Moneta e Credito, vol. 68 n. 271 (settembre 2015), 341-355
NOTE BIBLIOGRAFICHE
BERTOCCO G. (2015): La crisi e la responsabilità degli economisti, Francesco Brioschi Editore, Milano, pp. 314, € 18, ISBN: 978-88-9539994-2.
Tutti i libri banali si somigliano; ogni libro interessante, invece, è
interessante a modo suo. E il libro di Giancarlo Bertocco (d’ora innanzi:
l’autore), è tutto fuorché banale. Prima di entrare nel vivo del discorso,
una premessa appare necessaria, alla luce di quanto andremo dicendo: pur
essendo questo un libro di teoria economica, esso è scritto con un
linguaggio comprensibile e piano, che potrà essere facilmente inteso
anche dal lettore non specialista; pur non essendo un libro di politica
economica, esso dà, nella parte finale, suggerimenti riguardo a possibili
politiche economiche (alternative rispetto alla, almeno in Europa,
imperante austerità) per mezzo delle quali affrontare la crisi in atto.1
Inoltre, dato che, per dirla con Althusser: “Non esistono letture innocenti”, dichiariamo subito di quale lettura siamo ‘colpevoli’ di una lettura
vetero-socialista, che vede la lotta di classe al centro del proscenio.2
Secondo l’autore, la crisi dei mutui del 2007 e la sua recrudescenza
attuale in ambito europeo, di fronte a cui la gran parte degli economisti si
è dimostrata impreparata, non avendone previsto l’arrivo,3 pongono un
problema. Per capire di che si tratta, basta rammentare che il modellobase degli economisti mainstream (o, come li chiama l’autore,
“conservatori”), descrive de facto una economia non monetaria (o meglio,
1
Secondo l’autore stiamo vivendo, a partire dal 2007, un’unica crisi, la quale si sviluppa
in più fasi. La prima fase va dall’estate del 2007 al settembre del 2008. La seconda fase
inizia nel settembre 2008 con la decisione del governo americano di lasciar fallire
Lehman Brothers e termina nel 2009. La terza fase, infine, inizia nel 2010 con l’emergere
del problema della sostenibilità dei debiti pubblici (pp. 27, 31-32). Per differenti
valutazioni sulle fasi, così come sull’unicità della crisi, il lettore è rimandato al dibattito
avvenuto su questa stessa rivista (soprattutto nelle annate 2010, 2011, 2013) e su PSL
Quarterly Review (a partire dal 2009).
2
Il lettore è pregato di tenere presente tutto ciò, soprattutto quando leggerà la ‘critica’ da
noi mossa all’autore alla fine della presente recensione.
3
Tra le eccezioni, va senza dubbio segnalato Paolo Sylos Labini (2003).
Quest’opera è distribuita con licenza internazionale Creative Commons Attribuzione ‒ Non commerciale ‒ Non opere
derivate 4.0. Copia della licenza è disponibile alla URL http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/
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come vedremo nel prosieguo, in cui la moneta non conta). Tanto che,
anche se alcuni autorevoli esponenti del mainstream economico
sembrano essersi spostati verso posizioni ‘critiche’ (su tutti: Krugman e
Stiglitz), in realtà ci troviamo di fronte a un paradosso poiché, come si
evince dall’analisi dei primi tre capitoli del libro, in merito all’attuale fase
essi sono in grado di dire cose rilevanti e/o cose deducibili dai loro
modelli. Solo che le cose deducibili da quei modelli non sono rilevanti, e
quelle rilevanti non sono deducibili.4
Bisogna dunque decidere se continuare sulla strada della critica
formale dei modelli proposti, di volta in volta, dalla scienza economica
dominante,5 oppure metterne in discussione gli assunti di base6 – su tutti,
la visione di un mondo di individui identici e sovrani, in cui la moneta è
appena un “velo” posto sulle grandezze reali. L’autore, e ciò sia detto a
suo imperituro merito, sceglie con decisione la seconda strada.
A parere dell’autore la professione economica ha superato la contraddizione tra teoria e realtà considerando la crisi attuale come un evento
accidentale ed eccezionale, un cigno nero, provocato dagli errori commessi da due soggetti: la Federal Reserve e il sistema bancario americano. Ma queste spiegazioni costituiscono una prova evidente dei limiti
della teoria tradizionale.
In effetti, secondo l’autore, si possono individuare principalmente tre
tipi di spiegazione della crisi – spiegazioni basate sul concetto di errore. Il
primo tipo sostiene che la responsabilità della crisi debba essere attribuita
alle autorità monetarie americane le quali, tra il 2000 e il 2004, avrebbero
adottato una politica smodatamente espansiva, creando un eccesso di
liquidità che ha consentito al sistema bancario di espandere l’offerta di
mutui, provocando la bolla immobiliare scoppiata nel 2007. Il secondo
4
Qualcosa di simile era stato rilevato anche da Marco Veronese Passarella, il quale
cercava altresì di dare una spiegazione al fenomeno. Cfr. [Veronese] Passarella (2010), pp.
104-105. Su questa stessa lunghezza d’onda si pongono pure le osservazioni fatte da
Emiliano Brancaccio nell’ambito del convegno “La crisi globale. Contributi alla critica
della teoria e della politica economica”, tenutosi presso la Facoltà di Economia
dell’Università di Siena; cfr. Brancaccio (2010).
5
Questa è la strada seguita da molta della tradizione “sraffiana” (soprattutto la scuola di
Garegnani).
6
Come in tempi non sospetti proponeva di fare per esempio Augusto Graziani.
Note bibliografiche
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genere di spiegazione attribuisce la responsabilità della crisi al sistema
bancario americano. Raghuram Rajan sostiene che, sotto la pressione di
un sistema di incentivi distorto, le banche americane avrebbero creato
una quantità eccessiva di rischio, provocando la crisi. Secondo l’autore,
l’espressione “creare rischio” non deve essere confusa con l’espressione
“assumere rischio”. Infatti, una compagnia di assicurazioni che emette
polizze contro i danni di un terremoto non influenza la probabilità che si
verifichi il terremoto; essa si assume solamente un rischio, non lo crea.
Nel caso della crisi recente, invece, il sistema bancario avrebbe creato il
rischio relativo al verificarsi della crisi finanziaria poiché, espandendo
l’offerta di mutui subprime, avrebbe favorito la formazione della bolla
speculativa la cui esplosione è all’origine della crisi. La terza
spiegazione, infine, sostiene che la liquidità che ha alimentato la bolla
immobiliare derivi dall’eccesso di risparmio registrato nei paesi
emergenti dell’Asia e nei paesi produttori di petrolio.
Come abbiamo già notato, tutte queste interpretazioni contengono
concetti e relazioni che sono in contrasto con le proposizioni
fondamentali della teoria mainstream. La spiegazione che attribuisce la
responsabilità della crisi alla Federal Reserve non è coerente con la teoria
standard della moneta che afferma che le autorità monetarie possono
controllare la quantità di moneta ma non l’offerta di credito che dipende,
invece, dalle decisioni di risparmio. La spiegazione elaborata da Rajan è
in contrasto con la teoria tradizionale della finanza secondo la quale le
banche sono dei semplici intermediari che trasferiscono le risorse dai
risparmiatori alle imprese. Di conseguenza, secondo la teoria mainstream,
con le loro scelte esse non solo non possono creare rischio, ma al
contrario dovrebbero ridurlo dato che, rispetto ai risparmiatori, sono
dotate di una maggior capacità di valutare le caratteristiche dei debitori.
Anche la terza spiegazione non è coerente con la teoria dominante,
secondo la quale un aumento del flusso di risparmio non provoca crisi,
ma dà un impulso alla crescita poiché determina un aumento degli
investimenti.7 Infine, avverte l’autore, tutte le spiegazioni in parola
utilizzano i concetti di “speculazione destabilizzante” e di “bolla
7
Assumendo che ci siano sempre investimenti profittevoli al tasso d’interesse “naturale”.
344
Moneta e Credito
speculativa” che sono estranei al core della teoria macroeconomica
dominante.8
Ma l’autore non si accontenta di mostrare le contraddizioni in cui si
dibattono gli economisti “conservatori”. Egli, invece, dimostra
chiaramente che il modello di riferimento mainstream non descrive
un’economia monetaria di produzione, ma è un modello teorico che
descrive, de facto, un’economia (che egli, facendo eco a Ricardo, chiama
economia “grano”) la cui circolazione è del tipo M-D-M. Ove, quindi, la
moneta, sia essa presente o meno, non è comunque rilevante. Infatti,
nell’economia “grano” varrebbe la legge di Say, e dunque non vi
potrebbero essere problemi di realizzazione della produzione (non ci
sarebbero problemi di domanda effettiva); le banche non farebbero altro
che raccogliere risparmi già esistenti per poi riprestarli, comportandosi
come un “guardarobiere”; né si potrebbe, infine, porre la questione
dell’incertezza radicale keynesiana, avendosi invece sempre e solo a che
fare con rischi calcolabili.9
Ciò fatto, egli comincia a porre il problema del modello teorico
“adeguato”. L’autore asserisce con forza lungo tutto il libro che non
basta fare qualche osservazione intelligente nonostante si continui a
ragionare sulla base di un modello “inadeguato”, ma bisogna sbarazzarsi
di quel modello e costruirne uno alternativo. Per questo motivo,
crediamo, l’autore chiama “conservatori” gli economisti mainstream; essi
sono conservatori dal punto di vista teorico, ossia: sono disposti a fare
tutti gli aggiustamenti “marginali” possibili al loro modello – pur di
mantenerne intatto il core analitico. Una delle conseguenze della
riluttanza della professione economica a sbarazzarsi della vecchia
impostazione teorica, ci sembra ritenga l’autore, è che, nonostante la
clamorosa smentita costituita dallo scoppio della crisi, di fatto, soprattutto
in Europa, non è mai stata rimessa in discussione l’impostazione generale
delle politiche economiche attuate.
8
Sull’impossibilità da parte della teoria mainstream, a causa dei postulati di “razionalità”
da cui essa parte, di trattare il problema della speculazione e delle bolle speculative in
modo rilevante, vedasi Orléan (2010), soprattutto pp. 103-118.
9
Su questo punto, illuminante risulta un confronto con Roncaglia (2009; 2012b).
Note bibliografiche
345
Ricapitolando: l’autore afferma molto chiaramente che è tutto
l’impianto logico del modello mainstream a non tenere – se,
effettivamente, vogliamo analizzare un’economia “intrinsecamente
monetaria”, ovvero un’economia del tipo D-M-D, in cui quindi la moneta
non è un mero intermediario degli scambi, ma è l’alfa e l’omega di tutte
le cose. L’autore afferma altresì che non sarebbe comunque sufficiente
tornare ai vecchi modelli “keynesiani”, quelli della “sintesi neoclassica”
di Keynes. Scrive, di conseguenza:
“[p]artire da Keynes al fine di definire un approccio teorico alternativo a
quello del mainstream non significa, tuttavia, limitarsi a recuperare il
modello keynesiano accettato dagli economisti tra gli anni Cinquanta e
Sessanta del secolo scorso. Quel modello, infatti, è frutto di una
interpretazione della Teoria generale che trascurava gli elementi
fondamentali del pensiero di Keynes, che ora è necessario recuperare” (p.
81).
L’autore propone invece di utilizzare la lezione degli economisti
“eretici”: Keynes e Schumpeter (soprattutto), ma anche Marx, Kalecki,
Kaldor e Minsky,10 per costruire ex novo un modello adeguato a
un’economia in cui la moneta sia veramente rilevante.
Innanzitutto, in tale sistema economico, non vale la legge di Say ma
il principio della domanda effettiva. In secondo luogo, la domanda stessa,
insiste l’autore, ha natura monetaria. Infatti, come egli scrive:
“[i]n una economia monetaria vale il principio della domanda effettiva
secondo cui il livello del reddito dipende dalla domanda aggregata […].
Keynes considera la moneta come l’elemento essenziale per spiegare le
fluttuazioni della domanda aggregata che vengono definite come un
‘fenomeno monetario’ […]”(p. 182).
Tutto ciò ha conseguenze notevoli, dato che:
“[l]e grandezze monetarie non rappresentano un semplice ‘velo’, non sono
cioè l’espressione in termini monetari di grandezze reali che costituiscono i
‘veri’ fattori da cui scaturiscono i profitti. Al contrario, le grandezze
monetarie costituiscono l’unico elemento su cui si fondano le decisioni
dell’imprenditore-innovatore” (p. 100).
10
In realtà, il libro che stiamo recensendo è il frutto di un lungo percorso di ricerca
teorica, tra i cui risultati scientifici vanno rammentati, almeno: Bertocco (2001; 2004;
2007; 2008; 2010; 2013).
346
Moneta e Credito
V’è, tuttavia, un altro fatto rilevante, che costituisce un punto di
grande interesse del libro. In effetti, se noi fossimo in un’economia
“grano” potremmo arrivare, a un certo momento, alla sazietà dei bisogni,
perché in quel tipo di economia i bisogni sono esogeni. Potrebbero, in
altri termini, realizzarsi quelle che Keynes considera le prospettive
economiche dei “suoi” nipoti – ovvero, si arriverebbe, prima o poi, a uno
stato stazionario, più o meno “felice”.11 Però, in un’economia
“intrinsecamente” monetaria, in cui i bisogni non possono essere
considerati esogeni, perché ci sono gli investimenti/innovazioni che
“spingono” i consumatori verso i nuovi prodotti – e dunque: in cui non
abbiamo, come postula la teoria tradizionale, “sovranità del
consumatore”, bensì come dice Schumpeter e l’autore ripete, “sovranità
del produttore”, dato che i bisogni sono, entro certi limiti, “indotti” –
ebbene, in questo tipo di economia non si può mai giungere a sazietà.
Nelle parole dell’autore: “[i] bisogni non costituiscono un dato esogeno,
ma sono continuamente condizionati dalle innovazioni introdotte dagli
imprenditori che possono essere o non essere accettate dai consumatori”
(p. 93).
L’esito più interessante di quanto appena detto è che l’autore riesce a
recuperare la definizione più ‘tradizionale’ e, apparentemente,
‘conservatrice’ di scienza economica, la definizione di Lord Robbins
secondo cui l’economia sarebbe l’applicazione di mezzi scarsi a usi
alternativi, capovolgendone però completamente il significato. Abbiamo
quindi che, in un’economia “intrinsecamente monetaria”, i mezzi sono
sempre scarsi, perché i bisogni sono tendenzialmente infiniti. Ne
consegue che, avendo sempre scarsità di mezzi, questo tipo di economia
non è destinato ad arrivare mai a uno stato stazionario.
Può, forse, essere interessante notare una probabile convergenza tra
la riflessione dell’autore e quella di Claudio Napoleoni. Con la differenza
11
Ricordiamo che gli economisti hanno reagito alla ‘minaccia’ del possibile
raggiungimento della stato stazionario in modo molto diverso, a seconda dell’epoca e
dell’impostazione teorica. Si va dal grande timore con cui era visto dai classici, e
massimamente da Ricardo, a posizioni più ottimistiche, come quella di J.S. Mill, il quale
considerava il raggiungimento dello stato stazionario come un’opportunità e non più come
una minaccia.
Note bibliografiche
347
che, mentre l’autore vede, per così dire, il lato della domanda, il
Napoleoni si interessa maggiormente, in un certo senso, al lato
dell’offerta. Come ricordava a suo tempo Giorgio Lunghini,12 già nel
“Dizionario” del 1956, ma poi fino al “Discorso” del 1985, Napoleoni
trova nella definizione di Lord Robbins quella che egli considera la
migliore caratterizzazione mai fatta dell’aspetto economico dell’agire
umano. Malgrado ciò, sempre seguendo l’interpretazione di Lunghini,
secondo Napoleoni Lord Robbins non si avvedrebbe del fatto che la
scarsità non ha radici esterne all’essere umano ma a esso interne. Tale
scarsità non dipenderebbe dal fatto che la natura sia “avara”, ma dal fatto
che l’essere umano è limitato e ogni operazione umana atta a ovviare a
tale limitatezza è il prodotto di un lavoro. Appunto in quanto è il prodotto
di un lavoro, ogni operazione umana è suscettibile di essere valutata
economicamente. Dunque: i mezzi di cui si parla nella definizione di
Robbins, ove siano rettamente intesi, non possono essere, per Napoleoni,
altro che specificazioni del lavoro, perché è sempre e in definitiva solo il
lavoro che può essere impiegato per fini/usi alternativi. Da quanto
precede risulta che la scarsità è una condizione che va indagata non solo
alla luce dei crescenti e insaziabili bisogni, ma anche alla luce del modo
in cui il lavoro viene impiegato nel sistema – dato che, in questo caso, la
scarsità è, in definitiva, sempre il risultato di scelte politiche. Quando,
infatti, il lavoro è scarso? Quando viene, nell’ambito dell’economia
monetaria di produzione, in un certo senso, reso scarso, da un comando
monetario che lo dirige verso certi fini/usi produttivi distogliendolo, ipso
facto, da tutti gli altri fini/usi possibili e/o praticabili.
Concludendo sulla questione della scarsità dal “lato dell’offerta” e
tirando le fila, potremmo dire che la scarsità è sempre una condizione
creata socialmente, ossia che essa non deriva tanto dal fatto che viviamo
in un mondo naturale che non è in grado di produrre adeguatamente
quello di cui necessitiamo, quanto piuttosto dal fatto che viviamo in un
mondo sociale che sceglie, consapevolmente o meno, di non produrre
quanto realizzerebbe appieno le proprie potenzialità. E questo discorso, a
12
Si veda Lunghini (1992).
348
Moneta e Credito
nostro parere, si combina perfettamente con quello fatto dall’autore
rispetto ai bisogni insaziabili – poiché indotti.13
Un altro aspetto molto interessante del libro è l’analisi delle relazioni
tra investimenti, risparmi, accumulazione della ricchezza, natura della
ricchezza, e sua trasformazione in capitale. Infatti, se gli investimenti
hanno natura di innovazione e se essi, in una economia “intrinsecamente”
monetaria, sono finanziati dalla moneta bancaria (ossia dal credito), si
spezza il legame tradizionale, postulato dalla legge di Say, tra risparmi e
investimenti (S I). Varrà invece il legame postulato dalla teoria dalla
domanda effettiva (I S). Dunque, pur rimanendo risparmi e
investimenti contabilmente uguali, i nessi operanti in una economia
monetaria sono tali da spezzare il legame causale che va dai risparmi agli
investimenti. Le decisioni di risparmio, però, diventano rilevanti in un
altro ambito. Nelle parole dell’autore, v’è una “relazione tra le decisioni
di risparmio e il processo di accumulazione della ricchezza. Questa
relazione può essere definita soltanto prendendo in considerazione
un’economia monetaria in cui si impiega moneta bancaria […]” (p. 121).
Questo perché
13
Una prospettiva non lontana da quella da noi qui evocata ci sembra essere quella
contenuta in Roncaglia (2012a). È altresì interessante notare come l’autore, pur partendo
da considerazioni strettamente economiche, giunga a conclusioni che sono in linea con
quelle di studiosi di altre discipline. Per esempio, Brown, nella sua ricostruzione della
psicanalisi freudiana (cfr. Brown, [1959] 2002) scrive: “[l]a rimozione differenzia gli
uomini dagli animali […]. Nell’uomo, l’animale nevrotico, [la…] coazione a ripetere si
muta nel suo contrario, la ricerca di novità, e l’inconscia meta di tale ricerca è la
ripetizione” (p. 125); “[l’]uomo, l’animale scontento, […] è l’uomo nella storia. La
rimozione e la coazione a ripetere danno origine alla storia” (p. 126); “[m]a la prova che i
bisogni dell’uomo non sono ciò che sembrano si trova proprio nell’esistenza della storia.
La faustiana inquietudine dell’uomo nella storia mostra che gli individui non sono
soddisfatti dall’esaurimento dei loro desideri consci; gli uomini sono inconsapevoli dei
loro veri desideri” (p. 37). Ancora più interessante risulta la vicinanza delle tesi
dell’autore a quanto scrivono Dostaler e Maris nel loro studio sulle influenze freudiane
presenti negli scritti di Keynes. Cfr. Dostaler e Maris (2009): “[a]l cuore del capitalismo
c’è l’incapacità a concepire un limite, tipica dell’età infantile. Perché desideriamo così
tanti oggetti? Perché siamo insaziabili? Per libido narcisistica” (p. 43); “[d]esiderare senza
mai essere soddisfatti […]. Il capitalismo promette agli individui un ‘godimento
narcisistico altissimo’ attraverso il consumo di oggetti” (p. 50).
Note bibliografiche
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“[l]a ricchezza può essere definita come l’insieme di moneta e di altre
attività finanziarie e reali che sono facilmente trasformabili in moneta. Essa
è quindi potere d’acquisto utilizzabile in qualunque momento futuro per
acquistare qualsiasi bene” (p. 122).
Detto in altro modo, nell’ambito di una economia “intrinsecamente”
monetaria, ovvero in un sistema capitalista, la ricchezza viene ad assumere i tratti della “liquidità”.14 Secondo l’autore: “[i]n questa economia,
l’obiettivo dell’attività economica non consiste nella produzione di beni,
ma nell’accumulazione di uno stock illimitato di moneta che consenta di
acquisire qualunque bene in qualunque momento futuro” (p. 143).
Ma il fatto che il risparmio abbia a che fare con l’accumulazione
della ricchezza e che quest’ultima abbia i tratti della ‘liquidità’ ha
conseguenze importanti. Infatti, in tal modo, la ricchezza può essere
prontamente convertita in capitale, che l’autore, seguendo ancora una
volta Schumpeter, definisce “come l’ammontare della moneta a
disposizione degli imprenditori per realizzare le innovazioni” (p. 108).
Secondo l’autore
“l’elemento essenziale che consente di trasformare la ricchezza in capitale è
costituito dalla presenza di un sistema che attribuisce il diritto di proprietà
di beni immobili e mobili alle persone fisiche e lo incorpora in un titolo. […
I] titoli che rappresentano il diritto di proprietà possono essere usati come
garanzia per ottenere un prestito e possono essere facilmente liquidati, cioè
trasformati in potere d’acquisto da utilizzare per finanziare nuove attività
produttive” (p. 126).
Ne consegue che: “[u]n’economia monetaria […] possiede un
sistema finanziario sviluppato che consente di trasformare la ricchezza in
capitale” (p. 124).
Sin qui abbiamo parlato di alcuni punti del libro (ma tanti altri ce ne
sarebbero) che ci hanno particolarmente colpito durante la lettura e ci
14
Ossia la ricchezza ha forma monetaria o comunque una forma tale da essere
prontamente convertibile in moneta. L’autore stesso sottolinea l’importanza del concetto
di liquidità, correlandolo però soprattutto a quello di capitale; cfr. p. 126, in cui si può
leggere: “[l]a relazione tra ricchezza e capitale descritta in queste pagine è coerente con il
concetto di liquidità specificato negli anni Cinquanta del secolo scorso dal Rapporto
Radcliffe […]”. Ma, ad es., l’importanza del fatto che la ricchezza assuma il tratto della
“liquidità” è sottolineata anche in Orléan (2010).
350
Moneta e Credito
hanno anche ispirato delle riflessioni personali. Possiamo aggiungere che
il ragionamento dell’autore, al di là di qualche non necessaria ripetizione,
si sviluppa in modo coerente e compatto. Vorremmo ora presentare un
aspetto del testo che ci ha soddisfatto meno, avvertendo però il lettore
che, ciò che affermeremo da qui in poi, deve essere inteso come una
‘critica esterna’ – nel senso che essa non inficia la validità delle
affermazioni teoriche fatte dall’autore.
Innanzitutto, a parere di chi scrive, la critica agli economisti
mainstream può e dovrebbe essere portata contemporaneamente su
(almeno) due differenti piani. Essi sono certamente diversi – e tuttavia
restano interconnessi. I due piani in questione sono quello della teoria e
del modello, e quello della politica economica. Il dare importanza
esclusiva o prevalente all’uno trascurando o minimizzando i nessi che lo
legano all’altro è, almeno a parere dello scrivente, limitante. Forse, la
questione che stiamo cercando di porre può essere esplicitata nei seguenti
termini: quali sono gli obiettivi di politica economica che vogliamo
realizzare e che possiamo giustificare all’interno di un impianto teorico
che sia in grado di spiegare meglio, rispetto a quello tradizionale, la
presente situazione di crisi e che sia altresì in grado di tener conto della
dimensione monetaria del sistema nel quale viviamo, considerando che la
dimensione monetaria non riguarda semplicemente gli effetti che la
moneta ha sulle variabili reali, ma tira in ballo proprio la questione delle
relazioni di potere tra gruppi sociali, messe in atto attraverso il comando
monetario esercitato sul lavoro nella sfera della produzione?
Conseguentemente, il prender sul serio la rilevanza della moneta
presuppone non solo che essa sia posta nel core dell’analisi ma anche che
si consideri come la lotta tra i vari gruppi per estendere il suo comando
e/o sottrarsi da esso possa influenzare l’evoluzione dell’assetto
istituzionale considerato. Il punctum dolens è, in breve, il rapporto tra
teoria economica e politica economica. Il rapporto tra politica economica
e modello teorico, più spesso di quanto si pensi, presuppone che prima
vengano le scelte politiche (dettate da certi interessi), e solo ex-post il
modello teorico volto a giustificare l’impianto politico e ideologico alla
Note bibliografiche
351
base di quelle scelte di politica economica.15 Viceversa, i nessi causali
che l’autore sembra aver in mente lungo tutto il testo ci paiono i seguenti:
Controrivoluzione teorica Nuova architettura istituzionale del sistema
economico/finanziario Crisi (sistemica). E, conseguentemente: Nuova
teoria (rilevante) Riforma del sistema economico/finanziario (forte
attenuazione delle) Crisi. Tanto che, nel testo, possiamo leggere: “Le
caratteristiche del sistema istituzionale dipendono dalle ‘credenze
dominanti’, che corrispondono alle teorie elaborate da coloro che sono
nelle condizioni di prendere decisioni” (p. 200). E, subito dopo:
“[l]a crisi contemporanea richiede l’elaborazione di una politica fondata su
di una ‘credenza’ differente da quella offerta dalla teoria mainstream, una
‘credenza’, che tenga conto delle caratteristiche di una economia monetaria
descritte nelle pagine precedenti” (p. 201).
Dunque, nonostante l’autore eviti la mera ‘caccia all’errore’ e anzi
meritoriamente ponga de facto la necessità di una rifondazione della
teoria economica, egli sembra ricadere nel “sogno di Leibniz”16 quando
considera i rapporti tra teoria e politica economica. Infatti, cercare di
sviluppare un modello totalmente ‘altro’ e più rilevante rispetto a quello
mainstream non significa riuscire a incidere sugli orientamenti della
professione – come la mancata perdita di credibilità da parte degli
economisti che non avevano previsto la crisi, e in alcuni casi ne negavano
persino la possibilità, plasticamente dimostra. Ancor meno significa di
per sé il poter dire qualcosa di rilevante riguardo alla politica economica
se, come lo scrivente ritiene, da un lato i nessi tra teoria e politica
economica sono problematici e dall’altro, proprio per questo, quando si
15
Quanto da noi affermato ci sembra convergente con ciò che viene detto nell’ultimo
capitolo di Lucarelli e Lunghini (2012 pp. 99-110) significativamente intitolato:
“Economic Theory and Ideology”.
16
In un suo recente scritto, Giorgio Lunghini ricorda come Leibniz coltivasse la speranza
che nel futuro “quando sorgeranno controversie […] non sarà più necessaria una
discussione; sarà sufficiente infatti [prendere] in mano le penne, [sedersi] di fronte agli
abachi e [dirsi] l’un l’altro: calculemus!”; cfr. Lunghini (2013, p. 44). Possiamo dunque
identificare il “sogno di Leibniz” con l’illusione razionalistica secondo cui
un’argomentazione inoppugnabile sarà ipso facto accettata, mentre un’argomentazione
fallace, e magari falsificata dalla realtà, sarà ipso facto rifiutata – senza tener
adeguatamente conto degli interessi che le due argomentazioni in questione favoriscono.
352
Moneta e Credito
parla di politiche economiche andrebbero considerati esplicitamente e
anzi messi al centro dell’analisi i differenti interessi sociali sottesi a ogni
eventuale scelta.
Invece, sebbene vi siano, nel testo, dei luoghi sparsi in cui l’autore
accenna agli “interessi” sottostanti ai differenti punti di vista, p. es. pag.
206, ove si afferma che “[l]e norme che riguardano il mercato del lavoro
non sono neutrali rispetto agli interessi e le credenze di coloro che hanno
la forza di farle applicare” (ovvero, nonostante egli si renda perfettamente
conto che dietro ogni posizione teorica, in realtà, ci sono ben precisi
interessi sociali), egli costruisce il libro postulando i nessi causali di cui
sopra. Ma, come già accennato, a nostro modo di vedere, nel focalizzarsi
principalmente sul lato teorico, si perde di vista la questione del rapporto
tra teoria e politica economica (e dei relativi nessi causali).
Tutto ciò diviene manifesto se consideriamo il capitolo nono,
riguardante le politiche economiche. Fermo restando che non si può
pretendere da un libro di teoria economica che esso affronti in modo
approfondito questioni di politica economica, poiché, per farlo,
servirebbe un testo di diverso taglio, riteniamo tuttavia opportuno
sollevare una obiezione che, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, ci
sembra centrale: non si potrà mai sperare di avere a disposizione un
modello di teoria economica “esaustivo” poiché ogni teoria economica,
dal punto di vista epistemologico, per poter essere rilevante, deve avere, o
implicitamente o esplicitamente, un “grado di libertà”. Deve essere, in
altri termini, in qualche modo “aperta alla realtà storica”.
Quel che avviene oggi coi modelli teorici mainstream, i quali non
sono esplicitamente ‘aperti alla realtà storica’, e anzi sono costruiti come
se la realtà sociale fosse astorica, è che essi de facto ottengono la chiusura
del ‘grado di libertà’ attraverso l’introduzione di assiomi che, in
definitiva, non fanno altro che confermare un presupposto ideologico
molto forte. E questo presupposto ideologico non dichiarato, questa
visione del mondo implicita, diventa una finalità di politica economica
che, in un certo modo, viene validata proprio attraverso quel modello
teorico. Potremmo anche dire che nel modello mainstream, di fatto, v’è
una (consapevole?) confusione tra quella che Friedman chiamava
Note bibliografiche
353
“economia positiva” e quella che egli chiamava “economia normativa”.17
Il problema diventa allora svelare/esplicitare l’elemento ideologico,
riaprire il grado di libertà nei confronti della realtà storica e costruire un
modello teorico che sia compatibile con altri obiettivi di politica
economica.
In definitiva, ci si scontra con una difficoltà se e quando si manca di
riconoscere pienamente, come ci sembra l’autore tenda a fare, che
l’analisi teorica non è solo un insieme di teoremi da cui trarre,
direttamente o indirettamente, consigli riguardo alla politica economica
da adottare, ma è, immediatamente, un campo in cui c’è un grado di
libertà – ovvero una porta d’accesso a problemi di carattere agonalmente
politico. Di conseguenza, le sue proposte di politica economica,18 a nostro
17
In apertura del suo notorio saggio di metodologia, Friedman, citando la classificazione
di John Neville Keynes, distingue tra “economia positiva”, che sarebbe un corpo di
conoscenze sistematizzate che hanno per oggetto ciò che è, ed “economa normativa”, che
sarebbe un corpo di conoscenze che hanno per oggetto i criteri di ciò che dovrebbe essere
– un’arte più che una scienza. Cfr. Friedman ([1953] 1996, p. 93).
18
Le proposte di politica economica dell’autore sono da lui suddivise nel modo seguente:
1) vita buona; 2) lavoro; 3) intraprendenza; 4) speculazione; 5) redditi; 6) globalizzazione;
7) risorse. Con “vita buona” si intende il concetto al centro della cosiddetta “economia
civile”, secondo la quale l’obiettivo dell’attività economica non è produrre beni ma
benessere (p. 202). Nel paragrafo ad essa dedicato, viene altresì detto che in un’economia
monetaria normalmente si registra una profonda distanza tra le capacità potenziali di
assicurare a tutti una “vita buona” e i risultati effettivamente ottenuti. La minimizzazione
di tale distanza è posta dall’autore come obiettivo generale di qualsiasi proposta di
politica economica (p. 203). Nel paragrafo “lavoro” si dice che il concetto di “costo
sociale del lavoro” è estraneo all’approccio tradizionale, poiché, nel mondo che esso
descrive, non ci sono disoccupati involontari (p. 204). Inoltre, si puntualizza come, per
combattere efficacemente la disoccupazione in un’economia monetaria di produzione, non
basti incrementare livello della domanda effettiva ma si debba agire anche sulla sua
composizione (p. 207). Nel paragrafo “intraprendenza”, riprendendo la distinzione
keynesiana tra speculazione e intraprendenza, si cerca di capire come esaltare
quest’ultima. Sulla scorta di Keynes, si ripropone la socializzazione degli investimenti (p.
211). Nel successivo paragrafo “speculazione”, invece, si propongono dei modi per
“imbrigliare” il fenomeno della speculazione. Tra questi: l’introduzione di una Tobin Tax;
la riforma della disciplina delle cartolarizzazioni; la riforma del sistema delle
remunerazioni dei manager del settore bancario/finanziario; il rinnovo della separazione
tra banche commerciali e banche d’investimento.
Nel paragrafo “redditi” si sostiene che, in un’economia monetaria di produzione, è
difficile associare il profitto all’impegno di un singolo soggetto che persegue il proprio
354
Moneta e Credito
modo di vedere, soffrono di un limite. E il limite è che esse non vengono
adeguatamente contestualizzate rispetto a quella che è la situazione
storica e istituzionale attuale – vuoi dell’Italia, vuoi dell’Europa. Quindi,
esse tendono a rimanere ‘astratte’, ossia avulse dal contesto socialestorico e, soprattutto, dagli interessi che in esso si muovono.
In conclusione, il libro di Giancarlo Bertocco è interessante e ricco
di spunti capaci di spingere il lettore verso ulteriori riflessioni (come
alcune parti della presente recensione dimostrano). Inoltre, essendo
scritto in modo semplice e piano, esso risulta accessibile tanto allo
specialista quanto al lettore comune. Per quanto riguarda, infine, le
osservazioni sopra avanzate, esse, ponendosi come ‘critiche esterne,
vogliono solo essere uno stimolo per (eventuali) ulteriori ricerche, e non
cambiano il fatto che questo libro meriti di essere letto e meditato
attentamente.
Hervé Baron
Università dell’Insubria e Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, email:
[email protected]
tornaconto. Il profitto avrebbe invece una dimensione sociale, dovuta all’interazione tra
diverse istituzioni: impresa innovativa, banca finanziatrice e, negli ultimi decenni, lo
Stato. Non possono dunque essere giustificate in termini di successo/insuccesso
individuale le vertiginose disuguaglianze nella distribuzione dei redditi degli ultimi anni.
L’autore, nel considerare la possibilità di una redistribuzione dei redditi attraverso il
sistema fiscale, si pronuncia per una imposta fortemente progressiva sui redditi,
un’imposta progressiva sulle successioni e un’imposta progressiva sul capitale (p. 217).
Nel paragrafo “globalizzazione” si sostiene che non si dovrebbe affidare la gestione del
processo di globalizzazione alle sole imprese multinazionali o alla esclusiva difesa dei
loro interessi. Una collaborazione internazionale tra Stati viene invocata (p. 219). Nel
paragrafo “risorse”, infine, viene rimesso in discussione tanto l’atteggiamento che Keynes
definiva “l’incubo del contabile” quanto il pregiudizio secondo cui solo il settore pubblico
spreca risorse mentre quello privato no (pp. 222-223).
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