II
MITOLOGEMI DELL’ESISTENZA
KÁROLY KERÉNYI
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Di Prometeo trattano quattro leggende:
Secondo la prima egli fu inchiodato al Caucaso, perché
aveva tradito gli dèi a vantaggio degli uomini, e gli dèi
mandavano aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente.
La seconda vuole che Prometeo, per il dolore procuratogli dai colpi di becco, si sia addossato sempre più alla
roccia fino a diventare con essa una cosa sola.
La terza asserisce che nei millenni il suo tradimento fu
dimenticato; tutti dimenticarono: gli dèi, le aquile, egli
stesso.
Secondo la quarta ci si stancò di lui che non aveva più
motivo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita –
stanca – si chiuse.
Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa. La leggenda
tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un
fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabile.
Franz Kafka1
Un problema si deve risolvere e, una volta risolto,
scompare. Il mistero invece deve essere sperimentato,
venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un
mistero che possa essere chiarito, risolto con una
spiegazione, non è mai stato tale. Il mistero autentico
resiste alla “spiegazione”: non tanto perché si
sottragga all’esame ricorrendo allo stratagemma di una
doppia verità, quanto perché non può, per sua natura,
venir spiegato, sciolto razionalmente. E tuttavia è
inserito in quella stessa realtà cui appartiene ciò che è
suscettibile di spiegazione, e si offre agli sforzi
ermeneutici ponendosi in un rapporto di assoluta
correttezza. Il mistero esige una spiegazione: ma questa
avrà solo il compito di indicare, appunto, ove risiede il
vero enigma.
Romano Guardini2
Franz Kafka, Prometeo [1918], in Idem, Tutti i racconti, a cura di Ervino Pocar, Milano,
Mondadori, 1976, p. 319.
2 Romano Guardini, Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins: eine Interpretation der Duineser
Elegien, 1941, p. 26, citato in Károly Kerényi, Nel labirinto, a cura di Corrado Bologna, Torino,
Bollati Boringhieri, 1983, p. 31.
1
41
I.
“Profondità” del mito
L’interesse per il mito è stata sempre una costante dell’ambito estetico,
perché solo con il mito si ha avuto la palpabile impressione di avvicinarsi alla
totalità vitale dell’uomo, collocata in un passato in cui sembravano affondare le
radici della stessa condizione storica. Come infatti i contenuti del mito sono
stati l’imprescindibile riserva di senso da cui attingere per creare opere
artistiche che li hanno affrancati dallo specifico vincolo religioso, consegnandoli
all’enigmatica verità delle forme, ugualmente hanno posto dinanzi allo sguardo
un nucleo di significati irrisolti. Questa peculiare ed evocativa ambivalenza,
continuamente oscillante tra chiarezza e oscurità, civiltà e barbarie, reazione e
progresso, riassume a sua volta la duplice possibilità di giudizio sugli stessi.
L’appello ad un confronto con questi concetti, che ci viene rivolto dalle
letterature delle epoche passate come da quelle moderne, mette infatti alla
prova il pensiero nelle sue stesse istanze, scoprendo un punto centrale ed
attuale del nostro tempo, ancora diviso tra un clima di sospetto, dato da un
convinto superamento illuministico di una ormai adulta razionalità, e una
romantica nostalgia per un lato irrazionale, nutrita di reazionario antimodernismo.1
Nel Novecento il mito è tornato a far discutere proprio a fronte di questa
alternativa, nel tentativo di spiegare la ripresa dei concetti mitico-religiosi che
dalla letteratura e dalla filosofia si sono estesi fino a coivolgere la vita sociale; si
pensi in particolare alle ben note correnti irrazionalistiche che, inneggiando alla
regressione al mito e all’arcaico, hanno ideologicamente strumentalizzato il
mito nella direzione del consenso politico.2 Questa riscoperta della dimensione
mitica sembrava fare tutt’uno con la denuncia di una razionalità abbandonata a
se stessa che, traendo dalle proprie profondità il mito, cercava di sopperire alla
perdita della propria legittimazione. D’altronde nell’epoca del disincanto non si
potrà più mirare a stabilire un contatto con la trascendenza e ci si dovrà
Al bivio tra queste prospettive si collocano gli autori tedeschi della cosiddetta Mythos-Debatte,
come per esempio Manfred Frank, Odo Marquard e Hans Blumenberg, che, partendo dalle tesi
di Max Horkeimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1997 [ed. or.
Dialektik der Aufklärung, 1947] in rapporto all’errore mitico che connota la stessa razionalità
strumentale moderna, o in relazione alla cosiddetta mitologia della ragione conseguente alla
democratizzazione dei saperi, avanzano l’ipotesi di un pensiero che sia insieme mitico e
razionale. Una discussione su questi temi si trova nel numero monografico di «Aut aut», 243244, 1991, titolato “Il mito in questione”.
2 Alcune interessanti ipotesi sugli aspetti filosofici ed estetici del mito nazionalsocialista si
possono leggere nel breve saggio di Philippe Lacoue-Labarthe – Jean-Luc Nancy, Il mito nazi, a
cura di Carlo Angelino, Genova, Il melangolo, 1992.
1
43
accontentare della possibilità di esperire il mito come volontà di vita e volontà
di potenza.3
Questo decadente utilizzo del mito, che aveva a che fare con quella
stanchezza della ragione che Freud analizzava ne Il disagio della civiltà,4 trova fra
gli anni ’20 e ‘30 in Thomas Mann (1875-1955) un’autorevole voce pronta a
denunciarne l’insito pericolo. Questi infatti, contrariamente a tante tendenze del
tempo, intuì quanto una certa lettura distorta del romanticismo contenesse il
facile rischio di un uso antiumanistico del mito, valorizzandone il lato ctonio, di
sangue e suolo, di passato e morte.5 Ponendosi come strenuo difensore di un
umanesimo in cui lo studio del mito e della religione, poggiando prima di tutto
sulla forza di una ragione morale, collocasse l’uomo al centro dell’indagine,
Mann cercava una strada per per oltrepassare i rischi di questo ritorno al
passato, consapevole altresì della necessità di mantere il lato notturno della
ragione, fonte creativa dello spirito.
Il primo romanzo della grande tetralogia mitologica Joseph und seine
Brüder, evidenziando il particolare nesso tra l’opera e tendenze del tempo,
rivela una significativa ricerca di un nuovo accesso al mito. Emblematico in
questo senso è il celebre Prologo.
Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile?
Imperscrutabile anche, e forse allora più che mai, quando si discute e ci si
interroga sul passato dell’uomo, e di lui solo: di questo essere enigmatico che
racchiude in sé la nostra esistenza per natura orientata al piacere ma oltre
natura misera e dolorosa, e il cui mistero, come è comprensibile, forma l’alfa e
l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dà fuoco e
tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema. Perché appunto
in questo caso avviene che quanto più si scavi nel sotterraneo mondo del
passato, quanto più profondamente si penetri e cerchi, tanto più i primordi
dell’umano, della sua storia, della sua civiltà si rivelano del tutto insondabili e,
pur facendo discendere a lontananze temporali favolose lo scandaglio, via via e
sempre più recedono verso abissi senza fondo.6
Parafrasando alcuni luoghi in Manfred Frank, op.cit.
Si veda Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1971.
Questa edizione comprende, oltre al citato saggio del 1929 anche il classico testo di psicologia
della religione del 1927 L’avvenire di un’illusione.
5 Cfr. Margherita Cottone, Thomas Mann: mito, psicologia, umanesimo, in Mitologie della ragione.
Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno, a cura di Michele Cometa, Pordenone, Studio Tesi,
1989, pp. 269-313. Rimando a questo accurato ed importante contributo per l’approfondimento
dei temi che qui per ovvie ragioni dovrò tralasciare.
6 Thomas Mann, Le storie di Giacobbe [ed. or. Die Geschichten Jaakobs, 1933], in Idem, Giuseppe e i
suoi fratelli, a cura e con un saggio introduttivo di Fabrizio Cambi, traduzione di Bruno Arzeni,
tomo I, Milano, Mondadori, 2006, p. 5.
3
4
44
Per Mann il viaggio verso le profondità mitiche dell’uomo è sì un ritorno
al passato, ma con la prospettiva di consegnarlo, purificato dall’errore
irrazionale, al futuro. Gli anni della stesura del romanzo appartengono infatti al
periodo in cui Mann comincia ad interrogarsi in maniera teorica intorno al
problema del mito, cercando di dimostrare come nella storia alcuni ritorni al
passato si siano rivelati in realtà i necessari presupposti per uno sviluppo.7
Credendo pienamente nel superamento del culto del sentimento romantico
annunciato nell’Aurora di Nietzsche, Thomas Mann fa sua la lezione della
“reazione come progresso”,8 trovando in Freud il più alto esempio contemporaneo che sia riuscito a spogliare il romanticismo dalla veste mistica per farlo
diventare scienza, a mostrare come l’interesse per lo slancio vitale e per
l’emotività non degenerino necessariamente nell’esaltazione dell’oggetto a
spese della sfera intellettuale, ma che anzi procedano nella direzione di una
maggior consapevolezza.9 Ciò che permetterebbe allora di rendere l’aspetto
mitico, o metafisica, razionalmente giustificabile è la psicologia, grazie alla
quale il mito penetra nella coscienza, accordando alla realtà la possibilità di
essere vissuta come un eterno presente.10 Infatti troviamo scritto in un altro
passaggio del romanzo che
L’esperienza non consistette tanto nel veder ripetersi qualche cosa che
apparteneva al passato, quanto nel fatto che quel passato diveniva vivo e
presente. Ma poteva divenire presente perché le circostanze che l’avevano
originato erano in ogni tempo presenti. [...] In ogni tempo: questa è la parola del
mistero. Il mistero non conosce tempo, ma la forma di ciò che non ha tempo è il
Qui e Ora.11
Qualche anno dopo, nella conferenza del 1936 Freud e l’avvenire, 12 Thomas
Mann torna ad occuparsi sistematicamente del padre della psicoanalisi,
ricercando nello studio del suo pensiero un ausilio per una teorizzazione del
mito in vista di una conciliazione tra l’inconscio e la ragione. Riconoscendo
curiosamente a Schopenhauer, “malinconico orchestratore di una filosofia
dell’istinto”,13 il ruolo di anticipatore della psicologia del profondo, avendo egli
Si veda ad esempio Thomas Mann, La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno [ed. or.
Die Stellung Freuds in der modernen Geistgeschichte, 1929] in Idem, Nobiltà dello Spirito e altri saggi,
a cura di Andrea Landolfi con un saggio di Claudio Magris, Milano, Mondadori, 1997, pp. 13491375.
8 Cfr. Ivi, pp. 1349-1353.
9 Cfr. Ivi, pp. 1370 sgg.
10 Cfr. Margherita Cottone, op.cit., pp. 283-284.
11 Thomas Mann, Le storie, cit., p. 30.
12 Idem, Freud e l’avvenire [ed. or. Freud und die Zukunft, 1936], in Idem, Nobiltà dello Spirito, cit.
pp. 1378-1404.
13 Ivi, p. 1380.
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45
insegnato il primato dell’istinto sulla ragione e riconosciuta la volontà come
fondamento e sostanza del mondo e dell’uomo,14 Mann unisce i due pensatori
nel medesimo ruolo emancipativo dall’illusione di una concezione del mondo
dei fenomeni come realtà puramente accidentali. Il rovesciamento di prospettiva in vista di una nuova antropologia sta nel ricondurre tutto – e quindi anche
l’irrazionale e il mitico – ad un’opera dell’anima, smascherando e riconoscendo
ogni accadere come un fare.15 Nel Giuseppe infatti l’umanizzazione del mito è la
calata del dio nell’umano, così che la sua vicenda sulla terra divenga l’itinerario
iniziatico dell’uomo verso se stesso, dunque la storia dell’anima umana.
Umanizzazione del mito significava da un lato uso pedagogico del mito, quale
strumento fondante il romanzo dell’anima ma anche rinuncia polemica al mito
quale valore extraumano.16 Mann lettore di Freud riconosce nella dinamica
dell’inconscio, il lato primitivo ed irrazionale denominato Es, la volontà
schopenhaueriana, mentre vede l’Io, la parte in rapporto al mondo esterno che
attinge consiglio dall’esperienza, come intelletto.17 Concludere che il datore della
realtà sia nell’uomo stesso, così come sostenere che l’esigenza umana è ad un
tempo congiunta a quella divina, porta inevitabilmente ad un nuovo sguardo
sul ruolo del mito e della sua specifica funzione di esemplarità. Il mito è una
finzione, in senso forte, nell’attivo significato di plasmare: è dunque un
costruire fittizie realtà archetipe, il cui ruolo consiste nel proporre, se non
nell’imporre, modelli e tipi, nella cui imitazione un individuo può cogliere se
stesso e identificarsi. Da ciò deriva conseguentemente la considerazione che il
problema del mito non sia scindibile da quello dell’arte, non solo perché il mito
sarebbe una sorta di creazione collettiva, ma soprattutto perché il mito, che
l’opera d’arte esibisce, è lo strumento mimetico per eccellenza.18 Thomas Mann
è consapevole del fondamentale ruolo identificativo del mito, nella psicoanalisi
come in ogni genere di attività poetica, per le quali il ritorno ha il valore di un
ravvicinamento imitativo alla vita.
Nell’espressione «psicologia del profondo» la parola «profondo» ha un
significato anche temporale: i fondamenti primordiali dell’anima umana sono
anche età primordiale, quel pozzo profondo dei tempi in cui il mito è di casa e
costituisce le norme e le forme prime della vita. Mito è infatti fondazione di
vita; è lo schema senza tempo, la formula religiosa in cui la vita, dopo aver
attinto dall’incoscio i tratti del mito e averli riprodotti, confluisce.19
Cfr. Ivi, p. 1384.
Cfr. Ivi, p. 1389.
16 Si vedano nello specifico le pagine 263-267 di Furio Jesi, Thomas Mann, «Giuseppe e suoi
fratelli», in Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi,
1979, pp. 253-271.
17 Cfr. Thomas Mann, Freud, cit., pp. 1385-1389.
18 Cfr. Philippe Lacoue-Labarthe – Jean-Luc Nancy, op. cit., pp. 34-36.
19 Thomas Mann, Freud, cit., pp. 1394-1395.
14
15
46
Il mito, tornando alla luce e diventando presente, rivela allora all’uomo la
certezza che vi sia una reale possibilità di conoscenza e controllo della propria
natura.
Ma se l’aspetto mitico divenisse soggettivo, se, passando nell’Io che agisce, si
svegliasse, così che questi divenisse, con senso lieto o fosco di orgoglio, cosciente del proprio «ritorno», del proprio carattere tipico? [...] Solo in questo caso si
potrebbe parlare di «mito vissuto».20
Questa coscienza apparteneva agli antichi. Infatti
Il loro Io era, per così dire, aperto verso il passato, e di lì traeva, per ripeterle nel
presente, molte forme, che così, attraverso lui, tornavano a nuova vita. Il
filosofo spagnolo Ortega y Gasset esprime questo concetto dicendo che l’uomo
antico, prima di fare qualcosa, indietreggiva di un passo, come il torero che
prende lo slancio per il colpo mortale. Nel passato egli cercava un esempio in
cui calarsi come un palombaro nel suo scafandro per poi, così deformato e allo
stesso tempo protetto, immergersi nel problema del presente.21
L’uomo moderno invece, suggerisce Thomas Mann, per salvaguardare
l’imprescindibile valore del mito, occorre che si rifaccia alla lezione di tre grandi
“maestri di morale”, Schopenhauer, Nietzsche e Freud i quali, osando
oltrepassare le certezze convenzionali, hanno tentato di conciliare la luce del
moderno razionalismo con la notte dell’anima e del mito, svelando al fondo
della natura umana le tenebrose sfere della volontà, del dionisiaco e
dell’inconscio, inaugurando così un nuovo tipo di umanesimo.
20
21
Ivi, pp. 1395-1396.
Ivi, p. 1397.
47
II.
Imitazione e mitologia
La rara capacità immedesimativa di cui Thomas Mann aveva fatto
sfoggio nei suoi romanzi del ciclo di Giuseppe, riuscendo a cogliere i più intimi
aspetti della mentalità mitica, – le analogie simboliche, le metafore di morte e
rinascita, il fondamentale meccanismo della ripetizione – catturarono ben
presto l’attenzione di un giovane filologo e mitologo ungherese, Károly Kerényi
(1897-1973).22 A differenza del mondo accademico delle scienze dell’antichità da
cui proveniva, che sembrava aver scelto come proprio destino l’impersonalità
erudita, Kerényi al contrario era persuaso che la mitologia non rappresentasse
soltanto un oggetto di studio, ma che potesse al tempo stesso porsi come attivo
progetto per il presente. Lo studio filologico dei testi doveva essere in primo
luogo la modalità più vera per riportare alla vita l’autentico spirito dell’antichità che questi veicolavano.23 Non a caso questa sua visione si accompagnava
ad uno spiccato interesse per il romanzo, sia antico che a lui contemporaneo,
testimoniando una più profonda volontà di comprendere la natura stessa della
mitologia, creazione figurativo-narrativa per eccellenza. Forse per l’impellente
desiderio di penetrare ancor più a fondo nel segreto della capacità creativa
Per un’accurata biografia dell’autore si veda il lungo studio monografico di Aldo Magris,
Carlo Kerényi e la ricerca fenomenologica della religione, Milano, Mursia, 1975 che, sebbene risalga a
quasi quarant’anni fa, rimane tuttora l’unico testo esaustivo disponibile in italiano. Sono inoltre
importanti i saggi dedicati a Kerényi che formano i primi tre capitoli di Furio Jesi, Materiali
mitologici, cit., già precedentemente pubblicati in riviste. I titoli dei saggi, ora sottotitoli dei
capitoli sono I «pensieri segreti» del mitologo, pp. 3-53; L’esperienza dell’isola, pp. 54-66; Il «mito
dell’uomo», pp. 67-80. Completa il quadro dei contributi di Furio Jesi la sua Introduzione a Károly
Kerényi, Miti e misteri, Torino, Bollati Boringhieri, 2000 (19791), pp. 7-17. Significativi anche
alcuni contributi contenuti nel volume Károly Kerényi: Incontro col divino, a cura di Luciano
Arcella, Roma, Settimo Sigillo, 1999, che raccoglie le relazioni svolte nell’ambito dell’omonimo
convegno internazionale.
Una precisazione: il nome di Kerényi era Károly, ma lui stesso usava tradurlo secondo la lingua
in cui scriveva; per questo motivo talvolta le traduzioni oscillano tra il nome proprio in
ungherese, il tedesco Karl e l’italiano Carlo.
23 Come scrive James Hillman, “il valore della filologia non va […] giudicato soltanto per il
contributo che dà all’intelletto ma anche per il contributo che dà all’immaginazione. […] Per
loro (scil. dei filologi) tramite sembra aver fatto irruzione nel nostro tempo qualcos’altro, una
sorta di intuizione, di domanda essenziale sulla natura delle profondità dell’uomo. […] Reintrodussero nella coscienza occidentale quello che ne era stato escluso dopo il Rinascimento:
l’immaginale e il suo potere nella vita. […] Paradossalmente, essi utilizzarono i metodi più
avanzati della ragione per stabilire la realtà dell’irrazionale – o di quello che doveva essere
chiamato l’irrazionale a causa della ristretta definizione di ragione determinata dal positivismo,
dal meccanicismo e dall’utilitarismo del secolo.” James Hillman, Saggio su Pan, Milano, Adelphi,
1977, pp. 30-32.
22
48
umana, con un ardire non privo di una certa dose di presunzione, nel 1934
inviava un suo scritto a Mann il quale, avendolo trovato di suo interesse, diede
inizio a un fecondo scambio epistolare con il giovane professore.24
Per lo studioso di mitologia la testimonianza dei poeti25 è fondamentale
nella misura in cui precorre i tempi, mostrando intuivamente una nuova
visione dell’uomo. Vedendo riuscire al romanziere proprio quello che il filologo
a stento faticava a introdurre nella propria disciplina, ossia l’annullamento della
distanza con l’antico, Kerényi salutava l’allusivo romanzo manniano come “il
ritorno dello spirito europeo alle supreme mitiche realtà”. 26 L’entusiastico
elogio mascherava in realtà la ricerca della conferma sull’origine stessa del
romanzo, che nei suoi più alti esempi imporrebbe contro ogni arbitrarietà
dell’autore la sua innata natura mitica. La mitologia è la storia più profonda da
cui attingere e Kerényi legge il ricorso al mito da parte dello scrittore come
l’inevitabile necessità, nella modernità come nell’antichità, di vedere e creare
figure27 mitologiche nelle quali l’uomo possa in ogni tempo riconoscersi.
A scanso di equivoci, Thomas Mann lo mette cautamente in guardia
contro i rischi che i nostalgici rimpianti della peduta accessibilità al mito
potrebbero comportare. Scriveva infatti in una delle sue prime lettere:
La corrispondenza, tenuta dal 1934 fino al 1955, è stata pubblicata col titolo Thomas Mann –
Carlo Kerényi, Dialogo, traduzione di Ervino Pocar, Milano, Il Saggiatore, 1973. La presente
edizione contiene in un unico volume i due carteggi pubblicati precedentemente come due
volumi dai titoli ben più eloquenti: Romanzo e Mitologia [ed. or. Romandichtung und Mythologie,
1945] e Felicità difficile [ed. or. Humanismus – schweres Gluck, 1960]. Per comodità si citerà da
questa edizione, riferendo autore e data delle singole missive. Ripercorre le tappe della
corrispondenza Lia Secci, L’entelechia mitica di Thomas Mann nel carteggio con Károly Kerényi,
«Poesia e Critica», 1965, pp. 220-253, poi in appendice a Eadem, Il mito greco nel teatro tedesco
espressionista, Roma, Bulzoni, 1969, pp. 289-313.
25 Il tedesco Dichter, che viene tradotto col termine “poeta”, designa in realtà in modo più
generico l’artista della parola, non facendo distinzione tra prosatori e poeti veri e propri.
26 Cfr. Dialogo, cit., p. 23 (Kerényi a Mann, 1934).
27 Secondo la scelta del traduttore Angelo Brelich “figura“ traduce il tedesco Gestalt,
differenziando – e in una certa misura annullando – la continuità con il termine nell’accezione
usata da uno dei maestri di Kerényi, Walter F. Otto, che abbiamo in precedenza affrontato
sottolineando proprio l’importanza della sua idea di Gestalt in quanto “forma“. Si tenga conto di
questa precisazione nelle pagine a seguire, riconoscendo comunque la pregnanza della scelta
del Brelich, che in questo modo aiuta il lettore italiano a compiere un passo di maggiore
comprensione della personalizzazione delle figure divine, com’era proprio nell’intenzione di
Kerényi.
Merita in questa sede fare una breve nota su Angelo Brelich (1913-1977). Allievo di Kerényi,
terminati gli studi divenne assistente alla cattedra di storia delle religioni all’Università di
Roma, allora occupata da Raffaele Pettazzoni, al quale poi succedette. Inizialmente
suggestionato dalla figura di Kerényi – fase testimoniata dai suoi primi lavori e dalla traduzioni
delle opere del maestro per le edizioni Einaudi – se ne distacca poi progressivamente, passando
ad un’originale impostazione in cui si avvertono le istanze storiciste proprie del metodo
pettazzoniano del comparativismo storico.
24
49
confido nella Sua comprensione se Le dico che alla moda «irrazionale» si
accompagna spesso la smania di sacrificare, di buttare maliziosamente a mare
conquiste e principi che non solo rendono europeo l’Europeo, ma persino uomo
l’uomo. […] Io sono un partigiano dell’equilibrio. Mi appoggio istintivamente a
sinistra quando la barca minaccia di ribaltare a destra e viceversa.28
Ricordiamo che, come scrive lo stesso Mann, il suo interesse riguardo al mito
era nato piuttosto tardi e con un intento molto più razionalistico di quanto
potesse dare ad intendere attraverso i suoi romanzi.
Quale narratore io sono giunto al mito, però, con immenso scandalo dei
pseudobarbari e dei primitivi, umanizzandolo, tentando una fusione col senso
umano che a me pare più feconda per l’avvenire della fanatica lotta superattuale contro lo spirito, in cui si cerca di adulare il presente calpestando con
gran zelo la ragione e la civiltà.29
Nello stesso anno in cui iniziava il fecondo scambio epistolare con Mann,
che avrebbe segnato una determinante influenza nel suo pensiero in una
direzione esistenziale e psicologica, Kerényi teneva a Francoforte il discorso
celebrativo per il sessantesimo compleanno di Walter F. Otto. Dopo averlo
infatti incontrato qualche anno prima in Grecia, patria spirituale di entrambi,
Kerényi sviluppò un forte legame con l’ammirato maestro, tanto che questi lo
introdusse alla scuola di Frobenius. Influenzato dalla morfologia culturale di
quest’ultimo, Kerényi coglieva l’alternativa nei confronti della filologia in vista
di un maggiore confronto con la realtà dell’esistenza antica, alla ricerca della
forma, dello stile esistenziale.30 In un certo senso Kerényi si situa al crocevia dei
più importanti orientamenti della grande tradizione mitteleuropea, mostrando
nei sui testi il riverbero della complementarietà delle varie posizioni.31 Non è
certo casuale che in questo periodo vedano la luce i saggi che confluiranno in
Dialogo, cit., p. 26 (Mann a Kerényi, 1934).
Thomas Mann, Una traversata con Don Chisciotte, [ed. or. Meerfahrt mit «Don Quijote», 1934] in
Idem, Nobiltà dello Spirito, cit., pp. 788-840. La citazione alle pp. 826-827.
30 Cfr. Aldo Magris, op. cit., pp. 63-69. Si veda anche Luciano Arcella, Le “ragioni” di Francoforte,
in Károly Kerényi: Incontro col divino, cit., pp. 141-157.
31 Non casualmente il nome di Kerényi è collocato da Giorgio Agamben tra i nomi dei
protagonisti di quella “scienza senza nome” di cui si dovrà occupare una futura “antropologia
della cultura occidentale.” Solo questa scienza potrebbe infatti permettere all’uomo occidentale,
uscito dai limiti del proprio etnocentrismo, di rivolgere su di sé la conoscenza liberatrice di una
“diagnosi dell’umano” che potrebbe guarirlo dalla sua tragica schizofrenia. Si veda Giorgio
Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, «Prospettive Settanta», luglio-settembre 1975, pp.
70-85.
28
29
50
Religione Antica, 32 la prima opera significativa di Kerényi, che segna al
contempo il suo definitivo passaggio alla Storia delle Religioni. Nel volume
Kerényi si immerge infatti nell’interpretazione della religiosità greca, cercando
di comunicare i contenuti vitali dell’esistenza. È evidente l’eco della lezione di
Otto, in particolare in uno dei saggi centrali del libro, nel quale scrive:
L’uomo antico che va incontro alla divinità si trova di fronte a un mondo di dèi.
Questo non è un altro mondo, bensì quello stesso in cui egli vive e che gli
mostra, nelle figure divine, il proprio aspetto mitologico. Il senso di realtà
potrebbe accompagnare anche le figure di un mondo divino frutto della
proiezione dell’uomo e privo di un fondamento esterno all’uomo stesso; ma la
certezza che determinate figure riapparirano in determinati momenti si nutre
sempre della percezione dei movimenti cosmici. La religione antica non riposa
sulla fede nella verità dei racconti mitologici con tutte le loro contraddittorie
variazioni (la questione della verità non ha alcuna rilevanza), ma principalmente sulla certezza che il cosmo quale fondamento e sfondo coerente – completo e
durevole – di quel che nella mitologia mostra il suo volto umano, esiste.33
La ricerca del fondamento della religiosità greca è nuovamente circoscritta ad
un particolare rapporto dell’uomo con il mondo, grazie al quale è possibile
scorgere il proprio volto. Volto umano che deve essere cercato nella mitologia,
in quanto testimonianza di una modalità di esistenza più prossima alla realtà.
La religione antica in quanto fenomeno storico è spiritualmente così vicina a noi
occidentali che possiamo comprenderne immediatamente la struttura: essa non
è una religione che si volge all’aldilà; i suoi dèi sono gli dèi di questo mondo e
dell’esistenza umana. Essi sono trascendenti solo in quanto la nostra esistenza
non li contiene; sono essi, piuttosto, a contenerla.34
È senza dubbio interessante questo capovolgimento di prospettiva attraverso il
quale la vicinanza al divino viene vista come la necessità di un modello per la
Karl Kerényi, Religione Antica, Milano, Adelphi, 2001 [ed. or. Antike Religion, 1971]. Rispetto
alla precedente La religione antica nelle sue linee fondamentali, Bologna, Zanichelli, 1940, che è il
primo libro di Kerényi tradotto in Italia, questa edizione presenta delle significative aggiunte: si
vedano le Fonti alle pp. 277-279 per risalire all’edizioni originali dei singoli saggi che
compongono il volume. Spesso i testi di Kerényi raggruppano saggi pubblicati in circostanze
diverse e rimaneggiati in vista di una raccolta in volume; non sempre quindi è presente un
elemento comune che li unisca. In questa sede sarà allora utile segnalare il titolo e la data di
ogni singolo saggio.
33 Ivi, p. 45. L’essenza della festa [ed. or. Vom Wesen des Festes, 1938], pp. 45-68. Questo saggio è
apparso nel primo volume della rivista Paideuma fondata da Frobenius.
34 Ivi, p. 47.
32
51
stessa esistenza umana. Questo risulta ancor più evidente in un passaggio
seguente nel quale, parlando della festa, chiarisce la necessità del mitologema.35
Da qualcosa di presente è sorto qualcosa di ancor più presente, da una realtà
una realtà superiore. Essa si rende più presente all’uomo per un motivo che non
è diverso da quello visibilmente rappresentato: nel mitologema la realtà cosmica è
stata imitata in sostanza umana. L’uomo è ciò che all’uomo è più vicino. […] Ma
chi si lascia conquistare da questa costrizione si trova all’improvviso in mezzo
al libero gioco degli dèi e partecipandovi diviene egli stesso divino; si innalza a
quel piano del sapere e del creare a cui l’uomo sempre fu elevato da un’idea
potente e persuasiva.36
Il particolare rapporto imitativo che si instaura tra l’uomo e la realtà è la
caratteristica peculiare della mitologia. Kerényi al termine mito – il cui mutevole
significato si definisce per opposizione ad altro – preferisce quello di mitologia,
proprio per sottolinearne l’implicita idea creatrice contenutavi. Platone infatti,
avvicinando l’attività mitologica a quella poetica, la libera dalla delimitazione
filosofica, consegnandola alla sfera dell’arte. Distinguendo però μυθολογία da
ποίησις, la creazione dal nulla che sfocia nell’opera, la vincola analogicamente
alla necessità del presupposto materiale.37
Mitologia in quanto arte e mitologia in quanto materia sono entrambe, e nella
stessa misura, aspetti di un unico fenomeno, quasi come l’arte del compositore
e la sua materia, il mondo dei suoni. Un aspetto mostra l’artista quale plasmatore, l’altro il mondo sonoro nel suo plasmarsi.38
Come per la musica sono quindi possibili innumerevoli variazioni sul
medesimo tema. Questa materia è infatti vitale, suscettibile di movimento.
Per cominciare: la mitologia è, per coloro che pensano in essa e attraverso essa
si esprimono, forma di vita e di azione allo stesso tempo. Fra pensiero e vita
non si spalanca qui alcun vuoto. Nell’accadere mitico non esistono leggi morali
così severe da non poter essere osservate nell’agire storico, né capaci di causare
Per comprendere meglio i passaggi successivi è meglio chiarire subito con che accezione
Kerényi intenda ed adoperi il termine “mitologema”, riportando qui la sua stessa definizione:
“Esiste un materiale particolare che determina l’arte della mitologia: un’antica massa di
materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore
modellamento, – “mitologema” è per essa il migliore termine greco, – racconti intorno a dèi,
esseri divini, lotte di eroi, discese agli inferi. La mitologia è il movimento di questa materia;
qualcosa di solido e tuttavia mobile, materiale e tuttavia non statico, bensí suscettibile di
trasformazioni.” (Per la collocazione del brano si veda infra, nota 46.)
36 Ivi, p. 59. Corsivo mio.
37 Cfr. Ivi, pp. 19-21. Che cos’è mitologia? [ed. or. Was ist Mythologie?, 1939], pp. 17-35.
38 Ibidem.
35
52
possibili disarmonie fra ciò che si dice e ciò che si fa. A una lingua per citazioni
corrisponde una «vita nel mito», come è stata giustamente chiamata una simile
vita per citazioni. L’Io antico e la sua autocoscienza sarebbero stati, per così
dire, aperti verso il passato e avrebbero accolto molto di ciò che fu, per poi
ripeterlo nel presente e farlo tornare «a nuova vita».39
Questo passo, come le righe che seguono, sono ripresi dal già citato saggio di
Thomas Mann, Freud e l’avvenire,40 testimonando quanto Kerényi avesse accolto
dal pensiero dello scrittore. Il problema che interrogava entrambi verteva sul
rapporto tra pensiero e vita, mitologia ed azione, ricercando la ricomposizione
della forma umana in una rinnovata coesitenza tra l’uomo e la realtà.
L’immagine dell’uomo non è più accessibile nella sua autentica visibilità,
occorre quindi rifarsi al modello mitologico, nella cui figurazione i tratti
dell’uomo e della divinità vanno a perdersi gli uni negli altri. Come scriveva
infatti in un altro saggio dello stesso periodo,41
Nel volto di ogni divinità greca ci viene offerta l’opportunità di percepire
attraverso i tratti corporei non solo un dio inteso in quanto realtà spirituale, ma
anche un’idea. È tipica dei greci la possibilità di rappresentare ciò che è proprio
dell’idea [ideenhaft] nei termini dell’esperienza corporea in tutta la sua umanità
[…]. Essa presuppone una visione del divino assolutamente diretta, di immediata comprensibilità: è il punto di vista specificamente greco, caratterizzato dal
fatto di essere contemporaneamente anche visione dell’umano, oltre che del
divino. […] Se gli dèi della Grecia esprimono la forma umana in quanto idea
pura, libera da ogni mortale caducità, essi però la mostrano sempre nel mondo,
ancorata ad esso, perché partecipe della sua ricchezza di forme.42
La visione dell’ umano è una sorta di intuizione di similarità con il divino,
andando incontro al quale egli contempla la propria possibilità di fusione con il
mondo.
Ciò che si manifesta del contenuto del mondo ha un’origine: gli dèi, che si
manifestano all’uomo, hanno la stessa origine dell’uomo. La parte più intima e
profonda dell’uomo, il contenuto del mondo che si sviluppa in lui, non viene
mai attivato soltanto dagli stimoli esterni, da un’eccitazione qualsiasi. Quella
eco, quella risonanza, vengono sempre risvegliate da un fattore ben deterIvi, p. 23.
Prosegue infatti con la stessa citazione da Ortega y Gasset riportata supra.
41 Károly Kerényi, Nel labirinto, a cura di Corrado Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1983. Il
libro in questa veste esiste solo in edizione italiana, in quanto non è stato pensato da Kerényi,
sebbene ne segua lo stile di accorpare diversi saggi tra loro collegati. Si veda alle pp. 181-183 per
la collocazione originaria dei testi. Cito qui nello specifico il saggio Aretusa: figura umana e idea
mitologica [ed. or. Arethusa: über Menschgestalt und mythologische Idee, 1940], pp. 122-141.
42 Ivi, pp. 127-128.
39
40
53
minato; se qualcosa nelle profondità creative dell’uomo viene per così dire sfiorato
da un tono “parente” generato dall’esterno […] allora nasce, o rinasce, un tono
divino.43
Per quanto segua la lezione di Walter F. Otto, Kerényi compie
decisamente un passo in avanti rispetto ad una concezione della divinità quale
rivelazione ed espressione di un mondo di forme dell’essere. L’idea classicistica
del sublime è troppo unilaterale nella determinazione di ciò che è razionale e
quindi ancora troppo poco “umana”. Vi è un’incolmabile distanza dalla
perfezione degli antichi dèi, non è più possibile un’identificazione totale, ma
soltanto tentare di individuare la matrice dell’immagine pienamente umana
nelle figure degli dèi.
43
Ivi, p. 139. Corsivo mio.
54
III.
Il fanciullo e la Kore. Indeterminazione, origine e fondazione
Il problema del non-essere secondo la visione religiosa dei greci era il
tema del saggio posto come epilogo a Religione Antica, nel quale Kerényi si
spingeva al confronto con alcune delle posizioni più interessanti della filosofia
contemporanea. All’idea nichilistica della morte intesa come un vuoto nulla,
veniva contrapposta quella propria dell’antichità, secondo la quale essa era
invece inclusa all’interno dell’orizzonte vitale, come limite che nell’oscurità
custodisce il principio della vita.44
È difficile allora non leggere i due successivi saggi di Kerényi come la
logica prosecuzione di un discorso che, dopo quella simbolica conclusione, non
sembrava essere destinato a proseguire. Incentrati sulla figura mitologica
rispettivamente del bambino divino e della fanciulla divina, questi scritti
diverranno celebri grazie alla loro successiva raccolta in volume, che
comprende due ampli commenti di Carl G. Jung (1875-1961)45 sugli archetipi
psicologici corrispondenti. Al centro degli studi contenuti nel libro, che non si
accordano in alcun modo all’altisonante titolo, Prolegomeni allo studio scientifico
della mitologia,46 vi è la figura dell’Urkind, il fanciullo originario, analizzato tanto
nel suo aspetto maschile quanto in quello femminile, ma soprattutto, come
afferma Kerényi al termine del primo contributo, quale “eterno Indeterminato.”47
Il fanciullo infatti, già nato eppure ancora in bilico fra la forma differenziata e terrestre e la figura eternamente indeterminata, ondeggiante sulle acque,
è l’emblema dello stato di passaggio tra essere e non-essere. Collocato fra i due
regni, più vicino ancora all’Aldilà che all’Aldiquà, esso partecipa di quei
“modelli” in cui non è difficile riconoscere i simboli primordiali, gli archetipi.48
L’archetipo ha per Kerényi la funzione di integrare il termine “umano” nel
Karl Kerényi, Religione Antica, cit., L’idea religiosa del non-essere [ed. or. Die religiöse Idee des
Nichtseins, 1940], pp. 171-191. L’ultima edizione, da cui citiamo, colloca invece il saggio al centro
del libro.
45 Sul rapporto con Jung e la psicologia si veda Aldo Magris, op. cit., pp. 87 sgg. Sulla vicenda di
questa pubblicazione in comune è importante qui segnalare come i lavori di Kerényi precedano
i suoi contatti con Jung. Viene ugualmente da domandarsi se la vicinanza a Jung in qualche
modo segua la stessa necessità di Mann nel suo confronto con Freud.
46 Carl G. Jung - Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati
Boringhieri, 1972 [ed. or. Einführung in das Wesen der Mythologie, 1941]. Il titolo italiano stona
pure con quanto scrive Kerényi nelle prime righe dell’Introduzione (si veda infra): una più
corretta traduzione sarebbe Introduzione all’essenza della mitologia.
44
47
48
Cfr. Ivi, p. 106.
Cfr. Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1981, p. 149.
55
momento in cui l’uso tradizionale ne ha fatto un’espressione troppo vaga e
generica. Riappare sotto altra forma il bisogno di recuperare il flusso vitale
dell’esperienza vissuta e dei concreti valori umani, i modelli di condizioni
eterne dell’esistenza.49
La simbologia acquatica, caratteristica peculiare del mitologema del
fanciullo, ritorna costantemente anche nelle pagine dell’Introduzione di Kerényi,
intitolata Origine e fondazione della mitologia, importante momento di riflessione
teorica.
Bisognerebbe prendere e bere la pura acqua della sorgente perché questa ci
compenetrasse e potenziasse le nostre latenti velleità mitologiche.
Eppure, anche qui c’è ancora molto che separa la bocca dall’orlo del calice. […]
Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle realtà del mondo spirituale – ed
a questo appartiene tutto ciò che vi è di autenticamente mitologico – anche a
causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo
ricco di mezzi sussidiari. Esso ci aveva spiegato la bevanda nel calice, in modo
che noi, meglio dei bravi bevitori antichi, sapevamo già in anticipo ciò che c’era
dentro. […] Noi ci dobbiamo domandare se l’immediatezza dell’esperienza e
del piacere di fronte alla mitologia ci è ancora in generale possibile.50
Come scriveva citando un verso de I sonetti a Orfeo di Rilke, “Colui che si spande
come una sorgente, viene conosciuto dalla conoscenza.” 51 Per quanto la finalità
dichiarata sia proprio quella di trovare l’accesso alle realtà della mitologia, dove
si trova questa sorgente? Il passo rilkiano citato proseguiva così: “e lo guida
estasiato all’opera serena / cui l’inizio è una fine, spesso, e la fine inizio.”52 Kerényi si
mostra fiducioso della possibilità di cogliere i significati dell’opera, in questo
caso mitologica, grazie alla compenetrazione tra soggetto conoscente ed
oggetto: l’unico modo sembra essere quello di lasciar parlare i mitologemi – non
potendoli più vivere – e prestare loro semplicemente ascolto. Infatti “la
mitologia, come la testa recisa di Orfeo, continua a cantare anche dopo la sua
morte, anche a lunga distanza dal tempo della sua morte.”53 Così come la vita
dell’uomo antico ritrovava la propria espressione e il proprio senso immergendosi nei modelli del passato,
La mitologia chiarisce se stessa e tutto quanto vi è nel mondo non perché essa
Cfr. Aldo Magris, op. cit, pp. 112-113.
Carl G. Jung – Károly Kerényi, op. cit., Introduzione, pp. 13-14. Lo scritto si estende per le pp.
11-43.
51 Cfr. Ivi, p. 17. “Wer sich als Quelle ergießt, den erkennt die Erkennung.”
52 “Und sie fuhrt ihn entzückt durch das heiter Geschaffne, / das mit Anfang oft schließt und mit Ende
beginnt.“ Die Sonette an Orpheus, Zweiter Teil, XII, in Rainer Maria Rilke, Poesie (1907-1926), a
cura di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, pp. 376-379.
53 Carl G. Jung - Károly Kerényi, op. cit., p. 17.
49
50
56
sia stata inventata per spiegare, bensì perché essa ha la facoltà di chiarire.54
I miti non spiegherebbero niente, in nessun senso, e mai: essi fissano un
precedente che è ideale e garanzia del proseguimento.55
Lo scopo dei mitologemi sarebbe appunto quello di giustificare il mondo
riportandolo al proprio fondamento, alle+ ἀρχαί, gli elementi primordiali, vitali
ed inesauribili. La mitologia racconta sempre delle origini e ciò che è originario:
per il narratore di miti questo equivaleva alla verità. In quale fondamento si
ritrova l’uomo, la sua identità mitica per eccellenza, il punto di unità attorno al
quale e a partire dal quale costruisce il proprio avvenire?
I due mitologemi […] servono ad indicarci attraveso le immagini del divenire
umano e vegetale la strada su cui avviene la «fondazione» quale cammino alle
ἀρχαί per rifare poi con noi la strada del suo esplicarsi in quelle immagini.
Figurativamente si può parlare di un’immersione in noi stessi, che porta al vivo
germe della nostra totalità. […]
Il «fondare» mitologico […] ha questo di paradossale: chi si ritira così in sé, si
apre. O anche viceversa: l’essere aperto al mondo, caratteristica dell’uomo
antico, pone questo sul suo proprio fondamento e gli fa riconoscere nella
propria origine […] l’origine per eccellenza. Nell’immagine di un fanciullo
divino, del primogenito dei primordi in cui per la prima volta si è verificata
un’«origine», le mitologie non parlano del prodursi di un essere umano, ma di
quello dell’universo divino o d’un dio universale. […] È il mondo che parla
dell’origine nelle immagini che scaturiscono. Colui che in quella sommersione
ha raggiunto il proprio fondamento, «fonda» il suo mondo.56
Al mito delle origini corrisponde infatti un atto di altrettanto valore religioso e
spirituale: la fondazione. Vivere il mito è come rifarsi alle proprie “origini”, ai
propri elementi costitutivi e riorganizzarli sempre nuovamente. Come scriveva
Jung a proposito del mandala, in un passo riportato da Kerényi al termine di
una breve disamina dei miti di fondazione,
«Cose di questo genere non si inventano: esse devono raffiorare sempre dalle
profondità dell’oblio per esprimere gli estremi barlumi della coscienza e le più
alte intuizioni dello spirito, e fondere in questo modo l’unicità della coscienza del
presente con il passato primordiale della vita.»57
La ricerca dell’origine non può che risolversi nel raccontare i modi di
apparizione della medesima idea mitologica. Tramite una rassegna dei
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 20.
56 Ivi, pp. 23-24.
57 Ivi, p. 30. Corsivo suo.
54
55
57
molteplici miti concernenti le grandi figure del fanciullo divino di varie
mitologie – Apollo, Hermes, Dioniso, Giove, il dio dei Voguli, il Kullervo del
Kalevala – con una vasta conoscenza di analogie e parallelismi nel campo
etnologico, il primo saggio 58 persegue l’obiettivo di mostrare come questi
presentino dei tratti così profondamente comuni da risultare come variazioni di
un unico motivo: la forma infantile e atemporale del giovane quale pienezza di
vita e di senso.59
Lo scritto di Kerényi, evidenziando la natura tipica del mitologema, dava
l’occasione a Jung di confermare la natura “archetipica” dello stesso, riprodotta
nella sua struttura essenziale in situazioni storico-geografiche così diverse. Jung
aveva infatti denominato “archetipi“ (Archetypen) i contenuti dell’inconscio
collettivo, le immagine appartenenti all’intera umanità, e l’indagine presentata
dallo studioso ungherese poteva facilmente essere accostata alle sue conclusioni
riguardanti l’esistenza di elementi strutturali mitopoietici.60 L’indagine di Jung,
arricchendosi di suggestioni che puntano decisamente verso altre direzioni,
persegue comunque scopi ben diversi da quello di confermare i risultati di
Ivi, Il fanciullo divino, pp. 45-106 [ed. or. Zum Urkind-Mythologem, 1938].
Si veda anche Angelo Brelich, Recensione a C. G. Jung – K. Kerényi, Einfürung in das Wesen der
Mythologie, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni, XVIII, 1942, pp. 115-116.
60 Chiarisco qui con una nota il concetto di archetipo secondo la concezione di Jung. Partendo
dall’analisi dei sogni e delle psicosi dei suoi pazienti, Jung riscontrò come certe immagini,
concetti e situazioni presentassero innumerevoli connessioni, che non trovavano confronto se
non nelle associazioni di idee mitologiche. Esclusa l’ipotesi che si trattasse di cognizioni
dimenticate, Jung pervenne alla supposizione che queste fossero reviviscenze autoctone
indipendenti dalla tradizione. A differenza di Freud, che riteneva l’inconscio un contenitore
vuoto alla nascita, riempito man mano di materiale psichico inaccettabile dalla coscienza, per
Jung l’inconscio personale contiene già delle “forme a priori”, che fanno parte del cosiddetto
“inconscio collettivo”, e che permettono di trascendere da se stessi, attraverso la funzione
simbolica. Alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, che rimanda all’esistenza di quelli
che Jung chiama archetipi, cioè letteralmente modelli (come sottolinea lo stesso Jung
l’espressione archetipo è la parafrasi esplicativa dell’eidos platonico e si trova già in Filone
d’Alessandria con riferimento all’immagine di Dio nell’uomo). Gli archetipi non sono idee, ma
possibilità di rappresentazioni, ossia disposizioni a riprodurre forme e immagini virtuali,
tipiche del mondo e della vita, le quali corrispondono alle esperienze compiute dall’umanità
nello sviluppo della coscienza. Essi si trasmettono ereditariamente e rappresentano una sorta di
memoria dell’umanità, sedimentata nell’inconscio collettivo, e quindi presente in tutti i popoli,
senza alcuna distinzione di tempo e luogo. Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle
favole e nei sogni, che contrariamente a quanto pensava Freud, non sono appagamento di
desideri puramente individuali legati alla sessualità infantile, ma espressioni dell’inconscio
collettivo. Gli archetipi non si presentano mai all’analisi allo stato puro, ma attraverso loro
manifestazioni in simboli: ogni individuo li avverte come bisogni e li può esprimere in modo
storicamente variabile, secondo le diverse situazioni etniche, nazionali o familiari. In tal modo,
l’inconscio collettivo, attraverso gli archetipi, può condizionare e dirigere la condotta
dell’individuo nei suoi rapporti col mondo, inducendolo a ripetere esperienze collettive.
Si vedano gli studi contenuti in Carl Gustav Jung, Opere, 9. I. Gli archetipi e l’inconscio collettivo,
Torino, Boringhieri, 1980.
58
59
58
Kerényi.61
Lo studio complementare dedicato a Kore indaga l’aspetto femminile del
mitologema:62 la divina fanciulla dei primordi contiene in sé, in forma involuta,
le figure che più tardi assumeranno i nomi e le forme di Persefone, Hekate e
Demeter. Questa divinità che è nascita, parto e morte allo stesso tempo,
esistenza duratura e indistruttibile, esprime nella sua figura sia l’apertura al
mondo che il racchiudersi in sé. Ad Eleusi si ritorna dunque al tema allegorico
della linea divisoria che separa essere e non-essere. Kore e Persefone esprimono
le due forme di esistenza femminile al loro estremo:
in un equilibrio in cui una di queste forme di esistenza (la fanciulla presso la
madre), appare come vita, l’altra (la fanciulla presso l’uomo) come morte.
Madre e figlia formano qui un’unità di vita in una situazione-limite: un’unità di
natura che porta in sé, ugualmente per natura, la possibilità di spezzarsi.63
Si alterna dunque la Kore, considerata unicamente sotto il suo aspetto più
umano, ossia un essere che all’apice della vita inviolata cade vittima del destino,
a Persefone, che rappresenta un destino che nel compimento significa morte e
nella morte regalità.64 Dopo la fanciulla e la sposa, la madre in lutto Demeter
completa la triade di figure femminili, introducendo l’idea chiave dell’intero
mitologema della fanciulla: la rinascita.
Entrare nella figura di Demeter, vale a dire essere perseguitati, derubati, anzi
rubati, non comprendere ma adirarsi e rattristarsi, ma poi riavere e rinascere:
che altro significa questo se non attuare l’idea più ampia dell’essere vivo, del
destino dei mortali? Che cosa rimane qui per la figura di Persefone?
Indubbiamente ciò che, oltre alla drammaticità senza fine del nascere e del
morire, è inerente alla struttura degli esseri vivi: precisamente l’unicità
(Einmaligkeit) del singolo essere, e la sua appartenenza alla non-esistenza. Unicità
e non-esistenza – non concepite filosoficamente, bensì viste in figure o, per
essere più esatti, l’ultima vista nell’amorfo, nel regno di Hades. È lì che regna
Persefone – l’eterna-unica caduta nella non-esistenza.65
Ancora una volta l’estrema attualità delle figure mitologiche trova la sua
giustificazione nella capacità di esprimere attraverso relazioni simboliche un
Jung interpreta il fanciullo come simbolo della fase infantile ed embrionale dello sviluppo
della psiche collettiva. Nella Kore invece leggerà la figura del «Sé» e l’«anima», l’elemento
femminile presente anche nella personalità maschile.
62 Carl G. Jung - Károly Kerényi, op. cit., Kore, pp. 149-220 [ed. or. Kore. Vom Mythologem des
göttlichen Mädchens, 1939].
63 Ivi, p. 160.
64 Cfr. Ivi, p. 162.
65 Ivi, pp. 180-181.
61
59
processo cosmico in cui l’esistenza dell’uomo sia prossima alla realtà.
L’esperienza del culto è infatti al tempo stesso sia universale che singolare:
l’evento vissuto porta il segno del divino e come tale viene raffigurato, per
quanto esprima l’enigmatico nesso tra la vita, l’amore e la morte. L’iniziato non
temeva di vivere tale paradosso. È noto il rapporto che i misteri eleusini
intrattenevano con i culti agrari e più in generale con il ciclo della vita organica,
e la conclusione del saggio ribadisce con forza questa unione tra il destino
individuale e il mondo.
Il Greco era cosciente non tanto dell’«abisso» - l’«abisso del seme» - che gli si
apriva in se stesso, quanto dell’esistenza in cui quell’abisso sfociava. La «serie
infinita» significava qui appunto esistenza infinita: «esistenza» semplicemente.
Si viveva questa, l’esistenza quasi come seme del seme, quale esperienza
propria. Il sapere intorno a questa non diveniva pensiero discorsivo o parola.
[…] Contemplazione e contemplato, sapere ed essere, qui come anche altrove
nel modo di pensare ed esistere dei Greci, si fondono in unità.66
Un sapere senza parole esprimerebbe nel modo più eloquente la
consapevolezza del proprio destino, proprio perché lo scopo perseguito non è
formare un’opinione intorno ad un oggetto, ma giungere al suo stesso piano.
Elevarsi al livello dei fenomeni accettando di mettere in discussione i principi
prestabiliti è il compromesso per conoscere le possibilità di esistenza umana
esplicate nelle figure mitologiche.
66
Ivi, pp. 218-219.
60
IV.
Figure ambivalenti
La mitologia “intraducibile”, cioè irriducibile a qualunque altro linguaggio che non sia quello mitologico, definisce un modo non solo di pensare ma
anche di essere, in cui uomo e mondo si trovano in un originario stato di
fusione (Verwobenheit). Questa concezione riguarda immancabilmente la
situazione umana, vista nel segno delle origini che la “fondano“ nei suoi
molteplici aspetti. Questi sono elementi che segnano, a partire dallo scritto in
collaborazione con Jung, l’inizio di una nuova fase nelle ricerche di Kerényi
nella direzione di una maggiore comprensione della natura della mitologia.67
L’incontro con la psicologia junghiana segue in fondo l’ipotesi che esista un
sapere inconscio circa la natura profonda dell’uomo: la coscienza si trova in una
particolare correlazione con una “realtà” indipendente da essa, non controllabile, trascendente e tuttavia non una realtà nel senso metafisico, sussistente da
un’altra parte, bensì una realtà che, presentandosi nel medesimo orizzonte,
pervade la coscienza. La religione è una fondamentale esperienza dell’uomo
che si verifica a diversi livelli, ma è di certo in quelli più profondi che ci si deve
sforzare di penetrare. Qui si trova una seconda dimensione dell’esperienza,
dove non vige il principio di non contraddizione, bensì quello della coincidenza
degli opposti. Grazie alla psicologia si svela al fondo della natura umana
un’ambivalenza che corrisponde all’ambiguità delle figure divine del mito. Il
divino è infatti una realtà della vita dalla quale l’anima si sente afferrata e alla
quale essa presta un volto interpretando in figure mitologiche le modalità
fondamentali dell’esistenza. Ecco perché alla base di tutte le creazioni
mitologiche ricorrono queste figure “archetipiche”. Kerényi, sempre attento a
individuare nelle pieghe del racconto mitico e nell’intreccio delle sue varianti le
intuizioni più fini sulla natura profonda dell’uomo, non censura la
fondamentale struttura oscillante fra la pienezza di vita e la sfera della morte,
anzi la accetta come necessaria dinamica nella quale la trascendenza ha una sua
forma di rivelazione anche nella morte, intesa nel suo senso di lato d’ombra
dell’essere con cui occorre saper intrattenere un rapporto costruttivo.68
Cfr. Angelo Brelich, Recensione a K. Kerényi, Hermes der Seelenführer [1944], Töchter der Sonne
[1944], Die Geburt der Helena. Samt humanistischen Schriften aus den Jahren 1943-1945 [1945],
Prometheus. Das griechische Mythologem von dem menschlichen Existenz [1946], «Studi e Materiali di
Storia delle Religioni», XIX-XX, 1943-1946, pp. 222-224.
68 Alla base di queste considerazioni il penetrante articolo di Aldo Magris, L’esperienza del divino
in Carlo Kerényi, in Neuhumanismus und Anthropologie des griechischen Mythos: Karl Kerényi im
europäischen Kontext des 20. Jahrhunderts, Renate Schlesier und Roberto Sanchiño Martínez (hrsg.
von), Locarno, Rezzonico, 2006, pp. 15-24.
67
61
Uno scritto dedicato a Carl G. Jung, che come sempre in Kerényi presenta quei
medesimi elementi che lo agganciano ai suoi lavori precedenti ed ai successivi,
tratta dell’emblema per eccellenza del percorso dialettico alla ricerca della
verità, il labirinto.69 Come in un metaforico viaggio iniziatico verso il centro che
segue la stessa linea infinitamente ripetitiva, si entra nel mistero solo andando
incontro alla morte, per poter poi riemergere alla vita rinata: lo scioglimento
dell’enigma, l’illusorietà del limite, si traduce dunque nel suo rovesciamento.
Esite un’altra fonte naturale, a un livello più profondo dell’anima, in cui ci si
trova dinanzi non più all’individuo, bensì al mondo stesso. La spirale non è
soltanto un “gesto” primordiale dell’uomo; è, in quanto movimento, un
“avvenimento” primordiale, al quale si partecipa. […] In ultima analisi, che
cosa esprime l’uomo involontariamente attraverso questo movimento, nella
danza e nel disegno? La stessa cosa che il liquido germinale produce nell’essere
vivente: l’eterno mantenimento della vita entro la morte. […] Questa
immortalità vissuta nel più intimo e nel più profondo è un’aspetto dell’essere.70
Si avverte in queste parole una certo parallelismo con la psicoanalisi junghiana,
che ricostruiva la totalità del senso attraverso tutti i possibili collegamenti
simbolici, trovando il loro fondamento unitario nell’“archetipo”. Thomas Mann,
come scriveva quello stesso anno in una lettera a Kerényi, salutava con
entusiasmo l’incontro tra il mitologo e lo psicologo.
Che lei si sia trovato in compagnia di Jung sul terreno della scienza, che la
mitologia abbia incontrato la psicologia, è un avvenimento molto singolare,
confortante e tipico di questo momento dello spirito. Il Fanciullo divino mi è
arrivato regolarmente. È un libro interessantissimo, e non c’è da meravigliarsi
che quando due iniziati di tal fatta lavorano insieme, ne nasca un interessamento meraviglioso […] Per parte mia sono lieto di vedere con quanto zelo e
con quanta commozione sono capace di leggerlo quando mi trovo davvero nel
mio elemento; e quale dovrebbe essere il mio elemento se non il mito aggiunto
alla psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa combinazione perché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano il mito agli
oscurantisti fascisti e «trasfunzionarlo» in umanità. Questa unione rappresenta
per me addirittura il mondo avvenire, un’umanità benedetta dall’alto, dallo
spirito, e dal «profondo che è sotto di noi».71
Károly Kerényi Studi sul labirinto. Il labirinto come disegno-riflesso di un’idea mitologica [ed. or.
Labyrinth-Studien: Labyrinthos als linienreflex einer mythologischen Idee, 1941] in Idem, Nel labirinto,
cit., pp. 31-105. Si veda anche l’interessante Introduzione di Corrado Bologna alle pp. 7-29.
70 Ivi, pp. 69-70.
71 Dialogo, cit., pp. 82-83 (Mann a Kerényi, 1941).
69
62
Trasfunzionare in umanità è proprio il tentativo che Kerényi intraprende nei
suoi studi risalenti agli anni del secondo conflitto mondiale. Tra questi uno dei
più originali è il contributo del 1942 dedicato ad Hermes,72 nato in origine come
una delle celebri conferenze di «Eranos» ad Ascona, alle quali Kerényi era
regolarmente invitato a partire dal 1940 proprio dallo stesso Jung.73
La natura titanica, pre-olimpica di Hermes in questo scritto viene
affrontata nel suo valore ambivalente, compreso fra l’elemento fallico
primordiale e la spiritualità olimpica. Hermes non è solo l’espressione luminosa
di un’idea – come voleva invece Walter F. Otto –, ma anche l’epressione di un
“mondo“, che comprende la luce come l’oscurità.
Egli è certamente la stessa profonda oscurità da cui proveniamo noi stessi.
Forse è per questo che Hermes può in modo così convincente apparire davanti
a noi, condurci sulle nostre strade, mostrarci tesori aurei […]: perché egli
attinge la sua materia da noi, o più esattamente, attraverso noi, come l’acqua si
attinge da una fontana, ma più esattamente soltanto attraverso una fontana da
molto più profonde profondità del mondo. […] Nella tradizione classica il suo
mondo si rivelava piuttosto estrovertito. Di esso faceva parte – e questo è il più
meraviglioso in esso – malgrado rapina, inganno e spudoratezza, un’innocenza
divina. Questo Hermes nulla ha che vedere con il peccato e l’espiazione. Ciò
che egli porta con sé dalle sorgenti del divenire, è appunto questo: l’«innocenza
del divenire».74
Hermes quale guida delle anime (Seelenführer), intermediario fra questo e l’altro
mondo, origine maschile della vita, rappresentava per i Greci una particolare
esperienza nel mondo, aperta alla possibilità di avere un diverso angolo visuale
sul mondo, “ermetico” appunto.75 Sorto nel mondo, per suo mezzo il mondo
diviene comprensibile, mostrando contemporaneamente dei tratti tipicamente
umani, nella loro intima e naturale realtà. Sono eloquenti in questo senso le
parole che sempre Thomas Mann dedicava ai testi di Kerényi di quel periodo:
L’immersione in questo mondo di solennità mistica, di dignità umana e di
sacramentale tendenza a rendere festosa la vita, ha un che di esaltante, di
purificante: adopero apposta la parola «sacramentale», perché la vicinanza del
Károly Kerényi, Hermes, la guida delle anime: il mitologema maschile delle origini della vita [ed. or.
Hermes der Seelenführer. Das Mythologem männlichen Lebensursprung, 1942], in Idem, Miti e misteri,
cit., pp. 50-114. Miti e misteri è l’antologia di scritti uscita nella “collana viola” Einaudi nel 1949.
Per i dettagli bibliografici delle collocazioni originali in tedesco rimando alla relativa nota alle
pp. 18-21. In questa sede è utile solo l’indicazione del titolo e l’anno dei saggi analizzati.
73 Sulla vicenda «Eranos» si veda il recente volume di Hans Thomas Hakl, Eranos: an alternative
intellectual history of the twentieth century [ed. or. Verborgene Geist von Eranos] translated by
Christopher McIntosh with the collaboration of Hereward Tilton, Equinox Publishing, 2013.
74 Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., pp. 84-85.
75 Cfr. Ivi, pp. 85-86.
72
63
religioso all’umano, il convertirsi dell’uno nell’altro, […] è forse il lato più
significativo di questo libro e magari delle condizioni umane e della misera
situazione dei nostri giorni. L’approfondimento dell’umanesimo mediante
l’elemento religioso, che ancora credo possibile senza dogmatismi non degni di
fede, è forse l’unico modo di conferigli la forza impegnante di cui ha bisogno
per raccogliere la sbandata umanità intorno a un’autorità nuova. Senza questa
raccolta e un’ideale formazione di rispetto e vita comune, il risultato dell’intricato esperimento «uomo» sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi
senza speranze.76
Da questo momento, come se Hermes avesse mostrato che la mancanza di
guida corrisponde in fondo alla perdita della visibilità del contenuto umano,
Kerényi rivela come la necessità più urgente sia quella di affrontare il problema
dell’uomo nella religione antica. Come si domandava nella Prefazione
all’edizione italiana di Miti e misteri, “in che modo serviva la religione antica da
«dimora» all’uomo?”77 L’uomo riceveva come risposta a una domanda, che la
forma concettuale del pensiero non può esprimere, delle immagini.
Quando noi vogliamo riconoscere il senso delle immagini nel fatto che esse, in
generale, hanno un riferimento all’uomo, con questo noi [...] vi introduciamo
l’uomo stesso. Nessuna dottrina astratta ha preceduto il contenuto concreto e
neanche più tardi astrattizzato delle immagini mitologiche. Il presupposto della
formazione di tali immagini è l’uomo stesso. [...] Origine e umanità, natura e
spirito, essere ed esistenza sanno di se stessi nell’uomo, prima che questi vi
abbia riflettuto. Essi cooperano nella costruzione di quella dimora ricca di
immagini [...] che è la religione antica e che risulta effettivamente priva di senso
[...] non appena da essa si elimini l’uomo. È perciò imprescindibile la necessità
di riportare con il pensiero l’uomo nella religione antica, riportarlo non solo
come l’obiettiva «figura umana» [...] ma anche come sorgente creatrice di una
ricchezza d’immagini, sorgente scaturita per effetto del contatto con qualcosa di
«più che umano», qualcosa di «divino» nel senso più largo della parola. [...]
L’essenziale nei misteri antichi è che essi rendevano presente, anzi tangibile,
questo riferimento umano e con ciò anche il riferimento divino dell’uomo. [...]
L’autentica mitologia costituisce il grado immediatamente successivo alla
rappresentazione cultuale dell’indicibile.78
Dialogo, cit., p. 147 (Mann a Kerényi, 1946). Siamo qui nella seconda parte del carteggio.
Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., p. 28. La Prefazione all’edizione italiana, alle pp. 25-30, risale
al 1949.
78 Ivi, pp. 29-30.
76
77
64
V.
Prometeo. Le catene della Felix Culpa
La figura della mitologia greca che più di ogni altra ha fornito
all’Occidente il suo eroe culturale è senza dubbio Prometeo, il titano che ha
voluto oltrepassare i limiti della condizione umana per prendere il posto della
divinità e ricreare il mondo secondo una norma nuova, diversa da quella della
prima creazione.79 Strettamente legato alle sorti dell’umanità, Prometeo si trova
in una particolare connessione con la storia primitiva dell’uomo,80 in quanto
l’evento colposo di cui egli si è reso responsabile ai primordi è stato causa dei
modi dell’esistenza attuale dell’uomo. L’iniziativa di Prometeo ha infatti avuto
come effetto una ancor più tragica lontananza degli uomini dagli dèi, sancendo
la loro netta differenziazione e opposizione di natura e di sorte.81 D’altro canto,
nell’atto stesso di raccontare la radicale e definitiva divaricazione fra destino
umano e divino, la mitologia prometeica offre l’occasione di confrontarsi con
quei problemi che ruotano attorno al tema centrale del mitologema, l’eccesso
punito. Frutto degli anni della guerra, lo studio di Kerényi Prometeo: il
mitologema greco dell’esistenza,82 se letto tenendo conto del momento storico in
cui si colloca, assume l’ulteriore significato di tentativo di risposta alle
domande esistenziali che il mito del titano pone. L’approfondimento di quel
riferimento umano che Kerényi ricercava nella mitologia non poteva che partire
dall’origine, andando al progenitore primordiale del genere umano, ma anche
Cfr. Roger Bastide, Prometeo o l’avvoltoio. Saggio sulla modernità e l’anti-modernità, in Idem, Il
sacro selvaggio, Milano, Jaca Book, 1979, pp. 153-170.
80 Come scrive Hans Blumenberg nel suo fondamentale testo Elaborazione del mito, Bologna, Il
Mulino, 1991 [ed. or. Arbeit am Mythos, 1979], che in fondo è una grande rilettura del mito di
Prometeo, seguendone l’interpretazione dall’antichità al moderno, “la civiltà è […] nello stesso
tempo, forma di istruzione e di suscitamento di un’attività spontanea. Prometeo non è prima il
vasaio che modella gli uomini e poi il portatore del fuoco, ma è colui che ha creato gli uomini
per mezzo del fuoco. Il fuoco è la loro differentia specifica, come lo sarà di nuovo nella
paleontologia antropologica.” (Ivi, p. 377.) Infatti “il fuoco non è primariamente l’elemento col
quale viene preparato il cibo e lavorato il metallo, ma è la sostanza che indica la direzione verso
l’alto” (Ivi, p. 431).
81 Si veda Ugo Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza,
Roma, edizioni dell’ateneo & bizzarri, 1976, in particolare il cap. V, Il ciclo di Prometeo: dualismo e
colpa antecedente in una prospettiva olimpica, alle pp. 188-232 che percorre con attenzione e cura
filologica le varianti mitologiche. Per l’analisi del racconto di Esiodo si veda anche il saggio di
Jean Pierre Vernant, Il mito di Prometeo in Esiodo, in Idem, Mito e societa nell’antica Grecia. Seguito
da Religione greca, Religioni antiche, Torino, Einaudi, 1981, pp. 173-191.
82 Károly Kerényi, Prometeo: il mitologema greco dell’esistenza umana [ed. or. Prometheus. Das
griechische Mythologem von dem menschlichen Existenz, 1946, riv. e ampl. 1959] in Miti e misteri, cit.,
pp. 150-207.
79
65
addentrarsi nel cuore stesso del simbolo che ha perseguitato come un’immagine
ossessiva tutta la storia dalla Grecia antica alla modernità tecnica, emblema e
monito del legame tra sofferenza, ragione e libertà.
All’inizio del saggio, Prometeo viene delineato come una delle figure
che, per analogia e per contrasto, ricordano maggiormente la concezione
cristiana del Redentore. Però a differenza del Cristo, la cui paradossalità risiede
nell’incarnazione e non nella sua umana sofferenza, l’antinomia di Prometeo
consiste proprio nel patire ingiustizia, sofferenza e umiliazione, che sono
contrassegni dell’esistenza umana, nella sua qualità di dio e in rappresenza
dell’umanità. Kerényi cerca di ripresentare i caratteri mitologici spezzando la
catena che ha riplasmato i contorni della figura, rendendola paradigma di una
spiritualità caricata: il Prometeo di Goethe è ad esempio “l’immortale prototipo
dell’uomo quale il Ribelle simile agli dèi, primo abitante della terra, concepito
come un Anti-dio”, dunque “appartiene alla storia spirituale moderna.”83 Ora
certo anche il Prometeo di Kerényi si può inserire all’interno della storia delle
interpretazioni quale ricerca dell’esistenza umana che questa divinità ferita
esprime. Come infatti afferma, circoscrivendo le caratteristiche peculiari della
sua figura,
Egli è l’unica divinità greca che ha bisogno di essere liberato e redento di una
simile ferita. Questa caratteristica non lo collega forse con l’ancor più infelice
genere umano? È una domanda che non vuol necessariamente alludere a un
bisogno di redenzione in senso cristiano e che deve ancora riacquistare il suo
significato greco. Ma anche così, vagamente intuita più che non formulata,
questa domanda deve rimanere sempre davanti ai nostri occhi, quando noi,
attraverso i testi classici, battiamo la strada verso quell’enigmatico dio ferito,
bisognoso di redenzione e redento, della mitologia greca.84
L’inevitabile condizione ferita e sofferente dell’esistenza umana era certo
l’aspetto più evidente nell’attuale momento storico. Hermann Hesse rispondeva
infatti a uno scritto di Kerényi85 con queste parole:
Al suo problema umanistico sono connesse tutte le ferite, tutte le possibilità di
guarigione e tutte le speranze di questi nostri tempi violenti. Per me il più bel
Cfr. Ivi, pp. 150-153. Oltre ad Hans Blumenberg, op. cit., per un’approfondita analisi del
dramma eschileo nella cultura tedesca a cavallo tra Sette e Ottocento si veda il volume di Fabio
Turato, Prometeo in Germania. Storia della fortuna e dell’interpretazione del Prometeo di Eschilo nella
cultura tedesca (1771-1871), Firenze, Olschki, 1988.
84 Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., p. 157.
85 Si tratta di un’articolo del 1945, pubblicato anche in italiano: Károly Kerényi, I concetti
fondamentali dell’umanesimo e la sua possibilità nell’avvenire. Lettera ad un giovane umanista, «Janus
Pannonius: rivista trimestrale umanistica dell’Accademia d’Ungheria in Roma», I, 1, 1947, pp.
21-30.
83
66
frutto dell’umanesimo è la pietas, il profondo rispetto dell’individuo, di ciò che
egli è in grado di compiere e di sopportare.86
Per i suoi caratteri che corrispondono alla forma umana dell’esistenza, ovvero
la punizione e il suo presupposto di pronunciata colpevolezza nella qualità di
sacrificatore, spesso semplificato nel solo celebre atto del furto del fuoco,
Prometeo si rivela come alter ego dell’umanità.
L’atto di carpire il fuoco, quale atto di appropriarsi di qualcosa […] caratterizza
colui che lo compie come una persona sulla cui esistenza grava una
manchevolezza. […] L’oscurità di Prometeo, che abbiamo ritrovata, facilmente
si rivela come la manchevolezza di un essere per il quale proprio il fuoco
sarebbe essenziale per raggiungere una vita più perfetta.87
Nella forma d’esistenza in lui eternata – una forma d’esistenza che rappresenta
una possibilità atemporale e indipendente da ogni realizzazione – , (Eschilo)
rileva i tratti fondamentali della maniera umana dell’esistere. […] il «portatore
di fuoco» definisce il ladro di fuoco in modo obiettivo, senza bollarlo come
peccatore. […] Se mancava la condanna e la terribile punizione sopraggiungeva lo stesso […] con ciò si precisava il motivo delle sofferenze […]:
l’inevitabile agire a torto quale carattere fondamentale dell’esistenza umana.88
La colpa di Prometeo può quindi essere definita come antecedente, in quanto
precede, fonda e condiziona l’esistenza umana, diventando una particolare
visione non solo dell’uomo o del cosmo, ma del divino stesso. Radicata nel
mondo, si differenzia nettamente dal peccato originale commesso alle origini
dal primo uomo della tradizione cristiana.89 Il Rinascimento, al contrario, aveva
prodotto una nuova e soprendente equazione, quella tra Prometeo e Adamo.
Era il primo cauto passo verso un mutato atteggiamento della coscienza, che
alla fine ascriverà a se stessa, senza riserve, il processo attraverso il quale
l’uomo diventa se stesso. Questa equiparazione era giustificata proprio dal fatto
che ambedue sono definiti dalla relazione col proibito: il primo col frutto della
scienza del bene e del male, l’altro col fuoco che accende il lume della potenza
razionale. Prometeo deve usare astuzia e violenza per il semplice scopo di
creare per le sue creature le condizioni della nuda esistenza. Il dono del Titano è
irrevocabile, come lo sono i doni della ragione: essa sola non può essere
costretta a rinunciare a se stessa. Se Prometeo veniva proiettato su Adamo, ciò
Karl Kerényi, Corrispondenza con Hermann Hesse. 1943-1956, a cura di Magda Kerényi, edizione
italiana a cura di Lorenzo Bellotto e Carla Rossi Bellotto, Palermo, Sellerio, 1995 [ed. or.
Briefwechsel aus der Nähe, 1972] (Hesse a Kerényi, 1945) p. 70.
87 Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., 177-178.
88 Ibidem.
89 Cfr. Ugo Bianchi, op. cit., p. 55.
86
67
significa che la perdita del Paradiso doveva essere riguardata come una felix
culpa: come la chance dell’uomo di essere se stesso per opera propria, a
prescindere da ciò che lo aveva portato a questo punto.90
Questa prospettiva è certamente in assonanza con quanto Kerényi scrive
passando ad analizzare il Prometeo incatenato:
Nella limitazione contro cui l’esistenza umana necessariamente urta, egli
riconosce un incrollabile dato di fatto del mondo esitente, come una misura
posta da Zeus. […] Ma la sua particolare maniera d’esistenza priva l’uomo di
una capacità: la capacità di soffrire senza sentire in ciò ingiustizia. […] Egli
portò il fuoco, il cui possesso è negato agli animali: l’esistenza è priva di fuoco.
Così elevò egli l’esistenza umana al grado di un’esistenza umana […] già liberata
ma tuttavia ugualmente incatenata e punita.91
Prometeo è altretanto incapace di svincolarsi dalle catene del mondo di Zeus,
quanto lo è l’umanità. Il perduto dramma Prometeo liberato intensifica l’aspetto
più terribile dell’esistenza, la sofferenza corporale, che è tale da arrivare ad
invocare il soccorso della morte.
Contro l’ingiustizia serve ancora la speranza dell’immortalità. Fin tanto che
Prometeo sa che il suo essere è come quello degli dei immortali, egli non si
sommerge totalmente nella forma umana dell’esistenza. Ma quando oltre
all’ingiustizia egli deve sopportare quest’altra inerenza dell’esistenza umana, il
dolore fisico, allora l’immortalità stessa diventa priva di senso, e questo genere
di esistenza asservito all’ingiustizia e alla sofferenza vuol terminare, in
conformità alle proprie leggi, con l’unica soluzione data all’uomo, la morte.92
Giunto al piano più basso dell’umanità, al dolor e all’amor mortis a causa della
liberazione, attesa ma ancora irrealizzata, Prometeo verrà infine sciolto dalle
sue catene per mezzo di Eracle, suo sostituto ed erede delle sofferenze.
Il fatto […] che qualcuno abbia potuto prendere su di sé le sofferenze di
Prometeo, ci costringe a parlare di «redenzione». Non solo per il fatto della
sostituzione stessa, ma perchè la sostituibilità definisce il carattere di quella
Cfr. Hans Blumenberg, op.cit., pp. 435-436. Sono interessanti anche le considerazioni che
Blumenberg fa riguardo allo scopo di Nietzsche di escludere ogni affinità tra la hybris antica e il
peccato originale della Bibbia. Il furto del fuoco da parte di Prometeo per Nietzsche sarebbe un
sacrilegio, col quale l’uomo non «cade» ma per la prima volta si innalza alla certezza di sé. In
questo però non coglie l’essenziale della differenza tra sacrilegio e peccato. In contrasto con
l’offesa alla maestà assoluta, quale è attribuita dalla teologia cristiana al peccato, il sacrilegio ha
la sua grandezza e la sua durata solo in quanto il dio interessato non è incondizionatamente nel
giusto, e, ancora più importante, che non può tutto. (Cfr. Ivi, pp. 736-737.)
91 Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., pp. 184-185.
92 Ivi, pp. 199-200.
90
68
sofferenza, e lo definisce precisamente nel senso di una sofferenza esistenziale:
come una sofferenza cioè che non tocca a una determinata persona soltanto,
bensì è inerente all’esistenza stessa.93
Prometeo verrà quindi liberato, ma non certo l’uomo, per il quale mortalità e
miseria non saranno più trascendibili. In questo mitologema Kerényi trova una
lezione essenziale: non c’è possibilità di redenzione dalla colpa ma solo
l’accettazione e la sopportazione del male.94
Ivi, pp. 201-202, corsivo mio.
Questa prospettiva trova una particolare analogia con quanto scrive in anni più recenti
Umberto Curi, il quale ripercorre la parabola del mito di Prometeo toccandone gli aspetti chiave
della fortuna negli ultimi due secoli della tradizione occidentale. Curi mette in evidenza come
in tutte le diverse versioni di questo mito vi sia un tratto distintivo: Prometeo è colui che, mosso
dalla filantropia, salva il genere umano e, al tempo stesso, lo costituisce nella sua specifica
peculiarità. Distanziandosi però dall’interpretazione ottocentesca che ha rappresentato
Prometeo come colui che ha salvato l’umanità donandogli la tecnica (téchne), Curi ne sottolinea
il paradosso, ben individuabile dal confronto con le versioni classiche del mito. Infatti nel
Prometeo incatenato di Eschilo viene affermata la radicale infondatezza della tecnica e la sua
incapacità di soccorrere davvero il genere umano. Al fine di superare questa contraddizione,
Curi interpreta il mito di Prometeo a partire dalla colpa da esso commessa. Il titano ha cercato,
spinto dalla filantropia, di sottrarre il genere umano dalla sua condizione di essere mortale, o
meglio ancora, lo ha salvato dall’ossessione continua di guardare con paura all’ultimo giorno,
infondendo la speranza, come vero tratto distintivo dell’essere umano rispetto agli altri viventi.
Occorre altresì sottolineare, prosegue Curi, come la pena inflitta da Zeus a Prometeo non possa
essere eterna: sarebbe infatti inaccettabile una figura salvifica che si autoimmola e che poi resta
perpetuamente legata ad una punizione. Facendo però riferimento ai frammenti del Prometeo
liberato emerge come il termine della pena consiste nell’acquisizione della consapevolezza
dell’amore per la morte, amor mortis. Il mito di Prometeo avrebbe dunque la finalità di mostrare
l’esito tragico di qualunque titanismo, cioè di qualunque tentativo di sconfiggere una volta per
tutte la morte, rispetto al quale si porrebbe la possibilità di riconoscerla come quel limite che
conferisce significato alla vita stessa e attribuisce ad essa la sua peculiarità. Si veda il cap. III,
“Amor mortis. Il destino dell’uomo nel Prometeo incatenato” di Umberto Curi, Meglio non essere
nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 110-144. Un
approcio teoretico era già stato sviluppato nella seconda parte di Idem, Endiadi. Figure della
duplicità, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 115-sgg.
93
94
69
VI.
Contro il dio inumano
La ricercata simmetria delle figure mitologiche, caratteristica che si
incontra spesso negli studi di Kerényi e che in fondo ricalca l’idea che la
completa unità sia raggiungibile soltanto nell’opposizione, la riscontriamo
anche nello studio complementare al Prometeo dedicato al suo corrispettivo
femminile, Niobe.95 Quasi fossero due speculari ritratti, – ed infatti gli episodi
dei loro supplizi erano raffigurati ai due lati del trono di Zeus di Fidia – le
figure associate nel confronto emergono quali prototipi della donna e dell’uomo
nel loro sforzo e nella loro sopportazione. Immagine esemplare della superbia
punita, Niobe sconta la propria colpa assistendo allo sterminio di tutti i suoi
figli. Questo episodio di inumana durezza è significativamente legato al destino
dell’uomo.
Ciò che in quelle scene di morte veniva rivelato dal punto di vista di un’alta
arte religiosa, né morale, né immorale, ma obiettiva, era un riferimento che
trascendeva il destino dei singoli e dei gruppi, qualcosa di universale, ma non
per questo meno difficile a sopportarsi umanamente. Si tratta del «generalmente umano» […] riassunto nella sua essenza. Era questo che si poteva
contemplare nel trono di Zeus a Olimpia: la condizione umana stessa nel suo
contrasto con quella divina, nelle immagini dell’essere indifesi.96
In quanto madre primordiale del genere umano, Niobe, al pari di Prometeo,
è una dea e tuttavia porta il grave destino umano, l’esser punito per una colpa
umana. […] L’umano è così inerente a questo mondo, che l’uomo si riconosce
perfino nel cielo.97
Entrambi portano dunque, come qualcosa di eterno, la forma umana
dell’esistenza. Già analizzando le caratteristiche di Prometeo Kerényi aveva
sottolineato come il legame che la figura mitologica intratteneva con la sfera
dell’oscurità e con la sofferenza umana fosse da connettersi alla luna ed al suo
ciclo: così anche Niobe.
Noi abbiamo definito il mondo greco, con i suoi dèi, un «mondo dell’uomo».
Esso è un mondo divino-umano: perfino il divino, il non-umano, il più-che-
Károly Kerényi, Niobe [ed. or. Niobe, 1946] in Idem, Miti e misteri, cit., pp. 208-223.
Ivi, p. 210.
97 Ivi, p. 215.
95
96
70
umano può, in esso, apparire sotto forme umane, e anche l’umano in esso, la
sua metà oscura, trova la via verso figure divine che originariamente avevano il
loro posto nel cielo.98
La madre dei Niobidi, al pari del ladro titanico incatenato ad una colonna tra
cielo e terra, rappresenta un aspetto della luna e come questa alterna chiarore
ed oscurità: per Kerényi questi mitologemi pongono dinanzi allo sguardo un
mondo in cui la parte oscura della divinità non è un’obiezione alla sua
perfettibilità, ma ne è parte integrante ed essenziale. Un altro importante saggio
dello stesso anno, Immagine, figura e archetipo,99 testimonia ancora una volta
quanto le figure di Prometeo e Niobe fossero nei pensieri del mitologo le chiavi
per entrare nel mondo della mitologia. Queste immagini della condition humaine
gravata da inevitabili sofferenze devono infatti ancora spiegare del tutto dove
consista la loro così efficace funzione nel determinare la vita e il destino
dell’umanità.
Né nell’un caso né nell’altro l’«immagine» è da considerarsi come semplice
rispecchiamento o pura copia della condizione umana: essa ha un contenuto
che trascende la transitoria sfera umana. I portatori di quelle immagini sono un
dio e una dea.100
L’esempio di questi mitologemi non offre solo dei modelli nei quali l’umanità
possa ritrovare i suoi drammi, bensì mostra il fondamentale passaggio che è
stato compiuto nella mitologia greca: due antiche divinità lunari sono diventate
emblemi della condizione umana.
Un mondo dell’uomo: questo è il mondo della mitologia. Un mondo talmente
orientato sull’uomo, così evidentemente antropomorfo, da dispensarci dalla
domanda, se esso non sia opera dell’uomo. Lo è senza dubbio! Ma non era il
desiderio dell’uomo ciò che determinava quest’opera in modo esclusivo o in
misura prevalente. […] La conoscenza di ciò che è duro e non-umano forma già
un presupposto della figura di Prometeo, ma un altro presupposto […] è l’idea
di libertà che Prometeo incarna in sé. La sua celebre renitenza significa che egli
sin dall’inizio prende posizione contro qualcosa: contro ciò che è duro e
inumano, contro gli dèi che non sono uomini come lui, l’uomo-dio. E con ciò –
con l’idea della libertà – la situazione cessa di colpo di essere naturale e
ovvia.101
Ivi, p. 216.
Károly Kerényi, Immagine, figura e archetipo [ed. or. in trad. italiana Prometeo e Niobe: due
archetipi del modo d’esistere umano, 1946, successivamente come Bild, Gestalt und Archetypus] in
Idem, Miti e misteri, cit., pp. 224-236.
100 Ivi, p. 229.
101 Ivi, p. 230.
98
99
71
Il mito è il mito dell’uomo e gli dèi non sono delle entità la cui esistenza
deve essere affermata, negata o lasciata ambiguamente in sospeso. D’altra parte
anche l’uomo non è affatto un’entità positiva, antropologicamente definita, che
per qualche motivo si inventa gli dèi proiettando fuori di sé la sua essenza
buona. Per Kerényi al centro della mitologia c’è un’esperienza della vita, del
mondo e di sé nella misura in cui questo vissuto rivela qualcosa di enigmatico
che stupisce o sconvolge, in quanto anche l’uomo è un’enigma a sé medesimo,
come il mondo è un enigma per lui.102 Questo distaccamento dal mondo è
storicamente riconducibile all’irrompere nella storia di possibilità di una nuova
situazione dell’uomo: la gnosi. Infatti nel mondo della gnosi, pur esprimendo la
condizione umana attraverso la figura di un uomo e di una donna, viene
presentato un panorama completamente differente: infatti
Ciò che nella situazione mitologica gli si opponeva soltanto come qualcosa di
duro e non-umano, ora diventa cattivo e malvagio.103
In questo momento Kerényi individua la fondamentale rinuncia al contatto con
il mondo, che appare oscuro e diabolico e nel quale l’uomo, privato dal contatto
con il divino nella stessa realtà non-trascendentale, è stato “gettato”. Solo la
mitologia rimane quel linguaggio capace di esprimere una condizione umana
cui originariamente era inerente una “fusione”.104
Le due figure mitologiche protagoniste della disamina in quest’ottica
divengono i simboli del cosciente umanesimo greco, i due prototipi della
maniera umana di esistere: non sono degli “archetipi” nel senso junghiano del
termine, ossia forme della psiche inconscia, eredità del passato remoto del
genere umano. Come potenze che agiscono nell’anima gli archetipi presuppongono e sottolineano il valore dato dal contatto dell’individuo con il
passato.105
La nostra epoca invece è caratterizzata […] dall’agire senza immagini: «Tun
ohne Bild» (Rilke). Dovunque però la mitologia arrivi fin nel presente, si agisce
sempre secondo immagini.106
Cfr. Aldo Magris, Il divino come evento in Kerényi e Heidegger, in Károly Kerényi: Incontro col
divino, cit., pp. 81-96.
103 Károly Kerényi, Miti e misteri, cit., p. 232.
104 In queste riflessioni Kerényi è guidato dalla lettura di Hans Jonas.
105 Cfr. Ivi, pp. 232-234.
106 Ivi, p. 234.
102
72
Il presente deve accontentarsi di esperire la potenza delle immagini mediante
un inconscio contatto con il passato. Nelle epoche mitologiche al contrario la
potenza derivava anche dal contatto con il presente.
Nella mitologia si presentano prototipi più pieni di quegli archetipi: figure
piene di mondo, potenti aspetti del mondo. […] «Mondo», in questo caso, vuol
dire sempre – secondo il senso originario della parola Welt – un «mondo
dell’uomo» e l’uomo è da considerarsi in una condizione dell’essere aperti,
aperti verso fuori, condizione cui non corrisponde l’«essere gettati»
(Geworfenheit), bensì l’«essere fusi» (Verwobenheit).
La mitologia greca ci offre la dimostrazione che all’uomo che si trovi in questa
condizione, perfino il proprio modo di esistere può rivelarsi quasi dal di fuori,
come un aspetto della mutevole luna che si oscura, e in seguito, come
un’immagine, sempre più chiara e corrispondente all’esperienza, del modo in
cui l’esistenza umana si realizza fin dall’inizio dei tempi.107
L’immagine delle due figure paradigmatiche di Prometeo e Niobe sono presenti
in tutti gli uomini e in tutte le donne, come una possibilità di esistenza che non
rispecchia soltanto l’uomo ma anche il suo mondo. I caratteri delle divinità
mitologiche hanno la capacià di palesare la profondità del genere umano, che
proprio per la sua profondità è celato. Nella storia greca si tratta di un diventar
coscienti dell’uomo: di quale “uomo”? si domanda Kerényi nel saggio posto a
chiusura della sua importante raccolta.108
Pure è il motto delfico che ci mostra il posto in cui l’uomo si situa nella
concezione greca: né al polo soggettivo, quale io inafferrabile, né al polo
oggettivo, come oggetto qualsiasi di una ricerca, né, infine, nel regno delle idee,
come «immagine universalmente valida e impegnativa della specie», bensì nel
regno del concreto, come elemento concreto di un ordinamento del mondo che
però non solo include in sé l’uomo – o detto in maniera più ellenica, il genere
umano – come un concetto più generico implica un concetto più specifico, bensì
lo contiene in sé effettivamente, come propria base.109
Essere uomo si contrappone all’essere dio, specialmente considerando la celebre
distinzione – dalla poesia omerica in avanti – tra mortalità ed immortalità: vi è
un legame essenziale ed imprescindibile tra il genere umano e la morte. Dopo
una breve rassegna di passaggi di autori classici che porterebbe a concludere
che l’espressione del modo in cui i Greci vedevano l’uomo è quello di una
Ivi, p. 235.
Il saggio in questione chiude sia l’antologia tedesca Niobe. Neue Studien über antike Religion
und Humanität che quella italiana Miti e misteri.
109 Károly Kerényi, La concezione greca dell’uomo [ed. or. Der Mensch in griechischer Anschauung,
1948] in Idem, Miti e misteri, cit., pp. 359-373. Il passo citato a p. 364.
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severa autolimitazione, ecco che infine il mito di Prometeo viene nuovamente in
soccorso al discorso, come contrassegno dell’unione tra la miseria umana e le
più alte possibilità della conoscenza, quel fuoco – il λόγος o il νοῦς – comune
agli uomini e agli dèi.
Il mitologema del furto del fuoco di Prometeo […] riunisce tutti quei tratti che
abbiamo notati nell’uomo contemplato dai greci, l’inguaribile sofferenza e la
potenza titanica, in un’unica connessione immaginifica, ed è adatto a gettar luce
anche su un ulteriore tratto: un tratto in cui l’esemplare portatore è proprio il
rapitore del fuoco. [...] «Essere uomini» è δειλóν+e+δεινóν+nessun «essere» è più
misero, più nullo, più doloroso dell’«essere uomini», ma questo è nello stesso
tempo un «essere prometeico». […] Ma che partito deve prendere l’uomo,
quando si rende conto di non essere portatore del genere d’esistenza delle
potenze della natura e del destino, bensì di quello degli uomini? La coscienza di
un’esistenza umana […] ha condotto l’uomo a una specie di solidarietà, non con
gli dèi, non con gli animali, bensì con coloro che «propriamente» gli sono simili,
e nel corso dei suoi ulteriori influssi ha condotto all’umanesimo.110
110
Ivi, pp. 372-373.
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