige qualcuno che lo osservi, e dunque la sua stessa esistenza implica la figura del consumatore di spettacoli, ossia lo spettatore. Non diversamente dal capitalismo classico, che si fondava sull’alienazione del lavoratore rispetto al suo prodotto, il dominio dello spettacolo si fonda sull’“alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato”. G. Debord, La societé du spectacle, Paris 1971; tr. it. Milano, 1990, p.96, § 30. Ma la società dello spettacolo si definisce come un potere di tipo nuovo perché i sottoposti al suo dominio non ne possono essere consapevoli, convinti come sono di occupare il “piacevole” posto di spettatori. Ora, ciò su cui occorre però focalizzare l’attenzione è che il concetto di Debord di “coscienza spettatrice” non è completamente originale; esso infatti ha un importante precedente nella “coscienza spettatrice” di cui si parla nella sezione seconda della parte VII dedicata alla religione della Fenomenologia dello spirito di Hegel (1807). Qui faremo riferimento alla eccellente e soprattutto trasparente traduzione della Fenomenologia a cura di V. Cicero, Rusconi, Mialano 1995. E’ proprio in quelle pagine, non particolarmente frequentate, della Fenomenologia, che Hegel definisce una autentica “figura” fenomenologica, certo non meno importante di quella del servo-padrone o dell’anima bella, cioè appunto quella della “coscienza spettatrice”, o “moltitudine spettatrice”, o anche, sbrigativamente, démos, massa di spettatori. Tale figura non costituisce semplicemente – come in Debord – il contraltare individuale dell’universale società dello spettacolo – al contrario, come ogni dialettica dell’autocoscienza implica, essa non costituisce che la metà di un intero che comprende se stesso (lo spettacolo) e la sua parte (gli spettatori) in una unità più grande e insieme contraddittoria (lo spettacolo vero e proprio è sì quanto avviene sulla scena, con in più il fatto che avviene per e con degli spettatori). Così come accade per il potere, la cui analisi non può essere disgiunta dall’analisi della coscienza su cui si esercita (per la qual cosa occorre ribadire che la figura completa del dominio è quella che vede il servo come eccezione dialettica nell’universo della signoria, ed è per questo che si parla di autocoscienza servo-padrone), allo stesso modo va per lo spettacolo, per il quale si potrebbe parlare, come vedremo, di una autocoscienza attore-spettatore. Ci scostiamo qui dall’interpretazione dell’autocoscienza come “duplicità” di coscienze che si riconoscono, fornita specialmente da J. Hyppolite, Génese et structure de la “Phénoménologie de l’esprit” de Hegel, Paris 1946; tr. it. Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito, 1972, pp. 204 ss.; e siamo più vicini alle posizioni che vedono “l’unicità” dell’autocoscienza, come in parte F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito”. Introduzione alla lettura, Roma 1994. Certo, si potrebbe chiudere l’argomento dicendo che comunque la concezione spettacolare della società travalica la forma-spettacolo in senso stretto, e che quindi Hegel è qui più vicino alla Poetica di Aristotele che ai situazionisti, e non è un autentico antesignano di Debord come potrebbero esserlo Feuerbach e Marx (citati più volte da Debord); sennonché – a parte l’ovvia considerazione che i filosofi citati derivano direttamente il loro pensiero dalla dialettica hegeliana – vi sono almeno due cose sorprendenti nell’interpretazione che Hegel dà dello spettacolo. La prima è che la sua analisi è inserita nella parte dedicata alla religione, come se l’aspetto di “rappresentazione” di quest’ultima conducesse inevitabilmente ad un esito meramente estetico; la seconda è che il tema dello spettacolo e della rappresentazione emerge proprio nel momento culmine della dialettica, cioè nell’opera dello Spirito Assoluto. Il fatto è che lo Spirito non può divenire Assoluto se non passando dalla forma di sostanza a quella di soggetto (cosa che accade proprio con la religione, e con quella cristiana in particolare). Ma quando lo Spirito si fa Assoluto – cioè si fa Spirito del Tempo, ossia del nostro tempo, del “presente”, e si “presenta” – esso appare a se stesso come eine Galerie von Bildern (p. 1063), una lenta processione di immagini, ovvero uno Spettacolo di cui esso stesso è simultaneamente attore e spettatore. Sull’enigmatica descrizione dello Spirito Assoluto, cfr. G. Didi-Hubermann, Devant l’image, Paris, Minuit, 1993; il lento scorrere delle immagini farebbe pensare a una video-installazione, ma forse Hegel aveva in mente gli spettacoli di luci e suoni di epoca napoleonica; di fatto, quando si tratta di riassumere concetti universali spettacolarizzandoli, come è avvenuto di recente alla cerimonia di presentazione dei Giochi Olimpici di Atene, agosto 2004, ciò che viene riproposto è appunto una sorta di Galerie von Bildern (la storia della Grecia era ad esempio riassunta da tableaux vivant ipertecnologici raffiguranti le varie epoche storiche, quella della civiltà minoica, dell’epoca classica, poi di quella alessandrina, ecc. ecc.). Naturalmente resta una differenza: lo Spirito Assoluto è sì un ricapitolare, una “interiorizzazione rammemorante” (p. 1063), ma si tratta della ricapitolazione delle proprie contraddizioni, la storia dei propri fallimenti, per cui si può dire che il vero Assoluto – lungi dall’essere l’abbecedario pseudostorico dei trionfi di un popolo, come viene sbandierato ingenuamente in consimili occasioni “ufficiali” – è piuttosto “nient’altro che la disposizione logica dei propri tentativi precedentemente falliti di concepire l’Assoluto” (S. Zizek, For they know not what they do, London-New York 1991, pp. 99-100). Ecco: qui sta la differenza radicale tra Hegel e Debord, e tra Debord (e Baudrillard) e Warhol nella concezione dello Spettacolo: non un sistema universale, ma un movimento iperculturale in cui gli astanti non sono semplicemente la parte in causa, ma sono la causa stessa, il contenuto stesso dell’Universale-Singolare che li domina e di cui si trovano paradossalmente (cioè dialetticamente) ad essere i protagonisti. II Ma vediamo in dettaglio quali sono gli snodi del ragionamento hegeliano. Intanto, va notato che la religione, come stadio compiuto dello spirito, non sorge in un determinato momento storico (per es. dopo il soddisfacimento dei bisogni primordiali, ecc.). No: la fenomenologia religiosa è piuttosto un altro modo, una diversa angolazione, di considerare le cose che sono già state descritte da Hegel stesso nei momenti precedenti di coscienza, autocoscienza, ragione e spirito. Già l’intelletto per esempio, che sorge insieme alla coscienza, ha una sua consapevolezza del soprasensibile (come l’in-sé, il lato sfuggente del fenomeno, cfr. p. 895); ma siamo ben lontani dallo spirito religioso vero e proprio. Perciò, quando nella VII sezione della Fenomenologia Hegel si accinge a descrivere gli stadi dello spirito religioso, lo fa da un punto di vista che oggi dovremmo definire tra l’antropologico e lo strutturalista, come se trattasse di un’invariante dello spirito umano (se usare la parola e il concetto di “spirito” fosse permesso nell’antropologia strutturale, il che naturalmente non è!). All’interno dello strutturarsi dello spirito religioso si afferma la religione artistica. Ossia “lo Spirito è artista” (p. 925), perché, nel cercare di estrinsecare la propria figura a se stesso, prima agisce inconsciamente come fanno le api nel produrre le loro cellette (p. 919), ma ben presto eleva la sua figura “nella forma della coscienza stessa” (p. 925) – che è poi la forma umana. L’“arte assoluta” (ossia classica) nasce quando tramonta l’eticità, quando la sostanza irriflessa di un popolo si è infranta. All’inizio, infatti, l’arte è un lavoro istintivo, e l’arte è meno-di-sé (epoca primitiva); poi lo spirito va troppo oltre l’arte (è più-che-arte) nella rappresentazione di sé (epoca degli Egizi); ed è solo con l’avvento dell’arte assoluta (epoca dei Greci) che entra in gioco l’autocoscienza di questo fare. Dove si manifesta l’autocoscienza dell’arte? Per esempio nella figura dell’artista che forgia la statua del dio. Ora, le statue degli dei greci non sono più oggetti istintivi (menhir) o astratti (obelischi) ma figure umane. Ma, nel lavorarle, colui che le crea, pur senza riuscire ancora a riconoscersi in esse, vi effonde se stesso. L’artista ha trasfuso interamente nella sua opera ciò che appartiene alla sostanza, mentre, nel produrre l’opera, non ha conferito a se stesso nessuna realtà come individualità determinata (p. 933) Quindi, tra “l’opera e l’attività autocosciente che l’ha prodotta” esiste una separazione, che è la stessa che si verifica tra lo Spirito e la consapevolezza che esso ha di se stesso. In altri termini, la vera contrapposizione tra artista e spettatore è secondaria rispetto a quella che sussiste tra attività (attività produttiva o contemplativa) e opera (esser-cosa), che appare allo spirito ancora come cosa estranea. Il tratto che accomuna ogni opera d’arte – e cioè il fatto di essere prodotta nella coscienza e di essere fatta da mani umane – è il momento del Concetto che ... si contrappone alla stessa opera d’arte. E se questo Concetto, come artista o come spettatore, è disinteressato al punto da dichiarare che l’opera è assolutamente animata in se stessa, ... allora bisogna per converso tener fermo il concetto dello Spirito, il quale non può privarsi del momento di essere consapevole di sé. (p.933-5; sott. nostra) Si potrebbe spiegare il ragionamento hegeliano con un rimando alle analisi socio-storiche svolte da E. Kris e O. Kurz nel loro famoso saggio su La leggenda dell’artista Kris, E., Kurz, O., Die Legendevom Kunstler: Ein historisher Versucht, Krystall Verlag, Wien 1934; tr. it., La leggenda dell’artista, Torino 1980. – in cui si chiarisce come di fatto la figura autonoma dell’artista (distinta dall’artigiano) nasca solo in epoca alessandrina, e la sua leggenda si stabilizzi quando il nome (l’individualità) dell’artista viene collegato all’opera (scultura). Certo, si tratta ancora di opere destinate al culto, ma ormai tale culto è divenuto distaccato, consapevole di sé: nell’erigere il Partenone e nell’abbellirlo di statue, Pericle era ben conscio di creare qualcosa di valido non solo sul piano religioso, ma anche su quello estetico; questa consapevolezza è già in sé l’inizio del disgregamento della sostanzialità etica autenticamente religiosa. Ma l’opera d’arte assoluta resta ancora astratta e parziale, perché, in quanto “cosa” (per esempio statua) si contrappone come oggetto estraneo alla vita spirituale (culturale) del popolo. Essa apre le porte all’ “opera d’arte spirituale” – che, facendo a meno dell’aspetto cosale e concentrandosi su quello linguistico, vive veramente nello spirito di un popolo, il che segnatamente accade nella forma della tragedia. Ci avviciniamo qui molto alla concezione hegeliana dello “spettacolo”. Nella tragedia, infatti, lo spettatore è sì passivo, ma non estraneo all’opera. Le essenze universali (cioè gli déi), che sono ormai sullo stesso piano delle individualità autocoscienti (cioè gli eroi) si presentano alla “coscienza spettatrice” (p. 965). Ma tale coscienza non sta solo in platea, fuori dal palcoscenico dove la lotta tra universale e singolare ha luogo, ma anche dentro di esso, cioè all’interno dell’opera tragica – e vi sta in quanto “coro”. Nel coro [la moltitudine degli spettatori] ha la propria immagine riflessa, o meglio, la sua propria rappresentazione che enuncia se stessa (p. 967) In altre parole: la presenza del coro nella tragedia ci dice che la coscienza spettatrice sta dentro lo spettacolo, ma ci dice anche che vi sta in modo riflesso ed enunciando se stessa. Il coro, cioè, non è solo la voce degli spettatori che stanno giù in platea ad assistere alle scene, ma, essendo spettacolo esso stesso, ne costituisce l’inverso dialettico. Per dirla con un esempio, il coro nella tragedia ha la stessa funzione dei coretti in certe canzoni rock o in opere rock come The Rocky Horror Picture Show (un’opera quanto mai importante per la coscienza spettatrice, la quale infatti indugia in questo tipo di spettacoli durante la cui rappresentazione può godere riflessivamente del proprio contributo spettacolare!): non solo materializza il classico sentimento che tutti abbiamo quando vediamo il protagonista buono avviarsi verso un angolo oscuro dove sappiamo che si rintana il malfattore, o verso un evidente pericolo che a noi è noto ma a lui no (il tipico commento spettatoriale del genere “Oh Dio, non lo fare, non andare lì!”, gridato quasi nell’ingenua speranza che il protagonista ci possa sentire), ma fa parte del refrain stesso, fa parte dello spettacolo, della “rappresentazione” – e come tale la inverte. La rappresentazione, dopo l’intervento del coro non è più “pura”, puramente diegetica (per usare un termine tolto alla critica cinematografica Cfr. J. Aumont; A. Bergala; M. Marie; M. Vernet, Esthétique du film, Paris 1994; tr. it. Estetica del film, Torino 1998, pp. 85 ss.); se il protagonista non sente noi che stiamo a casa (o in platea) non può non sentire ciò che gli viene detto dal coro... e quindi la coscienza spettatrice fa a pieno titolo parte dello spettacolo, ma, con ciò stesso, lo spettacolo è un po’ meno distante, un po’ meno “spettacolare”. Ma Poiché l’autocoscienza reale viene ancora differenziata dalla sostanza e dal destino [= dagli dèi], essa è, da una parte, il coro, o meglio: è la moltitudine spettatrice che questo movimento della vita divina riempie di paura oppure in cui ... produce soltanto l’emozione della compassione inattiva. Dall’altra parte, nella misura in cui la coscienza coopera e appartiene ai caratteri ... questa unificazione è esteriore, è una hypocrisis, una simulazione: l’eroe, che qui entra in scena davanti allo spettatore, si scompone nella sua maschera e nell’attore, nella persona e nel Sé reale (p. 975) Ossia: nel momento in cui la coscienza spettatrice entra nella rappresentazione, ecco che tende a invertirla, a smagarla come rappresentazione, a far cadere il velo di suspension of disbelief tipico della “presa narrativo-spettacolare”. E’ questo un motivo chiaramente hegeliano, che già Hegel, nella Fenomenologia aveva adombrato nella figura del “Mondo invertito” (p. 245; cap. III su Forza e Intelletto, pte 3, sez. b): quand’è che una cosa ne inverte un’altra? non quando banalmente gli si oppone, ma quando, in una unità con essa, “è se stessa e il suo opposto” (p.251). Cfr. M. Moneti, Hegel e il mondo alla rovescia. Una figura fenomenologica, Firenze 1986. Per esempio, l’autentica opposizione non si realizza quando la rappresentazione finzionale si differenzia dalla realtà prosaica (come non passa tra mondo soprasensibile e mondo sensibile), ma diventa vera quando il mondo finzionale (spettacolare, teatrale, ecc.) include quello reale come sua parte. Questo implica però che la finzione si inverta in se stessa, e, ad esempio, il personaggio tragico divenga non più “credibile”, se ne percepisca il mascheramento e, sotto la maschera tragica, occhieggi il volto dell’attore, dell’individuo concreto. Ecco che la tragedia, dice Hegel, lascia così il posto ad una visione cinico-comica dello spettacolo, la commedia. Nella commedia questo sdoppiarsi-in-sé, questo negarsi e insieme tenersi dello spettacolo, è ormai un dato di fatto. Il Sé reale, l’individuo sotto la maschera, entra in scena giocando con il proprio personaggio, lasciando intendere la distanza che corre tra i due; il meccanismo è quello di certi film comici d’ambientazione storica: ovviamente, anche se il protagonista impersona un Faraone o un Imperatore, sotto sotto lascia capire di essere lui il primo a non credere all’ambientazione storica stessa in cui il film si dà le arie di svolgersi. Ma a chi “lascia intendere” questo sdoppiamento, se non allo spettatore? Allora la coincidenza coscienziale tra attore e spettatore è cosa fatta. Il Sé, entrando in scena qui nel suo significato di entità reale, gioca con la maschera indossata per esserne il personaggio; fuori da questa parvenza però esso ritorna subito nella sua propria quotidianità e nudità, mostrando che tale condizione non è differente dal Sé autentico — dall’attore come dallo spettatore (p. 975; sott. nostra) E’ il classico tòpos dello spettacolo comico di massa, il cui successo dipende in effetti meno dalla sua spettacolarità che dalla sintonia che esso sa raggiungere con il “suo pubblico”, con la capacità di metterne alla berlina le contraddizioni. Il demos – la massa universale ... soggioga e seduce se stesso mediante la particolarità della sua realtà e presenta il contrasto ridicolo tra la sua opinione di sé e la sua esistenza immediata, tra la sua necessità e la sua accidentalità, tra la sua universalità e la sua ordinarietà (p. 977) E’ il trionfo della società dello spettacolo: ma quest’ultima, lungi dall’essere un semplice opposto del mondo reale, ne costituisce il rovesciamento intrinseco, ossia costituisce una “realtà spettacolare” in cui gli spettatori si ritrovano a proprio agio tanto quanto, se non meglio, che nella “realtà reale”. ...l’unità che adesso si è prodotta non è più quella inconscia del culto e dei misteri. Il Sé autentico, piuttosto, coincide con il suo personaggio, così come vi coincide lo spettatore, il quale nelle vicende rappresentate si trova perfettamente a casa sua e nell’azione scenica vede agire se stesso. (p. 979; sott. nostra) Questo dimostra che lo spettatore non è solo una figura momentanea, transeunte o accessoria dello spettacolo, ma è il vero fulcro dell’azione artistica, senza di cui quest’ultima non avrebbe senso né luogo. “Ogni opera d’arte è un dialogo con chiunque le sia dinanzi” chioserà Hegel stesso nelle Lezioni di Estetica. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik [1818-29], in Werke, a c. di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Frankfurt a. M., 1969-71, vol. XIII; ed.. it. a c. di N. Merker, , Estetica, 2 voll., Torino 1976, vol. I, p. 296. Infatti la coscienza spettatrice incarna il punto chiave in cui “mediante la religione dell’arte, lo Spirito è passato dalla forma della sostanza a quella del soggetto” (p. 981). In altre parole, dalla forma estranea dell’universalità (divina) si è passati, tramite la rottura della suspension of disbelief e il conseguente passaggio dalla tragedia alla commedia, alla rappresentazione dello spirito in sembianze di individui, di uomini, di soggetti. Hegel lo aveva detto prima: che cos’è lo Spirito se non questo divenir trasparente a se stesso, l’atto di questo sapersi? Esso è perciò autore e insieme anche spettatore della propria rappresentazione: lo Spirito è realtà libera, restando a un tempo consapevole di sé, solo quando ha per oggetto se stesso come spirito assoluto. (p. 899). Strana (ma genuinamente dialettica) concezione dello Spirito Assoluto che ne vien fuori: non un paludato e noioso susseguirsi di altisonanti concetti universalissimi (Libertà, Felicità, Uomo, ecc.), ma un irridente occhieggiare dell’attor comico sotto il costume pretenzioso che indossa e a cui né lui né noi crediamo, perché, come in certi film della commedia all’italiana, “ci siamo già capiti” – facciamo parte dello stesso “gioco”. Con ogni probabilità, Hegel deriva questa idea da due fonti, la commedia Il mondo alla rovescia, di L. Tieck (1797) e soprattutto la “Prefazione” al Faust di Goethe, in cui i personaggi da retroscena (il Capocomico, il Poeta, il Pubblico) discettano sulla commedia che verrà esposta nello “spettacolo” come se quest’ultimo dovesse ancora iniziare. E’ questa la fonte più probabile del “mondo alla rovescia” hegeliano, su cui cfr. Moneti, cit. IV La differenza nella concezione dello spettatore tra Debord e Hegel è dunque fondamentale. Per Debord sostanzialmente lo spettatore viene alienato dal godimento dello spettacolo e ridotto ad una condizione di passività che da ultimo contribuisce al successo dello spettacolo stesso. Sfuggire a questa passività significa mettere in crisi il sistema spettacolare stesso, porre termine a una forma di connivenza e iniziare il rovesciamento del rovesciamento spettacolare. Per Hegel invece, lo spettatore esiste come tale solo finché non si rende conto di essere appieno lo stesso dello spettacolo medesimo, parte dialettica di uno Spirito che è tanto sostanza che soggetto. Per quanto l’impianto teorico di Debord si richiami ripetutamente alla dialettica, è come se egli temesse di trarre le conclusioni estreme delle proprie premesse. Egli arriva sì a dire che lo spettacolo è l’inversione di ogni cosa (conversione della realtà in apparenza, del lavoro in divertimento, ecc. ecc.), ma mantiene ferma la distinzione assoluta tra agente-attore-autore e spettatore. Lo Spettacolo appare dunque una cosa organizzata da un Agente oscuro (il Potere? il Capitale?) ai danni degli uomini, al fine di ridurli in cattività. Ma allora, nessuna inversione completa è stata attuata, perché di nuovo siamo di fronte ad una concezione del tutto tradizionale del dominio (i potenti contro gli impotenti, i ricchi contro i poveri, i consapevoli contro gli inconsapevoli, ecc.). Viceversa, la società dello spettacolo non regna perché gli uomini sono ridotti a spettatori, ma impera perché sono proprio questi ultimi a costituire, in sé e per se stessi, lo spettacolo vero e proprio. Non era questa del resto la concezione sociale di Warhol, un artista hegeliano se mai ve ne sono stati? Che cosa sta a significare l’ossessione per le celebrities, con cui Warhol commisurava quotidianamente il proprio grado di fama, se non l’idea di una cittadinanza completamente spettacolarizzata? Cfr. Hackett, P., ed., The Andy Warhol’s Diaries, New York 1989; tr. it., I Diari di Andy Warhol, Novara 1989. Se si analizza anche rapidamente il vero senso dell’opera warholiana si rimane sbalorditi dall’assenza totale di originalità che in essa si manifesta, e i cui residui intaccano ancora le opere di artisti meno significativi dell’epoca pop, come Johns o Rosenquist. Benché il culmine della sua attività artistica sia spesso confinato entro il lavoro pittorico, occorre dire invece che le repliche dei volti famosi realizzati in serigrafia sono soltanto la punta di un iceberg spettacolare che comprende la produzione di singolarità spettacolari come i semidivi sfornati dalla Factory, i volti mensilmente presenti sulla copertina del magazine Interview, i personaggi invitati a chiacchierare nel talk show tv Andy warhol’s Tv (1978), e via dicendo. Il volto di Marylin non ha nulla di particolare, se non il fascino di singolarizzare il Successo – vera epitome del passaggio dello Zeigeist da Sostanza (qualcosa di indefinibile, l’esser famosi) a Soggetto (un volto fra la folla, IL VOLTO, ad esempio quello di Marylin Monroe, o di Mao). Ma è evidente che a tutti è data questa chance di incarnare l’universale – anzi, ciascuno dovrebbe essere riprodotto, filmato, reso televisivo, reso famoso, perché l’universale giace in tutti. Era con questi intenti che Warhol disse una volta che la sua massima aspirazione sarebbe stata di realizzare una mostra “con gli spettatori alle pareti al posto delle opere”. Cfr. V. Bockris, The Life and Death of Andy Warhol, New York 1989; trad. it., Andy Warhol, Milano, 1989. In effetti, se si considera l’intera sua opera di “agente spettacolare”, insieme attore e spettatore di se stesso, durante la quale impiegò, promosse o incontrò migliaia di personaggi, più e meno noti, non si può fare a meno di pensare che quell’idea rappresenti la chiave autentica del suo “lavoro” di artista. Per Warhol, non meno che per Hegel, la distinzione non è quindi fra attori e spettatori, fra artisti e fruitori, ma fra un certo concetto di “opera” e il suo contenuto. Il suo contenuto – se si tratta di un’opera pura che non ha altri debiti da saldare – siamo noi. Provvisoriamente tale opera può avere il volto di Marilyn, ma, profondamente, essa siamo noi spettatori. Le pagine di Hegel sulla commedia antica non si attaglierebbero altrettanto bene, in una riscrittura della Fenomenologia dello Spirito à la Ménard (il protagonista del famoso racconto di Borges in cui uno studioso decide di riscrivere, esattamente e con le stesse parole dell’originale, il Don Chisciotte), all’attuale forma del reality show? Il reality show è “reale” nel preciso senso hegeliano dell’effettività spettatoriale, nel senso del “divenir reale” della coscienza spettatrice, o meglio, nel divenir autocoscienza della figura attore-spettatore. E il reality non è altro che la forma spettacolarmente compiuta delle intuizioni warholiane sull’opera d’arte con “gli spettatori al posto delle opere”. Non appaiono ingenue, di contro a tali sviluppi dello spettacolo, le invettive situazioniste a favore del détournément? Non sono proprio queste stesse forme di spettacolo estremo, nel bene o nel male, ad avere incarnato insieme le analisi hegeliane e le speranze warholiane e ad aver realizzato il più subdolo dei rovesciamenti?